“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro (prezzo), così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
DEUS CHARITAS EST
[I Ioannes 4]: Biblia Sacra: Epistola Joannis Prima - Vulgatae Editionis
Sixti V et Clementis VIII.
4:1 Charissimi, nolite omni spiritui credere, sed probate spiritus si ex Deo sint: quoniam multi pseudoprophetæ exierunt in mundum.
4:2 in hoc cognoscitur spiritus Dei: omnis spiritus qui confitetur Iesum Christum in carne venisse, ex Deo est:
4:3 et omnis spiritus, qui solvit Iesum, ex Deo non est, et hic est Antichristus, de quo audistis quoniam venit, et nunc iam in mundo est.
4:4 Vos ex Deo estis filioli, et vicistis eum, quoniam maior est qui in vobis est, quam qui in mundo.
4:5 Ipsi de mundo sunt: ideo de mundo loquuntur, et mundus eos audit.
4:6 Nos ex Deo sumus. Qui novit Deum, audit nos: qui non est ex Deo, non audit nos: in hoc cognoscimus Spiritum veritatis, et spiritum erroris.
4:7 Charissimi, diligamus nos invicem: quia charitas ex Deo est. Et omnis, qui diligit, ex Deo natus est, et cognoscit Deum.
4:8 Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus charitas est.
4:9 In hoc apparuit charitas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum.
4:10 In hoc est charitas: non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris.
4:11 Charissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere.
4:12 Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et charitas eius in nobis perfecta est.
4:13 In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis: quoniam de Spiritu suo dedit nobis.
4:14 Et vos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi.
4:15 Quisquis confessus fuerit quoniam Iesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo.
4:16 Et nos cognovimus, et credidimus charitati, quam habet Deus in nobis. Deus charitas est: et qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo.
4:17 In hoc perfecta est charitas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die iudicii: quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo.
4:18 Timor non est in charitate: sed perfecta charitas foras mittit timorem, quoniam timor pœnam habet. qui autem timet, non est perfectus in charitate.
4:19 Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos.
4:20 Si quis dixerit quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere?
4:21 Et hoc mandatum habemus a Deo: ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.
DIO E’ AMORE *
1 Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo.
2 Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio;
3 ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo.
4 Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo.
5 Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta.
6 Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.
7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
9 In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
11 Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
12 Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
13 Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito.
14 E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo.
15 Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio.
16 Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.
17 Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo.
18 Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore.
19 Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo.
20 Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.
21 Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
* PRIMA LETTERA DI GIOVANNI. - SACRA BIBBIA (Liber Liber).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr. (per leggere gli art., cliccare sul rosso->):
2008, L’ANNO DELLA PAROLA. IN EBRAICO: VERITA’ ("EMET") E MORTE ("MET"). BENEDETTO XVI:"Deus caritas est", 2006). DIO E’ MAMMONA ("CARITAS"): UN’ENCICLICA DI UNA CHIESA SENZA "H" E SENZA AMORE ("CHARITAS").
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
PER GLI ESPERTI DI WIKIPEDIA E CATHOPEDIA,
EUCARISTIA = EUCARESTIA:
A. "Per i cristiani l’eucaristia o eucarestia è il sacramento istituito da Gesù durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e morte. Il termine deriva dal greco εὐχαρίστω (eucharisto: "rendo grazie"). Il Nuovo Testamento narra l’istituzione dell’eucaristia in quattro fonti: Matteo 26,26-28; Marco 14,22-24; Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-25" (WIKIPEDIA).
B. "L’Eucaristia o Eucarestia (traslitterazione del greco εὐχαριστία, eucharistía, "rendimento di grazie") è il Sacramento con il quale, dopo il Battesimo e la Cresima, culmina l’iniziazione cristiana" (CATHOPEDIA).
SANT’ELIGIO, VESCOVO DI NOYON, PROTETTORE DEGLI ORAFI (Petrus Christus, 1449) |
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA): GIUDA E GESU’, E, IL FILO DEL "SERPENTE", LA VIA PER USCIRE DALL’INFERNO DELLA #DIALETTICA TRAGICA (PLATONICO-PAOLINA ED HEGELIANA).
ALLA #LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA PROPOSTO IN "Cain and Jesus in Gertrude’s Closet, Hamlet 3.4" (Paul Adrian Fried)), forse, è ora di decidersi ad accogliere coraggiosamente che per #Shakespeare, come per #DanteAlighieri, nel cammino verso la #sorgente stessa della Legge, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), l’unica possibilità di raggiungere la meta sta proprio nel pensare insieme (dialogicamente e amorosamente) la identità e la differenza tra i #due "fratelli" (al di là "del "bene e del male") e, così, capire che nel "cuore" di "entrambi" si annida (anagrammatica-mente) un "serpent-e" di #speranza, la modalità stessa del "#Trasumanar" (Par. I.70), di andare oltre l’#androcentrismo (e il "#cristocentrismo") della #cosmoteandria della "tragedia" e della "caduta". Rileggere la #Commedia: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent_in_te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole." (Dante Alighieri, Par. XXV, 97-99).
FILOLOGIA #STORIA #METASTORIA ED EPIFANIA2025:
SHAKESPEARE, LE TRADUZIONI DELLA BIBBIA NELLA #INGHILTERRA DEL CINQUECENTO (* ), E LA GENERALE "CORRENTE" EQUIPARAZIONE DEL "DEUS CHARITAS" ("#GRAZIA" DI "DIO-AMORE") CON IL "DEUS CARITAS" ("CARITÀ" DI "DIO-MAMMONA").
A PARTIRE DALLA CONSAPEVOLEZZA DEL LEGAME DI "#AMLETO" CON "WITTENBERG", CON #LUTERO E LA #RIFORMA #PROTESTANTE, forse, è opportuno essere filologicamente più attenti a non eguagliare e a non identificare «#charity, or “#caritas”, God-like #love» (Paul Adrian Fried, "THE 8th DAY of CHRISTMAS, January 1 in Shakespeare’s England", 01 gennaio 2025).
Oggi, ancor più di ogni ieri, è vitale re-interrogarsi di nuovo e meglio sulla "#password" per entrare nel "#regnodeicieli" (sia terrestre sia celeste, come voleva #DanteAlighieri), sulla #parola-#chiave dell’amore evangelico (lat. charitas, gr. #xapitas), sulla #eucharistia (#εὐχαριστία), e sul tema del "corpo mistico" del "Cristo", se si vuole riprendere criticamente il cammino antropologico e teologico avviato dalla riforma protestante e anglicana e dalla stessa rivoluzione copernicana e galileiana.
A trecento anni dalla nascita di #Kant (1724-2024), per un #buon2025, è meglio uscire dal #letargo (Dante, Par. XXXIII, 94) e riprendere l’indicazione di Orazio, rilanciata proprio da Immanuel Kant (1784): "Sàpere aude"! La scienza (anche quella teologica) gonfia: la fede e la speranza fondata nel Dio-Amore ("Charitas") non è la fede e la speranza fondata nel Dio-Denaro ("Deus caritas est").
STORIA E LETTERATURA TEATRO, METATEATRO E FILOLOGIA:
"RE-SHAKESPEARE" CHIARA-MENTE, CON VICTOR HUGO, LUIGI PIRANDELLO ED EDUARDO DE FILIPPO.
In onore e memoria di Victor Hugo e Charles Baudelaire...
LA «#CHARITE’» DEL VESCOVO #MYRIEL DEI "#MISERABILI", LA #CRITICA (#KANT) DELLA #ECONOMIAPOLITICA (#MARX), E IL #CATTOLICESIMO DELL’#AGAPE COSTANTINIANO. Se è vero cje «Il romanzo “I miserabili” si apre con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine straordinarie (...)», e, ancora, che «Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e "I miserabili", abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, siamo diventati noi i nuovi miserabili e non vediamo più l’innocenza di Jean Valjean, prima e dopo il furto dell’argenteria.», non è altrettanto storicamente e #parresia-stica-mente preciso sostenere - come fa lo storico e l’economista Luigino Bruni nell’articolo «”I miserabili”: la grammatica del dono. Il rischio dell’ospitalità”, il capitolo che egli dedica al capolavoro di Victor Hugo nel suo recente “Viaggio economico nei capolavori della letteratura” ) - che «Myriel ci sta allora insegnando cosa è veramente l’#agape, cioè la forma dell’amore tipica dei cristiani.».
DA #COSTANTINO IL GRANDE, A #NAPOLEONE BONAPARTE, E ALLA FINE DEL "#SOGNO"DEL "SACRO ROMANO IMPERO": RICOMINCIARE DA "#AMLETO"! Da quel poco che conosco dell’opera di Victor Hugo so che conosceva la lingua greca e ne era "parigina-mente" fiero: il famoso #pane (quello "eu-#charis-tico"), la "#Grazia di Dio", richiama sì il #messaggioevangelico, appunto la "#Charitas" (la "Charité", la "Carità") dello "Spirito santo" (1 Gv.), senza il quale l’ #amore (l’#agape), rinvia solo alla "economia" e a #Mammona (alla "#caritas")! Nella prospettiva di una #antropologia (#cristologia) del #dono (e del "per-dono"), se non sbaglio, avevano già lavorato alla grande non solo filosofi ed economisti come #GiambattistaVico e la "Scuola del #Genovesi", ma anche, continuando e ricordando, letterati e poeti come Luigi #Pirandello e #Eduardo #DeFilippo (e Shakespeare, ovviamente): a loro, il #Presepe della "#Danimarca" non è mai piaciuto ("#Natale in Casa Cupiello", 1931).
#NICEA (325-2025). A #EDUARDO E PIRANDELLO, INFATTI, PIACE #PARLARE E #RESPIRARE LIBERAMENTE, LOCALMENTE E GLOBALMENTE. SUL TEMA, PIRANDELLO L’AVEVA GIA’ DETTO E SCRITTO LA "SUA", CON DETERMINAZIONE NELLE "NOVELLE" (NEL 1918 ALLA FINE DELLA PRIMA #GUERRAMONDIALE); ED #EDUARDODEFILIPPO (DUE ANNI DOPO I #PATTILATERANENSI E IL #CONCORDATO TRA CHIESA CATTOLICA E FASCISMO, NEL 1929) LO SCRIVE E LO DICE CON UNA "BATTUTA" DIVENUTA "EPOCALE", NEI CONFRONTI DEL COSIDDETTO "#DONO" DI COSTANTINO, IN "#NATALE IN CASA CUPIELLO", NEL 1931.
UN "SOGNO" DI #TEOCRITO, LE GRAZIE ("CHARITES"), E UNA QUESTIONE DI #GRATITUDINE:
DELLA #GRAZIA ("#CHARIS - #ΧÁΡΙΣ"), DELLA CARITÀ ("CHARITAS") E DEL "SÀPERE AUDE!" (#KANT): COME MAI OGGI, NELL’ATTUALE PRESENTE STORICO, LE "#GRAZIE" (LE GRECHE "CHARITES = ΧÁΡΙΤΕΣ", LE COSIDDETTE "CARITI") SONO DEL TUTTO ASSENTI DA OGNI #CATTEDRA DI ISTRUZIONE E INFORMAZIONE E LE "#DIS_GRAZIE" HANNO INVASO DEL TUTTO IL CAMPO DELLA COMUNICAZIONE E DELLA #CONVIVENZA UMANA? #MEMORIA E #POESIA.
Sul filo di #Virgilio ("Bucoliche") e di #DanteAlighieri, forse, un aiuto a trovare una possibile risposta alla domanda del "cruciverba" può venire da Teocrito (in greco antico: Θεόκριτος, Theókritos; #Siracusa, 315 a.C. - 260 a.C. circa). Egli è stato un poeta siciliano, inventore della poesia bucolica, che in una sua opera, gli "Idilli", in particolare nel XVI, intitolato "Le Grazie, o Ierone", così conclude:
"Che cosa esiste di amabile per gli esseri umani senza le Grazie? Che io possa restare insieme con le Grazie per sempre
("[...[τί γὰρ Χαρίτων ἀγαπητόν ἀνθρώποις ἀπάνευθεν; ἀεὶ Χαρίτεσσιν ἅμ’ εἴην.").
Recensioni
Riformare la Chiesa
di Redazione di "Rosa Bianca" (6 Ottobre 2024)
La Chiesa è storicamente davanti ad un bivio decisivo: ostruire (il soffio dello Spirito) o costruire (guidata dallo Spirito); continuare con dinamiche ormai obsolete e adagiarsi nel torpore di un’età di decadenza comatosa o avviare, con coraggio ed entusiasmo, una svolta radicale e aprire a una “forma” nuova di cattolicesimo. Vi è oggi un problema generale che non è solo di una parte dei fedeli: si tratta di considerare qual è il “blocco” o i “blocchi”, che fanno resistenza allo Spirito e intristiscono l’ambiente ecclesiale. Tutti ostacoli che vanno superati con scelte chiare ed efficaci, ma non dettate da ingegneria canonico-ecclesiastica, né decise a colpi di maggioranza, come in un braccio di ferro politico. Queste pagine offrono riflessioni per compiere scelte ormai ineludibili e, anzi, già in forte ritardo.
Da anni la Chiesa di Roma affronta non solo le sfide poste dalla modernità, ma anche numerose difficoltà interne, causate da scandali come quello degli abusi sessuali, dalla costante perdita di fedeli, e da visioni interne sul futuro divise, che hanno reso il pontificato di Francesco spesso arduo e contrastato. Fulvio De Giorgi nel libro Riformare la Chiesa edito da Scholé - Morcelliana, analizza i maggiori problemi proponendo possibili idee e soluzioni, anche in considerazione del cammino sinodale in atto.
È un bivio decisivo quello che la Chiesa oggi si trova ad affrontare, per comprendere il quale l’autore si richiama a pastori contemporanei, Paolo VI, don Milani, Carlo Martini e papa Francesco, che nella loro azione hanno disegnato tracce di futuro. E dove la secolarizzazione è occasione di rinascita, poiché la Chiesa è sempre “reformanda”.
“Riformare la Chiesa”, di Fulvio De Giorgi (ed. Scholé - Morcelliana)
* INDICE DEL LIBRO:
Krisis
Il cielo rosseggia cupo 7
Capitolo primo
Il grande cambiamento antropologico 19
1.1. La più grande svolta storica, 19 - 1.2. Un approccio antropologico, 29 - 1.3. Strutture del Patriarcato: Stato, famiglia, mercato, 38 - 1.4. Una seconda era cristiana, 47
Capitolo secondo
Il cambiamento di epoche per la Chiesa cattolica 63
2.1. La fine assiale di epoche di diversa durata, 63 - 2.2. La fine dell’epoca intransigente, 71 - 2.3. La fine dell’epoca tridentina, 77 - 2.4. La fine dell’epoca costantiniana, 83
Capitolo terzo
Secolarizzazioni e secolarismi 97
3.1. Modernizzazione e campo religioso cristiano: le forme della secolarizzazione, 97 - 3.2. Le risposte cattoliche alla secolarizzazione e l’emergere del secolarismo, 107 - 3.3. Per una Teoria generale dell’incompletezza, 114 - 3.4. Conflitti imperiali e orizzonte destinale suicidario per l’umanità, 125 Pastori lungimiranti e profezie pastorali
Capitolo quarto
Don Milani: il metodo pastorale 133
4.1. Un problema storico, 133 - 4.2. La necessità di nuovi metodi pastorali, 137 - 4.3. Oltre il tridentinismo ormai anacronistico, 141 - 4.4. Metodo missionario e pedagogia della liberazione, 145 - 4.5. Una pastorale per una società in via di scristianizzazione, 147
Capitolo quinto
Paolo VI: la riforma della Chiesa 155
5.1. La riforma della Chiesa: dall’aggiornamento al rinnovamento, 155 - 5.2. Perfezionamento di ogni cosa nella Chiesa, 160 - 5.3. L’approccio riformatore, 163 - 5.4. I contenuti della riforma, 172 - 5.5. Il Concilio Vaticano II: alba o tramonto?, 186
Capitolo sesto
Francesco: potere al Popolo di Dio 193
6.1. Un magistero situato, 193 - 6.2. Popolo e populismo,
197 - 6.3. Popolarismo, 201 - 6.4. Istituzione e carisma, 206
6.5. Corresponsabilità differenziata e poteri, 213
Il cielo rosseggia la sera
Tempo della storia, tempo della fede, tempo dello Spirito 227
1. Storia del tempo: tempo della storia, 227 - 2. L’Angelo della storia è l’Angelo della Chiesa, 237 - 3. Abbiamo sentito dire che esiste lo Spirito Santo?, 243
Indice dei nomi 255
FLS
FILOLOGIA ("LOGOS")
E
"MAGNA CHARTA LIBERTATUM":
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ABY WARBURG):
IL DIAVOLO FA LE PENTOLE, MA NON I COPERCHI.
"Dio" non imbroglia e non confonde "amore" ("CHARITAS") con "mammona" ("CARITAS").
Filosofia.
Una società giusta? Etica e conveniente. L’intuizione di san Paolo
In Paolo si trova già il principio di solidarietà con chi ha meno che è alla base di “Fratelli tutti”. Servono strutture universalistiche
di Francesco Totaro (Avvenire, mercoledì 31 luglio 2024)
Il riferimento letterale del nostro tema rinvia alla seconda Lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso (8,7-15). In essa viene offerto un principio di superamento della barriera che impedisce di assumere l’indigenza di “fratelli” nella fede come problema che tocca profondamente coloro che godono dell’abbondanza. Il principio è tale da avere una declinazione sia spaziale sia temporale. La comunità dei fedeli di Corinto è chiamata a farsi carico dei bisogni della comunità dei fedeli di Gerusalemme, oltre la fruizione esclusiva della ricchezza disponibile nel proprio contesto esistenziale. La disposizione alla solidarietà è anche conveniente, perché istituisce una reciprocità che va a beneficio dei donatori se essi, a loro volta, dovessero trovarsi, nel futuro, nella condizione di indigenza. Si può dire che abbiamo qui un’anticipazione, in termini essenziali, dei temi dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco e dei pronunciamenti in essa contenuti (ne abbiamo estratto i capisaldi nel Materiale preparatorio al convegno).
Gli ingredienti del nostro tema sono suscettibili di integrazioni. Alla gamma concettuale già evocata può essere aggiunta l’idea della giustizia. Essa è implicita nella declinazione dell’eguaglianza ed è connessa al modello sociale della solidarietà. Eguaglianza, giustizia e solidarietà si annodano strettamente. In uno scritto di Carlo Maria Martini, Sulla giustizia (Mondadori, 1999), si afferma opportunamente: « Mi sembra che la solidarietà tenda ad assumere il ruolo tradizionalmente proprio della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, ad assurgere quasi al ruolo di virtù sociale fondamentale » e si precisa: «Solo se le trame complesse e articolate delle strutture economiche, giuridiche, sociali e politiche di un Paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili - e quindi doverosamente praticabili - la solidarietà come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dell’attenzione all’altro in ogni suo apparire, dispiegherà al massimo grado le sue potenzialità ».
La riflessione investe a ruota sia l’economia sia la politica in quanto permeate da «un ethos modellato sulla giustizia». A quali condizioni l’economia, senza subire annullamenti o svuotamenti, ma riconoscendo il carattere parziale del suo modello di razionalità, può disporsi al movimento verso una profonda comunione su scala mondiale? La condizione, certo esigente e impegnativa per la necessaria correzione dei suoi presunti automatismi, sta nell’assumere come fine ultimo la persona umana nella sua crescita integrale e solidale a livello planetario. Si delinea così il profilo, per larga parte ancora controfattuale, di un’economia giusta e solidale non dissociata dalla capacità di indirizzo della politica. Nella connessione con un’economia che in quanto dimensione relativa ne riconosce il “primato” nel campo delle decisioni ultime, la politica è dal suo canto «chiamata a mirare alle forme più alte e complete della giustizia».
Nella prospettiva così tracciata diventa importante «favorire la realizzazione di un “governo mondiale” - e anche regionale / europeo - dell’economia», con il compito di «interrogarsi con coraggio e con libertà su quali siano le strutture istituzionali maggiormente idonee a raggiungere l’obiettivo». Si viene quindi a configurare un quadro della convivenza nel quale prevalga l’interesse universale «a comprendere senza discriminazioni di sorta l’essere umano in ogni dimensione della sua realtà e tutti gli esseri umani nello spazio e nel tempo». L’interesse universale coincide, né più né meno, con «l’interesse etico, che consiste nella giustizia e nella carità».
Si tratta di un interesse che trova una mediazione concreta nella solidarietà e non manca pertanto di un appeal realistico. La solidarietà, infatti, «risponde a un principio etico superiore di fraternità verso chi si trova in condizioni di povertà »; al tempo stesso può essere considerata una «convenienza per il funzionamento complessivo della società».
FILOLOGIA E TEOLOGIA E STORIA DEL CRISTIANESIMO.
UNA DOMANDA SULLA "PAROLA D’ORO":
DEUS "CHARITAS" (AMORE) O DEUS "CARITAS" (MAMMONA)!?
La "charitas" è diventata la"#caritas", una parola della lingua latina (anzi del "#latinorum"), e ha assunto un significato equivoco, che rinvia alla ricchezza economica e a un #caro, nel senso di "#tesoro", e dell’oro, economicamente e affettivamente).
RICORDO DI SAN PIETRO CRISOLOGO (30 LUGLIO 2024): "[...] Fu grande oratore, per questo fu detto «Crisologo» che vuol dire «Parola d’oro». Ma fu ancora più grande come scrittore tanto da essere proclamato Dottore della Chiesa. Lasciò moltissimi discorsi ed omelie di cui ben 176 sono pervenuti fino a noi. I più celebri sono quelli contro le calende di gennaio in cui non si stanca di ripetere che «non potrà godere con Cristo in cielo chi vuol godere col diavolo in terra ». Verso la fine della sua feconda vita, lavorò alla difesa del dogma cattolico contro Eutiche. Questo eretico confondeva in una sola le due distinte nature, umana e divina, esistenti nella persona di Gesù Cristo [...]". (ripresa parziale).
Federico La Sala
FILOLOGIA ETIMOLOGIA ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, TEOLOGIA, ARTE, POESIA E #MUSICA.
Inno alla Gioia...
NOTE:
La data. La Pasqua ortodossa (un mese dopo). Perché i cristiani non festeggiano insieme
La solennità oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente perché le Chiese seguono calendari differenti. Ma l’anno prossimo le date coincidono e potrebbe aprirsi una stagione nuova
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 4 maggio 2024)
Il 5 maggio le Chiese ortodosse (e molti cattolici di rito orientale) festeggiano la Pasqua, oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente. Questioni di calendario, naturalmente, anche se sullo sfondo resta il sogno di arrivare un giorno a festeggiare tutti insieme. La guerra in Ucraina ha infatti reso più difficile il dialogo ma l’impegno ecumenico (cioè la ricerca di unità tra chi pur appartenendo a Chiese diverse professa una comune fede in Cristo) non viene meno, anzi i più irriducibili rilanciano l’avvio di una nuova stagione di confronto. Un’ottima occasione sarebbe fornita nel 2025 dall’anniversario del Primo Concilio di Nicea, celebrato nel 325, e avrebbe come tema centrale l’individuazione di una data comune per la Pasqua. Tanto più che per giochi di date l’anno prossimo la Pasqua cadrà per tutti i cristiani il 20 aprile. Papa Francesco ne ha parlato più volte definendo uno scandalo questa divisione e così il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Il leader ortodosso è tornato sull’argomento più volte anche di recente invitando a pregare «il Signore affinché la celebrazione comune della Pasqua che avremo l’anno prossimo non sia una felice coincidenza, un evento fortuito, ma l’inizio della fissazione di una data comune per il cristianesimo occidentale, in vista del 1700° anniversario, nel 2025, della convocazione del primo Concilio ecumenico a Nicea, che tra l’altro affrontò anche la questione della regolamentazione del tempo della celebrazione della Pasqua. Siamo ottimisti perché c’è buona volontà e disponibilità da entrambe le parti, poiché la celebrazione separata dell’evento unico dell’unica Risurrezione dell’unico Signore è uno scandalo».
Come noto, e lo ricorda anche una nota del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani datata 27 ottobre 2022, a Nicea si stabilì una regola secondo cui «tutti i fratelli e le sorelle d’Oriente che fino ad oggi hanno celebrato la Pasqua con gli ebrei, d’ora in poi celebreranno la Pasqua in accordo con i romani, con voi e con tutti noi che l’abbiamo celebrata con voi fin dai primi tempi». Concretamente, come data si scelse la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Poiché fu anche deciso che la Pasqua doveva essere celebrata dopo la festa della Pesah ebraica, venne abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei.
Successivamente, nel XVI secolo, a complicare le cose, se così si può dire, arrivò l’introduzione da parte di papa Gregorio XIII del calendario gregoriano che riformava il calendario giuliano (promulgato da Giulio Cesare) seguito però ancora da molte comunità d’Oriente. Ne deriva uno sfalsamento di date, per cui, ad esempio, nel 2024 cattolici ed evangelici hanno festeggiato la risurrezione di Cristo il 31 marzo ì, le Chiese ortodosse lo faranno il prossimo 5 maggio. Fatto salve le fortunate eccezioni, come appunto capiterà nel 2025, il problema rimane e continua a interpellare studiosi e leader religiosi. Quelli almeno favorevoli alla data comune. «La soluzione più semplice - ricorda ancora il Dicastero per l’unità - sarebbe senza dubbio prendere come giorno della morte di Gesù il 7 aprile 30, in modo che la Pasqua venga sempre celebrata la seconda domenica di aprile. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ha proposto di celebrare la Pasqua la domenica successiva al primo plenilunio di primavera; in tal caso, la città di Gerusalemme dovrebbe essere il punto di riferimento per il calcolo della luna piena. Un altro suggerimento degno di nota è quello del patriarca ecumenico Meletios IV (1921-1923), che riconosce e accoglie la precisione del calendario gregoriano e allo stesso tempo rispetta la data di Pasqua stabilita dalla Chiesa primitiva. Il calendario meleziano è quindi, almeno a prima vista, identico al calendario gregoriano, ma la data di Pasqua deve essere calcolata come se fosse ancora in vigore il calendario giuliano».
L’argomento è stato affrontato più volte nei secoli e il Concilio Vaticano II ne parla esplicitamente, in un’appendice alla Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” adottata e promulgata nel 1963. Due i criteri indicati per definire una nuova datazione. In primo luogo va bene «che la festa di Pasqua venga assegnata ad una determinata domenica nel calendario gregoriano» purché «vi sia l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede apostolica». In secondo luogo, ricorda ancora il Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, il Concilio dichiara la propria disponibilità anche a «introdurre nella società civile un calendario perpetuo», a condizione, ovviamente, che sia preservata e tutelata la settimana di sette giorni con la domenica.
Ora la guerra in Ucraina con i suoi riflessi negativi soprattutto all’interno del mondo ortodosso sembra allontanare la prospettiva di una ricerca più articolata sull’argomento, però spesso, proprio dalle crisi più nere nascono soluzioni insperate. E chissà che non sia questa la volta.
La verità e il nome di Dio *
È da quasi un secolo che i filosofi parlano della morte di Dio e, come spesso accade, questa verità sembra oggi tacitamente e quasi inconsapevolmente accettata dall’uomo comune, senza che ne siano tuttavia misurate e comprese le conseguenze. Una di queste - e certamente non la meno rilevante - è che Dio - o, piuttosto, il suo nome - era la prima e ultima garanzia del nesso fra il linguaggio e il mondo, fra le parole e le cose. Di qui l’importanza decisiva nella nostra cultura dell’argomento ontologico, che stringeva insolubilmente insieme Dio e il linguaggio, e del giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo fra le nostre parole e le cose.
Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna. Senza la garanzia del nome di Dio, ogni discorso, come il giuramento che ne assicurava la verità, non è più che vanità e spergiuro. È quanto abbiamo visto apparire in piena luce in questi ultimi anni, quando ogni parola pronunciata dalle istituzioni e dai media era soltanto vacuità e impostura. Viene oggi al suo termine ultimo un’epoca quasi bimillenaria della cultura occidentale, che fondava la sua verità e i suoi saperi sul nesso fra Dio e il logos, fra il nome sacrosanto di Dio e i semplici nomi delle cose. E non è certo un caso se solo gli algoritmi e non la parola sembrano ancora custodire un qualche nesso col mondo, ma questo soltanto nella forma della probabilità e della statistica, perché anche i numeri non possono in ultimo che rimandare a un uomo parlante, implicano ancora in qualche modo dei nomi.
Se abbiamo perduto la fede nel nome di Dio, se non possiamo più credere nel Dio del giuramento e dell’argomento ontologico, non è, però, escluso che sia possibile un’altra figura della verità, che non sia soltanto la corrispondenza teologicamente obbligata fra la parola e la cosa. Una verità che non si esaurisca nel garantire l’efficacia del logos, ma faccia in esso salva l’infanzia dell’uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole. Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono a ogni costo uccidere.
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STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
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a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
FILOLOGIA, TEOLOGIA ED ECONOMIA.
Sulla differenza (già aristotelica) tra la Saggezza (Prudenza /Phronesis) e la Sapienza (Scienza / Sofia), forse, sarebbe opportuno (quanto prima) fare epocale chiarezza e, possibilmente, non continuare a confondere la caritatevole Giustizia o Rettitudine (ebr. Zedaqah, o Tzedakah), la CHARITAS (gr. XAPITAS) del Logos evangelico, che richiama la grazia (Charis, gr. Xapis), con la "CARITAS" del logo di Mammona (lat. "carus": "caro", affetto e prezzo; e carestia)!
Con-fondere "Deus charitas est", con "Deus caritas est", acceca sull’ "Initium sapientiae timor Domini" (Sap. 7, 7-11) e fa perdere ogni possibilità di uscita dall’inferno delle "buone" intenzioni e della "buona" elemosina (carità)!
Federico La Sala
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA: NATURA, INTELLIGENZA ASTUTA, E GRATITUDINE ...
Una sollecitazione a pensare al "mondo divenuto favola" (lezione di Esopo, Fedro, e Nietzsche): come la filosofia, la teologia, e la politica mondiale, senza più Grazia (gr.: XAPIS, "CHARIS") e senza più Grazie (gr.: XAPITES, "CHARITES") perde la testa e ricade nel sacco, nella tradizionale "luminosa" caverna dell’ "homo homini lupus est" ... Dov’è l’etica? E dove la carità (gr. XAPITAS, "CHARITAS") della stessa grazia ("charis")?!
MEMORIA (E MUSE): "L’AMORE NON è LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (W. Shakespeare, Sonetto 116).
PSICOANALISI E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929): "Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria. (Melanie Klein).
COME NASCONO I BAMBINI. AL DI LÀ DELLA NATIVITÀ EDIPICO PLATONICA... *
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS ("CHARITAS"): E IL LOGOS SI FECE CARNE:
ECCE HOMO.
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IN NOME DEL LOGOS ("charitas"). «Egli (Cristo), ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6); del diavolo invece ha detto: “Non rimase nella verità, poiché in lui non c’è verità” (Gv 8,44). Ora, Cristo è talmente la verità che tutto in Lui è vero: Egli è il vero Verbo, Dio uguale al Padre, vera anima (vera anima), vera carne (vera caro), vero uomo (verus homo), vero Dio; vera è la sua nascita (vera nativitas), vera la sua passione ( vera passio), vera la sua morte (vera mors), vera la sua risurrezione (vera resurrectio). Se neghi una sola di queste verità, entra il marcio nella tua anima, il veleno del diavolo genera i vermi della menzogna e nulla rimarrà integro in te» (Agostino, Joh. Ev. tr. 8, 5-7);
IL FIGLIO. «Quegli che con le sue mani tocca il Verbo può farlo unicamente perché “il Verbo s’è fatto carne e abitò fra noi” (Gv 1,14). Questo Verbo fatto carne sino a potersi toccare con le mani cominciò a essere carne nel seno della Vergine Maria (Hoc autem Ver bum quod caro factum est ut manibus tractaretur coepit esse caro ex Virgine Maria)» (Agostino, In Joh. Ep. 1,1);
MARIA E GIUSEPPE, SPOSI NELLO SPIRITO DEL LOGOS ("CHARITAS"). «L’utero della Vergine fu la stanza (del Verbo), poiché è là che si sono uniti lo sposo e la sposa, il Verbo e la carne (et illius sponsì thalamus fuit uterus Virginis, quia in ilio utero virginali coniuncti sunt duo, sponsus et sponsa, sponsus Verbum et sponsa caro). Poiché sta scritto (Gn 2,24): “E saranno i due una sola carne” (et erunt duo in carne una). E anche il Signore dice nel Vangelo (Mt 19,6): “Dunque non sono due, ma una sola carne” (igitur iam non duo, sed una caro)» (Agostino, In Joh. Ep. 1, 2).
PAROLA DEL "VULCANICO" PLATONE. PARLA EFESTO: "NON PIU’ DUE, MA UN’ANIMA SOLA"!
"ARISTOFANE: [...] queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s’aspettano l’uno dall’altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell’amore: non possiamo immaginare che l’attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, EFESTO si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l’uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell’Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos’altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l’altra anima. Non più due, ma un’anima sola.
La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà.
Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest’ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell’amore che ci promette EROS, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all’amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l’anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi." (Platone, Simposio).
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NEL 2022, ANCORA NELL’OFFICINA DI PLATONE: "ECCE HOMO" (NIETSCHE, 1888)! Chi parla e promette di fare di due un’anima sola, nel racconto di Aristofane, è Efesto (Vulcano), il dio dei fabbri, ed Eros, è il dio dell’amore/desiderio cieco e avido: questi colpisce con le sue frecce e l’altro costruisce le catene per rimettere insieme le due metà! "Disagio della civiltà" (S. Freud, 1929): non è meglio cambiare registro e rileggersi insieme Dante ("Divina Commedia") e Nietzsche ("Crepuscolo degli idoli")?!
FLS
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA: IL SORGERE DELLA TERRA...
IL RIBALTAMENTO DEL CUORE, LA NASCITA, E LA SCOPERTA DELL’AMORE ("AGAPE", "CHARITAS"). Al di là della reciprocità ("do ut des") della "carità ("caritas")! *
Il segno e la carne /12. La rinuncia alla reciprocità
La rinuncia alla reciprocità
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 19 febbraio 2022)
I profeti sono la porta che mette in comunicazione Dio con gli esseri umani e gli uomini e le donne con Dio: a noi donano parole divine, a Dio donano le nostre parole migliori che poi egli usa per parlare con noi, in un dialogo continuo dove noi impariamo la lingua di Dio e diventiamo più umani e Dio diventa più Dio.
Il capitolo undici del rotolo di Osea contiene alcuni dei versi più belli e amati di tutta la Bibbia, è una vetta della profezia. Ma non li comprendiamo se arriviamo a questo capitolo senza aver prima attraversato i moltissimi versi di condanna, di maledizione, di delusione, di tradimento dei capitoli precedenti, senza aver incontrato tutte le parole che Osea ha speso per dirci che l’Alleanza tra YHWH e il suo popolo è spezzata per sempre, che la promessa è svanita per l’infedeltà di Israele. Quei capitoli (4-11) sono veri come è vero il capitolo undici. Come è vero il sepolcro vuoto ed è vero il Golgota, perché la verità del primo giorno dopo il sabato non sarebbe tale senza la verità della croce. La grandezza teologica e antropologica di questo capitolo si svela solo a chi ha percorso la via crucis fino alla fine, è arrivato sul monte e non ha trovato tre tende, ma tre croci. Lì ha voluto stare sotto il patibolo, ha visto morire veramente quel profeta diverso, e ha pensato, veramente, che era finito tutto, che quella speranza stupenda si era infranta contro il no degli uomini che non hanno accolto la luce. E poi ha seguito il cadavere nel terreno di Giuseppe d’Arimatea, ha visto porre la pietra sull’entrata della tomba, e ha sentito che quella pietra chiudeva per sempre anche quella breve stagione straordinaria di salvezza. E solo dopo, soltanto dopo questa verità verissima, ha sentito che il suo nome era chiamato da una voce viva: “Maria”. Non un secondo prima.
Quando invece saltiamo i capitoli difficili e duri della Bibbia, quando schiviamo il Golgota e dalla Domenica delle Palme andiamo subito in Galilea, le risurrezioni diventano finte e non salvano nessuno. Solo chi muore veramente può conoscere una risurrezione vera: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con lacci d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Osea 11,1-4).
YHWH aveva trasformato il giogo degli idoli che opprimevano tutti gli altri popoli in legami d’amore, curando il popolo come un figlio; ma il popolo non aveva voluto sentire nulla, e ha continuato le sue prostituzioni: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). La libertà guadagnata, grazie all’allentamento del morso del giogo, era diventata occasione per fuggire in cerca di nuovi amanti, era stata usata per allontanarsi da casa. Perché, lo abbiamo imparato anche noi: i legami d’amore restano lacci, e i figli crescono se riescono a spezzare i loro lacci, persino quelli che avevamo creato solo per amarli. Chiamato a guardare in alto: siamo chiamati a guardare le stelle, solo i sapiens lo sanno fare, gli animali non possono guardare il cielo - forse non c’è definizione più bella della vocazione umana.
Ma mentre Osea ripercorre questa tristissima storia di dolore e di fallimento, ecco che accade l’inatteso, e ci ritroviamo in una delle grandi risurrezioni della Bibbia: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si capovolge dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Senza soluzione di continuità, senza nessun preavviso, Osea fa rotolare la pietra del sepolcro e ci accorgiamo, noi e lui, che è vuoto. Quel non-spazio tra quei due versetti contigui crea un tempo infinito che inverte il senso del libro di Osea. Eravamo davvero convinti che YHWH non potesse fare altro che prendere atto della libertà di Efraim e quindi abbandonarlo alla stessa sorte di Adma e Seboìm (città sul Mar Morto, come Sodoma e Gomorra). E invece no: su quella non-speranza irrompe l’impensato, il verso delle cose viene piegato e inizia per Dio il tempo della fedeltà senza reciprocità - la nostra, la sua reciprocità. Non siamo di fronte soltanto a un pentimento di YHWH (come dopo il Diluvio o dopo la punizione per il vitello d’oro); qui c’è una conversione di Dio, come suggerisce il verbo ebraico che parla di un ribaltamento del cuore. YHWH cambia sguardo, inverte la strada, cambia la direzione della sua azione: dunque si converte. E fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare, l’opposto di quanto detto finora.
È una vetta della teologia biblica e delle religioni. Qui davvero Osea è maestro di tutti i profeti, di Isaia e di Geremia. Il Dio del capitolo undici di Osea lotta e vince il Dio dei suoi capitoli precedenti. Deus contra Deum: dentro la stessa Bibbia, dentro lo stesso libro, dentro lo stesso profeta. Da questa lotta emerge un Dio inedito. Questa rinuncia alla reciprocità, non ancora conosciuta dagli uomini, ora diventa possibile per Dio: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo» (11,9).
Perché sono Dio e non un uomo: è splendido che la diversità tra Dio e l’uomo stia proprio nel suo essere capace di amare anche senza reciprocità. Come a dirci: “Voi non siete capaci di amare se non siete riamati, io invece non riesco a non amarvi, è per questa incapacità di non amarvi anche se siete ingrati che Io sono Dio”.
La divinità emerge dallo scarto tra l’amore e la reciprocità, un amore che un giorno chiameremo agape, perché questo amore non era la reciprocità della philìa (amicizia) né il desiderio dell’eros. Quasi a dirci: solo un Dio può amare senza reciprocità: voi, che siete cattivi, non vivete la reciprocità con me, neanche io la vivo con voi e vi amo rinunciando alla reciprocità.
Ma poi ci dice anche qualcos’altro. Il Dio di Osea, infatti, da una parte prende le distanze da noi e ci dice parole che non sono ancora le nostre, ma mentre ce le dice ci fa diventare quelle parole diverse, ci sta creando più grandi di come eravamo ieri. Ci mostra una forma di amore che noi non abbiamo ancora, e nel mostrarcela ci rende capaci dell’amore del non-ancora. Meraviglioso.
È così che la parola continua a creare il mondo dicendolo, dicendoci a noi stessi. Noi non siamo il Padre misericordioso che perdona il figliol prodigo prima ancora che gli abbia chiesto perdono, ma ogni volta che ascoltiamo quella parabola di Luca ci nasce il desiderio di somigliarli, vogliamo diventare come lui, diventiamo realmente giorno dopo giorno come lui, finché almeno una volta nella vita ci ritroviamo capaci di accogliere e perdonare un figlio o un amico esattamente come quel padre misericordioso della parabola.
Gli uomini credendo nell’esistenza di Dio hanno detto e dicono molte cose. Una di queste è molto importante: se esiste Dio allora l’uomo non è Dio, quindi non è onnipotente, è limitato e mortale. La Bibbia ha fatto di tutto per tenere viva e operante questa distanza tra il Creatore e noi creature. Ma poi ci ha detto anche un’altra cosa: che siamo stati creati a “immagine di Dio”, e questa parola ha scombinato tutto il rotolo del mondo. Perché se noi siamo immagine di Dio allora ogni volta che Dio ci svela qualcosa di sé ci sta svelando anche qualcosa di noi, qualcosa di diverso, ma anche qualcosa di uguale. Parlandoci della sua giustizia ci parla della nostra giustizia, parlandoci del suo amore ci parla del nostro amore, diverso e simile, e svelandocelo aumenta la somiglianza tra i due amori.
Se guardiamo bene tra le pieghe del mondo, scopriamo ancora qualcosa di entusiasmante. Ci possiamo accorgere che anche le grandi parole umane condividono alcune dimensioni di questa capacità della parola biblica. Scriviamo in una Costituzione, la nostra, che la «Repubblica è fondata sul lavoro» ben sapendo che mentre lo scriviamo la Repubblica non è ancora fondata veramente sul lavoro, perché a fondare la vita sociale c’erano ancora troppi privilegi e ingiustizie. Ma scrivendolo stiamo dicendo, implorando, pregando che la Repubblica possa diventare davvero fondata sul lavoro, vogliamo che quelle parole più grandi di noi abbiano la capacità performativa di cambiare il nostro mondo. Poi scriviamo nei tribunali «La legge è uguale per tutti» ben sapendo che la legge non è ancora davvero uguale per ricchi e poveri, per italiani e stranieri. Ma ogni volta che inauguriamo una nuova aula di tribunale e vi riscriviamo al centro quella frase stupenda stiamo facendo avvicinare il mondo reale a quella parola profetica. Si trova qui una dimensione profetica della terra, quella profezia civile, popolare, cittadina di comunità intere che affidano a poche parole i propri desideri più grandi e i sogni collettivi, che sono autentiche parole-preghiera.
Non sappiamo, infine, come Osea scrisse quel versetto otto del capitalo undici. Forse fu lui il primo a essere tramortito e sconvolto da quanto capì e scrisse. Forse non se lo immaginava, non se lo aspettava, gli arrivò come dono, tutta gratuità, fu risorto da quelle sue parole. O, forse, guardando un giorno un uomo o una donna che era stata capace di amare e di perdonare oltre le infedeltà dell’altro, o ritrovandosi lui stesso capace di amore fedele per sua moglie infedele, Osea intuì che se gli uomini e le donne sono capaci di essere più grandi della loro reciprocità la fonte di questa capacità doveva trovarsi in Dio stesso. O, forse, queste due esperienze sono state una sola, quando Osea nel ricevere quella nuova parola dalla bocca di YHWH, al termine del verso sette gli fiorì un verso differente, vi riconobbe la vita attorno a sé, e finalmente la capì. Una certezza però l’abbiamo: Osea ha incontrato e annunciato una risurrezione perché è arrivato fino in fondo alla crisi sua e della sua comunità. Neanche un centimetro di meno: da dentro la certezza della fine è nata la certezza di un futuro. Troppe volte non risorgiamo perché ci fermiamo alla prima o alla seconda stazione della via crucis, non chiamiamo le crisi col loro nome tremendo, ci consoliamo con piccole risurrezioni e non tocchiamo il fondo degli abissi, dove il piede può tentare un nuovo volo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Dante 2021: Disagio della civiltà e discorso dei due Soli (del papa della chiesa cattolica e del presidente della repubblica italiana).
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
Federico La Sala
Documento.
I vescovi Usa: il politico cattolico dà scandalo se non segue la Chiesa
Nel testo approvato ieri chi svolge ruoli di autorità ha una responsabilità speciale verso la dottrina. Ma nessun esplicito riferimento al presidente Biden
di Elena Molinari, Baltimora (Avvenire, giovedì 18 novembre 2021)
Dopo mesi di discussione e due giorni di acceso dibattito, i vescovi americani hanno approvato ieri un atteso documento sulla coerenza eucaristica. Il testo era stato proposto dopo le elezioni 2020 da alcuni presuli Usa che vedevano la necessità di prendere una posizione chiara rispetto a un «presidente cattolico che si oppone agli insegnamenti della Chiesa». Il riferimento era all’accettazione della legalità dell’aborto da parte di Joe Biden, il secondo capo della Casa Bianca cattolico nella storia.
Ma il testo che è passato con 222 sì, otto no e tre astensioni non contiene riferimenti espliciti ad alcun politico, nè esamina l’opportunità di negare la comunione a personaggi pubblici che difendono posizioni non in linea con l’insegnamento morale della Chiesa. Il documento sostiene però che i cattolici che rivestono ruoli di autorità «hanno una responsabilità speciale» nel seguire la legge della Chiesa.
E sottolinea che coloro che ricevono la comunione pur avendo ripudiato nella loro vita pubblica gli insegnamenti della Chiesa «creano scandalo e indeboliscono la determinazione degli altri cattolici di essere fedeli alle esigenze del Vangelo».
In definitiva, durante la prima assemblea plenaria in persona in due anni, la Conferenza episcopale americana ha accolto gli inviti del Vaticano ad evitare condanne che potessero «diventare una fonte di discordia», come il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva ammonito in una lettera i vescovi Usa. Prevalso anche il timore, espresso da alcuni vescovi come Robert McElroy di San Diego, che l’Eucaristia possa essere usata come «un’arma in battaglie politiche».
La terza giornata di lavori della plenaria a Baltimora, aperti alla stampa, ha però rivelato che opinioni diverse sul tema permangono all’interno della Conferenza. Il testo, infatti, affida ai singoli vescovi il «compito speciale di porre rimedio a situazioni che comportano azioni pubbliche in contrasto con la comunione visibile della Chiesa e la legge morale». E se alcuni vescovi hanno interpretato il passaggio come un invito al dialogo, altri vi hanno visto una possibile apertura a negare l’eucaristia ai politici cattolici che ammettono l’aborto.
L’arcivescovo Joseph Naumann di Kansas City, ad esempio, ha evidenziato la responsabilità dei vertici ecclesiastici di parlare con i cattolici che agiscono in modo contrario agli insegnamenti morali della Chiesa, senza «aver paura di dire quanto è grave non difendere questi insegnamenti nella sfera pubblica».
Il comitato dottrinale che ha steso le 30 pagine sul «Mistero dell’Eucaristia nella vita della Chiesa», inoltre, ha accettato all’ultimo momento la richiesta dell’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, di includere la responsabilità delle persone in posizione di autorità di promuovere la vita dei non nati. «Non riconoscere la categoria di esseri umani vittima della più grande distruzione della vita umana nel nostro tempo sarebbe un’evidente omissione che, per alcuni di noi, trasformerebbe questo documento in un problema piuttosto che in un aiuto», ha detto l’arcivescovo.
I presuli sono stati però unanimi nell’evidenziare che il documento va ben oltre la questione dei politici cattolici e mette soprattutto in evidenza il ruolo del sacramento nella vita della Chiesa.
Le 30 pagine pongono infatti una rinnovata enfasi sulla catechesi sul significato dell’Eucaristia, in risposta a un calo, negli Usa, della fede nella presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo nella comunione.
Come ha spiegato l’arcivescovo di Denver Samuel Aquila è importante «portare una maggiore consapevolezza tra i fedeli di come l’Eucaristia può trasformare le nostre vite». I vescovi hanno infatti lanciato ieri da Baltimora una campagna triennale di «risveglio eucaristico», che prevede lo sviluppo di nuovi materiali didattici, la formazione di leader diocesani e parrocchiali, un nuovo sito web e l’invio di un’équipe di 50 sacerdoti nei 50 Stati per predicare l’Eucaristia. La campagna culminerà con un Congresso eucaristico nazionale nel giugno 2024 a Indianapolis.
LA POLITICA DELL’EUCARESTIA ... E "LA QUARTA «P» (QUELLA DELLA «PACE») CHE MANCA ALL’AGENDA DEL G20"
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
Scheda
MEMORIA DI LORENZO VALLA:
Lunedì 24 febbraio [2020], alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
* Fonte: INSR. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 24 febbraio 2020
UNA QUESTIONE DI SPIRITO. La storia millenaria di un errore secolare... *
Trappole dell’ortografia
«A» con l’acca o senza? Le avventure della lettera «H», la più odiata dagli italiani
Dall’alfabeto fenicio all’Ariosto, la vicenda millenaria del simbolo grafico «H» ricostruita dal ricercatore Fabio Copani e rilanciata dai social
di Redazione Scuola *
La più strana delle lettere dell’alfabeto
«Mamma, ma perché “Mario ha un amico” si scrive con l’acca visto che si pronuncia nello stesso identico modo di “Mario va a scuola”?». Perché è voce del verbo avere. «E allora perché non si scrive habbiamo e havete?». In latino effettivamente si scriveva così, ma si pronunciava anche diversamente, aspirando l’acca. Mentre in italiano la «H» è una lettera strana, una lettera muta.
Si scrive ma non si legge, si vede ma non si sente. Eppure è importantissima. Talmente importante che se non ci fosse si scatenerebbe l’Apocalisse: le chiese senza l’acca crollerebbero come sotto le bombe, i cherubini cadrebbero dal cielo, i bicchieri esploderebbero in mano, i galli invece di cantare starnutirebbero: CICCIRICÌ. E’ quanto immaginava Gianni Rodari in una filastrocca del Libro degli Errori in cui l’Acca - «stufa di non valere un’acca» - fuggiva dall’Italia. Ebbene a restituire l’onore perduto alla più bistrattata delle lettere dell’alfabeto ci ha pensato Fabio Copani, giovane dottore di ricerca in Storia greca, che ha ricostruito la sua lunga e travagliata odissea attraverso il Mediterraneo. Una storia che comincia sulle spiagge fenicie, monta a bordo delle navi dei commercianti libanesi, sbarca in Grecia, di lì a Cuma, e poi a Roma dove indispettisce Catullo e insuperbisce l’Ariosto, per atterrare infine sui manuali di scuola.
La lettera Het nella lingua fenicia
La storia della H è antica quanto quella dell’alfabeto che, come si sa, fu inventato dai fenici. La «het» era l’ottava lettera dell’alfabeto fenicio e si scriveva con un segno a forma di rettangolo con un trattino in mezzo («acca chiusa»). Corrispondeva a un suono per noi sconosciuto che veniva prodotto con un restringimento della cavità orale all’altezza della faringe (i linguisti lo chiamano «spirante faringale»).
Dalle coste libanesi alla Grecia
A partire dal IX secolo a.C. i commercianti libanesi ebbero contatti sempre più frequenti con i greci i quali non restarono insensibili alle loro straordinarie invenzioni tecnologiche, dal vetro all’alfabeto. L’adozione dell’alfabeto fu un processo complesso perché il greco antico era una lingua indoeuropea con suoni diversi dal fenicio che era una lingua semitica. In greco molte parole iniziavano con delle vocali aspirate: quelle parole furono trascritte con il segno «het» davanti che stava a indicare appunto un’aspirazione.
Dalla acca chiusa all’acca aperta
Verso la fine del VII secolo a.C. vi fu una semplificazione dell’antico segno «het»: i due trattini superiore e inferiore vennero tralasciati e la lettera assunse la forma della nostra acca. Si passò così, gradualmente, dalla «acca chiusa» alle «acca aperta».
L’alfabeto di Mileto
In greco antico esistevano però molti dialetti. A Mileto per esempio, e più in generale nella Ionia asiatica corrispondente alla costa centrale della Turchia, i greci parlavano un dialetto privo di aspirazioni (i linguisti lo chiamano «psilotico»). Loro usavano il simbolo «het» fenicio per indicare la vocale «e» lunga.
Nel 403 a.C. la città di Atene decise con un decreto ufficiale di adottare l’alfabeto di Mileto. Fu così che il segno a forma di «acca» si impose quasi ovunque nel mondo greco come simbolo della lettera eta, cioè della «e» lunga, mentre per indicare il suono aspirato entrò in uso lo «spirito aspro» sopra le vocali iniziali.
L’alfabeto dei cumani
Il segno a forma di acca ebbe una sorte diversa nelle colonie greche in Campania, prima fra tutte Cuma, che fu fondata dai greci dell’isola Eubea nell’VIII secolo. Nell’alfabeto dei cumani quel segno continuava a indicare il suono dell’acca aspirata e così passò anche ai romani che adottarono il simbolo nella sua variante aperta proprio per indicare il suono dell’aspirazione all’inizio di molte parole latine (homo, uomo, habere, avere, da cui l’acca che sopravvive ancora in italiano - anche se muta - nelle voci del verbo avere).
Catullo e l’acca del sussiegoso Arrio
Come avvenne il passaggio dalla acca aspirata latina all’acca muta italiana? Il fatto è che nell’Antica Roma i ricchi parlavano in un modo e i poveri in un altro: la lingua colta marcava l’acca all’inizio delle parole, il popolo ignorante invece non pronunciava l’acca. Ne dà testimonianza Catullo in una sua poesia in cui ironizza su un certo Arrio che per darsi un tono piazza l’acca aspirata a sproposito un po’ dappertutto.
Ariosto e l’uomo senz’acca che è senza onore
La lingua parlata italiana ereditò la dizione del latino rustico che non pronunciava il suono aspirato all’inizio della parola. Tuttavia la acca sopravvisse nell’italiano scritto. Fra i suoi paladini più convinti, nel Rinascimento, vi fu Ludovico Ariosto («Chi leva la H all’huomo, e chi la leva all’honore, non è degno di honore»). Alla fine però i nemici dell’acca ebbero la meglio e imposero una grafia semplificata senza il segno «H» all’inizio della parola. A partire dalla fine del Seicento si definì una consuetudine ortografica che salvava l’acca solo nelle prime tre persone singolari e nella terza plurale dell’indicativo presente del verbo avere («ho», «hai», «ha», «hanno»), quelle cioè che si prestavano a confusione con altre parole dal suono uguale ma dal significato diverso («o», «ai», a», «anno»). E qui si chiude la storia millenaria di un errore secolare.
* Corriere della Sera, 9 dicembre 1917 (ripresa parziale - senza immagini).
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Sul tema, cfr.:
FLS
Religioni.
Cosa accade se Gesù torna a parlare ebraico?
Esce il primo volume della traduzione del Nuovo Testamento dal greco nella lingua della Torà. Un lavoro lessicale e teologico imponente che apre un dibattito
di Massimo Giuliani (Avvenire, venerdì 1 ottobre 2021)
In cosa è diverso questo commento da tutti gli altri commenti ai Vangeli? In effetti, l’aggettivo diverso è l’unico che coglie la novità quasi assoluta di questa impresa, che oltre ad avere un chiaro valore religioso e teologico ha pure un enorme valore culturale. Mai nessuno in Italia si era azzardato a tradurre, ma potremmo anche dire ri-tradurre, i quattro testi evangelici e poi l’intero Nuovo Testamento lasciando i nomi propri e i terminichiave nella loro lingua davvero originale: l’ebraico.
Certo che abbiamo ricevuto questi testi in greco! Ma ciò non significa che siano nati o siano stati elaborati in greco. È un’ovvietà, forse, per alcuni (ma si tende a ignorarla o rimuoverla), che il rabbi Gesù e i suoi discepoli e quanti ne diffusero gli insegnamenti all’origine parlassero, in quanto ebrei, non greco ma ebraico (oltre che aramaico). Farne il perno per una nuova versione produce un effetto al contempo straniante e stupefacente, che sveglia all’improvviso i riflessi e sfalda l’assuefazione mentale.
Edita da Castelvecchi, l’opera in tre volumi si intitola Nuovo Testamento. Una lettura ebraica. Il primo volume appena uscito copre Vangeli e Atti degli Apostoli (con glossario e bibliografia; pagine 494, euro 25,00); il secondo è dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (uscirà tra poche settimane); il terzo contiene gli altri scritti neotestamentari, Lettere e Apocalisse, cui è stata aggiunta la Didachè (apparirà a novembre).
Quest’impresa, opera dell’ebraista Marco Cassuto Morselli e della grecista Gabriella Maestri, con le sue brevi introduzioni, i commenti e le note sembra rivelare qualcosa che, da sempre sotto gli occhi di tutti - come la famosa “lettera rubata” di Edgar Allan Poe - nessuno di solito riesce a vedere.
Il risultato è quello di ritrovare un Gesù che non si chiama più, italianizzato, Gesù ma Yeshua e che parla la sua lingua usando termini attinti alle Scritture ebraiche, non goffe traduzioni o addirittura traduzioni di traduzioni. Sin dalle prime righe i curatori ammettono onestamente le loro precomprensioni, da cui derivano i criteri del lavoro traduttorio:
«L’ebraicità di Yeshua e dei Vangeli è stata a lungo rimossa. Per iniziare a recuperarla nel nostro lavoro abbiamo scelto di non tradurre i nomi propri, sia di persone che di luoghi. (...) La nostra attenzione si è rivolta soprattutto all’esame di quei punti problematici i quali hanno offerto materia per la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. E al fine di restituire, per quanto possibile, i testi alla loro matrice ebraica abbiamo scelto di riportare in ebraico alcune parole di particolare rilevanza semantica».
Ad esempio, termini come teshuvà per conversione, malkhut per regno, mashalper parabola, tevillà per battesimo, ruach (al femminile) per spirito, Mashiah per Cristo... e soprattutto i nomi biblici per indicare Dio, che sono pregni di una teologia ebraica che né il greco né le traduzioni moderne riescono ad esprimere prestando il fianco a ogni genere di riempimento allotrio.
Ci hanno messo tredici anni di studio e di lavoro congiunti, l’ebraista e la grecista, per completare questa riscrittura delle Scritture cristiane, tenendo fisso ma ben calibrato il criterio ultimo: cercare di riportare i testi neotestamentari alla loro matrice linguistica e lessicale ebraica, e dunque alla sua complessa tessitura concettuale, e tale che impedisca di pensare quello che, invece, per secoli molta cristianità ha pensato e teorizzato: che Yeshua abbia predicato un Dio diverso da quello della rivelazione mosaica; una legge altra rispetto alla Torà sinaitica o che l’abbia dichiarata superata; un’etica avversa a quella, che invece Gesù condivideva e praticava, delle scuole farisaiche del suo tempo. Concludendone che il cristianesimo ha “portato a compimento” l’ebraismo sì che la Chiesa sia il sostituto di Israele.
Se tutta questa quantità di pensieri ha davvero origine dai Vangeli, dicono Cassuto Morselli e Maestri, andiamo a verificarlo nei testi, scaviamo nel greco neotestamentario e cerchiamo di ricostruire i termini e i concetti che nessuna scuola ellenistica poteva aver inventato, perché sono la specifica eredità spirituale e letteraria del popolo ebraico. Del resto è impossibile capire i racconti evangelici se non ricostruiamo la vita e la predicazione gesuane a partire dal loro contesto sociale, dalle due lingue da lui usate ossia l’ebraico e l’aramaico (e non solo l’aramaico) e da milieu concettuale e geopolitico in cui Yeshua ha vissuto.
Fino a oggi non esisteva un’opera simile in Italia; è disponibile in inglese, made in Usa, un Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Bretter ed edita a Oxford, ma si “limita” a una ricca messe di note da parte di una estesa équipe di studiosi ebrei, ma non è un tentativo di restituire a Yeshua la sua lingua, i concetti che usava e i nomi a lui familiari. Forse esiste un lavoro simile in Israele, ma con altre premesse. In tre volumi, quest’opera è un unicum: si pensi ai modi in cui le traduzioni ufficiali del Nuovo Testamento nominano Dio. Dio è termine greco, generico e valido anche per gli idoli; il Dio di Israele, in ebraico, non si dice, perché è l’Innominabile e l’Impronunciabile.
Solo quel geniale traduttore moderno, in francese, che fu André Chouraqui si pose il problema: quale Nome sta dietro il termine Kyrios? Il Tetragramma? Elohim? Inoltre, mai uno di questi nomi sarebbe stato usato da ebrei per un essere umano. Come si distingue, nel greco della koinè, la signoria teologica da quella cristo-logica? In questa riscrittura e lettura ebraica del Nuovo Testamento viene fatto lo sforzo di rispettare queste basilari distinzioni, che solo chi traduce «a partire dalla fede ebraica» e nella conoscenza e nel rispetto di essa può cogliere (gli altri neppure si accorgono del problema).
Maestri e Cassuto Morselli scrivono ancora: «La Parola del Santo, benedetto sia, è infinita, e il fiume della Rivelazione si riversa nelle limitate parole dell’uomo. La sua infinita polisemia ha bisogno di un continuo lavoro di ascolto e di interpretazione, la Scrittura cresce con il suo lettore, e i lettori di oggi sono donne e uomini che vivono il tempo del dialogo tra ebrei e cristiani. Da secoli i cristiani leggono e commentano le Scritture ebraiche, in tempi recenti anche gli ebrei hanno iniziato a leggere le Scritture cristiane».
I tempi a cui qui si fa riferimento ebbero inizio in Europa nel XVII secolo con Orobio de Castro e Spinoza e arrivano ad Abraham Geiger, Jules Isaac e Susannah Heschel; in Italia si parte da Leone Modena e si giunge, più vicino a noi, al rabbino livornese Elia Benamozegh. Ma il solco più recente è quello tracciato da pionieri come Lea Sestieri, Paolo De Benedetti ed Elia Boccara. L’impresa del duo Maestri-Cassuto Morselli è un azzardo? I critici (sia ebrei sia cristiani) non mancheranno; anzi, speriamo che non manchino: ciò significherà che questo lavoro è stato preso sul serio e che il dialogo ebraico-cristiano ha ancora qualcosa da dire.
Tubinga.
Addio a Eberhard Jüngel, maestro della teologia
Il pensatore luterano è scomparso martedì all’età di 86 anni. Al centro della sua opera come pensare e dire Dio nell’epoca che ne ha sentenziato la morte e l’Amore agapico
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 29 settembre 2021)
All’inizio anni ’70 del secolo scorso il teologo di Tubinga Eberhard Jüngel, morto martedì all’età di 86 anni, pubblicava un breve saggio intitolato Tod. Ho sempre pensato che alla morte bisognasse iniziare a pensare da subito e non attendere le fasi finali della vita. Ne fui molto colpito e gli scrissi, anche perché, con padre Xavier Tilliette, stavo scrivendo sull’argomento, in quello che poi sarebbe diventato il mio saggio Mistero della morte come mistero dell’uomo (Dehoniane, 1981). Mi rispose con grande affabilità e dimostrando interesse verso il mio umile lavoro di giovanissimo studente di teologia.
Cosa ho imparato da quel libro? Intanto che «l’essenza della morte è l’irrelazionalità», ossia la solitudine, ma che questa è anche la condizione dell’esistenza autentica. Ma, aggiungeva: «La morte deve essere e deve diventare ciò che l’ha resa Gesù Cristo», ovvero l’attestazione del primato di Dio e non di altri sulla nostra esistenza terrena, perché: «Là dove non possiamo fare nulla, egli è presente per noi». Penso e ne sono profondamente convinto che abbia affrontato la cupa signora di Samarcanda con questo spirito.
L’ho incontrato sia alla Lateranense, nei colloqui teologici ispirati dall’allora rettore Angelo Scola, sia a Tubinga per la presentazione dei risultati della ricerca interconfessionale. Ciò che mi ha stupito nella sua riflessione intorno a Dio mistero del mondo (Queriniana, 1982) è l’attenzione che da parte di un teologo certamente di matrice luterana veniva rivolta alla dimensione cosmico-antropologica della Rivelazione e l’elaborazione della dottrina dell’analogia, ritenuta comunemente monopolio dell’ambito propriamente cattolico-tomista.
Da teologo protestante egli, che pure all’epoca assumeva come interlocutore il pensiero del cattolico Erich Przywara, ha continuato a sostenere una radicale incompatibilità fra analogia entis e analogia fidei, in rapporto alla contrapposizione paolina fra giustizia della legge e giustizia della fede, e ciò in nome di un’assoluta e radicale fedeltà alle originarie intenzioni di Karl Barth, che nella fase dialettica del suo pensiero riteneva l’analogia entis un’invenzione dell’Anticristo. Quest’ultimo ha anche vissuto una radicale conversione a riguardo, approdando all’analogia charitatis, anch’essa analogia entis e analogia fidei nello stesso tempo, in quanto non solo esige di essere pensata nel duplice orizzonte della dimensione cosmico-antropologica e storico-escatologica della Rivelazione. E qui ci viene incontro un ulteriore fondamentale contributo offerto dal pensiero di Jüngel non solo al pensare teologico, ma alla stessa filosofia, in dialogo con Paul Ricoeur: si tratta della metafora come luogo e modalità propria del linguaggio credente. Sicché la “metaforica” diviene per chi scrive la “metafisica dell’Evangelo”.
Questa prospettiva reclama, dietro le spinte sia della critica filosofica all’ontoteologia, sia della rivendicazione teologica della prospettiva credente, l’elaborazione di una “metafisica della carità”, ossia agapica, capace di indicarne l’orizzonte di senso e nella quale la metafora del Padre e del suo rapporto generativo col Figlio e, insieme a Lui, con lo Spirito, possa finalmente assumere la forma dell’“icona verbale”, capace di sconfiggere ogni idolatria e di aiutarci a recuperare l’orizzonte eucologico e poetico originario della metafora, che eccede ogni analogia e ogni ulteriore concettualizzazione, esprimendosi semplicemente nella preghiera che “obbedienti al comando del Salvatore, osiamo” ripetere quotidianamente.
E così torniamo al tema della morte, pensata e vissuta dal teologo, come luogo nel quale sorge un nuovo rapporto con Dio, in quanto Egli stesso, scrive ancora in Morte, «subisce l’irrelazionalità della morte che aliena da Lui gli uomini. Dio si inserisce proprio là dove i rapporti e le relazioni vengono meno». Sicché «dove tutte le relazioni sono state interrotte, solo l’amore ne crea di nuove».
L’irruzione dell’Amore agapico e incondizionato sconfigge la morte e al tempo stessa ri-crea una nuova relazione con Dio e con gli altri, ossia con l’a(A)ltro. E ciò può accadere in quanto «Che Dio sia divenuto uomo implica ch’egli partecipi con l’uomo della miseria della morte», così come accaduto a lui e accadrà a ciascuno di noi.
Le traduzioni che hanno cambiato la storia /
I funamboli della parola
di Franco Nasi (Doppiozero, 14 agosto 2021).
Come tutti gli antichi mestieri, anche l’arte del tradurre ha nella cultura cristiana occidentale il suo santo patrono: San Girolamo, autore nel V secolo di quella Vulgata oggetto di tante polemiche con Agostino, e diventata testo canonico della Chiesa cattolica più di mille anni dopo essere stata scritta, quando il Concilio di Trento decise di adottarla come versione latina ufficiale della Bibbia. Oltre al santo protettore, e nonostante le apparenze che potrebbero far pensare a un mestiere poco pericoloso, l’arte della traduzione ha anche una lunga serie di martiri e di caduti sul lavoro, a cominciare dall’umanista francese Étienne Dolet torturato, impiccato e bruciato sul rogo a Parigi nel 1546.
Dolet fu accusato di ateismo per avere aggiunto tre parole “rien du tout” (assolutamente nulla) a un passo sulla morte dell’Assioco attribuito a Platone, mettendo così in dubbio, almeno secondo i suoi carnefici, il dogma dell’immortalità dell’anima. Forse è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso di una vita vissuta sempre al limite dall’autore di uno dei testi canonici della storia della traduzione (La manière de bien traduire d’une langue en autre, 1540) che codificava alcuni dei capisaldi delle strategie traduttive dell’Umanesimo, già in parte descritte da Leonardo Bruni, un secolo prima: capire il contenuto del testo di partenza; avere un’ottima padronanza di entrambe le lingue coinvolte nel processo traduttivo; evitare di tradurre parola per parola; utilizzare la lingua quotidiana; produrre un testo in uno stile eloquente e armonico.
Ma l’elenco dei caduti sul lavoro è purtroppo lungo e comprende sia traduttori “eretici” sia interpreti che hanno prestato la loro opera di mediazione nel mondo della diplomazia o in zona di guerra, visti il più delle volte non come neutrali intermediari, ma come appartenenti a uno dei due schieramenti in conflitto, e quindi nemici, oppure unici testimoni, a volte scomodi, di trattative e patti segretissimi.
Fra gli ultimi caduti, il 32enne interprete delle truppe americane Sohail Pardis, decapitato il 12 maggio di quest’anno dai Talebani nel deserto afgano dopo che, pochi giorni prima, aveva ricevuto delle lettere di minaccia di morte per sé e per i suoi familiari con l’accusa di “essere un spia americana, di essere gli occhi degli americani e quindi un infedele”. E purtroppo quello di Sohail non è un caso sporadico se l’amministrazione di Joe Biden sta cercando di tutelare, dopo il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan, i numerosi collaboratori afgani e le loro famiglie trasferendoli e ospitandoli in due basi dislocate in Kuwait e Qatar. Una vita, quella degli interpreti in zona di guerra, appesa a un filo, come su un filo si muove sempre il traduttore o l’interprete, anche quello meno esposto.
L’immagine del traduttore come funambolo è una delle tante metafore utilizzate per descrivere questo mestiere in cui si è pericolosamente sospesi tra diversi universi culturali, enciclopedie, religioni, lingue, tempi, luoghi. Già il poeta inglese John Dryden nella sua Prefazione alla versione delle Epistole di Ovidio (1680) aveva fatto ricorso alla metafora del traduttore che cammina sulla corda, sempre in equilibrio precario. Quando poi il testo è particolarmente ostico o strutturato, come nel caso di testi letterari o poetici, con vincoli metrici o rimici, la traversata diventa ancora più pericolosa. In questi casi, scrive Dryden: “è a tutti gli effetti come camminare sulla corda con le gambe legate”.
Alla stessa metafora fa ricorso la giornalista, traduttrice letteraria e interprete giudiziaria Anna Aslanyan nel suo Dancing on Ropes (2021), tradotto ora in italiano per Bollati e Boringhieri, da Enrico Griseri, con il titolo I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia. “Il funambolo - scrive Aslanyan - con ciò che di gioioso e di rischioso la sua figura suggerisce, è un simbolo appropriato del mestiere del traduttore. I traduttori devono lavorare a più obiettivi contemporaneamente: trasmettere il messaggio con efficacia e rispettare vincoli precisi, conservarsi integri e mantenersi flessibili. Per tenere tutto in equilibrio si muovono incessantemente fra queste quasi impossibilità, e il mondo insieme a loro” (p. 16). A questi funamboli della parola è dedicato questo libro, che non ha la pretesa di essere un trattato di teoria della traduzione né di entrare in conflitto con quella che l’autrice chiama la Translation police, ovvero i più dogmatici e astratti adepti della traduttologia, ma più semplicemente di offrire una galleria di personaggi, traduttori e interpreti che, con il loro lavoro, hanno influito in misura più o meno rilevante su qualche capitolo della storia, che si sono sporcati le mani cercando di trovare soluzioni a problemi concreti di traduzioni in situazioni particolari, che sono stati “flessibili”, magari forzando un po’ quello che una traduzione ortodossa, se mai ne esiste una, avrebbe richiesto.
Accanto alle vicende di una nutrita schiera di dragomanni, impegnati a mutuare fra le diplomazie occidentali e i tribunali e le istituzioni governative dell’Impero ottomano, Aslanyan descrive le disavventure di Adriaan Koerbagh, pensatore fra i più radicali del suo tempo, che nel 1668 pubblicò in Olanda un dizionario di termini tecnici, giuridici, medici e delle sacre scritture, suscitando scandalo, conseguente arresto e incarcerazione per blasfemia, o l’affascinante produzione di John Florio, amico di Giordano Bruno, traduttore in inglese degli influenti saggi di Montaigne e autore di A Worlde of Wordes, ricco e accurato dizionario italiano inglese contenente 44000 lemmi, oltre che di Florios Second Frutes, un’ampia raccolta di circa 6000 proverbi.
Proverbi ed espressioni idiomatiche sono spesso un banco di prova per interpreti e traduttori, che devono intervenire più di quanto di solito si pensa sia consentito a un semplice mediatore linguistico, per evitare che ciò che è alluso e implicito in modi di dire o metafore d’uso comune crei fraintendimenti gravi che potrebbero mettere seriamente a rischio rapporti diplomatici o trattative economiche. Ne sono testimonianza le memorie degli interpreti Oleg Trojanovsky e Viktor Suchodrev, che accompagnarono Nikita Chruščëv nei suoi viaggi negli Stati Uniti, memorie ampiamente riprese da Aslanyan. Il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, com’è noto, amava usare proverbi ed espressioni idiomatiche, ma era anche piuttosto impulsivo e irrefrenabilmente loquace nelle repliche ai suoi interlocutori, al punto che i suoi interpreti dovevano intervenire cercando di aggiustare certe esternazioni diplomaticamente rischiose. In modo simile il traduttore russo di Silvio Berlusconi, Ivan Melkumjan, fu costretto ripetutamente a piccoli salti mortali creativi per rendere “digeribili” agli interlocutori le barzellette dell’allora primo ministro italiano, convertendo l’umorismo nella valuta locale.
Da Alessandro Maurocordato, di origini greche, che dal 1673 svolse la funzione di gran dragomanno presso il governo ottomano, al reverendo inglese poliglotta Joseph Wolff, autore della traduzione di parti del Corano dall’arabo al persiano, a Richard Sonnenfeld, soldato semplice statunitense, ebreo tedesco fuggito dalla Germania nel 1938, che ebbe un ruolo centrale nel processo a Norimberga come interprete di Göring, Aslanyan ci offre una curiosa e godibile carrellata di personaggi che hanno saputo abilmente camminare sul filo della mediazione culturale e linguistica, contribuendo con il loro lavoro a cambiare a volte il corso della storia. Sono personaggi spesso eccentrici, che ricordano i protagonisti di certi fortunati film come Silvia Broome (Nicole Kidman) nell’Intepreter di Sydney Pollack, o di romanzi che hanno come tema la traduzione (uno fra tutti Corazón tan blanco di Javier Marías) che costituiscono una sorta di sottogenere utile anche alla riflessione sul tradurre, come ha mostrato Antonio Lavieri nel suo Translatio in Fabula (Editori Riuniti).
L’ultimo personaggio della galleria accuratamente documentata da Aslanyan è un interprete sui generis: la Machine translation. Nell’ultimo capitolo l’autrice descrive la vicenda di quest’ultimo arrivato, dalla sua nascita alla fine degli anni quaranta, con i primi tentativi del matematico Warren Weaver, alla traduzione automatica basata sulla statistica e i corpora linguistici degli anni ottanta, alle reti neurali e i cosiddetti word embeddings dell’ultimo decennio. Nell’ambito della traduzione automatica e, anche se in modo meno evidente, in quello delle tecnologie di interpretazione assistita sono stati fatti indubbiamente passi da gigante. C’è chi prevede che presto le professioni del traduttore e dell’interprete saranno un ricordo del passato, ipotesi di chi in genere ha un’idea piuttosto limitata non solo dell’atto del tradurre, ma dell’atto linguistico in generale. Quello che molti dei traduttori e degli interpreti presentati da Aslanyan hanno fatto è stato molto di più di quello che potrebbe fare una macchina: hanno mediato linguisticamente e culturalmente.
Provate a pensare a una macchina che traduce quanto dice un ginecologo italiano a una giovane donna marocchina in un ospedale. E pensate a quanto può essere decisivo invece l’intervento di un mediatore o una mediatrice capace di comprende la complessità di quanto c’è in gioco in quel momento. Ma così in qualunque situazione in cui il dialogo è, come dovrebbe essere, una interrelazione vera e vitale. Chiude Aslanyan con una nota di ottimismo sul futuro non solo per la professione dell’interprete e del traduttore ma dei parlanti in generale: “Fino a quando il linguaggio non si restringerà al compito di collocare delle parole più o meno corrette in un ordine più o meno corretto; finché continueremo a scherzare e a imprecare, a elogiare e a ironizzare, parlando e scrivendo schiettamente oppure no; fintantoché la comunicazione umana continuerà a includere tutto ciò e molto altro, parafrasando Mark Twain potremo affermare - senza tema di smentita - che le notizie sulla morte del traduttore sono state fortemente ingigantite” (p. 256). O almeno così spera chi ha a cuore la libertà di pensare, parlare e interpretare anche oltre gli algoritmi e le statistiche, illudendosi magari di potere ancora scegliere.
“Studiare il greco ed il latino porta felicità, vi spiego perché”: parla il professor Nicola Gardini
di Marta Vigneri ("TPI. The Post International", 25 Giu. 2021)
Dalla cattedra dell’Università di Oxford, dove è professore di letteratura italiana comparata, agli scaffali delle librerie, dove ha venduto decine di migliaia di copie con “Viva il latino, storia e bellezza di una lingua inutile” (Garzanti, 2016), “Viva il greco, alla scoperta della lingua madre” (Garzanti, 2021), “Elogio del latino. Una lingua da amare” (la Repubblica-GEDI, 2021) ed altri saggi dedicati alle lingue antiche, Nicola Gardini è uno degli studiosi che ha contribuito a diffondere, negli ultimi anni, il grido d’amore per il greco ed il latino, sempre più marginalizzate nelle Università italiane ma tornate in voga tra il pubblico non accademico grazie a best seller come il suo. Un salto che ha compiuto perché convinto che questi saperi “diano felicità e conforto”. A TPI ha spiegato perché.
Risale a cinque anni fa il boom della sua opera “Viva il latino”. Si aspettava questo successo?
No, è stata una bellissima sorpresa. Il successo non è stato soltanto del libro, ma del discorso che proponeva. Una riflessione critica, appassionata, ma non soltanto privata, perché il libro ha aperto un dibattito. Gli editori hanno cominciato ad interessarsi a questo tema, altri libri sono nati, io stesso ho continuato su questa linea capendo che quello che avevo fatto con il latino potevo farlo con altri libri. Oggi sono passato al greco, che conosco e che è parte di questo discorso, sebbene i pregiudizi che attaccano il latino non siano immediatamente trasferibili al greco. Questo perché è meno presente, è confinato ad una sola scuola, il liceo classico, e perché nell’immaginario collettivo è la lingua mitica, la lingua delle origini.
Si è più indulgenti verso il greco?
Sì, ma non solo: c’è una forma di fascino che forse il latino, imponendosi nel sistema educativo da secoli e sposandosi con la giurisprudenza e con la Chiesa, ha perso. È anche una questione di aura. Il greco mantiene qualcosa di libero, è associato all’idea di democrazia, di ginnastica, ha qualcosa di irrazionale. Del greco ci si invaghisce perché è una lingua un po’ erotica, ed ha creato una nostalgia secoli e secoli fa quando si è rannicchiato nella parte orientale dell’impero romano e lì è rimasto per lungo tempo fino a riemergere nel rinascimento e nell’umanesimo. Il greco è sempre visto come un ospite benvenuto, qualcuno che torna da lontano, che evoca un rispetto benevolo. Verso il greco non si ha quell’atteggiamento di fastidio e noia che purtroppo stupidamente molti hanno assunto verso il latino portandolo nel chiacchiericcio mediatico, che confonde solo le idee, perché qui si parla di istruzione e di quello che serve trasmettere alle future generazioni.
Possiamo dire che nel greco rintracciamo in modo più romantico le origini del nostro pensiero occidentale mentre la conoscenza del latino è stata al centro di polemiche perché considerata, anche dalla politica, elitaria?
Il latino si è compromesso con il potere mentre il greco è rimasto la lingua dell’individuo ragionante e curioso, dell’avventura. Se dici greco pensi immediatamente ad Odisseo, dicendo latino vengono in mente Cicerone, Virgilio, figure dell’ordine. Però questo è l’immaginario collettivo. Nei miei libri cerco di spiegare, senza pregiudizi, che li leggiamo non perché sono dei geni, ma perché la lingua grazie a loro procede in direzioni artistiche, intellettuali. Ed è questo che interessa: si può chiamare Saffo, Platone, Demostene, in ognuno di questi succede qualcosa di miracoloso, cioè la lingua scopre pensieri, idee, metafore. È molto importante poi il nesso tra lingua e verità, lingua ed immaginazione: il greco questo lo ha fatto molto prima del latino. Pensiamo all’Odissea, in cui si assiste ai fatti della vita e poi ci sono i poeti che la cantano. Il greco è la lingua della grande immaginazione che entra in rapporto con la realtà dei fatti, con le esperienze vissute e le éleva eroicamente, filosoficamente, linguisticamente. Ed è anche, come ha suggerito, l’origine del pensiero, dell’investigazione: per questo il mio libro sul greco si intitola “Alla ricerca della lingua madre” perché c’è dietro l’idea di un inizio.
Perché invece anche il latino è una lingua utile?
L’utilità del latino sta nella sua necessità formativa, si tratta di storia e memoria della nostra cultura e del nostro essere. Eliminare questi studi e chiamarli marginali o elitari è un torto che si fa alla costruzione del sapere storico. Sarebbe lo stesso che dire: niente filosofia o niente musica. Ridurre tutto all’applicazione immediata non significa andare avanti, ma fermare lo sviluppo della nostra mente. Le società hanno bisogno di conoscersi profondamente, e lo studio di queste lingue serve a farci capire che l’attualità non è il presente, il presente è fatto di passato, e che la tecnologia non è scienza: la scienza è fatta di interpretazione, come il latino e il greco. C’è un’utilità anche spirituale: farci sentire parte di un lungo cammino e traiettoria dove il latino e questi testi, la loro penetrazione e diffusione hanno determinato i nostri linguaggi, comportamenti mentali, metafore, il senso della nostra vita. Togliere il latino significa darci un alzheimer sociale.
Da ragazzo scrisse un libro violento sull’università italiana, spiegando perché era fuggito per proseguire la carriera all’estero. C’è un nesso con la marginalizzazione delle lingue antiche?
Il nesso tra i miei interessi per il latino e per il greco e il mio disgusto dell’università italiana c’è, perché io credo nella parola libera, nell’intelligenza, nel dialogo, che sono grandi temi del greco. Questo nelle università è difficile che accada, perché il sistema di reclutamento è molto personalistico, crea zone di potere e non un sistema per i migliori. Io me ne andai perché non mi trovavo bene in una mentalità baronale e corrotta, che fa male a chi cerca di entrare e non ci riesce, fa male agli studenti. Il discorso è complesso, recentemente i giornali hanno detto che non bisogna sparare sempre a zero, ma in realtà il sistema di assunzione va sistemato perché non è fatto per la libera circolazione degli intelletti.
Come si passa dal lavoro accademico alla scrittura di un best seller?
Io sono un accademico strano, sebbene lavori per una università molto solida, quella di Oxford. Anche quando scrivo per l’Università evito il gergo specialistico, obbedisco ad una scrittura personale che certo spesso si scontra con criteri molto conformistici. Dal lavoro accademico ho imparato il rigore e a trattare un po’ tutto il mondo come un’Università, che per me non sta soltanto negli edifici. C’è un’università di lettori che ha voglia di conoscere molte cose che magari normalmente sono riservate all’accademia. Parlo a questa università più grande, lo faccio con una lingua semplice, chiara, diretta ma anche molto personale. I miei libri sono un impegno che mi sono preso con me stesso, per comunicare il più possibile. Sono convinto che questi saperi diano felicità, conforto, stimolo ad andare avanti. Non danno risposte ma pongono moltissime domande, e questo ci aiuta a credere nel futuro.
Tra le sue opere dedicate alle lingue antiche compare “Dieci parole latine che raccontano il nostro mondo”: se dovesse sceglierne una, su quale consiglierebbe di soffermarsi?
Claritas, la chiarezza, una parola bellissima che ha una sua storia. La chiarezza non è un punto di partenza ma di arrivo, è una delle più grandi costruzioni perché richiede un apprendistato alla verità, all’ordine, ai pensieri e all’efficacia del ragionamento. La chiarezza ce l’ha chi scrive tanto, chi studia tanto e arriva a capire il modo più diretto e più rapido per attraversare il groviglio, anche rispetto alla conoscenza di sè.
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA CARITAS ITALIANA NEL 50° DI FONDAZIONE *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti, tutti!
Ringrazio il Cardinale Bassetti e il Presidente della Caritas Italiana, Monsignor Redaelli, per le parole che mi hanno rivolto a nome di tutti. Grazie. Siete venuti dall’Italia intera, in rappresentanza delle 218 Caritas diocesane e di Caritas Italiana, e io sono contento di condividere con voi questo Giubileo, il vostro cinquantesimo anno di vita! Siete parte viva della Chiesa, siete «la nostra Caritas», come amava dire San Paolo VI, il Papa che l’ha voluta e impostata. Egli incoraggiò la Conferenza Episcopale Italiana a dotarsi di un organismo pastorale per promuovere la testimonianza della carità nello spirito del Concilio Vaticano II, perché la comunità cristiana fosse soggetto di carità. Confermo il vostro compito: nell’attuale cambiamento d’epoca le sfide e le difficoltà sono tante, sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio. Ma - diceva San Paolo VI - «le nostre Caritas si prodigano oltre le forze» (Angelus, 18 gennaio 1976). E questo è vero!
La ricorrenza dei 50 anni è una tappa di cui ringraziare il Signore per il cammino fatto e per rinnovare, con il suo aiuto, lo slancio e gli impegni. A questo proposito vorrei indicarvi tre vie, tre strade su cui proseguire il percorso.
La prima è la via degli ultimi. È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla. E mi permetto una confidenza. L’altro giorno ho sentito, su questo, parole vissute dall’esperienza, dalla bocca di don Franco, qui presente. Lui non vuole che si dica “eminenza”, “cardinale Montenegro”: don Franco. E lui mi ha spiegato questo, la via degli ultimi, perché lui ha vissuto tutta la vita questo. In lui, ringrazio tanti uomini e donne che fanno la carità perché l’hanno vissuta così, hanno capito la via degli ultimi. La carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e renderle protagoniste della propria vita. Molte scelte significative, in questi cinque decenni, hanno aiutato le Caritas e le Chiese locali a praticare questa misericordia: dall’obiezione di coscienza al sostegno al volontariato; dall’impegno nella cooperazione con il Sud del pianeta agli interventi in occasione di emergenze in Italia e nel mondo; dall’approccio globale al complesso fenomeno delle migrazioni, con proposte innovative come i corridoi umanitari, all’attivazione di strumenti capaci di avvicinare la realtà, come i Centri di ascolto, gli Osservatori delle povertà e delle risorse. È bello allargare i sentieri della carità, sempre tenendo fisso lo sguardo sugli ultimi di ogni tempo. Allargare sì lo sguardo, ma partendo dagli occhi del povero che ho davanti. Lì si impara. Se noi non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che occorre guardare la realtà, perché guardando gli occhi dei poveri guardiamo la realtà in un modo differente da quello che viene nella nostra mentalità. La storia non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, che la fanno apparire bella e perfetta, ma dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta, fermatevi..., dovremmo fermarci: qualcosa non funziona.
Una seconda via irrinunciabile: la via del Vangelo. Mi riferisco allo stile da avere, che è uno solo, quello appunto del Vangelo. È lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone. È lo stile dell’amore gratuito, che non cerca ricompense. È lo stile della disponibilità e del servizio, a imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo. È lo stile descritto da San Paolo, quando dice che la carità «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,7). Mi colpisce la parola tutto. Tutto. È detta a noi, a cui piace fare delle distinzioni. Tutto. La carità è inclusiva, non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale. È lo stile integrale che avete sperimentato in grandi calamità, anche attraverso i gemellaggi, bella esperienza di alleanza a tutto campo nella carità tra le Chiese in Italia, in Europa e nel mondo. Ma questo - lo sapete bene - non deve sorgere solo in occasione delle calamità: abbiamo bisogno che le Caritas e le comunità cristiane siano sempre in ricerca per servire tutto l’uomo, perché “l’uomo è la via della Chiesa”, secondo l’espressione sintetica di San Giovanni Paolo II (cfr Lett. enc. Redemptor hominis, 14).
La via del Vangelo ci indica che Gesù è presente in ogni povero. Ci fa bene ricordarlo per liberarci dalla tentazione, sempre ricorrente, dell’autoreferenzialità ecclesiastica ed essere una Chiesa della tenerezza e della vicinanza, dove i poveri sono beati, dove la missione è al centro, dove la gioia nasce dal servizio. Ricordiamo che lo stile di Dio è lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza. Questo è lo stile di Dio. Ci sono due mappe evangeliche che aiutano a non smarrirci nel cammino: le Beatitudini (Mt 5,3-12) e Matteo 25 (vv. 31-46). Nelle Beatitudini la condizione dei poveri si riveste di speranza e la loro consolazione diventa realtà, mentre le parole del Giudizio finale - il protocollo sul quale saremo giudicati - ci fanno trovare Gesù presente nei poveri di ogni tempo. E dalle forti espressioni di giudizio del Signore ricaviamo anche l’invito alla parresia della denuncia. Essa non è mai polemica contro qualcuno, ma profezia per tutti: è proclamare la dignità umana quando è calpestata, è far udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha.
E la terza via è la via della creatività. La ricca esperienza di questi cinquant’anni non è un bagaglio di cose da ripetere; è la base su cui costruire per declinare in modo costante quella che San Giovanni Paolo II ha chiamato fantasia della carità (cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50). Non lasciatevi scoraggiare di fronte ai numeri crescenti di nuovi poveri e di nuove povertà. Ce ne sono tante e crescono! Continuate a coltivare sogni di fraternità e ad essere segni di speranza. Contro il virus del pessimismo, immunizzatevi condividendo la gioia di essere una grande famiglia. In questa atmosfera fraterna lo Spirito Santo, che è creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che viviamo.
E ora - dopo questa predica di Quaresima! - vorrei dirvi grazie, grazie: grazie a voi, agli operatori, ai sacerdoti e ai volontari! Grazie anche perché in occasione della pandemia la rete Caritas ha intensificato la sua presenza e ha alleviato la solitudine, la sofferenza e i bisogni di molti. Sono decine di migliaia di volontari, tra cui tanti giovani, inclusi quelli impegnati nel servizio civile, che hanno offerto in questo tempo ascolto e risposte concrete a chi è nel disagio. Proprio ai giovani vorrei che si prestasse attenzione. Sono le vittime più fragili di questa epoca di cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. Sono loro i protagonisti dell’avvenire. Non sono l’avvenire, sono il presente, ma protagonisti dell’avvenire. Non è mai sprecato il tempo che si dedica ad essi, per tessere insieme, con amicizia, entusiasmo, pazienza, relazioni che superino le culture dell’indifferenza e dell’apparenza. Non bastano i “like” per vivere: c’è bisogno di fraternità, c’è bisogno di gioia vera. La Caritas può essere una palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, per far loro assaporare il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli altri. Così facendo la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro, come fanno i bambini. Non dimenticare il modello dei bambini: verso l’Alto e verso l’altro.
Cari amici, ricordatevi, per favore, di queste tre vie e percorretele con gioia: partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività. Vi saluto con una frase dell’Apostolo Paolo, che festeggeremo tra pochi giorni: «L’amore del Cristo ci possiede» (2 Cor 5,14). L’amore del Cristo ci possiede. Vi auguro di lasciarvi possedere da questa carità: sentitevi ogni giorno scelti per amore, sperimentate la carezza misericordiosa del Signore che si posa su di voi e portatela agli altri. Io vi accompagno con la preghiera e vi benedico; e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!
* Fonte: Vatican.va, 26.06.2021
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre (Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica.
Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
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Gianfranco Ravasi
Federico La Sala
In risposta:
Donna Sapienza
fin dal principio
di Marinella Perroni
Biblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo *
Salomone lo conoscono più o meno tutti. Se non altro per quello stratagemma di voler far tagliare in due un bambino conteso tra due madri: una storia raccontata nel primo libro dei Re (3, 16-28). Forse, alcuni sanno anche che la saggezza del figlio di Davide e di Betsabea, l’adultera, è divenuta proverbiale perché il regno di Salomone ha assicurato a Israele non soltanto pace e stabilità, ma anche il contatto con le altre grandi culture del Vicino Oriente e, quindi, un tempo di grande vivacità culturale e di progresso civile. Per questo Israele ha attribuito al re Salomone tutta la riflessione sapienziale che sta alla base di alcuni libri della Bibbia, scritti in realtà in epoche diverse (dal secolo V al II prima di Cristo), che contengono sentenze, orientamenti e norme che hanno di mira una vita proficua e felice. Quasi nessuno però sa che quella sapienza che ha reso famoso Salomone è una raffigurazione che, accanto ad altre due figure, la Legge e il Messia, consente di capire perché, ma soprattutto come, Dio si fa presente nella storia del suo popolo. Ed è figura femminile.
Donna-Sapienza
Tra le tante cose degne di stupore emerse grazie al restauro della Cappella Sistina (1980-1994) una è, a mio avviso, tutt’altro che marginale. Nell’affresco della creazione, che occupa la volta, l’attenzione viene catturata dal vigore dell’Adamo e dalla grandiosa potenza espressiva con cui Michelangelo ha saputo rendere conto del rapporto di vicinanza e al contempo di distanza tra il creatore e la creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
Eppure, il restauro ha fatto riemergere un particolare per troppi secoli rimasto del tutto oscurato: tra i putti che circondano e sostengono Dio nel suo atto creativo domina una figura femminile che Dio vincola a sé in un abbraccio. Eva? Inevitabile che in molti lo sostengano, anche se, in realtà, alla creazione di Eva il pittore dedica un riquadro specifico nelle storie della Genesi che corredano la volta.
Se gli storici dell’arte propendono per l’identificazione con Eva, i biblisti azzardano invece un’altra ipotesi, tutt’altro che fantasiosa perché molto ben accreditata dagli scritti sapienziali della Bibbia. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. [...] Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 22-31).
È la Sapienza stessa che si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che - ce lo dice il racconto che apre il libro della Genesi - Dio considera una «cosa molto buona» (Genesi 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette, insomma, il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Il discorso sarebbe lungo: basti solo dire che, nonostante la struttura sociale di Israele fosse fortemente caratterizzata in senso patriarcale e nonostante ciò abbia spesso imposto alle donne anche pesanti restrizioni, nella letteratura biblica emergono invece, sia pure in modo carsico, attestazioni del ruolo decisivo giocato dalle donne nello sviluppo della storia di Dio con il suo popolo nonché riflessioni, spunti, allusioni che rivelano un immaginario religioso in cui la presenza femminile gioca un ruolo di primo piano. Al riguardo, gli scritti sapienziali sono una vera e propria miniera.
Il termine italiano “sapienza”, come quello greco sofia, possono ingenerare un fraintendimento rispetto a quello ebraico hochmah, che ha una storia molto antica e rimanda a una qualità superiore che alcune persone hanno e altre no, l’aspirazione presente nelle radici più antiche della nostra cultura a saper orientare i nostri atteggiamenti di fondo nel mestiere di vivere. La sapienza non si insegna, ma questo non significa che la sapienza non si impari: il significato più arcaico di hakam è l’uomo abile, l’artigiano, in particolare, l’orefice, colui che conosce bene un mestiere.
La sapienza biblica tradizionale non ha quindi la pretesa di essere frutto di una rivelazione divina, per questo è stata definita una sapienza laica. E i libri sapienziali non contengono racconti mitici e nemmeno sono opere filosofiche o speculative, come quelle dei grandi pensatori greci. Sono un distillato di sapere pratico e di riflessioni sulla realtà vissuta, non vi si trovano discorsi edificanti e tanto meno devote esortazioni. La sapienza non trasmette neppure un facile moralismo religioso, ma piuttosto richiede, e in termini molto esigenti dal punto di vista umano, di saper riflettere e prendere posizione nei confronti di insegnamenti a volte perfino tra loro contraddittori. Per questo il valore della sapienza è inestimabile.
Un esempio eloquente
La divisione del libro dei Proverbi in sette sezioni potrebbe richiamare la dichiarazione che apre il c. 9 «La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne» e alludere così al fatto che, chi legge i proverbi e i discorsi di ammonimento contenuti nel libro, accoglie l’invito della sapienza a farsi ospitare nella sua casa.
Molto ci sarebbe da dire su indubbi tratti di misoginia presenti nel testo, ma non bisogna neppure dimenticare che, più ancora che nel testo, l’androcentrismo è stata una delle dominanti della storia della sua interpretazione. Da qui la forte diffidenza nei confronti soprattutto di un brano come l’elogio della donna forte (31, 10-31) che appariva come una vera e propria esaltazione della moglie ideale che vive solo in funzione del suo uomo e dei suoi figli.
Il capitolo è intitolato Parole di Lemuèl, re di Massa, «che egli apprese da sua madre» e si deve quindi supporre che si tratti di insegnamenti che la madre di un re trasmette a suo figlio. Non stupisce che per lungo tempo anche il ritratto della donna forte che suggella il libro sia stato interpretato come una raccolta di suggerimenti della madre al futuro re perché scelga una sposa appropriata.
A ben guardare, però, il poemetto si chiude chiamando in causa direttamente una tra le “molte figlie” e questo lascia lecitamente supporre che, se la prima parte del discorso della madre è rivolta al futuro re, l’ultima parte è invece l’elogio di una figlia che «ha compiuto cose eccellenti», a cui bisogna essere «riconoscenti per il frutto delle sue mani» e di cui va tessuta lode pubblica «alle porte della città».
Ben lungi dall’essere l’elogio di una futura nuora da parte di una suocera illustre, dunque, il brano contiene gli insegnamenti funzionali all’ideale di educazione del principe Lemuèl e di una principessa, di cui non si dice il nome, ma che viene interpellata direttamente.
Studi archeologici e storico-sociali hanno poi messo in luce che, all’epoca, le donne erano proprietarie terriere ed erano attive in tutti gli ambiti menzionati nel nostro testo, dal commercio alla produzione e alla vendita dei tessuti di lusso, ben lontane cioè dall’ideale casalingo che ne faceva le regine del focolare. Per non dire, infine, che i tessuti preziosi delle sue vesti (v. 22), il lino e la porpora, sono gli stessi che arredano l’arca che guida il popolo nel deserto o che vestono i sacerdoti del Tempio e che oltre a lei (v. 25), in tutta la Bibbia solo Yahweh veste di forza (Salmo 93, 1).
Descritta dunque con tratti caratteristici dell’epoca, la donna forte con cui l’autore del libro dei Proverbi suggella il suo scritto, è Donna-Sapienza, la personificazione della Sapienza di Dio. A lei deve legarsi il re, come mostra la straordinaria preghiera per ottenere la sapienza che, non a caso, viene attribuita a Salomone (Sapienza 9, 1-18). Non è la casalinga, ma colei che, costruita la sua casa, «ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Proverbi 9, 3-6).
I proverbi
Proverbi 31, 10-31
* Fonte: L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
Papa. «Le donne accedano ai ministeri del lettorato e dell’accolitato»
Con un motu proprio Francesco abroga la limitazione dell’accesso ai due ministeri istituiti ai laici maschi. Nessuna relazione con il sacerdozio. Riconoscimento del contributo femminile all’annuncio
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 11 gennaio 2021)
Le donne potranno accedere da ora in poi ai ministeri del lettorato e dell’accolitato nella Chiesa Cattolica. Senza che però questo debba essere confuso con una sia pur parziale apertura verso l’ordinazione sacerdotale. -Con il motu proprio “Spiritus Domini”, infatti, il Papa ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di Diritto canonico, stabilendo che le donne possano accedere a questi ministeri (la lettura della Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o lo svolgimento di un servizio all’altare, come ministranti - chierichette o come dispensatrici dell’eucaristia), che essi vengano attribuiti anche attraverso un atto liturgico che li istituzionalizza. Nella nuova formulazione del canone si legge ora: “I laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti”. Viene così abrogata la specificazione “di sesso maschile” riferita ai laici e presente nel testo Codice fino alla modifica odierna.
Francesco tuttavia specifica che si tratta di ministeri laicali “essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il sacramento dell’ordine”. E in una lettera indirizzata al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria, cita le parole di san Giovanni Paolo II secondo cui “rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”.
Per i ministeri non ordinati come il letterato e l’accolitato, però, "è possibile, e oggi appare opportuno - sottolinea il Pontefice -, superare tale riserva”. Il Papa spiega che “offrire ai laici di entrambi i sessi la possibilità di accedere al ministero dell’Accolitato e del Lettorato, in virtù della loro partecipazione al sacerdozio battesimale incrementerà il riconoscimento, anche attraverso un atto liturgico (istituzione), del contributo prezioso che da tempo moltissimi laici, anche donne, offrono alla vita e alla missione della Chiesa”.
Già da tempo, infatti, in moltissime chiese le donne leggono durante le celebrazioni e le bambine (soprattutto) svolgono il servizio di ministranti. Tuttavia questi ruoli venivano svolti, come ricorda anche Vatican News, senza un mandato istituzionale vero e proprio, in deroga a quanto stabilito da san Paolo VI, che nel 1972, pur abolendo i cosiddetti “ordini minori”, aveva deciso di mantenere riservato l’accesso a questi ministeri alle sole persone di sesso maschile perché li considerava propedeutici a un eventuale accesso all’ordine sacro.
Francesco, invece, recepisce quanto richiesto anche da diversi Sinodi dei vescovi e menzionando il documento finale del Sinodo per l’Amazzonia osserva come “per tutta la Chiesa, nella varietà delle situazioni, è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne... È la Chiesa degli uomini e delle donne battezzati che dobbiamo consolidare promuovendo la ministerialità e, soprattutto, la consapevolezza della dignità battesimale”.
Ministero istituito, non ordinato
Come sottolinea il Papa nella Lettera che accompagna il motu proprio, al cardinale Ladaria Ferrer prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il lettorato e l’accolitato sono ministeri “istituiti”, cioè affidati con atto liturgico del vescovo, dopo un adeguato cammino, «a una persona che ha ricevuto il Battesimo e la Confermazione e in cui siano riconosciuti specifici carismi». Sono altro rispetto ai ministeri “ordinati”, che hanno invece origine in uno specifico Sacramento: l’Ordine sacro. Si tratta dei ministeri ordinati del vescovo, del presbitero, del diacono.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA:"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO: Karol J. Wojtyla ha compreso il "segreto" delle due persone che gli hanno dato la vita (il padre di religione cattolica e la madre di religione ebraica) e, al di là della loro identità e differenza, ha ritrovato l’Arca dell’Alleanza d’Amore ("Charitas") dei "due cherubini". Per questo ha potuto ri-illuminare il mondo e ri-unificare l’intera umanità intorno a sé, non per altro e non - confondendo Dio-Mammona ("caritas") con Dio-Amore ("charitas") - per negare e uccidere addirittura l’Altro!!! (Federico La Sala, 08.02.2008).
FLS
Cei. Alla scuola della Buona Notizia. “Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano”
“Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano” pubblicato dalla Cei, strumento al servizio della Parola
Nell’opera il testo neotestamentario greco è presentato con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti
di Riccardo Maccioni *
Nel segno dello studio, della conoscenza, del dialogo. Soprattutto nel segno della Parola, che diventa preghiera, vita spirituale, servizio, faro della comunità. La pubblicazione de “Il Nuovo Testamento greco latino italiano” non riguarda infatti solo gli specialisti ma, nella ricerca di una sempre maggiore fedeltà alle fonti, si propone anche come sostegno a un cammino di fede maturo.
Per tutti. Dal parroco che prepara l’omelia domenicale, al credente forse un po’ più preparato della media e desideroso di approfondire la Buona Notizia. Il volume (1854 pagine su carta Bibbia avoriata, 80 euro) è pubblicato dalla “Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena” della Conferenza episcopale italiana. A curarlo il cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze e Valdo Bertalot già segretario generale della Società Biblica in Italia.
Un’opera importante che riporta il testo del Nuovo Testamento greco con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti: The Greek New Testament-5th Revised edition/GNT (Deutsche Bibelgesellschaft DBG, 2014, con relativo apparato critico-testuale), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera/NV (Libreria Editrice Vaticana 1986 con relative note), La Sacra Bibbia-Versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana/Cei 2008 con relative note.
Il nostro lavoro - spiega Bertalot - si caratterizza per alcune significative novità. Sotto il profilo editoriale «rappresenta, fatta eccezione per quella della DBG, l’unica pubblicazione che riporta il testo greco insieme all’intero apparato di critica testuale del GNT frutto di un comitato editoriale internazionale e interconfessionale». Inoltre «è la prima volta che una Conferenza episcopale nazionale presenta ufficialmente il GNT e la propria versione ufficiale della Bibbia arricchita dal testo con valore normativo della Nova Vulgata». C’è poi da sottolineare l’aspetto più prettamente ecumenico del lavoro, nel solco di un percorso iniziato con la stagione conciliare. Una dimensione - prosegue Bertalot - che «investe pienamente la collaborazione fra le diverse confessioni cristiane per lo studio della Bibbia, per la sua traduzione e trasmissione nell’opera missionaria di annuncio della Parola di Dio». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare, quantomeno da non sottovalutare, e riguarda il dato per così dire “temporale” della pubblicazione. Il Nuovo Testamento trilingue esce infatti in parallelo alla Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” scritta da papa Francesco per il XVI centenario della morte di san Girolamo cui si deve la celebre, fulminante espressione: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est». L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.
Un “monito” ricordato dal cardinale Betori durante la presentazione, il 29 ottobre scorso, dell’opera al Papa, nella speranza «che possa essere uno strumento per far crescere la conoscenza di Cristo, perché, come da lei auspicato, ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita».
IL PADRE NOSTRO (Matteo 6,8-13)
9 Voi dunque pregate cosi: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volonta, come in cielo cosi in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
9 Sic ergo vos orabitis: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,
10 adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie;
12 et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
13 et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a Malo.
PIÙ GRANDE E’ LA CARITÀ
(1 Corinzi 13, 1-6)
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio,
5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
2 Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum.
3 Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest.
4 Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur,
5 non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum,
6 non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati;
7 omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
DA SAPERE Lo scorso 29 ottobre la consegna al Papa
Il “Nuovo Testamento greco latino italiano”, è pubblicato dalla Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di un ampio volume (1854 pagine su carta avoriata) che presenta il testo greco con a fronte quello italiano e latino nelle recenti autorevoli edizioni: “The Greek New Testament-5th Revised edition” (Deutsche Bibelgesellschaft o DBG 2014), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera (Libreria editrice vaticana 1986), La Sacra Bibbia versione ufficiale della Cei (Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2008)). La pubblicazione si apre con una ricca presentazione di A. Kurschus, praeses della Chiesa evangelica della Westfalia e presidente della DBG, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze, quest’ultimo curatore dell’opera insieme a Valdo Bertalot, già segretario generale della Società Biblica in Italia che firma invece la prefazione.
A completare il libro anche introduzioni specifiche per ogni lingua del testo, sei diversi indici e quattro carte geografiche sul mondo biblico. Il Nuovo Testamento trilingue è stato consegnato il 29 ottobre scorso al Papa di cui richiama, nella presentazione, la Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” dedicata, nel XVI centenario della morte, a san Girolamo, definito dal Pontefice «infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura». Un amore alla Bibbia che Francesco sottolinea attraverso l’immagine spesso associata al santo di “Biblioteca di Cristo. Una biblioteca perenne - spiega Francesco - che continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Gesù, «indissociabile dall’incontro con la sua Parola». La distribuzione dell’opera è curata direttamente dalla Libreria Editrice Vaticana (Via della Posta, 00120 Città del Vaticano; email: commerciale.lev@spc.va; sito: https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/).
* Avvenire, sabato 9 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
L’udienza.
Il Papa: diciamo "grazie" e il mondo sarà migliore
Da Francesco l’esortazione a non valutare il 2020 solo attraverso le sofferenze e i limiti causati dalla pandemia. La vicinanza ai terremotati della Croazia e la preghiera per le vittime
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
"Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza". Lo ha detto papa Francesco nell’udienza generale, l’ultima del 2020, che ha dedicato alla "preghiera di ringraziamento".
"Il mondo ha bisogno di speranza - ha affermato il Pontefice, nella catechesi trasmessa in streaming dalla Biblioteca del Palazzo apostolico -, e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dare grazia, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito e legato, e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova".
Ricordando il racconto evangelico dei dieci lebbrosi che incontrano Gesù, il Papa ha osservato che esso, "per così dire, divide il mondo in due: chi non ringrazia e chi ringrazia; chi prende tutto come gli fosse dovuto, e chi accoglie tutto come dono, come grazia". "Il Catechismo scrive: ’Ogni avvenimento e ogni necessità può diventare motivo di ringraziamento’ (n. 2638) - ha proseguito Francesco -. La preghiera di ringraziamento comincia sempre da qui: dal riconoscersi preceduti dalla grazia".
"Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; siamo stati amati prima che imparassimo ad amare; siamo stati desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio. Se guardiamo la vita così, allora il ’grazie’ diventa il motivo conduttore delle nostre giornate. Grazie, e tante volte dimentichiamo, abbiamo paura di dire grazie".
Eucaristia vuol dire ringraziamento
Il Pontefice ha anche ricordato che "per noi cristiani il rendimento di grazie ha dato il nome al Sacramento più essenziale che ci sia: l’Eucaristia. La parola greca, infatti, significa proprio questo: ringraziamento". "I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è anzitutto aver ricevuto - ha sottolineato -. Ricevuto la vita. Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita. E questo è solo il primo di una lunga serie di debiti che contraiamo vivendo. Debiti di riconoscenza".
"Nella nostra esistenza, più di una persona ci ha guardato con occhi puri, gratuitamente - ha aggiunto -. Spesso si tratta di educatori, catechisti, persone che hanno svolto il loro ruolo oltre la misura richiesta dal dovere. E hanno fatto sorgere in noi la gratitudine. Anche l’amicizia è un dono di cui essere sempre grati".
Secondo Francesco, con il "grazie", "che dobbiamo dire continuamente", manifestiamo "la certezza di essere amati"."Questo è il nocciolo - ha affermato -: quando tu ringrazi esprimi la certezza di essere amato, e questo è un passo grande, la certezza di essere amato. È la scoperta dell’amore come forza che regge il mondo. Dante direbbe: l’Amore ’che move il sole e l’altre stelle’". "Cerchiamo di stare sempre nella gioia dell’incontro con Gesù - ha concluso -. Coltiviamo l’allegrezza. Invece il demonio, dopo averci illusi, con qualsiasi tentazione, ci lascia sempre tristi e soli".
Un anno difficile, ma non valutiamo solo le sofferenze
Al momento dei saluti ai fedeli di lingua tedesca, il Papa ha osservato: "Alla fine di questo anno difficile, siamo forse tentati di vedere anzitutto ciò che non era possibile fare e ciò che ci mancava. Ma non dimentichiamo le tante, innumerevoli ragioni per cui ringraziare Dio e i nostri vicini. Vi auguro di cuore la gioia che nasce dalla gratitudine!".
E salutando i fedeli polacchi ha aggiunto: "Avvicinandoci alla fine di quest’anno, non lo valutiamo solo attraverso le sofferenze, le difficoltà e i limiti causati dalla pandemia". "Scorgiamo il bene ricevuto in ogni giorno, come pure la vicinanza e la benevolenza degli uomini, l’amore dei nostri cari e la bontà di tutti coloro che ci circondano. Ringraziamo il Signore per ogni grazia ricevuta e guardiamo con fiducia e con speranza al futuro, affidandoci all’intercessione di San Giuseppe, patrono dell’anno nuovo. Sia per ciascuno di voi e per le vostre famiglie un anno felice e pieno di grazie Divine".
Vicinanza ai terremotati della Croazia
Al termine dell’udienza Francesco ha ricordato: "Ieri un terremoto ha provocato vittime e danni ingenti in Croazia. Esprimo la mia vicinanza ai feriti e a chi è stato colpito dal sisma, e prego in particolare per quanti hanno perso la vita e per i loro familiari. Auspico che le autorità del Paese, aiutate dalla comunità internazionale, possano presto alleviare le sofferenze alla cara popolazione croata".
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
Idee.
Basta col mercato, torniamo alla società
Escono due volumi di Karl Polanyi, economista e pensatore mitteleuropeo che ha sempre difeso il primato dei legami sociali sulla macchina del capitale. La crisi attuale lo riporta in auge
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 5 novembre 2020)
«Non appena le attività quotidiane dell’uomo si sono organizzate attraverso mercati di vari tipi, basati sui moventi del profitto, determinati da atteggiamenti competitivi, e governati da una scala di valori utilitaristici, la società diviene un organismo che è, sotto tutti gli aspetti essenziali, sottoposto a fini di guadagno. Avendo così assolutizzato il movente del guadagno economico nella pratica, l’uomo perde la capacità di tornare a relativizzarlo mentalmente. La sua immaginazione è costretta entro vincoli che ne limitano le capacità». Scrive così lo storico dell’economia Karl Polanyi (1886-1964) nelle pagine iniziali di La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche (pp. 374, euro 25), finalmente ripubblicato dall’editore Mimesis dopo decenni di assenza dalle librerie.
Non bisogna farsi trarre in inganno dal titolo. Non si tratta di un ozioso viaggio fine a se stesso nel passato. È invece una ricostruzione del vivere insieme in società in cui il mercato ancora non regola in modo onnipervasivo le relazioni sociali. Allora, per usare il termine impiegato da Polanyi, il mercato era ancora incastrato nella società, e non il contrario, vale a dire la società incastrata nel mercato e sottoposta alle sue regole come accade nelle società di mercato, cioè le nostre.
La svolta accade al tempo della Grande trasformazione, descritta nell’omonimo capolavoro preparato tra gli anni 1940 e il 1943. Con l’industrializzazione del XIX secolo si assiste all’imporsi di una mercificazione totale, in cui gli uomini si trovano separati dal loro ambiente naturale e dalla loro capacità di lavoro autonomo. «Il passo cruciale - scrive Polanyi in La sussistenza dell’uomo - fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (come la terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (come il lavoro)».
Per studiare questo capovolgimento Polanyi adotta un metodo di ricerca storica che spaesa gli specialisti di oggi. Egli attinge conoscenze dall’economia, dalla filosofia, dalla storia e dell’antropologia, abbracciando un arco temporale enorme, dall’antichità ai tempi a lui contemporanei.
Lo studioso dell’economia, nato a Vienna ma di origini ungheresi, è un maestro nelle ricerche a lungo termine, come mette bene in luce Mirella Giannini, nel recente Karl Polanyi (pp. 86, euro 10) appena pubblicato da Jaca Book, che oltre a un’agile antologia di testi tratti dai lavori più rilevanti dello storico dell’economia offre una preziosa introduzione al suo pensiero seppure declinata in termini di decrescita. -Dall’antologia di testi scelti dalla docente dell’Università Federico II di Napoli trova conferma quanto scrisse una volta un allievo di Polanyi, George Dalton. Egli riconosceva quanto sia impegnativo seguire il cammino di ricerca del suo maestro che passa dallo studio dell’Inghilterra ai tempi di David Ricardo all’indagine delle isole Trobriand di Bronislaw Malinowski per poi tuffarsi nella Germania di Hitler.
Ma costa ancora di più seguire lo storico dell’economia di origine mitteleuropea lungo i sentieri che dalla Babilonia di Hammurabi lo conducono alla Grecia di Aristotele per poi inoltrarsi nel Dahomey del XVIII secolo. Non si tratta di sfoggio di erudizione ma dello sforzo realizzato per mettere in luce come il mercato non sia un “dato” naturale, ma un’istituzione e dunque un’“invenzione” che a partire dal XIX secolo diventa il principio regolatore dell’intera vita.
«La fondamentale dipendenza dell’uomo dalla natura e dai suoi simili per assicurarsi i mezzi necessari per la sua sopravvivenza - ammonisce Polanyi -, fu posta sotto il controllo di quella nuova creazione istituzionale estremamente potente, il mercato, che si sviluppo repentinamente da modeste origini. Questo congegno istituzionale che divenne la forza dominante dell’economia dette poi origine ad un altro sviluppo, anche più radicale, e cioè ad un’intera società incorporata nel meccanismo della sua stessa economia: una società di mercato». Come riconosce bene Giannini «l’economia di mercato, attraverso il farsi istituzione autonoma si costituisce in principio che ordina la società e la trasforma nelle sue strutture relazionali. Questo principio che si fonda sul dis-incastramento istituzionalizzato, ma anche sulla sottomissione funzionale della società all’economia, si costituisce in narrazione del mercato come ordine naturale e razionale, e in una cultura economicista che finisce per avere una reale forza con conseguenti reali poteri nell’intera società».
Non è però detta l’ultima parola perché la socialità per Karl Polanyi costituisce il propriuminestirpabile dell’uomo che gli lascia, anche nelle società di mercato, la possibilità di costruire un mondo nuovo in cui la regola non sia la scarsità ma la comunione dei beni e dove vita e lavoro siano di nuovo uniti al legame sociale e non alla logica del profitto.
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
L’anima e la cetra /29.
Con lo stesso nome di Dio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 17 ottobre 2020)
In alcune regioni italiane, e tra queste la mia, in certi dialoghi intimi le madri e i padri chiamano il figlio e la figlia con il loro stesso nome. Gli dicono: "Dai, mamma, fai il buono", "Ma quanto sei brava, babbo". Lo dicono ai bambini, ma a volte continuano a chiamarli così anche da adulti. Non è scritto in nessun libro di grammatica, non lo si impara a scuola. Lo ripetiamo perché lo abbiamo sentito dai nostri genitori, in giorni meravigliosi. Sono parole diverse assimilate per osmosi, e poi trasmesse da una generazione a un’altra, parte di quella trasmissione dell’essenziale della vita. Sono tra le parole più belle nei dialoghi del cuore, in quei tu-a-tu delicati e segreti, che contengono tutta la tipica e unica tenerezza che scorre tra genitori e figli, che nutre gli uni e gli altri, sempre, ma soprattutto nei momenti delle grandi gioie e dei grandi dolori.
La Bibbia ci dice che il primo che ci ha chiamato con il suo stesso nome è stato ed è Dio, quando ci ha creato "a sua immagine e somiglianza". Dicendoci disse se stesso, e ripete il nostro nome in ogni attimo. Perché se da una parte il Dio biblico è la divinità più trascendente e diversa di tutte, dall’altra non c’è nulla sulla Terra che gli assomigli più di un essere umano, non c’è cuore più simile al suo del nostro, non c’è nome che più del nostro abbia lo stesso suono del suo. La Bibbia ebraica ci ha tolto l’immagine di Dio, ma ci ha donato una meravigliosa immagine di uomo e di donna: nascondendoci il volto di Dio ha esaltato il nostro volto. E allora ogni volta che si ama e si rispetta il nome di un uomo o di una donna si sta amando e rispettando anche il nome di Dio; e, per la legge di reciprocità, ogni volta che un uomo prega e loda il nome di Dio sta pregando e lodando l’umanità intera, ogni uomo e ogni donna.
Nasce qui lo sguardo positivo che la Bibbia, con tenacia e resilienza, ha sugli uomini e sulle donne. Ne vede i limiti, i peccati, gli omicidi e i fratricidi, ma prima e soprattutto ne vede l’immagine di Dio riflessa, non è capace di uscire dall’Eden. Vede i molti gesti degli uomini, ma prima continua a vederlo nel suo dialogo con Elohim sul finire del giorno. Come le madri e i padri, che anche quando la vita porta i loro figli a fare cose brutte e pessime, per salvarsi e salvarli continuano a sognarli bambini puri e bellissimi, a chiamarli fino alla fine "babbo" e "mamma", anche dentro le carceri. Tra la fede, la speranza e l’agape c’è lo stesso tipo di rapporto che lega le tre Persone divine: in ognuna ci sono le altre due, ciascuna è rivolta contemporaneamente verso le altre, è impossibile separarle senza distruggerle tutte. E così nei Salmi, pur popolati da sentimenti di tristezza, di delusione e di dolore, più forte e più grande è lo sguardo di speranza-fede-amore che domina l’intero Salterio, che lo rende forse il libro più bello di tutti, perché il libro più capace di parlarci di paradiso dagli inferi, di speranza dentro la disperazione, di bellezza in mezzo alla bruttezza.
La forza dei Salmi sta nella loro verità. Un inferno vero è preferibile a un paradiso finto, perché finché chiamiamo l’inferno col suo vero nome possiamo sempre desiderare un paradiso, che invece non desideriamo più se pensiamo di averlo già raggiunto: «Alleluia. È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode. Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele; risana i cuori affranti e fascia le loro ferite... Intonate al Signore un canto di grazie, sulla cetra cantate inni al nostro Dio» (Salmo 147,1-7). È bello cantare inni al Signore. È bello e buono lodare YHWH, è bello e buono per Dio ma è bello e buono anche per noi. Il salmo inizia con una lode della lode. È il momento di auto-coscienza dell’orante, che arriva (se arriva) quando ci rendiamo conto che il primo premio della lode è prendere coscienza della sua bellezza e del suo dono intrinseco. Quando scopriamo che noi preghiamo per lodare Dio, ma mentre cantiamo sentiamo che è Dio che sta lodando e cantando noi. Noi diciamo il suo nome e un giorno sentiamo che in realtà è Dio che sta dicendo il nostro, e che nel nostro nome dice il nome di tutti, il nome di ogni creatura, il nome delle stelle e dell’universo intero. Ed è meraviglia. E mentre cerchiamo le parole e le note più belle e alte per lodare Dio stiamo anche imparando le note e le parole più belle per lodarci gli uni gli altri. Forse non c’è stata una parola splendida pensata per dar lode a Dio che qualche poeta non abbia usata anche per una persona amata, e forse non c’è poesia d’amore che qualcuno, in un altro giorno, magari senza saperlo, ha usato per cantare Dio. Anche tutto questo è immagine e reciprocità. Benedicendo gli umani abbiamo imparato a benedire Dio, e benedicendo Dio stiamo già benedicendo uomini e donne, anche se non lo sappiamo.
L’essere immagine del Creatore rende immediatamente la nostra lode a Dio una lode cosmica: «Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome... Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti, provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano» (147,4;8-9). Essere immagine di Elohim ci rende più grandi della sola immagine umana. Sentiamo fin da piccoli una profonda fraternità cosmica - solo i bambini sanno sentire veramente fratelli e sorelle i gatti e gli uccellini, i fiori e le foglie -, dovremmo riuscire a non perderla invecchiando e se la vita funziona questa grande fraternità cresce con noi, e si conclude con il canto per sorella morte.
La fraternità inter-umana non ci basta, è troppo piccola sebbene già immensa. Perché la fraternità e sororità umana siano autentico umanesimo, dobbiamo imparare a sentire sorelle anche le stelle, il sole, gli uccellini, la natura intera - ci sono pochi canti (se ce ne sono) più biblici del Cantico di Francesco. Molto bello e delicato è qui il riferimento ai «piccoli del corvo che gridano». In questo verso ci sono i corvi che nutrivano Elia nella sua fuga (1 Re 17,6), ma ci sono anche gli uccellini del nido guardati dalla Legge di Mosè, che comanda di non catturare la madre-uccello che cova le sue uova o custodisce i suoi piccoli, di lasciarla volare via, «perché tu sia felice e goda lunga vita» (Dt 22,7). Una Legge di YHWH che scruta anche dentro un nido di uccelli, e poi pone una equivalenza che a noi può apparire ardita e stupenda. La promessa riservata a chi lascia volar via la madre senza catturarla è la stessa promessa del Quarto comandamento, Onora tuo padre e tua madre: «Perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice» (Dt 5,16).
Nella Bibbia tutto è creazione: tutto è figlio. Dio guarda così il mondo, è così che ci guarda, e noi, sua immagine, impariamo a guardare il mondo nello stesso modo, anche se ancora tutta la creazione "geme ed è in travaglio", perché "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19-23). Tutta la creazione geme e attende di essere guardata finalmente così. Mai come in questi anni di crisi ambientale e di distruzione del pianeta siamo nelle condizioni di poter capire i Salmi e quel misterioso passaggio di Paolo ai Romani: la terra soffre e attende che gli uomini finalmente si rivelino per quello che sono, che si comportino con essa da figli, e immagine, di Dio creatore e padre.
Il Salmo 147 si distingue poi anche per il suo essere un canto civile. Non ci sono né sacerdoti né re, non è menzionato Davide né si allude al tempio. Sono i cittadini a elevare il loro canto, coloro che conoscono i tempi e i ritmi delle stagioni e del lavoro, il valore della pace e del pane quotidiano. Un salmo molto amato da sempre dai contadini: «Dio ha messo la pace sulle tue frontiere, e ti sazia con fior di farina... Invia la neve come lana e sparge come cenere la brina, i suoi ghiacci formano blocchi: chi potrà reggere tanto gelo? Invia un ordine: ecco il disgelo, soffia il suo alito e scorrono le acque» (139,14-18). Tutta la terra è avvolta da uno sguardo buono, tutto è retto da provvidenza.
Dopo averci donato fin qui parole bellissime su Dio e su di noi, il Salmo termina lodando direttamente la parola, e l’Alleanza e la Legge che ne sono il culmine (147,19-20). La parola è vista come un messaggio inviato per noi, una intelligenza che ci fa scoprire l’ordine e il senso della creazione: «Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce» (147,15). La parola è anche logos, è ragionamento e ordine. Israele ha stimato la parola in una misura altissima e per noi oggi incomprensibile. Ne ha fatto esperienza straordinaria con i Patriarchi, con Mosè e i profeti - "... e c’era soltanto una voce". Dovendo rinunciare all’immagine di Dio ha maturato una immensa competenza sulla parola, ha dovuto imparare a disegnare Dio con le parole, ha scoperto le mille dimensioni nascoste dentro la parola biblica e nelle parole umane. Una grande povertà produsse una ricchezza infinita. Forse non avremo la straordinaria tradizione letteraria occidentale senza questa parola biblica privata delle immagini, che la costrinse a diventare immagine senza diventare idolatria.
Quando Giovanni scrisse il Prologo del suo Vangelo, uno dei brani più geniali della storia, aveva in mente molte cose, ma certamente pensava alle parole dei Salmi, a quel logos capace di benedire l’uomo mentre benediceva e lodava Dio. Nel dirci che quel logos si era fatto carne, che era diventato uomo come noi, ci ha detto molte cose e tutte stupende, e ci ha chiamato ancora con lo stesso nome di Dio. E continua a chiamarci così ogni giorno.
Becciu è il malfattore e il Papa l’innocente tradito? La realtà è un po’ diversa
di Marco Marzano (da ilfattoquotidiano.it)*
Gigantesche e oscure speculazioni finanziarie spesso finite malissimo, violentissime rivalità interne tra gerarchi in tonaca disposti a tutto pur di far del male al proprio rivale, imprenditori e finanzieri di dubbia reputazione e in qualche caso in odor di mafia divenuti negli ultimi anni abituali frequentatori delle stanze vaticane e lì ricoperti di denaro. Se giudicata dai fatti che emergono dalle cronache di questi giorni e non dalle parole delle encicliche o dei documenti pontifici, la chiesa “povera e per i poveri” annunciata da Francesco appare poco di più di una felice immagine retorica, di una formula buona forse per ottenere il plauso di qualche “ateo devoto” in cerca di identità, ma certo inadatta a descrivere il modo in cui la Chiesa agisce concretamente nel mondo.
Insomma, la Chiesa di Roma predica bene e razzola malissimo e usa molti dei denari che i poveri, direttamente o indirettamente, le donano per arricchire prelati di corte, faccendieri vari e le famiglie di tutti costoro.
Quello che non convince nelle ricostruzioni giornalistiche di queste vicende è però l’individuazione delle catene di responsabilità. Sempre in casi come questo l’attenzione della pubblica opinione viene giustamente puntata in alto, in direzione del vertice dell’organizzazione, verso i capi, che non potevano non sapere. Qui invece è bastato che papa Francesco, guarda caso proprio pochi giorni prima della pubblicazione della prima inchiesta giornalistica, licenziasse brutalmente e degradasse il cardinal Becciu, implicitamente additandolo al pubblico ludibrio come traditore, perché tutta la stampa che conta si precipitasse sul cadavere politico dell’alto gerarca per sbranarne quel che resta, per dipingerlo come il più sordido dei criminali, come un infido malfattore fattosi strada con l’astuzia nelle segrete stanze per appropriarsi dei suoi tesori.
Non manca giorno che non si apprenda di qualche nuova pista, invero mai approfondita e mai corredata da solide prove di colpevolezza, che porta ad arricchire il catalogo dei crimini di costui. Il fatto che il papa lo abbia solo due anni fa promosso prefetto (cioè capo) della congregazione dei santi e soprattutto nominato cardinale non ha, per la stampa, nessun rilievo. Becciu è diventato ormai il sinonimo di Giuda, capace, per qualche denaro, di vendere l’immacolato e purissimo successore argentino di Pietro. Giorno dopo giorno cadono con lui nella polvere altre figure, ma la loro disgrazia non fa che esaltare, nelle cronache, il candore della veste papale, l’innocenza tradita del Santo Padre. Più costoro sono meschini più lui appare diverso da tutti, unico e puro.
E’ lo schema usato in altre circostanze storiche per descrivere il rapporto tra i sovrani e la loro corte, tra i dittatori e il loro seguito. “Il re e è puro e ama il suo popolo - questo è l’adagio - ma i perfidi cortigiani tramano alle sue spalle e approfittano della sua immensa bontà per compiere il male”. Oppure “il duce è onesto, sono i suoi collaboratori ad essere corrotti”. E’ questo anche lo schema adoperato all’inizio di Tangentopoli da quei leader politici che cercavano disperatamente di scaricare tutte le responsabilità degli affari illeciti dei loro partiti sui “mariuoli”, sui segretari amministrativi, su chi gestiva i cordoni della borsa.
Ho il sospetto che la realtà sia un po’ diversa. La Chiesa Cattolica è la più centralizzata e gerarchica delle istituzioni esistenti. Il monarca che la guida è dotato di poteri immensi e assoluti e la curia è il principale apparato organizzativo al suo diretto servizio.
Se così stanno le cose, i casi sono due: o Bergoglio si trova nella stessa posizione che fu di Ratzinger e ha perso completamente il controllo della situazione e allora siamo di fronte ad un vuoto di potere che immaginiamo sarà colmato al più presto (casomai grazie a un gesto di responsabilità, un autopensionamento del monarca) oppure il papa regna e governa a tutti gli effetti e allora qualche responsabilità l’avrà anche lui nelle vicende di cui sopra.
Quel che in ogni caso sarebbe bello sentirgli dire è che, per risolvere il problema alla radice, andrebbe direttamente soppressa la curia romana, che la struttura di governo accentrata e autoritaria ereditata dall’impero romano non funziona più, che non ha senso che un’organizzazione religiosa amministri una tale quantità di denaro e che lo investa cercandone di fare profitti, che è venuto il momento per delegare poteri, risorse e responsabilità alle periferie, facendo seguire una volta tanto alle parole i fatti. Sarebbe bello. Ma temiamo di dover aspettare ancora qualche secolo.
* MicroMega, 14 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
“Fratres omnes” - fratelli e sorelle tutti
A chi si rivolge Francesco d’Assisi nell’incipit della nuova enciclica
di Niklaus Kuster (Vatican-News, 22.09.2020)
Ancor prima che la terza enciclica di Papa Francesco sia firmata ad Assisi e che ne venga pubblicato il testo (1) si è scatenato un dibattito sul suo titolo. Nell’area di cultura tedesca, ci sono donne che si propongono di non leggere uno scritto che si rivolge solo ai “fratelli tutti”. Le traduzioni poco sensibili ignorano che nell’opera citata Francesco d’Assisi si rivolge sia alle donne sia agli uomini. L’autore medievale sostiene, come la nuova enciclica, una fratellanza universale. Papa Francesco mette in luce una perla spirituale del Medioevo capace di sorprendere le lettrici e i lettori moderni. Una citazione di Frate Francesco
All’annuncio dell’enciclica, la reazione dei media è stata giustamente quella di chiedersi se Papa Francesco pone una citazione discriminante all’inizio della sua terza enciclica. Come è possibile che colui, le cui prime parole pubbliche dopo l’elezione sono state “fratelli e sorelle”, ora si rivolga solo ai “fratelli tutti”? Perché l’incipit escludendo le donne esclude metà della Chiesa? “Solo i fratelli - o cosa?”, domanda un contributo critico di Roland Juchem. Il direttore del servizio vaticano della KNA spiega che la nuova enciclica inizia consapevolmente con le parole del mistico medievale d’Assisi, che sono state tradotte fedelmente. Dal momento che Frate Francesco si rivolge ai suoi frati, l’espressione “omnes fratres” andrebbe formulata al maschile. Secondo tale logica, però, la traduzione corretta sarebbe “Frati tutti“! E allora il testo verrebbe letto solo da una minoranza infinitesimale nella Chiesa. Papa Francesco inizia la sua nuova enciclica con una massima di saggezza del suo modello. Chi con presunta fedeltà al testo insiste su una traduzione solo al maschile, non riconosce il vero destinatario della raccolta medievale: Francesco d’Assisi, con la composizione finale delle sue “ammonizioni”, si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani. Le traduzioni nelle lingue moderne devono esprimerlo in modo accurato e immediatamente comprensibile.
Raccolta di saggezze
Se l’enciclica Laudato si‘ nel suo incipit citava il Cantico di Frate Sole composto dal Poverello nella lingua volgare medievale, la terza enciclica del Papa rimanda a una raccolta delle sue massime di saggezza. La fonte utilizzata da Papa Francesco nelle edizioni moderne degli scritti francescani reca il titolo Admonitiones. -L’espressione “ammonizioni” è riduttiva, poiché i 28 insegnamenti spirituali comprendono anche numerose beatitudini, un breve trattato e perfino un cantico alla forza dei doni dello Spirito. L’edizione olandese di fatto preferisce parlare di “Wijsheidsspreuken” (massime di saggezza). L’essere indirizzate ai frati vale per la genesi delle singole massime, non per la successiva raccolta.
Quando i traduttori si basano sul fatto che tutte le edizioni standard degli scritti francescani in tutte le lingue del mondo traducono l’omnes fratres della massima citata nella forma maschile, colgono solo una mezza verità.
In altre parole: La traduzione letterale della frase latina non riflette il pieno significato che il testo intende esprimere nella sua forma finale!
Nell’edizione italiana delle Fonti Francescane, la sesta ammonizione inizia con le parole: “Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce”. Si può subito notare che l’immagine del pastore e del suo gregge utilizzata nel testo comprende l’intera Chiesa, e non solo una schiera di frati. Per riconoscere il destinatario finale della raccolta di testi citata dal Papa occorre distinguere tra la nascita delle diverse parti di testo e la loro composizione finale. In quest’ultima, la parola fratres si allarga dalla piccola cerchia della fraternitas francescana a tutta la Chiesa.
Dalla tessera del puzzle al quadro completo
La citata allocuzione proviene da una raccolta che riflette discussioni spirituali tra i frati Minori e le loro conclusioni maturate. La composizione complessiva allarga l’orizzonte oltre la cerchia iniziale. Le singole massime sono rivolte ai frati di Francesco, ai “religiosi” in generale e anche a tutte le persone al servizio di Dio (servi Dei).
Negli ultimi anni della sua vita, Francesco d’Assisi mise insieme 28 insegnamenti spirituali ben selezionati per formare un ciclo che conduce in un edificio spirituale e ricorda la “casa della Sapienza” biblica, con le sue “colonne intagliate”. Il numero simbolico 28 è composto da 4 x 7: il quattro indica il mondo e il sette la creazione di Dio, il 28 rappresenta simbolicamente la Chiesa come opera di Dio. Chi entra sotto un porticato allestito in modo artistico e si limita a guardare una sola colonna? In questo edificio spirituale sono invitate tutte le persone, senza eccezioni, e di fatto le singole parole nella raccolta sono rivolte a tutti.
Omnes fratres
In apertura della raccolta finale, la prima admonitio parla dell’eucaristia, ma si rivolge anche in modo programmatico a tutte le figlie i “figli degli uomini”: così, il testo latino nell’invitante breve trattato indica che l’orizzonte della speranza si apre su tutta la Chiesa e tutti i membri dell’umanità. Nel loro percorso attraverso la casa della Sapienza scopriranno un cammino verso una “vita che rende felici”. Di fatto, al centro di questo ciclo di lezioni spirituali, Francesco d’Assisi commenta beatitudini bibliche, anch’esse rivolte a tutte le persone, aggiungendovi dieci beatitudini proprie.
Papa Francesco non mette in luce un testo singolo, bensì un’intera raccolta di testi, definita già da Kajetan Esser la “Magna Charta” della fratellanza cristiana. Il sottotitolo dell’enciclica rende evidente che essa è rivolta, come il documento comune cristiano-islamico di Abu Dhabi sulla fratellanza universale, al di là della propria Chiesa all’intera umanità: Papa Francesco scrive “sulla fraternità e l’amicizia sociale”, che deve unire, senza alcuna esclusione, tutte le persone in un mondo solidale.
Da “frati” a “fratelli e sorelle”
La ragione per cui Papa Francesco con la sua visione fraterna dell’umanità fa giustamente riferimento al suo modello Francesco d’Assisi e pone una citazione fraterna all’inizio della sua enciclica può essere illustrato in breve. Gli scritti tramandati del santo contengono una raccolta di lettere, alcune delle quali sono rivolte a singoli frati (Leone, Antonio, responsabili del governo), altre all’intera fraternitas dei Minori e a tutti i fedeli. C’è però anche una lettera circolare che estende l’orizzonte all’universale e si rivolge “A tutti i podestà e ai consoli, ai giudici e ai reggitori di ogni parte del mondo, e a tutti gli altri ai quali giungerà questa lettera”. Nessun papa e nessun imperatore dell’alto Medioevo si è rivolto in modo così universale all’umanità.
Nella Regola del 1221, diretta ai suoi frati, Francesco inserisce un invito a tutta l’umanità che travalica ogni confine di nazione e religione: non solo i fedeli cristiani e non solo le persone impegnate a livello ecclesiale, bensì “tutti i popoli, genti, razze e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini d’ogni parte della terra, che sono e che saranno... tutti amiamo... il Signore Iddio”.
Il mistico allarga i propri orizzonti all’intera famiglia umana nella Regola specifica per i frati, pochi mesi dopo essere giunto in Egitto nella quinta Crociata e aver sperimentato in modo impressionante, attraverso l’incontro con l’islam, che è possibile trovare la saggezza spirituale e l’amore di Dio anche al di fuori della propria religione. La stessa apertura universale avviene anche con le sue massime di saggezza, che nelle Admonitiones vengono unite in un ciclo artistico di brevi lezioni.
Negli ultimi anni di vita, Francesco inserisce quelle che erano state parole di saggezza ai suoi frati in una composizione che si rivolge a tutti i fedeli. Il testo latino non richiede nessuna aggiunta o modificazione: l’espressione “fratres” usata per i frati comprende anche fratelli e le sorelle carnali o spirituali, come fanno ancora oggi “fratelli”, “hermanos” e “frères” nelle lingue latine. Oggi, le lingue germaniche invece distinguono tra “Brüder” (solo fratelli maschi) e “Geschwister” (fratelli e sorelle), e ugualmente tra “Brüderlichkeit” (senza le sorelle) e “Geschwisterlichkeit” (con le sorelle).
Similmente, l’inglese distingue tra “brothers” (unicamente maschile) e “siblings” (fratelli e sorelle), e tra “brotherhood” (spesso senza sorelle) e “fraternity” o “siblinghood” (che include tutti).
Dopo che all’inizio la prima ammonizione fa entrare tutti “i figli e le figlie dell’uomo” nella bella casa della Sapienza, tale destinatario universale deve essere riferito anche al fratres della sesta admonitio: si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani, e riguarda tutte le persone sulla terra.
Sulla nascita della fonte citata
Riguardo alla raccolta delle 28 Admonitiones, le ricerche francescane affermano quanto segue: i singoli testi tramandati dovrebbero condensare discorsi che in origine hanno trattato questioni relative alla vita spirituale e comune nell’ambito dei frati. Nel corso del tempo, alcuni colloqui sono stati riassunti per iscritto e messe in rilievo. È avvenuto così qualcosa di analogo a quanto è successo con i detti degli antichi padri e madri del deserto nella cerchia dei loro seguaci, tramandati in modo condensato negli Apophthegmata e nel Meterikon. Anche i singoli insegnamenti di Francesco sono stati annotati nelle situazioni più disparate da compagni capaci di scrivere e condensati nella loro essenza. Lui stesso, verso la fine della sua vita, ha unito questi risultati di discorsi comuni così raccolti in un’opera completa, nella quale i singoli insegnamenti hanno acquisito una nuova dimensione e un nuovo indirizzo.
Non a caso il primo insegnamento inizia con una citazione scritturale programmatica: “Il Signore Gesù disse a tutti coloro che lo seguono: Io sono la via, la verità e la vita”. I portali romanici delle chiese a volte invitano a entrare nell’edificio passando sotto una figura di Cristo nel timpano che presenta questa stessa citazione in un libro aperto.
Nell’edificio spirituale delle Admonitiones, dopo due insegnamenti preparatori, dieci massime di saggezza tracciano il cammino verso il luogo della cena. Ad esse seguono quattro beatitudini bibliche a altre dieci beatitudini francescane, prima che due insegnamenti conclusivi preparino al ritorno alla quotidianità. I singoli insegnamenti si uniscono così per comporre una casa spirituale della saggezza che assomiglia a una basilica: a sinistra della navata dodici colonne conducono, come “via della verità” verso l’area dell’altare, il cui baldacchino è sorretto da quattro esili colonne e definisce il luogo di comunione intima con Dio. Poi, sull’altro lato della navata, dodici colonne riconducono al portale e segnano la “via della vita”. Via - veritas - vita sono le chiavi della composizione di un’opera completa, le cui singole parole staccate dal contesto in cui sono nate, diventano un messaggio per tutti i cristiani, uomini e donne.
Chiunque fosse interessato alla raccolta delle Ammonizioni dalla quale Papa Francesco trae l’incipit della sua enciclica, troverà prossimamente un’analisi della composizione e del messaggio completo in una collana specializzata della PTH Münster.
Conclusione
Con l’incipit della sua terza enciclica, Papa Francesco rimanda espressamente a Francesco d’Assisi. Il patrono del suo pontificato parla di una fratellanza universale che, nel Cantico di Frate Sole, si estende a tutte le persone e a tutte le creature. Tra le lettere circolari del santo ce n’è una che si rivolge in modo universale a tutte le persone sulla terra. Perfino nella Regola dell’Ordine del 1221, composta per i frati francescani, egli si rivolge a tutte le persone e a tutti i popoli con un invito ad amare insieme il Dio unico.
La sesta admonitio citata dal Papa condensa, partendo dal contesto in cui è nata, i risultati di un discorso spirituale nell’ambito dei frati minori. L’insegnamento spirituale che ispira l’incipit della nuova enciclica viene però inserito da frate Francesco verso la fine della sua vita come una colonna nella “casa della Sapienza”, dove i capitelli sono ornati da sculture e corrispondono tra loro. A percorrere questo edificio spirituale non sono invitati solo i fratelli, bensì tutti i credenti e ogni persona sulla terra.
L‘ “omnes fratres” o “fratelli tutti” dell’enciclica va quindi tradotto come citazione di san Francesco in modo tale che tutti i cristiani, uomini e donne, si sentano coinvolti. Il destinatario della citata raccolta di testi va oltre “tutti i fratelli e le sorelle” che s’incontrano negli spazi ecclesiali reali e ideali, estendendosi a tutte le persone sulla terra.
Niklaus Kuster (1962) è un frate cappuccino svizzero, laureato in teologia e noto studioso di san Francesco. Insegna storia della Chiesa all’università di Lucerna e spiritualità francescana negli istituti superiori dell’ordine a Münster (PTH) e a Madrid (ESEF). Ha reso omaggio al profilo francescano di Papa Francesco nel suo libro: Franz von Assisi. Freiheit und Geschwisterlichkeit in der Kirche, (Verlag Echter) Würzburg 2019.
FILOLOGIA E MESSAGGIO EV-ANGELICO. LA BUONA (EU-) CARESTIA ...
EU-CHARISTIA (EUCARISTIA) ancora UGUALE A EU-CARESTIA?! Boh e bah?!
Per riflettere meglio sul tema, forse, può essere utile questa frase del prete di Genova, Paolo Farinella: "La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»".
Con l’/h/, si respira e si vive bene; senza l’/h/, si respira male e addirittura, senza cibo (nei tempi di una "buona" e "lunga" carestia!), il rischio di spirare e di emettere lo spirito è altissimo! O no?!
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Codrignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
« Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile : il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché « contro l’integrità e la sanità della stirpe » (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet : si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione « cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo : come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo ? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta ? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente ? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo ?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità ? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta : il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere ; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata : anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei : lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene ?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
L’anima e la cetra /22.
La civiltà della cicogna
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 29 agosto 2020)
Gratitudine è una parola essenziale. È parola prima nella famiglia, nelle comunità, meno nelle imprese moderne, dove la gratitudine con le sue parole gemelle riconoscenza e ringraziamento non trova lo spazio che meriterebbe a causa della sua fragilità. Gratitudine - da gratia, charis - è molto imparentata con il "grazie", una parola che impariamo dai genitori da bambini e che poi non esce più dai nostri rapporti. Anche quei "grazie" che diciamo, più volte al giorno, per rispetto delle norme sociali, portano qualche traccia della gratitudine, che però si manifesta più pienamente in altri "grazie", quelli attesi e desiderati, non pretesi. Sono quelli decisivi nei rapporti più importanti, quelle gratitudini delicate, più femminili che maschili, più sussurrate che dette, che arrivano nei momenti cruciali della vita. Il grazie di quel collega nell’ultimo giorno di lavoro, uguale e diverso da tutti gli altri, scritto nel biglietto con il regalo di addio. Quello dello studente con più difficoltà, che nell’ultimo giorno di scuola ti lascia sulla cattedra un post-it: "Grazie prof"; o quello che nel giorno della partenza da casa, per seguire una voce, non siamo riusciti a dire ai genitori perché rimasto strozzato in gola, e che poi molti anni dopo abbiamo scoperto essere simile a quei grazie ineffabili che vengono sussurrati ogni giorno nei capezzali.
Questa gratitudine ha nella gratuità la sua bellezza e il suo dramma. Non essendo un contratto, la gratitudine ha valore solo se gratuita (gratitudine e gratuità sono quasi la stessa parola). Ma contiene anche una dimensione di dovere e di obbligo. Perché se da una parte le qualità più preziose della gratitudine sono libertà e dono, dall’altra ci sono alcune gratitudini che quando mancano generano ingratitudine, una delle passioni più forti e portatrici di sofferenza. La gratitudine è infatti una forma della reciprocità (ri-ngraziare, ri-conoscenza), e quindi c’è in essa anche una dimensione di restituzione di qualcosa che si è avuto prima. La presenza dell’ingratitudine accanto alla riconoscenza rende il ringraziare un’esperienza complessa. Perché con la gratitudine siamo al centro della paradossale semantica del dono e della reciprocità, quindi di quelle emozioni e azioni che sono un intreccio di attese e pretese, libertà e obbligo, gratuito e doveroso. Non possiamo pretendere che prima del trasloco la vicina di casa ci inviti e ci dica grazie per le piante annaffiate per lei nelle molti estati passate, ma se non lo fa non siamo contenti, e quella ingratitudine rovina qualcosa d’importante in quel rapporto. E forse pochissimi aggettivi più di "ingrato" ci fanno male, se pronunciati dalle persone cui teniamo.
Come è vero che noi conosciamo veramente, riconosciamo le persone solo alla fine di un rapporto, quando si manifesta la loro capacità di riconoscenza - che a volte si estende anche oltre la vita: mi colpisce sempre vedere la fedeltà grata di molti e soprattutto molte donne che per anni, decenni, curano la tomba dei loro cari. Noi soffriamo molto per l’ingratitudine, anche perché c’è in ognuno la tendenza a sovrastimare il credito di riconoscenza nei confronti degli altri (e a sottostimare il proprio debito), e così siamo accompagnati da una costante sensazione di non essere ringraziati abbastanza. La gratitudine, poi, è un sentimento che ha bisogno della durata. Non nasce se non dentro rapporti stabili e durevoli. Si manifesta oggi ma è maturata ieri, e quindi è un esercizio della memoria: ricordando ciò che sei stato per me mi nasce ora in cuore la gratitudine. Ecco perché l’icona che accompagnava nell’antichità classica la raffigurazione della gratitudine era la cicogna, perché aveva fama leggendaria di prendersi cura dei genitori diventati vecchi.
La Bibbia insegna a coltivare ed esprimere la gratitudine anche verso Dio: «Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre» (Salmo 107,1). La comunità dei credenti è anche comunità di grati, perché comunità di salvati. Il Salmo 107 è infatti un canto di rendimento di grazie (ce ne sono molti nel Salterio) che nasce dall’esperienza della salvezza. Sono quattro i paradigmi di salvezza del salmo: dalla fame e sete («vagavano nel deserto su strade perdute... Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita»: 107,4-5), dalla prigione («Altri abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ferri... perché ha spezzato le sbarre di ferro»: 10-16), da malattie mortali («rifiutavano ogni sorta di cibo e già toccavano le soglie della morte. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce»: 18-19), dai pericoli in mare: «Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque... La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare» (23-29). E dopo ogni scena, quattro volte il ritornello di ringraziamento: «Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini» (15). È l’esperienza concreta della salvezza che genera il rendimento di grazie, che fa fiorire la gratitudine. Una salvezza concreta, da mali del corpo, che ricorda le salvezze del Gesù storico, che mentre annunciava una salvezza spirituale liberava le persone da mali concreti, sfamava e guariva. La salvezza che produce gratitudine è sempre puntuale, è sempre una resurrezione concreta.
La salvezza, parola decisiva nella Bibbia e poi nel cristianesimo, ha molto a che fare con la dinamica paradossale della gratitudine. Da una parte, sul lato di Dio, è tutta dono, non è spiegabile dentro un registro di condizionalità, di do-ut-des. No: siamo salvati e basta. La salvezza non è guadagnata dalle nostre virtù e meriti - forse dal nostro grido: «Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce» (107,13). La salvezza è risposta a un grido, ma non è risposta a un’azione che la giustifica: il grido è espressione di fede, e la giustificazione per quella salvezza è la fede (qui si vede, tra l’altro, quanto la teologia di san Paolo fosse ancorata nell’Antico Testamento). Ma è molto bello e consolante che in tutto questo Salmo gli uomini salvati non sono il popolo di Israele, non sono gli eletti: sono uomini e basta.
Questa salvezza è universale: basta gridare - e forse lo facciamo troppo poco. Al tempo stesso la Bibbia chiede al salvato la riconoscenza, lo invita a ringraziare Dio per la salvezza. Sta qui un altro grande senso della preghiera: non si prega solo (né tanto) per ottenere la salvezza (il grido biblico è una strana forma di preghiera), ma si deve pregare soprattutto per ringraziare. Lo stesso Gesù si mostra sensibile alla gratitudine e all’ingratitudine. Spesso le persone hanno imparato a pregare per dire grazie: non avevano chiesto nulla, hanno sperimentato una salvezza, e hanno ringraziato. E da quel ringraziamento è nata la preghiera.
La nascita più bella, tutta gratuità, liberata da ogni residuo di fede commerciale.
È difficile restare nella gratitudine, è arduo rimanere nella condi-zione di chi ringrazia perché sa che ciò che possiede è tutto dono, che la salvezza che sperimenta ogni giorno è tutta gratuità. È difficile soprattutto per l’uomo di fede. Perché, una volta sperimentata una salvezza e imparata la gratitudine, negli uomini (meno nelle donne) nasce progressivamente e naturalmente l’esigenza di volersi meritare le salvezze future, di sentire che nella salvezza che ci arriva ogni mattina c’è anche qualcosa di nostro, che abbiamo contribuito anche noi, che c’è una quota di co-finanziamento in quel mutuo dal valore infinito che ci viene offerto, che quella misericordia, quell’amore fedele (hesed) un poco ce lo siamo meritato. Così l’esperienza dell’"essere salvati" si trasforma, poco alla volta e senza rendersene conto, nel "salvarsi". E ogni volta che il salvarsi ruba terreno all’essere salvati si riduce inevitabilmente il valore della gratitudine.
È umano, è umanissimo. Perché a noi uomini non piace dipendere interamente dalla gratuità degli altri, ci piace conquistarci con il nostro sudore e i nostri meriti le nostre salvezze, amiamo troppo quella reciprocità dove ci si alterna nei movimenti del dare e dell’avere. Anche perché abbiamo visto quanta ingiustizia ha prodotto la mancanza di reciprocità, quanta diseguaglianza, quanti poveri tenuti in una condizione di perenne sudditanza per il fatto di dipendere interamente dai loro padroni.
L’idea di un Dio che ci dona tutto e da cui dipendiamo totalmente ha prodotto anche una teologia politica-economica che non ha certo aiutato i poveri a liberarsi dalla loro condizione di inferiorità, e una gratitudine sbagliata, unidirezionale e obbligatoria, che ha lasciato sull’Europa e sul mondo una sofferenza infinita. I riscatti dei popoli sono stati anche riscatti da queste teologie che avevano usato una certa idea di Dio per legittimare, sacralizzandole, strutture ingiuste di potere. Da qui il meraviglioso movimento civile, economico e politico che negli ultimi secoli ha voluto legare i diritti alla natura o a un patto sociale ugualitario originario, e gli stipendi al lavoro.
E mentre si svolgeva, e continua a svolgersi, questo grande movimento etico dei popoli, la Bibbia sta lì, fedele a se stessa, a ricordarci che queste logiche, essenziali e benedette nei rapporti inter-umani, non vanno applicate a Dio, che va tenuto al di sopra dai nostri meriti. Perché se manca un principio di gratuità assoluta nella fondazione della nostra vita a ricordarci che prima e dopo i meriti c’è un dono infinito, ogni meritocrazia diventa dittatura dei più forti sui deboli.
Il Dio biblico non ci ama perché ce lo meritiamo - o perché ce lo meritiamo più degli altri - ma perché siamo, semplicemente, suoi figli e figlie, e la figliolanza non è una relazione meritocratica, nonostante le proteste del figlio maggiore della parabola. Dobbiamo ringraziare, è questo il nostro dovere, ma il nostro dire grazie oggi non è la pre-condizione meritoria per essere salvati domani: Dio ci salverebbe ancora anche se fossimo ingrati. Sapere e ricordare questa gratuità assoluta di Dio ci dice, poi, che da qualche parte del nostro essere, fatto a sua immagine, siamo più grandi della reciprocità, e anche noi, almeno una volta, possiamo amare chi non non se lo merita, possiamo amare un ingrato.
La cicogna è anche colei che ci porta i bambini. Le civiltà della cicogna sono quelle che hanno saputo tenere insieme la gratitudine verso i vecchi e l’amore per i bambini. Questo lo sapeva bene il Quarto comandamento, che associa l’onora il padre e la madre al "prolungamento dei nostri giorni sulla terra". Solo i bambini sanno allungarci la vita.
L’anima e la cetra /21.
I fragili movimenti della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 22 agosto 2020)
La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. Sta in questa esposizione di colui che dà fiducia la radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero, anche quando passa attraverso semplici cose materiali. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel "qualcosa" che si deposita nelle mani dell’altro, nel "palmo della sua mano". Una vulnerabilità che ha anche un suo valore, ha delle proprietà tipiche che cambiano e in genere migliorano la natura di un rapporto. Mostrare all’altro la mia vulnerabilità, rendergliela intenzionalmente evidente, mentre ci rende più deboli ci rende anche più forti, grazie alla dimensione trasformativa della fiducia vulnerabile. La prima e più importante garanzia che chi ha ricevuto fiducia la onori sta nel suo sentirsi onorato dallo stesso atto di fiducia - troppi debiti non vengono onorati perché la nostra finanza invece di onorare il debitore lo umilia.
Se allora chi compie un atto di affidamento fa di tutto per ridurre e possibilmente annullare il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Se, ad esempio, nello scrivere un contratto ne definisco i dettagli fino a includere tutte le possibili situazioni future al fine di prevenirmi da ogni possibile uso scorretto di quella relazione fiduciaria, sto dando alla controparte un messaggio di sfiducia che cambia la natura del rapporto che stiamo costruendo. Molti rapporti si bloccano sul nascere perché la volontà di escludere futuri abusi crea un clima di diffidenza che impedisce al rapporto di incominciare. La fiducia invulnerabile non è un bene. Lo vediamo nei confronti di mogli e mariti, dei figli e delle figlie, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro (e loro di noi) senza avere garanzie perfette sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è reciproca, è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. Quando poi la fiducia riguarda alcuni rapporti decisivi della nostra vita, la relazione di fiducia assume una forma ternaria: ci sono io che ho fiducia in te, ci sei tu di cui mi fido, e c’è un terzo che si pone tra noi due come garante o testimone.
È soprattutto la dimensione ternaria o trinitaria della fede e della fiducia che colpisce nel celebre Salmo 91, una preghiera cara a molte tradizioni religiose: «Tu che abiti negli atri dell’Altissimo, che passi la notte all’ombra dell’Onnipotente. Dì al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido"» (Salmo 91,1-2). È molto bello questo "trialogo" tra il protagonista del Salmo (che forse stava passando la notte in un tempio in attesa di un oracolo in sogno), il suo Dio e un terzo che gli insegna la fiducia-fede.
La fede biblica ha essenzialmente una natura ternaria. Tra il fedele e il suo Dio c’è qualcuno che gli dice che si può fidare. Questo qualcuno è un profeta, è Abramo o Mosè, è la Torah, ma è anche il fratello o la sorella nella fede.
Il Salmo 91 non ci dice chi sia questo terzo personaggio che insegna la fede all’orante, e questo anonimato è molto bello perché quel "qualcuno" può essere qualsiasi persona, posso essere io, puoi essere tu. Non tutti abbiamo un profeta accanto a insegnarci la fede, ma tutti abbiamo una persona che ci può insegnare a credere e a fidarci. Una persona che ci dice: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno» (91,3-6). E noi rispondiamo: «Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!» (91,9): è il secondo movimento della fede, quando dopo aver creduto a chi gli ha insegnato la fede-fiducia, il credente fa la sua dichiarazione di fede. Questo movimento è secondo, perché prima c’è qualcuno che mi dona la fede - la fede finirà sulla terra quando l’ultimo credente smetterà di donarla a qualcuno.
Sta anche qui il senso e il valore della Tradizione: è la catena di persone che si sono insegnate la fede a vicenda, quella corda solidale spiegata nei secoli fatta di persone e di comunità che hanno imparato a credere in Dio credendo alle parole di persone, un dialogo continuo tra chi ci dice di fidarci, noi che rispondiamo con il nostro sì e poi diciamo ad altri di fidarsi delle parole nostre perché non-nostre. La fede biblica è credere in Dio credendo alle persone che ci parlano in suo nome mettendoci la faccia. È sempre esperienza comunitaria, un evento che accade in mezzo al popolo, è un rapporto di fiducia. A volte non siamo capaci di credere perché non siamo capaci di fidarci, e l’allenamento alla fiducia inter-umana è un’ottima preparazione alla fede. Chi non si fida di nessuno non crede neanche in Dio, chi si fida poco degli uomini si fida poco anche di Dio, e la fede diventa un atto cognitivo che non cambia la vita.
Infine il terzo movimento. Entra in scena Dio: «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza» (91,13-16). Nel formulare la sua promessa, Dio si espone alla possibilità del non avveramento di queste parole, perché la storia è un continuo spettacolo di persone fedeli e giuste che invocano e non hanno risposta, che non sono resi gloriosi, che conoscono il fallimento. E questo perché la fede biblica condivide la stessa vulnerabilità inscritta in ogni rapporto di fiducia vera, che è vera perché vulnerabile. Perché non abbiamo conoscenza diretta di colui di cui ci fidiamo, lo conosciamo solo "per sentito dire" (Giobbe), lo conosciamo perché lo abbiamo "sentito dire" da chi ci siamo fidati. Perché sia noi sia Dio cambiamo in continuazione, ogni mattina dobbiamo ricredere a quello che avevamo creduto fino a ieri notte - la fede è un atto di fiducia coniugato al presente. Una tappa decisiva della fede matura consiste nel prendere un giorno coscienza che quando pronunciamo la parola "Dio", la parola più bella, famigliare e intima, non sappiamo cosa stiamo dicendo - ma continuiamo a dirla, perché queste parole possono solo essere amate. Ecco perché all’inizio di alcune grandi vocazioni bibliche c’è un affidamento complicato: Mosè non vuole tornare in Egitto, Geremia recalcitra, Giona fugge, Samuele ha bisogno di quattro chiamate per dire "eccomi", Elia per rialzarsi e continuare il cammino dovette imparare a udire il silenzio e YHWH dovette imparare a sussurrare.
Se l’affidamento della fede non fosse rischioso e vulnerabile la fede non sarebbe un’esperienza autenticamente umana, e diventando credenti diventeremmo meno umani. E chi nella vita ha incontrato una voce che lo/la chiamava e ha risposto, sa che quel rischio è reale ed effettivo, perché sa che qualche volta anche le vocazioni autentiche vanno a male, si smarriscono, si perdono nell’immenso dolore (loro e di Dio). Non sappiamo perché anche le vocazione vere finiscono male. Il fallimento fa parte della condizione umana, e una vocazione infallibile sarebbe semplicemente disumana. Ed è questa possibilità che la fede-fiducia riposta in un mistero possa andar male che la rende esperienza umanissima, simile in dignità alla maternità, al nascere e al morire. La nostra fede è esperienza interamente umana per la sua dimensione tragica. Si può essere pienamente umani senza stimare la fede e chi crede, ma non si può credere senza stimare l’umanità, tutta, senza lasciare fuori nulla nel tragitto che porta dall’inferno al paradiso, e ritorno.
Questo Salmo fu citato da Satana, nell’episodio delle tentazioni di Cristo: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"» (Mt 4,5-6). Satana qui cita il versetto 12 del Salmo 91. E Gesù risponde a Satana ribadendo la natura di affidamento della fede biblica: «Sta scritto anche: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"» (Mt 4,7).
Un messaggio importante di questo splendido versetto che finisce sulla bocca di Satana è l’eccedenza della Bibbia rispetto ai suoi soli usi buoni. Anche il diavolo conosce bene e usa la stessa scrittura conosciuta e usata dagli evangelisti, a dirci che conoscere e citare la Bibbia non offre nessuna garanzia di vita, né di autenticità di dottrina. C’è un uso diabolico della scrittura, persino dei Salmi e della preghiera, al punto che Satana prende una delle preghiere più sublimi e alte del Salterio per tentare Gesù. L’uso della Bibbia di Gesù e quello di Satana coesistono dentro di noi - ne fossimo almeno coscienti!
Sta anche qui la vulnerabilità della Bibbia: le sue parole sono lì, esposte nella pubblica piazza del mondo, e chiunque le può usare per pregare, per amare meglio, per imparare a vivere; ma tutti le possiamo usare anche per maledire, per condannare, per tentare, per manipolare gli uomini e Dio, per bestemmiare. Anche Dio si fida di noi, ripone nel nostro cuore le sue parole, e noi possiamo tradirle.
Nell’inferno non c’è soltanto "pape satàn pape satàn aleppe", ci saranno forse anche parole bibliche abusate e violentate. Dio, scegliendo di farsi parola, di parlarci in parole umane, ha scelto di condividere la nostra fragilità. Anche in questo ci somiglia. È il quarto movimento della fede.
L’anima e la cetra /11.
È nostra la libertà più grande
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 giugno 2020)
«I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Salmo 19,2-5). I cieli narrano. La Bibbia è tutta parola, è tutta narrazione; è custode della parola di Dio detta in parole umane. È gelosa sentinella di racconti straordinari e diversi, dove le parole sono state capaci di dire l’indicibile, farci sognare Dio fino a quasi vederlo.
La Bibbia ha amato e venerato la parola, al punto di rischiare di farla diventare un idolo, violando il divieto d’immagine e di idolatria contenuto tra le sue pagine. Uno dei dispositivi teologici e poetici che le ha consentito di non diventare l’idolo più grande e perfetto è la presenza in essa di linguaggi di Dio non verbali. Della gloria di Elohim parlano, infatti, anche i cieli, il firmamento, il sole, la notte. Non siamo solo noi umani a parlare di Dio, non siamo i soli affidatari e trasmettitori di messaggi divini. La Bibbia ci dice che ci sono meravigliosi racconti di Dio scritti senza parole umane. Dio ci parla con la bocca e con le parole dei profeti, ci ha scritto lettere d’amore con lo stilo dello scrittore sacro, ha composto canti stupendi con la poesia e la cetra di Davide. La Bibbia però sa che il linguaggio umano non è l’unica lingua usata nei colloqui tra Elohim e noi - -«Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce». Narrazioni più antiche di quelle umane, che hanno risuonato attraverso l’universo prima che vi arrivasse l’uomo, e che continuano oggi a risuonare nelle galassie infinite; a dirci che quelle narrazioni sono anche per noi, ma non sono soltanto per noi: non siamo l’unico senso della creazione. I loro racconti gli astri non li scrivono soltanto per noi. Qui l’umiltà e la grandezza dell’Adam si incontrano e si armonizzano.
Ma nel momento in cui la Bibbia testimonia le narrazioni delle stelle e le riconosce come linguaggio di Dio, anche quel linguaggio non-verbale diventa parola di uomo che narra la non-parola di Dio. E il Salmo diventa un incontro di narrazioni: i cieli narrano all’uomo la gloria senza usare parole umane, e le parole umane, nel narrare queste narrazioni non-verbali, tramutano in parola ciò che parola non è. Stupendo. Allora quando leggiamo la sua parola più folle - «la parola si è fatta carne» - in quella parola dobbiamo includere anche le non-parole del sole, delle stelle, del cosmo - il verbo nella Bibbia sono tutte le parole della terra e tutte le "parole" del cielo.
Forse i primi racconti scritti dagli uomini sono stati tentativi di narrare i racconti della natura scritti senza parole. Come il bambino impara a parlare ripetendo le parole della madre, noi abbiamo imparato a parlare ripetendo le "parole" dei racconti delle stelle. Molti popoli antichi erano così affascinati da questo linguaggio cosmico da chiamare dèi il sole e le stelle. La Bibbia, invece, pone il suo Dio al di sopra degli altissimi astri. Gli astri non sono Dio, ma sue creature - i cieli narrano la gloria di Dio. Non sono portatori di un messaggio proprio, ma significanti di altri significati, anch’essi "parole" pronunciate. Sta qui la differenza tra questo Salmo e i canti cosmici che ritroviamo nella letteratura babilonese o egiziana. Il sole non è Dio, ma è ospite di Dio: «Là pose la tenda per il sole, uno sposo che esce dall’alcova, un prode contento di slanciarsi per la sua via» (19,5-6). È il suo atleta migliore, che corre ogni giorno da oriente a occidente, andando incontro alla notte per passarle il suo messaggio, per dirle, ogni mattina, parole teofore: «Parte dal lontano dei cieli, all’altro estremo termina il suo arco» (19,7). C’è tutta la Bibbia nel Cantico di Frate sole.
Non abbiamo ancora ripreso fiato per questa visione cosmica del verbo, detta con una poesia che qui cogliamo in uno dei suoi momenti sorgivi all’aurora delle civiltà, ed ecco che il Salmo ci sorprende con un secondo colpo di scena: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima» (19,8). Come mai questo salto dalla sinfonia cosmica alla Torah, dal cielo alla Legge? Un salto talmente inatteso che non pochi esegeti hanno ipotizzato che i salmi all’origine del Salmo 19 fossero in realtà (almeno) due, fusi poi insieme da un redattore finale.
In realtà, l’unità del Salmo ce la svela la Bibbia stessa. Per l’uomo biblico il firmamento e la Torah sono entrambi capolavori di YHWH. Quando quell’antico salmista alzava gli occhi verso l’alto era incantato dall’armonia e dalla bellezza del cielo; ma poi provava lo stesso incanto quando guardava la terra e vi trovava la Torah. L’ordine cosmico è garantito da leggi intrinseche impresse dal Creatore nel creato, e l’ordine morale nasce dall’obbedire alle leggi e ai precetti della Torah. Lo scopo è lo stesso, l’identica provvidenza: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;... sono più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (19, 9-11).
Il salmista provava la stessa "gioia del cuore" quando vedeva, in ogni aurora, risorgere il sole e quando leggeva "onora il padre e la madre"; restava tramortito dal firmamento e dal "non uccidere". Perché sapeva che le stelle e la Torah erano dono per lui, erano solo e tutta gratuità. Senza questa doppia bellezza non entriamo nell’umanesimo biblico, non comprendiamo il suo più grande profitto: «Per chi li osserva è grande il profitto» (19,12).
«Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»: solo con il Salmo 19 davanti agli occhi si coglie il senso dell’ultima pagina della Critica della ragion pratica di Kant, una pagina tra le più bibliche di tutta la filosofia.
Quell’antico poeta sapeva poi un’altra cosa: «Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati inconsapevoli. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere» (19,13-14). Sopra il sole, gli astri obbediscono, docili e mansueti, alle leggi che YHWH ha scritto per loro; trasmettono il loro messaggio, non trasgrediscono, non peccano. Sotto il sole no, perché sulla terra l’Adam è stato creato con una libertà morale unica che lo rende il grande mistero dell’universo. Solo l’uomo e la donna possono decidere di non seguire le leggi d’amore pensate per loro da Dio. E in questo sono superiori al sole e alle stelle. Sta qui il grande mistero dell’uomo biblico: l’immagine di Dio lo rende libero al punto di poter negare le leggi pensate per la sua felicità (le nostre infelicità più importanti sono quelle che scegliamo sapendo che sono infelicità). Siamo più liberi del sole, e quindi meno ubbidienti. E torna il nostro destino tremendo e stupendo custodito dal Salmo 8: «Che cosa è l’uomo? Eppure...».
Tra i peccati umani troviamo qui sottolineati quelli fatti per inavvertenza e quelli inconsapevoli. Anche se il Novecento ci ha mostrato un inconscio non innocente, la categoria dei peccati inconsci è distante dalla nostra sensibilità moderna, molto centrata sulle intenzioni.
La Bibbia non è un’etica, anche se nei suoi libri ci sono molte etiche. L’umanesimo biblico non può essere inquadrato in una o l’altra delle teorie etiche moderne (responsabilità, intenzioni, virtù...), ma è certamente più interessato di noi alle conseguenze degli atti. Perché ciò che più gli interessava era l’equilibrio del corpo sociale e la cura dell’Alleanza con Dio. Se allora qualcuno commetteva un peccato e provocava un danno, era a questo squilibrio nei rapporti sociali che la Bibbia soprattutto guardava.
Il Decalogo inizia con il ricordo della liberazione dall’Egitto: non con un principio etico astratto, ma con un fatto. La dimensione storica della fede biblica si manifesta anche nel grande valore che attribuisce ai comportamenti, alle azioni, ai fatti, alle parole. Basti pensare, per un esempio, al vecchio Isacco che dona per errore/inganno la sua benedizione a Giacobbe; quando si accorge del suo errore non può più revocare quella benedizione sbagliata, perché quelle parole avevano generato la realtà mentre la dicevano, e avevano operato indipendentemente dalle condizioni soggettive di Isacco e dei suoi parenti (Gen 27).
I peccati sono fatti che agiscono e cambiano il mondo, con una vita propria distinta dalle intenzioni che li hanno generati. Se oggi ti dico una parola brutta e domani ti chiedo scusa, quelle scuse potranno agire sul futuro, ma non potranno cancellare la realtà di dolore che quella parola ha generato nel cuore dell’altro in quelle ore trascorse tra il peccato e il pentimento. Nella Bibbia poi la parola è talmente seria che produce effetti da sé medesima, anche quando non ne siamo coscienti, anche in quelle "ore" che passano e noi non chiediamo scusa perché non siamo consapevoli dei danni che stiamo procurando - i danni inconsci possono essere maggiori proprio perché non arrivano mai il pentimento né le scuse.
Chiedere allora a Dio (e alla comunità) di essere assolti per i peccati inconsci nasceva dalla consapevolezza che i danni che procuriamo sono maggiori delle nostre cattive intenzioni. L’uomo biblico lo sapeva, e ristabiliva l’equilibrio. Noi ne abbiamo perso coscienza, non chiediamo perdono a nessuno, ci copriamo dietro la buona fede, e accresciamo gli squilibri. Il Salmo 15 aveva lodato la sincerità. Il Salmo 19 ci dice che la sincerità qualche volta non basta. Perché nella vita c’è anche il valore delle conseguenze di azioni sbagliate compiute in buona fede. La Bibbia è un continuo e prezioso esercizio di auto-sovversione, che è la cura più efficace contro ogni ideologia. Incluse le molte piccole ideologie del nostro secolo nate sulla morte delle grandi ideologie del secolo scorso.
Il Salmo 19 ci ha rapiti al settimo cielo e poi ci ha riportato sulla terra, alle nostre inavvertenze e colpe inconsce, per dirci qualcosa di importante che non dovremmo più dimenticare: un rapporto sanato ha lo stesso valore di una galassia.
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Santa Marta.
Il Papa: si trovino soluzioni a favore dei popoli, non del denaro
Francesco prega perché i governanti e gli scienziati trovino la strada giusta alla crisi causata dal Covid-19, soluzioni che siano a favore della gente
di Vatican News *
Nell’omelia, Francesco ha commentato il Vangelo odierno (Mt 28, 8-15) in cui Gesù risorto appare ad alcune donne esortandole a riferire ai suoi discepoli di andare in Galilea: là lo vedranno. Nel frattempo, annota l’evangelista, i sacerdoti corrompono i soldati posti a guardia del sepolcro, dicendo di riferire che i discepoli di Gesù erano giunti di notte rubando il corpo mentre loro dormivano. Il Vangelo - ha affermato il Papa - propone una scelta che vale anche per oggi: la speranza della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro.
Così, nel trovare soluzioni a questa pandemia, la scelta sarà tra la vita, la resurrezione dei popoli, e il dio denaro. Se si sceglie il denaro, si sceglie la via della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro. Il Signore, è la preghiera del Papa, ci aiuti a scegliere il bene della gente, senza mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Vangelo di oggi ci presenta un’opzione, un’opzione di tutti i giorni, un’opzione umana ma che regge da quel giorno: l’opzione tra la gioia, la speranza della resurrezione di Gesù, e la nostalgia del sepolcro.
Le donne vanno avanti a portare l’annuncio: sempre Dio incomincia con le donne, sempre. Aprono strade. Non dubitano: sanno; lo hanno visto, lo hanno toccato. Hanno anche visto il sepolcro vuoto. È vero che i discepoli non potevano crederlo e hanno detto: “Ma queste donne forse sono un po’ troppo fantasiose” ... non so, avevano i loro dubbi. Ma loro erano sicure e loro alla fine hanno portato avanti questa strada fino al giorno d’oggi: Gesù è risorto, è vivo tra noi. E poi c’è l’altro: è meglio non vivere, con il sepolcro vuoto. Tanti problemi ci porterà, questo sepolcro vuoto. E la decisione di nascondere il fatto. È come sempre: quando non serviamo Dio, il Signore, serviamo l’altro dio, il denaro. Ricordiamo quello che Gesù ha detto: sono due signori, il Signore Dio e il signore denaro. Non si può servire ambedue. E per uscire da questa evidenza, da questa realtà, i sacerdoti, i dottori della Legge hanno scelto l’altra strada, quella che offriva loro il dio denaro e hanno pagato: hanno pagato il silenzio. Il silenzio dei testimoni. Una delle guardie aveva confessato, appena morto Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Questi poveretti non capiscono, hanno paura perché ne va della vita ... e sono andati dai sacerdoti, dai dottori della Legge. E loro hanno pagato: hanno pagato il silenzio, e questo, cari fratelli e sorelle, non è una tangente: questa è corruzione pura, corruzione allo stato puro. Se tu non confessi Gesù Cristo il Signore, pensa perché dove c’è il sigillo del tuo sepolcro, dove c’è la corruzione. È vero che tanta gente non confessa Gesù perché non lo conosce, perché noi non lo abbiamo annunciato con coerenza, e questo è colpa nostra. Ma quando davanti alle evidenze si prende questa strada, è la strada del diavolo, è la strada della corruzione. Si paga e stai zitto.
Anche oggi, davanti alla prossima - speriamo che sia presto - prossima fine di questa pandemia, c’è la stessa opzione: o la nostra scommessa sarà per la vita, per la resurrezione dei popoli o sarà per il dio denaro: tornare al sepolcro della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro.
Il Signore, sia nella nostra vita personale sia nella nostra vita sociale, sempre ci aiuti a scegliere l’annuncio: l’annuncio che è orizzonte, è aperto, sempre; ci porti a scegliere il bene della gente. E mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Papa ha terminato la celebrazione con l’adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. [...].
* Avvenire, lunedì 13 aprile 2020 (ripresa parziale).
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
L’anima e la cetra /2.
La mano che abbassa il ponte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 4 aprile 2020)
«Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano?». Con questa domanda inizia il Salmo 2. Una domanda tremenda che i profeti e i sapienti ripetono da millenni: perché nonostante la vocazione alla pace e al benessere iscritta nel cuore di ogni persona e delle comunità, gli uomini continuano a esercitarsi nell’arte della guerra, a seminare e coltivare discordia e inimicizia? Le civiltà restano vive finché non si stancano di ripetere questa domanda.
Siamo trasportati dal salmo dentro un ambiente di ribellione, in una congiura di popoli nei confronti di un re - «Spezziamo le catene, gettiamo via da noi il giogo» (2,2). Questo re non è un sovrano qualunque: «E i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo unto» (2). Il protagonista del salmo è il Messia, l’unto di YHWH, mistero e anelito di tutta la Bibbia. Il salmo dice che i popoli cospirano «invano», e che di queste congiure «ride Colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (4). È molto probabile che il Salmo 2 sia stato scritto dopo l’Esilio, quando la monarchia in Israele non c’era più e il popolo aveva sperimentato la distruzione, la sconfitta, la deportazione. Aveva sentito sulla propria pelle la forza tremenda delle trame di potere e di conquista dei popoli, e lì aveva capito che la verità del loro Dio non coincideva con la vittoria sui nemici. L’esilio fu infatti il grande tempo in cui gli ebrei impararono che un Dio sconfitto può restare un Dio vero.
Perché allora quell’«invano»? Nonostante l’esperienza della sconfitta e della violenza che prevale sulla pace, la Bibbia qui e altrove annuncia l’avvento di un Messia, e quindi di un tempo nuovo finalmente diverso, giusto e buono. Più la realtà si allontana dal tempo messianico, più occorre annunciarlo. Credere e affermare una verità quando la storia e il presente dicono tutt’altro: è questo il vero ruolo della grande spiritualità, che è sempre incarnata, che parla della nostra vita soprattutto nei tempi nei quali l’evidenza dice l’opposto delle sue parole. È negli esili che si fanno i sogni più grandi.
L’attesa del Messia è un’anima profonda dell’intera Bibbia. La troviamo nei profeti, nei libri storici, e ora nei salmi. È una forma concreta che assume in essa la speranza. Questa attesa ha tenuto vivo il futuro e lo ha custodito come giudizio sul presente e come possibilità di liberazione.
Se si perde la dimensione messianica della storia, la vita individuale e sociale accorcia il suo orizzonte, si schiaccia tutta sul presente, si spegne la gioia e si abbuia la libertà. Ci riempiamo di piccole attese perché abbiamo ucciso quella più grande.
Il capitalismo ha racchiuso il Messia nella merce (come aveva capito Marx), e così lo ha cancellato. Il messianesimo biblico è l’anno giubilare della storia, quel tempo diverso che diventa criterio morale per giudicare le prassi di tutti gli altri tempi. Il Messia resta tale finché non è ancora venuto. È il sovrano del non-ancora, il suo tempo è l’ideale che misura il tempo reale, un ideale che è profezia della storia. C’è un rapporto profondo tra profezia e messianesimo: entrambi sono dentro e fuori la storia, reale e ideale, già e non ancora. E quando si perde questa tensione vitale e paradossale, il messianesimo si identifica in questo o in quel leader politico e la profezia diventa profezia di corte - sta anche qui il senso di quell’anima critica nei confronti della monarchia che è ben presente e operante nei libri storici della Bibbia.
Per usare le parole di Jacob Taubes, il messianesimo biblico ci ricorda che «il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi». Ci dice quindi che se esiste una dimensione fondamentale della libertà che è auto-liberazione, in altre sue dimensioni decisive la libertà è invece liberazione per mano di qualcuno che abbassa per noi il ponte levatoio. La Bibbia ha custodito nei secoli questa dimensione della libertà come liberazione, l’ha scritta come suo primo comandamento, e così ci ha protetti dall’auto-inganno frequentissimo di immaginare libertà senza avvertire più il bisogno di una voce diversa dalla nostra che ci chiama e ci salva. Sta qui uno dei sensi di quella che chiamiamo salvezza. Grazie a questa attesa tenace del Messia, nella Bibbia il futuro non diventò «un tempo omogeneo e vuoto: perché ogni secondo era la porta da cui poteva passare il Messia» (Walter Benjamin).
Un errore grave e frequente dei cristiani è allora pensare che l’attesa del Messia sia finita con la venuta di Cristo, dimenticando che egli deve venire ogni giorno e deve ritornare. La liturgia è il grande luogo dove ciò che è stato si incontra con ciò che è e che sarà: in ogni Sabato Santo preghiamo che il sepolcro torni ancora vuoto e ogni resurrezione accade oggi. Nella Bibbia ricordare è verbo al futuro.
Molto noto e forte è il versetto 7 del Salmo: «Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"». Una frase splendida, molto amata anche nel Nuovo Testamento e nel cristianesimo, dove la categoria di "Figlio di Dio" è divenuta un pilastro teologico. In questo salmo (e altrove nella Bibbia ebraica) scopriamo, tra l’altro, che chiamare Dio con l’appellativo di Padre e concepire la condizione umana come figliolanza non è una invenzione del cristianesimo ma eredità biblica.
Ma è quell’oggi che ci conquista - «oggi ti ho generato». Qui non c’è solo, forse, un’antica traccia di un canto composto per la consacrazione di un nuovo re in Israele; in questo "oggi" ci possiamo leggere anche qualcosa di diverso e di più. C’è il paradigma di ogni vocazione spirituale, che è una figliolanza che si manifesta dentro un primo oggi che si ripete in tutti gli oggi dell’esistenza, perché una vocazione è viva solo nel presente, e in questo presente continuo si incontra l’eternità.
Ogni paternità e ogni maternità umana è poi una generazione declinata al presente. È ripetere per tutta la vita: «Oggi ti ho generato» - «Ma ora che sei morta, o madre, io so le volte che mi hai generato. In silenzio, non vista d’alcuno» (David Maria Turoldo). Ogni generazione è ri-generazione, e ciò che è vivo se non si rigenera degenera. La paternità-maternità ci dice, simbolicamente (quindi realmente), che siamo vivi e capaci di generare perché oggi siamo rigenerati. Il giorno che tutti smetteranno di generarci inizieremo a morire. Per la Bibbia il principio, l’origine di questa generazione-rigenerazione sempre attuale è Dio, che quindi diventa il garante di quella mutua generazione che scandisce il ritmo della vita. Fino alla fine, quando nell’ultimo oggi ci sorprenderemo di vedere scendere il ponte levatoio e passeremo, indenni, sopra i coccodrilli.
Dopo aver udito pronunciare la promessa del Messia-figlio, eccoci precipitati in un altro paesaggio ampio e profondo: «Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini della terra» (8). Questo «chiedimi» ricorda l’invito rivolto da Dio a Salomone nell’oggi della sua chiamata: «Chiedimi ciò che vuoi» (1 Re 3,4). Salomone chiese la cosa più bella («Un cuore che sa ascoltare»: 9). Non sappiamo invece cosa chiese quel re dell’antico salmo; sappiamo però la promessa ivi contenuta, che se è diventata salmo allora, è promessa universale: le genti e la terra sono anche nostra eredità e nostro possesso. Sono l’eredità e il possesso di chi prega i salmi, che oggi, mentre li canta si deve riscoprire erede di tutte le genti e possessore dell’intera terra. Nell’umanesimo biblico, però, tutta la terra è di YHWH, e gli uomini sono soltanto utilizzatori e amministratori (economi). E dunque ogni proprietà è seconda e ogni possesso è imperfetto. La promessa è vera perché è imperfetta, o perché la completezza sta nella sua incompletezza.
Ogni figlio è erede, e quindi i figli di Dio sono eredi di tutto il cielo e di tutta la terra. Lo abbiamo intuito, e ci siamo sentiti eredi. Ma ci siamo dimenticati dell’incompiutezza, siamo diventati padroni della terra, l’abbiamo profanata, siamo diventati, molte volte, mercenari.
Dentro la stessa tradizione e promessa, un giorno Gesù di Nazareth ci disse qualcos’altro di nuovo e di importante su questa speciale eredità: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». La mitezza è anche il riconoscimento dell’incompiutezza e della provvisorietà dell’esistenza e dei nostri possessi. Il mite abita il mondo senza diventarne predatore, possiede senza concupiscenza, usa i beni con castità. Il mite è custode della terra e del fratello. È l’anti-Caino. Solo una custodia mite può amministrare l’eredità della terra e far sì che i figli siano eredi di un patrimonio non sperperato.
La mitezza è virtù delle mani - mansueto, cioè "abituato alla mano", docile alla mano del pastore, come sa fare l’agnello. La custodia mite non è stata quella della nostra generazione. Ma oggi ci siamo improvvisamente ritrovati dentro una inondazione di mitezza, in un oceano di mansuetudine. Questo tempo tremendo sta diventando il tempo dei miti. Quello di chi sa restare a casa, di chi sa stare, docile, sotto le mani di medici e infermieri. Stiamo vedendo molte mani abbassare ponti su sponde che prima sembravano irraggiungibili.
«E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (Salmo 2,10-12). Le ultime parole del salmo ci donano una nuova beatitudine per questo tempo: «Beato chi in lui si rifugia».
LA RELIGIONE CATTOLICA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS", E IL CAPITALISMO... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Presentazione volume - Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019
Lunedì 24 febbraio, alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
TEOLOGIA ED ESTETICA. I volti della Grazia... *
La preghiera.
Il nuovo «Padre Nostro» arriva in Avvento
La preghiera con la formula: "Non abbandonarci alla tentazione" anziché "Non indurci in tentazione" sarà recitata durante le Messe a partire dal 29 novembre
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 28 gennaio 2020)
Per il “nuovo” Padre Nostro ci vuole ancora un po’ di pazienza. La traduzione rinnovata della più popolare delle preghiere, insegnata direttamente da Gesù, sarà inserita nel Messale che verrà consegnato subito dopo Pasqua, quest’anno il 12 aprile.
A rivelarlo è stato il teologo Bruno Forte arcivescovo di Chieti-Vasto parlando all’AdnKronos a margine del forum internazionale sul rapporto tra estetica e teologia in corso alla Pontificia Università Lateranense.
Come noto il Padre Nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione “Non indurci in tentazione” lasci al posto alla più corretta formulazione “Non abbandonarci alla tentazione”. Versione, ha aggiunto monsignor Forte, che verrà recitata durante le Messe nella chiese italiane a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.
Leggi anche
Intervista.Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po’
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
I "CONFLITTI TRA I RESTI" E UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Profezia è verità /28.
La custodia del primo nome
Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 dicembre 2019)
Non basta essere minoranza per essere minoranza profetica. Non è l’essere parte di un resto di superstiti a fare il resto della Bibbia. Nella conquista babilonese, alcuni ebrei furono deportati e altri restarono in patria. In ciascuna di queste due comunità - quella in esilio e quella in patria - c’era chi si auto-attribuiva lo status di "resto" annunciato da Isaia. Ezechiele e Geremia ci parlano, in pagine bellissime, di questi "conflitti tra resti", delle polemiche tra i figli per l’eredità ideale dei padri. Le crisi, soprattutto quelle grandi e decisive, generano molti "resti", vari gruppi che pretendono di essere i veri custodi del primo patto, i garanti della prima alleanza, gli eredi del primo testamento. In questi conflitti identitari è probabile che ogni gruppo possieda alcuni elementi autentici del vero "resto"; ma non appena una minoranza inizia a rivendicare la primogenitura contro gli altri gruppi, i semi buoni cominciano a guastarsi.
Durante e dopo le crisi, fondamentale è infatti la capacità di non pretendere il monopolio dell’eredità, di saper convivere con altri che si rifanno allo stesso patrimonio. Perché una virtù importante di chi si sente onestamente parte del "resto" fedele sta nel saper convivere con altri che dicono cose molto diverse in nome della stessa eredità - inclusi imbroglioni e falsi profeti, che accompagnano sempre i profeti veri. Perché quando è un solo gruppo a sentirsi il legittimo proprietario della promessa e a essere riconosciuto da tutti come tale, è quasi certo che quel gruppo sia quello sbagliato. Lo spirito ama l’eccedenza e gli sprechi. L’eredità spirituale, come la verità, è sinfonica. Solo il tempo e la storia sanno separare il grano dalla zizzania, e nessun grano può essere sicuro prima dell’ultimo attimo di non essere zizzania. Si vive tra parole dette e parole da dire senza essere i padroni della verità delle une e delle altre. I dubbi sull’autenticità della propria vocazione ed elezione sono, paradossalmente, il primo segno di autenticità. C’è anche questa buona ignoranza nel repertorio umano.
Siamo arrivati al culmine dei Libri dei Re e della storia biblica. Ed ecco un nome che da solo dice moltissime cose, quasi tutto: Nabucodonosor. «Nei suoi giorni, Nabucodonosor, re di Babilonia, salì contro di lui e Ioiakìm gli fu sottomesso per tre anni, poi di nuovo si ribellò contro di lui. YHWH mandò contro di lui bande armate di Caldei, di Aramei, di Moabiti e di Ammoniti; le mandò in Giuda per annientarlo, secondo la parola che YHWH aveva pronunciato per mezzo dei suoi servi, i profeti» (2 Re 24,1-2). Le mandò in Giuda per annientarlo... Abbiamo immediatamente l’interpretazione di quanto il testo sta narrando. L’assedio di Gerusalemme, la distruzione del tempio, l’esilio in Babilonia, la fine del regno di Giuda, sono voluti da Dio, perché sono la conseguenza della violazione dell’Alleanza. Lo aveva detto per mezzo dei profeti, e ora quella parola si compie, per dirci la serietà della parola, il valore assoluto di una promessa, la radicale verità dell’alleanza.
Se un patto è vero, se la parola che lo crea pronunciandolo non è fumo e vanitas, allora deve essere vero tutto ciò che quella reciprocità essenziale implica. Un patto è un bene relazionale, è quindi fatto di reciprocità, che muore quando quella reciprocità viene meno. Allora la distruzione del tempio e la fine del regno sono inerenti alla verità dell’alleanza con Abramo e Mosè. E questa è una cosa davvero importante.
I Libri dei Re ci dicono che la fine era già iniziata nel momento in cui Salomone importò a Gerusalemme gli dèi stranieri. Molto suggestiva e forte è allora la scena della devastazione del tempio: «In quel tempo gli ufficiali di Nabucodonosor, re di Babilonia, salirono a Gerusalemme e la città fu assediata. Nabucodonosor giunse presso la città mentre i suoi ufficiali l’assediavano. Ioiachìn, re di Giuda, uscì incontro al re di Babilonia... Il re di Babilonia lo fece prigioniero nell’anno ottavo del suo regno. Asportò di là tutti i tesori del tempio di YHWH e i tesori della reggia; fece a pezzi tutti gli oggetti d’oro che Salomone, re d’Israele, aveva fatto nel tempio di YHWH, come aveva detto YHWH» (24,10-13). Come aveva detto YHWH: ancora la stessa tesi.
Con il bottino dei tesori del tempio e della reggia (forse un dato anacronistico, poiché questo episodio avvenne probabilmente dieci anni dopo, con la seconda deportazione durante la distruzione di Gerusalemme e del tempio), si chiude un lunghissimo ciclo durato secoli. La corruzione del cuore di Salomone e dei molti re che dopo di lui si sono succeduti, raggiunge ora il suo culmine, con l’asportazione di quel tesoro e "facendo a pezzi" gli oggetti.
La parola che conduce Nabucodonosor a Gerusalemme è la stessa parola della benedizione ingannata e irrevocabile di Isacco per Giacobbe, la stessa parola che creò la luce e l’Adam. Se è vero l’Adam, se sono vere le dieci parole, se è vera Betlemme, allora deve essere vero anche Nabucodonosor. È questa la verità tremenda, drammatica e stupenda della parola biblica, una parola che è vera perché è fedele fino alle conseguenze estreme della parola: «YHWH non volle usare indulgenza» (24,4). Anche questo è la parola biblica, anche qui sta la sua unicità, è anche questo il suo messaggio rivolto alle nostre parole.
Gli scribi che componevano questi capitoli ci volevano allora dire che quella distruzione conteneva la stessa verità dell’Alleanza e del Sinai. Nella Bibbia l’alleanza e i patti sono qualcosa di immenso, dal valore infinito che noi lettori del XXI secolo non capiamo più.
Nell’umanesimo biblico i patti umani hanno il loro fondamento in un meraviglioso e impensabile patto con Dio. Una religione dell’alleanza ha potuto fondare una cultura dell’alleanza che ancora, sebbene soffra, continua a sostenere la cultura occidentale. È stato anche per il valore di quel patto fondativo che abbiamo saputo dar vita ai matrimoni, alle imprese, alle cooperative, alle città e poi agli Stati nazionali e all’Unione Europea.
La religione dell’alleanza è la possibilità che i nostri "per sempre" possano essere veri mentre li pronunciamo nell’ignoranza del futuro; ma questa alleanza è anche la fonte del valore infinito della reciprocità nei patti.
Quando esco per l’ultima volta dalla porta di casa, ti dico che quel patto di reciprocità che avevamo fatto anni prima era vero, che non era fumo e vento.
Mentre vado via dico a me e a te la verità del primo patto e del tempo in cui sono restato. Certo, posso anche perdonarti e restare a casa - tanti, tante lo fanno ogni giorno, e risuscitano molti patti dai loro sepolcri -, ma ciò non toglie verità a quell’andare; anche se poi è la stessa Bibbia a dirci che quell’andare, sebbene vero, non è l’ultima parola perché "un resto tornerà".
L’interpretazione che quella comunità di redattori diede della distruzione di Gerusalemme, è allora qualcosa di straordinario e di essenziale. Di fronte alla tragedia, quegli scribi avrebbero potuto gridare l’abbandono, lamentarsi con YHWH per aver rinnegato l’alleanza. E invece scelsero di leggere quella terribile realtà nella fede, aggrappati alla corda-fides che li teneva legati al cielo, al loro passato, al futuro possibile e al "resto" che avrebbe continuato la storia. Quella lettura fu l’unica capace di salvare la loro fede e il loro popolo diverso, perché la vera alternativa che avevano era affermare che il loro Dio fosse solo un idolo, una vanitas come tutti gli altri. E invece salvarono la fede, salvarono la parola e l’alleanza, salvarono Dio. Come Giobbe.
Ecco perché la distruzione di Gerusalemme è veramente il cuore della Bibbia, il centro gravitazionale della sua fede e del suo umanesimo. Con ogni probabilità non avremmo la Bibbia, o l’avremmo totalmente diversa, se quella comunità di scribi, sacerdoti e profeti, schiantati dall’esilio, avesse scelto di salvare se stessa condannando Dio. Il "resto" potrà tornare e continuare la storia se teniamo viva la verità di quel primo patto assumendocene tutte le conseguenze.
L’esilio babilonese produsse una delle più grandi rivoluzioni religiose e etiche della storia dell’umanità. Lì, in quella terra straniera e idolatra, nacque il culto senza tempio, Dio non fu più prigioniero del suo territorio. E soprattutto terminò l’era dell’identificazione della verità con la vittoria, perché si capì che YHWH poteva restare vero anche se sconfitto, che le nostre verità possono essere vere anche se non vincono, che una vita può essere vera mentre muore.
Una innovazione antropologica e teologica decisiva, possibile perché quella comunità di scrittori-interpreti scelse la propria condanna religiosa per salvare la verità del Dio dell’alleanza e della promessa, per donarcela in eredità.
Insieme agli ori del tempio e della reggia, in questa prima deportazione (del 598-597) i babilonesi portarono via anche le élite militari, tecniche e intellettuali: «Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra. Deportò a Babilonia il re Ioiachìn» (24,14-15).
Non rimase che la gente povera... Anche in questo racconto tragico riemerge la polemica dei "resti". Quella che scrisse o completò questo verso era una mano che apparteneva a quel gruppo (golà di deportati in Babilonia che si considerava il vero resto fedele. Così definisce "gente povera" i rimasti in patria, che in quanto poveri non potevano quindi pretendere lo status di eredi della promessa - come se l’essere poveri non fosse compatibile con l’abitare il Regno, con l’essere chiamati "beati".
Dentro queste pagine tragiche c’è infine un dettaglio che può passare inosservato: «Il re di Babilonia nominò re, al posto di Ioiachìn, Mattania suo zio, cambiandogli il nome in Sedecìa» (24,17). Il nuovo sovrano cambia nome al re da lui nominato. La stessa operazione l’avevano fatta qualche anno prima gli egiziani con il padre del re Ioiachìn: «Il faraone Necao nominò re Eliakìm, figlio di Giosia, al posto di Giosia, suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm» (23,34).
È un’antica e sempre attuale abitudine dei padroni cambiare il nome ai loro sudditi. Quando un uomo o una donna ci cambia il nome, quel nuovo nome è sigillo di proprietà privata. Il Dio biblico non ci cambia il nome. Ci lascia il nostro, lo ama, vi legge la nostra vocazione, ed è con quel primo nome che ci sa chiamare: Samuele, Agar, Maria. E le poche volte in cui lo cambia (con Abramo, Sara, Giacobbe, Simone), è per indicarci un orizzonte o una vocazione ancora più liberi e larghi.
È difficile attraversare il mondo e terminare il viaggio con il nome con cui vi siamo giunti. Gli incontri e le ferite, mentre ci in-segnano il nome dell’altro, cercano fino alla fine non solo di ferire il nostro (cosa necessaria e in genere buona), ma di cambiarlo, di metterci il sigillo e da figli trasformarci in schiavi. Che possiamo custodire il nome del primo giorno per sentirlo pronunciare nell’ultimo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione ( Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione- idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
PER IL CAMBIAMENTO DELLA DENOMINAZIONE
DA
AD
L’esperienza storica insegna che ogni istituzione umana, sorta pure con le migliori tutele e con vigorose e fondate speranze di progresso, toccata fatalmente dal tempo, proprio per rimanere fedele a se stessa e agli scopi ideali della sua natura, avverte il bisogno, non già di mutare la propria fisionomia, ma di trasporre nelle diverse epoche e culture i propri valori ispiratori e operare quegli aggiornamenti che si rendono convenienti e a volte necessari.
Anche l’Archivio Segreto Vaticano, al quale i Romani Pontefici hanno sempre riservato sollecitudine e cura in ragione dell’ingente e rilevante patrimonio documentario che conserva, tanto prezioso per la Chiesa Cattolica quanto per la cultura universale, non sfugge, nella sua storia ormai più che quattro volte centenaria, a tali inevitabili condizionamenti.
Sorto dal nucleo documentario della Camera Apostolica e della stessa Biblioteca Apostolica (la cosiddetta Bibliotheca secreta) fra il primo e secondo decennio del XVII secolo, l’Archivio Pontificio, che cominciò a chiamarsi Segreto (Archivum Secretum Vaticanum) solo intorno alla metà di tale secolo, accolto in confacenti locali del Palazzo Apostolico, crebbe nel tempo in consistenza notevolissima e fin da subito si aprì alle richieste di documenti che pervenivano al Pontefice Romano, al cardinale Camerlengo e poi al cardinale Archivista e Bibliotecario da ogni parte dell’Europa e del mondo. Se è vero che l’apertura ufficiale dell’Archivio ai ricercatori di ogni Paese si avrà soltanto nel 1881, è vero anche che fra il XVII e il XIX secolo molte opere erudite si poterono pubblicare con l’ausilio di copie documentarie fedeli o autentiche che gli storici ottenevano dai custodi e dai prefetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Tanto che il celebre filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, il quale pure vi attinse, scrisse nel 1702 che esso poteva considerarsi in certo modo l’Archivio centrale dell’Europa (quod quodam modo totius Europae commune Archivum censeri debet).
Questo lungo servizio reso alla Chiesa, alla cultura e agli studiosi di tutto il mondo ha sempre guadagnato all’Archivio Segreto Vaticano stima e riconoscenza, tanto più crescenti da Leone XIII ai nostri giorni, sia in ragione delle progressive «aperture» della documentazione resa disponibile alla consultazione (che dal prossimo 2 marzo 2020, per mia disposizione, si estenderà fino al termine del pontificato di Pio XII), sia in ragione dell’aumento di ricercatori che sono quotidianamente ammessi all’Archivio medesimo e aiutati in ogni modo nelle loro ricerche.
Tale meritorio servizio ecclesiale e culturale, così apprezzato, bene risponde agli intenti di tutti i miei predecessori, che secondo i tempi e le possibilità hanno favorito le ricerche storiche in così vasto Archivio, dotandolo, secondo i suggerimenti dei cardinali Archivisti o dei prefetti pro tempore, di persone, di mezzi e anche di nuove tecnologie. In tal modo si è provveduto alla graduale crescita della struttura dell’Archivio stesso per il suo sempre più impegnativo servizio alla Chiesa e al mondo della cultura, mantenendo sempre fede agli insegnamenti e alle direttive dei Pontefici.
Vi è tuttavia un aspetto che penso possa essere ancora utile aggiornare, ribadendo le finalità ecclesiali e culturali della missione dell’Archivio. Tale aspetto riguarda la stessa denominazione dell’istituto: Archivio Segreto Vaticano.
Nato, come accennato, dalla Bibliotheca secreta del Romano Pontefice, ovvero dalla parte di codici e scritture più particolarmente di proprietà e sotto la giurisdizione diretta del Papa, l’Archivio si intitolò dapprima semplicemente Archivum novum, poi Archivum Apostolicum, quindi Archivum Secretum (le prime attestazioni del termine risalgono al 1646 circa).
Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti.
Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola «segreto», in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva «echi e vestigia» del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa «non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!» (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6).
Sollecitato in questi ultimi anni da alcuni stimati Presuli, nonché dai miei più stretti collaboratori, ascoltato anche il parere dei Superiori del medesimo Archivio Segreto Vaticano, con questo mio Motu Proprio decido che:
da ora in poi l’attuale Archivio Segreto Vaticano, nulla mutando della sua identità, del suo assetto e della sua missione, sia denominato Archivio Apostolico Vaticano.
Riaffermando la fattiva volontà di servizio alla Chiesa e alla cultura, la nuova denominazione mette in evidenza lo stretto legame della Sede romana con l’Archivio, strumento indispensabile del ministero petrino, e al tempo stesso ne sottolinea l’immediata dipendenza dal Romano Pontefice, così come già avviene in parallelo per la denominazione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dispongo che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano, entrando in immediato vigore a partire da detta pubblicazione, così da essere subito recepita nei documenti ufficiali della Santa Sede, e che, successivamente, sia inserita negli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 ottobre 2019, settimo del nostro Pontificato.
Francesco
* Fonte: http://w2.vatican.va/
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Chi è effettivamente l’ospite
Chi è effettivamente l’ospite
Come si legge in tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo, ospite ha un duplice significato: è sia chi dà ospitalità (un ospite premuroso) sia, più comunemente, chi la riceve (un ospite gradito). Con il primo significato si ritrova soprattutto in contesti formali e letterari (nel GDLI si riscontrano esempi a partire dalla prima metà del XIV secolo fino ad autori quali Foscolo, Manzoni, Pascoli ecc.).
La parola ospite deriva dal latino hospes, -ĭtis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita e quindi albergatore’ e di ‘colui che è ospitato e quindi forestiero’, significato - comune alla parola greca xénos - che si è tramandato in quasi tutte le lingue romanze (antico francese (h)oste; francese moderno hôte; occitano e catalano oste; spagnolo huésped; portoghese hóspede). Ed è dunque proprio alla storia della lingua latina che dovremo guardare per rispondere alla curiosità che questa parola suscita.
L’etimologia del termine latino hospes risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Ad esempio, il Devoto-Oli 2012 e il Sabatini-Coletti 2008 fanno risalire la voce a un più antico *hostipotis, composto da hŏstis ‘straniero’ e pŏtis ‘signore, padrone’, cioè ‘signore dello straniero’, ma non dicono niente di più. Il Vocabolario Treccani scrive sinteticamente che il termine ha “tutti e due i significati fondamentali, in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità”, in accordo con il Dir Dizionario italiano ragionato (D’Anna, 1988).
Tra gli etimologici, il DELI riconosce il doppio significato del termine, ma aggiunge “senza etimologia evidente”. L’etimologico di Nocentini approfondisce invece la questione e rimanda all’indoeuropeo *ghos(ti)-potis ‘signore dello straniero’ cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da *ghostis ‘straniero’ e *potis ‘signore’. A favore di tale ipotesi cita i corrispettivi gospodĭ ‘padrone, signore’ in antico slavo e gospodín ‘signore’ in russo.
Hospesin origine è dunque il “padrone di casa” che dà ospitalità al forestiero; i rapporti che si istauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti - legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità - che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. Riconoscendo questa “squisita umanità degli antichi”, anche Leopardi nello Zibaldone scriveva: “di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ecc. quei diritti d’ospizio ecc. affinità d’ospizio ecc. Ben diversi in ciò dai moderni” (5 luglio 1827).
Vale la pena soffermarsi un po’ di più sulla parola hostis che, insieme a potis ‘signore’, è all’origine di hospes. Emile Benveniste introduce così la questione:
Benveniste ricorda, infatti, che hostis è usato nella Legge delle XII tavole con il valore arcaico di ‘straniero’, ma riporta anche un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano). A conferma di ciò Festo ricorda anche che il verbo hostire aveva lo stesso significato di aequare (con valore simile si trovano hostire in Plauto, hostus in Varrone e il nome della dea Hostilina in sant’Agostino). Il legame di hostis con i concetti di uguaglianza e di reciprocità è confermato anche da una parola più conosciuta, hostia, che nel rituale romano indica propriamente ‘la vittima che serve a compensare l’ira degli dei’ (l’offerta è considerata quindi di un valore tale da bilanciare l’offesa), in contrapposizione con il termine meno specifico victima che indica un semplice ‘animale offerto in sacrificio’ (cioè senza nessun intento riparatorio).
Si ricava dunque che il significato originario di hostis non era quello di ‘straniero’ in generale, né tanto meno di ‘nemico’, ma quello di ‘straniero a cui si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani’, a differenza del peregrinus che indica invece ‘colui che abita al di fuori del territorio’.
Il legame di uguaglianza e reciprocità che si stabilisce tra un hostis e un cittadino di Roma conduce alla nozione di ospitalità.
In un dato momento dunque hostis ha indicato ‘colui che è in relazione di compenso’ e di scambio nei confronti del civis e quindi, in ultima analisi, l’ospite. Di questo erano ben consapevoli gli scrittori classici, come scrive Cicerone nel De officiis: “hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus” [infatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (‘forestiero’)].
Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli.
In conseguenza del vuoto semantico lasciato da hostis si è dovuto pertanto ricorrere a un nuovo termine per indicare la nozione di ospitalità e si è creato, come già detto, partendo dalla stessa parola hostis, il termine hospes. Hospes dunque eredita e conserva in sé il valore intrinseco di reciprocità e di mutuo scambio: è forse anche per questo che la stessa parola nelle lingue derivate dal latino ha facilmente continuato a indicare sia chi ospita sia chi è ospitato.
Un’ultima osservazione. Un lettore, un po’ infastidito dalla polisemia di ospite e preoccupato che nella lingua comune non ci sia una parola per indicare ‘colui che ospita’, propone di usare due termini diversi come nella lingua inglese, che ha host per ‘ospitante’ e guest per ‘ospitato’ (da notare che entrambi i termini derivano dalla stessa radice indoeuropea *ghostis, anche se host passa attraverso il francese antico (h)oste). Ci suggerisce, come sostantivo per indicare chi ospita, il termine ospitante (o addirittura trimalcione). Ma in realtà, come spesso accade nei fatti di lingua, sarà probabilmente l’uso alla fine a trovare da solo la soluzione. E a ben guardare, quando è necessario distinguere tra i due significati di ospite, l’italiano ha già preso delle decisioni e mette a disposizione un ventaglio di scelte. Se per ospite ormai si intende comunemente ‘colui che è ospitato’, per indicare ‘colui che ospita’ invece, in relazione al contesto e al grado di formalità, si può oggi già scegliere tra: il forse troppo letterario ospitatore (cfr. GDLI), il padrone di casa o semplicemente l’amico che mi ospita. Infine, il termine ospitante con il valore di ‘chi dà ospitalità’ esiste già in italiano, ad esempio nelle espressioni squadra ospitante e famiglia ospitante, e può darsi che prima o poi riuscirà a imporsi pienamente sul termine ospite con lo stesso valore.
Per approfondimenti:
E. Benveniste, Il vocabolario della istituzioni indoeuropee. Economia, parentela, società, I, edizione italiana a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-75
Dictionnaire Étymologique de la langue latine, a cura di A. Ernout e A. Meillet, Parigi, Librairie C. Klincksieck, 1967, s.v. hospes
E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Padova, Tipografia del Seminario, 1771, s.v. hospes
Thesaurus linguae Latinae, Leipzig, Teubner, 1900 e sgg.,.s.v. hospes
F. Venier, La corrente di Humboldt. Una lettura di La lingua franca di Hugo Schuchardt, Roma, Carocci, 2012
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A cura di Angela Frati e Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca (13 luglio 2012).
Video.
Francesco ai mauriziani: avete tante lingue, ma quella del Vangelo è l’amore *
Quella a Port Louis, capitale della Repubblica di Maurizio, sarà l’ultima tappa del viaggio del Papa in Africa, il 9 settembre, dopo quelle in Mozambico e Madagascar.
In un videomessaggio letto in italiano, il Papa sottolinea che “Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose”. Anche se la Chiesa “parla tutte le lingue del mondo” ricorda Francesco, “la lingua del Vangelo è l’amore”.
Ecco il testo integrale del messaggio
Cari fratelli e sorelle di Mauritius!
È vicino ormai il viaggio apostolico che mi porterà anche sulla vostra bella Isola. Già da qui, da Roma vi rivolgo il mio saluto con tanto affetto, e dico un grande “grazie” perché so che vi state preparando da tempo a questo incontro.
Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose.
La Chiesa Cattolica, fin dalle origini, è inviata a tutte le genti, e parla tutte le lingue del mondo. Ma la lingua del Vangelo - voi lo sapete - è l’amore. Il Signore, per intercessione della Vergine Maria, mi conceda di annunciarvi il Vangelo con la forza dello Spirito Santo, così che tutti possiate comprenderlo e accoglierlo.
Vi chiedo per favore di aumentare in questi giorni la vostra preghiera, mentre io già vi porto nel cuore e prego per voi. Grazie e a presto!
*Avvenire, 03.09.2019 (ripresa parziale, senza "video")
Profezia è storia / 6.
Il Nome che si deve imparare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 luglio 2019)
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso - che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati ... tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene ... a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
Sul tma, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
CHARIS in Vaticano. Il nostro sogno è fare comunione. Ce lo chiede il Papa
I responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico si incontrano in Vaticano da oggi fino a sabato 8 giugno per pregare insieme in attesa dell’apertura ufficiale di Charis
di Emanuela Campanile (Vatican News, 06 giugno 2019)
Città del Vaticano Si sono dati appuntamento in Vaticano - Aula Paolo VI - e arrivano da tutto il mondo. Sono più di 550 e sono i responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Vogliono pregare insieme e mettersi all’ascolto dello Spirito Santo in attesa dell’inizio ufficiale di Charis previsto proprio domenica 9 giugno: solennità di Pentecoste. Voluto espressamente da Papa Francesco, Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service) segna una nuova tappa per il Rinnovamento Carismatico Cattolico come corrente di grazia nel cuore della Chiesa.
Il Charis
Si tratta di un servizio di comunione tra tutte le realtà del Rinnovamento Carismatico Cattolico che, nel mondo, conta attualmente più di 120 milioni di cattolici che vivono l’esperienza del battesimo nello Spirito in gruppi di preghiera, comunità, scuole di evangelizzazione, reti di comunicazioni e ministeri vari. Quando nella solennità di Pentecoste prenderà ufficialmente il via, l’Iccrs e il Catholic Fraternity cesseranno di esistere.
Rinnovamento come corrente di grazia
"Il nostro sogno è fare ciò che il Papa ci ha chiesto", spiega nell’intervista Jean-Luc Moens, il professore belga nominato moderatore di Charis. "Lui parla del Rinnovamento carismatico come di una corrente di grazia nella Chiesa, riprendendo l’espressione dal cardinale Suenens, il quale voleva sottolineare che il Rinnovamento Carismatico non è un movimento, perché - prosegue il professore - in un movimento c’è un’appartenenza; le persone sono o dentro o fuori. Dunque, c’è una separazione. Una corrente di grazia è un’altra cosa. Il cardinale faceva il paragone con la corrente del Golfo nell’Atlantico che riscalda tutto l’oceano e poi sparisce. Allora, forse posso dire qualcosa di abbastanza strano, ma - conclude - il nostro sogno è quello di sparire quando tutta la Chiesa avrà scoperto il battesimo nello Spirito Santo".
RICORDARE! Oggi, il 20 marzo è la Giornata Mondiale della Felicità, istituita dall’ONU nel 2012 .....
Se «La felicità (εὐδαιμονία) è un buon dèmone (δαίμων)» (Marco Aurelio, "Pensieri"), l’ Evangelo, composto dalle radici greche εὐ (eu, "buono") e ἄγγελμα (angelma, "novella", "messaggio"), è quindi una buona novella, non un semplice "vangelo" (un "messaggio" con le istruzioni relative alla destinazione - van-gelo)!
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
*
Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il *Combattimento spirituale* fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
La filologia al servizio delle nazioni. Storia, crisi e prospettive della filologia romanza
di Stefano Rapisarda *
Se un giorno la filologia morisse, la critica morirebbe con lei, la barbarie rinascerebbe, la credulità sarebbe di nuovo padrona del mondo». Così Ernest Renan ne "L’avenir de la science" (1890) tesseva un altissimo elogio della filologia, una delle scienze regine del XIX secolo.
Oggi, al tempo delle fake news e della post-verità, quelle parole ci ricordano che la filologia può essere ancora argine alla barbarie. E ci ricordano che la filologia, quella con aggettivi e quella senza, è intrinsecamente politica. Non è utile o interessante in sé: lo è quando è schierata, militante, "calda", quando tocca interessi, quando serve interessi. Quando è "al servizio" di un Principe o di un partito o di uno Stato o di una visione del mondo.
Ci ricordano insomma che la filologia è anche politica, come sapevano Lorenzo Valla e Baruch Spinoza, Ernest Renan e Ulrich Wilamowitz-Möllendorff, Gaston Paris e Paul Meyer, Eduard Koschwitz e Joseph Bédier, Ernst Robert Curtius e Erich Auerbach, Cesare Segre e Edward Said.
Eppure la filologia, con o senza aggettivi, oggi sa di polvere e di noia. Ciò sollecita varie domande: perché questa antica "scienza del testo" si è ridotta al margine della cultura di oggi? Può tornare al centro dei bisogni intellettuali dell’uomo contemporaneo? Quale tipo di filologia può ancora servire il mondo e servire al mondo?
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SCHEDA - Academia.Edu
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Filologia e “verità”
di Daniele Ruini (Nazione Indiana, 01 marzo 2009)
Quale importanza abbia avuto, nella storia dell’umanità, la parola scritta è un fatto difficilmente sottostimabile. Per quanto riguarda, più in particolare, la storia delle religioni, ciò è chiaramente evidente in tutti quei culti che riconoscono autorità sacra a uno o più testi, ritenuti frutto della diretta ispirazione divina, ovvero “parola di Dio”. Dato lo speciale statuto assegnato a tali scritture, ogni operazione volta a definirne con esattezza il dettato testuale acquista un valore particolare; se, da un lato, avvicinarsi il più possibile allo stadio originario di un Testo Sacro significa ridurre la distanza che separa dalla supposta Verità in esso contenuta, dall’altro lato, rimettere ogni volta in discussione la lezione di un’opera di tal fatta non può non avere conseguenze delicate per la comunità religiosa che di essa ha fatto il proprio testo di riferimento. Il rapporto tra Sacre Scritture e filologia (la disciplina finalizzata a ricostruire la veste originaria di un testo attraverso lo studio delle varie fasi della sua trasmissione) è infatti necessariamente contraddittorio: il carattere dogmatico della “parola di Dio” può sopportare il libero esercizio critico della filologia? E soprattutto: fino a che punto saranno disposti ad accettarlo i rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche?
È questo il tema al centro di Filologia e Libertà di Luciano Canfora (Mondadori 2008), nel quale si ripercorre la storia delle resistenze del Vaticano dinnanzi all’applicazione della critica testuale alla Bibbia, dando risalto alle figure dei pochi studiosi che quei divieti tentarono di infrangere. Come sottolinea Canfora, riannodare le fila di questo racconto equivale a narrare la storia «della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato».
Benché sia sempre esistita una filologia biblica, le cui origini affondano nel giudaismo ellenistico, la Chiesa Cattolica è venuta progressivamente irrigidendosi, assumendo, di fronte alle possibilità di studiare le Sacre Scritture secondo i principi della critica testuale, un atteggiamento di totale chiusura, cui si accompagnò un’azione di repressione nei confronti dei disobbedienti. Tale fu la posizione espressa nelle disposizioni del Concilio di Trento (1545-1563), colle quali fu sancito il primato della Vulgata, ovvero della versione latina della Bibbia tradotta da San Gerolamo nel IV secolo d.C.
In maniera del tutto illogica e fondandosi sulla supposta ispirazione divina del traduttore, veniva riconosciuta la superiorità di una traduzione rispetto al testo originale (ebraico per l’Antico Testamento, greco per il Nuovo). Si trattava di una risposta alle iniziative dei luterani, che rivendicavano invece l’originale biblico e che quello traducevano per la massa dei fedeli. Tali norme rimasero valide fino al Concilio Vaticano II (1965), quando fu finalmente ammessa, anche da parte cattolica, la possibilità di tradurre le Sacre Scritture nelle lingue moderne, favorendone l’accesso al popolo dei credenti.
E nondimeno, la filologia moderna, sviluppatasi storicamente nel XIX secolo sui classici greci e latini, ebbe le sue prime applicazioni proprio in ambito biblico e, più in particolare, neotestamentario. Alla netta chiusura della Chiesa Cattolica - ma atteggiamento non dissimile ebbero le Chiese riformate - si contrappose l’attività di singoli eruditi che, raccogliendo l’eredità di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), si prodigarono nello studio della formazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, subendo spesso l’ostracismo delle comunità religiose di appartenenza.
Tra le figure ricordate da Canfora vi sono l’ebreo Baruch Spinoza (1632-1677), il giansenista Richard Simon (1627-1704), i protestanti Pierre Bayle (1647-1706), Johann Jacob Wetstein (1694-1745) e Jean Leclerc (1657-1736). Il loro lavoro fu la principale fonte d’ispirazione della critica illuministica delle religioni, della cui efficacia ed attualità rende conto il fatto che «la condanna dell’illuminismo si replica, di papa in papa, di enciclica in enciclica, fino alla recentissima Spe salvi (par. 19) dell’attuale pontefice».
Le infrazioni ai divieti cattolici in materia di filologia biblica proseguirono nel XIX secolo per merito di alcuni esponenti dell’Institut Catholique di Parigi, ai quali il Vaticano affibbiò l’etichetta di “modernisti”. Tra di essi, Ernest Renan (1823-1892) - autore di una celebre Vita di Gesù in cui si negava la divinità del Cristo -, Louis Duchesne (1843-1922) e Alfred Loisy (1857-1940), cui si devono due volumi sulla Storia del canone dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La durissima presa di posizione del cattolicesimo romano fu affidata alle encicliche Providentissum Deus di papa Leone XIII (1893) e Pascendi dominici gregis di papa Pio X (1907). In quest’ultima, in particolare, il pontefice espresse in termini retrogradi l’allarme risentito verso la critica testuale, il cui carattere eversivo risalirebbe alla pretesa di introdurre nell’ambito dei Testi Sacri il concetto di “evoluzione”, «quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato» (sic).
Nessuna posizione ufficiale venne più espressa fino al 1943, quando papa Pio XII compì una svolta inaspettata, ammettendo la legittimità della critica testuale in ambito biblico (enciclica Divino afflante spiritu). Non si trattava, tuttavia, di una netta presa di distanza dalle chiusure del passato; l’enciclica pretende anzi di stabilire una continuità colle dichiarazioni dei pontefici precedenti, disegnando una prospettiva distorta secondo cui la Chiesa avrebbe sempre favorito e appoggiato la critica testuale, ed affermando che il riconoscimento della legittimità dell’indagine filologica sui testi sacri non è in contraddizione coi deliberati tridentini.
L’apertura di papa Pacelli era in realtà la conseguenza della presa d’atto che alcune significative esperienze filologiche recenti avevano reso del tutto obsoleta e non più sostenibile la condanna vaticana verso la critica testuale; capolavori come l’edizione critica dell’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea realizzata da Eduard Schwartz (1905-1909), o quella della Bibbia dei Settanta prodotta nel 1935 in ambiente protestante, costituivano una smentita concreta delle preclusioni cattoliche nei confronti della filologia. D’altra parte, pur nella sua apertura di fondo, Pio XII si appella alla cautela degli studiosi; l’enciclica contiene infatti l’invito a produrre nuove edizioni scientifiche del Testo Sacro pur mantenendo nei suoi confronti «somma riverenza».
Si tratta, come evidenzia Canfora, di una posizione assurda e insensata, dacché inconciliabile colla pur invocata «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Ciò equivarrebbe infatti ad ammettere che “un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al “verbo” del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico)”.
Questo non-senso nasce dalla convinzione, mai messa in discussione, che i testi inclusi nel canone cattolico - e solo quelli - contengano la verità, una verità «precostituita e testualmente compiuta prima della ricostruzione del testo». L’apparente apertura rivoluzionaria del Vaticano tradisce, quindi, un certo conservatorismo, nell’incapacità di accettare fino in fondo l’idea che «il testo della Scrittura va letto (e criticato) per quello che letteralmente dice, mentre la sua difesa di principio può condursi solo sul piano della “fede”».
Il volume di Canfora costituisce, in conclusione, un elogio della filologia, considerata come un antidoto al dogmatismo e all’oscurantismo e come fondamento della libertà di pensiero.
Canfora, la filologia è libertà
Il volume curato da Rosa Otranto e Massimo Pinto (Edizioni di Storia e Letteratura)
di Livia Capponi (Corriere della Sera, 29.06.2018)
Come lavoravano gli autori greci e latini? Nel suo lungo e intenso magistero, Luciano Canfora, a cui gli allievi Rosa Otranto e Massimo Pinto dedicano il volume collettivo Storie di testi e tradizione classica, ha insegnato ad affrontare ogni testo a partire dalla sua storia, reinventando la filologia come disciplina in grado di leggere non solo i testi giunti fino a noi, ma anche le cicatrici, i tagli, i contorni invisibili di ciò che è stato modellato da un censore, da un copista, dal gusto di un’epoca.
Diversamente da Isocrate, famoso per la sua lentezza nel comporre, e da Pitagora, che preferiva depositare la sua dottrina nei libri più sicuri, cioè nella memoria degli alunni, Canfora, la cui bibliografia conta 843 opere, è più simile a Demostene, che cesellava ogni rigo o a Fozio, patriarca bizantino che salvò il patrimonio letterario antico, aiutato da un’affezionata cerchia di studenti.
Nei contributi qui raccolti, l’erudizione è messa al servizio di una coinvolgente ricerca della verità, intesa come integrità testuale, storica ed etica. Sono toccati i temi prediletti, come l’analisi critica della democrazia, la storia della tolleranza e della libertà di parola, la schiavitù e i perseguitati politici e religiosi da Atene ai giorni nostri, attraverso lo studio di storiografia, archivi, biblioteche e pubblicistica d’ogni epoca. Il tutto condito da empatia e indipendenza di giudizio, in grado di far rivivere gli antichi con grande vivacità: Cesare è ritratto mentre elabora il primo sistema crittografico per l’intelligence romana; Fozio nell’atto di divorare romanzi d’amore greci (per poi censurarli). Coerentemente con la lezione canforiana, lo studio dei classici diventa motivo di apertura mentale perché aiuta a capire il presente e noi stessi.
Per materiali sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SAPIENZA E IL MESSAGGIO EVANGELICO. FRANCESCO BACONE E SAN PAOLO PRENDONO LE DISTANZE DALLE ENCICLICHE DI PAPA BENEDETTO XVI. Una "preghiera comune" firmata da Bacone
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
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Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali” *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=519#forum3139212
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO. ..
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’,.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" ("DEUS CARITAS EST", 2006)!!! UNA VULGATA DEI MERCANTI DEL TERZO MILLENNIO "PRIMA DELA NASCITA DI CRISTO"..... *
Corte Strasburgo: Gesù e Maria possono essere testimonial pubblicità
Bocciato stop giustizia lituana a campagna che ne usava immagini
Roma, 30 gen. (askanews) - Utilizzare i nomi e le immagini di Gesù e Maria in una campagna pubblicitaria è lecito: lo ha stabilito la Corte europea per i diritti umani, definendo “ingiustificabile” il provvedimento con cui la giustizia lituana era intervenuta a bloccare l’iniziativa in quanto contraria alla pubblica morale.
Come riporta il sito di The Baltic Course la campagna (lanciata dal designer di abbigliamento Robert Kalinkin) risale al 2012, e impiegava due modelli, un giovane dai capellim lunghi e una donna con un vestito bianco, e le legende “Gesù, che pantaloni”, “Maria cara, che vestito” e simili.
L’ente statale per la commercializzazione dei prodotti non alimentari aveva imposto una multa agli organizzatori dopo aver ricevuto delle lamentele da parte di alcuni consumatori, prima che la magistratura ordinasse la sospensione della campagna.
Per la Corte tuttavia “la campagna non appariva gratuitamente offensiva o blasfema, né incitava all’odio religioso o attaccava la religione in maniera abusiva o ingiustificata”: non era possibile “dare per certo che qualunque fedele cristiano ritenesse necessariamente offensiva la pubblicità, e il governo lituano non ha presentato alcuna prova in contrario; ma anche se la maggioranza della popolazione lituana fosse stata di questo avviso, l’esercizio dei diritti della Convenzione da parte di una minoranza non può essere condizionato al volere della maggioranza”.
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola (la Repubblica, 30.01.2018)
Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.
Marino Niola è antropologo della contemporaneità. Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
PAPA FRANCESCO, IL "PADRE NOSTRO", E INTERI MILLENNI DI LABIRINTO
DIVENTÒ UN DIO, IL "PADRE NOSTRO", IL CAPITALE ... *
A FURIA DI MERCANTEGGIARE SU TUTTO abbiamo PERSO LA TESTA, fatto del CAPITALE un DIO, il "Padre nostro", e ci siamo fatti allegramente tradurre e "indurre in tentazione"! PER MILLENNI.
CHE BELLO!!! TUTTO è diventato "carissimo", non solo ciò che si produce e si vende (il feticismo delle merci) ma anche noi, gli animali, e l’intera terra con il suo cielo più alto: la CARESTIA si è diffusa su tutta la terra ed è diventa terribile e, come, al solito, i MERCANTI hanno fatto I loro affari e ancora oggi continuano ad accumulare TESORI per i loro "carissimi" eredi, dappertutto, non solo nelle loro case, ma anche nelle Banche e nei Templi (sul tema, cfr. i miei commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto, 38.08.2017). E, ogni giorno, celebrano la LORO benedetta carissima "EU-carestia", la loro "BUONA-carestia" - per conservarla, per tutti i secoli dei secoli.
PER tutti i POVERI "CRISTI", che c’è da augurare?! Che il Natale "sia meno commerciale" e l’anno che viene "meno dozzinale"?!
Dopo duemila anni Papa Francesco finalmente ne ha preso atto:"Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione".
Era ora!
BUON NATALE, BUON ANNO, BUON 2018
Federico La Sala
* Cfr. Armando Polito, "Natale e Capodanno: che non siano solo belle parole", "Fondazione Terra d’Otranto", 24,12,2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" ...
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO...
Francia.
Con l’Avvento arriva il «nuovo» Padre Nostro
Nella traduzione approvata dai presuli francesi «non indurci» diventa «non lasciare che entriamo in tentazione»
di Andrea Galli (Avvenire, giovedì 16 novembre 2017)
«Non lasciare che entriamo in tentazione» al posto di «non indurci in tentazione»: è questa la nuova formulazione della sesta richiesta del Padre nostro che i cattolici francesi sono invitati a usare nelle celebrazioni pubbliche a partire dal 3 dicembre prossimo, prima domenica di Avvento, inizio del nuovo anno liturgico. In un incontro con la stampa ieri mattina a Parigi - riporta l’agenzia Sir - il vescovo di Grenoble Guy de Kerimel, che è anche presidente della Commissione episcopale per la liturgia e la pastorale sacramentale, ha spiegato il significato di questa modifica, là dove si chiede a Dio di «essere liberati dalla tentazione che conduce al peccato e a una forma di schiavitù».
La traduzione precedente non era sbagliata dal punto di vista esegetico, ha detto il vescovo, ma rischiava di essere «mal compresa dai fedeli». La modifica sarebbe quindi «un’occasione per i cristiani di riappropriarsi della preghiera che Gesù ha insegnato loro». Per questo i vescovi francesi hanno voluto accompagnare questo passaggio con un volume, «Preghiera del Padre nostro, uno sguardo rinnovato». La nuova formulazione, che è già stata introdotta nella Pentecoste scorsa in alcuni Paesi francofoni come il Belgio e il Benin, sarà utilizzata anche in tutte le celebrazioni ecumeniche, come raccomandato dal Consiglio delle Chiese cristiane in Francia.
Intanto, sempre Oltralpe, continua fra i vescovi la discussione su un tema che ha percorso i lavori della loro assemblea plenaria autunnale si è tenuta a Lourdes dal 3 all’8 novembre. Nell’occasione don Jean-Luc Garin, rettore del Seminario di Lille e responsabile del Consiglio nazionale dei grandi Seminari, ha fornito un quadro aggiornato della situazione vocazionale: in sedici anni, dal 2000 al 2016, i seminaristi in Francia sono passati da 976 a 662: un calo del 30% che non sembra destinato ad arrestarsi, per ora. L’arcivescovo messicano Jorge Carlos Patrón Wong, segretario della Congregazione per il clero, intervenuto nel secondo giorno dei lavori illustrando all’assemblea la «Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis», ovvero le linee guida sulla formazione sacerdotale pubblicate dal dicastero vaticano nel dicembre 2016, ha ricordato che stando al documenti i Seminari, per sussistere o essere aperti, devono avere un numero di vocazioni sufficienti. Un minimo che va «da 17 a 20 persone» ha specificato Wong. Attualmente su 32 Seminari e case di formazione presenti in Francia solo 15 superano la soglia dei 17 seminaristi, per cui dopo l’assemblea plenaria il tema della possibile chiusura di circa la metà degli odierni Seminari è ufficialmente sul tavolo.
Per quanto riguarda i seminaristi diocesani, oggi la metà risiede in soli cinque Seminari: Fréjus-Tolone, Tolosa, Issy-les-Moulineaux, Rennes e Parigi. Un caso non diocesano in forte controtendenza vocazionale - di cui i vescovi hanno discusso, tra coloro che invitano a studiarne l’esempio e altri che manifestano diffidenza - è quello della Comunità di San Martino, associazione di diritto pontificio fondata nel 1976 da monsignor Jean-François Guérin e che ebbe la sua prima approvazione nel 1979 nell’arcidiocesi di Genova, dal cardinale Giuseppe Siri: oggi un seminarista su sei in Francia appartiene a tale comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa
DAL "DEUS CARITAS EST" AL "DEUS CHARITAS EST"?
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
Federico La Sala
Quella cosa molto seria che si chiama dono.
di Luigino Bruni *
Una delle povertà più grandi del nostro tempo è quella delle domande generative. Siamo inondati di risposte a domande che non facciamo, a ricette per soluzioni di problemi che non avvertiamo come tali, e al contempo siamo dentro una carestia impressionante di domande grandi, capaci di farci intravvedere orizzonti nuovi, di attivare la nostra creatività individuale e collettiva, di spingerci all’azione per cambiare il mondo, e non solo per gestire l’ordinario business.
Una delle domande non fatte, ma che attraversa tacita l’intera nostra civiltà ha a che fare con una delle parole più abusate e umiliante della nostra generazione: il dono. Dovremmo sempre più tornare ad interrogarci, in un tempo dominato dal consumo e dalla ricerca del piacere che fine ha fatto il dono nella nostra vita, soprattutto nella sfera pubblica. E’ infatti il dono che crea la comunità (cum-munus, dono reciproco), veniamo al mondo e qualcuno ci accoglie con gratuità e la vita si rigenera non per i contratti ma per i doni.
E allora chiediamoci: che cosa diventa il dono quando lo trasformiamo in filantropia, quando finisce per svolgere il ruolo di tappabuchi dello stesso capitalismo? Possiamo ancora chiamare dono le donazioni che le multinazionali dell’azzardo fanno alle associazioni che si occupano delle loro vittime? Che cosa sta allora diventando il dono? E che cosa il mercato?
Domande impegnative, questioni che negli ultimi decenni sono uscite troppo velocemente dall’orizzonte della nostra società, dai temi trattati sui giornali e nei media, dagli argomenti insegnati nei corsi di economia e business. Il mercato nasce come elaborazione del dono. Millenni fa abbiamo iniziato a scambiare con il linguaggio del dono, il contratto è nato dal patto, le monete avevano come effige gli dei, e il primo contratto che troviamo nella Bibbia è l’acquisto di Abramo della terra per la tomba della moglie Sara (Genesi).
Se giungiamo alla modernità, vediamo che il capitalismo nasce come riflessione sul rapporto fra dono (grazia, charis) e mercato. La Riforma protestante è stata decisiva per la natura del capitalismo moderno. Nata dalla ferita di un mercato che era penetrato nel cuore del dono (il mercato delle indulgenze), l’umanesimo luterano e calvinista si è caratterizzato per una netta separazione tra l’ambito del mercato e quello del dono, tra l’economia for-profit intesa come il regno degli interessi e dei contratti e quella non-profit vista come il luogo della gratuità.
L’umanesimo latino-cattolico, invece, non ha mai smesso di mescolare dono e contratto, grazia e mercato, profitto e gratuità, e l’economia cooperativa, l’impresa famigliare e la cosiddetta Economia civile sono comprensibili solo all’interno di un umanesimo meticcio, con le sue tipiche ferite e benedizioni - come ho cercato di dimostrare nel mio ultimo saggio Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo, Egea Bocconi 2015. Il nostro tempo sta conoscendo un appiattimento delle differenze regionali, del genius loci dei diversi capitalismi, sotto l’incedere di una ideologia che ci sta convincendo che il capitalismo «buono» è uno solo, quello costruito attorno agli incentivi, all’individuo e all’efficienza, i tipici valori dell’umanesimo protestante, relegando così il dono e i suoi valori in una sfera sempre più angusta e irrilevante.
Il dono è una cosa molto seria. E’ diventato quasi impossibile parlare bene oggi del dono, perché lo abbiamo messo in un angolo, e ridotto a ben poca cosa, soprattutto nella sfera pubblica, civile, economica. L’attacco al dono è comunque cosa antica. Abbiamo iniziato a relegarlo in ambiti molto angusti quando, anche per responsabilità di una certa teologia cristiana, tra l’Umanesimo e la modernità abbiamo iniziato a pensare che la giustizia fosse veramente essenziale per la costruzione di una buona società, e che, invece, la carità fosse un di più. La giustizia - abbiamo pensato e scritto - chiede di dare a ciascuno il suo, la carità di andare oltre il proprio. La giustizia è necessaria, la carità è facoltativa. La giustizia è essenziale, la carità volontaria, quindi inessenziale. La giustizia è importante, la carità superflua.
Il passo verso l’inutilità della carità è stato immediato, e così abbiamo immaginato una giustizia possibile senza agape, e una vita in comune buona senza amore civile. Abbiamo pensato che la carità/agape/amore potesse essere utile in alcuni ambiti specialistici - famiglia, le chiese, un certo non-profit, nella gestione delle emergenze umanitarie ... - ma che per la vita ordinaria pubblica ci bastasse la giustizia, che è già cosa molto ardua. I contratti e gli interessi sono necessari, il dono no: ci viene sempre più presentato come qualcosa di carino, il limoncello alla fine di una cena, che se c ’è fa piacere, ma se non c ’è in fondo nessuno se n ’accorge (tranne, nel lungo periodo, i produttori di limoncello). Il dono nella nostra società finisce per pesare per il 5 o l’8 per mille, e dobbiamo anche scontare l’evasione fiscale.
Il primo colpo, quasi mortale, al dono lo abbiamo allora dato quando, ormai da un po’ di anni, abbiamo ridotto la carità all’elemosina, alle donazioni, alla filantropia, alle offerte in chiesa, alle pesche di beneficienza o (molto più recentemente) ai due euro degli SMS umanitari. Abbiamo così, e nel giro di qualche decennio, annullato quell’operazione mirabile che fecero i cristiani dei primi secoli, quando scelsero di tradurre agape (l’amore gratuito) con charitas.
La caritas (senza h ) era, nel tardo latino, una parola economica - è antico il rapporto tra dono e mercato. Era usata dai mercanti per indicare il valore delle cose: un bene era caro se valeva e costava molto, come diciamo ancora oggi. Ai cristiani, in cerca di una parola latina per tradurre l’amore-agape, una parola diversa da amor (troppo vicino all’eros greco), trovarono in caritas una buona soluzione. Ma volevano differenziarla, almeno un po’, dalla parola economica del loro tempo. E così vi aggiunsero quella ‘h’, che era tutt’altro che muta, perché voleva dirci una cosa importante: charitas traduce le due grandi parole greche su cui si stava fondando la chistianitas (ancora questo ch): agape e charis, amore e gratuità, grazia. In quella charitas c’era praticamente quasi tutto: le vite donate dai martiri del loro tempo, gran parte dell’insegnamento delle lettere di Paolo, il kerigma dei vangeli; ma c ’era soprattutto un messaggio: la persona umana è capace di charitas, perché è capace di amare oltre l’eros e oltre la già grande philia (amicizia). È capace di oltrepassare il registro della condizionalità, persino oltre quel bisogno radicale di reciprocità che muove il mondo, e anche le stelle.
Questo era il dono: agape, charis, charitas. Questo non è più il dono nella nostra società. Cose, parole, realtà, che hanno generato, come ingredienti coessenziali, Notre Dame de Paris, il Duomo di Milano, gli affreschi di Signorelli a Orvieto e quelli di Michelangelo a Roma, la cappella Baglioni a Spello, le prime scuole per le ragazze povere a Viterbo, Barbiana, tante Costituzioni democratiche, le casse rurali che ci hanno salvato dalla miseria dei campi e generato il miracolo economico, una casa e un cuore per i disperati di Calcutta. E questo continua ad essere ancora in alcune periferie della nostra civiltà il dono: una energia straordinaria che continua a far nascere, per motivazioni più grandi del denaro, molte istituzioni, associazioni, cooperative, imprese. Che continua a farci alzare al mattino per andare a lavorare, per soffrire molto quando perdiamo il lavoro, perché smettendo di lavorare smettiamo non solo di percepire un reddito, ma non possiamo più donare la nostra vita lavorando, e ci fa gioire molto quando il lavoro lo ritroviamo. Tutto questo è il dono, ma non lo vediamo più. Se vogliamo veramente cominciare a sognare e costruire una nuova civiltà, prima di prevedere gli incentivi, gli sgravi fiscali e la crescita del PIL, dobbiamo tornare a vedere quella cosa molto seria che si chiama dono.
* Cfr. [DOC] 151028_BCC_Quella cosa molto seria che si chiama dono.docx
www.consorziofarsiprossimo.org/il-contenuto-della-chiavetta.../14-bruni?...bruni
* Cfr.INTRODUZIONE a Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuo dei due?!
*** "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico: Boni metaphysici praxim una CHARITAS christiana docet" (G.B. VICO, De constantia iurisprudentis, 1721). ***
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
RICCHEZZA E NOBILTÀ: LA CHIESA DI COSTANTINO, CELESTINO V E IL POSTUMO "RISARCIMENTO" ARALDICO ...
"ORIA. UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA": UN LAVORO MAGISTRALE DI GRANDE INTERESSE. Tra le sue righe una notazione che getta luce sulla intera storia della Chiesa e non solo su Celestino V (la Congregazione dei Celestini, la città di Oria e al Salento), ma anche su papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), su Benedetto XVI (Joseph A. Ratzinger), papa Francesco (Jorge M. Bergoglio), e, ancora, su DANTE ALIGHIERI (con la sua profetica lezione teologico-politica, cfr. "Monarchia" e "Commedia") e al tempestoso presente storico entro cui ancora oggi (nel III Millemnio d. C.) naviga l’Istituzione nata e cresciuta all’ombra di COSTANTINO, della sua "donazione", del suo "LATINORUM", e della sua "CARITAS" (da non confondere con la "CHARITAS", cfr. i commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di aant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto):
"Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (...), mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI";
nota 16: "Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso" (cfr. Marcello Semeraro, "Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria").
Federico La Sala
DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO... *
A)
Dubbi sul Padre Nostro
Alcuni lettori ci scrivono.
"Non ci indurre in tentazione", il vero significato
Risponde il teologo Giuseppe Pulcinelli (Avvenire, 13.09.2017)
Nell’originale greco c’è il verbo eisenenkes che significa “immettere”, “introdurre”. Ma si vuol forse dire che Dio spinge l’uomo verso il male (la tentazione) e quindi gli si chiede di non farlo?
In realtà, alla luce di altri passi della Scrittura (cfr. Gc 1,13: «Dio non tenta nessuno»), si può e si deve dare un’altra spiegazione. Il verbo greco probabilmente traduce - in modo approssimativo - un originale semitico che va compreso in base a testi come il Salmo 140 (141),4: «Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Il senso dell’invocazione è dunque: «Non ci lasciare entrare e soccombere nella tentazione». Speriamo che presto venga adottata anche nella liturgia la versione ufficiale della Cei (2008), che ha corretto con «non abbandonarci alla tentazione».
B)
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera.
Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa
IL "PADRE NOSTRO" NON E’ QUELLO DI PAPA BENEDETTO XVI. IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI NON CI INDUCE IN TENTAZIONE!!!
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
*
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto:
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente
Il filosofo Rocco Buttiglione risponde al collega Marcello Pera che aveva criticato duramente Francesco affermando che non comprende i problemi delle democrazie occidentali
di Rocco Buttiglione *
Marcello Pera ha criticato violentemente Papa Francesco in un articolo sul Mattino di Napoli. Il Papa, dice Pera, non è un difensore dell’Occidente, non capisce i problemi delle democrazie occidentali e, sui temi della immigrazione, assume un punto di vista che noi occidentali non possiamo condividere. Egli ha una posizione profondamente diversa e perfino opposta rispetto a quelle di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Pera è acuto come sempre e molte delle cose che dice sono vere. Io penso tuttavia che non abbia capito il senso più profondo di questo pontificato e provo a spiegare perché.
Pera ha ragione in un punto: per questo Papa l’Europa non è più il centro del mondo. Non è giusto pensare che non gli importi dell’Europa o della difesa della sua anima cristiana. È vero però che non pensa che questo sia il suo compito primario. La difesa dei valori cristiani che stanno alla base dell’Europa è compito dei vescovi europei, dei laici e dei politici europei. Il Papa ovviamente li appoggia ma questo non sarà più per lui il compito prevalente.
Il Papa non è europeo ma latinoamericano. Non è soltanto un dato anagrafico. Abbiamo un Papa latinoamericano e non europeo perché la Chiesa Cattolica non è più prevalentemente europea. Viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Europa. Più esattamente viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Occidente. È una crisi demografica: la Chiesa conta sempre meno in Europa ma l’Europa conta sempre meno nel mondo. Cresce invece in Africa ed in tutto quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. La maggioranza relativa dei cattolici vive oggi in America Latina e forse due terzi dei cattolici vive nel Terzo Mondo.
La crisi è anche culturale. Una volta era diffusa la convinzione che i paesi non occidentali fossero “arretrati” e avrebbero alla fine seguito le tendenze stabilite dai paesi occidentali. Oggi sembra piuttosto che stiano cercando nuove strade. Molti fenomeni che noi consideriamo di “progresso” potrebbero alla fine risultare piuttosto fenomeni del declino e della decadenza europea. È interessante osservare che anche economicamente Europa e Stati Uniti rappresentano oggi meno del 50% del PIL mondiale.
Sbaglia Papa Francesco a pensare di dovere assumere una ottica più universale e meno europea? Sbaglia ad assumere un punto di vista e un linguaggio che sono più da “Terzo mondo” che europei e che, peraltro, gli sono anche più congeniali? Forse non sbaglia. Chiese che eravamo abituati a considerare periferiche sono diventate (stanno diventando) centrali e noi siamo diventati un po’ periferici. Il processo è complicato, rischioso e pieno di pericoli. È però inevitabile. I problemi della Chiesa nascono dalla dinamica demografica mondiale (America Latina) e dalla grande crescita missionaria della Chiesa stessa (Africa ed Asia). Sarebbe ingeneroso pensare che essi derivino solo o primariamente da Papa Francesco. Derivano in realtà dalla forza delle cose o (meglio) dalla volontà imperscrutabile dello Spirito Santo.
Forse faremmo meglio a domandarci che tipo di conversione lo Spirito di Dio ci chiede in questa tappa della storia della Chiesa e della storia della umanità. Uno dei problemi di questa fase storica per noi occidentali è che dobbiamo fare i conti con una immagine di noi stessi che non ci piace. I poveri del mondo pensano che ci siamo appropriati di una parte troppo grande delle ricchezze del pianeta. Pensano di essere stati espropriati e derubati. Questo giudizio non è del tutto vero ma non è neppure del tutto falso. Con ammirevole equilibrio Papa Francesco ha avuto il coraggio di dire che il colonialismo ha avuto anche dei lati positivi. Non ha nascosto però di pensare che ha avuto i suoi lati negativi, ed è difficile dargli torto. Non si può nemmeno dire che su questo punto si contrapponga a san Giovanni Paolo II. Basta ricordare il discorso di san Giovanni Paolo II a Gorée, alla fortezza degli schiavi.
In questo passaggio di epoca molti importanti valori rischiano di andare perduti. Valori di razionalità sociale ed anche di comprensione scientifica della società. La comprensione dei valori della competizione e del mercato è un valore permanente. Se i paesi poveri oggi sono diventati meno poveri e molti di loro hanno iniziato un percorso virtuoso di crescita economica questo è dovuto al fatto che hanno saputo utilizzare in modo giusto la regola del mercato.
Non riusciremo però a difendere questa verità se non confesseremo che molte volte questa regola della competizione è stata utilizzata in modo falsato, le carte del gioco sono state truccate e i poveri ne hanno fatto le spese. Se si legge con animo sgombro da pregiudizi la grande enciclica Centesimus Annus di san Giovanni Paolo II si vede che essa riconosce pienamente i valori del mercato ma è lungi dall’essere apologetica del capitalismo. Alle economie di mercato, delle quali si riconoscono i meriti anche etici, si pongono però delle forti esigenze morali. Quanto stiamo onestamente dando soddisfazione a questi obblighi morali? È importante notare, d’altro canto, che Papa Francesco ha sottolineato molte volte la positività del modello della economia sociale di mercato.
Noi dobbiamo cercare di aiutare il transito nella nuova sintesi dei valori permanenti dell’Occidente ma per farlo dobbiamo essere capaci di spogliarli di aspetti contingenti che ne possono impedire la giusta universalizzazione. Siamo chiamati anche ad ascoltare e a comprendere, senza pretese di falsa superiorità, altre sensibilità ed altre culture.
Una accusa sollevata frequentemente contro Papa Francesco è quella di essere populista. Forse è vero ma siamo sicuri di sapere esattamente che cosa sia il populismo latino/americano, al di là delle usuali caricature? Il populismo è l’unica originale filosofia politica latino/americana. Essa fa leva sulle idee di giustizia e di diritto naturale che entra nella cultura latino/americana con Bartolomé de Las Casas e con la sua difesa degli Indios. Essa si mescola poi con elementi anarchici, anarco/sindacalisti ed anche fascisti. C’è dentro il meglio ed il peggio ma una autentica visione politica latino/americana verrà fuori da una depurazione e da una scissione interna del populismo.
Un grande amico di Papa Francesco (e mio), Alberto Methol Ferré, ha indicato i lineamenti ed i percorsi di questa possibile purificazione. Non è compito della Chiesa (latinoamericana) accompagnare e sostenere questa purificazione attraverso un confronto serrato con la dottrina sociale cristiana?
Pera vede nel cristianesimo un baluardo dell’Europa e della civiltà occidentale. Ha ragione e questo baluardo io voglio difendere insieme con lui. Quella sintesi europea del cristianesimo contiene valori permanenti e senza di essi l’Europa si dissolve. Il cristianesimo però non si esaurisce nella funzione di difesa della civiltà occidentale. Il cristianesimo può entrare all’interno di altri orizzonti culturali e produrre nuove sintesi. Quella occidentale non esaurisce le potenzialità del cristianesimo. Per questo non è giusto che la Chiesa si identifichi con l’Occidente.
L’Occidente è solo uno dei suoi figli. Come non smettere di esercitare il suo ruolo fondamentale nell’Occidente senza peraltro identificarsi con esso? È necessario che ciascuno si assuma con più decisione le proprie responsabilità. Nel caso della immigrazione è chiaro che il Papa la vede prevalentemente con l’ottica dei paesi poveri. I leader politici e culturali dell’Occidente devono invitare i loro popoli ad essere generosi ma devono anche dire sinceramente, anche al Papa, quali sono i limiti della generosità dei loro popoli, limiti che non possono essere superati senza scatenare una reazione di razzismo e xenofobia.
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente. Uscendo dal limite dell’Occidente essa può forse mediare quel conflitto delle civiltà di cui parla Huntington che è già cominciato e minaccia di estendersi sempre più nel futuro portando alla fine alla distruzione dell’umanità. La Chiesa è chiamata ad essere più veramente cattolica, cioè universale. Il Papa latinoamericano è una tappa di questo cammino.
* Filosofo, politico e accademico italiano, è stato Ministro per due volte, Parlamentare europeo, consigliere comunale a Torino e Vicepresidente della Camera dei Deputati
* LA STAMPA, 20/07/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT. Un omaggio a WOJTYLA: UN CAMPIONE "OLIMPIONICO", GRANDISSIMO. W o ITALY !!!
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Gaffe della Casa Bianca su Theresa May, diventa pornostar
Nei suoi comunicati, l’ufficio stampa ha dimenticato di mettere la ’h’
di Redazione ANSA *
Nuova gaffe dell’amministrazione Trump in politica estera. Dopo aver confuso il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop per il premier Malcolm Turnbull, l’ufficio stampa della Casa Bianca ha ’dimenticato’ la ’h’ nel nome della premier britannica Theresa May. Risultato: in due documenti l’inquilina di Downing Street è diventata la nota star del soft-porn Teresa May.
L’errore, poi corretto, è stato ripetuto due volte nel comunicato di ieri con il quale la Casa Bianca annunciava l’agenda odierna degli incontri Trump-May e una volta in un comunicato dell’ufficio del vice presidente. "Nel pomeriggio il presidente parteciperà ad un incontro bilaterale con il primo ministro del Regno Unito, Teresa May", recitava la nota dell’ufficio stampa della Casa Bianca.
E qualche riga dopo la ’h’ era di nuovo sparita nel previsto "pranzo di lavoro con Teresa May...". Ancora una volta, nella nota dell’ufficio di Mike Pence il nome di battesimo di May è diventato quello della star di un video per la canzone ’Smack My Bitch Up’ del gruppo The Prodigy. "E’ per questo che Donald Trump era eccitato di incontrarla?", commenta ironico il tabloid britannico Mail online riferendosi al previsto colloquio di oggi tra il neo presidente e la premier britannica a Washington. Sempre ieri, ricorda il Mail online, in un altro comunicato la Casa Bianca ha definito il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop il ’primo ministro degli Esteri’ del Paese.
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth, ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità.
E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia.
Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro.
Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse. Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria.
Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOLOGIA, ARTE, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
La “moneta falsa” del filantrocapitalismo.
Una riflessione sulla «carità dei ricchi» *
FILANTROPIA
Tra cariTà e giusTizia
Renato Piccini
La filantropia è diventata di moda nel sistema neoliberista. Per capire, quindi, cos’è, la sua vera natura, il peso che ha nei rapporti economico-sociali, quali sono i suoi meriti e demeriti, è necessario guardare dentro il sistema economico capitalista. Oggi, infatti, vi è una nuova concezione, definita filantrocapitalismo.
La filantropia vuol essere la faccia buona del capitalismo, il suo volto pulito, che giustifica le sue scelte fondamentali, anche quelle della più assurda sperequazione sociale, l’impressionante ingiustizia che genera. (...). Non per niente, infatti, il Paese in cui è più diffusa la filantropia, gli USA, è anche quello in cui la sperequazione sociale raggiunge livelli tra i più alti del mondo.
La filantropia, nella concezione capitalista, esclude ogni senso di giustizia. (...). Chi “fa” filantropia non si sente legato ad alcun obbligo né legge e la esercita in piena libertà, secondo i propri “sentimenti” ma, soprattutto, secondo calcoli economico-politici. Chi la riceve sa che non ha alcun diritto e quindi raccoglie quella “moneta” con un duplice obbligo morale: non calcolare il dono secondo le proprie necessità; accoglierlo, soprattutto, con la massima gratitudine per aver ricevuto ciò cui non aveva diritto.
La giustizia è un obbligo di coscienza (e di legge) per chi deve praticarla e, per il destinatario, è un diritto da rivendicare. (...). Linsey McGoey (...) si interroga sull’efficacia ed efficienza dell’attuale filantropia (non molto diversa da quella del passato), soprattutto nell’ottica del filantrocapitalismo, rendendo evidente che la filantropia non viene esercitata secondo i bisogni e le necessità dell’uguaglianza - un diritto che è di tutti, al di là di ogni cultura, fede, geografia... - ma solo secondo la “bontà” (leggi “interessi”) dei padroni del denaro.
È DAVVERO EFFICIENTE LA FILANTROPIA?
In uno dei suoi racconti brevi, La moneta falsa, Charles Baudelaire descrive un incontro immaginario tra due amici che incrociano per strada un mendicante. Entrambi danno l’elemosina, però la moneta che lascia cadere uno di essi è molto più preziosa. Il narratore elogia la sua generosità e il suo compagno gradisce il complimento, però poi, lontano dal mendicante, aggiunge: «Era una moneta falsa».
Il narratore rimane sbalordito. Non soltanto perché il suo amico ha ingannato il mendicante, ma per la sua soddisfazione di apparire generoso. La soddisfazione deriva dal fatto che il mendicante non si rende conto di essere stato ingannato. Il narratore considera che «aveva voluto fare, a un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; pigliarsi senza spesa la fama d’uomo caritatevole».
Baudelaire scrisse questa storia nella seconda metà del XIX secolo, quando industriali come Andrew Carnegie e John Rockefeller cominciavano a investire le loro grandi fortune nelle maggiori azioni di filantropia mai viste prima. Dalle donazioni di Carnegie a biblioteche pubbliche sino agli investimenti di Rockefeller in ricerche biomediche, entrambi cambiarono il modo di fare carità, che passò da donazioni poco sistematiche a una forma di affare in se stesso, controllato da consulenti pagati.
Molti, tuttavia, non si sentivano riconoscenti per la generosità di questi robber barons (baroni ladri). Nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Oscar Wilde criticò la tendenza dei benefattori di usare la carità come copertura dinanzi alle richieste di una giusta redistribuzione della ricchezza. «I migliori tra i poveri - scrisse Wilde - non sono mai riconoscenti [ai benefattori]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. [...]. Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero essere seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!».
Ora che la filantropia entra in una seconda epoca d’oro, con donazioni di benefattori come Bill Gates e Warren Buffett (...), gli scettici cominciano a chiedersi se le preoccupazioni di Wilde e Baudelaire siano ancora attuali. I filantropi di oggi stanno coscientemente distribuendo “monete false”? Stanno cercando di “conquistarsi senza sforzi la fama d’uomo caritatevole”?
Nella maggior parte dei casi non è così. Le donazioni vengono realizzate in buona fede, con empatia verso vicini o lontani sconosciuti. Sta però affermandosi una nuova tendenza: il filantrocapitalismo, che cerca di combinare il guadagno con la riduzione della povertà. Dietro a questa nuova filantropia c’è il tentativo di fare una buona azione e, allo stesso tempo, realizzare un buon affare. È ancora valido l’interrogativo che si pose Baudelaire: chi trae più vantaggio dagli aiuti di carità, il donatore o il destinatario?
MISURAZIONE DEI RISULTATI
Nell’avanguardia della nuova filantropia si trova il movimento dell’“altruismo efficiente”, che (...) pone l’accento sulla misurazione dei risultati. Un pioniere è Peter Singer, discusso bioetico che ha elogiato Buffett e Gates come “gli altruisti più efficienti della storia”. (...).
L’organizzatore di una recente conferenza sull’altruismo efficiente, svoltasi nel campus di Google in Mountain View, arrivò al punto di affermare che «l’altruismo efficiente potrebbe essere l’ultimo movimento sociale di cui abbiamo bisogno ». Tuttavia è evidente che l’aumento globale delle donazioni negli ultimi dieci anni non è riuscito a ridurre le disuguaglianze economiche. (...).
Carnagie pubblicò il suo primo saggio sulla ricchezza, nel quale esortava i ricchi a condividere il loro bottino, solo pochi anni prima dello sciopero di Homestead del 1892, una delle più sanguinose rivolte di lavoratori della storia degli USA. Carnagie, nel momento in cui combatteva e annientava i grandi sforzi sindacali in espansione, dispensava anche “generosi aiuti” ai suoi lavoratori.
«Paradossalmente - ha segnalato David Nasaw, biografo del filantropo - Carnagie divenne sempre più spietato nella ricerca di guadagni una volta che decise di distribuirne i benefici». «Nel sostenere che il milionario è l’unico a poter decidere dove destinare i suoi milioni e che quanto egli considera migliore è il meglio - aggiunge Nasaw - Carnagie promulgava una verità profondamente antidemocratica, quasi feudale, del suo paternalismo».
Gli altruisti efficienti insistono sul fatto che la filantropia privata è la via più adatta per migliorare la vita. «I filantrocapitalisti di oggi vedono un mondo pieno di grandi problemi che loro, e forse soltanto loro, possono e debbono risolvere », scrivono Matthew Bishop e Michael Green in Filantrocapitalismo: come i ricchi possono cambiare il mondo, la Bibbia dei nuovi filantropi. (...).
Come ai tempi di Carnegie, la filantropia in molte occasioni viene utilizzata come giustificazione per decisioni lesive per la maggioranza della popolazione. «Ho donato 5 milioni di dollari per diverse cause. E ho una grande voglia di farlo sapere», scriveva su Twitter, a metà settembre del 2015, Martin Shkreli, consigliere delegato dell’impresa farmaceutica Turing, criticata duramente per aver aumentato il prezzo del Darapi (un medicinale di prima necessità usato contro gravi malattie infettive che colpiscono il sistema immunitario, ndt) di oltre il 5.000%. Questo è un eccellente esempio di filantrocapitalismo in azione: l’uso della filantropia per sviare l’attenzione da pratiche commerciali che impediscono l’accesso a medicinali salvavita. (...).
LE CONTRADDIZIONI DELLA FILANTROPIA: OPPORTUNITÀ DI PROGRESSO O AMMORTIZZATORE SOCIALE?
La filantropia viene ritenuta in diversi settori della società essenziale nel contesto del XXI secolo. I fautori ne difendono l’importanza e la necessità come argine agli effetti dell’attuale sistema capitalista “selvaggio”. Molte, però, sono le voci contrarie. (...).
«La filantropia - scrive Slavoj Zizek - è il modo in cui il sistema conserva lo status quo. La sua funzione è nascondere l’origine del problema. Grazie alla beneficienza il capitalismo si può auto-assolvere. La beneficienza diviene parte integrante del sistema, la carità fa parte dell’ideologia generale di oggi». Invece di porsi interrogativi seri su cosa sta succedendo e cercare vie d’uscita che garantiscano il bene comune, si delegano le soluzioni al “buon cuore” di chi ha denaro. (...). «La carità - continua Slavoj Zizek - è la maschera comunitaria che si nasconde dietro lo sfruttamento
economico. Per me il modello insuperabile di ciò che io considero “carità falsa” continua a essere Carnegie. Va bene, fece di tutto, costruì anche spazi culturali, per concerti, ecc... però assunse anche centinaia di detective Pinkerton in Texas per piegare i lavoratori in sciopero e liquidare i sindacati. Questo è per me il modello: prima colpisce brutalmente i lavoratori e poi... offre loro un concerto».
Peter Buffett, figlio di Warren Buffett e, come lui, uno dei più grandi filantropi statunitensi - quindi non “sospettabile” di sentimenti antifilantropici - fa un’analisi interessante: «La carità dei ricchi ha creato una macchina di povertà eterna. [...]. Nelle riunioni dei grandi filantropi si possono vedere capi di Stato, operatori economici, direttori di grandi imprese, capi di corporation transnazionali... che con la mano destra cercano soluzioni per risolvere problemi che i presenti nella sala hanno creato con la mano sinistra. [...]. Nella misura in cui la vita di un numero sempre più alto di individui e comunità viene distrutta da un sistema che crea enormi volumi di ricchezza per poche persone, si rafforza la filantropia come sistema per lavarsi la coscienza con la donazione di qualche briciola». (...).
La carità non arriva mai al nucleo del problema, nei casi migliori lo sfiora soltanto. Non si tratta di essere contro la carità, ma è necessario riconoscere l’ipocrisia di un sistema che, con una mano, “accumula e centralizza il capitale” e, con l’altra, “fa la carità per ridistribuire qualcosa”. (...).
José Ignacio Fernández scrive: «Nel capitalismo carità e ipocrisia sono due pilastri essenziali per la sua sopravvivenza: permettono ai ricchi di nascondere l’esistenza di meccanismi sistemici che generano disuguaglianza e ingiustizia sociale. È un po’ il gioco delle maschere per nascondere il comportamento egoista e il furto sistematico».
I sostenitori della filantropia la difendono come garanzia della vera “sostenibilità” che consiste non nel limitarsi “a dare un pesce a chi ha fame, ma nell’insegnargli a pescare”. La “legge della foresta” che “regola” i mercati, affermano, continuerà a creare bolle speculative che apriranno crisi ricorrenti... e il capitalismo produrrà sempre vincitori e vinti, lasciando molta gente vulnerabile e in grandi difficoltà. Se non si corregge qualcosa di queste disuguaglianze, i “vinti”, anche grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, hanno la possibilità di “rovinare la festa” ai vincitori. La filantropia è essenziale per la sopravvivenza dell’umanità perché i grandi filantropi sono gli unici che possono “pensare in grande”. (...).
Il filantrocapitalismo non è altro che applicare alla solidarietà e alla carità i meccanismi imprenditoriali che hanno permesso di accumulare ricchezze multimilionarie. Harry Browne scrive: «L’idea è geniale: fatti ricco nello stesso tempo in cui salvi il mondo!».
Stephan Ernest Schmidheiny è un imprenditore svizzero condannato a 18 anni di carcere dalla Corte d’Appello di Torino per il disastro ambientale provocato dall’amianto negli stabilimenti Eternit in Italia e nei territori limitrofi, poi prosciolto in via definitiva per intervenuta prescrizione di reato e rimasto unico imputato nel processo Eternit-bis per l’ipotesi di reato di omicidio volontario di 258 persone.
In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo, un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia l’hanno giudicato colpevole di disastro ambientale.
Slavoj Zizek (e molti altri) afferma che l’economia capitalistica attuale ingloba l’etica filantropica assumendola come proprio fondamento, un fondamento contraddetto dalle stesse logiche del capitale. Questo meccanismo perverso fa sì che, di fatto, si verifichi «una sovrapposizione tra etica e consumo: chi consuma può comprare, allo stesso tempo, un’azione etica. La redenzione del consumismo è nel consumo stesso».
La pubblicità che si fa delle grandi donazioni filantropiche aiuta a migliorare l’immagine della marca del donatore, associandola a una percezione di impegno sociale. (...). La filantropia diventa così un’ottima arma di concorrenza, un ottimo strumento di pubblicità e marketing.
La filantropia serve al cambiamento sociale? (...). Il giornalista Pere Rusiñol scrive: «L’età d’oro della filantropia è indiscutibile, però le maggiori quote storiche di fondi della filantropia coincidono con le maggiori quote di disuguaglianza della storia contemporanea. L’aumento delle elargizioni della filantropia e della disuguaglianza percorrono strade parallele». Le donazioni filantropiche negli USA si sono triplicate nello stesso periodo in cui gli ultraricchi hanno triplicato anche la loro parte di torta.
Naturalmente ci sono ragioni precise ed evidenti (...). Secondo i calcoli dell’economista francese Thomas Piketty, negli ultimi trent’anni il tasso effettivo delle imposte del 99% dei cittadini statunitensi è stato, praticamente, costante, mentre per i super-ricchi, in seguito alle detrazioni per “opere benefiche”, è passato dal 72 al 35%.
Lo stesso avviene per le grandi corporazioni con la diminuzione delle imposte per l’aumento della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR - Corporate Social Responsability). (...). L’economista francese Gabriel Zucman mette in guardia sul fatto che questa nuova età d’oro della filantropia, basata sulla riduzione delle imposte pagate dai ricchi e dalle imprese, «mina le fondamenta stesse del controllo sociale. Una società nella quale i ricchi decidono per proprio conto quante imposte pagare e a quali servizi pubblici sono disposti a contribuire non è una società civile. Questo è ciò che succedeva nella società vittoriana del XIX secolo e non dovrebbe succedere nel XXI. Se i multimilionari sono liberi di contribuire alla società, perché debbono pagare imposte? L’atteggiamento di molti, in particolare in Silicon Valley, si riassume in: smetti di farmi pagare imposte e darò la mia ricchezza alle cause che ritengo valgano la pena».
Molte “cause che valgono la pena” hanno quasi sempre a che vedere con la fede assoluta nella tecnologia in grado di risolvere, per se stessa, i problemi dell’umanità. Le fondazioni dei filantrocapitalisti sono lo strumento più importante usato dal capitale per penetrare in settori strategici dove fare affari (salute, educazione, ambiente, comunicazione...).
Ricercatori inglesi e tedeschi sono molto critici circa il potere decisionale dei grandi filantropi in grado di imporre a entità pubbliche e organizzazioni internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, Organizzazione Mondiale del Commercio, ONU, ecc...) sia l’agenda - i problemi che debbono essere presi in considerazione - sia la metodologia per affrontarli e gli obiettivi che ci si pongono, privilegiando le “soluzioni” idonee e congeniali alle transnazionali. Questi milionari rappresentano un pericolo poiché possono imporre le loro priorità nel mondo, al margine di governi e del sistema democratico: la democrazia diventa una mera facciata al servizio del potere economico-finanziario.
La Fondazione Gates, ad esempio, finanzia campagne in campo sanitario, ma, attraverso intense campagne di lobby, difende anche la validità della proprietà intellettuale per assicurare ampi benefici ai suoi brevetti di software. I brevetti, però, colpiscono anche medicinali e sementi, condizionando pesantemente il diritto alla salute e all’alimentazione di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri.
La filantropia, infatti, è anche espressione delle lobby più potenti, in grado di condizionare ogni aspetto della vita, della politica, dell’economia. (...). Per il mondo della filantropia l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa è abituale: è indispensabile poter contare sull’informazione per far passare il proprio messaggio e portare a casa grandi profitti. (...). Naturalmente, anche in questo campo c’è un uso perverso del linguaggio: cancellati termini riconducibili a diritti sociali, si parla di “necessità” a cui rispondere con azioni filantropiche. (...).
Slavoj Zizek afferma: «La filantropia ha sostituito la politica ». La politica non è più un “affare comune”, è affidata a “professionisti” e rappresentanti, mentre il semplice cittadino deve limitarsi a preoccuparsi/occuparsi dei propri “affari privati”.
Nella privatizzazione “selvaggia”, a tutto campo, del sistema neoliberale, il “cittadino” diviene “insignificante”, non ha voce né spazio, non è ritenuto in grado di decidere cosa sia bene per lui - e tanto meno per la società - per cui ha l’obbligo di “scegliere” ciò che è stato scelto da altri per lui. (...).
Rhodes Diaves, responsabile del programma Giving Thought, della Charities Aid Foundation, chiede: «Come è possibile affrontare ingiustizia e disuguaglianze, quando la filantropia è possibile proprio come risultato della mancanza di equità?». (...).
Andando al di là di ideologie ed emozioni, se analizziamo a grandi linee il ruolo storico della filantropia, le sue conseguenze sociali, economiche e culturali, sembra che questa sia stata più una nemica che un’alleata nella trasformazione dell’attuale sistema economico verso uno più giusto ed equilibrato: una società veramente sana, retta da un modello basato su giustizia ed equità, non avrebbe alcun bisogno di gesti filantropici. Oscar Wilde diceva: «Il vero obiettivo deve esser quello di ricostruire la società in modo tale che la povertà sia impossibile ».
La filantropia rientra nella logica di privatizzare gli interventi su effetti, sintomi, conseguenze che non colpiscono mai le cause, perché queste sono originate dal sistema e ne perpetuano la priorità, prima tra tutto la demolizione del Welfare.
Di certo lo Stato attuale si allontana sempre più da un reale Stato di diritto, rappresentativo dei diritti e degli interessi delle maggioranze, preso com’è tra le spire soffocanti dell’economia e del potere finanziario internazionale, però il futuro della storia non può essere affidato a chi del sistema vive e che tale sistema ha creato e perpetuato: pure questo è un campo aperto da affrontare e per cui lottare.
* Adista/Documenti, 30 LUGLIO 2016 • N. 28
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (Coro)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" A PAGAMENTO!!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
"Corrotti perdono pudore e dignità, provino vergogna"
Esce libro. "Mai emarginare i gay, ogni creatura è amata da Dio"
di Fausto Gasparroni (Ansa, 12 gennaio 2016)
ROMA "Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia". E’ quasi un vademecum per il Giubileo il libro-intervista di papa Francesco con Andrea Tornielli, "Il nome di Dio è misericordia" (Piemme, pp. 120, 15.00 euro), uscito oggi in 86 Paesi e presentato a Roma con ospiti come Roberto Benigni e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. "La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita - vi afferma Bergoglio -. Non aspetta che i feriti bussino alla sua porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati".
Nell’agile volume c’è tutta la visione di Francesco sulla misericordia, vero balsamo per "l’umanità ferita" del terzo millennio, cui ha voluto dedicare l’Anno Santo straordinario ponendola al centro della stessa idea di cristianesimo: "la misericordia è la carta d’identità del nostro Dio. Dio di misericordia. Dio misericordioso. Per me questa è davvero la carta d’identità del nostro Dio". Rivelando tra l’altro come una prima idea dell’Anno giubilare l’ebbe in embrione in una tavola rotonda tra teologi ai tempi di Buenos Aires: "si discuteva su che cosa il Papa potesse fare per avvicinare la gente, di fronte a tanti problemi che sembravano senza soluzione. Uno di loro disse: ’Un giubileo del perdono’. Questo mi è rimasto in mente". Forte l’accento posto dal Papa sul valore del sacramento della penitenza, sui confessori che devono avere "tenerezza" e "non allontanare" la gente che "soffre". E se, da una parte, "andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria", dall’altra i confessionali "non devono mai essere stanze di tortura". "A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale", confida Francesco. La stessa giustizia terrena "è più giusta, realizza davvero se stessa", se attuata "con la misericordia". Ecco quindi la crescita nella coscienza mondiale del "rifiuto della pena di morte". Bene anche "quanto si sta cercando di fare per il reinserimento sociale dei carcerati". La misericordia divina, insomma, "contagia l’umanità".
Tuttavia le parole più forti del Pontefice sono ancora sulla piaga della corruzione, un peccato che "viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere". "Il corrotto - denuncia Francesco - è così chiuso e appagato nella soddisfazione della sua autosufficienza che non si lascia mettere in discussione da niente e da nessuno. Ha costruito un’autostima che si fonda su atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri". Per il Papa, "il corrotto ha sempre la faccia di chi dice: ’Non sono stato io!’. Quella che mia nonna chiamava ’faccia da santarellino’". Il corrotto, in altre parole, "è quello che s’indigna perché gli rubano il portafoglio e si lamenta per la scarsità di sicurezza che c’è nelle strade, ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per evitare si assumerli a tempo indeterminato oppure sfrutta il lavoro in nero. E poi si vanta pure con gli amici di queste sue furbizie". E’ quello "che magari va a messa ogni domenica, ma non si fa alcun problema nello sfruttare la sua posizione di potere pretendendo il pagamento di tangenti". La corruzione, insomma, "fa perdere il pudore", mentre "il corrotto spesso non si accorge del suo stato, proprio come chi ha l’alito pesante e non se ne rende conto". Il Papa lo ripete più volte: "peccatori sì, corrotti no!", perché nell’animo dei secondi non c’è il pentimento e la richiesta di perdono. "Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo - aggiunge -, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna, la grazia di riconoscersi peccatori bisognosi del Suo perdono".
Bergoglio torna con chiarezza anche sul tema dei gay: "persone omosessuali", vuole che le si chiami, perché "prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore". "Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnandole", risponde a una domanda sulla sua esperienza di confessore. E a proposito della sua celebre frase "Chi sono io per giudicare?" afferma: "Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare".
Papa Francesco, scritto di suo pugno il titolo del libro che uscirà a gennaio *
È autografo il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli, ’Il nome di Dio è Misericordia’, in uscita il 12 gennaio, in occasione del Giubileo straordinario. Il Pontefice ha voluto vergare si suo pugno le copertine delle sei edizioni in lingua italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola e portoghese. Sono 17 gli editori coinvolti nel lancio in contemporanea mondiale del libro in 84 Paesi e che in Italia sarà pubblicato da Piemme.
Vatileaks 2, verifiche sulle canonizzazioni: bloccati 409 conti Ior tra cui quello di padre Georg
Lo scandalo dei "cacciatori dei miracoli": tariffa media di 500mila euro a caso. La figura chiave è il cosiddetto postulatore, una sorta di pm che deve indagare sulla presunta santità e mostrarne le prove sotto forma di prodigi. Coinvolto anche l’ex segretario personale di Benedetto XVI
di Fabrizio d’Esposito *
Senza soldi non si diventa santi. È stato tre lustri fa, che con il suo L’ora di religione, Sergio Castellitto protagonista, Marco Bellocchio denudò crudelmente il commercio vaticano sulle canonizzazioni, raccontando la storia di una famiglia romana decaduta che cerca di risollevarsi economicamente investendo tutto sul processo di santità della mamma morta. Ed è propria la causa per la canonizzazione il segreto per moltiplicare il denaro. In merito, uno dei libri del nuovo Vatileaks, quello di Gianluigi Nuzzi, Via Crucis (Chiarelettere) contiene una notizia clamorosa.
Quattrocento conti per 40 milioni di euro
Quando papa Bergoglio, appena eletto, dispone un’inchiesta sui traffici milionari della Congregazione che si occupa di portare sugli altari uomini e donne di fede - e retta da un fedelissimo bertoniano, il cardinale Angelo Amato - la neocommissione per la riforma delle finanze (la fatidica Cosea) ordina il blocco di 409 conti dello Ior, la banca vaticana, per un totale di 40 milioni di euro. Tra questi c’è anche un nome pesantissimo, quello di monsignor di Georg Gänswein, storico segretario di Benedetto XVI e rimasto al servizio di papa Bergoglio. Il numero dell’importante cliente, presso la banca vaticana, è 29913. Scrive Nuzzi: “La disposizione dunque coinvolge anche il conto corrente di monsignor Georg Gänswein, già segretario personale di Benedetto XVI e ora prefetto della casa pontificia. C’è anche il conto corrente di padre Antonio Marrazzo, postulatore per la beatificazione di papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini; e quello di monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. Si rischia un incidente diplomatico già dopo i primi passi della commissione”. Alla fine del 2013, la Cosea fa sbloccare 114 dei 409 depositi.
Diventare santi e fatturazione
Il processo per diventare santi è particolarmente lungo, anni se non decenni. La figura chiave è il cosiddetto postulatore, una sorta di pm che deve indagare sulla presunta santità e mostrarne le prove sotto forma di miracoli. In Vaticano sono due avvocati laici ad avere il monopolio delle cause. Il più noto e prestigioso si chiama Andrea Ambrosi ed è un legale che fa solo questo. Per avere il patentino di postulatore c’è un corso parauniversitario da frequentare e superare. La famiglia Ambrosi, poi, è anche proprietaria della tipografia che stampa in esclusiva gli atti delle cause. Si tratta di montagne di carta, un altro affare a tantissimi zeri. Insieme allo studio Ambrosi, altra postulatrice è Silvia Correale. In media, la santità costa tra i 400mila e i 500mila euro. Per il filosofo Antonio Rosmini, si è arrivati a ben 750mila euro, di cui la metà solo per organizzare la cerimonia di beatificazione in piazza San Pietro. Avviare una causa presuppone già un anticipo di 20mila. Poi ci sono i costi di trasferte e di studio di documenti più la traduzione della mole di atti in latino, lingua ufficiale della Santa Sede.
Mezzo milione per la beatificazione
Nel secondo libro che esce oggi, quello di Emiliano Fittipaldi, Avarizia (Feltrinelli), c’è un ampio elenco di cause costate centinaia di migliaia di euro. A gestire i soldi sono i postulatori, con conti dello Ior, e quando la Cosea ha chiesto i bilanci o un rendiconto delle spese, il cardinale Amato ha risposto che questa certificazione non esiste. Un pozzo senza fondo. Nell’autunno di due anni fa, per esempio, una congrega spagnola di Palma di Maiorca ha messo 482.693 euro sul conto della banca vaticana per la canonizzazione della beata Francisca Ana de los Dolores. La fabbrica dei santi, nata nel 1588 su impulso di Sisto V, ha ricevuto un formidabile impulso alla produzione sotto il pontificato dell’ultimo papa magno, Giovanni Paolo II: 1.338 beati e 482 santi proclamati in 27 anni di regno. I più attivi e dispendiosi sono gli americani. Solo dal 2008 al 2013, la beatificazione dell’arcivescovo e telepredicatore Fulton John Sheen è lievitata a 332mila euro, pagati da una fondazione intestata all’“esaminando”. Il grosso della cifra rappresenta gli onorari di Ambrosi, che si è giustificato così nel gennaio del 2014: “La stesura della positio (la relazione finale, ndr) si basa sullo studio e l’elaborazione di oltre settanta volumi. Essendo poi stato monsignor Sheen uno dei più fecondi scrittori di Gesù e Maria, ho dovuto farmi mandare e leggere - per trovare spunti aggiunti sull’esercizio virtuoso - la sua opera omnia, ammontante a ben ottantatré volumi”. La vita dei “cacciatori di miracoli” è senza dubbio durissima. Iniziata nel 2002, la beatificazione di Sheen è stata sospesa a tempo indeterminato perché l’arcidiocesi di New York non ha voluto spostare le spoglie del monsignore nella sua città natale, Peoria.
Le trattative con i re del tabacco
Dai santi alle sigarette, la disinvoltura della curia vaticana non ha confini. Nuzzi pubblica una bozza di accordo segreto tra la Santa Sede e una multinazionale del tabacco, la Philip Morris in cui quest’ultima si impegna a dare compensi per la promozione della vendita delle sigarette tra le mure leonine, dove c’è un autentico duty free.
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«No ai “cattolici ma non troppo”. Attenti a egoismo e potere»
Il Papa a Santa Marta: «Dio dona con gratuità, tanto grande che ci fa paura»; con Lui «il contraccambio non serve»; la fiducia non piena nel Signore «ci rimpiccolisce»
di Domenico Agasso jr (La Stampa, 4/11/2014)
Roma Il Signore dona con gratuità, ecco perché nella legge del Regno di Dio il «contraccambio non serve». Ma la Sua gratuità provoca paura, «è tanto grande che ci fa paura». Papa Francesco nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta - sintetizzata da Radio Vaticana - ha avvertito che, a volte, per egoismo o voglia di potere si rifiuta la festa a cui il Signore invita gratuitamente. A volte, ha avvertito, ci si fida di Dio «ma non troppo».
Un uomo dà una festa, ma gli invitati trovano delle scuse per non andare: il Pontefice ha sviluppato la sua omelia partendo da questa parabola, che fa pensare, ha detto, perché «a tutti piace andare a una festa, piace essere invitati»; ma in questo banchetto «c’era qualcosa» che a tre invitati, «che sono un esempio di tanti, non piaceva».
Uno dice che deve vedere il suo campo, ha voglia di vederlo per sentirsi «un po’ potente», «la vanità, l’orgoglio, il potere e preferisce quello piuttosto che rimanere seduto come uno tra tanti». Un altro ha comprato cinque buoi, quindi è concentrato sugli affari e non vuole «perdere tempo» con altra gente. L’ultimo infine si scusa dicendo di essere sposato e non vuole portare la sposa alla festa.
«No - ha detto il Papa - voleva l’affetto per se stesso: l’egoismo». «Alla fine - ha proseguito - tutti e tre hanno una preferenza per se stessi, non per condividere una festa: non sanno cosa sia una festa».
Sempre, ha ammonito Papa Bergoglio, «c’è l’interesse, c’è quello che Gesù» ha spiegato come «il contraccambio»: «Se l’invito fosse stato, per esempio: “Venite, che ho due o tre amici affaristi che vengono da un altro Paese, possiamo fare qualcosa insieme”, sicuramente nessuno si sarebbe scusato. Ma quello che spaventava loro, era la gratuità. Essere uno come gli altri, lì? Proprio l’egoismo, essere al centro di tutto... È tanto difficile ascoltare la voce di Gesù, la voce di Dio, quando uno gira intorno a se stesso: non ha orizzonte, perché l’orizzonte è lui stesso. E dietro a questo c’è un’altra cosa, più profonda: c’è la paura della gratuità. Abbiamo paura della gratuità di Dio. È tanto grande che ci fa paura».
Questo, ha detto, avviene «perché le esperienze della vita, tante volte ci hanno fatto soffrire» come succede ai discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme o a Tommaso che vuole toccare per credere. Quando «l’offerta è tanta - ha detto, riprendendo un proverbio popolare - persino il Santo sospetta», perché «la gratuità è troppa». «E quando Dio ci offre un banchetto così», ha affermato Francesco, pensiamo sia «meglio non immischiarsi»: «Siamo più sicuri nei nostri peccati, nei nostri limiti, ma siamo a casa nostra; uscire da casa nostra per andare all’invito di Dio, a casa di Dio, con gli altri? No. Ho paura. E tutti noi cristiani abbiamo questa paura: nascosta, dentro... ma non troppo. Cattolici, ma non troppo. Fiduciosi nel Signore, ma non troppo. Questo “ma non troppo”, segna la nostra vita, ci fa piccoli, no?, ci rimpiccolisce».
«Una cosa che mi fa pensare - ha aggiunto il Papa - è che, quando il servo riferì tutto questo al suo padrone, il padrone» si adira perché è stato disprezzato. E manda a chiamare tutti i poveri, gli storpi, per le piazze e le vie della città. Il Signore chiede al servo che costringa le persone a entrare alla festa. «Tante volte - ha commentato Francesco - il Signore deve fare con noi lo stesso: con le prove, tante prove»: «Costringili, che’ qui sarà la festa. La gratuità. Costringe quel cuore, quell’anima a credere che c’è gratuità in Dio, che il dono di Dio è gratis, che la salvezza non si compra: è un grande regalo, che l’amore di Dio... è il regalo più grande! Questa è la gratuità. E noi abbiamo un po’ di paura e per questo pensiamo che la santità si faccia con le cose nostre e alla lunga diventiamo un po’ pelagiani eh! La santità, la salvezza è gratuità».
Gesù, ha evidenziato il Pontefice, «ha pagato la festa, con la sua umiliazione fino alla morte, morte di Croce. E questa è la grande gratuità». Quando si osserva il Crocifisso, ha detto ancora, pensiamo che «questa è l’entrata alla festa»: «Sì, Signore, sono peccatore, ho tante cose, ma guardo Te e vado alla festa del Padre. Mi fido. Non rimarrò deluso, perché Tu hai pagato tutto».
Oggi «la Chiesa ci chiede di non avere paura della gratuità di Dio»; soltanto, «noi dobbiamo aprire il cuore - ha concluso - fare da parte nostra tutto quello che possiamo; ma la grande festa la farà Lui».
Fuoritempio
Una grazia senza “misura”
di Andrea Grillo *
Vi è, nella liturgia della parola
di questa domenica, un sottile
gioco di “percentuali”. La
parola, che pure scende
“come la pioggia” sulla terra,
ritorna con frutto solo con molta
fatica. L’annuncio del Regno
è facilmente soffocato, lasciato
seccare, rovinato, perduto.
Ma dove viene accolto,
recepito e rielaborato, allora
“dà molto frutto”.
La correlazione
fondamentale che qui
viene prospettata è quella
tra dono di grazia e risposta
della libertà.
Le percentuali, dicevo. Ogni moralismo nasce immediatamente dalla illusione che ogni terreno sia, facilmente, produttivo di frutti. Questa prospettiva nega un punto essenziale della tradizione cristiana, ossia che la grazia di Dio entra in rapporto con la libertà dell’essere umano.
Il dono è sovrabbondante, ma la cosa difficile è saperlo accogliere adeguatamente. Dove però la difficoltà viene superata, il controdono è sovrabbondante a sua volta. Potremmo dire che vi è una doppia forma di capovolgimento: dal molto al poco e dal poco al molto.
D’altra parte, tutto il brano evangelico, anche dove commenta il “parlare in parabole”, gioca ancora su questi passaggi di “quantità”: “a chi ha poco, sarà tolto quel poco che ha e a chi ha molto sarà dato molto”. Le analogie sulla quantità sono però discorsi sulla qualità. Ci insegnano la “qualità fine” del rapporto con il Dio che parla.
La prima lettura anticipa la verità del Vangelo, in forma compiuta, potremmo dire ne presenta il senso facendo economia del dramma. È la pioggia che “dà il seme a chi semina e il pane a chi mangia”, è la parola che “opera e compie” quanto desiderato.
Allo stesso modo la risposta della Chiesa, nel Salmo, è anch’essa “pienezza del Regno”, “recezione compiuta”: è il “terreno buono”, ricco di messi e di greggi; è la forma definitiva del mondo, è giardino, è “paradiso”.
Ma in Paolo appare tutto il dramma della creazione, minacciata dalla caducità e dalla schiavitù della corruzione. L’orizzonte della pienezza è la speranza in ciò “che non si vede”, cui guarda una storia segnata dalla finitezza e dalla morte. Le doglie del parto sono la condizione anche di coloro che hanno ricevuto le “primizie dello Spirito” e che aspettano la redenzione dei corpi.
Questo è il quadro nel quale si inserisce la parola del Vangelo. Tutta orientata, dunque, all’ascolto della Parola come condizione della pienezza. Il “terreno buono” non sta alla fine, ma all’inizio. Non è la eventualità ultima, ma la destinazione prima.
La spiegazione della parabola è, da questo punto di vista, del tutto illuminante. Si potrebbe dire che è una “contestualizzazione drammatica del testo di Isaia”. È una profezia che acquista lucidità. Non è la storia del peccato che ostacola la grazia, ma piuttosto la storia della grazia che si realizza nonostante e oltre il peccato.
Ciò, evidentemente, non esclude una lucida analisi del peccato. Ma sottintende, senza semplicismi, che ad un “peccato originale” va premessa, e riconosciuta, una grazia più originale, una grazia prima, un primato di grazia.
Le primizie dello Spirito, che la lettera ai Romani ricorda, sono proprio il dono di questa coscienza diversa, che non idealizza astrattamente la grazia, ma nemmeno enfatizza ossessivamente il peccato.
La “buona notizia” ristabilisce il primato del dono della Parola. Il dono è esigente, ma non impegna il soggetto in un giudizio moralistico, bensì nella riconosiderazione della contingenza della propria risposta, condizionata da molti fattori negativi, ma illuminata dall’alto da questa luce, cui ogni essere umano è originariamente destinato.
Su questa “universale destinazione a recepire il dono della parola” il cristianesimo gioca la propria carta più decisiva.
Ma per nutrire di sostanza questa opzione radicale deve farsi capace di una considerazione realistica e pudica della complessità con cui ogni essere umano risponde, nella propria storia di libertà, a questo dono di grazia.
* liturgista laico, docente di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e di Teologia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova, nonché dell’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona. Il suo ultimo libro è “Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati” (Cittadella, 2014, pp. 90, euro 9,80)
* ADISTA 21 GIUGNO 2014 - Anno XLVIII - n. 6234
Il gesto ecumenico di Papa Francesco, in ginocchio davanti ai non cattolici
di Luigi Accattoli (Corriere della sera, 02.06.2014)
«Mi raccomando l’eloquenza dei gesti» aveva detto Francesco ai vescovi italiani il 19 maggio: ed eccolo ieri all’Olimpico che s’inginocchia per «ricevere» la preghiera dei cinquantamila su di lui. Qui l’eloquenza sta nella capacità di quel gesto di dare un’evidenza plastica alla sua costante richiesta «pregate per me».
Quello di ieri non è un gesto pacifico nella Chiesa, perché tra la folla che pregava per lui c’erano anche i «carismatici» appartenenti a Chiese protestanti; così come non sarà senza risonanze polemiche l’incontro di preghiera di domenica prossima, al quale ha chiamato i presidenti Shimon Peres e Abu Mazen. Papa Bergoglio sa bene che i gesti non sono eloquenti se sono innocui, ma parlano quando smuovono.
Il gesto di inchinarsi per ricevere la preghiera del popolo Francesco lo compì al primo affaccio alla loggia di San Pietro la sera dell’elezione. Quell’inchino è nuovo nella tradizione papale, ma non era nuovo nella biografia di Bergoglio che già l’aveva sperimentarlo da arcivescovo di Buenos Aires in un’occasione per la quale i tradizionalisti l’accusarono di «apostasia», cioè di rinnegamento della fede, dal momento che allora - come di nuovo ieri - si era inginocchiato per ricevere la preghiera di un’assemblea composta anche da «eretici».
Era il 19 giugno 2006 e il cardinale Bergoglio partecipava a un raduno ecumenico allo stadio Luna Park di Buenos Aires. «A un certo punto il pastore evangelico chiese che tutti pregassero per me» racconterà il futuro Papa a pagina 197 del volume Il Cielo e la terra che è del 2010. Mentre tutti pregavano, dirà ancora, «la prima cosa che mi venne in mente fu di inginocchiarmi per ricevere la preghiera e la benedizione delle settemila persone che si trovavano lì».
Per l’accoglienza di quella «benedizione» ecumenica come - e ancora di più - per le sue iniziative di incontri di preghiera con ebrei e musulmani, egli era contestato in patria e forse tornerà a esserlo ora da Papa, dopo il gesto di ieri e in vista di quello di domenica prossima. Unire le preghiere è impresa ardua sulla terra.
Il Papa ai carismatici: “Il diavolo odia la famiglia”
di Gia. Gal. (La Stampa, 02.06.2014)
Novanta minuti memorabili. All’Olimpico scoppia un boato da curva come per un gol di Totti quando il Papa scherza: «All’inizio credevo che Rinnovamento nello Spirito fosse una scuola di samba». Poi avverte: «Nella Chiesa quando uno si crede importante, inizia la peste».
Infine si inginocchia e prega con i 52mila fedeli riuniti allo stadio di Roma. «Nessuno può dire “io sono il capo”, non bisogna diventare controllori della grazia, guardatevi dall’eccessiva organizzazione». Secondo il Pontefice «si scartano gli anziani che sono la saggezza e il diavolo vuole distruggere la famiglia». Rispondendo alle questioni poste da quattro «carismatici», Francesco ha chiesto ai preti di essere vicini alla gente, alle famiglie di difendersi dal male, ai ragazzi di non tenere in cassaforte la propria giovinezza e ha ringraziato i disabili per la testimonianza alla Chiesa.
Poi ha convocato a piazza San Pietro per la Pentecoste del 2017 laici e sacerdoti impegnati nel movimento in 200 Paesi del mondo.
A 50 anni dal libro di Hannah Arendt
LA NUOVA "BANALITA’ DEL MALE"
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 05.01.2014) *
Esattamente cinquant’anni fa Hannah Arendt, la filosofa ebrea tedesca allieva di Martin Heidegger e di Karl Jaspers, pubblicava l’edizione definitiva del suo libro "La banalità del male", frutto del lavoro svolto a Gerusalemme come inviata del "New Yorker" per seguire lo storico processo ad Adolf Eichmann. Il criminale nazista responsabile dello sterminio di milioni di Ebrei era stato catturato l’anno prima a Buenos Aires dove aveva vissuto indisturbato per anni.
Il "reportage" della Arendt si sviluppava in una serie preziosa di considerazioni morali, che furono poi raccolte e ampliate nel libro. La tesi che emerge dalle straordinarie pagine di questo testo è per molti aspetti sconcertante: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme» (282). Il messaggio che scaturiva dal caso Eichmann, quello «che il suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato», era per la Arendt «la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male» (259).
Su questa lezione mi sembra importante ritornare perché, fatte salve le ovvie differenze fra quello che fu "il male assoluto" e quelli che sono i mali del nostro presente, non c’è dubbio che molti di essi derivino dalla mentalità del "così fan tutti", giustificata dai cattivi maestri della scena pubblica, in particolare di quella politica. Provo ad articolare questa riflessione sull’insinuante presenza della "banalità del male" su tre fronti, che convergono nel male endemico e distruttivo della corruzione: la perdita diffusa del senso del dovere; il rimando alle altrui responsabilità per scaricare le proprie; la disaffezione nei confronti del bene comune, a favore di quello personale o della propria "lobby".
Il senso del dovere è a fondamento della coscienza morale e del comportamento che ad essa si ispira. Nella sua essenza esso consiste nella disposizione ferma a compiere il bene perché è bene e a fuggire il male per l’unica ragione che è male. Applicato all’etica del lavoro questo principio comporta la cura rigorosa da mantenere nell’assolvimento dei propri compiti, a prescindere dal riconoscimento altrui e dalla ricerca pur così naturale di gratificazioni.
Fare bene ciò di cui si è incaricati - purché ovviamente non contrasti con la legge morale inscritta in ciascuno di noi, com’è riassunta nei precetti del Decalogo - vuol dire contribuire alla qualità della vita di tutti, fino a poter avvertire il senso del giusto orgoglio di aver fatto la propria parte per migliorare l’esistenza collettiva. Essere paghi del bene compiuto non è egoismo: esattamente al contrario è uno dei volti dell’amore per gli altri, che è alla base della legge morale.
Un servitore dello Stato che rimandasse colpevolmente a domani ciò che può fare oggi nel dare risposte a chi richiede i suoi servizi, specialmente nell’ambito delle necessità dello stato sociale, cadrebbe in una mancanza etica, che dovrebbe pesargli a prescindere da qualsivoglia sanzione (peraltro spesso inesistente o ignorata).
Si pensi, per fare due esempi ben noti, ai tanti casi di esasperante lentezza della giustizia o ai continui rimandi della politica nell’affrontare questioni urgenti e necessarie, come la riforma dell’attuale, pessima legge elettorale. Se questa sensibilità morale è richiesta specialmente a chi deve assolvere a un servizio pubblico, essa mi sembra sia doverosa per tutti, perché indispensabile al bene di tutti.
La perdita del senso del dovere viene per lo più giustificata dal rimando alle responsabilità altrui: se sono i capi a dare il cattivo esempio, si comprende come il meccanismo di deresponsabilizzazione si diffonda a macchia d’olio.
I cattivi maestri si possono trovare tuttavia in molti ambiti della scena pubblica: si tenga conto dell’influenza che hanno specialmente sui giovani alcuni comportamenti o stili di vita immorali di protagonisti dello spettacolo e dello sport; o si pensi alle autogiustificazioni o addirittura alla semplice negazione della responsabilità giuridica o morale che figure di rilievo della politica danno di propri comportamenti scorretti, perfino quando essi siano stati accertati e condannati a più livelli di azione giudiziaria. Questo modo di fare corrompe le scelte e le motivazioni di tanti: i corrotti diventano a loro volta corruttori, e questi si giustificano con la logica perversa del "così fan tutti".
È un veleno che dilaga facilmente: «Si comincia con una piccola bustarella, ed è come una droga», afferma Papa Francesco, stigmatizzando una prassi che porta tanti a dar da mangiare ai loro figli "pane sporco". In tal senso, la corruzione è peggio del peccato, perché erode in profondità la coscienza morale e induce a sguazzare nella "banalità del male".
La diffusione di comportamenti corrotti va poi di pari passo con la crescita della disaffezione al bene comune, che è forse oggi la malattia dell’anima più insidiosa per la nostra società: la sola logica che sembra debba giustificare le scelte diventa quella del "che me ne viene?". La preoccupazione del benessere proprio e della propria lobby prevale su ogni considerazione che finalizzi l’agire al maggior bene di tutti. Si perde così il senso dell’impresa collettiva, del sogno e della speranza di una giustizia più grande; si spegne nei cuori la passione per ciò che è possibile, da fare al servizio degli altri per la costruzione di un domani migliore per tutti.
Non sorprende in questo clima avvelenato che i giovani provino disgusto per l’impegno sociale e politico e preferiscano rintanarsi nel privato della propria ricerca di vantaggi e di sicurezze per il futuro. A questa mentalità che riduce il male a banalità si può reagire in un solo modo, ritrovando il senso della serietà della vita, del suo spessore morale, della dignità unica e irripetibile dell’esistenza personale.
L’indignazione, su cui insiste il fortunato pamphlet di Stéphane Hessel, il grande vecchio della resistenza francese, recentemente scomparso ("Indignez-vous!", Paris 2010, in traduzione italiana: "Indignatevi!", Torino 2011), può essere il primo passo, l’appello a un risveglio. Ciò di cui, però, c’è assoluto bisogno è l’impegno serio e perseverante al servizio del bene comune, vissuto nella fedeltà rigorosa e continua alle esigenze morali. La domanda di Gesù riassume l’antidoto necessario alla banalità del male: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Luca 9,25).
Misurarsi sulle esigenze di un giudizio assoluto non è rifugio consolatorio, ma fondamento di un’esistenza che valga la pena di essere vissuta e di una tensione etica e spirituale in grado di dare dignità e bellezza alla fatica dei giorni, rendendo serio e grande ciò che appare o si vorrebbe ridurre a semplicemente banale. Tendere a questa serietà, amarla, custodirla ed essere pronti a pagare di persona per non rinunciarvi è l’augurio migliore che si possa fare a se stessi e agli altri in questo inizio di un anno nuovo.
* Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
La carità di fra Cristoforo e le sirene di Ulisse
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 04.01.2014)
Quando diffida i religiosi dal nutrire un «cuore acido» il riferimento potrebbe essere alla Monaca di Monza del Manzoni che viveva «nell’astio» la vita monacale alla quale era stata costretta. Il richiamo ad attrarre con la carità e a mostrare al mondo che si può «vivere diversamente» ha dietro la figura di fra Cristoforo. Ma nelle direttive del Papa ai «Superiori Generali» ci sono sottotraccia anche richiami meno specifici e di scuola: l’Odissea e l’Eneide, Dante e il Martin Fierro di José Hernández (1834-1886), che è il poema nazionale argentino.
Un riferimento al Martin Fierro lo trovo nell’invito ai religiosi a recuperare la «tenerezza materna» verso le persone affidate alla loro cura. In un saggio sul poema di Hernandez pubblicato nel 2002 il cardinale Bergoglio riportava questi versi come monito ad apprendere il dovere della tenerezza verso i più deboli: «La cicogna quando è vecchia / perde la vista, e si affannano / a curarla nell’età matura / tutte le sue figlie piccole. / Imparate dalle cicogne / questo esempio di tenerezza».
Un rimando all’Ulisse dell’Odissea possiamo vederlo nel richiamo rivolto ai religiosi perché siano «uomini e donne capaci di svegliare il mondo», cioè di scuoterli dall’incantamento «mondano». Era a questo scopo che nell’intervista del settembre scorso alle riviste dei Gesuiti aveva paragonato i «valori avariati» dell’umanità di oggi al «pensiero ingannato» di Ulisse «davanti al canto delle sirene».
L’Enea dell’Eneide fa capolino tra le righe dell’invito a esplorare e «illuminare il futuro», posto come esemplificazione del compito «profetico» dei religiosi. Più volte nei testi del cardinale Bergoglio ricorre l’immagine di Enea che dopo l’incendio di Troia «si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro» (così per esempio nel volume «Il nuovo Papa si racconta», Corriere della Sera 2013, p. 67).
Quando dice «non negoziabile» la predicazione evangelica e afferma rudemente che si tratta di «essere profeti e non di giocare a esserlo», viene alla mente un discorso ai vescovi spagnoli (gennaio 2006) nel quale a quello stesso scopo da cardinale aveva citato il canto XXIX del Paradiso di Dante: «Non disse Cristo al suo primo convento [gruppo di discepoli]: / andate e predicate al mondo ciance».
Per il capitolo della «inculturazione» del cristianesimo nelle diverse civiltà Francesco cita i gesuiti che in tale impresa sono stati più creativi, da Matteo Ricci (1552-1610) a Segundo Llorente (1906-1989), che scrissero diversi volumi di memorie che sicuramente Papa Bergoglio conosce nei testi originali. Ma più interessante, per il lettore non specialista dell’interessante «colloquio» del Papa gesuita con i confratelli religiosi, è l’allusione implicita a testi profani, che è - come sempre nei suoi testi - abbondante.
Nell’invito a concepire la formazione dei religiosi come «opera artigianale e non poliziesca», mirata a far crescere persone capaci di gioia e di tenerezza, si può vedere in trasparenza l’apprezzamento ben noto del cardinale Bergoglio per il film «Il pranzo di Babette» che - disse una volta - mostra come una comunità puritana possa arrivare a ignorare «che cosa sia la felicità». O anche vi si potrebbe scorgere la sua ammirazione per la Crocifissione bianca di Chagall, che «non è crudele ma ricca di speranza».
Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 04.10.2013)
Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco? Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!).
C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani.
L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica - e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie.
Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari.
Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche.
Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”.
Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento.
Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita.
Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi.
Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù).
Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscopertadellogosche informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo.
I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1).
L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare. Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry.
I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.
AGAPE e il DEUS CHARITAS o AGAPE e il DEUS CARITAS?! Note sul tema:
Il festival emiliano esplora il sentimento. Anticipiamo l’intervento di Vincenzo Paglia
Tre nomi per chiamare l’amore (e l’ultima parola non è di Eros)
Al vertice di tutto sta l’«agàpe», il suo modello è Gesù
di Vincenzo Paglia sacerdote, consulente spirituale della comunità di Sant’Egidio, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia
(Corriere della Sera, 15.09.13
In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l’amore resta l’unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell’«agàpe», il tempo dell’amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico». Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l’amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l’amore preferiva i termini eros e philia.
Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità.
È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).
Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L’agàpe è infatti l’essere stesso di Dio. Quindi è l’essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini.
L’incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest’uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella «croce» appare il culmine dell’amore con la sua vittoria definitiva sull’egoismo.
Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è tutta l’originalità dell’agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l’agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell’amore per sé. (...)
L’agàpe, culmine dell’amore, non elimina l’eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata né voluta, e spinge con prepotenza l’amante ad annullarsi nell’amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell’altra, anch’essa ugualmente esaltante, della morte.
In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.
Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l’Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d’amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d’amore che ci muovono, ma - è papa Ratzinger a scriverlo nell’enciclica Deus caritas est - «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore».
La philia - che traduciamo normalmente con «amicizia» - esprime un’altra dimensione ancora dell’amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell’amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza!
Molto meno cantata dell’amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell’esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d’amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull’amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?). Qui non è l’eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due - e questa è la differenza fondamentale con eros - rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in tale dinamica è l’appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.
Ed ecco l’agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c’è l’annullamento nell’altro e neppure la coappartenenza. C’è di più: la generazione di un altro nel circolo dell’amore.
La raffigurazione emblematica dell’agàpe è l’icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L’agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L’agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione». Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.
di Alessandro Speciale *
Città del Vaticano
La lettura della prima enciclica di papa Francesco, Lumen Fidei, pubblicata oggi, è un tuffo nel passato - un passato recente che pure sembra lontanissimo alla luce di quanto è accaduto nella Chiesa negli ultimi cinque mesi.
Il testo, come ha spiegato lo stesso papa argentino durante un incontro con il Sinodo dei vescovi, è di fatto frutto di un lavoro “a quattro mani”: Benedetto XVI aveva praticamente completato il testo prima delle sue dimissioni lo scorso 28 febbraio, e ha consegnato quanto aveva fatto al suo successore, che lo ha rivisto, integrato e lo ha fatto suo mettendoci la propria firma.
Sfogliandone le pagine, però, risulta evidente che nel testo - un testo relativamente breve, 91 pagine per 58 paragrafi - la mano prevalente è quella del pontefice tedesco. E non solo perché l’enciclica sulla fede conclude il trittico sulle virtù teologali iniziato con Deus Caritas Est sulla carità e proseguito con Spe Salvi sulla speranza. L’impianto del testo, i frequenti rimandi a filosofi e dibattiti vivi nella cultura tedesca degli anni ’60, l’insistere su alcuni temi, persino il paragone tra la fede e le cattedrali gotiche, dove “la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra”: tutto testimonia come papa Francesco abbia fondamentalmente deciso di rispettare e accogliere il lavoro del suo predecessore.
Francesco lo dice esplicitamente al paragrafo 7 dell’enciclica: “Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale -, intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.
Il titolo dell’enciclica, Lumen Fidei, “La luce della fede”, riassume la dinamica fondamentale lungo cui si muove il testo: la tradizione della Chiesa ha sempre associato la fede alla luce che disperde le tenebre e illumina il cammino; ma nella modernità la fede “ha finito per essere associata al buio”, è diventata sinonimo di oscurantismo: “Si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere”.
Il testo cita Nietzsche, uno dei punti di riferimento costanti - anche se naturalmente in negativo - del pensiero di Ratzinger, per il quale “il credere si opporrebbe al cercare”. Ma negli ultimi decenni, aggiunge, si è scoperto che la “luce della ragione”, da sola, “non riesce a illuminare abbastanza il futuro”: “L’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante”. Per questo, nel mondo di oggi, “è urgente recuperare il carattere di luce proprio della fede”, riscoprendo che sola la luce che deriva dal credere in Dio è “capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.
La strada per questa riscoperta del carattere ’luminoso’ della fede passa, naturalmente, dall’incontro con Cristo e con il suo amore: “Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro”.
Dopo l’introduzione, l’enciclica in quattro capitoli ripercorre la storia della fede cristiana, dalla chiamata di Abramo e del popolo di Israele fino alla risurrezione di Gesù e alla diffusione della Chiesa (Capitolo 1, “Abbiamo creduto all’amore”), il rapporto tra fede e ragione (Capitolo 2, “Se non crederete, non comprenderete”), il ruolo della Chiesa nella trasmissione della fede nella storia (Capitolo 3, “Vi trasmetto quello che ho ricevuto) e infine quel che la fede opera nella costruzione di società che mirano al bene comune (Capitolo 4, “Dio prepara per loro una città”). Lumen Fidei si conclude con una preghiera alla Madonna, modello di fede.
I due papi ricordano che la fede “ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia”. Per capire che cosa è la fede è necessario quindi “raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento”. La fede, infatti, affonda sì le radici nel passato ma è nello stesso tempo “memoria futuri”, memoria del futuro, e per questo è “strettamente legata alla speranza”.
È un tema che ritorna anche nella conclusione dell’enciclica, in uno dei passi in cui è forse possibile riscontrare più evidente la collaborazione dei due pontefici. È infatti la speranza, “nell’unità con la fede e la carità”, a collocare l’uomo in una prospettiva diversa rispetto alle “proposte illusorie degli idoli del mondo”, donando “nuovo slancio e nuova forza” alla vita di ogni giorno. Il punto di incontro tra fede e speranza è soprattutto la sofferenza: “La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo”. Di qui l’appello agli uomini affinché non si lascino “rubare la speranza”.
Per questo la morte e risurrezione di Gesù sono centrali nella fede cristiana: mostrano che la fede è “veramente potente, veramente reale”, che è in grado di incidere sulla realtà in modo concreto - qualcosa che la nostra cultura ha ormai perso la capacità di concepire: “Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti”.
La fede, poi, è una e crea unità mentre il suo opposto, l’idolatria, è sempre un “politeismo” che “non offre un cammino ma una molteplicità di sentieri che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto”. Questa unità della fede implica quindi che essa non è mai qualcosa di individuale ma è sempre vissuta in mezzo ed insieme agli altri, nella comunità della Chiesa, senza che per questo il singolo con la sua individualità ne risulti schiacciato (sta qui, tra l’altro, la ragione del battesimo dei neonati). La Chiesa non vuole ridurre “il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio”.
L’unità della fede significa anche che non c’è distinzione tra il credere dei ’semplici’ e quello degli intellettuali - un rifiuto dello “gnosticismo” che ritorna spesso in papa Francesco - ma anche che non si può assumere la fede ’a pezzi’, scegliendo solo quello che più piace: “Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede”.
E questo vale anche per il teologo, che deve mettere la sua ricerca “al servizio della fede dei cristiani”, nella Chiesa, senza considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi”.
Nel secondo capitolo, quello dedicato al rapporto tra fede e ragione, torna il classico tema ratzingeriano del relativismo, legato al rifiuto del mondo moderno di accettare ogni affermazione della “verità”, vista come una prevaricazione dell’altro e come la radice del “fondamentalismo” che andrà inevitabilmente a sfociare nella “violenza”. Quello della verità è il “grande oblio” del mondo moderno, in un clima di pensiero relativista in cui la “domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più”. Invece, per i due papi, “la fede, senza verità, non salva” né “rende sicuri i nostri passi”.
Allo stesso tempo, se da una parte “l’amore ha bisogno di verità” per trovare un fondamento stabile e non ridursi “a un sentimento che va e viene”, dall’altra anche “la verità ha bisogno dell’amore”, perché “senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”. Il vero credente, infatti, “non è arrogante” perché “la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti”.
E questo cammino è aperto anche per quei non credenti che tuttavia “desiderano credere e non cessano di cercare”. L’enciclica valuta positivamente gli sforzi di quegli ’atei devoti’ che “cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune”.
Infine, la fede è un “bene comune” che non allontana il credente dal mondo ma lo pone “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”: “Essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza”. Grazie ad essa le famiglie scoprono la forza e i motivi di rimanere assieme “per sempre” e giovani, in eventi come le Gmg, assaporano il desiderio di una “vita grande”. La fede, infatti, “non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”.
«Nessuno ha mai visto Dio. Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di lui è perfetto in noi» (cfr. Giovanni 1,18).
Proviamo a scomporre questo versetto.
«Nessuno ha mai visto Dio». Che liberazione! È la stessa cosa che dicevano i padri antichi quando afferma¬vano che Dio non si può vedere: «Tu non puoi vedere il mio volto, l’uomo non può vedermi e vivere» (Esodo 33,20). Ma qui è categorica l’affermazione: «Nessuno ha mai visto Dio»! Nessuno lo ha mai visto, e dunque non vi attardate intorno a Dio, non cercate di dirci che cos’è, chi è, come è fatto, a chi appartiene, chi l’ha capi¬to meglio, e così via. Non tante parole su Dio! Non tanti discorsi! Non tante interpretazioni! «Nessuno ha mai vi¬sto Dio». E dunque perché tanta supponenza in chi ritie¬ne di avere un’immagine "superiore" di Dio, della vita, della scienza, dei misteri di tutta la conoscenza? In chi ritiene di poter dedurre da questa visione una morale va¬lida per tutti? In chi ritiene di «stare dalla parte di Dio»?
«Nessuno ha mai visto Dio». Non è, evidentemen¬te, una dichiarazione di ateismo. Ma è una ammissione della propria piccolezza, della incommensurabilità della creatura umana di fronte a qualcosa che chiamiamo Dio. Non è una dichiarazione di ateismo, ma è la creazione di uno spazio in cui possono stare benissimo anche i senza Dio, coloro che non hanno Dio nel loro orizzonte, ma che si interrogano sulla direzione che può prendere la vita umana, su come vivere, su quali binari la vita umana possa scorrere per essere degna di essere vissuta.
«Nessuno ha mai visto Dio». Non è neppure, que¬sta, una demolizione della “realtà” delle cose invisibi¬li. Non è una critica dell’invisibile. Molte grandi cose della nostra vita sono invisibili. «Si puù vedere solo con il cuore» dice quel grande maestro dell’invisibile che è il Piccolo Principe di Saint-Exupdry. L’amore è invisibile. Ma anche il dolore lo è. Anche la libertà. Anche la felicità. O meglio: sono tutte cose invisibili, ma è visibile la loro traccia nelle nostre vite.
«Nessuno ha mai visto Dio» vuole solo ricordarci che Dio non può stare dove pretendiamo di metterlo. Non può stare nella casa di Dio - è più volte ripetuto anche nella Bib¬bia -, ma non può stare neppure nei libri di teologia, e soprattutto non può stare nelle classificazioni che gli abbiamo cucito addosso: nella fede invece che nella ragione, nella teologia invece che nella filosofia, negli spazi religiosi invece che negli spazi del mondo. Del resto, se della materia che forma l’universo gli uomini di scienza ci dicono che conosciamo appena il 3 o il 5 per cento, come potremmo presumere di conoscere di più Dio, che è - questo almeno lo possiamo supporre - nella materia come nello spirito, che soffia liberamente ovunque nel suo respiro? Non saremo giudicati - non siamo giudicati! - sulla base del nostro credo, né, mi sembra di poter dire, dell’intensità della nostra fede. Ma sulla base della vita che avremo vissuta.
Ecco dunque: «Nessuno ha mai visto Dio». Questo mi sembra, in primo luogo, un invito a liberare Dio dai lacci in cui lo abbiamo imbrigliato, svilito, umiliato. Li¬berare Dio liberandoci dalle immagini di Dio che gli abbiamo voluto attribuire, liberandoci dai simulacri di Dio che abbiamo voluto idolatrare, per seguirlo là dove ha lasciato tracce in cui poterlo incontrare.
(Gabriella Caramore: Nessuno ha mai visto Dio; pp. 49-51)
QUALE DIO? 3
di don Aldo Antonelli
Nel concludere il trittico che tenta di esprimere le fede, la mia fede e di fronte alla titolazione volutamente provocatoria: "QUALE DIO?", e con il punto interrogativo, qualcuno potrebbe dire: "Ma perché, quanti dii ci sono? Dio non è uno e sempre lo stesso?".
No, amici!
Soprattutto nella mente delle persone e nella loro coscienza, di dii ce ne sono a iosa.
E il dio di Begnasco e il dio di don Gallo non è lo stesso.
E il dio dei fascisti e il dio dei sognanti non è lo stesso.
E il dio dei bigotti e il dio degli atei non è lo stesso.
E il dio dei narcisi e il dio dei reietti non è lo stesso.
Ed allora è bene anche che io specifichi quale è il Dio in cui credo.
E faccio mio allora il credo di Frei Betto che qui riporto.
«Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno.
Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, pre-esistente ai sacramenti e che và oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti al mistero di ciò che sarà dopo la morte.
Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’universo, donatore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e nell’essere umano.
Credo nel Dio che si fa sacramento in tutto ciò che cerca, attrae, collega e unisce: l’amore. Tutto l’amore è Dio e Dio è il reale. E trattandosi di Dio, non si tratta dell’assetato che cerca l’acqua ma dell’acqua che cerca l’assetato.
Credo nel Dio che si fa rifrazione nella storia umana e riscatta tutte le vittime di tutti i poteri capaci di far soffrire gli altri.
Credo nel Dio che si nasconde nel rovescio della ragione atea, che osserva l’impegno dei scienziati per decifrare il suo gioco, che si incanta con la liturgia amorosa dei corpi che giocano per ubriacare lo spirito.
Credo nel Dio intangibile all’odio più crudele, alle diatribe esplosive, al cuore disgustoso di quelli che si alimentano con la morte altrui».
(Frei Betto 30 Luglio 2008)
LA PAROLA "GESU’" SIGNIFICA "DIO SALVA", CIOE’ "’AMORE SALVA", CIOE’ "CHARITAS SALVA". A QUALE GESU’ SI RIFERISCE PAPA FRANCESCO?! A QUELLO EVANGELICO O A QUELLO COSTANTINIANO?!:
Papa Francesco: “Maghi e tarocchi non vi salvano. Lo fa Gesù” *
CITTA’ DEL VATICANO - “Maghi e tarocchi non vi salvano. Lo fa Gesù“: lo ha detto papa Francesco nella messa che ha celebrato venerdì mattina nella Casa Santa Marta. Radio Vaticana ha pubblicato ampi stralci dell’omelia:
”Nella curia di Buenos Aires - ha raccontato papa Francesco - lavora un uomo umile, da 30 anni lavora; padre di otto figli. Prima di uscire, prima di andare a fare le cose che fa, sempre dice: ‘Gesu”. E io, una volta, gli ho chiesto: ‘Ma perche’ sempre dici ‘Gesu”?’. ‘Ma quando io dico ‘Gesù’ - mi ha detto questo uomo umile - mi sento forte, mi sento di poter lavorare, e io so che Lui è al mio fianco, che Lui mi custodisce’. Quest’uomo - ha osservato il Papa - non ha studiato teologia, ha soltanto la grazia del Battesimo e la forza dello Spirito. E questa testimonianza a me ha fatto tanto bene perché ci ricorda che in questo mondo che ci offre tanti salvatori, è solo il nome di Gesù che salva”.
”In molti - ha sottolineato papa Francesco - per risolvere i loro problemi ricorrono ai maghi o ai tarocchi. Ma solo Gesù salva e dobbiamo dare testimonianza di questo! Lui è l’unico. E la Madonna sempre ci porta a Gesù, come ha fatto a Cana quando ha detto: ”Fate quello che Lui vi dirà”. Affidiamoci a Gesù e facciamo a lui questa preghiera fiduciosa”, ha concluso il Papa, ”ci farà bene”.
Ogni anno in Italia, cadono vittime del fenomeno dell’occulto circa 12,5 milioni di persone. Secondo l’ultimo rapporto antiplagio che risale al 2011, le persone raggirate sborsano circa 6 miliardi di euro agli oltre 120.000 “maghi” operanti nel settore. Somme che si concentrano soprattutto nelle grandi città: ci sono 1.600 operatori del settore soltanto a Milano, seguono Roma e Napoli. Il 52% delle consulenze presso i maghi vengono fatte per questioni di cuore, il 24% per questioni economiche ed il 13% per questioni di salute. Ogni anno 1.2 milioni di adolescenti si rivolgono a maghi ed operatori di cartomanzia, mentre circa 1 cliente su 2 è di sesso femminile. Tra le migliaia di denunce che arrivano allo sportello antiplagio ogni anno, si rivelano numerosi casi di dipendenza dalla consulenza, casi nei quali i clienti parlano del telefono come di una vera e propria droga.
MATERIALI PER RIFLETTERE:
L’insegnamento di Pietro
Sovrana certezza
di Marina Corradi (Avvenire, 14 febbraio 2013)
«Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, che non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura». La prima parola di Benedetto XVI ieri mattina in Udienza, proprio la prima cosa detta alla folla, grande, che lo aspettava, è stata questa: il ricordare che la Chiesa è di Cristo, e che dunque anche nelle circostanze più avverse Cristo non la abbandona.
E noi, semplici fedeli storditi, lunedì, dalla notizia, noi interiormente turbati da un inimmaginabile congedo, abbiamo riconosciuto in quella prima parola la volontà paterna di dire, a quelli come noi, di non aver paura. In questi due giorni abbiamo sentito di tutto, sul gesto di Benedetto XVI, lodi e plausi, e contestazioni, ed evocazioni di oscuri retroscena. Abbiamo letto di desacralizzazione del Papato, di fondamenta che vacillano, e sentito dottamente discorrere della Chiesa come di una grande multinazionale, o una Ong - certo, dal "brand" spiritualmente elevato. E ci occorreva davvero che proprio Benedetto XVI, il maestro che abbiamo amato e continueremo a amare, ci ricordasse, ci confermasse in questa semplice antica certezza: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona.
La Chiesa è di Cristo, è il suo corpo, e non è mai riducibile solo agli uomini, strutture, gerarchie che la compongono, con i loro peccati, i loro umani sforzi, le loro disunioni e persino il loro cercare un "pubblico". Colpe ed errori che pure, è tornato a ricordarci nell’omelia delle Ceneri il Papa, ne possono «deturpare» il volto. Questo aspetto non visibile, non sperimentabile con le nostre consuete misure, è tanto fondante quanto non compreso nemmeno dai più fini intellettuali, che parlano di Chiesa come di un fatto solo storico, sociologico, umano. E spesso anche fra noi, credenti, questa memoria ontologica facilmente sbiadisce; allora in giorni come questi ci smarriamo: e adesso?
È a questo sommesso tremare dei semplici che il Papa ieri ha teso la mano con una frase per nulla debole, e anzi colma di certezza sovrana: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona. Poi, nell’Udienza il Papa ha affrontato il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, riassumendole in poche parole: "la" tentazione eterna, ha detto, è quella di usare Dio per noi stessi. Ecco, in quelle sole righe dell’evangelista Luca si sente già il respiro di un altro, radicale, desiderio, di uno sguardo altro dalla logica degli uomini, inesorabilmente sedotti del potere.
Di modo che chi si imbarca sul grande millenario naviglio di Pietro, se tiene viva la fede, si trova, ha detto il Papa, a fare scelte scomode o perfino, secondo il mondo, stolte; ad amare i deboli, e la vita dell’uomo fin dal suo più debole invisibile inizio. Ad amare per sempre, e a generare figli, quando il mondo attorno ripete che la vita è cosa da prendere e usare, come e finché si vuole.
Quell’altro sguardo, quell’altro respiro s’è visto bene ancora ieri sera, in San Pietro gremita di uomini e donne stretti attorno a Benedetto nel giorno delle Ceneri - in quel gesto così umile e conscio del nostro essere, solamente, creature. «Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a ritornare a Dio con tutto il cuore, accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi», è stato il filo teso nelle parole del Papa.
Di nuovo, parole affatto stanche, anzi straordinariamente audaci in tempi di pensiero debole, di rassegnati orizzonti. Tornare a Dio, è l’imperativo di quest’uomo il cui cuore sembra tutto fuorché piegato, o vecchio. Quaerere Deum, è la parola che ci lascia un grande Papa in un Anno della Fede indetto perché ciò che è vero torni a essere concreto, e vivo fra noi. Perché la Chiesa è di Cristo, e tutto il suo essere tenda a Cristo - Colui che ricapitolerà in sé tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo.
E il grande applauso a Benedetto XVI ieri sera in San Pietro testimonia la fede e la forza del popolo cristiano. Peccatori, certo; gente però che sa da dove viene, e verso Chi va.
Marina Corradi
L’infallibilità con la scadenza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.02.2013)
IERI il portavoce della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Lombardi, ha dichiarato che dalla sera del 28 febbraio prossimo Joseph Ratzinger non sarà più infallibile. Ora, se è già difficile capire come un essere umano possa giungere a essere infallibile, forse ancora più difficile è comprendere come possa all’improvviso cessare di esserlo. È stato però lo stesso padre Lombardi a chiarire bene la questione.
E ha sottolineato che l’infallibilità “è connessa al ministero petrino, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato”. L’attuale pontefice cioè è infallibile in quanto papa Benedetto XVI, perché, da papa, gode della particolare grazia legata al suo stato di Romano Pontefice, che la teologia chiama precisamente “grazia di stato”. Non è per nulla infallibile invece in quanto individuo di nome Joseph Ratzinger, il quale, da uomo come noi, può sbagliare nelle cose ordinarie della vita, per esempio nei giudizi sulle persone (e non penso ci possano essere dubbi sul fatto che su qualcuno dei collaboratori non abbia sempre visto giusto), nei giudizi politici, e persino in quelli biblici e teologici.
Ratzinger era del tutto consapevole di tutto ciò, visto che scrisse nel suo primo volume su Gesù che “ognuno è libero di contraddirmi”, e che cosa spinge un papa a dire che ognuno è libero di contraddirlo (persino quando scrive su Gesù!), se non precisamente la consapevolezza della sua umana possibilità di sbagliare? Ma se le cose stanno così, in che cosa precisamente consiste l’infallibilità papale e da dove viene?
L’infallibilità che spetta al Romano pontefice è il penultimo dei dogmi dichiarati dalla Chiesa cattolica. Venne proclamato dal Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica Pastor aeternus del 18 luglio 1870, in un’Europa che il giorno dopo avrebbe visto lo scoppio della Guerra franco-prussiana tra il Secondo Impero francese e il Regno di Prussia e in una Roma che quasi già preavvertiva l’arrivo delle truppe piemontesi pronte a dare l’assalto alla capitale dello Stato pontificio. Il papa regnante era Pio IX, che sei anni prima aveva pubblicato una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo moderno, il famoso Sillabo ossia raccolta di errori proscritti.
Ad essere assediata quindi, prima ancora che lo fosse la capitale dello Stato pontificio, era la mente cattolica, che assisteva all’inarrestabile processo che l’andava privando di quel primato morale e spirituale che deteneva da secoli. Si spiega così il desiderio di accentramento attorno alla figura del papa e del suo primato da cui scaturì il dogma dell’infallibilità pontificia. Esso dichiara che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce una dottrina in materia di fede e di morale, gode di infallibilità. E che per la fede cattolica non si tratti di un semplice optional, ci ha pensato il Vaticano I a renderlo chiaro: “Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema”. Anatema, per chi non lo sapesse, è sinonimo di scomunica.
Dal 1870 a oggi il dogma dell’infallibilità è stato usato solo una volta, per la precisione da Pio XII nel 1950 quando proclamò il dogma dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria in corpo e anima. Ma nonostante l’uso parsimonioso, la questione dell’infallibilità divenne rovente lo stesso a causa del celebre teologo svizzero Hans Küng che, precisamente per aver criticato l’infallibilità pontificia con un libro che fece epoca dal titolo Infallibile? Una domanda (1970), venne privato da Giovanni Paolo II della qualifica di teologo cattolico.
È credibile oggi un dogma come quello dell’infallibilità papale? A mio avviso esso finisce piuttosto per allontanare dal sentimento religioso. Io penso infatti che per la coscienza sia la stessa nozione di infallibilità a risultare oggi improponibile, quando le stesse scienze esatte si dichiarano consapevoli di presentare dati sempre sottoposti a possibile revisione e come tali dichiarabili solo “non falsificati” e mai assolutamente veri.
Viviamo in un’epoca in cui la stessa nozione teoretica di verità risulta poco credibile, tanto più se si tratta di verità assoluta, dogmatica, indiscutibile. Ratzinger lo sa bene, e non a caso da tempo accusa quest’epoca di “relativismo”, ma non è colpa di nessuno se le cose sono così, è lo spirito dei tempi che si muove e si manifesta nelle menti dopo un secolo qual è stato il ’900, e occorre prenderne atto se si vuole continuare a parlare al mondo di oggi.
Anche alla luce del fatto che un papa, Onorio I, venne dichiarato eretico dal concilio ecumenico Costantinopolitano III, Küng proponeva di sostituire a infallibilità il concetto di indefettibilità, intendendo dire con ciò che la questione sottesa all’infallibilità non riguarda la ragione teoretica, ma la volontà, “il cuore” come direbbe Pascal, ovvero che la Chiesa non verrà mai meno al compito bellissimo di essere fedele al suo Signore e al primato del bene e dell’amore che ne consegue. A me pare una proposta più attuale, più umile, più evangelica.
PREMESSA. Nota:
La Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") o il "caro (prezzo)" del Dio Mammona (latino:"Caritas") di Benedetto XVI?!
Il nome perduto della condivisione
di Jean-Luc Marion (il manifesto, 30 gennaio 2013)
L’economia che, letteralmente significa la «legge che regna in casa», è interpretata come scambio economico. Ma quest’ultimo dev’essere considerato come un aspetto dell’economia che si può discutere, e non come sinonimo di economia.
Che cosa, all’interno dell’economia, può contrapporsi allo scambio? Non l’abolizione del sistema di mercato, non l’opposizione del capitalismo al socialismo, ma il dono. Quando si oppone il dono allo scambio, apparentemente si va contro la più celebre definizione di scambio, quella formulata da Marcel Mauss negli anni Venti, e sulla quale continua a basarsi la maggioranza degli studi sul dono. Secondo Mauss, il dono è un caso particolare di scambio, vale a dire uno scambio gratuito. Se guardiamo alla storia di certi gruppi etnici rimasti estranei alla rivoluzione economica, troviamo un sistema di scambio in cui una tribù che ne incontra un’altra le fa un dono in segno di benevolenza, costringendo così l’altra tribù, per mantenere la pace, a uno scambio reciproco che è uguale al precedente +1.
In nome di Mauss
Grazie allo scambio gratuito, ma che comporta una logica di reciprocità, è mantenuta la pace. È il sistema del dono di potlatch. Il dono è di fatto uno scambio, senza la mediazione della moneta. Si dirà che vi sono scambi gratuiti, il dono, e scambi non gratuiti, il commercio, mediato dal valore di scambio e dalla moneta.
Vorrei mostrare che le cose non stanno così: la gratuità e il dono non sono un caso particolare dello scambio; la logica del dono è irriducibile alla logica dello scambio e del commercio.
Per stabilire questo punto, bisogna capire che c’è anche una difficoltà del dono, sottolineata da Jacques Derrida il quale, per rafforzare la riduzione da parte di Marcel Mauss del dono alla gratuità, diceva che il dono è sempre un’illusione e che la realtà del dono è sempre implicitamente la logica dello scambio. Se faccio un dono a qualcuno, egli mi deve qualcosa, anche se io non gli chiedo nulla. In uno scambio economico, è chiarissimo che devo qualcosa. Nel dono, apparentemente, non ho nient’altro da fare.
In verità, colui al quale è stato fatto il dono, anche se glie è stato fatto per niente, deve qualcosa, almeno la riconoscenza dalla quale cercherà di sbarazzarsi facendo un giorno un contro-dono. Se non dona niente in cambio, lo riterranno tutti un ingrato, avrà perso la reputazione di uomo generoso perché gli è stato fatto un regalo che lui non avrà reso.
Apparirà come un uomo roso dall’ingratitudine, dall’avarizia, si sentirà colpevole. Colui che riceve dovrà dunque pagare, in termini reali o simbolici.
Chi entra nel deficit simbolico, pagherà con gli interessi. Il dono è sempre sospetto, non solo di ipocrisia, ma prosegue implicitamente in uno scambio tanto più radicale in quanto sarà fatto in modo sotterraneo e forse morboso. Il dono è sempre solo uno scambio taciuto - e di fatto non taciuto poi così tanto.
È questo un modo per conservare la posizione di Mauss.
È possibile avere un dono pur riducendone il beneficiario, il donatario. È un’esperienza che facciamo spesso - donare non sapendo a chi doniamo - ad esempio alle Ong: è proprio perché non sappiamo a chi doniamo che possiamo donare in modo efficace. La scomparsa del donatario non impedisce il dono. Proviamo a essere cinici: a volte preferiamo non doverci occupare del fine della distribuzione, che lasciamo a professionisti. L’anonimato del donatario può essere una soluzione comoda. Ma ci sono doni più degni di ammirazione che si basano sulla scomparsa del donatario.
Quando doniamo a qualcuno che non ci ha chiesto niente o di cui sappiamo che conserverà la sua ingratitudine e la sua incapacità di ringraziarci, quando sappiamo che ci faremo rimproverare di aver fatto un dono e lo facciamo comunque: in queste situazioni il nostro dono diviene ancor più chiaro.
Ma si può anche fare un dono senza che nessuno lo doni e senza che appaia come un dono. L’esempio più evidente del dono che nessuno dona è quello fatto da chi è morto. Il morto dona nel momento in cui nessuno dona: è la questione dell’eredità. Diventa il prototipo del dono anonimo.
Come nel romanzo dove il capitano Nemo fa ai naufraghi dell’isola misteriosa il dono di cui hanno un bisogno vitale; o nei romanzi popolari, dove un misterioso donatore si nasconde e veglia sulla salvezza della povera orfana. Il donatore migliore è il donatore assente. Nel caso dell’eredità, è necessario che il donatore sia assente perché essa abbia luogo; qui l’assenza è la condizione stessa del dono; e non ci sarà scambio perché non ci sarà un ritorno in vita del donatore.
L’eredità è un dono perfettamente ingiusto: può capitare a qualcuno che non ne ha bisogno o a qualcuno che il defunto detestava o viceversa. Non è legato all’interesse, è senza interesse in tutti i sensi del termine. Viene in mente l’immagine biblica di Dio che dispensa i suoi benefici tanto sul cattivo quanto sul buono.
In altri termini, il dono non è legato all’interesse e una delle forme del disinteresse è che non c’è donatore. È questo il motivo per cui gli antichi dicevano che gli dèi non provano invidia, formula ripresa dai primi cristiani: Dio dona senza invidia, senza fare calcoli, in perdita. Di fatto, il donatore deve sparire, nel senso che egli dona sempre in perdita, e più dona in perdita più il suo è un dono.
Arriviamo alla terza riduzione. Sant’Agostino, per spiegarla, fa l’ipotesi di una donna che riceve dal suo futuro sposo un anello e dice: «Grazie, mi tengo il gioiello e non ci sposeremo». Ragionando così, ella si comporta come se il giovane le avesse donato l’anello e niente di più; ma non è così che la pensava il giovane: egli pensava che, mettendole l’anello al dito, si sarebbe dato a lei e, reciprocamente, lei a lui. Per quanto il gioiello abbia un valore, ciò che ne costituisce il valore profondo è ciò che procede con la persona amata. Nella maggior parte dei doni che facciamo, non è mai ciò che doniamo effettivamente a costituire il dono, ma è ciò che «procede con».
Quando volete far piacere a qualcuno, gli donate qualcosa, ma il regalo è solo il portavoce, l’accessorio dell’affetto che così gli testimoniate. E più quel che si dona è importante, più il dono deve essere irreale, irrealizzato e simbolico.
Pensiamo a quando si prende possesso di un immobile o di una società che si è acquistata. Per farlo, si va da un notaio e si firmano dei documenti. Ma la presa di possesso non ha alcun rapporto con l’effettività di quello che si sta per possedere.
Quando viene eletto, il presidente degli Usa riceve i codici nucleari, ma non qualcosa come «il potere», che resta invisibile. Ciò che si dona non è mai proporzionale a ciò che accompagna il dono. Più il dono è considerevole, più diviene immateriale.
Quando c’è gente che muore di fame e noi diamo loro da mangiare, da bere, un alloggio, doniamo certo qualcosa, ma è la vita che diamo, al di là di pane, acqua e coperte. Non doniamo medicinali, ma la possibilità di sopravvivere a una malattia; non prodotti agricoli, ma la possibilità di mangiare, insomma la vita. La vita si dona donando qualcos’altro insieme ad essa, e quest’altra cosa non avrebbe alcun valore se non ne avessimo bisogno per restare in vita. Quando donate il vostro tempo, la vostra vita, il vostro amore, in senso stretto, non donate niente.
Compite un gesto o un altro, ma i gesti non sono oggetti. Donate ciò che non è una cosa, perché la differenza tra la vita e la morte non è reale, il morto è reale tanto quanto il vivo. Il tempo che donate non è reale, è anzi la sola cosa che il denaro non possa comprare. Con il tempo si fa denaro, ma con il denaro nessuno ha mai comprato del tempo. Quindi, quando si perde il proprio tempo a fare denaro, non è affatto sicuro che ci si guadagni nel cambio. Più quel che donate è essenziale, meno è reale. Dire che più il dono è fondamentale meno è reale, significa dire la verità. Sono soltanto i doni di pochissimo valore a essere reali, come offrire una sigaretta a qualcuno per la strada.
Il contratto erotico
La questione del dono è davvero paradossale, poiché esso non ha bisogno dei termini dello scambio per apparire come un dono; al contrario, appare come tale solo se si fa a meno dei termini dello scambio. Cosa si produce nel dono? Si produce una logica dell’avanzo - in senso economico - che io ho chiamato altrove la logica dell’esperienza erotica.
Anche nell’esperienza erotica, infatti, si può ragionare secondo la logica dell’economia e dello scambio, seguendo il principio: «Io ti amo solo se tu hai iniziato ad amarmi, ti amerò solo in cambio del primo investimento che tu avrai fatto per amarmi, e non sperare che sia il primo a giocare le mie carte». È un’interpretazione economica dell’amore.
Ma ce n’è un’altra: l’interpretazione erotica dell’amore. In questo caso si tratta di donare senza aspettarsi in risposta lo scambio, persino senza sperarlo, né desiderarlo. È ciò che fa la grandezza di Dio, quando crea cose che non sono in condizione di amarlo, poiché non esistono ancora; o il fascino di don Giovanni che dice a una donna «Sei bella, ti amo» e che, di colpo, fa sì che lei lo diventi, bella.
Chi è primo ad amare si assume il rischio dell’assenza di reciprocità, è questa la logica del dono. Egli crea le condizioni eventuali della risposta, ma non è orientato sulla possibilità dello scambio e della risposta. Ha un potere creatore, come non accade per lo scambio. Lo scambio mira alla giustizia, alla reciprocità e si accorda sulla crescita o sull’interesse del rimborso del debito. Lo scambio segue l’uguaglianza in senso matematico e politico. Quel che è proprio del dono, invece, è di essere sempre nel principio dell’anticipo senza risposta, quindi nella logica della crescita.
LA SCONVOLGENTE LIBERAZIONE DELLA GRAZIA DI DIO ("CHARITAS") e LA STRAVOLGENTE MISERIA DELLA CARITA’ MAMMONICA ("CARITAS") DELLA TEOLOGIA CATTOLICO-RATZINGERIANA:
Dio è sempre dalla parte dell’uomo
di Ermes Ronchi (Avvenire, 24/01/2013)
III Domenica
Tempo ordinario - Anno C
(...) In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea...Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette (...) Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Un racconto di una modernità unica, dove Luca, il migliore scrittore del Nuovo Testamento crea una tensione, una aspettativa con questo magistrale racconto, che si dipana come al rallentatore: Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. E seguono le prime parole ufficiali di Gesù: oggi la parola del profeta si è fatta carne.
Gesù si inserisce nel solco dei profeti, li prende e li incarna in sé. E i profeti, da parte loro, lo aiutano a capire se stesso, chi è davvero, dove è chiamato ad andare: lo Spirito del Signore mi ha mandato ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi. Adamo è diventato così, per questo Dio prende la carne di Adamo. Da subito Gesù sgombra tutti i dubbi su ciò che è venuto a fare: è qui per togliere via dall’uomo tutto ciò che ne impedisce la fioritura, perché sia chiaro a tutti che cosa è il regno di Dio: vita in pienezza, qualcosa che porta gioia, che libera e da luce, che rende la storia un luogo senza più disperati.
E si schiera, non è imparziale Dio; sta dalla parte degli ultimi, mai con gli oppressori. Viene come fonte di libere vite, e da dove cominciare se non dai prigionieri? Gesù non è venuto per riportare i lontani a Dio, ma per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, per aprirli a tutte le loro immense potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore.
Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato della persona, il suo primo sguardo va sempre sulla povertà e sulla fame dell’uomo. Per questo nel Vangelo ricorre più spesso la parola poveri, che non la parola peccatori. Non è moralista il Vangelo, ma creatore di uomini liberi, veggenti, gioiosi, non più oppressi.
Scriveva padre Giovanni Vannucci: «Il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione». La lieta notizia del Vangelo non è l’offerta di una nuova morale migliore, più nobile o più benefica delle altre. Buona notizia di Gesù non è neppure il perdono dei peccati.
La buona notizia è che Dio mette l’uomo al centro, e dimentica se stesso per lui, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi "altra" da quello che è. Un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo.
Infatti la parola chiave è "liberazione". E senti dentro l’esplosione di potenzialità prima negate, energia che spinge in avanti, che sa di vento, di futuro e di spazi aperti. Nella sinagoga di Nazaret è allora l’umanità che si rialza e riprende il suo cammino verso il cuore della vita, il cui nome è gioia, libertà e pienezza. Nomi di Dio.
(Letture: Neemìa 8, 2-4.5-6.8-10; Salmo 18; 1 Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4;4,14-21).
LA NECESSITA’ E LA GRAZIA
di Ernesto Balducci *
Appunto questo è il tema che volevo con voi meditare: l’aspetto gratuito della salvezza. Noi stiamo scontando - a mio giudizio - sia a livello della coscienza individuale sia a livello ecclesiale, una lunga stagione in cui avevamo cercato di inserire la nostra fede e la nostra presenza dentro i meccanismi della necessità. Parlo della necessità del senso razionale. La ragione ama argomenti che abbiano un carattere necessario, siano tra loco legati dal principio della coerenza.
E noi abbiamo dato l’immagine di un Dio necessario come architetto del mondo, come fine delle cose, come sanzione ultima del bene e del male. Questo Dio biblico, pieno di gesti imprevedibili, pieno di iniziative amorose, lo abbiamo ir-rigidito nel principio metafisico dell’Essere supremo, meta ultima dentro il meccanismo delle necessità reali e di quelle razionali. Abbiamo creduto, così, di armare la nostra attività pastorale di argomenti invincibili per persuadere gli atei che Dio c’è.
E cosi abbiamo inserito la nostra realtà di Chiesa dentro i meccanismi dell’ordine giuridico e dell’ordine politico, arrivando alla convinzione che senza di noi il mondo non va avanti, e che noi abbiamo la risposta per tutti i problemi: siamo necessari. Qualsiasi problema la società si ponga, tocca a noi rispondere. Se gli altri non ascoltano è perché sono deviati, smarriti nel peccato.
Siamo diventati necessari, terribilmente necessari. Ma poi, che cosa è avvenuto? Che questa necessità non regge alla prova dei fatti: il mondo va benissimo avanti senza di noi, come se non ci fossimo. E questo si ripercuote nella nostra coscienza con un pauroso senso di frustrazione. Uno che si riteneva necessario e si accorge di essere superfluo, è in terribile situazione psicologica. Collettivamente così siamo, noi cattolici. Ci arrabattiamo a dimostrare che senza di noi si fanno follie, ma in realtà la gente ci da sempre meno ascolto.
Che significa questo? Proviamo a risponderci restando nell’ottica della grazia, della salvezza come gesto gratuito.
Al banchetto di nozze, Gesù era un invitato come gli altri. E sua Madre lo stesso. Il banchetto si era organizzato senza di Loro, né essi se ne rammaricavano. Ma il vino, il vino del miracolo entrò all’improvviso - e i servi lo sapevano - a rallegrare la mensa, a togliere dall’imbarazzo lo sposo e la sposa. E’ un gesto semplice, non necessario. E il Vangelo sembra sottolineare questo aspetto dicendo che tutti erano già brilli. Non sarebbe venuto meno - senza dubbio - lo stato d’animo del banchetto, senza il miracolo.
Ecco, il Regno di Dio è un vino che entra nella mensa dell’uomo, gratuito!
*Ernesto Balducci: Il Mandorlo e il Fuoco; 3° vol.; p.190-192
segnlato da don Aldo Antonelli
La famiglia, prima scuola di santità
di Ermes Ronchi (Avvenire, 27/12/2012 *
La santa Famiglia di Nazaret porta un messaggio a tutte le nostre famiglie, l’annuncio che è possibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, familiare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non significa essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescente, e malintesi, incomprensione esplicita: ma essi non compresero le sue parole. Santità non significa assenza di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’amore. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.
E non parlo di amore spirituale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un cibo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Adamo verso Eva, me verso l’amico, il genitore verso il figlio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.
Scese con loro a Nazaret e stava loro sottomesso. Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardando i suoi genitori vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle relazioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.
Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici.
(Letture: 1 Samuele 1,20-22. 24-28; Salmo 83; 1 Giovanni 3,1-2. 21-24; Luca 2,41-52)
LUMEN GENTIUM (1964) E DOMINUS IESUS (200O): IL DISEGNO DI RATZINGER - BERTONE. DUE TESTI A CONFRONTO:
Una sfida ideologica
di José Castro Caldas, economista, ricercatore presso il Centro Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo)
(traduzione dal francese di José F. Padova) *
«Nella vita niente è gratuito». Questo adagio, che sembra espressione del buon senso, in realtà riflette il pensiero economico dominante. Distillato dai teorici alla moda e da una quantità di manuali universitari, fa parte di una visione sociale nella quale tutto inevitabilmente è commerciale. Ma da dove viene questa idea che opera un amalgama fra le nozioni di costo, di prezzo e di valore, allo scopo di facilitare l’estensione del mercato a detrimento dei beni pubblici e comuni?
Travestito da indigente
Nel 1975 l’economista americano Milton Friedman pubblicava There ’s No Such Thing as a Free Lunch («Un pasto gratuito? Non esiste!»), ma l’espressione circolava già da tempo. Si racconta un aneddoto edificante a proposito di Vilfredo Pareto, teorico liberale della scuola di Losanna, che sosteneva l’esistenza di leggi economiche simili a quelle della fisica. Pareto si sarebbe travestito da poveraccio per domandare al suo contraddittore, l’economista tedesco Gustav von Schmoller, dove trovare un ristorante che servisse un pasto gratuito. Quest’ultimo avrebbe risposto che non esisteva alcun posto simile, fornendo così la prova che tutto si compra.
Ma questo aneddoto, diventato un precetto insegnato agli studenti, ha qualche fondamento storico? Si sa, per esempio, che nel XIX secolo i saloon del nordamericani offrivano pasti gratuiti. I clienti avrebbero soltanto dovuto pagare le bevande che accompagnavano i piatti, in generale abbondantemente salati.
Più tardi, nel corso dei dibattiti sullo Stato previdenziale negli Stati Uniti, l’aneddoto è stato utilizzato dagli avversari del presidente Franklin Delano Roosevelt e di tutti i partigiani del Welfare State. Nel 1942 il giornalista Paul Mallon reagiva così alla proposta del vicepresidente Henry Wallace di garantire un minimo di cibo, di vestiti e di alloggio a tutti gli americani: «Il signor Wallace dimentica che non è mai esistito un pasto gratuito. A meno che l’umanità non acquisisca poteri magici, qualcuno dovrà sempre pagare per il pasto gratuito concesso a un altro». Molto rapidamente la formula «non vi sono pasti gratuiti» è divenuta il ritornello della teoria della scelta razionale. Quando gli individui o la società vogliono ottenere qualcosa, la quantità limitata per definizione delle risorse li obbliga a rinunciare a un’altra cosa.
Il mancato funzionamento del mercato
Secondo questa teoria, in una « ideale economia di mercato » ogni cosa ha un prezzo e chi vuole ottenerla deve pagare. Non si tratta qui di morale, bensì di logica. Fissato dalla legge dell’offerta e della domanda, il prezzo di un bene determina (e riflette) l’efficienza economica. Ogni altra situazione rivela una «lacuna del mercato», un problema da regolamentare e non una realtà alla quale occorre adattarsi.
Prendiamo il caso dei «beni pubblici» (1), il cui classico esempio è il faro che orienta le navi lungo le coste. La luce che diffonde è gratuita. D’altra parte sarebbe difficile immaginare un sistema di pagamento a carico dei naviganti, i quali, per definizione, non fanno altro che passare e sparire senza lasciare tracce.
Per gli economisti dominanti questa situazione è problematica. Effettivamente, se la costruzione dei fari fosse stata affidata al mercato, non ne esisterebbe alcuno. È grazie all’intervento dei poteri pubblici, dotatisi delle risorse necessarie grazie alle imposte, che essi sono stati eretti. E il ragionamento può ampliarsi. Alla fine, l’illuminazione delle città è un bene pubblico, per lo stesso motivo per il quale lo è l’aria pulita, il sapere, o gli oceani. Per certi economisti (2) la proprietà privata ha precisamente per origine la necessità di regolamentare il «problema» dei beni pubblici. Vale a dire, di trovare un mezzo per imporre un prezzo all’utilizzatore di un bene. Così si potrebbe pensare che le strade devono logicamente avere uno status pubblico. Ebbene, si inventano i pedaggi, soluzione capitalista ispirata ai dazi del Medio Evo! Il medesimo principio vale per il sapere: è difficile la sua privatizzazione? Sarebbe nefasta? Non importa! Si inventano i diritti di proprietà intellettuale.
Principio di necessità
Per la teoria dominante, la gratuità è una patologia che deriva da costrizioni naturali o tecniche; è un’eccezione alla buona regola. In linea di massima colui che vuole acquisire un bene o usufruirne deve pagarne il prezzo. E poco importa che il denaro diventi la condizione di accesso a tutto. Ugualmente poco importa per i beni che, per loro natura o funzione, non devono avere prezzo, come la salute o l’educazione.
Tuttavia, la logica mercantile non sarebbe in grado di estendersi a tutto. Così esistono cose o esseri il rispetto dei quali è più importante della ricerca di una pretesa efficienza economica. È il caso delle persone o degli organi umani. D’altro canto, certi beni potrebbero avere un prezzo, ma non ne hanno, perché una parte del loro valore risulta dal loro utilizzo condiviso: una piazza pubblica, per esempio. Infine, vi sono beni ai quali tutti devono avere accesso, indipendentemente dal loro potere d’acquisto, perché lo esige la necessità. In Portogallo si dice che «un bicchiere d’acqua non lo si rifiuta a nessuno» e anche negli esercizi commerciali si dà l’acqua a chi la chiede. Allo stesso modo il medico ha il dovere di prestare assistenza in caso di necessità.
Per lungo tempo spettava alle opere di carità distribuire i beni di base agli indigenti. Ma questa situazione non risponde che molto imperfettamente all’imperativo della necessità. È ciò che voleva dire Adam Smith - che spesso è stato male compreso - quando affermava che per il nostro pranzo non si deve sperare nella bontà del macellaio. La beneficenza ci rende debitori mentre si presume che il mercato ci liberi da qualsiasi legame di dipendenza: pagando il prezzo saremmo liberi. Per questo Smith auspicava che tutti potessero pagare i beni di prima necessità. Tuttavia il capitalismo, si sa, non ha soddisfatto questo auspicio, anche se, in certi casi, si è avvicinato all’ideale che Wallace evocava: la garanzia, da parte dei poteri pubblici, di un minimo di cibo, vestiti e alloggio.
Alla fine, la scelta di quello che deve, o non deve, essere oggetto di una transazione commerciale deriva innanzitutto dall’etica (3). Il mercato si basa su norme costruite storicamente e incrostate nella cultura, che sono spinte a evolversi. Infine, von Schmoller l’avrebbe avuta vinta su Pareto. Se in economia esistono «leggi», esse sono create dagli esseri umani; non risultano dalla natura. Quindi noi possiamo modificarle.
(1) Vedi Philippe Quéau, «A qui appartiennent les connaissances?», Le Monde diplomatique, janvier 2000.
(2) Cf. Armen A. Alchian et Harold Demsetz, «The property right paradigm», The Journal of Economic History, vol. 33, n°1, Cambridge, 1973.
(3) Elisabeth Anderson, «The ethical limitations of the market», Economics and Philosophy, n°6, Cambridge, 1990.
* Le Monde Diplomatique - ottobre 2012
I CARISMI
di don Mauro Agreste *
1) OGGI PARLIAMO DEI CARISMI Oggi parliamo dei carismi ed è importante averne una conoscenza un pochino più strutturata, perché come catechisti nelle vostre comunità parrocchiali, ma anche nei gruppi di preghiera, è bene che abbiate una conoscenza il più possibile ampia su questo tema. Tutto sommato è stato lasciato per molti versi ad alcuni gruppi ecclesiali, oppure a degli alti studi universitari nell’Università Pontificia. Il tema dello spirito dei carismi è un tema che fa parte della vita della Chiesa; se ne tratta nel Concilio e nella Lumen Gentium. Al n°12 dice che la Chiesa costituita dal popolo di Dio è per così dire, il luogo in cui si esercitano i carismi, ognuno per la sua propria specificità. Però la maggior parte delle persone, quando sentono dire la parola carisma non è che abbiano molto chiaro in mente di che cosa si tratti, è vero?
2) PAROLA USATA E ABUSATA DA MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA Per di più questa parola è stata usata e abusata da giornalisti, da mezzi di comunicazione di massa non per indicare il significato preciso della parola carisma, quanto invece per indicare la capacità che ha una persona di attirare l’attenzione degli altri in qualunque campo, con la sua propria capacità di emergere sugli altri. Quindi in senso generico la parola carisma o personaggio carismatico all’interno della Chiesa e di alcuni gruppi ecclesiali vieni intuita in un certo modo. All’infuori della Chiesa il personaggio carismatico è un personaggio che ha delle chances in più, ha un savoir faire diverso in tutti i campi, sportivo, politico, ecc. ecc. da emergere e attirare l’attenzione, quasi catalizzando l’attenzione degli altri.
3) CARISMA HA LA STESSA RADICE DELLA PAROLA CARITÀ Ma che cos’è dunque il carisma e da che cosa nasce? Intanto la parola carisma deriva dal greco e come voi potete benissimo accorgervi contiene dentro di sé una radice, charis, che è la stessa radice della parola carità. Ora la parola carità, anche se abbiamo una vaga intuizione, è una parola che ha significati molto complessi e molto profondi, per cui almeno nel nostro linguaggio teologico, non è facile definire la carità semplicemente come un atteggiamento. La carità è prima di tutto una caratteristica di Dio stesso, una caratteristica essenziale, tant’è vero che gli antichi dicevano: Deus est charitas da cui gli antichissimi inni, ubi charitas et amor Deus ibi est, dov’è carità e amore lì c’è Dio. Dunque carità ha in sé questa radice charis, che significa qualche cosa di forte, di caldo, di vivo, di avvolgente. Viene cantato nel Veni Creator, si parla dello Spirito Santo e si dice che lo Spirito Santo è ignis, fuoco, fuoco di carità, fuoco di amore.
4) CARITÀ E AMORE VENGONO SPESSO USATI COME SINONIMI Carità e amore vengono spesso usati come sinonimi per una semplice ragione, sono entrambi concetti estremamente profondi. Se tu dici amore, è sufficiente dire amore per capire tutto ciò che significa la parola amore? No, cioè lo usiamo convenzionalmente però noi sappiamo che l’amore autentico per esprimerlo, per significarlo è molto difficile. Ricordate questa mattina il brano del Vangelo che è stato letto: nessuno ha un amore più grande se non colui che muore per i propri amici. Quindi vedete l’amore coinvolge fino alla donazione della vita. L’amore esige per esempio il concetto, che deve essere chiaro, della capacità di donarsi. Amore e donazione totale coincidono; però quando io dico amore non dico solo donazione totale, dico anche gioia, dico anche situazione di protezione. Una persona che ama è una persona che ne sta proteggendo un’altra; una persona che si sente amata è una persona che si sente protetta. Il concetto di guida: chi ama guida; chi è amato si sente guidato non gettato allo sbaraglio. Voi potete immaginare quale grande significato c’è nella parola amore; viene considerata sinonimo di carità, però entrambe hanno una specificità; che l’amore e la carità sono due realtà vive, coincidono con Dio.
5) PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA Quindi parlare di carità, significa parlare di grazia, che charis è una traslitterazione, è la radice della parola greca che significa grazia. Che cos’è la grazia? Non è la gentilezza nei movimenti, la grazia è lo Spirito Santo in azione, lo Spirito Santo mentre agisce, lo Spirito Santo che sta agendo. Vieni Padre donaci la tua santa grazia, donaci cioè lo Spirito Santo che agisce dentro di noi. Ricordatevi che anche se avete il concetto chiaro nella mente, quelli che sono davanti a voi fraintendono facilmente, soprattutto queste cose complesse. Quindi dovete avere sempre l’idea di parlare a un bambino di 5 anni e state tranquilli che le persone davanti a voi non si sentiranno umiliate e non vi disprezzeranno se voi parlerete il più semplice possibile.
6) CHIEDI CHE LO SPIRITO SANTO VENGA AD AGIRE DENTRO DI TE Allora, donaci la santa grazia, certo che vuol dire donaci la capacità e la disponibilità a seguire i suggerimenti dello Spirito, però tu chiedi proprio che lo Spirito Santo venga ad agire dentro di te, però non senza di te. Quando invochiamo la grazia di Dio su di noi, invochiamo lo Spirito Santo che venga ad animarci dall’interno, come il lievito che fa lievitare tutta la pasta; il lievito non fa sparire la pasta, la fa solo lievitare; certo se non c’è la pasta puoi mettere anche un chilo di lievito che tanto non lievita niente. Allora quando si dice grazia si dice Spirito Santo in azione. Cosa vuol dire charis? Grazia. Cosa vuol dire grazia? Spirito Santo in azione. Lo Spirito Santo aleggiava sopra le acque informi, quindi lo Spirito Santo era già in azione appena Dio ha fatto esistere qualche cosa, ancora non c’era la luce, ma già lo Spirito Santo era in azione. Lo Spirito Santo agisce continuamente. L’ultimo versetto dell’Apocalisse dice: lo Spirito Santo e la sposa gridano Maranthà, vieni Signore Gesù. Quindi attenzione bene, tutta la Bibbia è contenuta da questa azione di Spirito Santo, dunque, tutta la storia degli uomini è contenuta in questi due punti fondamentali: lo Spirito Santo che aleggia e lo Spirito Santo che anima dicendo vieni. Gli uomini non si accorgono dell’azione dello Spirito Santo.
7) NUTRIRE UNA PARTICOLARE ADORAZIONE DELLO SPIRITO SANTO Allora i catechisti hanno questo compito fondamentale, fra tutti gli altri, di nutrire una particolare adorazione dello Spirito Santo. Dico giusto quando dico adorazione, per una semplice ragione, quale? Perché lo Spirito Santo è Dio. Quindi il catechista che non adora lo Spirito Santo non so che razza di catechista voglia essere. Lo Spirito Santo è la grazia che agisce dentro di noi. Il catechista che si mette al servizio della Chiesa, come fa a mettersi al servizio dicendo l’amore per Gesù se non è lo Spirito Santo a comunicarglielo?
8) PARLARE DI SPIRITO SANTO E DIO COME DUE PERSONE SEPARATE Domanda: questo fatto di parlare di Spirito Santo e Dio come due persone separate, non rischia di confonderci? E quando parliamo del Padre separato dal Figlio, non si rischia di creare dei problemi? Nelle dispense degli anni passati c’è quel disegno molto bello che si riferisce allo schema intuitivo su Dio e le sue tre persone. Dio è Padre, è Figlio e Spirito Santo, un solo Dio, però il Padre non è il Figlio, non è lo Spirito Santo e lo Spirito Santo non è il Padre. È chiaro che la nostra mente è così limitata che noi non riusciamo a capire, possiamo solo contemplare.
9) FACCIAMO PARTE DELLA TRINITÀ Di più ancora. Facciamo parte di questa Trinità, con il Battesimo siamo entrati dentro la Trinità, perché siamo con Gesù una cosa sola. Siamo entrati nella Trinità, però non siamo Dio, siamo esseri umani, però facciamo parte della Trinità. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; quindi la volontà di Dio è che siamo immersi ( bactizzomai verbo greco che significa essere immersi ) in tutto Dio Padre, in tutto Dio Figlio e in tutto Dio Spirito Santo. Questo vuol dire che dentro di noi c’è tutto Dio Padre, tutto Dio Figlio, tutto Dio Spirito Santo e come lo spieghi questo? Quando tu vai a fare la comunione prendi un’ostia grande così, tu sai che lì dentro c’è il Dio Eterno e Infinito, Signore della storia e dei secoli. Sotto un velo di pane c’è il mistero di tutto ciò che esiste. Possiamo intuire. Come dice l’inno Pange Lingua. Visus tactus gustus in te fallitur, la vista il tatto il sapore falliscono, perché tutto quello che i sensi constatano è fallace, non i sensi ma la fede conosce questa verità. Allora con la fede tu accetti, il mistero lo contempli, però non lo capisci. Perché capire dal latino càpere vuol dire prendere e tenere stretto, contemplare invece significa guardare, ma non da soli, sostenuti. Tu puoi guardare il mistero di Dio da solo, lo puoi contemplare cioè tu puoi entrare nel tempio insieme a qualcuno, contemplare entrare nel tempio insieme a qualcuno. Tu non possiedi il tempio è il tempio che possiede te.
10) IL CATECHISTA DEVE PARLARE UN ITALIANO SEMPLICE E COMPRENSIBILE Attenzione, perché usiamo la lingua, ma non la conosciamo e un catechista non può permettersi questo. Un catechista deve parlare un italiano semplice e comprensibile a quelli che ha di fronte però deve conoscere dieci o venti volte di più di quello che sta dicendo agli altri, se no che cosa sta comunicando? Certamente ai bambini non puoi dire le specificità dei termini che vi sto spiegando, però su tu non conosci il significato delle parole, tu insegnerai delle cose sbagliate e noi non possiamo permetterci di fare questo, se no non stiamo divulgando il Vangelo di Gesù Cristo, ma il Vangelo secondo noi. Quindi ricordatevi, è un servizio fatto a Dio quello anche di essere precisi nel linguaggio che si usa. Siate precisi cercando di conoscere il più possibile il significato delle parole che usate, anche le più comuni. E chiedete allo Spirito Santo che vi dia una struttura logica del pensiero: soggetto, predicato, complemento. Diversamente il vostro discorso non sarà compreso da chi vi ascolta; piuttosto articolate frasi e concetti brevi non un discorso lungo e strutturato. Fate discorsi brevi, frasi brevi, ma che siano chiare.
11) LA CONIUGAZIONE DEI VERBI DEVE ESSERE PRECISA State anche attenti alla coniugazione dei verbi, che deve essere precisa, perché un verbo al condizionale ha un significato diverso da un verbo all’indicativo; perché un verbo all’indicativo indica una realtà, un obbligo imprescindibile, un verbo al condizionale indica una possibilità cioè una dualità di realtà; i congiuntivi sono verbi di consequenzialità; se io nella mente non ho l’idea della consequenzialità delle cose, non userò il congiuntivo, userò l’indicativo e renderò tutto obbligante. Ricordatevi che abbiamo a che fare con le parole, che noi abbiamo la parola di Dio nella mano e siamo i catechisti, non ci possiamo permettere di giocare con le parole, perché da come io uso le parole, favorisco o freno il passaggio del concetto di Dio. Senza diventare fanatici, senza esagerare, però o prendiamo sul serio il nostro servizio reso a Dio. Quindi tutto quello che dipende da me io cerco di farlo al meglio che posso, oppure facciamo come fanno tanti che improvvisano tutto, vanno avanti e non si rendono conto che stanno giocando con Dio. Se sul Vangelo c’è scritto: in principium erat verbum et verbum erat aput deum et verbum erat deum, allora questo ci fa capire che in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio.
12) SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE Se Dio si è fatto la parola che noi possiamo intuire e capire, io posso giocare con le parole? No. Non dico questo perché dobbiamo spaventarci, sentirci colpevolizzati, però sentiamo la necessità di pensare le parole che usiamo e pensare le frasi che usiamo, perché se io devo parlare a dei bambini, dovrò rendere estremamente semplice un discorso difficilissimo. Però usando delle parole che siano giuste, che cerchino di generare meno equivoci possibili, adatte al vocabolario che è in possesso a un bambino di 7-10-12-15 anni, senza mai cedere ad accettare una connotazione di linguaggio che non sia più che dignitosa ed elegante.
13) IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE Se ci sono dei modi di dire che esprimono il concetto di essere arrabbiati in un certo modo, il catechista non li usa mai, neanche quando sta da solo. Se ci sono parole equivoche il catechista si deve abituare non solo a non usarle lui, ma a sentirne ribrezzo quando le sente pronunciare da altri, perché il catechista sta usando con la propria lingua un mezzo di evangelizzazione. Dunque l’apostolo san Giacomo dice nella sua lettera al cap. 4 che chi domina la lingua domina tutto il resto del corpo. Ora un catechista che non domina la lingua come può produrre negli altri un cambiamento di vita, se le parole che escono da lui sono sporcate da una incapacità di dominare la lingua? Naturalmente quando dico capacità di dominare la lingua non mi riferisco solamente a un linguaggio volgare e pesante, mi riferisco anche a un modo di gestire il linguaggio. Una persona che non è capace a non criticare, una persona dalla cui bocca esce sempre una parola di critica, di giudizio, di condanna, di curiosità, di pettegolezzo ecc. può giustamente essere catechista? Non può. Un catechista che non sente fondamentale dentro di sé l’imperativo di sapere quello che sta dicendo, come lo sta dicendo e non si domanda se le parole che sta usando le capisce prima lui, come fa a spiegarle agli altri?
14) IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE AMARE E AMORE Quante volte abbiamo esaminato il significato delle parole amare e amore. Se un catechista non sa che cosa vuol dire amare, sapete con che cosa lo confonde? Con il romanesco volemose bene. Ma amare non è quello, quello non è amare, quello lì è solo cercare di stare tranquilli, senza prendersi tanti problemi, vero? Invece amare è tutta un’altra cosa. Stamattina abbiamo sentito: dare la vita per i propri amici. Vedete che è estremamente differente. Allora non deve essere così per voi, perché voi avete sentito veramente una chiamata del Signore, se no non sareste qui al sabato mattina. Però per non perdere tempo né io, né voi e neanche Dio, cerchiamo proprio di capire l’importanza di tutto questo. Quando nelle scuole ci facevano fare l’analisi logica, l’analisi del periodo erano molto importanti; se abbiamo dimenticato tutto questo la prima cosa che dobbiamo fare è chiedere allo Spirito Santo che venga a rispolverare dentro di noi le cose che avevamo studiato allora, che le faccia emergere. Vedrete che lo Spirito Santo vi aiuterà; poi dopo cominciate con l’analizzare il linguaggio che usate, le strutture logiche che usate, se sono chiare. Ricordatevi che le persone che avete di fronte non sono dentro la vostra mente, dunque loro non sanno esattamente dove voi volete arrivare. Una grande carità che potete fare nei confronti del vostro prossimo, un grande servizio è quello di fare un passettino piccolo alla volta. Non date mai niente per scontato, anche se doveste ripetere cento volte in cento incontri, serve per aiutare quella persona a entrare nel difficile concetto che voi volete dire.
15) DOBBIAMO IMPARARE A PERDONARE Per es.: dobbiamo imparare a perdonare. Che vuol dire perdono? È una parola composta. Dividete a metà la parola, per e dono; quella che capite subito è dono, cosa vuol dire dono? È un regalo, non meritato, perché un dono meritato si chiama premio. Capite perché bisogna essere precisi? Perché se io non dico questo allora il perdono mi diventa un diritto, invece non è un diritto, è un dono, un regalo non meritato; quindi se il regalo non è meritato mi viene fatto perché io sono buono o è buono chi mi fa il regalo? Chi mi fa il regalo. L’altra parola da capire è per che deriva dal greco iper, che vuol dire il più grande; quindi se iper vuol dire il più e donum, regalo, mettendo insieme avete l’insegnamento che dovete fare sul concetto di perdono. Poi ci potete parlare per sei mesi ai bambini del perdono, però se sapete cosa vuol dire voi insegnate realmente ciò che insegna la Chiesa, non ciò che insegna il mondo: vogliamoci bene perché il Signore è buono e ci perdona, tanto perdona tutto e tutti. No! Il catechista non può fare queste cose, non si può confondere il perdono con un sentimento di piacevolezza e di arrendevolezza, non è così. Allora siamo partiti dal tema dei carismi, la prossima volta ricordatemi che dobbiamo continuare sul significato della parola carisma. Abbiamo appena analizzato la radice charis che vuol dire grazia e che significa Spirito santo in azione.
____________________________________________________________________________________________ DIALOGO MUTI RAVASI
La scala che unisce cielo e terra
«Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica». Con questa suggestiva frase di Cassiodoro ieri sera il cardinale Gianfranco Ravasi ha chiuso il "Dialogo su fede e musica" (ultimo appuntamento degli incontri su "L’uomo, l’assoluto e l’arte") che lo ha visto a colloquio col maestro Riccardo Muti nell’eccezionale contesto della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Un incontro che si è intessuto intorno alla capacità della musica di favorire l’incontro col sacro, e quindi sulla necessità di tornare a fare della buona musica in chiesa, soprattutto nelle liturgie.
Cassiodoro, ha raccontato il cardinale, «nel sesto secolo realizza un’università cristiana sui suoi terreni in Calabria e la chiama "il Vivaio". Nel primo libro del regolamento istitutivo inserisce quella frase riferendosi ai passi biblici dei Profeti e dell’Apocalisse che descrivono il momento del grande giudizio divino, sottolineando che Dio fa tacere tutto, compreso il canto dello sposo e della sposa». Una metafora della società umana e del suo difficile rapporto con Dio: «Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica».
La questione della musica nelle chiese è stata sollevata proprio da Muti, a conclusione di una prima fase del "dialogo" con Ravasi che si è a lungo soffermato sulla musica di Verdi e sul dilemma tante volte dibattuto se fosse ateo o credente. A questo riguardo Muti ha sostenuto che difficilmente si può pensare a Verdi come a un agnostico se si ascoltano i finali del "Requiem" del "Don Carlos", della "Forza del destino" o del "Rigoletto". «Sono opere che tendono a Dio. Come può una persona che non crede scrivere un finale in cui si canta "Libera me Domine de morte aeterna in die ille"? Non so nemmeno come certi direttori contemporanei che dicono di essere atei possano interpretare un simile momento di musica senza porsi una domanda. Non è possibile». Per questo, ha aggiunto, è necessario che «nelle chiese torni musica realmente capace di essere strumento per pregare».
Per far questo, secondo Ravasi, bisogna tornare a costruire una nuova sensibilità musicale, partendo già nei seminari, «così che i preti non si accontentino delle comuni offerte. Il ricorso a musica semplice troppo spesso diventa banale. A Dio non possiamo dare certe cose. Servono musicisti di alto livello. Perché l’ascolto è l’altro volto della parola. È un esercizio faticoso. Quando dobbiamo dire che una realtà è incomprensibile, diciamo che è assurda, che viene da "sordo"». In questo senso certa musica contemporanea non è capace di far aprire le orecchie alla Parola divina, è incapace di far salire a Dio come il "Te Deum" di Verdi.
E Muti tiene a sottolineare che il problema non è nella semplicità o nella difficoltà della musica, il distinguo è nella capacità della musica di farci fare l’esperienza di Dio. «La chitarra rende la musica semplice e forse più comprensibile, ma la vera musica non ha bisogno di comprensione, la vera musica è rapimento. Lo dice con grande efficacia Dante nel Paradiso quando di fronte alla visione celeste in cui gli spiriti beati si dispongono in forma di croce sente una musica che non intende ma che lo rapisce. Ciò che conta non è la tecnica della musica.
Mozart diceva che la musica più profonda è quella che giace fra le note. È lì che si trova la verità. È il rapimento verso l’alto che conquista nella musica». Per questo, ha sostenuto il cardinale, «dobbiamo tornare a fare buona musica nelle chiese tenendo presente che, come diceva il filosofo Jean Guitton, la liturgia è costituita di due momenti in perfetto connubio fra loro, uno in cui c’è il mistero divino che si rende presente e che ha bisogno di musica rispettosa, l’altro in cui c’è la rappresentazione, la partecipazione di tutti. Ecco, abbiamo bisogno di musicisti che ci consentano di vivere questo dualismo con un nuovo linguaggio... Elie Wiesel spiega la musica attraverso la visione di Giacobbe nel sogno in cui scende una scala dal cielo, sulla quale salgono e scendono angeli. Giacobbe si sveglia e riparte. E Wiesel dice che gli angeli quella scala si sono dimenticati di ritirarla ed è la scala musicale, capace di unire la terra al cielo».
Roberto I. Zanini
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (Coro)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Nelle pieghe della musica con Muti
di Benedetta Saglietti *
Frequentare un’accademia per studiare un’opera lirica (Aida) guidati da un grande maestro, Riccardo Muti, al Teatro Alighieri di Ravenna: quest’anno si tiene la terza edizione. In precedenza, l’accademia ha affrontato le letture di Falstaff (2015) e Traviata (2016). Un’esperienza da specialisti, riservata a pochi eletti? Falso.
Si penserà che anzitutto sia riservata a chi conosce già bene la musica e a chi sa leggerla. Bisogna per prima cosa sfatare il pretesto (“non capisco la musica perché non so leggerla”) che comprenda la musica solo chi è in grado di leggere una partitura. Come in una qualsiasi altra lingua, davvero essenziale per muoversi agevolmente all’interno di un’opera è conoscerne l’impalcatura. Sapersi muovere dentro una struttura musicale s’impara solo e soltanto con l’ascolto attivo: con le guide all’ascolto disponibili ormai ovunque, in radio, su internet, a volte, nei teatri, nelle università e nei conservatori (e, ultimo, ma non in ordine d’importanza, Muti stesso tiene da qualche anno cicli di lezioni intitolate “prove d’orchestra”, su Berlioz, Cimarosa, Dvořák, Mozart, Paisiello, Schubert e Verdi, amatissime e seguitissime, recentemente di nuovo in onda su Rai5 e racchiuse anche in otto dvd).
Dal primo al 14 settembre nel magnifico teatro ravennate si tiene l’Italian Opera Academy, le prove a cadenza giornaliera: il 10 la generale, il 12 Muti ha diretto una selezione di brani da Aida, questa sera sarà la volta dei giovani direttori.
I fruttuosi insegnamenti che si possono trarre dall’Italian Opera Academy non sono confinati all’ambito musicale. Cinque i fortunati direttori d’orchestra selezionati: Marco Bellasi, 35 anni, Italia; Gevorg Gharabekyan, 35, Svizzera; Kaapo Johannes Ijas, 29 anni, Finlandia; Hossein Pishkar, 29 anni, Iran; Katharina Wincor, 22 anni, Austria (e quattro i maestri collaboratori: Maddalena Altieri, 26 anni, Italia; Emmanuelle Bizien, 30 anni, Francia; Wei Jiang, 28 anni, Cina; e Alice Lapasin Zorzit, 22 anni, Italia). L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, fondata quattordici anni fa dallo stesso Muti, è lo strumento del lavoro dell’Accademia. Oltre ai "Cherubini", e i cinque allievi direttori, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, e il cast vocale: il soprano Vittoria Yeo nel ruolo di Aida (che ha interpretato, sempre con Muti, al Festival di Salisburgo 2017), il basso Luca Dall’Amico (il Re d’Egitto), Anna Malavasi mezzosoprano (Amneris) e il tenore Diego Cavazzin (Radamès). Completano il cast il basso Cristian Saitta (Ramfis), il baritono Federico Longhi che dà voce a Amonasro, mentre il messaggero è il tenore Andrea Bianchi .
L’Aida di Giuseppe Verdi è stata spartita tra i quattro direttori: ognuno è responsabile di un atto. Avendo assistito all’accademia in fase inoltrata (siamo quasi a metà), ormai Muti ha ceduto il palcoscenico ai suoi allievi; se ne sta discosto, tra le quinte, a sorvegliare con sguardo attento i giovani direttori sul podio. Vedere un direttore d’orchestra del calibro di Muti cedere la bacchetta ai giovani non solo fa una certa impressione, ma è denso di significato come fatto simbolico. "Trasmettere ciò che ho imparato alle nuove generazioni quanto ho avuto la fortuna di imparare" è il motto dell’accademia. Quanti grandi maestri oggi, hanno il coraggio e l’umiltà di farlo?
Nella lezione del 9 settembre, ogni direttore ha avuto a sua disposizione sedici minuti di tempo per rivedere con i musicisti passi scelti della partitura, esattamente come si fa durante una prova d’orchestra. Cos’è nascosto nelle pieghe della musica, difficilissimo da spiegare a parole senza banalizzarlo, è sempre stupefacente, anche a orecchie esperte: in pochi hanno poi la possibilità di smontare un’opera soffermandosi sul singolo dettaglio (si pensi all’invocazione “Pietà, pietà” nel terzo atto, dove Aida è sola, e intona queste parole senza il supporto della musica, che fa una pausa, e letteralmente le fa il vuoto attorno, su queste parole). Ma qui, come in pochi altri posti al mondo, in platea e nei palchi, quasi tutto il pubblico segue l’accademia, in silenzio e con attenzione, partitura e matita alla mano.
Ogni partecipante si misura dunque con specificità musicali diverse, ad esempio il Preludio iniziale, da far tremare i polsi a direttori anche più esperti, o la celebre Marcia trionfale. In questa fase i cantanti non sono in scena, quindi ci è regalata la possibilità, quanto mai rara, di apprezzare in tutta la sua potente bellezza la sola musica strumentale di Verdi, senza le voci, senza il coro, e soprattutto senza la scena, che a volte distrae le orecchie. Una partitura raffinatissima, che probabilmente in Italia abbiamo un po’ maltrattato o, forse, non studiato abbastanza. (Nel nostro paese la tendenza, per incuria o per lassismo, è quella di nascondersi dietro una scusa e tradizioni esecutive assodate: "Si è sempre fatto così, quindi Verdi è così"). Se si dovesse cercare uno slogan per quest’accademia potrebbe essere questo: dimenticate gli elefanti. Perché questa Aida non è quella che vi hanno sempre fatto vedere/ascoltare: anche se credevi di conoscerla. Ogni piccolo dettaglio, di ogni singolo direttore, dice qualcosa: un attacco poco preciso, un gesto delle braccia, il semplice saper stare in piedi su un podio, il tono della voce, la capacità di saper cantare con voce ferma. Domare una compagine da parte di un maestro ricorda, a volta, la tenuta della classe di un maestro elementare (e, forse non a caso, sempre di maestri di tratta). Gli esperti di team building avrebbero da imparare, eccome, da queste lezioni.
Non è la perizia o l’imperizia musicale che colpisce per prima - pur con le loro specifiche differenze, questi direttori hanno già “un mestiere in mano”, altrimenti non avrebbero passato le selezioni - ma come reagisce l’orchestra a ognuno di loro, come se, in questo lasso di tempo, sino a ora dieci giorni, entrambe le parti si fossero studiate reciprocamente e avessero instaurato una relazione specifica, diversa con ciascuno di loro. Una sorta di chimica interpersonale, più che musicale.
Oltre all’entrare tra le pieghe più riposte della musica, grazie a questo grande puzzle che è prima analizzato per singolo pezzo, e poi ricomposto, si capisce che tutto il corpo fa la musica: il gomito, le dita, l’espressione del viso. Le fasi delle prove sono varie: dapprima si discute in dettaglio, poi per sezioni più grandi, con i cantanti o senza, sino a che si smette di parlare e si suona tutto di fila, o quasi.
La personalità musicale è fatta di gesti, sembra lampante, se non fosse che mai come in situazioni del genere dove si avvicendano molteplici personalità sul podio, spiccano i tratti individuali. Questi gesti creano la musica e, di conseguenza, il corpo del direttore e il suo carisma è fondamentale, soprattutto in quella fase in cui non è più alla parola che si affida l’intesa fra musicisti e podio: perché il direttore d’orchestra col suo corpo impersonifica letteralmente la musica e un direttore con un corpo diverso, par creare una musica diversa. Il dominio della musica è un fatto intellettuale che si estrinseca nel corpo: se la comprensione è fatta con la testa e non si traduce nel corpo è fallace e viceversa se si afferra la musica con il corpo ma non con la mente non si traduce in musica “ricca”, gustosa.
Prima dell’antegenerale, Muti sale sul palcoscenico e tira le fila: “Attenti a non guastare mai il suono”, consiglia. “Ci tengo molto alla rotondità nel suono, anche nei fortissimo. Chi aggredisce l’orchestra dirigendo, genera di ritorno un’aggressività in chi suona. Ogni direttore che passa di qui crea un suono (che lo voglia o no) che cambia: questo è uno dei grandi misteri della musica”.
* Alfabeta2, 14 settembre 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!! CONTRO LA POLITICA DI UNA MAGGIORANZA CHE INFANGA IL NOME DELL’ITALIA, NEL NOSTRO PAESE E NEL MONDO, LA PROTESTA DEI MUSICISTI E DEGLI ARTISTI DEI TEATRI E DELLE COMPAGNIE STABILI.
Il Vaticano e la teologia delle sorelle
di Massimo Faggioli (Europa, 6 giugno 2012)
Durante e nonostante lo scandalo delle divisioni interne alla Curia romana ormai noto come “VatiLeaks”, proseguono i richiami del magistero della Chiesa rivolti contro teologhe e teologi cattolici. Due giorni fa è toccato a suor Margaret A. Farley, docente alla Divinity School della Yale University, ricevere da Roma una notifica (datata 30 marzo 2012) riguardo il suo recente libro, Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics. Le critiche riguardano la trattazione di questioni come la masturbazione, gli atti omosessuali, le unioni omosessuali e il matrimonio.
In questi ambiti suor Farley presenta dei casi in cui, sulla base di una morale esperienziale e non dottrinale, si difende la moralità di pratiche rigettate dalla morale sessuale ufficiale della Chiesa. La notifica viene non dai vescovi americani, ma dalla Congregazione per la dottrina della fede che attualmente è guidata da un cardinale americano, William Levada. Il libro viene accusato di insegnare in materia morale principi significativamente differenti da quelli insegnati dal papa e dei vescovi, e quindi di provocare confusione tra i fedeli. Il libro di conseguenza «non può essere usato come valida espressione della dottrina cattolica».
Nella sua risposta, Farley ha «ringraziato la Congregazione» per l’attenzione ricevuta e non ha smentito il fatto che il libro contenga opinioni che non sono in accordo con l’insegnamento ufficiale della Chiesa, ma ha anche puntualizzato che il libro è inteso ad offrire non una dottrina cattolica alternativa, ma «un’interpretazione contemporanea di significati tradizionali che sono rilevanti per il corpo umano, la differenza di genere e la sessualità».
Come accade di consueto, i teologi americani si sono schierati in difesa del libro sotto accusa, che al momento della pubblicazione nel 2006 venne accolto da recensioni molto positive. Una delle teologhe moraliste più importanti, Lisa Cahill del Boston College, ha affermato che una delle questioni-chiave del libro è la violenza contro le donne e le sue conseguenze per la teologia morale cattolica - una questione che non viene menzionata nel giudizio della Congregazione, che invece accorda grande importanza alla moralità della masturbazione.
Anche l’ordine religioso a cui appartiene suor Farley, quello delle “Sisters of Mercy of the Americas”, ha espresso il suo sostegno all’autrice del libro, docente a Yale dal 1971, pluripremiata e celebre a livello mondiale non come esperta di morale sessuale bensì di bioetica ed etica medica.
Agli occhi dei cattolici americani, infatti, è chiaro lo schema di azione della gerarchia verso la teologia americana e in particolare contro le teologhe. Risale al 2010 l’inizio delle tensioni tra i vescovi americani e le religiose circa la riforma sanitaria dell’amministrazione Obama, che le religiose hanno appoggiato per il tentativo di estendere la copertura sanitaria a quasi tutti quelli attualmente senza accesso alle cure mediche.
È dell’autunno 2011, poi, lo scontro tra la conferenza episcopale americana e la docente di teologia di Fordham University, Elizabeth Johnson circa il suo libro, Quest for the Living God. Nel maggio 2012 si è infine avuta notizia dell’indagine aperta dai vescovi americani sulle Girl Scouts (che negli Stati Uniti sono separate dai Boy Scouts of America e politicamente molto più liberal e socialmente più impegnate) per i legami che le Girl Scouts hanno con organizzazioni che promuovono la contraccezione e la salute sessuale delle donne.
È una spaccatura grave e crescente quella tra il Vaticano e i vescovi da una parte, e la teologia americana dall’altra: si tenta di ironizzare apprezzando il fatto che immediatamente, qualche ora dopo la pubblicazione di queste “condanne” vaticane, i libri presi di mira scalano le classifiche di vendita. Nel caso di Farley, i proventi andranno al suo ordine religioso, anch’esso nel mirino del Vaticano per i provvedimenti annunciati due mesi fa contro la Lcwr, la più grande federazione degli ordini religiosi femminili degli Stati Uniti.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 20 maggio 2012)
La critica a un’informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un’altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l’odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt’altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).
La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l’apostolo lo conferma a più riprese
puntando l’indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso
l’oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni
e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della
Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, al punto che san
Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i
propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4, 3-
4). Anzi, la forza «performativa», cioè efficacemente incisiva, della comunicazione - soprattutto nei
confronti delle persone più indifese - è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo al
l’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che
entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balia di passioni di ogni
genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità»
(3, 6-7). In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e
semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolano persino
dice l’apostolo - «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e
allarmare» (2 Tessalonicesi 2, 2), tanto è vero che san Paolo si vede costretto ad apporre ai suoi
scritti - dettati, com’era prassi, a uno scriba - una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano,
di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2 Tessalonicesi 3, 17);
«vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6, 11). L’«adulterazione» del
messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese
delle origini (2 Corinzi 4, 2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di
voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri... Nessuno vi inganni con parole vuote» (Colossesi
2, 8; Efesini 5, 6).
La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni sono quindi un dato permanente e forse scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa. A questo punto vorrei apporre al nostro itinerario molto variegato, e forse anche un po’ disperso e dispersivo, una nota conclusiva, che vuole avere un sapore «controcorrente». Dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, vorrei infatti far entrare in scena l’antipodo, ossia il silenzio.
In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Il filosofo Friedrich W. Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il chattare senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (Apocalisse 8, 1).
È come se nell’etere risuonasse un poderoso: «Zitti!», così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora. La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dal l’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio «bianco», che sia - come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico - la somma di parole profonde, e che non è il mero silenzio «nero», cioè l’assenza di suono.
Il Dio dell’Oreb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qôl demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola assennata e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».
Non è teologia se non ci libera
di Roberta De Monticelli (Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2012)
Tanti sono i sapienti che hanno commentato la pagina forse più famosa di Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore. Eppure poche sono le spiegazioni convincenti del bacio con il quale il Cristo della Leggenda - tornato in terra al tempo dell’Inquisizione, e subito gettato in carcere - risponde al lungo monologo del vecchio Inquisitore: che pure rivendica per la sua Chiesa il pietoso nichilismo con cui questa ha spento la «libera decisione del cuore», alla quale il Cristo affidava il Regno di Dio. E l’ha sostituita con l’obbedienza degli uomini-bambini al potere spirituale-temporale dell’istituzione.
L’Inquisitore ha raccontato in ogni dettaglio il baratto ispirato dal demonio: libertà contro "felicità", obbedienza (e licenza di peccato, e perdono) in cambio del sollievo di non dover dubitare, e cercare, e scegliere, e portare responsabilità delle proprie scelte. Ha ricordato "il segreto del mondo", la sapienza del tentatore, che è sapienza politica e riguarda il meccanismo dell’obbedienza, nutrita dal bisogno che gli uomini hanno di inchinarsi "tutti insieme" a qualcuno, cioè dalla dimensione sociale della religione. Ha evocato la contraffazione del divino mediante le forze che da sempre corteggiano l’"umiltà del male" (come direbbe Franco Cassano): «miracolo, mistero, autorità». E per tutta risposta il Nazareno bacia le sue labbra esangui, di un bacio che brucia l’anima del vecchio e lo induce ad aprirgli la porta della libertà. Perché?
Aprendo l’ultimo libro di Vito Mancuso - Obbedienza e libertà - troviamo una risposta nuova. «Gesù vede che il vero prigioniero è proprio il suo carceriere, racchiuso in una prigione non fisica ma mentale, da cui è molto più difficile uscire». Quel bacio è un varco offerto alla mente prigioniera dell’Inquisitore. Aljoscia Karamazov, il monaco novizio - che più tardi sceglierà di vivere nel mondo - ripete questo gesto, e bacia il fratello Ivan, il filosofo, il cui pensiero racchiude entrambe le possibilità: l’Istituzione che imprigiona la mente e il nazareno che la libera. Ecco: Mancuso è Aljoscia. Proseguite nella lettura e ve ne convincerete.
Tutti i suoi libri infine sono questo: un bacio che
brucia di un fuoco soave, "purificatore", in cui possa incenerirsi l"’autorità" di una Chiesa costruita
nei millenni sopra il "miracolo" e il "mistero", per lasciar spazio all’autenticità" cui Gesù richiamava
l’anima («svegliati, ragazza»). In cui l’obbedienza si depuri del suo diabolico fondamento - il potere
e si inchini soltanto alla "legge della libertà", all’autonomia della coscienza. Il bacio offre a quella
Chiesa da cui Mancuso proviene il varco di una libertà che è a lei ben nota, nutrita com’è, fin nei
suoi ultimi papi, del pensiero europeo moderno e contemporaneo, dal quale sorgono (come dal
pensiero di Ivan Karamazov) entrambi gli interlocutori: l’obbedienza asservita e la libertà autentica,
il nichilismo morale e il primato della coscienza, la "fede" come devozione atea e la fede come
«esperienza che l’intelligenza è illuminata dall’amore» (S.Weil).
Questa chiave di lettura illumina tutta la complessa dialettica di questo libro, giustamente presentato come "sintesi matura" del pensiero del suo autore. Un libro pubblicato nella collana "Campo dei fiori" - la piazza romana in cui arse il rogo di Giordano Bruno - e dedicato «alla memoria degli italiani uccisi in quanto "eretici", martiri della libertà religiosa, testimoni obbedienti del primato della coscienza». E i cui nomi sono riportati nell’Appendice.
Eppure è a questa stessa Chiesa che li ha bruciati che Mancuso si rivolge con il sottotitolo del suo libro: Critica e rinnovamento della coscienza cristiana. Lo afferma chiaramente: un cristianesimo non può esistere senza chiesa, senza magistero, senza tradizione, senza liturgia, senza comunità/comunione. Non si tratta quindi di eliminare la "sua" Chiesa, si tratta di spezzare la subordinazione alla Chiesa della teologia. In una "teologia laica" si dispiega il bacio liberatorio. E la liberazione, si badi, è rigorosamente teologica. Biblica anzitutto: Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo.
La salvezza non va pensata come redenzione, ma secondo l’annuncio di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Di teologia fondamentale, in secondo luogo. All’inizio dell’avventura umana non c’è il peccate originale, ma «l’energia caotica... che ha bisogno di essere ordinata e disciplinata per diventare volontà di bene e di giustizia»: cioè la libertà.
Dio è il nome del bene, e non il nome del potere.
Ed ecco le due radici di quella logica dell’obbedienza e del potere che attanaglia la mente del moderno Inquisitore: il pessimismo relativo all’uomo, con la dottrina del peccato originale che avvinghia l’esercizio del potere all’umiltà del male; e il fatto che il cattolicesimo «non ha più una visione del mondo dai tempi di Dante», perché ha tradito, da Galileo in poi, la ricerca del vero. Il bacio, dunque, fiorisce proprio dai due temi principali dell’innovazione teologica di Mancuso. E offre scampo al duplice disagio, della coscienza e dell’intelligenza, e al tragico paradosso della Chiesa: «L’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino a essere ucciso». Sarà finalmente aperta, quella porta?
Gesù è Figlio di Dio?
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “www.temoignagechretien.fr” del 26 febbraio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Dopo aver sentito una delle mie prediche, un amico mi diceva, con un sorriso canzonatorio: “Lo ammetta! Ario aveva ragione!” Voleva dire che il Gesù che io predicavo, profeta di un amore universale, riconciliatore dell’umanità, non aveva bisogno di essere Dio per essere interessante. Dietro la stabilità della posizione cattolica tradizionale, la fede reale dei nostri contemporanei è più fluttuante. Si trovano dei buoni cristiani che dicono che la figura di Cristo per loro è sufficiente e che non provano il bisogno di risalire fino a Dio. Il dibattito che si è aperto tra Frédéric Lenoir e Bernard Sesboué testimonia questa esitazione.
L’osservazione di quell’ascoltatore mi ha fatto male. Rifiuto con tutta la mia fede di ridurre Gesù ad un semplice profeta. E il rimprovero di arianesimo mi ferirebbe nel più profondo della mia fede.
Eppure è vero che anch’io esito ad usare l’espressione “figlio di Dio”. Non perché significherebbe troppo, ma perché non significa abbastanza! Evoca una relazione non sufficientemente stretta, che lascia spazio ai due termini. Il figlio di Dio non è necessariamente Dio, come neanche il figlio del Re è necessariamente Re. Invece, parlando del Padre, il Figlio si situa in una relazione di comunione che li distingue e li unisce. Il Padre e il Figlio, nella relazione dello Spirito d’amore, sono insieme Dio. Dio è un gioco di relazioni, un Essere condiviso tra più persone. Perché parlare del Figlio di Dio, dato che non si parla del Padre di Dio? Gesù, che ama parlare di sé come Figlio dell’Uomo, non si presenta mai come Figlio di Dio.
E questo Figlio, è Gesù di Nazareth, un uomo tra gli uomini. La sua saggezza, la sua audacia, la sua bontà, la sua misericordia sono quelle di un uomo. Lo si è potuto seguire e ci si può ancora interessare di lui mettendo sotto silenzio le sue confidenze mistiche. Ma se ho con lui una relazione diversa da quella che ho con tanti filosofi, è che con lui intravedo la possibilità di risolvere una volta per tutte l’angoscia di vivere sotto lo sguardo di un “Altro” sconosciuto. Con Socrate, abbiamo trovato in ognuno di noi quella luce che ci fa uscire dal nostro isolamento e che si chiama Ragione. Con Gesù, siamo riconciliati con il Mistero dell’Esistenza che ci opprime.
Dovremmo forse avere l’audacia di dire che ci siamo liberati di Dio. Quella parola ha da sempre designato, al singolare come al plurale, una presenza sconosciuta che ci limita, che gioca con la nostra esistenza, che ci giudica dall’alto, che ha sempre l’ultima parola e che pretende sottomissione e adorazione. Ma se la nostra sorgente è un amore paterno che ci vuole autonomi, liberi, creatori a sua immagine. Se è un Padre e non un Giudice o un Capo, la nostra vita si trova trasformata nel profondo: non siamo più sottomessi, ma complici, non siamo più servi, ma eredi. Lui non si aspetta da noi null’altro che amore.
Gesù è l’uomo nel quale gli uomini si sentono chiamati ad uscire dal timore di Dio per entrare nell’Amore del Padre, ad uscire dal consenso alla Legge Universale per entrare nell’audacia della Creatività. La piccola Giulia potrebbe forse dirci che un presidente non è più un presidente se è il suo papà! In ogni caso, mi sembra che un Dio che è nostro Padre, cessi un po’ di essere Dio!
Osiamo dire: Padre Nostro!
La Condivisione del pane come fondamento della carità cristiana
di Benedetto XVI (Corriere della Sera, 11.02.2012)
Nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, San Luca descrive la Chiesa nascente con quattro caratteristiche che ne connotano la vita: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Alcuni versetti dopo, Luca ritorna nuovamente su quanto aveva detto: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Lo spezzare il pane, nominato due volte, appare come elemento centrale della comunità cristiana e ci ricorda l’incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30 ss.), che a sua volta ci rimanda all’ultima cena (Lc 22,19). Questa è una parola che nella molteplicità dei suoi significati lascia trasparire il centro portante e al tempo stesso tutta l’ampiezza dell’esistenza cristiana.
Certo, essa si riferisce innanzitutto a qualcosa di molto semplice, di quotidiano. Nel mondo ebraico era compito del padrone di casa spezzare il pane dopo una preghiera e distribuirlo tra i commensali; questo sia durante pranzi familiari, o convivi, che in occasione di pasti di carattere rituale, come la sera della Pesah. Gesù padrone di casa e ospite paterno dei suoi ha raccolto questa usanza la quale, nella cena alla vigilia della sua agonia, acquista tuttavia un nuovo significato. Infatti, in quell’ora, Gesù non distribuisce solo pane, ma se stesso: Egli si dona. Già nel pasto quotidiano lo spezzare il pane ha un doppio significato: è allo stesso tempo un gesto di condivisione e di unione. In virtù del pane condiviso la comunità a tavola diventa una: tutti mangiano dello stesso pane. La condivisione è un gesto di comunanza, di donazione, che rende partecipi della famiglia anche gli ospiti.
Questo condividere e unire raggiunge nell’ultima cena di Gesù una profondità mai immaginata prima. Nello spezzare il pane egli compie quel «li amò sino alla fine» (Gv 13,1) in cui egli dona se stesso e diventa pane «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Evidentemente il particolare gesto con cui Gesù spezzò il pane è penetrato profondamente nelle anime dei discepoli, come possiamo evincere dal racconto dei discepoli di Emmaus. Ricordando quel gesto, essi vi hanno visto racchiuso tutto il mistero della consegna di sé messa in atto da Gesù.
L’espressione «spezzare il pane» nella Chiesa nascente andò così a designare l’Eucaristia, dunque ciò che la caratterizzò e la tenne unita come nuova comunità. Dal ricordo dell’ultima cena però emergeva anche chiaramente che l’Eucaristia è più di un semplice atto di culto che si esaurisce nella celebrazione liturgica. Lo spezzare il pane era di per sé un’immagine di comunione, dell’unire attraverso la condivisione. I cristiani ora possono vedere nell’atto di spezzare il pane compiuto da Gesù un’immagine dell’ospitalità di Dio, nella quale il Figlio incarnato dona se stesso come pane di vita. Di conseguenza la frazione del pane eucaristico deve proseguire nello «spezzare il pane» della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così unire. È semplicemente l’amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo: l’Eucaristia deve divenire «spezzare il pane» a tutti i livelli, altrimenti il suo significato non si compie. Deve divenire «diaconia», servizio e dono nella vita quotidiana. E specularmente la premura sociale della caritas non è mai solo agire pragmatico, bensì sorge dalle radici profonde della comunione con il Signore che si dona, dalla dinamica dell’amore partecipe di Dio per noi.
Mi rallegro che il cardinale Cordes abbia raccolto e spiegato, con grande energia, l’impulso che ho cercato di avviare con l’enciclica Deus caritas est. Saluto come parte della sua fatica questo suo libro L’aiuto non cade dal cielo. Caritas e spiritualità, in cui viene mostrato da varie prospettive quanto è racchiuso nella parola fondamentale caritas - amore. Perciò auguro a questo libro l’ascolto attento che penetra nei cuori e, andando oltre la ricezione e la lettura, conduce ad agire con amore e a una comunione più profonda con Gesù Cristo.
Senza la giustizia non ci resta che una religione consolatoria
di Ettore Masina (“Jesus”, n. 2, febbraio 2012)
Nel 1868 scoppiò in Sardegna una violenta ribellione popolare contro le nuove leggi agrarie. Il grido dei rivoltosi era: «Tornaus a su connottu!», vale a dire «Torniamo al conosciuto», a quello che c’era «prima». Le nuove leggi, infatti, sconvolgevano l’antico assetto fondiario, e la grande maggioranza della popolazione, di fronte a mutamenti che le risultavano incomprensibili, si sentiva smarrita e indifesa. Penso che un sentimento del genere sia assai diffuso oggi in Italia: che vi siano milioni di cittadini frastornati dai mutamenti imposti dalla crisi; e che quando cercano di capire perché d’ora in poi debbano vivere ben peggio che quindici anni fa, riescono soltanto a percepire la micidiale potenza di oscure forze che costringono i più poveri a pagare le conquiste sociali ottenute, con durissimi sacrifici, nei secoli passati.
Non c’è dubbio che il potere di quello che cinque Papi hanno definito «imperialismo internazionale del danaro» si è fatto, in questi anni, più efficace (e pericoloso per chi crede nella dignità dell’uomo), sia per l’uso di tecnologie che sino a poco tempo fa non esistevano, sia con l’introduzione nel mondo dei mercati di strumenti ideologici come le agenzie di rating, specie di raffinate degenerazioni del Fondo monetario internazionale ormai assurte al grado di giudici senza appello dell’economia dei singoli Stati; mentre appare evidente che la desolata constatazione di Paolo VI ai margini del Concilio («I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri») va completata da un’altra evidenza: «I ricchi diventano sempre più pochi». È andata concentrandosi, ai vertici di una struttura parallela a quella degli Stati, una «cupola» fatta di pochissime persone, capaci di muoversi unitariamente con la forza e il cinismo di una mafia di inedite proporzioni. Per esempio: secondo credibili indagini, non più di dieci persone hanno nelle loro mani il commercio alimentare mondiale e lucrano sulle carestie, le guerre, le calamità naturali - e la fame delle vittime.
Le nuove regole imposte agli Stati hanno una dura valenza nei Paesi sviluppati; ma nei confronti degli Stati poveri la violenza è devastante. È dunque un nuovo appello che la storia lancia alla Chiesa. Al centro del Vangelo sta l’esigenza di una fraternità universale, una difesa intransigente della giustizia, senza la quale la nostra fede è una religione consolatoria incapace di vedere oltre le paure e i dolori personali. Sembrerebbe dunque ovvio che una realtà del genere mobilitasse le energie spirituali e culturali dei cristiani; che in tutte le loro assemblee quello dell’ingiustizia internazionale fosse il tema prioritario. Ma è proprio così?
Gratuità nel ministero
di Luisito Bianchi
in “Il Regno” - Attualità - n. 20 del 15 novembre 2006
Se la sapienza ama giocare con gli uomini (cf. Pr 8,31), può darsi che anche il giorno scelto dal potere religioso in Italia per decretare l’entrata in vigore di una legge concordataria faccia parte di tale gioco. Come può essere capitato per il 25 gennaio 1987.
Dicono che da mille anni questa data è consacrata alla memoria liturgica della Conversione di san Paolo. Ma conversio ad quid? Sappiamo che cosa avvenne sulla via che portava a Damasco. E fu in quel bagliore accecante che l’intransigente difensore della legge rimase per sempre travolto dalla piena della gratuità che proveniva dal corpo di Gesù, crocifisso e risorto, unica salvezza.
Accadde in quel momento il definitivo convergere di Paolo (la conversione appunto) sulla gratuità della salvezza, che viene non dalla legge ma da Gesù, come dono assoluto, senza contraccambio. Per tutta la sua vita, Paolo altro non fece che raccontare questa gratuità, operare perché altri si convertissero a questo Evangelo che è la buona notizia della salvezza come dono gratuito, non soggetto a pentimento. E tutto questo spinto dalla «necessità», cui è impossibile sottrarsi, di trasmettere quanto è stato ricevuto, una tradizione fondata sul ricevere e dare gratuitamente.
Da qui la sua assoluta intransigente gratuità nel trasmettere l’accaduto che gli rivelò la gratuità di Dio, al punto da preferire la morte (cf. 1Cor 9, 15) piuttosto che avvalersi perfino della facoltà di sedersi a mensa (eppure «l’operaio è degno del suo nutrimento», come da Mt 10,10) riconosciuta al rabbi nella cultura ebraica, perché non fosse sottoposto il suo annuncio di gratuità («economia della gratuità» di Ef 3,2ss) anche solo al sospetto d’una strumentalizzazione per risolvere il problema del vivere. Di qui la necessità di lavorare con le proprie mani per trarne il sostentamento ed essere assolutamente gratuito nella predicazione.
«Lavorai giorno e notte» dice in diversi luoghi delle sue lettere, e non tanto iperbolicamente se teniamo conto delle cinque motivazioni del lavoro stesso, come riporta il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (cf. At 20,33ss), fra le quali il sostentamento anche dei suoi collaboratori che non avevano la possibilità di lavorare per provvedervi da soli, sempre in viaggio a tenere i contatti fra le giovani Chiese e lo stesso Paolo. Anche loro, quindi, essendo suoi collaboratori, non dovevano far dipendere il loro sostentamento dal Vangelo. Quando poi Paolo, infermo o in prigione, non potrà sostentarsi col lavoro, solo allora accetterà l’aiuto dalla Chiesa di Filippi, ma non perché apostolo (anche da altre Chiese avrebbe dovuto pertanto accettarlo) bensì per amicizia (si ricordi la dolce violenza che gli fece Lidia in At 16,15, dove il verbo scelto da Luca per indicare l’irresistibile pressione di Lidia è lo stesso che usa per i due discepoli di Emmaus quando insistono perché lo sconosciuto entri in casa!).
Lavoro in primo luogo e amicizia poi sono, per Paolo, le due difese della gratuità dell’annuncio. Si raggiunge, così, attraverso l’esperienza di Damasco, il cuore della missione, come l’aveva indicato lo stesso Gesù: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
All’inizio, dunque, delle Chiese d’Occidente (non si dimentichi che anche Barnaba, a detta dello stesso Paolo - cf. 1Cor 9,6 - era del medesimo sentire) sta questa scelta di gratuità assoluta che viene indicata come esempio da imitare (cf. At 20,35; 1Ts 1,6-7; Fil 3,17; e, soprattutto, 2Ts 3,9). Come mai, allora, si arrivò a dichiarare impossibile la gratuità dell’annuncio dopo poco meno di 20 secoli di storia di tale gratuità, scaturita impetuosa dal cuore di Cristo, fatta da Paolo un tutt’uno con la propria vita, e continuata come fiume più o meno abbondante, fluente o in secca, ma sempre presente, per lunghi anni magari alla maniera d’un fiume carsico, che all’improvviso riappare con freschissime acque? Giacché, volere o no, è un fatto innegabile che dal 25 gennaio 1987 il sacerdote, nel momento in cui è ordinato (ordo ad) alla celebrazione della Parola e dell’eucaristiaentra necessariamente nell’istituto del sostentamento del clero e gli viene quindi praticamente chiusa e sigillata la porta alla gratuità in quanto è sottoposto al gesto del do ut des che è il contrario del gesto gratuito, indipendentemente dall’uso che può fare di tale retribuzione.
Questi sono fatti oggettivi, dai quali è facilissimo scivolare via. Che l’illazione poi che ne traggo sia altrettanto oggettiva, bisognerebbe che lo si chiedesse a san Paolo. «Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ’l crede» (D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, II, 32-33). Non so se ci sia stato o ci sia un vescovo che, accettando quanto avvenne il 25 gennaio 1987, abbia pensato alla possibilità che qualche prete, avendo già gustato la gioia liberante della gratuità che fu di Paolo e del filone che ne discende e attraversa tutta la storia della Chiesa, si trovasse sconcertato e perdesse la ragione del vivere dopo che, praticamente, i suoi vescovi gli avevano dichiarato illusoria, senza fondamento, la gioia liberante che durava da due decenni e che lo faceva sentire immerso nella tradizione della sua Chiesa, non ai margini. È vero che la storia di un prete fra migliaia è solo una storia; ed è pur sempre vero che la morte di uno vale la salvezza di tutti. Ma qui entra in gioco quella gioia liberante che è un bene di tutti, che tutti dovrebbero avere la possibilità di sperimentare, i miei confratelli intendo.
La mia storia non interessa, io fui un graziato perché continuai a beneficiare di tale gioia: e sono altri vent’anni che debbo aggiungere a quelli di prima. E tuttavia non sarei onesto se dovessi tacere l’interrogativo che mi posi quando mi fu chiaro che in quel 25 gennaio 1987 l’istituzione ecclesiastica aveva fatto una ben altra conversio di quella di Paolo. E l’interrogativo è questo: se nel 1950, anno in cui fui ordinato prete, al posto del «non datevi pensiero (...) di quello che mangerete (...) guardate i gigli» (Lc 12,22.27) o dell’invio sine baculo, sine pera, sine calceamentis (cf. Lc 10,4), mi si fosse imposta una congrua retribuzione mensile, sarei diventato prete? Non so. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà.
Anche in questo momento mi torna l’interrogativo, e anche ora do la stessa risposta del primo momento: la mia storia non è fondata sui «se», ma mi assicura che da cinquantasei anni sono prete e che da quarant’anni gusto la gioia liberante dell’essere gratuito nell’annunciare il gratuito. Come si può calcolare da questi numeri, io sono giunto ormai al termine della mia corsa. E se ho un testimone da trasmettere alla nuova staffetta che sta per iniziare la sua corsa per tradere a sua volta, eccolo: guardate alla radice dei termini che, nel Nuovo Testamento, indicano gratuità e gioia; è la stessa, char: char-is per gratuità, charà per gioia.
Chissà se posso, senza suscitare diffidenze o malintesi, ma lo dico ugualmente (tanto nessuno può strapparmi questa radice che dà senso ai miei quattro palmi di terra): Fratelli vescovi, introducete fra le materie di studio dell’ultimo anno di teologia la storia della gratuità nel ministero nei venti secoli della Chiesa, e fate voi stessi l’esame finale con la domanda sul significato che racchiude la festa del 25 gennaio, Conversione di san Paolo. Ad quid? chiedete ai vostri giovani candidati, o anche vecchi. E dalla loro risposta capirete se dovete chiudere l’esame con una seconda domanda: «E tu?».
Posso sognare che qualcuno risponderà: sì, eccellenza, proprio ad modum sancti Pauli, e che voi avrete la magnanimità di dargli fiducia e studierete con lui il modo di sostentarsi nell’immane libertà e gioia di non far dipendere il sostentamento dall’annuncio evangelico?
Posso sognare che questa utopia (il non-luogo) diventi una charis-topia (il luogo della gratuità) per qualcuno? Ma fosse anche nessuno, che sia però nella libertà di scegliere, avendo ben presenti i rischi dell’una e dell’altra risposta. È tutt’altra cosa scegliere liberamente l’assegno mensile che il doverlo «subire» ope legis.
L’importante è che anche in circostanze simili, uno, nessuno o centomila si diano onore e gloria all’Unico che nel suo stesso corpo crocifisso e risorto ha fatto dell’u-topia una charis-topia, come unica salvezza. Non è una conclusione consolatoria. Non c’è consolazione né nel ricevere né nel non ricevere l’assegno mensile per il fatto che si è preti. La sola consolazione è il potermi affidare, nel buio, a questo corpo che siede sul trono della gratuità, egli stesso il solo gratuito, «per ricevere misericordia (...) ed essere aiutati nel momento opportuno» (Eb 4, 16).
Non ho comunque difficoltà ad ammettere che queste «parolette brevi» (Paradiso, I, 95) abbiano tutta l’aria d’un monologo, con i fantasmi che tale termine suscita, più che di una dimostrazione attraverso venti secoli di storia della gratuità ministeriale, e, per giunta, un monologo partigiano. Luisito Bianchi*
* Don Luisito Bianchi è noto per la sua esperienza di prete operaio prima e di scrittore poi (La messa dell’uomo disarmato, Come un atomo sulla bilancia, Monologo partigiano sulla gratuità ecc.).
La Pasqua di don Luisito, scrittore e prete disarmato
di Angelo Bertani (Jesus, n. 2, febbraio 2012)
Sfilacciature di fabbrica, Come un atomo sulla bilancia, Dialogo sulla gratuità, La Messa dell’uomo disarmato, Simon mago, C’era una volta la Pasqua al mio paese, Le quattro stagioni di un vecchio lunario: a leggere i titoli dei suoi libri si resta sorpresi.
Nulla di scontato, piuttosto un cenno
paradossale, quasi una fantasia, una provocazione. Talvolta non si comprende bene neppure quale
sarà il tema trattato nelle pagine interne. Ma leggendole - tutte bellissime sebbene non sempre facili
si resta incantati dalla forza e dalla verità che esprimono. Raccontano ed evocano, ma non forzano
le conclusioni. Obbligano piuttosto a chiedersi: «Che cosa significano queste cose per me, oggi?».
Si intuisce soprattutto una grande creatività, una ricerca di novità, un invito a capire di più, andare
nel profondo. Una capacità di comunicare sentimenti e speranza anche al di là delle parole. E
soprattutto invitano a cercare un filo rosso, davvero evangelico.
Così è stata la vita di don Luisito Bianchi. Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, aveva incontrato la Resistenza nel 1943, a 16 anni. Lì aveva conosciuto gli ideali. Ricordava: «I partigiani avevano un sogno: quello di un mondo senza violenza e senza ingiustizia. La democrazia italiana nasce da questi ideali». E aggiungeva con sdegno: «Poi si è affermato lo slogan “meno Stato e più mercato”. E anche tanti cattolici hanno applaudito...».
Così Luisito aveva scoperto la gratuità e la profonda radice religiosa. «Avevo davanti a me un’idea: che un mondo nuovo è possibile se nasce dal sacrificio degli uomini, dal loro sangue sparso per dono, per amore non per odio, sangue che si unisce a quello del Signore»: così mi diceva per un’intervista a Jesus nel 2005; e ricordavamo Teresio Olivelli che, nella Preghiera del Ribelle, invoca: «Se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti a crescere al mondo giustizia e carità».
Questa esperienza giovanile di Resistenza cristiana farà da sfondo al bellissimo romanzo La Messa dell’uomo disarmato, ma soprattutto orienterà tutta la vita di Luisito, che diventa sacerdote, insegnante, intellettuale, prete operaio, inserviente di ospedale e infine cappellano presso il monastero femminile benedettino di Viboldone, dove ha potuto continuare il suo ministero e la testimonianza anche attraverso i libri.
Proprio attraverso i libri l’avevo conosciuto fin dal 1972, quand’era apparso Come un atomo sulla bilancia presso la Morcelliana. Di Luisito Bianchi allora avevo solo sentito parlare un poco perché era stato anche viceassistente nazionale delle Acli. Mi aveva incuriosito il titolo (a chi viene in mente di pesare gli atomi sulla bilancia? Certo nascondeva un paradosso) e poi mi appassionavano le esperienze dei preti operai, allora numerose e discusse. Il libro, che è un “diario” della sua vita quotidiana come prete che vive e lavora in fabbrica, fu una rivelazione per la forma letteraria, la sincerità e l’equilibrio che manifestava, la libertà di spirito e l’amore alla Chiesa e ai fratelli, vicini e lontani.
Recentemente aveva pubblicato anche la storia straordinaria di quella stagione (I miei amici, Diari 1968/70, edito da Sironi nel 2008). Mille pagine, certo. Ma così piene di intelligenza e di cuore, così capaci di “convertire” chiunque le legga, che vorrei consigliarle a ogni cristiano un po’ stanco, confuso, scoraggiato. Un libro che vale un Nobel; e che converte il cuore al vero amore gratuito verso Dio e i fratelli più di qualsiasi documento e omelia.
A chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene, a chi ha letto e compreso i suoi libri e a tutti quanti sono stati raggiunti dal suo messaggio e toccati dalla sua testimonianza, Luisito Bianchi - che è entrato nel Regno della perfetta gratuità il 5 gennaio scorso - lascia una certezza, una speranza e un impegno. La certezza è che il Signore parla e opera sempre nel cuore degli uomini e fa nascere, in ogni momento e in ogni luogo, degli uomini e delle energie che possono essere riferimenti e guide per il cammino della Chiesa e di tutta l’umanità.
La speranza è che tutti, credenti e persone di buona volontà, siamo capaci di ascoltare: facendo silenzio dentro di noi, facendo tacere tanto inutile chiasso. Lo aveva spiegato nel 2007 in un dialogo con Annachiara Valle (Jesus, aprile 2007): «Certo si può pensare che qui nel silenzio sia più facile poter pregare e ascoltare, ma il silenzio non è un fatto esteriore... La mia esperienza mi dice che il silenzio non è un luogo, ma è l’incontro con Cristo. Ascoltare le sue parole, non le nostre. La nostra ricerca di identità, il nostro chiacchiericcio finisce per mettere a tacere il Vangelo. Il monastero di Viboldone è come una luce, ma il mio ascolto è stato preparato durante gli anni di fabbrica, con il vociferare dei motori. È in mezzo al rumore che ho ricevuto il dono del silenzio».
L’impegno è a far crescere la coscienza che la Chiesa è fondata non sul ragionare degli uomini ma sulla gratuità della Rivelazione. Solo la gratuità consente di sperare e agire anche contro l’evidenza, la convenienza, le tentazioni del danaro e del potere. Solo la gratuità è generosa e capace di sognare e di costruire una realtà nuova, nella Chiesa e nella società, contro ogni timore e pigrizia, in spe contra spem. Solo nella gratuità infatti si può amare davvero, ogni giorno, i fratelli e la Chiesa. Grazie, don Luisito!
Lo Ior si fa beffe dell’Italia
di Marco Lillo (il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2012)
Il Vaticano sta prendendo per il naso da mesi la giustizia e la Banca d’Italia. Il Governo Monti dovrebbe fare la voce grossa e ottenere il rispetto degli impegni assunti in materia di antiriciclaggio ma c’è un piccolo particolare: il ministro della giustizia che dovrebbe essere in prima linea in questa battaglia, è stato l’avvocato del presidente della banca vaticana, lo IOR, Ettore Gotti Tedeschi.
La linea del Vaticano in questa materia non corrisponde affatto alle promesse di trasparenza contrabbandate in pubblico. Lo dimostra un documento che Il Fatto pubblica in esclusiva.
Si intitola “Memo sui rapporti IOR-AIF” ed è un documento “confidenziale” e “riservato” circolato negli uffici del Papa e della Segreteria di Stato e annotato a penna da una mano che - secondo gli esperti di cose Vaticane - potrebbe essere quella di monsignor Georg Ganswein, il segretario di Benedetto XVI. E’ stato scritto da un personaggio molto in alto che si può permettere di sottoporre la sua analisi ai vertici del Vaticano.
Al di là di chi sia l’autore, il “memo” dimostra che il Papa, il segretario di Stato Tarcisio Bertone, il presidente dello AIF, l’autorità di controllo antiriciclaggio Attilio Nicora e i vertici dello IOR sono tutti a conoscenza della linea sul fronte antiriciclaggio che si può sintetizzare così: non si deve collaborare con la giustizia italiana per tutto quello che è successo allo IOR fino all’aprile 2011.
Il “Memo”, come dimostrano le note appuntate a penna dalla segreteria del Santo Padre, è stato “Discusso con SER (Sua Eminenza Reverendissima) il Cardinale Bertone il 3 novembre” 2011. L’autore della nota, favorevole a una maggiore apertura verso Bankitalia e le Procure, aggiunge: Bertone “Si è trovato d’accordo sulle mie considerazioni! Incontrerà SER il cardinale Attilio Nicora (Presidente dell’AIF) e il direttore AIF (Francesco Ndr) De Pasquale”. Il memo, così annotato, è stato poi girato, al presidente dello IOR e al direttore dell’AIF.
Basta scorrere il testo per capire la rilevanza della partita in gioco: “Dall’entrata in vigore della legge vaticana anti-riciclaggio, avvenuta il primo aprile 2011, si sono tenuti numerosi incontri tra lo IOR e l’AIF (Autorità creata dalla nuova legge del Vaticano Ndr), rivolti da una parte a dimostrare alla nuova Autorità le iniziative intraprese per l’adeguamento delle procedure interne alle misure introdotte dalla legge....”
IN QUESTA prima parte il memo ripercorre la vicenda del mutamento della normativa antiriciclaggio, intervenuto sotto la spinta dell’indagine della Procura di Roma. Il pm Stefano Rocco Fava e il procuratore aggiunto Nello Rossi - a settembre del 2010 - avevano sequestrato 23 milioni di euro che stavano per essere trasferiti dal conto dello IOR presso il Credito Artigiano alla Jp Morgan di Francoforte (20 milioni di euro) e alla Banca del Fucino (3 milioni) e aveva indagato il presidente IOR, Ettore Gotti Tedeschi e il direttore Cipriani. Secondo i pm, lo IOR si era rifiutato di dire “le generalità dei soggetti per conto dei quali eventualmente davano esecuzioni alle operazioni”. Cioé chi era il reale proprietario dei soldi. Dalle indagini della Guardia di Finanza emergeva un quadro inquietante: lo IOR mescolava sul suo conto al Credito Artigiano i 15 milioni di euro provenienti dalla CEI, e frutto dell’8 per mille dei contribuenti italiani, con fondi di soggetti diversi.
Non solo: da altre operazioni emergeva che lo IOR funzionava come una fiduciaria e i suoi conti erano stati usati per schermare persino i proventi di una presunta truffa allo Stato italiano realizzata dal padre e dallo zio (condannato per fatti di mafia) di don Orazio Bonaccorsi.
DI FRONTE a un simile scenario i pm romani si erano opposti al dissequestro dei 23 milioni di euro nonostante le dotte motivazioni dell’avvocato del presidente dello IOR, il professor Paola Severino. Il ministro ora ha lasciato lo studio e si è cancellato dall’Albo anche se non ha comunicato alla Procura chi la sostituirà nella difesa di Gotti Tedeschi.
A sbloccare la situazione comunque non fu l’avvocato Severino ma il Papa in persona. Con una Lettera Apostolica per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario il 30 dicembre 2010, Benedetto XVI ha istituito l’Autorità di informazione finanziaria (AIF), per il contrasto del riciclaggio.
I pm romani motivarono così il loro parere favorevole al dissequestro nel maggio 2011: “l’AIF ha già iniziato una collaborazione con l’UIF fornendo informazioni adeguate su di un’operazione intercorsa tra IOR e istituti italiani e oggetto di attenzione”.
Peccato che, un minuto dopo essere rientrato in possesso dei suoi 23 milioni, lo IOR ha cambiato completamente atteggiamento. Tanto che in Procura non si nasconde il disappunto per quel dissequestro “sulla fiducia”. Ora si scopre che la giravolta vaticana è una scelta consapevole delle gerarchie, come spiega lo stesso “memo” discusso dai cardinali Nicora e Bertone e dallo stesso Gotti Tedeschi. “L’AIF (.... ) ha inoltrato allo IOR alcune richieste di informazioni relative a fondi aperti presso l’Istituto, cui quest’ultimo ha corrisposto, consentendo tra l’altro lo sblocco dei fondi sequestrati dalla Procura di Roma (....)
Ultimamente, tuttavia la Direzione dell’Istituto ha ritenuto di riscontrare le richieste dell’ AIF - relative ad operazioni sospette o per le quali sono in corso procedimenti giudiziari - fornendo informazioni soltanto su operazioni effettuate dal primo aprile 2011 in avanti.
Nel corso dell’ultimo incontro tra IOR e AlF del 19 ottobre u.s. tale posizione è stata sostenuta dall’Avv. Michele Briamonte (dello studio Grande Stevens Ndr), sulla base di un generale principio di irretroattività della legge, per il quale le misure introdotte dalla legge antiriciclaggio, (....) non possono valere che per l’avvenire”.
Questa linea interpretativa, ovviamente, ostacola enormemente il lavoro degli investigatori italiani e l’Aif ne è consapevole tanto che, come si evince dal memo ha ribadito “il proprio diritto/dovere ad accedere a tutti i dati e le informazioni in possesso dello IOR (...) motivando tale posizione con argomentazioni attinenti alla lettera e alla ratio della legge, al rispetto degli standard internazionali cui la Santa Sede ha aderito, allo svuotamento dell’effettività della disciplina appena introdotta, al rischio di una valutazione negativa dell’organismo internazionale chiamato a esaminare il sistema Vaticano di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”.
PURTROPPO l’operazione trasparenza era solo uno specchietto per le allodole. Nel frattempo il Vaticano ha spostato la sua operatività dalle banche italiane alla JP Morgan, soprattutto a Francoforte. La banca americana ha però un solo sportello (non accessibile alla clientela comune) a Milano, che è già finito, da quello che risulta al Fatto, nel mirino dell’attività ispettiva della Banca d’Italia. E così il 25 gennaio è stato pubblicato un decreto pontificio che ha ratificato tre convenzioni contro il riciclaggio. Sembra ci sia anche un articolo sull’obbligo di “adeguata verifica” prima del fatidico primo aprile. In Procura però stavolta non si fidano.
Benedetta corruzione
di Marco Lillo (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2012)
Furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. E poi fatture contraffatte all’Università Lateranense a conoscenza addirittura dell’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per l’evangelizzazione. E ancora: interessi del monsignore in una società che fa affari con il Vaticano ed è inadempiente per 2,2 milioni di euro. Ammanchi per centinaia di migliaia di euro all’Apsa - rivelati dal suo stesso presidente - e frodi all’Osservatore, rivelate da don Elio Torregiani, ex direttore generale del giornale.
C’è tutto questo nella lettera che Il Fatto pubblica oggi. I toni e i contenuti sono sconvolgenti per i credenti che hanno apprezzato gli appelli del Papa. “Maria ci dia il coraggio di dire no alla corruzione, ai guadagni disonesti e all’egoismo” aveva detto nel giorno dell’Immacolata del 2006 Ratzinger. Eppure il Papa non ha esitato a sacrificare l’uomo che aveva preso alla lettera quelle parole: Carlo Maria Viganò, l’arcivescovo ingenuo ma onesto, approdato alla guida dell’ente che controlla le gare e gli appalti del Vaticano. La lettera di Viganò è diretta a “Sua Eminenza Reverendissima il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato della Città del Vaticano”, praticamente al primo ministro del Vaticano.
Quando scrive a Bertone l’8 maggio del 2011, Viganò è ancora il segretario generale del Governatorato. Ed è proprio dopo questa lettera inedita, e non dopo quella del 27 marzo già mostrata in tv da Gli intoccabili, che Viganò viene fatto fuori. La7 si è occupata mercoledì scorso della lotta di potere che ha portato alla promozione-rimozione di Viganò a Nunzio apostolico negli Usa. L’arcivescovo-rinnovatore aveva trovato nel 2009 una perdita di 8 milioni di euro e aveva lasciato al Governatorato nel 2010 un guadagno di 22 milioni (34 milioni secondo altri calcoli). Nonostante ciò è stato fatto fuori da Bertone grazie all’appoggio del Papa e del Giornale di Berlusconi. A questa faida vaticana è stata dedicata buona parte della trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi che, nonostante lo scoop, si è fermata al 3,4% di ascolto. In due ore sono sfilati anche il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, un uomo del Vaticano in Rai, Marco Simeon e il vice di Viganò al Governatorato, monsignor Corbellini. Sono state poste molte domande sulle lettere scritte prima e dopo ma non su quella dell’8 maggio che è sfuggita agli Intoccabili. Peccato perché proprio in questa lettera si trovano storie inedite che coinvolgono nella parte di testimoni o vittime di accuse anche diffamanti, gli ospiti di Nuzzi.
E peccato anche perché nella lettera ci sono molte risposte (di Viganò ovviamente) ai quesiti posti da Nuzzi. Tipo: chi è la fonte del Giornale che ha scatenato la polemica tra Viganò e i suoi detrattori? Oppure: perché Viganò è stato cacciato? Probabilmente dopo la lettera che pubblichiamo sotto era impossibile per il Papa mantenere Viganò al suo posto.
Il segretario del Governatorato non scriveva solo di false fatture e ammanchi milionari. Non lanciava solo accuse diffamatorie sulle tendenze sessuali dei suoi nemici ma soprattutto metteva nero su bianco i risultati di una vera e propria inchiesta di controspionaggio dentro le mura leonine. E non solo spiattellava i risultati, (tipo: la fonte del Giornale è monsignore Nicolini che vuole prendere il mio posto. O peggio: Monsignor Nicolini ha contraffatto fatture e defraudato il Vaticano) ma sosteneva che le sue fonti erano personaggi di primissimo livello come don Torregiani, monsignor Fisichella e monsignor Calcagno.
Infine minacciava : “I comportamenti di Nicolini oltre a rappresentare una grave violazione della giustizia e della carità sono perseguibili come reati, sia nell’ordinamento canonico che civile, qualora nei suoi confronti non si dovesse procedere per via amministrativa, riterrò mio dovere procedere per via giudiziale”. Una minaccia ancora valida nonostante l’oceano separi l’arcivescovo dalla Procura. Anche perché il telefonino di Viganò continua a squillare a vuoto.
Carte di credito, fatture false, traffici e complotti
di Carlo Maria Viganò (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2012)
Domenica, 8 maggio 2011
Sua Eminenza Reverendissima
Il Sig. Card. Tarcisio Bertone,
Segretario di Stato Città del Vaticano.
Nella lettera riservata che Le avevo indirizzato il 27 marzo 2011, che affidai personalmente al Santo Padre attesa la delicatezza del suo contenuto, affermavo di ritenere che il cambiamento cosi radicale di giudizio sulla mia persona che Vostra Eminenza mi aveva mostrato nell’Udienza del 22 marzo scorso non poteva essere frutto se non di gravi calunnie contro di me ed il mio operato (....) ed ora, dopo le informazioni di cui sono venuto in possesso, anche in sincero e fedele sostegno all’opera di Vostra Eminenza, a Cui è affidato un incarico così oneroso ed esposto a pressioni di persone non necessariamente ben intenzionate (....) con tale spirito di lealtà e fedeltà che reputo mio dovere riferire a Vostra Eminenza fatti e iniziative di cui sono totalmente certo, emerse in queste ultime settimane, ordite espressamente al fine di indurre Vostra Eminenza a cambiare radicalmente giudizio sul mio conto, con l’intento di impedire che il sottoscritto subentrasse al Card. Lajolo come Presidente del Governatorato, cosa in Curia da tempo a tutti ben nota. Persone degne di fede hanno infatti spontaneamente offerto a me e S.E. Mons. Corbellini, Vice Segretario Generale del Governatorato, prove e testimonianze dei fatti seguenti:
1. Con l’avvicinarsi della scadenza di detto passaggio di incarichi al Governatorato, nella strategia messa in atto per distruggermi agli occhi di Vostra Eminenza, vi è stata anche la pubblicazione di alcuni articoli, pubblicati su Il Giornale, contenenti calunniosi giudizi e malevole insinuazioni contro di me. Già nel marzo scorso, fonti indipendenti, tutte particolarmente qualificate - il Dott. Giani (Domenico Giani, ex finanziere ed ex agente dei servizi segreti italiani nel Sisde poi nominato direttore dei servizi di sicurezza e Ispettore Capo della Gendarmeria del Vaticano Ndr) il Prof. Gotti Tedeschi (Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR, l’istituto finanziario del Vaticano, Ndr) il Prof. Vian (Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano Ndr) e il Dott. Andrea Tornielli, all’epoca Vaticanista di Il Giornale, - avevano accertato con evidenza uno stretto rapporto della pubblicazione di detti articoli con il Dott. Marco Simeon, almeno come tramite di veline provenienti dall’interno del Vaticano. A conferma, ma soprattutto a complemento di tale notizia, è giunta a S.E. Mons. Corbellini e a me la testimonianza, verbale e scritta, del Dott. Egidio Maggioni (ex presidente della società pubblicitaria SRI, Socially Responsible Italia Spa in rapporti di affari con il Vaticano Ndr), persona ben introdotta nel mondo dei media, ben conosciuta e stimata in Curia, fra gli altri, dal Dott. Gasbarri (direttore amministrativo di Radio Vaticana, Ndr), da S.E. Mons. Corbellini e da Mons. Zagnoli, già responsabile del Museo Etnologico-Missionario dei Musei Vaticani. Il Dott. Maggioni ha testimoniato che autore delle veline provenienti dall’interno del Vaticano è Mons. Paolo Nicolini, Delegato per i Settori amministrativo-gestionali dei Musei Vaticani. La testimonianza del Dott. Maggioni assume un valore determinante in quanto egli ha ricevuto detta informazione dallo stesso Direttore de Il Giornale, Sig. Alessandro Sallusti, con il quale il Maggioni ha una stretta amicizia da lunga data. 2. L’implicazione di Mons. Nicolini, particolarmente deplorevole in quanto sacerdote e dipendente dei Musei Vaticani, è confermata dal fatto che il medesimo Monsignore, il 31 marzo scorso, in occasione di un pranzo, ha confidato al Dott. Sabatino Napolitano, Direttore dei Servizi Economici del Governatorato, nel contesto di una conversazione fra appassionati di calcio, che prossimamente oltre che per la vittoria del campionato da parte dell’lnter (previsione errata purtroppo, Ndr), si sarebbe festeggiata una cosa ben più importante, cioè la mia rimozione dal Governatorato. (...)
3. Sul medesimo Mons. Nicolini sono poi emersi comportamenti gravemente riprovevoli per quantosi riferisce alla correttezza della sua amministrazione, a partire dal periodo presso la Pontificia Università Lateranense, dove, a testimonianza di S.E. Mons. Rino Fisichella (presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione Ndr) furono riscontrate a suo carico: contraffazioni di fatture e un ammanco di almeno settantamila euro. Cosi pure risulta una partecipazione di interessi del medesimo Monsignore nella Società SRI Group, del Dott. Giulio Gallazzi, società questa attualmente inadempiente verso il Governatorato per almeno due milioni duecentomila euro e che, antecedentemente aveva già defraudato L’Osservatore Romano, come confermatomi da Don Elio Torreggiani (direttore generale della Tipografia Vaticana Ndr) per oltre novantasettemila Euro e I’A.P.S.A., per altri ottantacinquemila, come assicuratomi da S.E. Mons. Calcagno (presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede, Ndr). Tabulati e documenti in mio possesso dimostrano tali affermazioni e il fatto che Mons. Nicolini è risultato titolare di una carta di credito a carico della suddetta SRI Group, per un massimale di duemila e cinquecento euro al mese.
4. Altro capitolo che riguarderebbe sempre Mons. Nicolini concerne la sua gestione ai Musei Vaticani. (...) volgarità di comportamenti e di linguaggio, arroganza e prepotenza nei confronti dei collaboratori che non mostrano servilismo assoluto nei suoi confronti, preferenze, promozioni e assunzioni arbitrarie fatte a fini personali; innumerevoli sono le lamentele pervenute ai Superiori del Governatorato da parte dei dipendenti dei Musei (...).
5. Poiché i comportamenti sopra descritti di Mons. Nicolini, oltre a rappresentare una grave violazione della giustizia e della carità, sono perseguibili come reati, sia nell’ordinamento canonico che civile, qualora nei suoi confronti non si dovesse procedere per via amministrativa, riterrò mio dovere procedere per via giudiziale.
6. Per quanto riguarda il Dott. Simeon, pur essendo per me più delicato parlarne atteso che dai media risulta essere persona particolarmente vicina a Vostra Eminenza, non posso tuttavia esimermi dal testimoniare che, da quanto personalmente sono venuto a conoscenza in qualità di Delegato per le Rappresentanze Pontificie, il Dott. Simeon risulta essere un calunniatore (nel caso a mia precisa conoscenza, di un sacerdote) e che lui stesso è OMISSIS Ndr. Tale sua OMISSIS, Ndr mi è stata confermata da Prelati di Curia e del Servizio Diplomatico. Su questa grave affermazione che faccio nei confronti del Dott. Simeon sono in grado di fornire i nomi di chi è a conoscenza di questo fatto, compresi Vescovi e sacerdoti.
7. A tale azione di denigrazione e di calunnie nei miei confronti ha contribuito anche il Dott. Saverio Petrillo, che si è sentito ferito nel suo orgoglio per un’inchiesta condotta dalla Gendarmeria Pontificia - atto questo dovuto a seguito di un furto avvenuto l’anno scorso nelle Ville Pontificie di cui il medesimo Dott. Petrillo non aveva informato né i Superiori del Governatorato né la Gendarmeria. A provocare poi una sua ulteriore reazione contro di me, è stata la decisione presa dal Presidente Cardinale Lajolo (e non da me), di affidare la gestione delle serre delle Ville al Sig. Luciano Cecchetti, Responsabile dei Giardini Vaticani, con l’intento di creare una sinergia fra le esigenze di questi ultimi e lerisorsedisponibilinelleVillePontificie, il cui debito di gestione annuale raggiunge i 3 milioni e mezzo di euro.
8. Non stupirebbe poi nessuno se anche qualche altro Direttore del Governatorato avesse voluto formulare delle critiche nei miei confronti, attesa l’azione incisiva di ristrutturazione, di contenimento degli sprechi e delle spese, da me operata secondo i criteri di una buona amministrazione, le indicazioni datemi dal Cardinale Presidente e i consigli gestionali della società consulente McKinsey. Non ho tuttavia prove in tale senso (...) Ritengo quanto sopra esposto sufficiente per dissipare le menzogne di quanti hanno inteso capovolgere il giudizio di Vostra Eminenza sulla mia persona, sull’idoneità a che abbia a continuare la mia opera al Governatorato (....) Ho ritenuto mio dovere farlo, animato dallo stesso sentimento di fedeltà che nutro verso il Santo Padre.
I misteri della finanza in Vaticano: le rivelazioni di monsignor Viganò
di Sergio Rizzo (Corriere della Sera, 25 gennaio 2012)
«Corruzione». La parola è sinonimo di malaffare e degrado morale. Ma se a pronunciarla è un altissimo prelato vicino al Papa, come rivela questa sera «Gli intoccabili», il programma d’inchiesta del giornalista Gian Luigi Nuzzi che va in onda su La7, allora vengono i brividi. Il suo nome: Carlo Maria Viganò, fino a qualche mese fa segretario generale del governatorato del Vaticano, la struttura che gestisce gli appalti e le forniture del più piccolo e potente Stato della Terra.
«Corruzione» è proprio il termine che quel monsignore usa per descrivere in una clamorosa lettera a Benedetto XVI l’incredibile situazione che si è trovato davanti dopo aver assunto nel luglio del 2009 il delicatissimo incarico. Una bomba sganciata nelle stanze del potere vaticano il 27 marzo del 2011, nell’estremo tentativo di sventare una manovra di corridoio che culminerà con la sua rimozione.
«Un mio trasferimento provocherebbe smarrimento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione e prevaricazione», scrive Viganò al Papa. Facendo capire a Joseph Ratzinger di non essere affatto isolato: «I cardinali Velasio De Paolis, Paolo Sardi e Angelo Comastri conoscono bene la situazione».
La storia ricostruita da «Gli intoccabili» ha tutti gli ingredienti di un noir di prim’ordine. Trame misteriose, colpi di scena, testimonianze sconvolgenti. È un terremoto senza precedenti, che fa tremare i vertici delle gerarchie ecclesiastiche. Tutto comincia nel maggio del 2009, quando il Papa decide di affidare la gestione degli appalti al cardinale Giovanni Layolo e a monsignor Viganò, che sostituiscono rispettivamente il cardinale Edmund Casimir Szoka e monsignor Renato Boccardo nei ruoli di presidente e segretario generale del governatorato. Quella struttura è un buco nero: nel 2009 perde 8 milioni di euro. Cifra apparentemente modesta, ma estremamente significativa se rapportata alle dimensioni dello Stato Vaticano.
«Non avrei mai pensato di trovarmi davanti a una situazione così disastrosa», rivela Viganò in un altro scioccante appunto inviato a Ratzinger nella scorsa primavera. Definendola «inimmaginabile», e per giunta «a tutti nota in Curia». Dal pentolone che ha scoperchiato salta fuori l’inverosimile. I servizi tecnici sono un regno diviso in piccoli feudi. In Vaticano opera una cordata di fornitori che non fanno praticamente gare: dentro le mura dello Stato della Chiesa lavorano sempre le stesse ditte, a costi doppi rispetto all’esterno anche perché non esiste alcuna trasparenza nella gestione degli appalti di edilizia e impiantistica. Insomma, una moderna fabbrica di San Pietro che ingoia denaro a ritmi ingiustificati, come dimostra il conto astronomico che viene presentato per il presepe montato nel Natale 2009 a piazza San Pietro: 550 mila euro.
Non bastasse, c’è una situazione finanziaria allucinante: le casse del governatorato subiscono perdite del 50-60%. Per tamponarla, spiega Viganò, la gestione dei fondi è stata affidata a un «comitato finanza e gestione composto da alcuni grandi banchieri, i quali sono risultati fare più il loro interesse che i nostri». Racconta il monsignore che una sola operazione finanziaria nel dicembre 2009 ha mandato in fumo due milioni e mezzo di dollari.
Ma chi fa parte di questo comitato? Nuzzi fa i nomi di quattro pezzi da novanta della finanza italiana. Quelli di Pellegrino Capaldo, Carlo Fratta Pasini, Ettore Gotti Tedeschi e Massimo Ponzellini. Capaldo è l’ex presidente della Banca di Roma: banchiere cattolico apprezzatissimo anche al di fuori degli ambienti ecclesiastici, è attualmente il proprietario della casa vinicola Feudi di San Gregorio.
Fratta Pasini è il presidente del Banco popolare. Gotti Tedeschi, consigliere di amministrazione della Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro italiano, nonché consigliere della Fondazione San Raffaele di don Luigi Verzé, è il banchiere poi scelto da Ratzinger per guidare lo Ior. Ponzellini è l’ex presidente della Banca popolare di Milano, ma ha ricoperto in passato anche molti incarichi in società del Tesoro, come il Poligrafico dello Stato.
Viganò prende l’incarico maledettamente sul serio. La sua scure colpisce dappertutto: non risparmianemmeno il conto del famoso presepe, tagliato d’emblée di 200 mila euro, né la gestione dei giardini, uno dei capitoli più problematici. Il risultato è che il bilancio del governatorato passa da un deficit di 8 milioni a un utile di 34,4 milioni nel giro di un anno. Ma tanto rigore non gli vale un encomio. Anzi, per lui cominciano i guai. «Viganò si è fatto un sacco di nemici e quei nemici si stanno muovendo nell’ombra per fargliela pagare», è il commento de «Gli intoccabili».
Fatto sta che sul Giornale escono alcuni articoli non firmati, nei quali è contenuto un segnale preciso: il segretario generale del governatorato ha praticamente le ore contate. Ed è proprio quello che accade. Il segretario di Stato Tarcisio Bertone lo solleva dall’incarico, e la decisione fa saltare anche la nomina a cardinale che gli sarebbe stata promessa. Tanto per cambiare la rimozione avviene con il solito meccanismo del promoveatur ut amoveatur. Viganò viene nominato Nunzio apostolico della Santa sede negli Stati Uniti e spedito a Washington. Incarico prestigiosissimo, anche se a 7.228 chilometri di distanza.
A nulla serve l’appello disperato e diretto a Ratzinger. Che anzi si rivela un errore, perché scavalcando Bertone ottiene semmai l’effetto contrario. Ma Viganò non digerisce affatto la decisione e inizia una corrispondenza infuocata con il segretario di Stato. Lettere nelle quali rivendica il risanamento ottenuto «eliminando la corruzione ampiamente diffusa», e chiede di essere messo a confronto con i suoi accusatori in un processo «ai sensi del canone 220 del codice di diritto canonico».
Senza limitarsi alle generiche affermazioni, riferisce il servizio de «Gli intoccabili», punta pure il dito su un personaggio che ritiene abbia avuto un ruolo nella vicenda che lo riguarda: Marco Simeon. Figlio di un benzinaio di Sanremo, è uno degli animatori della cooperativa sociale «Il Cammino», fornitrice di fiori del Papa. Considerato molto vicino a Bertone, è autore di una carriera fulminea, per gli standard italiani. Prima a Capitalia, la ex Banca di Roma di Cesare Geronzi, banchiere con altissime aderenze vaticane. Quindi a Mediobanca, come capo delle relazioni istituzionali, sempre al seguito di Geronzi. Infine alla Rai, dove a quello stesso incarico aggiunge la direzione di Rai Vaticano. Interpellato da Nuzzi, risponde con una risata: «Non ne so assolutamente niente». E forse questo è solo l’inizio.
Con la creazione di 22 nuovi cardinali, Benedetto XVI imprime il suo marchio al conclave che eleggerà il suo successore
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” dell’8 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il papa ha annunciato, venerdì 6 gennaio, la creazione di 22 nuovi cardinali, di cui 18, che hanno meno di 80 anni, potrebbero eleggere il suo successore in caso di conclave. Al termine di questo quarto concistoro del suo pontificato, Benedetto XV avrà nominato 63 cardinali in grado di votare, ossia la maggioranza dei membri del collegio. Al di là dell’aspetto simbolico, il papa imprime così il suo marchio all’orientamento del prossimo conclave.
Le creazioni, che saranno ufficialmente confermate il 18 febbraio, portano a 214 i membri del Sacro collegio, di cui 125 elettori con meno di 80 anni, età limite per partecipare al voto. Tra i nuovi cardinali, si contano sedici prelati europei, due americani, un canadese, un brasiliano, un indiano e un cinese di Hong Kong. Nessuno è originario dell’Africa o dell’America Latina, proprio in un periodo in cui la Chiesa cattolica conosce la sua massima vitalità in quelle regioni del mondo. Anche il numero di cardinali francesi resta invariato, con quattro rappresentanti: Mons. André Vingt-Trois, Mons. Jean-Louis Tauran, Mons. Jean-Pierre Ricard e Mons. Philippe Barbarin.
Invece, la parte degli italiani, tradizionalmente preponderante all’interno del collegio, si rafforza. La nomina di sette cardinali italiani porta a 30 il numero di prelati della penisola. Questa proporzione, anch’essa tradizionalmente criticata, potrebbe rafforzare le probabilità di elezione di un italiano come successore del papa tedesco. Oltre ad una prossimità di alcuni di questi vescovi con il numero due del Vaticano, l’italiano Tarcisio Bertone, queste nomine si spiegano con l’accesso automatico degli alti responsabili della curia a questa onorificienza.
Nel gioco dei pronostici a cui si dedicano i vaticanisti ogni volta che Benedetto XVI, che avrà 85 anni in aprile, si mostra un po’ meno in forma, il nome dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, torna così regolarmente come “possibile papabile”. Mons. Scola è considerato ideologicamente molto vicino all’attuale papa, e il nome di questo prelato di 70 anni era già circolato durante il precedente conclave nel 2005.
Al termine del concistoro di febbraio, gli europei resteranno inoltre in maggioranza, con 67 rappresentanti, che siederanno accanto ai 22 sud-americani - di cui sei brasiliani e quattro messicani -, 15 nord-americani, 11 africani, 9 asiatici e un oceaniano.
Questo annuncio apre un anno che sarà segnato da un viaggio del papa in Messico e a Cuba, alla fine di marzo, ed un possibile viaggio in Libano per consegnare ai vescovi del Medio-Oriente le conclusioni del sinodo sulla situazione dei cristiani d’Oriente, che si è svolto nel 2010.
Il 2012 è anche quello del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. Questo avvenimento darà luogo a molte manifestazioni, pubblicazioni e riflessioni sull’applicazione degli insegnamenti venuti dal concilio e sarà accompagnato dal lancio dell’ “Anno della fede”. Destinato a “ravvivare” la fede dei fedeli, sbarcherà con il sinodo sulla “nuova evangelizzazione, preoccupazione centrale di Benedetto XVI.
Preoccupato nel vedere i paesi di tradizione cristiana staccarsi dalle loro radici, il papa ha di nuovo evocato, venerdì, una “civiltà occidentale” che “sembra aver perso l’orientamento, e naviga a vista”, aggiungendo: “La Chiesa, grazie alla parola di Dio, vede attraverso questa nebbia”.
Calabria. A Paola sulle orme di san Francesco. "Il suo motto CHA: charitas".
SAN FRANCESCO DA PAOLA : INIZIANO LE CELEBRAZIONI DEL PATRONO DELLA CALABRIA.
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas. Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine” (...).
di Roberto Monteforte (l’Unità, 24 novembre 2011)
Grandi emergenze sociali. Cataclismi e disastri naturali. Ma anche le difficoltà quotidiane da fronteggiare quando si è all’estremo. Quando si è stretti nella morsa degli usurai o quando improvvisamente ci si scopre poveri. Quando si è persa la casa e gli affetti e con loro la dignità e l’umanità. Per chi vive queste situazioni drammaticamente «consuete» in questi tempi di crisi, incontrare la Caritas significa trovare un ricovero, una risposta al bisogno immediato, avere di fronte qualcuno disposto con competenza di ascoltare e prendersi cura. È un’occasione per risalire la china dell’emarginazione sociale. E stato così per tanti in questi anni. Qualcosa di più della semplice assistenza e di diverso dall’elemosina. Un presidio di umanità. Sia per chi ha usufruito dei servizi, sia per quell’esercito di volontari che hanno arricchito di senso loro vita.
LA SCELTA DEI POVERI
È un merito della Chiesa italiana. La Caritas è un suo organismo. Sono trascorsi 40 anni, era il 28 settembre 1972, da quando Papa Paolo VI, la istituì. Il mandato era preciso. «Al di sopra dell’aspetto puramente materiale della vostra attività, deve emergere la sua prevalente funzione pedagogica» chiedeva il pontefice. Era così che papa Montini dava applicazione al Concilio Vaticano II. Così la Chiesa rimodulava il suo rapporto con la società italiana per affermare anche nel campo della politica e del sociale, le ragioni del servizio all’uomo. Con un profilo preciso. La Caritas non accetta nessuna delega sulle problematiche sociali, né dalle istituzioni ecclesiali, né da quelle pubbliche. Funzione pedagogica vuole dire agire perché si faccia contagiosa la vicinanza agli ultimi.
Fino a segnare i comportamenti sociali e le scelte politiche. Compresa la sensibilità della Chiesa, anch’essa da «convertire». Un compito sicuramente scomodo in tempi come questi, segnati dall’«egoismo sociale». Lo ha ricordato nei giorni scorsi a Fiuggi al 35˚ Congresso nazionale delle Caritas diocesane nel 40˚ della fondazione il vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi, presidente di Caritas Italiana, di fronte ai 600 delegati delle 220 strutture diocesane. Tanto è oggi ramificata la Caritas sul territorio.
Una presenza spesso scomoda per il potere e per le istituzioni. Un testimone straordinario di questa fedeltà al Vangelo e all’uomo è stato nella Roma degli anni ‘80 monsignor Luigi Di Liegro. Il primo direttore della Caritas diocesana era in prima linea dove scoppiavano le emergenze: tra i senza casa che avevano occupato i locali abbandonati della Pantanella, tra i malati di Aids, tra i poveri e i barboni cui assicurava un tetto, un pasto caldo, assistenza sanitaria e accoglienza. Di Liegro invitava a guardare alle cause del disagio, alle ingiustizie che offendevano l’uomo. Senza timore ha denunciato chi speculava sulle aree e sul lavoro. Perché considerava la fedeltà al Vangelo più forte del potere economico e politico, della difesa degli interessi dei potenti.
«Non assistenza, ma giustizia» invocava con fervore. Ha pagato il prezzo dell’incomprensione e dell’isolamento, ma la sua testimonianza ha reso credibile la Chiesa di Roma e ha dato frutto. Ha consentito che maturasse una nuova consapevolezza dell’impegno sociale e politico del credente. Si è rotto con il collateralismo con la Dc. La Caritas si è ramificata nelle parrocchie. Ha operato nelle zone di frontiera più difficili. Giovani, minori, immigrati, donne in difficoltà, anziani soli ed oggi sempre più i «nuovi poveri»: «gente normale», di ceto medio, precipitata improvvisamente nel disagio.
Sono le nuove emergenze che da tempo Caritas Italia denuncia con i suoi dossier: quello sull’imigrazione realizzato con Migrantes dal 1991 e il Rapporto sulle povertà realizzato con la Fondazione Zancan.Emerge un paese sempre più povero anche di diritti. Sono materiale prezioso per affrontare i nodi del disagio sociale. È il frutto di un lavoro capillare realizzato dalle 220 Caritas diocesane con i «centri di ascolto», gli «Osservatori delle povertà» e i «laboratori» delle parrocchie e gli oltre 14 mila servizi socio-sanitari. Oltre a registrare i dati si denunciano responsabilità. Lo scontro con la politica, come con la Lega, si fa anche diretto quando sono messi in discussione i diritti fondamentali dell’individuo.
Inizierà nell’ottobre 2012
L’Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione
Il Papa annuncia l’Anno della fede "Troppi la danno per scontata" *
CITTA’ DEL VATICANO - É tempo di "riscoprire" e "rilanciare" la fede cristiana e i primi a farlo devono essere i cristiani. Ecco il "manifesto" di Benedetto XVI per rievangelizzare l’Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione. Lo ha lanciato ieri lo stesso Ratzinger, annunciando di aver indetto l’Anno della Fede che dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013 celebrerà il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Un appuntamento indetto solennemente con la pubblicazione di un motu proprio dal titolo "La porta delle fede". «Non è raro - scrive il Papa - che i cristiani pensino alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune», anche se «questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». «Bisogna ritrovare il gusto di nutrirci della parola di Dio» è l’esortazione di Benedetto XVI. (o.l.r.)
* la Repubblica, 18.10.2011
Ad Assisi niente preghiera comune fra le religioni
Assisi, leader religiosi non pregheranno
per la Pace: paura di confondere i fedeli
di Franca Giansoldati *
CITTA’ DEL VATICANO - Il nome di Dio non verrà invocato. Stavolta niente preghiere ad Assisi: i leader religiosi invitati dal Papa a riunirsi sulla tomba di San Francesco per riflettere sul tema della pace non pregheranno nè da soli, nè collettivamente. La «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera» ideata da Papa Wojtyla 25 anni fa sarà solo una «Giornata di riflessione e dialogo» tra diverse fedi. In questo modo Benedetto XVI vuole evitare ogni possibile rischio di sincretismo religioso, confondendo i fedeli; e così nella cittadina umbra, il 26 ottobre prossimo, non si invocherà il nome del Signore. Anche da cardinale Papa Ratzinger aveva manifestato qualche perplessità al suo predecessore proprio su questo punto, pur condividendo ovviamente l’importanza di un momento di dialogo.
Cambiamenti a parte il venticinquesimo anniversario dello storico summit promosso da Papa Wojtyla nel 1986 sarà comunque importante e significativo. A cominciare dalle presenze. Hanno aderito in parecchi. Solo le delegazioni cristiane sono già una trentina e c’è il problema di contenerle. Saranno presenti l’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, l’arcivescovo ortodosso di Cipro, l’arcivescovo metropolita di Astana, Alexander, uomo di fiducia del Patriarca di Mosca, Kirill. Ortodossi, anglicani, luterani, evangelici, ma anche ebrei, rappresentanti del World Jewish Congress e rabbini di peso, poi induisti, animisti, buddisti.
Solo i musulmani saranno sotto rappresentati dal momento che l’università del Cairo di Al-Azhar, il maggiore centro teologico sunnita, ancora immensamente irritato con il Papa per il discorso fatto l’anno scorso davanti al Corpo Diplomatico, ha fermamente declinato l’invito (anche se al summit di Sant’Egidio a Monaco, nel settembre scorso, lo sceicco Al Tayyeb aveva inviato due rappresentanti). Sulla tomba di san Francesco ci sarà però il Principe Ghazi di Giordania, al quale spetterà l’onore di sedere accanto al pontefice al momento del pranzo.
Per la prima volta arriveranno anche 5 atei incalliti, tra cui Julia Kristeva, celebre psicanalista francese, allieva di Lacan, di origini bulgare. I nomi degli intellettuali atei sono stati forniti dal cardinale Gianfranco Ravasi, ideatore del Cortile dei Gentili, un think thank per il dialogo con i ’lontani’. La giornata si compone, grosso modo, in tre momenti. Un primo, nella basilica degli Angeli, dove gli ospiti parleranno (sono previsti una decina di interventi) e prenderanno visione di un filmato con le immagini di quel 26 ottobre 1986 ormai entrato nella Storia. Seguirà un frugale pranzo, nel rispetto delle regole alimentari previste dalle varie religioni e, infine, una visita alla tomba del santo seguita dalla lettura, in piazza, di un testo sulla pace nel mondo.
Papa Ratzinger, come aveva già fatto il suo predecessore, partirà con tutte le delegazioni dalla stazione vaticana con un convoglio con le insegne vaticane, messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato. Partenza alle 8 di mattina per circa trecento persone tra leader religiosi, prelati, autorità italiane e uomini della sicurezza. Al ritorno il treno rallenterà alle stazioni di Terni e Foligno per permettere al Pontefice di salutare i fedeli.
Venerdì 07 Ottobre 2011
* Articolo tratto dal sito: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165697&sez=HOME_NELMONDO
* Il Dialogo, Domenica 09 Ottobre,2011 Ore: 17:49
LA GRAMMATICA
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 30.09.2011)
Il rabbí di Gher raccontava: «Da ragazzo non volevo applicarmi allo studio della grammatica perché la consideravo una scienza come tante altre. Più tardi, invece, mi ci sono dedicato con passione perché ho visto che i segreti della Bibbia sono legati ad essa».
Sono stato per anni docente di esegesi biblica; ho passato buona parte della mia vita a studiare le Sacre Scritture e, anche se ora la mia missione è un’altra, considero sempre il santo di oggi, Girolamo, il mio ideale patrono. Non c’è bisogno di spiegare che questo personaggio dal carattere piuttosto rubesto, morto il 30 settembre del 420 nell’aspra solitudine delle grotte di Betlemme, è stato il più famoso traduttore e studioso antico della Bibbia. Io, però, sono ricorso - per commemorarlo - a uno degli apologhi che il filosofo Martin Buber ha raccolto nei suoi Racconti dei Chassidim.
Un maestro ebreo, appartenente a questa corrente mistica mitteleuropea, ammoniva il suo discepolo sulla necessità dello studio della grammatica. Apparentemente essa è arida, è un sistema di regole, è un minuzioso gioco a incastro di elementi variabili secondo le diverse lingue. Eppure, è l’ossatura senza la quale il pensiero si sfalda, la bellezza si scolora, il messaggio si estingue. Un altro scrittore cristiano del VII secolo,
Massimo il Confessore, dichiarava: «Se non conosci le parole [umane] della Scrittura, come potrai raggiungere la Parola [divina]?». Come accade in Cristo che è Verbo divino ma è anche «carne», cioè linguaggio e realtà umana, così è per la Bibbia. Per questo, l’antica tradizione ecclesiale ha sempre esaltato come fondamentale - prima di ogni senso «spirituale» - il senso «letterale», e Lutero ribadiva che il «grammaticale» è il primo dato teologico e non solo letterario. Riflettano quelli che si vantano di letture bibliche solo «spiritualistiche», senza «grammatica»!
LO PSEUDONIMO DI DIO
di Gianfranco Ravasi (Avvenire,29/09/2011)
Se pensassimo a tutte le fortune che abbiamo avuto senza meritarle, non oseremmo lamentarci.
«Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non si firma personalmente». A dire questo era uno scrittore francese non particolarmente religioso, Anatole France. A ribadire l’idea, ma da un’altra angolatura, è il suo conterraneo e contemporaneo (Ottocento) Jules Renard al cui Diario abbiamo già attinto in passato. Egli parla piuttosto di «fortuna» che regge tanti momenti della nostra vita, ma non osa esplicitare il nome sottinteso, Dio.
Se in un’ideale doppia partita oggettiva dovessimo con rigore elencare beni e mali della nostra vita, siamo proprio sicuri di aver diritto a quella tiritera inesorabile di lamenti che ci scambiamo quando ci incontriamo? Facile è segnare le prove perché si infiggono nell’anima e nella carne; i doni e le gioie sono, invece, come acqua che scorre su una pietra.
Cerchiamo, allora, di esercitarci ogni giorno a dire almeno un grazie e non solo a Dio, ma anche a tutti coloro che ci riservano un gesto di cordialità, un aiuto, una parola calorosa.
Proviamo a ricordare un evento grande della nostra vita che ci è stato donato e che abbiamo forse archiviato, quasi ci fosse dovuto: lo farò io per primo, ricordando la grazia dell’episcopato che ho ricevuto proprio oggi, il 29 settembre di quattro fa, dalle mani di Benedetto XVI.
Tentiamo anche di cogliere il valore dei favori che consideriamo ovvi e scontati: l’aria, l’acqua, la bellezza del mondo, le amicizie e così via. Lunga è la lista "bianca" da accostare a quella "nera" delle amarezze. Aristotele - narra Diogene Laerzio - interrogato «su che cosa invecchia e muore presto», rispose lapidario: «La gratitudine».
L’INCONTRO CON IL PRESIDENTE WULFF
Il Papa a Berlino: «Sono qui per parlare di Dio» *
Signor Presidente Federale,
Signore e Signori,
Cari amici,
mi sento molto onorato per l’amabile accoglienza che mi riservate qui al Castello Bellevue. Sono particolarmente grato a Lei, Signor Presidente Wulff, per l’invito a questa Visita ufficiale, che è il mio terzo soggiorno come Papa nella Repubblica Federale di Germania. La ringrazio di cuore per le gentili parole di benvenuto che mi ha rivolto. La mia gratitudine va ugualmente ai rappresentanti del Governo Federale, del Bundestag e del Bundesrat nonché della Città di Berlino per la loro presenza con cui esprimono il loro rispetto per il Papa come Successore dell’Apostolo Pietro. E non da ultimo ringrazio i tre Vescovi ospitanti, l’Arcivescovo Woelki di Berlino, il Vescovo Wanke di Erfurt e l’Arcivescovo Zollitsch di Friburgo, nonché tutti coloro che, a vari livelli ecclesiali e pubblici, hanno collaborato nei preparativi di questo Viaggio nella mia patria, contribuendo in tal modo alla sua buona riuscita.
Pur essendo questo Viaggio una Visita ufficiale che rafforzerà le buone relazioni tra la Repubblica Federale di Germania e la Santa Sede, in primo luogo non sono venuto qui per perseguire determinati obiettivi politici o economici, come fanno giustamente altri uomini di stato, ma per incontrare la gente e parlare di Dio.
Nei confronti della religione vediamo una crescente indifferenza nella società che, nelle sue decisioni, ritiene la questione della verità piuttosto come un ostacolo, e dà invece la priorità alle considerazioni utilitaristiche.
D’altra parte c’è bisogno di una base vincolante per la nostra convivenza, altrimenti ognuno vive solo seguendo il proprio individualismo. La religione è uno di questi fondamenti per una convivenza riuscita. “Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione.” Queste parole del grande vescovo e riformatore sociale Wilhelm von Ketteler, di cui si celebra quest’anno il secondo centenario della nascita, sono ancora attuali.
La libertà ha bisogno di un legame originario ad un’istanza superiore. Il fatto che ci sono valori che non sono assolutamente manipolabili, è la vera garanzia della nostra libertà. Chi si sente obbligato al vero e al bene, subito sarà d’accordo con questo: la libertà si sviluppa solo nella responsabilità di fronte a un bene maggiore. Tale bene esiste solamente per tutti insieme; quindi devo interessarmi sempre anche dei miei prossimi. La libertà non può essere vissuta in assenza di relazioni.
Nella convivenza umana non si dà libertà senza solidarietà. Ciò che sto facendo a scapito degli altri, non è libertà, ma azione colpevole che nuoce agli altri e anche a me stesso. Posso realizzarmi veramente quale persona libera solo usando le mie forze anche per il bene degli altri. Questo vale non soltanto per l’ambito privato ma anche per la società. Secondo il principio di sussidiarietà, la società deve dare spazio sufficiente alle strutture più piccole per il loro sviluppo e, allo stesso tempo, deve essere di supporto, in modo che esse, un giorno, possano reggersi anche da sole.
Qui, al Castello Bellevue, che deve il suo nome alla splendida vista sulla riva della Sprea e che è situato non lontano dalla Colonna della Vittoria, dal Bundestag e dalla Porta di Brandeburgo, siamo proprio nel centro di Berlino, la capitale della Repubblica Federale di Germania. Il castello con il suo passato movimentato è - come tanti edifici della città - una testimonianza della storia tedesca. Lo sguardo chiaro anche sulle pagine scure del passato ci permette di imparare da esso e di ricevere impulsi per il presente. La Repubblica Federale di Germania è diventata ciò che è oggi attraverso la forza della libertà plasmata dalla responsabilità davanti a Dio e dell’uno davanti all’altro. Essa ha bisogno di questa dinamica che coinvolge tutti gli ambiti dell’umano per poter continuare a svilupparsi nelle condizioni attuali. Ne ha bisogno in un mondo che necessita di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori fondamentali su cui costruire un futuro migliore (Enciclica Caritas in veritate, 21).
Auspico che gli incontri durante le varie tappe del mio Viaggio - qui a Berlino, a Erfurt, nell’Eichsfeld e a Friburgo - possano dare un piccolo contributo in merito. Che in questi giorni Dio conceda la sua benedizione a noi tutti.
* Avvenire, 22 settembre 2011
Eco contro Ratzinger: ’Non e’ grande filosofo’
’Posizioni contro il relativismo grossolane, formazione filosofica debole’ *
BERLINO - "Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale". Lo ha detto l’intellettuale, linguista e scrittore Umberto Eco in un’intervista al quotidiano tedesco Berliner Zeitung.
"Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a Benedetto XVI -, nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole".
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo in una risposta diretta al suo intervistatore: "In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno 20 posizioni filosofiche differenti sul relativismo.
Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naif".
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 1 luglio 2011)
Sulla Germania hitleriana disponiamo ormai di una documentazione imponente, praticamente definitiva, in tutti suoi aspetti. Che cosa può dirci ancora la rilettura di uno dei libri classici sulla società tedesca nel cuore della dittatura totale? Il libro ci ricorda ancora una volta il ruolo decisivo del linguaggio politico e pubblico nella costruzione e nel mantenimento sino all’ultimo della identità e della struttura politica del regime nazista. Mi riferisco a LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer ripubblicato ora dall’editore Giuntina (pp. 418, euro 20) in una importante edizione riveduta e scrupolosamente annotata.
Si tratta di una straordinaria testimonianza e documentazione di come nel corso del dodicennio nazista la società tedesca sia stata ridotta a strumento passivo e consenziente - addirittura fanatico - della dittatura. Lo strumento,o forse sarebbe meglio dire l’oggetto primario di questa operazione è stato il linguaggio pubblico e privato. La sua manipolazione, la sua decostruzione e ricostruzione. L’acronimo LTI significa infatti Lingua Tertii Imperi: la lingua del Terzo Reich.
L’autore Victor Klemperer era un sofisticato studioso della letteratura francese, docente all’università di Dresda, licenziato in tronco dopo la presa del potere di Hitler per le sue origini ebree e sottoposto quindi a infinite angherie. È sopravvissuto grazie al fatto di avere una moglie «ariana», sottraendosi alla fine fortunosamente ad una morte certa all’indomani del bombardamento di Dresda. Negli anni della sua emarginazione e persecuzione ha registrato scrupolosamente tutto quello che vedeva attorno a sé - soprattutto nella comunicazione pubblica e politica. Ne esce un documento che è ad un tempo una profonda testimonianza umana e morale e una forte intuizione scientifica e politica: la funzione centrale della lingua nella costruzione dei sistemi politici totalitari.
La lingua è performativa: crea cioè comportamenti. Nel caso nazista si tratta di comportamenti inequivocabilmente malvagi: ma prima dell’orrore genocida culminante nella «soluzione finale», c’è la lenta, inesorabile distruzione quotidiana della lingua tedesca. E quindi della sua anima. Il male si annida nella «normalità» del quotidiano e nella metamorfosi delle parole: nei discorsi politici, assimilati nel lessico personale e familiare, nel nuovo modo di salutare, di vestire, di divertirsi, nella pubblicità commerciale e naturalmente nella stampa di regime e fiancheggiatrice.
La LTI è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva - scrive Klemperer. «Il motivo di questa povertà sembra evidente: con un sistema tirannico estremamente pervasivo, si bada a che la dottrina del nazionalsocialismo rimanga inalterata in ogni sua parte, e così anche la sua lingua». Parlare di omologazione è un eufemismo: «Ogni lingua, se può muoversi liberamente, si presta a tutte le esigenze umane, alla ragione come al sentimento, è comunicazione e dialogo, soliloquio e preghiera, implorazione, comando ed esecrazione. La LTI si presta solo a quest’ultima. Che il tema riguardi un ambito pubblico o privato - ma no, sto sbagliando, la LTI non distingue un ambito privato da quello pubblico - tutto è allocuzione, tutto è pubblico. “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”, proclama uno dei suoi striscioni. Cioè: non sarai mai solo con te stesso, con i tuoi, starai sempre al cospetto del tuo popolo».
L’incredibile è che tutto questo ha funzionato. All’inizio, nei primi mesi del 1933 sembrano rimanere ancora spiragli di insofferenza se non di resistenza, che si esprimono magari in battute sarcastiche: a proposito di un collega costretto a portare la fascia con la croce uncinata, si dice: «Che ci vuoi fare? è come la fascia assorbente per le donne» (con un gioco di parole difficile da rendere in italiano).Ma il fanatismo, cui il libro dedica uno dei capitoli più importanti, è terribilmente serio e non tollera battute. Il fanatismo non è un semplice prodotto della manipolazione, ma è una corrispondenza di sentimenti latenti che finalmente esplodono.
Non a caso nel vocabolario della LTI dopo «fanatico» l’aggettivo preferito è «spontaneo». In questa sede possiamo trascurare il dibattito tra gli esperti sulla consapevolezza o meno di Klemperer circa la natura del suo lavoro - tra «filologia e diario» politico personale. Non ci interessano neppure le ragioni della differente fortuna del suo libro, subito altamente apprezzato nella Ddr dove l’autore ha passato il resto della sua vita sino alla morte nel 1960. Nella Germania federale invece è stato inizialmente guardato con qualche distacco (qualcuno si è rammaricato che Klemperer non avesse «visto» alcune imbarazzanti analogie con il passato totalitario nel linguaggio politico del regime comunista); poi negli Anni Novanta è arrivato il pieno riconoscimento dopo la pubblicazione dei suoi Diari. È seguita la riscoperta di Klemperer anticipatore della nuova linguistica sociale e culturale.
Ma io vorrei invitare ad una lettura «ingenua», per così dire, del libro, ricordando quanto scrive l’autore: «Il diario è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell’estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare - sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano. E ben presto poi questo appello a collocarmi al di sopra della situazione conservando la mia libertà interiore si condensò in una formula misteriosa e sempre efficace:LTI!LTI!».
L’AMORE EVANGELICO ("CHARITAS") O L’AMORE DI MAMMONA ("CARITAS")?! LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
LESLEY-ANNE KNIGHT, STRITOLATA DALLA LINGUA BIFORCUTA DEL VATICANO, HA COMINCIATO A CAPIRE CHE "IL CUORE CHE VEDE" SOLO LA RICCHEZZA ("CARITAS") NON VEDE LE PERSONE E NON HA ALCUNA GRAZIA DI DIO ("CHARITAS"). Il suo discorso di congedo all’Assemblea generale della Caritas Internationalis lo scorso 27 maggio.
"Ma faccio fatica a paragonare me stessa con un imperatore romano o di un presidente americano!", ho protestato. “Forse no - ha risposto il mio amico - ma devi comunque ringraziare di non essere stata assassinata”. Sono stati una fonte di stress questi ultimi mesi, ma non sono questi i ricordi che voglio portare con me al momento di lasciare.
Dalla cattedra al cortile
di Piero Stefani (Il pensiero della settimana, 26 febbraio 2011)
Una delle intuizioni più profonde del card. Martini fu di istituire la «cattedra dei non credenti». L’esempio di Milano fu imitato da molti, in modi non sempre felici. Invero, nel succedersi delle edizioni, anche nella diocesi ambrosiana l’iniziativa perse progressivamente di smalto. Assunse, infatti, più l’aspetto di «liturgia culturale» che di vero e proprio confronto. Ciò non toglie la geniale originalità dell’iniziativa.
Il suo fulcro era ben espresso dal titolo scelto. Un vescovo, a cui spetta, per definizione, la cattedra, dava voce a insegnamenti che provengono dall’esterno e giungono fino all’interno. Per comprenderlo occorre aver a mente che l’impostazione degli incontri non si concentrava sul confronto tra persone dotate o sprovviste di fede. Questo aspetto non era escluso, ma non era il più significativo.
La qualifica di «non credente» è spesso riduttiva o addirittura impropria, dominata com’è da una pura negazione. Nella «cattedra» era invece propria; e lo era perché il senso più autentico della proposta stava nell’affermare che le ragioni più serie della non credenza venivano considerate una forma di interlocuzione, esterna e interna, indispensabile perché ci fosse una fede matura. Analogamente la testimonianza di un credente pensoso non era avvertita priva di significato da parte di chi, in virtù della sua riflessione e della sua coscienza, era indotto a negare l’esistenza di una realtà trascendente o, quanto meno, nutriva dubbi al suo riguardo.
Si comprende, allora, sia perché Martini parlasse del dialogo con il non credente che è in noi, sia perché dichiarasse che la vera distinzione non era quella che sussiste tra credenti e non credenti, ma quella che divide le persone pensanti dai non pensanti. Si potrebbe tentare una sintesi: le persone pensanti sono coloro che danno spazio dentro di sé alle ragioni dell’«altro»; lo fanno non per consegnarsi all’incertezza, ma per render più mature le proprie convinzioni. Ciò avviene solo nel caso in cui il confronto sia sincero e alieno tanto da interessi di parte quanto da convenienze reciproche; condizioni queste ultime ormai estremamente rare.
In luogo della «cattedra dei non credenti», la Chiesa universale ora lancia un’iniziativa chiamata «cortile dei gentili». Affidata al Pontificio Consiglio della Cultura (prefetto card. Ravasi), il «cortile» è stato preinaugurato un paio di settimane fa a Bologna; mentre l’avvio ufficiale avverrà a Parigi verso fine marzo.
La scelta dell’espressione è stata spiegata da Benedetto XVI nel suo discorso tenuto alla Curia romana a fine 2009. Si prendono le mosse dal fatto che, sentendo parlare di «nuova evangelizzazione», persone agnostiche o atee (le quali «devono stare a cuore a noi come credenti») forse si spaventano. Tuttavia in loro rimane presente la questione Dio. Come primo passo dell’evangelizzazione bisogna perciò tener desta la loro ricerca di Dio. A tal proposito, aggiunge Ratzinger, vengono in mente le parole di Gesù che, sulla scorta di Isaia, presentano il tempio di Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli (Mc 11,17; Is 56,7).
Gesù pensava «al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prender parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio». Si pensava cioè a persone che conoscono Dio solo da lontano: «che desiderano il Puro e il Grande anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr. At 17,23)». «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorte di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
È noto che l’esegesi biblica non ha alcun peso nei documenti ufficiali della «Chiesa docente», perciò non val
la pena di impegnarsi a mostrare quanto sia inesatta l’interpretazione del passo evangelico qui proposta. Il
punto serio è altrove; esso sta nel fatto che, in questa immagine, la Chiesa prende il posto del tempio (e di
Israele). La sua cura e generosità sono però tali da aprire una dependance in cui è concessa ospitalità ad
alcuni incerti ricercatori di Dio. Nel suo interno, la Chiesa celebra il mistero e nessuna crepa solca il suo
levigato seno. In questa prospettiva sarebbe un vero e proprio ossimoro parlare della parte non credente che è
in noi e sarebbe addirittura inconcepibile che le ragioni serie del dubbio e della negazione siano meritevoli di
ascolto al fine di liberare la propria fede da sovrastrutture improprie.
In realtà, però, a dover essere purificato
non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio.
In definitiva, il «cortile» che si sta inaugurando presuppone un dialogo senza ascolto. A quanto si può immaginare (e l’impressione è confermata dalla prime avvisaglie), nessuno accederà a essa per mettersi in discussione; dichiaratamente non lo faranno mai i credenti (si può, dunque, già ipotizzare quale sarà la lista degli invitati). Se i fatti confuteranno queste previsioni, saremo ben lieti di ricrederci.
Del resto mettersi in discussione è difficile per tutti. Le drammatiche vicende libiche di queste ore dovrebbero indurre l’Italia a mobilitarsi (ma non ne vediamo tracce consistenti) e ad aprire un profondo ripensamento a proposito della sua storia (in Cirenaica Badoglio e Graziani non si comportarono meglio di quanto faccia Gheddafi nei suoi ultimi giorni di potere), del suo passato prossimo e dei suoi affari presenti. Sono considerazioni che non valgono per la Grecia, Cipro e Malta.
Questi ultimi giorni dimostrano, ancora una volta, che anche ottanta o settanta anni fa i governi e le società erano fatti di uomini esattamente come siamo noi che peraltro siamo, volenti o nolenti, molti più informati di allora. In Libia si compiono stragi e qui ci si preoccupa del prezzo del petrolio e della possibile invasione degli immigrati; mentre, quando si passa ad altro compartimento stagno, si riesce, per esempio, persino a scandalizzarci che alla fine degli anni trenta l’Inghilterra mandataria contingentasse l’immigrazione ebraica in Palestina.
Quando Martini parlò di accidia politica
di Aldo Maria Valli (Vino Nuovo: http://www.vinonuovo.it/, del 5 marzo 2011)
La vicenda Rubygate e dintorni quale sfida comporta per chi partecipa alla politica secondo un’ispirazione cristiana? Ho pensato di poter dare un contributo rifacendomi a una pagina del cardinale Carlo Maria Martini che risale al 1999. Era la vigilia della festa di sant’Ambrogio e quel giorno, nel tradizionale discorso alla città di Milano (intitolato Coraggio, sono io, non abbiate paura!) l’arcivescovo parlò dell’accidia politica, o pubblica accidia, definendola come l’esatto contrario di quella che la tradizione classica greca e il Nuovo testamento chiamano parresìa, ovvero la libertà di chiamare le cose con il loro nome. "Si tratta - disse il cardinale - di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha quale conseguenza un decadimento della sapienzialità politica".
Ecco qua spiegato, in poche righe, un fenomeno al quale abbiamo assistito con grande dolore in questi anni. Da parte di molti, di troppi, dentro la Chiesa c’è stata una mancanza di parresìa. Chierici e laici, politici e intellettuali troppo spesso, pur fregiandosi con ostentazione dell’etichetta di cattolici, sono caduti nell’accidia politica, arrivando a coprire, giustificare, relativizzare. L’espressione più clamorosa sta nello sciagurato commento di monsignor Fisichella alla bestemmia pronunciata da Berlusconi, quando l’alto esponente vaticano invitò a "contestualizzare". Su questa strada si perde tutto: credibilità, profezia, testimonianza.
"Normalmente - diceva il cardinale Martini in quel discorso di dodici anni fa - lo scadimento etico della politica, in un corpo sano, dovrebbe essere rilevato e punito da un calo di consenso". Già: normalmente. Se da noi questo non è avvenuto vuol dire che il corpo non era, e non è, sano. Aristotele diceva che il male è destinato a distruggersi da sé, ma oggi non sembra più così. Perché? E’ questo il terreno sul quale i credenti (preferisco usare questa espressione rispetto a quella, troppo abusata e strumentalizzata, di "cattolici") devono interrogarsi seriamente.
Martini già nel 1999 dava una risposta. Sosteneva che se il degrado etico della politica non viene chiamato con il suo nome e "punito consequenzialmente" (diceva proprio così: punito) ciò avviene a causa della mancanza di un’opinione pubblica degna di questo nome. Laddove questa opinione, questa capacità di elaborazione critica dei dati politici, è debole o non esiste quasi più, la politica è svincolata da ogni limite. Se al posto di una sana opinione pubblica, capace di esprimere una "resistenza condivisa e critica", la politica trova davanti a sé solo individui, ognuno mosso da interessi particolari, il gioco è fatto: il male può dilagare.
Ecco l’operazione tentata dal berlusconismo: far morire l’opinione pubblica riducendola a massa formata da individui ispirati soltanto da un tornaconto personale. Ed ecco perché il berlusconismo non può tollerare le manifestazioni come quella del 13 febbraio: quel mare di donne, ma anche di uomini, è per il berlusconismo il pericolo mortale, la dimostrazione che, per quanto ci abbia provato a lungo e tenacemente, il mondo di plastica del Silvio’s show non ha ancora soppresso e sostituito del tutto il mondo vero.
Martini diceva che il livello d’allarme lo si raggiunge quando "lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso per la polis". Diciamo che il berlusconismo è arrivato a un soffio (stavo per dire un pelo, absit iniuria verbis) da questo traguardo: riuscire a non far percepire più il male come tale. Non c’è riuscito, c’è ancora un margine di manovra, ed è su questo che occorre lavorare.
Cito ancora Martini, veramente profetico: "Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose peraprire gli occhi". Ma i credenti dove sono? Che cosa fanno? Come reagiscono? Il cardinale invitava a invocare lo Spirito (che per i credenti è l’aiuto, il difensore, l’avvocato, il rappresentante della giustizia). Bisogna invocarlo "perché guidi a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso", è perché, là dove lo scoraggiamento si fa strada "scatti un sussulto di profezia pieno di speranza, che faccia aprire gli occhi a quella visione di futuro che in linguaggio filosofico si può chiamare utopia". E’ un vero parlare da pastore che guida il suo gregge. E trovo bellissimo il riferimento all’utopia, la meta che va considerata non come irraggiungibile ma come stimolo continuo.
Ma state a sentire che cosa aggiungeva il cardinale. I cattolici, diceva, vanno spesso incontro a un grande rischio, quello di lasciarsi adulare. Lo spiegava già sant’Ambrogio: "Dobbiamo stare attenti a non prestare ascolto a chi ci vuole adulare, perché lasciarsi snervare dall’adulazione non solo non è prova di fortezza, ma anzi di ignavia". Non è formidabile? Noi sappiamo come Dante sistemò gli ignavi. Poiché in vita non agirono mai in base al principio di bene e di male, limitandosi ad adeguarsi alle convenienze, il poeta li piazza nell’antinferno, una specie di non luogo che non è paradiso, non è purgatorio e non è nemmeno inferno, qualcosa di neutro e incolore, come neutri e incolori furono loro in vita, incapaci di parlare chiaramente e di prendere posizione. Ecco, dice Martini, quando ci viene detto che la posizione dei cattolici in politica deve essere ispirata alla moderazione, io sento puzza di ignavia. E’ vero, c’è certamente una moderazione buona, che si esprime nel rispetto dell’avversario, ma (sentite bene!) "l’elogio della moderazione cattolica, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno".
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per riflettere e discutere. Ma non prima di aver aggiunto che Martini, in quello scritto, esortava i credenti a essere non moderati, ma audaci. Rappresentanti di "una socialità avanzata che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso l’altro". Meditate gente, meditate!
Il cardinale, don Serafino e il signor B
di Aldo Maria Valli (Europa, 21.12.2010
In quel Natale del 2010, nei giorni più infuocati della polemica politica, quando il governo del signor B. riuscì a vivacchiare ancora per un po’ ma senza una vera prospettiva, l’eminentissimo cardinale sentì il bisogno di un consiglio.
L’eminentissimo cardinale aveva puntato a lungo su B. e sulle sue promesse: più soldi alle scuole cattoliche, più aiuti alle famiglie, più possibilità di lavoro per i giovani, più attenta difesa della vita umana. Erano quelli che il papa amava definire «valori non negoziabili», e l’eminentissimo cardinale, per difenderli, aveva appoggiato il signor B.
Quel presidente del consiglio vanaglorioso e pieno di sé, in realtà, non gli piaceva troppo. Però era politicamente forte, sapeva aggregare consensi, godeva del sostegno di ampie fasce della popolazione, anche fra i cattolici, ed era stato capace di tenere lontana dal governo per un bel po’ di tempo la sinistra, composta da pericolosi ex comunisti e da ancor più pericolosi cattocomunisti. Ora però, in presenza di una crisi politica logorante e di preoccupanti segni dei cedimento del potere messo in piedi dal signor B., si trattava di prendere una decisione: puntare ancora su di lui o che cosa?
Per questo l’eminentissimo cardinale chiamò alcuni dei suoi più fidati collaboratori e chiese loro di stendere un rapporto. Lo chiese anche a don Serafino, un prete giovane, studioso della dottrina sociale della Chiesa e persona molto sincera. L’eminentissimo cardinale voleva un giudizio spassionato sull’opera del capo del governo negli ultimi anni e su quanto fosse stato assennato, da parte della Chiesa, puntare su di lui.
Don Serafino ubbidì e dopo pochi giorni fece pervenire all’eminentissimo cardinale il seguente documento.
«Eminenza reverendissima, a meno che non possa vivere davvero duecento anni o giù di lì, come fingono di credere alcuni dei suoi interessati laudatores, il signor B. è alla fine della parabola vitale e dunque anche politica. Tuttavia la sua vicenda ha qualcosa da insegnare, e poiché lei mi ha chiesto un giudizio, le dirò quello che penso.
Punto primo. Fin dalla sua discesa in campo, il signor B. ha rappresentato la negazione di tutto ciò che la dottrina sociale della Chiesa insegna a proposito di politica e impegno civile. Come sappiamo, seguendo le direttive del suo amico e protettore C., il signor B., quando era soltanto un costruttore e imprenditore televisivo, dopo aver fatto molti soldi in modo poco chiaro, decise di dedicarsi alla politica e di fondare un partito esclusivamente per tornaconto personale, per cercare di sottrarsi alla giustizia e per meglio perseguire i propri interessi. Tutto il contrario di quanto insegna la dottrina sociale della Chiesa, secondo la quale la politica, in quanto alta forma di carità, deve essere ispirata al servizio verso gli altri, specialmente verso i più deboli e indifesi, nel segno del bene comune. Per la Chiesa, come lei certamente sa, il singolo che si impegna in politica assume su di sé i problemi di tutti e di essi si fa interprete per trovare soluzioni il più possibile condivise. Ma nel caso del signor B. la decisione di dedicarsi alla politica nasce solo dalla necessità di tutelare se stesso.
Punto secondo. Il compendio della dottrina sociale della Chiesa è molto chiaro. Coloro che hanno responsabilità politica non devono mai dimenticare o sottovalutare la “dimensione morale della rappresentanza”. Il politico, per il fatto di essere delegato a occuparsi dei problemi di tutti, deve dare testimonianza personale di assoluta trasparenza e moralità. Non c’è e non ci può essere distinzione tra sfera privata e sfera pubblica. Anzi, l’autorità veramente responsabile è, secondo l’insegnamento della Chiesa, soltanto quella esercitata mediante il ricorso alle virtù che favoriscono una concezione e una pratica del potere come servizio. Tali virtù, elencate esplicitamente, sono: la pazienza, la modestia, la moderazione, la carità, lo sforzo di condivisione. Ebbene, ce n’è forse una che il signor B. abbia mai praticato? O non è stato piuttosto egli il campione dell’impazienza e dell’insofferenza verso le regole democratiche, dello sfarzo, del lusso, della presunzione, dell’immodestia, della vanità, della ricchezza ostentata, dell’esagerazione, dell’eccesso,dell’intemperanza, dell’egocentrismo, dell’amore di sé e del narcisismo eletto a sistema?
Punto terzo. La Chiesa cattolica insegna che l’autorità deve lasciarsi guidare dalla legge morale, perché è la morale il criterioguida che precede e fonda gli altri. Tale moralità ha un modo molto pratico ed evidente di manifestarsi: consiste nell’emanare leggi giuste, cioè conformi al bene comune, e nel rispettare la divisione fra i poteri. Ma anche sotto questi profili il signor B., con la sua costante azione legiferante a favore di se stesso, con la pretesa di far prevalere nettamente l’esecutivo, con i ripetuti attacchi verso gli altri poteri costituzionali e con la battaglia ingaggiata contro la magistratura, ha disatteso pervicacemente l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa.
Punto quarto. Parlare di morale vuol dire, lei me lo insegna, parlare anche di famiglia e sessualità, e sotto questo profilo lo spettacolo offerto dal signor B. è, se possibile, ancor più sconfortante. Quest’uomo pluriseparato e incapace di tenere a bada i suoi istinti sessuali ha fornito uno degli esempi più tristi e devastanti che mai siano stati offerti da un politico occidentale. Inutile dilungarsi su vicende note. Basti ricordare il suo uso avvilente e umiliante della donna, da lui ridotta a oggetto di piacere, e senza che tutto ciò lo abbia mai condotto a un minimo accenno di pentimento o di contrizione. Al contrario, ciò che quest’uomo ha fatto per anni, fino alla tarda età, è stato di alimentare il deprimente mito di se stesso come vero maschio: uno spettacolo rivoltante.
Punto quinto. Nel compendio della dottrina sociale c’è un interessante capitolo dedicato all’informazione. L’insegnamento è molto chiaro. L’informazione, vi si legge, è tra i principali strumenti di partecipazione democratica, perché non è immaginabile alcuna forma di partecipazione senza la conoscenza dei problemi della comunità e senza il possesso di tutti i dati conoscitivi a proposito di chi governa. Ebbene, che cosa ha fatto per anni e anni il signor B. se non cercare di condizionare a proprio favore anche l’informazione, esattamente per evitare che la comunità avesse una conoscenza corretta della realtà, per nascondere le proprie malefatte e per illudere i cittadini che sotto il suo governo tutto procedesse per il meglio quando invece i problemi sociali aumentavano? Come si pone quest’uomo, che si è battuto contro le intercettazioni telefoniche e ha detto che la libertà di stampa non è un valore assoluto, rispetto a un insegnamento della Chiesa che sostiene la necessità di garantire il pluralismo dell’informazione agevolando, mediante leggi appropriate, condizioni di uguaglianza nel possesso e nell’uso dei mass media? Lascia senza parole verificare come il signor B. incarni, anche in questo campo, l’esatto contrario di quanto la Chiesa insegna. Mi perdoni se cito ancora il compendio, ma è inevitabile. Tra gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del pluralismo e di quel diritto fondamentale che è l’obiettività dell’informazione, si legge, merita particolare attenzione il fenomeno delle concentrazioni editoriali e televisive, che hanno “pericolosi effetti per l’intero sistema democratico”, specialmente “quando a tale fenomeno corrispondono legami sempre più stretti tra l’attività governativa, i poteri finanziari e l’informazione”. E cosa dire dei contenuti culturali e morali veicolati dalle televisioni di cui il signor B. è proprietario e da quelle sulle quali esercita il controllo? La questione essenziale, afferma la dottrina sociale della Chiesa, è verificare se il sistema dell’informazione e dell’intrattenimento contribuisca a “rendere la persona umana migliore, cioè più matura spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperta agli altri”. Appunto.
Punto sesto. L’alibi con il quale il signor B. ha spesso giustificato le sue scelte è il consenso degli elettori. “Abbiamo i numeri per farlo, la gente è con noi”, questo il ritornello. E che i numeri ci siano stati è fuori discussione, ma che cosa dice in proposito l’insegnamento della Chiesa? Ecco la risposta: “Il solo consenso popolare non è tuttavia sufficiente a far ritenere giuste le modalità di esercizio dell’autorità politica”. Per il cristiano ciò che conta è la legge morale, perché le maggioranze possono appoggiare scelte politiche moralmente ingiuste e i politici possono guadagnarsi il consenso attraverso operazioni moralmente tutt’altro che irreprensibili.
Conclusioni. Alla luce di tutto ciò, eminenza reverendissima, credo che la risposta alla domanda su come sia stato possibile che il signor B. abbia governato così a lungo con il consenso di molti cattolici e l’appoggio delle più alte gerarchie si possa esprimere con una sola parola: tradimento. Tradimento del vangelo. Tradimento di ciò che la fede cristiana è e insegna. Tradimento di tutti coloro che per questa fede sono morti. Tradimento di nostro Signore Gesù Cristo che disse:“Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32)».
Dopo aver letto, l’eminentissimo cardinale prese il rapporto, lo mise in un cassetto e sospirò. Pure a Natale era costretto a occuparsi di faccende tanto complicate. Pensò a don Serafino e gli scappò un mezzo sorriso. Che ragazzo! La sincerità era un suo pregio, ma, decisamente, era anche il suo principale difetto.
L’ "ORCHIDEA" E L’IMMAGINARIO DEL "DIO " DELLA GERARCHIA CATTOLICO-COSTANTINIANA...:
Gesù non rideva? Eppure tutto il Vangelo è un inno alla gioia
Gesù ha mai riso? Cristo piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, di fronte alla città santa, freme e soffre quando s’avvicina la sua ora finale. Conosciamo i suoi sentimenti. I Vangeli ci informano sul suo sdegno, che s’accende fino al punto di fargli impugnare una frusta. In sintesi, Gesù partecipa della natura umana amando, mangiando, provando tristezza e dolore. Ma si può dire che condivida con noi il riso e l’ironia? C’è qualche passo dei Vangeli in cui lo si oda ridere? Certo, partecipava volentieri ai banchetti, ma esiste una menzione del suo sorridere? Oppure il suo era sempre un volto severo come quello che ha rappresentato Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo?
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 3 ottobre 2010)
«Flevisse lego, risisse numquam» ("Leggo che egli ha pianto, mai che abbia riso"). Così scriveva in modo lapidario un autore medievale, che si celava sotto il nome di Ambrogio, il celebre Padre della Chiesa (lo Pseudo-Ambrogio), negando che le labbra di Cristo siano state sfiorate dal sorriso. Certo, se ci attestiamo sul verbo rigoroso del ridere - in greco gheláo - dobbiamo riconoscere che esso non ha mai come soggetto Gesù.
Ridono, anzi, «deridono» (katagheláo) Gesù solo i lamentatori e le prefiche di professione nella casa di Giairo (Mt 9,24), ironizzando sulla sua dichiarazione nei confronti della figlia del capo-sinagoga («Non è morta, ma dorme»). Ridono anche quelli che ora godono nei piaceri, in attesa che avvenga però il grande ribaltamento dei destini: «Beati voi che ora piangete, perché riderete... Guai a voi che ora ridete perché... piangerete» (Lc 6,21.25). E nella stessa linea si muoverà la Lettera di san Giacomo: «Gemete, peccatori, sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso [ghélos] si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza» (4,9). Così stanno le cose se ci fermiamo al puro e semplice verbo «ridere».
Tuttavia si devono fare due osservazioni rilevanti. La prima riguarda i Vangeli che, com’è noto, non sono biografie complete e compiute della figura storica di Gesù di Nazaret, ma sono solo dei profili, illuminati dalla luce della fede. Che manchi qualche tratto dalla fisionomia umana di Cristo non significa automaticamente che esso non sia stato presente durante la sua esistenza terrena. I banchetti, appunto, possono essere una testimonianza indiretta dell’allegria vissuta anche da Gesù, tant’è vero che egli stesso dichiarerà di essere stato accusato di eccessiva libertà in questo senso: «È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve e dicono: Ecco, è un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori» (Mt 11,19). Potremmo supporre che il riso abbia fatto parte dell’esperienza di Gesù, anche perché esso è una componente fondamentale - insieme alle lacrime - dell’essere uomini. L’Incarnazione, infatti, comporta l’assunzione dell’umanità da parte del Figlio di Dio nella sua integralità. C’è, però, una seconda considerazione da fare. Come si suol dire nel linguaggio «tecnico», un orizzonte semantico può essere coperto da più termini che ne descrivono le varie sfumature. Il ridere fa parte, ed è segnale, dell’orizzonte più vasto della gioia il cui molteplice significato può essere espresso con più vocaboli. In questa luce la domanda del nostro interlocutore può ottenere una risposta diversa da quella così categorica che abbiamo citato in apertura.
Particolare attenzione meriterebbe il Vangelo di Luca che uno studioso tedesco, Helmut Gollwitzer, ha idealmente posto in un suo commento sotto il titolo Die Freude Gottes, "La gioia di Dio" (1952). Basterebbe solo cercare i vocaboli della felicità per accorgersi dell’insistita presenza del tema nel terzo Vangelo.
Ci perdonino perciò i lettori, se faremo scorrere i vari termini greci. Il verbo cháiro (gioire, rallegrarsi) e il sostantivo chará (gioia, allegria) echeggiano cumulativamente per venti volte in Luca a partire da quel «Rallègrati» rivolto da Gabriele a Maria e divenuto il nostro «Ave» (1,28). C’è poi l’«esultanza» espressa per quattro volte col verbo agalliáo e col sostantivo agallíasis. È, questa, la felicità messianica di tenore spirituale. Così, quando Gesù pronuncia quella stupenda preghiera, detta appunto «l’inno di gioia», riferita da Luca 10,21-22 («Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli...»), l’evangelista nota in apertura: «In quello stesso istante Gesù esultò [agalliáo] nello Spirito Santo e disse...».
Luca, solo tra tutti gli autori del Nuovo Testamento, usa per tre volte anche il verbo dell’allegria fisica, in greco skirtáo applicandolo al piccolo Giovanni che «danza di gioia» nel grembo di Elisabetta quando incontra Maria (1,41.44) e ai giusti perseguitati che nel giorno del giudizio «si rallegreranno esultanti» perché grande sarà la loro ricompensa nei cieli (6,23). E se si vuole trovare un brano intero che mostri come Gesù proclami la gioia della salvezza - "Vangelo", com’è noto, significa "bella, gioiosa notizia" - basterebbe leggere il capitolo 15 di Luca con le tre celebri parabole della misericordia divina: quelle della pecora, della dracma e del figlio smarriti e ritrovati.
Un esegeta, Bruno Maggioni, ha intitolato quel capitolo «Un invito alla gioia di Dio in Cristo». Non potendo citare per ragioni di spazio tutti i passi, suggeriamo ai nostri lettori di prendere in mano un Vangelo e, nel capitolo 15 di Luca, di leggere i versetti 5, 6, 7, 9, 10, 23, 24, 25, 29, 32. In essi, tra l’altro, c’è un altro verbo greco di gioia: eufráino. Gesù, quindi, esalta il gioire festoso che prende spunto da vicende umane concrete, come il ritrovare un oggetto prezioso smarrito o il riabbracciare dopo tanto tempo una persona cara. Anzi, Luca, che aveva aperto il suo Vangelo col sorriso festoso del natale del Battista e di Gesù, lo conclude con la raffigurazione della Chiesa che conosce l’intensità della gioia: «... dopo averlo adorato tornarono a Gerusalemme con grande gioia [chará] e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,52-53).
Fermiamo qui la nostra ricerca, che potrebbe essere allargata agli altri Vangeli (e ancor di più all’Antico Testamento, ove appare ampiamente il «ridere» di Dio). Noi vorremmo concludere con le parole che, secondo Giovanni, Gesù pronuncia nell’ultima sera della sua vita terrena: «Queste cose io vi ho detto perché la mia gioia sia con voi e la vostra gioia sia piena» (15,11). Curiosamente Lutero descriverà così la Gerusalemme celeste, sulla scia di un’immagine medievale: «Allora l’uomo giocherà con cielo e terra e sole e con le creature. E tutte le creature proveranno anche un piacere, un amore, una gioia lirica e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».
Gianfranco Ravasi
ATTUALITA’
Internet, autogrill, versetti in rap
"Così la Bibbia entrerà in ogni casa"
L’iniziativa di "Famiglia Cristiana". In distribuzione un milione di copie in formato tascabile con alcuni fra i più famosi brani dell’Antico e Nuovo testamento che si potranno ascoltare alla radio e sul web
di ORAZIO LA ROCCA *
CITTÀ DEL VATICANO - La Bibbia in rap. Non tutta la Bibbia. Ma solo alcuni tra i più famosi brani dell’Antico e del Nuovo Testamento che - su iniziativa del settimanale dei Paolini, Famiglia Cristiana - si potranno sentire nelle radio e via internet in una singolarissima versione rap dal titolo Paroladidio per il lancio della Bibbia Pocket, l’edizione tascabile del Libro dei Libri, che da giovedì prossimo, al prezzo di 7,90 euro, si potrà acquistare col settimanale in edicola. Ma la mini Bibbia (570 grammi appena) si troverà anche nelle librerie (sia laiche che religiose), nei supermercati, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, negli autogrill, grazie ad una mega distribuzione che punterà a diffondere entro Natale oltre un milione di Bibbie.
Una grande operazione editorial-commerciale ideata per celebrare i 50 anni di una analoga iniziativa fatta nel 1960 dal fondatore della Congregazione dei Paolini, il beato Giacomo Alberione, il quale per la prima volta promosse la diffusione del testo sacro con "La Bibbia a 1000 lire" allegata al settimanale. Dopo mezzo secolo l’operazione si ripete, spiega don Vito Fracchiolla, amministratore delegato del Gruppo editoriale San Paolo, ma con mezzi e modi assai diversi, a partire dall’uso di Internet, dagli spot radiofonici e dal "provocatorio" rap composto ed eseguito da anonimi professionisti in ossequio agli altrettanto anonimi autori delle Sacre Scritture.
La Bibbia, dunque, torna a proporsi al grande pubblico ad appena 2 anni dal successo centrato dalla "Lettura della Bibbia giorno e notte", ideata dallo storico vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli, recentemente scomparso, e trasmessa in diretta dalla Rai con l’intervento di Benedetto XVI lettore del primo libro della Genesi. Con la Bibbia rap non si prevedono benedizioni papali, ma - assicurano in Vaticano - l’operazione viene vista con "interesse e simpatia" con la speranza che l’iniziativa, oltre a coinvolgere le famiglie italiane, serva ad avvicinare in particolare i giovani, magari tramite proprio quel pezzo rappeggiante che, a prima vista, potrebbe far storcere la bocca a tradizionalisti e benpensanti. Eppure - assicura don Fracchiolla - "tutta l’operazione è stata fatta con scrupolo e serietà col preciso scopo di contribuire a diffondere un testo tanto importante, non solo per i credenti, come è la Bibbia".
Scrupolo e serietà con cui - giurano alla San Paolo - è stato fatto anche il pezzo rap che in apertura presenta il famoso incipit del Libro dell’Esodo "Io sono colui che sono/Questo è il mio nome per sempre/e questo è il mio ricordo...". Seguito da uno dei versi più poetici della Bibbia, il Salmo 64: "Hanno bocca e non parlano/hanno occhi e non vedono...". Non potevano mancare citazioni notissime e comunemente considerate in sintonia proprio con i ritmi rappeggianti come "Chi mi offende distrugge se stesso/tutti coloro che mi amano, amano la morte!" (Libro dei Proverbi), "O vanità immensa, o vanità immensa/tutto è vanità./ Una generazione va e una generazione viene....(Ecclesiaste). Per passare dal Prologo del Vangelo di Giovanni "La vita era la luce degli uomini, e le tenebre non la compresero". Testi biblici, in passato, ampiamente usati anche da grandi esponenti della musica pop come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Bono degli U2, più volte ricordati dal ministro della Cultura del Vaticano, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, nell’incontro di papa Ratzinger con gli artisti del 2009.
God parade
di Massimo Gramellinbi (La Stampa, 10 agosto 2010)
Il vescovo ausiliario di Salisburgo ha scritto, nero su bianco, che la morte di quei ventuno ragazzi alla Love Parade del luglio scorso è stata una punizione divina. Ballare impasticcati e seminudi per le strade costituisce attività peccaminosa, sostiene il vescovo, ed è perfettamente naturale che Dio colpisca chi tenta di sovvertire l’ordine da lui creato.
L’attribuzione a un Ente Supremo di pulsioni umane, come la riparazione di un torto attraverso la vendetta, ripugna a chiunque sia in cerca di spiritualità autentica e contiene una falla che nessun teologo è ancora riuscito a colmare. Se Dio aveva deciso di castigare i baccanti della Love Parade, perché ne ha sterminati solo ventuno, risparmiando gli altri?
Ma soprattutto: perché ha preso di mira una moltitudine di giovanotti che, per quanto sballati, non stavano dando fastidio a nessuno, mentre non si accanisce con altrettanta precisione su assassini, ladri, stupratori e tutto ciò di ben più orribile e «peccaminoso» di una danza sfrenata che viene messo in scena ogni giorno dalla tragicommedia umana?
Un parroco della mia infanzia diceva che il Dio Paura è un’invenzione degli uomini per spaventare, inibire e dominare altri uomini. Gesù, aggiungeva, ci ha insegnato che Dio non è un vecchietto arrabbiato con la barba bianca e il forcone, ma l’energia d’amore di cui è composto l’universo.
Peccato che quel parroco illuminato ci abbia lasciati da tempo. Altrimenti avrei umilmente suggerito al vescovo tonante di andare a lezione di catechismo da lui.
DIO ("CHARITAS") E I DUE ’LIBRI’: IL LIBRO DELLA NATURA E IL LIBRO DELLA SACRA SCRITTURA ....
LA SCIENZA HA CAPITO E CERCA DI CAPIRE "COME VA IL CIELO", LA CHIESA CATTOLICA NON SOLO NON HA ANCORA CAPITO "COME VA IL CIELO" MA NEMMENO "COME SI VA IN CIELO" E CONTINUA A PROPORRE LA SUA IDEOLOGIA DELLA TERRA E DEL SANGUE (il "geocentrismo").
SOLO OGGI (2010) SI E’ DECISA A SMETTERLA DI MALEDIRE COPERNICO (l’"eliocentrismo")!!! MA DEL FATTO CHE DEL MESSAGGIO EVANGELICO HA FATTO UN ABILE "PUZZLE" - UN Organismo Gerarchicamente Modificato - E LO HA CHIAMATO "VANGELO" ( Il "messaggio" del "Deus caritas") ANCORA NON HA IL CORAGGIO DI AMMETTERLO!!!
"SAPERE AUDE!". NON E’ MAI TROPPO TARDI APRIRE LE PORTE E LE FINESTRE DEL VATICANO ALLA LUCE DEL SOLE!!! E DARE IL VIA A UNA NUOVA, SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA.
Federico La Sala
Il cardinale attacca Sodano, ma l’obiettivo è il futuro conclave
Le parole di Schönborn si rivolgono al “dopo Ratzinger”
Da Vienna inizia la guerra ai “reazionari” e la difesa dell’azione del Papa contro gli abusi nel clero
di Marco Politi (il Fatto, 11.05.2010)
L’attacco al cardinale Sodano apre il tavolo del futuro Conclave. Con la sua mossa Schönborn pone il problema dell’organizzazione del potere ai vertici della Chiesa e sottolinea l’urgenza di una riforma.
La sortita straordinaria dell’arcivescovo di Vienna non è una rissa tra porporati. Triplice è la sua traiettoria: sostenere l’operazione pulizia di Benedetto XVI, salvaguardare la memoria di Wojtyla, porre le basi per il dopo-Ratzinger. Il cardinale di Vienna Schönborn, sollevando il caso del suo predecessore Groër costretto alle dimissioni per pedofilia, mira in realtà allo scandalo del fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel, la cui condotta ignominiosa è stata certificata da un recente documento della Santa Sede.
Mai nella storia della Chiesa si è assistito a un tale cinico, lurido, paranoico sdoppiamento tra la pretesa di porsi come Grande Padre di un movimento per il Regno di Cristo e una pratica di vita immorale con un potere spirituale totalitario usato a fini predatori. Chi tocca i fili di una vicenda del genere, muore.
E le accuse di Schönborn al cardinale Sodano sono implacabili. Se l’ex segretario di Stato viene catalogato fra coloro che hanno impedito l’indagine sui crimini di Maciel, la sua credibilità crolla. In gioco viene messa automaticamente la posizione di Sodano quale decano del Sacro Collegio, cui tocca in caso di Conclave la presidenza delle riunioni preparatorie dei cardinali-elettori. Papa Wojtyla, benché malato di Parkinson, rimase lucido sino alla fine nel tracciare la sua strategia geopolitica. Ma per il resto ha sempre lasciato ai suoi più stretti collaboratori la gestione della macchina curiale, la nomina dei vescovi, gli affari correnti. Sodano - con il segretario papale Dziwisz e lo stesso Ratzinger - rappresentava la cerchia interna degli intimi collaboratori di Wojtyla.
Indicandolo tra gli oppositori delle inchieste volute da Ratzinger, Schönborn solleva una questione cruciale: come è stato informato o disinformato Giovanni Paolo II su Groër, Maciel e altri casi similari? Che tipo di disinformazione gli è stata fornita su altre vicende ecclesiali? Domanda esplosiva. Che rimanda all’uso del potere nelle stanze segrete della Curia. C’è anche un aspetto di allarme attuale.
Sotto la pressione degli eventi, che hanno toccato le sue convinzioni morali, Benedetto XVI è stato costretto negli ultimi mesi ad una perestrojka accelerata all’interno della Chiesa: decapitazioni di vescovi, pubbliche autocritiche, ammissione della necessità di affidare ai tribunali statali i preti colpevoli (in controtendenza alla pratica secolare di mantenere all’interno della propria giurisdizione i casi sporchi), sconfessione delle pratiche secolari di omertà, accettazione di responsabilità dinanzi alle vittime e all’opinione pubblica.
Non tutti nei ranghi ecclesiali sono d’accordo con questa eclatante tolleranza zero. La rivolta clamorosa del cardinale Castrillon Hoyos che a Murcia, in Spagna, poche settimane fa ha esibito tra tonanti applausi una sua lettera del 2001 al vescovo francese Pican, lodato perché non aveva “consegnato” alle autorità statali un prete pedofilo, ha rivelato in modo allarmante questa opposizione sotterranea. Specie perché tra gli entusiasti sostenitor i di Castr illon Hoyos, fattosi forte di un’autorizzazione di papa Wojtyla, c’era anche il cardinale di Curia Antonio Canizares, da poco chiamato a Roma dallo stesso Benedetto XVI per guidare la Congregazione per il Culto. L’intervento pasquale del cardinal Sodano, che ha derubricato a “chiacchiericcio” la documentazione dei mass media sugli abusi del clero, ha aggravato la situazione.
L’intervento del cardinale Schönborn mira a bloccare il sabotaggio anti-Ratzinger. Però con la sua mossa audace il cardinale di Vienna guarda - oltre lo scandalo pedofilia - al futuro della Chiesa. Il porporato, grande elettore di Ratzinger al conclave del 2005, sa che l’elezione di Benedetto XVI è avvenuta in uno “stato di emergenza”. Dinanzi alla necessità di riempire rapidamente il vuoto enorme lasciato dalla scomparsa del carismatico Wojtyla (e in assenza del candidato rifor matore Martini, fuori gioco per malattia) venne scelto Joseph Ratzinger come unica personalità di alto livello intellettuale e spirituale, dotata di prestigio internazionale. Fu portato da una maggioranza moderata e conservatrice, desiderosa di un pontificato “di pausa” e di garanzia dottrinale.
Ma all’interno di questo schieramento esiste un blocco reazionario, supercentralista, ottusamente anti-moderno, che Schönborn con la sua sortita senza precedenti vuole portare alla luce e isolare per impedirgli di pesare sul futuro Conclave. Perché quello che nel pensiero ratzingeriano è pessimistica meditazione di un monaco, che vede l’Europa cristiana desertificata dall’arrivo di nuovi barbari, nella visione del blocco reazionario è soltanto desiderio ossessivo di una rivincita sul moder no.
Schönborn , e con lui molti vescovi nei vari continenti, sono invece convinti che la Chiesa abbia bisogno di riforme e che dopo l’intervallo del pontificato ratzingeriano sia inevitabile sciogliere molti nodi. Nel 2005, per responsabilità di Ratzinger allora decano del Sacro Collegio, fu impedito ai cardinali elettori - nelle settimane antecedenti al Conclave - di discutere apertamente in interviste e riunioni pubbliche l’agenda dei problemi della Chiesa. Come invece era avvenuto nel 1978.
Questa volta Schönborn , e non è il solo, ritiene che vadano affrontate le sfide sul tappeto. A partire dall’organizzazione del potere nella Curia e dalla collaborazione tra papa ed episcopato mondiale. Non a caso, conversando con i giornalisti austriaci, ha definito “urgente” la riforma della Curia, ha evocato “considerazione” per le coppie omosessuali stabili, ha riparlato dei divorziati risposati. Di recente aveva anche proposto un riesame del celibato del clero. Come il cardinale Martini, del resto. La partita è appena iniziata. Sarà di lungo respiro e riserverà colpi di scena.
LA TEOLOGIA DELLA GRAZIA ("CHARIS") DI DIO ("CHARITAS") E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DEL MENTITORE. IN VATICANO, AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!
TRUCCATA LA PAROLA DI DIO, TUTTO E’ POSSIBILE! TRUCCATO ANCHE IL DOCUMENTO ANTI-PEDOFILIA DEL "2003"! Una richiesta di chiarimenti a padre Lombardi di Paolo Flores D’Arcais
Le “linee guida” sono un testo che risale interamente al 2003, “attribuibile all’allora cardinal Ratzinger”, o sono state introdotte modificazioni e/o interpolazioni nei giorni precedenti la pubblicazione on line? Se l’ordine del Vaticano era di rispettare le leggi civili di ciascun paese, come mai nessun vescovo ha denunciato un prete pedofilo anche nei paesi dove tale denuncia è obbligatoria? Una rivolta di quei vescovi contro il volere del Papa? (...)
( Federico La Sala)
Il documento anti-pedofilia:
Autentico o riveduto e corretto?
Lettera a padre Lombardi sul regolamento del vaticano
È urgente una risposta cristallina
«Le chiedo se il testo reso noto nei giorni scorsi esistesse già nel 2003, parola per parola, virgola per virgola»
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto. 20.04.2010)
Caro Padre Lombardi
nell’aprile del 2001, quando ricopriva la carica di direttore della Radio Vaticana, lei ebbe la bontà di collaborare alla rivista MicroMega, accettando un dialogo su un tema spinoso e affrontandolo con chiarezza. Sono certo che con il passare degli anni tanto la sua bontà che la sua chiarezza si siano solo accresciute, parallelamente all’accrescersi delle sue funzioni, che lo hanno portato ad essere oggi responsabile della Sala Stampa vaticana, cioè di tutta la comunicazione che riguarda il Sommo Pontefice e le Congregazioni della Chiesa. Per questo le chiedo oggi di avere la bontà di rispondere con chiarezza a una serie di aggrovigliati interrogativi che non riesco a sbrogliare e che riguardano la conferenza stampa nella quale ha dato conto delle cosiddette “linee guida” a cui vescovi e sacerdoti devono attenersi in tutto il mondo nelle circostanze, purtroppo non infrequenti, di casi di pedofilia ecclesiastica.
Quasi tutti i giornali e i siti internet hanno riportato questo incipit-sintesi della sua conferenza stampa: “Obbligo di denuncia dei preti pedofili all’autorità civile e, nei casi più gravi, un intervento diretto del Papa per ridurre i colpevoli allo stato laicale, senza processo e senza possibilità di revoca”. Perchè il giorno dopo, quando è tornato sull’argomento, non ha smentito quell’incipit-sintesi, dovuto all’agenzia Ansa, accreditandola invece con il suo silenzio? Nessun “obbligo di denuncia” è infatti mai stato imposto dal Vaticano. Al contrario. E con ciò arriviamo alla seconda domanda. Chi è l’autore delle “linee guida” che sono improvvisamente comparse on line sul sito del Vaticano il 10 aprile? “Si tratta di linee guida risalenti al 2003, e che quindi - spiega sempre il Vaticano - sono attribuibili all’allora capo della Congregazione, Joseph Ratzinger”. Questa affermazione è un infortunio di agenzia, o davvero è stato lei a pronunciarla?
“Linee guida” senza data e senza firma
In tal caso infatti il groviglio si infittisce, poiché le “linee guida” sono un testo in inglese senza data, senza firma, senza protocollo, tutti elementi che non mancano mai nei documenti vaticani, tra i più formali che le cancellerie del mondo conoscano. La lingua ufficiale del Vaticano è il latino, usato perfino nella corrispondenza tra prelati, vedi la famosa lettera del card. Ratzinger al vescovo di Oakland, che il New York Times ha scoperto e pubblicato come prova di un atteggiamento omissivo. Che cosa significa, dunque, che le “linee guida” risalgono al 2003 e sono attribuibili al card. Ratzinger?
In buon italiano vuol dire che il testo - esattamente quel testo - è stato redatto sette anni fa, e che l’estensore materiale è il card. Ratzinger o almeno il suo staff sotto il suo controllo. Può confermarmi con chiarezza inequivocabile che le cose sono andate così? Perché da altre sue parole non sembrerebbe. Tutti i giornali hanno infatti riportato, con la solita unanimità verbatim, che “sempre la Sala Stampa ha riferito che, nel 2003, la Congregazione per la Dottrina della Fede si era data una sorta di regolamento interno mai finora pubblicato e che ora, nella sua sintesi divulgativa, è stato reso noto per la prima volta sul sito della Santa Sede”.
Qui gli enigmi sono due. Nel 2003 la Congregazione si è data un “regolamento interno”, cioè una interpretazione operativa della sua istruzione del 2001 intorno ai Delicta graviora, oppure no? “Una sorta di” è espressione davvero incongrua, soprattutto nel mondo di certosina precisione delle procedure canoniche. Si intendono disposizioni date oralmente dal cardinal Prefetto? O di diverse interpretazioni date per iscritto caso per caso? O di una interpretazione in progress, che attraverso disposizioni orali o scritte è andata evolvendo?
Sono state fatte interpolazioni?
Secondo enigma. Le “linee guida” sono una “sintesi divulgativa”, e passi. Ma è stata scritta allora, nel 2003, o è stata scritta oggi? O in parte allora, ma con qualche interpolazione di oggi? Differenze non di poco conto. Perchè il modo in cui lei ha presentato le “linee guida” “attribuibili all’allora cardinal Ratzinger” inducono il lettore a immaginare che questa “sintesi divulgativa” sia stata scritta allora, sia perciò un documento storico. Ma se andiamo a guardare con attenzione alla sintassi, viene il dubbio che, in modo alquanto contorto, la Sala Stampa, cioè lei, ci lasci aperta la porta per l’interpretazione opposta. “Mai finora pubblicato” si riferirebbe insomma solo alla “sorta di regolamento interno”, che ora verrebbe “reso noto per la prima volta” non già in quanto tale (perché informale, e dunque non esistente nella forma di un testo scritto) ma “nella sua sintesi divulgativa”, dove l’azione divulgativa è quella della stessa Sala Stampa. Può su questo, caro Padre Lombardi, avere la bontà di darmi una risposta cristallina, ispirata a quell’evangelico “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal demonio” (Matteo 5) che un ateo come me sommamente apprezza?
Le perentorie dichiarazioni del cardinal Castrillon Hoyos, secondo cui Papa Wojtyla aveva approvato la lettera inviata a Mons. Pican, vescovo di Bayeux-Lisieux, di felicitazone e piena solidarietà per il suo rifiuto di denunciare alla giustizia francese un prete pedofilo (omessa denuncia che gli era costata tre mesi con la condizionale) rendono una sua riposta cristallina assolutamente necessaria e urgente.
Se davvero la linea della Chiesa era già allora di uniformarsi ai codici penali nazionali, il Papa Giovanni Paolo II sarebbe stato il primo a violarla! Il che suona una “contradictio in adiecto”. E dunque (mai come in questo caso repetita iuvant): non le chiedo di sapere se la sostanza del documento (in inglese, anonimo e senza data, pubblicato sul sito del Vaticano come “Guide to Understanding Basic CDF Procedures concerning Sexual Abuse Allegations”) coincide con la presunta “sorta di regolamento interno”. Le chiedo se il testo messo on line nei giorni scorsi esisteva già parola per parola e virgola per virgola o è stato scritto/modificato/interpolato nei giorni scorsi. La necessità di una risposta “sì sì, no no” riguarda soprattutto la frase chiave: “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”, che a una sommaria analisi filologica suona eterogenea rispetto al resto del testo, tutto riferito alle procedure del diritto canonico.
La frase chiave sembra estranea
Se il testo è del 2003, non si capisce perché non sia stato datato, e soprattutto in che cosa sarebbe diverso dalla “sorta di regolamento interno”. Il fatto che invece la Sala Stampa, cioè lei, ne abbia parlato come di due realtà diverse, l’una sintesi dell’altra, fa propendere verso l’ipotesi di una rielaborazione attuale. Ma se così fosse, non averlo detto chiaramente, anche dopo che tutti i media mostravano di aver inteso il carattere storico-autentico delle “linee guida”, rasenterebbe la disinformacija. Sospetto a cui non voglio indulgere neppure per un attimo, e per dissolvere il quale le scrivo questa lettera. Ricordandola sempre con affetto, suo Paolo Flores d’Arcais
il Fatto 20.4.10
Le quattro domande cruciali
Le “linee guida” sono un testo che risale interamente al 2003, “attribuibile all’allora cardinal Ratzinger”, o sono state introdotte modificazioni e/o interpolazioni nei giorni precedenti la pubblicazione on line? Se l’ordine del Vaticano era di rispettare le leggi civili di ciascun paese, come mai nessun vescovo ha denunciato un prete pedofilo anche nei paesi dove tale denuncia è obbligatoria? Una rivolta di quei vescovi contro il volere del Papa? Perché Karol Wojtyla ha approvato la lettera con cui il cardinal Castrillon Hoyos si felicitava e solidarizzava con il vescovo di Bayeux-Lisieux mons. Pierre Pican che non avendo denunciato un prete pedofilo era stato condannato dalla giustizia francese a tre mesi con la condizionale? Il Papa contro il Papa? O addirittura il cardinal Ratzinger contro Giovanni Paolo II? Perché non vengono aperti gli archivi della Congregazione della dottrina della fede sui casi di pedofilia, e consegnati alle autorità giudiziarie, in modo che anche la giustizia terrena possa fare il suo corso, secondo le leggi vigenti in ciascun paese?
I cinque anni di pontificato di Benedetto XVI: cinque anni di polemiche e
di interventi maldestri
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 18 aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Da una crisi all’altra. Così sembra procedere il pontificato di Benedetto XVI, eletto papa il 19 aprile 2005. In capo a cinque anni, colui che veniva presentato come un papa di transizione appare sempre più il rappresentante di un pontificato tormentato. Molte delle sue decisioni e delle sue dichiarazioni hanno avuto un’eco che la personalità riservata, se non timida, di questo “vecchio” papa dal carisma incerto - ha festeggiato gli 83 anni venerdì 16 aprile - non lasciava presagire.
Già l’anno scorso l’anniversario della sua elezione era stato oscurato da una valanga di polemiche. Revoca della scomunica di vescovi integralisti, affermazioni controverse sull’aids, silenzio dopo la scomunica di medici che avevano proceduto ad un aborto su una ragazzina brasiliana violentata: in poche settimane, questi scandali avevano indebolito la Chiesa, turbato i credenti e sottolineato la difficoltà del Vaticano a tenere in considerazione le realtà politiche ed umane.
Anche quest’anno, il periodo è caratterizzato dalla confusione in cui si trova la Chiesa dopo la rivelazione a cascata di scandali di pedofilia e a causa della sua comunicazione inadeguata rispetto a questi eventi. “È un pontificato tragico”, è il giudizio dello storico Philippe Levillain.
Le crisi che si susseguono appartengono a diversi ordini. Alcune sono rivelatrici di un ripiegamento della Chiesa su se stessa, staccata dal mondo: ad esempio la mano tesa ai vescovi integralisti, nemici giurati della Chiesa “moderna” uscita dal Concilio Vaticano II, non è stata capita neppure da una parte del mondo cattolico europeo. Preoccupato di riassorbire l’ultimo scisma nella storia del cattolicesimo e di fare tutto il possibile per restaurare “l’unità della Chiesa”, il papa non ha adeguatamente valutato il rifiuto di questa decisione.
Le dichiarazioni negazioniste di uno dei vescovi implicati, Mons. Williamson, condannato venerdì 16 aprile a 10 000 euro di ammenda da un tribunale tedesco, hanno finito per pregiudicare la legittimità di tale iniziativa. Allo stesso modo, l’insistenza di Benedetto XVI per promuovere la beatificazione di Pio XII, il papa discusso per il suo atteggiamento durante la Shoah, ha trovato pochi difensori.
Altre controversie rientrano invece in quello che i suoi sostenitori chiamano “il rigore” intellettuale di Benedetto XVI. Il suo discorso a Ratisbona, nel settembre 2006, che sembrava stabilire un legame intrinseco tra islam e violenza, fa parte di quelle crisi provocate dal papa stesso. Un papa teologo, professorale, un papa del testo scritto, poco uso agli abituali modi di comunicazione. Più a suo agio nella lunghezza e nella complessità che nel gesto mediatico, Benedetto XVI ha pubblicato tre encicliche, di cui l’ultima, sulla dottrina sociale, non ha certo avuto l’eco che si riprometteva.
Altre crisi (aids, pedofilia) hanno mostrato la propensione dell’istituzione a gridare al “complotto” o all’“anticristianesimo” quando il messaggio della Chiesa non passa. Il fatto è che il discorso insistente dell’istituzione sulla morale sessuale è diventato, col passare delle generazioni, sempre meno udibile; e gli scandali di pedofilia indeboliranno la sua credibilità su questi temi.
Tali episodi mettono in discussione un sistema di governo ipercentralizzato, non adeguato ai tempi in un mondo globalizzato e reattivo, e le cui disfunzioni sono simboleggiate dai ricorrenti problemi di comunicazione.
Benedetto XVI, come i suoi predecessori, non ha realizzato la riforma della curia, i cui principali responsabili sono uomini di più di 75 anni. Vedono il papa ad intervalli irregolari, lavorano a compartimenti stagni, e spesso non hanno lo stesso punto di vista sui problemi. Questo modo di governare dà spesso luogo a dichiarazioni contraddittorie, che costringono poi a scuse o sconfessioni. La mano tesa agli integralisti e la gestione degli scandali di pedofilia sono due esempi dei conflitti ai vertici della gerarchia cattolica.
L’assenza di promiscuità sociale, generazionale e sessuale tra i responsabili di una Chiesa composta di un miliardo di persone accentua il fossato che sembra scavarsi tra la Chiesa incarnata da Benedetto XVI e le società secolarizzate. Tanto più che le polemiche a ripetizione hanno oscurato dei viaggi politici piuttosto ben riusciti in Africa e in Terra Santa, così come il discorso, sempre ben percepito, della Chiesa sulla pace e sul sostegno ai più poveri e agli immigrati.
“La sua volontà di tornare ad un pontificato più modesto, centrato sui fondamentali dell’insegnamento della Chiesa si scontra con questi scandali che si susseguono”, constata lo storico Jean-Dominique Durand. “Cercando di porre le basi di una Chiesa più sana, solleva più problemi di quanti non ne risolva”, deplora anche Philippe Levillain.
La bufera legata alla pedofilia lascerà della tracce che ora è difficile valutare. Toccherà al successore di Benedetto XVI trarre le conseguenze di questo trauma e aprire la riflessione su dei temi (fine del celibato obbligatorio per i preti, ridefinizione del posto dei laici e delle donne nella Chiesa, collegialità e trasparenza, nuovo concilio...) che il papa non ha senza dubbio né la voglia né il tempo di affrontare.
"Il Diavolo abita anche in Vaticano"
Padre Amorth, l’esorcista più famoso del mondo, racconta la sua lotta contro il maligno. -E rivela: "Si è infiltrato anche in Vaticano"
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 10.03.2010)
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario. E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica dell’esorcismo. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Naturalmente è difficile trovare le prove. Ma ho confidenze di persone che lo confermano. E, del resto, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia».
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario.
Ha guardato in faccia il diavolo. O almeno le sue incarnazioni terrene. Padre Gabriele Amorth ha affrontato 70 mila indemoniati (veri o presunti) in 24 anni di esercizio. "Il Papa crede in questa pratica" assicura. Anche perché "il Maligno alberga in Vaticano, e se ne vedono le conseguenze" Un esempio? Le ultime storie di pedofilia Il sacerdote, che lavora a Roma, è il più famoso "liberatore di anime" al mondo "Il nostro compito principale è affrancare l’uomo, soprattutto dalla paura di Satana" "Il 90 per cento delle vessazioni diaboliche è la conseguenza di malefici" "La notte di Natale il Nemico ha provato a colpire Ratzinger cercando di buttarlo a terra"
E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica della liberazione dal Male. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Ho confidenze di persone che lo confermano. Naturalmente è difficile trovare le prove. E, comunque, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia. Anche la vicenda di quella povera guardia svizzera, Cedric Tornay, trovata morta con il suo comandante, Alois Estermann, e la moglie. Hanno coperto tutto. Subito. Lì si vede il marcio».
Tutti lo conoscono come l’Esorcista. Molti ne chiedono l’assistenza. Perché Gabriele Amorth, sacerdote paolino nato a Modena, laureato in Giurisprudenza, ex partigiano, medaglia al valor militare, democristiano di scuola dossettiana ed ex direttore del giornale mariano Madre di Dio, è il più famoso liberatore del demonio al mondo.
Ma a 85 anni settantamila casi si fanno sentire. E don Amorth è appena convalescente. «Da un improvviso crollo», dice lui. «Un qualcosa di inspiegabile», rivela confidenzialmente l’amico don Francesco che, a 90 anni, don Gabriele considera come «il bastone della mia vecchiaia». Sebbene sia in pigiama, attorniato dalle medicine sul tavolo, da immagini della Madonna, da una copia di Avvenire che accenna al suo nuovo libro da poco in libreria ("Memorie di un esorcista", intervista di Marco Tosatti, edito da Piemme), lo sfidante di Satana mostra un piglio energico. Osserva la propria foto in copertina ed esclama: «Che faccia da bulldozer. Invece, quando sono tranquillo, i tratti del mio volto si distendono e divento un altro. Forza, parliamo, che di là ho dei casi che mi aspettano».
Padre Amorth, com’è il diavolo? «È puro spirito, invisibile. Ma si manifesta con bestemmie e dolori nelle persone di cui si impossessa. Può restare nascosto. O parlare lingue diverse. Trasformarsi. Oppure fare il simpatico. A volte mi prende in giro. Io però sono un uomo felice del mio lavoro, una nomina inaspettata giunta 25 anni fa dal cardinale Poletti. E né gli indemoniati, che a volte sei o sette dei miei assistenti devono tener fermi, né i chiodi o i vetri che escono dalla bocca dei posseduti, e conservo in questo sacchetto, mi spaventano. So che è il Signore a servirsi di me».
Il Maligno può manifestarsi con violenza. Nella stanza prescelta - padre Amorth ha girato 23 sedi diverse, cacciato ovunque perché i confratelli erano stufi di sentire urla fino a tarda sera, finché non ha trovato stabile dimora nel quartier generale delle edizioni San Paolo - c’è un lettino con le corde per legare l’indemoniato. E una poltrona per le persone che non urlano, e stanno tranquillamente sedute durante le preghiere di esorcismo. «Dalla bocca può uscire di tutto - racconta - pezzi di ferro lunghi come un dito, ma anche petali di rosa. Certi posseduti hanno una forza tale che nemmeno sei uomini riescono a trattenerli. Così vengono legati. Mi aiutano i miei assistenti laici, che pregano con me. Quando gli ossessi sbavano, e allora bisogna pulire, lo faccio anch’io. Vedere la gente vomitare non mi dà nessun fastidio».
Sulla pratica dell’esorcismo, dentro la Chiesa, esistono opinioni diverse. Diffidenze. Resistenze. Dubbi. «Ma il Papa ci crede - ribadisce padre Amorth - tanto è vero che in un discorso pubblico ha incoraggiato e lodato il nostro lavoro. Gli ho scritto, e mi ha promesso che chiederà alla Congregazione per il Culto divino un documento per raccomandare che i vescovi abbiano almeno un esorcista in ogni diocesi, come minimo. Ho avuto modo di parlargli più volte anche quando era prefetto alla Congregazione per la Dottrina della fede, ci ricevette proprio come Associazione degli esorcisti. E non scordiamo che, sia del diavolo sia delle pratiche per allontanarlo, parlò moltissimo lo stesso Wojtyla». Alcuni, addirittura, ricordano ancora la dichiarazione fatta nel 1972 da Papa Montini, quando Paolo VI parlò del "fumo di Satana", cioè delle sètte sataniche, entrato nelle Sacre stanze. Una frase che creò un caso, seguito da un nuovo discorso papale tutto incentrato sul demonio.
Ma il Maligno può colpire anche il Pontefice? «Ci ha già provato. Lo fece nel 1981, con l’attentato a Giovanni Paolo II, lavorando su coloro che armarono la mano di Ali Agca. E anche adesso, la notte di Natale, con quell’ultima matta che ha buttato per terra Benedetto XVI. In fondo, è quel che accadde a Gesù attraverso Giuda, Ponzio Pilato, il Sinedrio». Don Amorth si fa serio. Riflette in silenzio per qualche secondo, alza la testa e dice gravemente: «Altroché. Altroché se il demonio alberga nella Santa Sede. C’è un volume, "Via col vento in Vaticano" (Kaos edizioni, ndr), che parla appunto delle lotte di potere in Curia e del "fumo di Satana". Bene, il 99 per cento di quel che è scritto lì è vero. I vescovi non parlano per timore di critiche di altri vescovi. E sì che su questo tema le Sacre scritture sono le più salate, perché i comandi di Gesù appaiono molto chiari: "Andate, predicate il Vangelo, cacciate i demoni". Secondo me, quando un vescovo non nomina l’esorcista commette un peccato mortale».
Tante le figure di santi che, senza esserne investiti, erano noti come liberatori dal demonio. San Benedetto, che era un monaco. Santa Caterina da Siena, di cui si narrano effetti portentosi. Padre Pio, che secondo i fedeli liberava dall’influenza del maligno. Pure Don Bosco occasionalmente si prestava. «Io lavoro sette giorni su sette, Natale e Pasqua compresi - dice don Gabriele - e non posso materialmente correre ovunque mi chiamano. Perciò spiego a tutti che anche i laici possono operare esorcismi con successo. È scritto in Marco, XVI, 17: "Coloro che credono in me cacceranno i demoni". Ci sono formule ufficiali. Si può dire: "Satana, vattene". Ma c’è anche molta libertà, con preghiere semplici: il Padre Nostro - che contiene già in sé un esorcismo: "e liberaci dal Male" - l’Ave Maria, il Salve Regina, il Credo. Poi raccomando le orazioni quotidiane, la messa, il rosario, la confessione, la comunione, il digiuno».
Un tema, quello della figura antitetica al Messia, che per altri aspetti muove fior di scienziati. L’altro ieri a Roma, nei locali della Sapienza prima e in quelli dell’Università Roma Tre più tardi, si è svolto un convegno dal titolo "L’ultimo nemico di Dio". Cioè l’Anticristo, il personaggio che incarna l’avversario della divinità, presente nell’immaginario giudaico e cristiano relativo agli ultimi tempi del mondo. Approccio scientifico, impronta storica, studiosi di calibro internazionale: Enrico Norelli, Jean-Daniel Kaestli, Marco Rizzi, Gian Luca Potestà, Alberto D’Anna.
«Il ruolo della figura dell’Anticristo - spiegava al pubblico la docente Emanuela Valeriani, una dei coordinatori dell’evento - a prescindere dalle diverse posizioni assunte dagli studiosi, è senza dubbio un tassello tematico fondamentale all’interno del grande mosaico degli studi relativi all’identità cristiana. L’attenzione alla strana e, diciamo pure, spettacolare fisionomia dell’Anticristo è un tema ben rappresentato nelle apocalissi cristiane di epoca più tarda, contribuendo all’elaborazione anche leggendaria di questa figura escatologica. La prima testimonianza si trova in un’opera del III secolo, "Il Testamento siriaco del nostro Signore Gesù Cristo". Ma se, in linea generale, il terribile aspetto dell’Anticristo si può ricondurre alla tradizione precedente al cristianesimo, che identifica l’avversario escatologico con esseri mostruosi, nel caso specifico del nostro testo, esso assume una rilevanza teologica derivante dal confronto con la visione di Dio. Se prendiamo la sezione degli "Acta Iohannis", un testo scritto probabilmente nel secondo secolo, vediamo che lì si afferma che Gesù può essere visto sotto diverse forme (bambino, giovane adulto, vecchio) e apparire contemporaneamente anche a più testimoni».
Nella sua stanza al terzo piano della sede paolina, padre Amorth si prepara ad affrontare il Nemico nell’ennesimo caso difficile. Ma il diavolo chi sceglie di colpire? «Non lo sappiamo - risponde - eppure al 90 per cento le vessazioni diaboliche sono conseguenze di malefici, cioè sono causate da persone che per vendetta o per rabbia si rivolgono a maghi e occultisti legati a Satana i quali, pagati profumatamente, si attivano per far intervenire il maligno. È dunque la cattiveria degli uomini a chiamare il Male. Un’ultima cosa: il diavolo non è così diffuso. Quando c’è, è doloroso. E noi interveniamo. Ma il compito principale dell’Esorcista è uno solo: liberare l’uomo, soprattutto dalla paura del demonio».
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 10.03.2010)
Negli ultimi anni la dottrina cattolica sull’esistenza del diavolo è stata messa in dubbio da più di un teologo. Urs Von Balthazar diceva di credere nell’Inferno ma anche che lo riteneva vuoto. E Borges azzardava che forse i teologi, che avevano esagerato i vantaggi del Paradiso non essendoci mai stati, non avrebbero potuto giurare che i reprobi all’Inferno fossero sempre infelici: come immaginare che una fabbrica così sadica, vendicativa e inarrestabile di tortura dei dannati, una Auschwitz eterna possa essere compatibile con l’idea cristiana di un Dio misericordioso? Il minimo che si esigeva dalla teologia era di rimodellare l’idea della Geenna, destinata ai malvagi.
Soprattutto tenendo in maggiore considerazione il ruolo di salvezza assegnato alla figura di Gesù: i Vangeli raccontano le sue lotte contro i demoni, ma anche le loro disfatte e le guarigioni operate sugli indemoniati. Il Credo cristiano dice che dopo morto egli scese tre giorni agli Inferi con altrettanta potenza liberatoria ma una lettura pigra di quell’evento sembra trattenerlo agli Inferi per molto più tempo.
La maggior parte dei biblisti pensa che non sia possibile, o comunque sia piuttosto rischioso, negare l’esistenza di spiriti maligni. Molti temono che una cerimonia troppo disinvolta di addio al diavolo potrebbe far parte della sua tattica. Citano Baudelaire: "L’astuzia più raffinata del diavolo è di persuadervi che non esiste". Il licenziamento teologico del diavolo produrrebbe l’insignificanza del male nei contemporanei ma questa censura non sembra abbia l’effetto di porre fine al suo evidente successo.
Nel 1972 Paolo VI è il primo a lamentare che il "fumo di Satana" si sia infiltrato da qualche fessura anche «nel tempio di Dio». Si rompe l’incantesimo post-conciliare su un approccio indiscriminato della Chiesa al mondo moderno. Il Papa reagisce a una interpretazione del dialogo con la cultura dei Lumi che potrebbe risolversi in una liquidazione delle soglie critiche della coscienza cristiana di fronte al mondo e dunque in una omologazione della Chiesa ai "poteri del male". Sulla stessa linea Wojtyla lancia dal Monte Gargano, mitico luogo di lotte anti-demoniache, la sfida ai cattolici a sguainare di nuovo la spada di San Michele Arcangelo «contro il dragone, il capo dei demoni, vivo e operante nel mondo».
I suoi segni non sono più le corna, il piede caprino, l’odore dantesco di zolfo ma «consumismo, sfruttamento disordinato delle risorse naturali, voglia sfrenata di divertimento, individualismo esasperato». Negli stessi anni il cardinale Ratzinger ricorda «a certi teologi superficiali» che il diavolo è per la fede cristiana «una presenza misteriosa ma reale, personale, non simbolica, una realtà potente, una malefica libertà sovrumana opposta a quella di Dio». Rivendica al cristianesimo di avere introdotto in Occidente «la libertà dalla paura dei demoni» ma teme che «se questa luce redentrice di Cristo dovesse spegnersi il mondo con tutta la sua tecnologia ricadrebbe nel terrore e nella disperazione». Segnali di ritorno di forze oscure, secondo il futuro Papa, sono i culti satanici in aumento nel mondo secolarizzato, l’espansione del mercato della pornografia e della droga, «la freddezza perversa con cui si corrompe l’uomo, l’infernale cultura che persuade la gente che il solo scopo della vita siano il piacere e l’interesse privato».
Sono i primi tentativi della dottrina cattolica per far uscire la descrizione del diavolo da un linguaggio tradizionale ormai incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei contemporanei. Il diavolo esiste ma assume le nuove forme delle ingiustizie e delle alienazioni. Il suo teatro non è solo il cuore umano ma anche la struttura sociale. Un teologo come Bernard Haring raccomandava molta cautela considerando il modo fantasioso con cui era stata riprodotta la dottrina sul diavolo: «Oggi lo psichiatra si mostra competente nella maggior parte dei casi nei quali si usava far intervenire l’esorcista - dice -. La Scrittura non conosce quel tipo di discorso alienante sul diavolo che è stato coltivato nei secoli dai cristiani delle diverse Chiese sotto l’influsso di culture in cui si realizzava una spaventosa alienazione». E Karl Barth rispondeva a chi chiedeva se dubitasse del diavolo: «Esiste pure quella bestia. Ma quando interviene la fede in Cristo mette la coda tra le gambe e non si fa più vedere».
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - “Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso”. E’ l’esortazione del Santo Padre Benedetto XVI pronunciata nella Sinagoga di Roma, nel corso della visita alla Comunità ebraica romana, domenica 17 gennaio.
Il Pontefice ha ricordato la precedente visita di Papa Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986, che “intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio”. Quindi l’evento conciliare “ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia”. “Anche io - ha proseguito Benedetto XVI -, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza... La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. Possano queste piaghe essere sanate per sempre!”
Tra le tragedie del ventesimo secolo il Pontefice ha quindi citato “il dramma singolare e sconvolgente della Shoah” che “rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo”. Ricordando gli Ebrei romani strappati dalle loro case e “lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista”, Benedetto XVI ha proseguito: “Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.”
Evidenziando quanto unisce le due comunità, il Pontefice ha citato la Sacra Bibbia come “il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo”. Dalla Legge e dai Profeti derivano numerose implicazioni per entrambi. In particolare il Decalogo, definito “un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un ‘grande codice’ etico per tutta l’umanità”, propone vari campi di collaborazione e di testimonianza, tra cui il Papa ha citato i più urgenti: “risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio”, “testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo”, “testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane.” Inoltre Ebrei e Cristiani sono chiamati ad esercitare “una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi... Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene”.
Il Pontefice ha infine esortato a “compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra”. A conclusione del discorso Benedetto XVI ha invocato dal Signore “il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa”.(SL)
Ma indietro non si torna
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 18 gennaio 2010)
Indietro non si torna. Parola di Papa. La dottrina del Concilio Vaticano II sugli Ebrei costituisce - ha detto in Sinagoga - un punto fermo irreversibile. Di più, ha impegnato la Chiesa cattolica in questo solco. Una chiamata in causa che ricade come una sconfessione sulle correnti ostinatamente antisemite del lefebvrismo ultracattolico, troppo frettolosamente perdonato. L’assicurazione filoconciliare di Benedetto XVI introduce una variante nella disputa sulla continuità del Vaticano II rispetto alla tradizione della Chiesa. Se c’è un punto del Concilio in cui la critica alla tradizione di molti secoli è indubitabile, questo è la dichiarazione "Nostra Aetate" sugli Ebrei e le altre religioni non cristiane.
L’impegno contratto dal Papa si traduce in un riconoscimento del valore permanente delle deliberazioni conciliari, tanto più ragguardevole in un’ora in cui vengono raggiunte da processi involutivi. Significa anche ammettere che la tradizione della Chiesa è fatta non solo di ripetizioni del passato, ma anche di ricerca di forme veritative più autentiche ed ampie di quelle precedenti. Questa Sinagoga bis del papato prova che il dialogo ebraico-cristiano si radica nella struttura istituzionale del mondo ebraico e della Chiesa romana. Certe diffidenze ebraiche sono motivate dalla storia, che mette in scena una continua alternanza fra persecuzione e meno larghi periodi di tolleranza. Ora il fatto che da Giovanni XXIII al Papa attuale siano già cinque i Papi favorevoli al dialogo con l’ebraismo, dovrebbe assicurare i timorosi che questa opzione non è congiunturale, ma si fonda sulla messa in valore di elementi fondamentali comuni anteriormente eclissati.
Certo, Ratzinger mostra di preferire il tavolo teologico a quello politico. Come fa leva nel suo magistero sulla formazione biblica e teologica di un cattolicesimo troppo a lungo distratto o illuso dalle massificazioni wojtyliane, così punta sulla rieducazione di ebrei e cattolici per migliorare una conoscenza reciproca, che sembra generalmente carente. E ha risolto positivamente - non c’era da dubitarne - la questione della salvezza promessa per sempre al Popolo dell’Alleanza. Ma se avesse scelto di lasciare in guardaroba le cautele diplomatiche e seguire Riccardo Pacifici sui carboni ardenti dei silenzi di Pio XII e della politica anti-israeliana dell’Iran, non gli sarebbe stato difficile ricordare che furono i persiani a liberare gli ebrei dall’esilio babilonese, a riportarli a Gerusalemme e ricostruire il Tempio.
Una visita "teologica" ha saputo paradossalmente individuare un progetto di collaborazione. I partner hanno preferito discutere delle cose da fare insieme piuttosto che misurarsi sulle rispettive visioni identitarie. Ciò che manca alle religioni monoteistiche non è generalmente la loro reciproca fraternità. Essa giace dentro ciascuna di esse, come il cuore che pulsa segretamente e fa vivere. Ciò che manca a questi mondi religiosi è l’audacia di farsi Arca di Alleanza fra loro perché il mondo viva e l’arca della pace appaia nel futuro del mondo.
Sia il Papa che il rabbino hanno squarciato il velo su questo futuro inedito: la persuasione comune è che la vera Terra Promessa è al di là delle terre già raggiunte, è la Terra che è stata promessa non ad una religione particolare ma all’Uomo come tale, perché - ha suggerito Di Segni - «l’Uomo è santo», non la terra. Una intuizione decisiva per laicizzare le derive teocratiche nazionalistiche e i fondamentalismi incombenti.
A sua volta il Papa ha chiesto di trasformare la fede comune nell’Unico Dio in atto critico dei nuovi dei e vitelli d’oro, - la razza, lo Stato - che mettono a repentaglio l’identità stessa dell’Uomo. Un invito familiare al linguaggio dell’Ebreo Errante, mai quieto nelle logiche e interessi costituiti, preoccupato di salvare la differenza dai processi di omologazione per non abbandonare la storia ai suoi despoti. Ha chiesto alleanza nell’impegno di tradurre la Torah in un impegno etico globale sulla dignità della vita, la famiglia, l’ecologia, la pace. Infine, il tempo delle religioni monoteistiche è il tempo dell’Uomo: non avrebbero significato, in un mondo secolarizzato, se fossero appena interessate ciascuna alla propria sopravvivenza e se si accanissero a lottare fra loro, immemori dello scopo comune. Il solo significato possibile che resta loro è di lavorare perché questa Terra sia salvaguardata e la promessa di Dio così adempiuta.
Violenze anticristiane in Malesia a proposito dell’uso del nome di
“Allah”
di Stéphanie Le Bars (con Reuters)
Le Monde” del 12 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Si può considerare la parola araba “Allah” un’esclusività musulmana? Questa domanda apparentemente semantica suscita in Malesia, dall’inizio del 2010, delle tensioni interreligiose, che hanno indotto il governo ad intervenire nel dibattito.
Domenica 10 gennaio quattro chiese e un convento sono stati bersagli di attacchi e danneggiamenti. Già nella notte tra giovedì e venerdì tre luoghi di culto (due protestanti e uno cattolico) erano stati presi di mira da bombe incendiarie. E, all’uscita dalla grande preghiera del venerdì, diverse centinaia di musulmani avevano manifestato la loro opposizione all’utilizzo del termine “Allah” da parte dei cristiani.
Queste violenze sono legate alla polemica sull’uso della parola “Allah” da parte di non musulmani. La disputa è esplosa il 31 dicembre 2009, data nella quale l’Alta Corte della Malesia ha autorizzato un giornale cattolico, Herald-The catholic Weekly, edito in quattro lingue e con una tiratura di 14000 copie, ad usare questa parola per designare Dio.
Il giornale utilizza il termine “Allah” nella sua edizione destinata ai fedeli di lingua malese dell’isola di Borneo. Questo paese di 28 milioni di abitanti, in maggioranza musulmano e malese - il 60% della popolazione - conta anche una forte minoranza di cristiani (9% della popolazione, di cui 850 000 cattolici), di buddisti e di induisti, di origine cinese e indiana. La costituzione vi garantisce la libertà di culto.
Mentre nella maggior parte dei paesi di lingua araba la parola “Allah” designa sia la parola “dio” sia il Dio dell’islam, ed è utilizzato dai non musulmani, i musulmani malesi hanno ritenute che l’uso di questo termine da parte dei cristiani fosse suscettibile di creare confusione e di favorire il proselitismo. “Allah appartiene solo a noi”, scandivano dei fedeli all’uscita dalle moschee di Kuala Lampur, venerdì.
Di fronte al rischio di scontri tra comunità, il governo ha presentato appello contro la decisione della Corte e ottenuto, il 6 gennaio, la sospensione dell’autorizzazione concessa ai cristiani dall’Alta Giurisdizione. “Si tratta di una faccenda di interesse nazionale”, ha detto il procuratore generale per giustificare questa sospensione.
Nel suo appello, il governo del primo ministro, Najib Razak, al potere dall’aprile 2008, ha fatto riferimento ad una decisione dell’Alto Consiglio nazionale della fatwa del 2008, che statuiva che la parola “Allah” potesse essere utilizzata solo dai musulmani.
Dei membri dell’opposizione, in particolare il Pan-Malaysian Islamic Party, hanno accusato il partito al potere, l’Organizzazione nazionale malese unita (UMNO), di cercare di politicizzare l’argomento. Il primo ministro ha condannato gli attacchi di venerdì contro le Chiese e ha annunciato il rafforzamento della sicurezza attorno ai luoghi di culto cristiani. Sabato si è recato in una chiesa che aveva subito danneggiamenti. “L’islam ci proibisce di insultare o di distruggere tutte le altre religioni, sia fisicamente che attaccando i luoghi di culto”, ha dichiarato. Il suo appello alla calma evidentemente non è stato ascoltato.
Eletta con la più bassa percentuale della sua storia nel 2008, la coalizione è al potere da 52 anni. Le minoranze etniche e religiose denunciano regolarmente l’islamizzazione della società e le discriminazioni sociali di cui si dicono vittime. Padre Lawrence Andrew, direttore del giornale cattolico al centro di questa polemica, ha dichiarato venerdì che, anche se non c’era “pericolo immediato”, la situazione restava “preoccupante”.
In Vaticano, Monsignor Robert Sarah, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ha espresso la sua inquietudine a Radio Vaticano: “Penso che esista realmente una volontà di annientare i cristiani, di ignorarli, di rifiutare di ammettere che hanno una fede in Dio. Il fatto che sia loro proibito pronunciare il nome di Dio equivale a considerarli dei pagani che quindi devono essere convertiti all’islam.”
Il grande assalto ai cristiani
di Giordano Stabile (La Stampa, 11 gennaio 2010)
Dall’Algeria alla Malaysia passando per l’Egitto, lungo un fronte immaginario lungo diecimila chilometri, le minoranze cristiane nei Paesi musulmani sono sotto attacco. Dopo la strage del Natale ortodosso a Luxor, nei giorni scorsi è stata la volta di Kuala Lumpur, dove le rappresaglie degli islamici contro in centri di culto cristiani sono state scatenate dal verdetto dell’Alta Corte che difendeva il diritto di un settimanale cristiano di usare la parola «Allah» per riferirsi a Dio.
La maggioranza musulmana, il 60 per cento della popolazione contro il 10 per cento di cristiani, lo ha considerato un’offesa gravissima. Venerdì tre chiese sono state attaccate nella capitale, altre sono state date alla fiamme sabato. Ieri, con le chiese della maggiori città presidiate massicciamente dalla polizia durante le messe della domenica, due bombe molotov sono state lanciate contro un convento cattolico e una chiesa anglicana di Taiping, nello stato di Perak, a 300 chilometri da Kuala Lumpur.
Il governo del premier Najib Razak - in cerca di consensi tra i non musulmani per farsi rieleggere nel 2013 - sembrava propenso ad autorizzare l’uso della parola Allah, come sinonimo di Dio, anche nelle celebrazioni dei culti non musulmani. Adesso il verdetto della Corte Suprema è sospeso, proprio per il ricorso presentato dall’esecutivo in difesa dell’esclusivo uso del termine da parte degli islamici.
Disquisizioni teologiche di questo tipo, in apparenza bizantine, sono cruciali in Paesi dove le minoranze religiose faticano a farsi accettare a pieno diritto. In Indonesia, ma anche in Siria e Egitto, l’uso della parola Allah da parte dei cristiani è già autorizzato. Ma mentre nei primi due l’integrazione sta migliorando, in Egitto la condizioni dei copti è drammatica. Secondo molti dei loro leader, il governo del presidente Hosni Mubarak li sta usando come valvola di sfogo per le tensioni sociali che attraversano un Paese sovrappopolato e con poche risorse, ormai fuori controllo.
Ieri la polizia egiziana ha arrestato 42 persone, 14 musulmani e 28 copti, con la accusa di aver fomentato i disordini dopo la strage nella chiesa di Baghorah, vicino a Luxor, nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, giorno di Natale secondo il calendario ortodosso seguito dai copti. Un esito paradossale: pagano i cristiani, dopo che otto di loro sono stati trucidati. Nessuno sviluppo, invece, nelle indagini sul commando che da una automobile aprì il fuoco con fucili mitragliatori sui fedeli, all’uscita dalla chiesa.
Secondo i copti, non c’è la volontà politica di arrivare ai colpevoli. «L’aggressione aveva un obiettivo ben diverso: l’assassinio del vescovo Kirillos . - accusa Ashraf Ramelah, presidente della Voice of Copts -. Kirillos si era rifiutato di accettare le "sedute di pace" organizzate dal governo dopo gli attacchi vandalici contro i beni dei cristiani. Voleva giustizia, non una riconciliazione che equivaleva a una resa». Secondo Ramellah, gli aggressori contro i copti non hanno mai avuto una condanna: «La legge dell’Islam indica che il musulmano non può essere condannato se la vittima non è musulmana - spiega -. Il regime in Egitto ha un unico scopo: la pulizia etnica».
Con oltre otto milioni di fedeli, una storia di 1900 anni che risale a San Marco, la chiesa copta è la più radicata tra le chiese nordafricane. La parola copto deriva da un termine greco, storpiato poi dagli arabi, che significava «egiziani». E i copti si considerano ancora oggi i «veri» egiziani, colonizzati e convertiti a partire dal Settimo secolo dopo Cristo, ridotti a una minoranza sempre più esigua, arroccata nella fede cristiana, un’isola in un mare musulmano.
Nel resto dell’Africa del Nord rimangono solo piccole comunità, anche loro sotto attacco. Ieri la chiesa protestante di Tizi Ouzou, la capitale della regione berbera della Cabilia, in Algeria, è stata incendiata da un gruppo integralisti islamici. Nella regione berbera è presente una delle più importanti comunità protestanti dell’Algeria, circa un migliaio di fedeli. I «barbuti», come vengono chiamati gli islamisti fanatici, la vogliono far sparire.«La violenza verso i cristiani in varie parti del mondo suscita sdegno». Queste le parole di condanna pronunciate dal Papa davanti ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’Angelus, facendo riferimento alla strage in Egitto e ad altri episodi di violenza di questi giorni. «La diversità religiosa non può mai giustificare la violenza, e non può esserci violenza in nome di Dio - ha continuato Benedetto XVI -. Occorre che le istituzioni sia politiche, sia religiose non vengano meno alle proprie responsabilità». «La violenza - ha aggiunto Ratzinger - non sia mai per nessuno la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano. Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un animo, una storia e che Dio lo ama, come ama me».
Come osi dire "Padre"? Ma CHI è il "Padre" tuo?
Una breve considerazione di Erasmo, ad onorem di tutte le gerarchie (laiche e religiose) del nostro tempo.
di Erasmo da Rotterdam *
Quale preghiera, vorrei sapere, recitano i soldati durante [le] messe? Il Pater noster?
Faccia di bronzo! Osi chiamarlo "padre", tu che vuoi tagliare la gola al tuo fratello?
"Sia santificato il tuo nome". Che cosa c’è che disonori il nome di Dio più che queste vostre risse?
"Venga il tuo Regno". Preghi così tu, che con tanto sangue hai edificato la tua tirannide?
"Sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra". Lui vuole la pace e tu prepari la guerra?
"Dacci il nostro pane quotidiano". Chiedi al Padre comune il pane quotidiano tu, che incendi le messi del fratello e preferisci morire di fame tu stesso, piuttosto che egli se ne giovi? Con che fronte pronunci queste parole:
"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", tu, che ti appresti alla strage fraterna?
"E non ci indurre in tentazione". Scongiuri il pericolo della tentazione tu, che con tuo rischio provochi il rischio del tuo fratello?
"Ma liberaci dal male". Chiedi di essere liberato dal male tu, che dal male sei ispirato a ordire il male estremo del tuo fratello? (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509)
Il primato di Dio *
L’invocazione allo Spirito Santo ha introdotto i lavori della seconda assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, aperta a San Pietro da una celebrazione eucaristica dove i canti latini si sono mescolati a quelli del continente africano. In entrambe le occasioni Benedetto XVI ha voluto parlare del primato di Dio, commentando le letture bibliche della messa e riflettendo sull’inno Nunc sancte nobis Spiritus, che la tradizione attribuisce a sant’Ambrogio.
Il Papa è andato direttamente alla radice di quanto è essenziale: sottolineando l’assoluta importanza del disegno divino espressa nella creazione dell’uomo - "a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò" - e ricordando come la venuta dello Spirito, sceso sugli apostoli a Pentecoste, non sia un avvenimento del passato, ma debba essere invocata, come indicano le parole della tradizione liturgica, "ora" (nunc).
Oggi, però, il riconoscimento della signoria di Dio che contraddistingue le culture africane, è messo a rischio - ha denunciato senza mezzi termini Benedetto XVI - da un colonialismo che non si rassegna a morire ed esporta in Africa due pericolose tendenze: da un lato, il materialismo pratico che grava sulle società occidentali e, dall’altro, il fondamentalismo religioso, che usa il nome divino per nascondere intolleranza e violenza.
E come il primato di Dio è contenuto nel disegno originario del matrimonio secondo la parola di Cristo, così esso viene riconosciuto ogni volta che si invoca lo Spirito - ogni giorno, nella preghiera del mattino con le parole dell’inno ambrosiano - perché ricrei la Chiesa e il mondo. A indicare in modo trasparente che la Chiesa non è un prodotto dell’organizzazione umana, ma piuttosto frutto della collaborazione degli uomini con il disegno divino.
Il Papa ha meditato scendendo nel profondo, e spiegando - in perfetta continuità con la tradizione cristiana sin dai primi secoli, davvero come un Padre della Chiesa - come la discesa dello Spirito venga implorata per ogni fibra dell’essere umano. In modo che ognuno possa comprendere le proprie insufficienze, ma anche i mali del mondo, alla luce di Dio. Un Dio che non è lontano, ma al contrario abita nel nostro cuore, come Benedetto XVI ripete instancabilmente. Ricordando sempre che il riconoscimento del primato di Dio comporta l’urgenza di comunicarlo al mondo e, insieme, la necessità di vivere la carità, nello stesso tempo universale e concreta, nei confronti del prossimo, secondo la parabola evangelica del buon samaritano.
Ancora una volta, dunque, il Papa ha stupito tornando all’essenziale, cioè parlando di Dio a proposito di un continente dimenticato nell’informazione internazionale, forse proprio perché sfruttato, o evocato soltanto per i problemi economici e sociali. E ci si può chiedere quanto di questa predicazione chiara e mite di Benedetto XVI - il cui viaggio in Africa è stato quest’anno stravolto da una polemica pregiudiziale e infondata a proposito della lotta contro l’Aids - troverà spazio nei media, che nei suoi confronti sono spesso responsabili di una rappresentazione riduttiva o addirittura ostile, come ha sottolineato di fronte ai rappresentanti degli episcopati europei il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana.
Nonostante tutto, però, il Papa e la Chiesa sanno bene di non essere un gruppo fra i tanti, chiuso e rivolto al proprio interesse. Al contrario hanno consapevolezza di essere chiamati all’universalità della carità. Per fare spazio al primato di quel Dio che vuole - secondo l’espressione cara ai Padri greci - la divinizzazione dell’uomo.
g. m. v.
* ©L’Osservatore Romano - 5- 6 ottobre 2009
Ansa» 2009-07-01 13:09
Enciclica "Caritas in Veritate" verrà presentata il 7 luglio
CITTA’ DEL VATICANO - E’ ufficiale: il Vaticano presenterà l’enciclica del papa ’Caritas in Veritate’ il prossimo 7 luglio.
L’enciclica sarà presentata in una conferenza stampa dal card. Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, dal card. Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, da mons. Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e dall’economista Stefano Zamagni. Si tratta di tutti personaggi che hanno contribuito alla stesura del testo pontificio.
Il libro scritto da Claudio Rendina fa sembrare Dan Brown un principiante
Un’istituzione bimillenaria raccontata nel suo lato peggiore
La "santa Casta" non va in paradiso
I peccati della Chiesa
Ma sulla questione dell’Olocausto l’autore sostiene che Pio XII fece salvare 600 ebrei
In una storia così lunga, per ogni infamia c’è però sempre una virtù
Il caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche è ricco di esempi
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 17.03.2009)
A proposito di odio, morsi, divoramenti in Vaticano e dentro la Chiesa: eh, figurarsi, non è mica la prima volta, da quelle parti la storia offre molto di peggio. E dunque, tenendosi larghi e vaghi, per non dire indulgenti: stragi, avvelenamenti, saccheggi, roghi, torture, idolatrie, simonie, traffici, nepotismi, incesti, pedofilia, riesumazione e vilipendio di cadaveri, con tanto sacri paramenti indosso, e a lungo si potrebbe continuare, secolo dopo secolo, con il soccorso di una imponente documentazione.
A chi invoca a tutto spiano il premiato binomio Radici & Tradizione contro le magagne del presente relativismo; a chi vede la speranza o addirittura intravede la salvezza nel passato trionfale dell’autorità pontificia, forte di valori antichi e inflessibile nella vera fede, si raccomanda vivamente di buttare un occhio su quest’ultimo volume di Claudio Rendina, instancabile erudito che con la consueta asciuttezza si misura questa volta su La Santa Casta della Chiesa (Newton Compton, pagg. 383, euro 12,90). Inevitabilmente suggestivo il sottotitolo: "Duemila anni di intrighi, delitti, lussurie, inganni e mercimonio tra papi, vescovi, sacerdoti e cardinali". Così è, d’altra parte: e continua pure.
Sarebbe ingiusto adesso sminuire il dramma anche personale di Benedetto XVI sulla conduzione della Chiesa. E tuttavia, "nella consapevolezza del lungo respiro che essa possiede", come si legge nella lettera da lui pubblicata l’altro giorno sull’Osservatore romano, occorrerà riconoscere che ad alcuni predecessori di Joseph Ratzinger è andata decisamente peggio; così come altri papi assai più di lui certamente fallirono, o nel modo più spaventoso vennero consigliati, altro che mancata consultazione "mediante l’internet". Il campionario di Rendina, le cui diverse cronologie e gli approfondimenti di storia pontificia si trovano pur sempre nelle librerie intorno alla Santa Sede, offre in questo senso una rimarchevole varietà di esempi: papi eletti tre volte, papi saliti sul sacro trono a suon di quattrini, papi mezzi atei o interamente pagani, papi davvero molto attaccati alle loro famiglie, tanto da battezzare il "nepotismo", papi assassini, bruti, spergiuri, ladroni, perversi, dementi e biscazzieri. Ce n’è uno, Giovanni XII, probabile record-man dei secoli bui, che nominò vescovo il suo amante, un ragazzino di 10 anni, e che scoperto a letto con l’amica, venne poi buttato giù dalla finestra. Ce n’è un altro ben più famoso, Alessandro VI, della famiglia Borgia, che ne fece a tal punto di cotte e di crude, pure la corrida sotto il Cupolone, che nei santini distribuiti "in solemnitate pascali" lo scorso anno nella basilica di San Pietro, e recanti l’immagine de La Resurrezione di Cristo del Pinturicchio, ecco, quel papa lì, che per giunta era il committente dell’opera, ecco, risulta cancellato dal quadro, come nelle foto della nomenklatura sovietica dopo le purghe.
E saranno anche vicende che si perdono nella notte dei tempi, cosa ovvia per un’istituzione bimillenaria. Ma insomma, prima di Rendina, il peccato che sin dall’inizio grava sulla Chiesa ha del resto ispirato la più alta poesia e letteratura, da Iacopone a Dante, da Petrarca fino al Belli, e oltre.
Tutto però sembra oggi rimosso dal discorso pubblico e in particolare dall’armamentario teo-con - secondo l’antica pratica, peraltro evangelica, della pagliuzza e della trave. Dai primissimi commerci di loculi e reliquie nelle catacombe alla controversa carriera dell’odierno comandante delle Guardie Svizzere; dalle torture dell’Inquisizione alle turpi pratiche del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, su degli innocenti; dalle cortigiane che nella Curia cinquecentesca si comportavano come autentiche "papesse" fino alle speculazioni edilizie post-risorgimentali, il libro di Rendina certamente si presenta come un caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche, un prontuario di immoralità vaticana da far sembrare Dan Brown uno sprovveduto principiante.
Ma al dunque si può e forse addirittura si dovrebbero leggere, queste pagine, come un saggio storico sulla genealogia e gli sviluppi imprevisti di un potere che più di ogni altro sulla faccia della terra costringe degli uomini con la mantella bianca a fare i conti con l’essenza del sacro e al tempo stesso con le inesorabili necessità del profano; e quanto più tale sovranità si concentra sulla materia, sui corpi, sul denaro, sulle apparenze, tanto più automaticamente ne risente lo spirito o lo Spirito, se si preferisce. E sebbene anche per Santa Romana Chiesa i tempi sono quelli che sono, tempi di paure, di ritorni, di sbarramenti, sarebbe sbagliato liquidare questa torbida rievocazione come parte del solito complotto laicista. E non solo perché l’autore è fuori dai giri e anzi, per dire, sulla questione delle responsabilità di Pio XII nell’Olocausto sposa la tesi opposta, sostenendo che la Santa Sede mise in salvo 600 mila ebrei "con un impegno finanziario non indifferente". Ma soprattutto perché da una lettura distaccata e senza pregiudizi appare chiarissimo come in una storia così lunga e così umana per ogni infamia c’è sempre un’eroica virtù; e quindi a ogni mascalzone della Santa Casta corrisponde un santo, a ogni sacro carnefice o barattiere un Francesco d’Assisi, a ogni Borgia un Filippo Neri, a ogni Marcinkus una Madre Teresa di Calcutta.
Questa necessitata ambivalenza si meriterebbe forse una maggiore umiltà. Adesso, per dire, c’è la crisi. Quando se ne videro i primi effetti, nell’autunno scorso, un intelligente uomo di banca, nonché autorevole editorialista dell’Osservatore romano, Ettore Gotti Tedeschi, già segnalatosi per aver consigliato ai manager di fare gli esercizi spirituali, ha spiegato grosso modo in un’intervista che alle origini del disastro finanziario c’è l’etica dei banchieri protestanti, mentre i nostri uomini di finanza, cioè cattolici, "sono in grandissima parte seri, trasparenti e dotati di visione etica".
E meno male che c’è da stare tranquilli! Però poi subito viene da pensare ai bacetti di Fiorani al pio governatore Fazio, o al crack Parmalat e al mega-cattolico Tanzi che scarrozzava cardinali con il suo aeroplano; ed è un peccato che non si possa sentire al riguardo Nino Andreatta, che fu ministro del Tesoro ed ebbe il suo da fare ai tempi dello scandalo Ior; per non dire Sindona e Calvi, poveri morti ammazzati, entrambi a suo tempo "banchieri di Dio".
Che invece Iddio non ne avrebbe tanto bisogno, di banchieri personali o nazionali, a differenza del Vaticano, che invece sono duemila anni che si accanisce e si avvilisce appresso a Mammona in forma di tariffe penitenziali, vendita d’indulgenze, proficue crociate, fabbricazione di giubilei, peripezie valutarie, funambolismi azionari e finanziari. E che magari adesso, in qualche missione "sui iuris" alle Cayman, qualche titoletto tossico nel portafoglio se lo potrebbe anche ritrovare, come del resto è già capitato nelle migliori famiglie della finanza.
Dell’economia e perciò anche della crisi e delle sue vittime il Papa, che ha già detto tante buone parole, pubblicherà presto un’enciclica sociale, "Caritas in veritate". Il titolo suona piuttosto impegnativo, ma certo un gesto simbolico non guasterebbe. Nel frattempo, rispetto a odio, morsi, divoramenti e umane debolezze, vale comunque il salmo 129: "Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?". Se consideri solo le colpe, o Signore, chi mai potrà esistere?
Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica (12 marzo 2009)
Riguardo alla remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre
Cari Confratelli nel ministero episcopale!
La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio - passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che - come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II - anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri - anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica - non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" - istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa - con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu ... conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - per l’ecumenismo - è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce - è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia - è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti - per quanto possibile - nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 - 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?
Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà - anche in tempi turbolenti.
Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore
* BENEDETTO XVI (Avvenire, 13.02.2009).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PAPA SCOMUNICATO
di Gérard Bessières
FUORI DALLA COMUNIONE DELLA CHIESA: LÀ UN SACERDOTE FRANCESE RELEGA IL PAPA DOPO LA REVOCA DELLA SCOMUNICA AI LEFEBVRIANI. *
Gérard Bessières, autore di questa lettera inviata alla rivista francese “Témoignage Chrétien” (5/2/2009), è un prete .
È enorme, è vero, sproporzionato rispetto alla mia umile persona! Ma è bene che lo confessi, non posso nasconderlo agli amici: ho scomunicato Benedetto XVI. Proprio quando lui aveva appena ritirato la scomunica ai vescovi integralisti...!
Non mi prendete sul serio? Eppure è vero. Che cosa è successo? A fine gennaio, quando Roma ha reintegrato questi quattro vescovi scismatici senza tenere in gran conto il loro rifiuto del rinnovamento dell’ultimo concilio, del riconoscimento della libertà religiosa, dell’ecumenismo, dell’apertura al mondo, e non vado oltre, ho smesso di nominare il vescovo di Roma nella preghiera eucaristica.
Notate che non l’ho inventato io un simile silenzio. Nelle Chiese antiche - sentite come sono portato verso la Tradizione - quando c’erano delle zuffe, spesso passeggere, si smetteva di fare menzione durante la messa dei compagni con cui si era in lite. Li si nominava di nuovo quando si erano sistemate le cose. Dunque non gridolini ipocriti, non sospiri verso l’unità, ma dichiarazioni nette di disaccordo fino a che tutto fosse chiarito.
Allora ho fatto lo stesso.
E poi, quando è troppo è troppo. Dopo la gaffe di Ratisbona, la nomina a Varsavia di un arcivescovo (mons. Stanislaw Wielgus, ndt) ex informatore della polizia comunista, che ha dovuto licenziare sulla soglia della cattedrale, la creazione di un priorato per quattro preti integralisti in barba all’arcivescovo di Bordeaux, la possibilità offerta a questi integralisti dipendenti direttamente da Roma di aprire un seminario (cosa che rivelava, dietro i richiami tremolanti all’unità, una strategia di restaurazione di una Chiesa “all’antica”), ecco che si fanno ancora delle avances ai discepoli ostinati di mons. Lefebvre!
Toglierò un giorno la scomunica? Servirebbero dei segni concreti di pentimento e di fedeltà agli orientamenti del Vaticano II.
Purché non io mi faccia trattare da scismatico... Ma può darsi che in quel momento, ci si occuperà di me, mi si incoraggerà a celebrare la messa nella lingua della mia vita, con la gente, senza volgere loro la schiena, può anche darsi che ci si preoccuperà della loro libertà di coscienza, che condivideranno le loro attese, quali che siano la loro religione, le loro convinzioni e i colori delle loro anime. Volgendosi risolutamente verso il futuro! Con qualcuno, un ebreo, che sembra un po’ dimenticato a Ecône e che non parlava latino: Gesù.
Articolo tratto da
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Nessuno tocchi il Concilio Vaticano II
Appello ai cattolici contro la revoca della scomunica ai lefebvriani
di Paolo Farinella - Genova
Come cattolico che rappresenta solo se stesso, ed eventualmente anche chi volesse firmare questa dichiarazione, desidero esprimere tutta la mia preoccupazione e il mio sconcerto per le scelte che papa Benedetto XVI sta mettendo in atto per riportare la chiesa al tempo prima del concilio e anche oltre. L’autorizzazione generalizzata della Messa preconciliare, sottratta all’autorità dei vescovi, costituì, come oggi appare evidente, la premessa per giungere all’abolizione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre senza mandato apostolico.
E’ buona cosa ristabilire l’unità della e nella Chiesa, ma nessun papa può togliere una scomunica se non vengono rimossi i motivi per cui un altro papa l’ha dichiarata. Dalle dichiarazioni pubbliche degli interessati e dei loro seguaci risulta che essi leggono il gesto unilaterale del papa come un’ammissione della validità delle loro posizioni e quindi come un risarcimento dovuto. Dichiarano, inoltre, che nessuna condizione gli è stata posta, tanto meno una dichiarazione di accettazione del concilio Vaticano II che ritengono non compatibile con la tradizione. I lefebvriani, infatti, affermano di essere disposti a dare il sangue per la Chiesa, ma di non potere accettare il concilio Vaticano II «diverso dagli altri» (leggi: eretico) per cui la loro fedeltà si ferma al Vaticano I.
Togliere la scomunica senza porre la condizione della previa adesione al magistero del concilio Vaticano II, è un atto immorale, causa di scandalo per tutti coloro che per fedeltà ad esso hanno sofferto, sono stati emarginati, ridotti al silenzio, perseguitati, privati dell’insegnamento, ridotti allo stato laicale. Senza una previa accettazione del concilio Vaticano II, togliere la scomunica appare ai semplici come complicità con gli scismatici, facendo apparire il papa come papa di parte e non papa cattolico.
Il caso del vescovo lefebvriano, Richard Williamson, che nega l’Olocausto, non può suscitare sdegno o meraviglia, perché l’antisemitismo è parte integrante della teologia lefebvriana che è quella della chiesa preconciliare ed è uno dei motivi per cui essi non accettano il concilio di papa Giovanni XXIII. La loro teologia giudica gli Ebrei colpevoli di «deicidio» e quindi reprobi dell’umanità. Il papa sapeva e sa qual è la posta in gioco: i lefebvriani negano l’ecumenismo, la libertà di coscienza, la libertà religiosa come è sancita nei documenti conciliari, firmati da un papa e da oltre due mila vescovi di tutto il mondo. Tutti i tentativi per ridurre il danno delle dichiarazioni blasfeme e ignobili di Williamson sono patetici e portano in grembo conseguenze che ancora non possiamo immaginare. Il papa ha sbagliato e diffonde confusione tra i fedeli, incrinando la credibilità dei cattolici nel mondo, mettendo a rischio l’ortodossia stessa che tanto gli sta a cuore.
Se il papa è giusto deve applicare stessa «compassione» e lo stesso trattamento di accoglienza privilegiato e senza condizioni, riservato ai lefebvriani; e con le stesse modalità e la stessa tempistica lo deve estendere alle teologhe e teologi della teologia della liberazione dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa, dell’India, ai teologi degli Usa e dell’Europa; ai laici e religiosi allontanati dall’insegnamento o dalle attività pastorali; a coloro che sono stati umiliati, angariati e costretti al silenzio; a tutti quelli che hanno la colpa di avere lavorato per una Chiesa più evangelica, alla luce degli insegnamenti della Pentecoste del concilio ecumenico Vaticano II; a tutte le comunità di base del continente latinoamericano, rigogliosissimo frutto della Pentecoste conciliare, che sono state considerate scismatiche, mentre erano solo fedeli al vangelo e al Vaticano II.
Nessuno tocchi il concilio Vaticano II! Chiediamo che i vescovi gridino con la forza del sacramento davanti al papa, in ginocchio ma con la schiena dritta il loro «non possumus». Noi li seguiremo, altrimenti saremo costretti anche andare da soli, come stiamo già facendo. Per il bene della Chiesa sarebbe opportuno che il papa Benedetto XVI rassegnasse le sue dimissioni.
Genova 04 febbraio 2009
Paolo Farinella - Genova
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Un’analisi ed un appello
Sguardo sull’orticello vaticano, ovvero Del papa anticonciliare
di Paolo Farinella, prete
La gerarchia smarrita
Apparentemente le scelte dell’attuale papa sono incidenti di percorso, accaduti per scarsa valutazione. Io penso che siano scelte calibrate e decise all’interno di una strategia puntuale. Lo avevo anticipato nel luglio 2007 con uno scritto pubblico e ora i fatti confermano quelle previsioni che anche un cieco poteva vedere anche nel buio pesto di una notte tenebrosa. Ho appena terminato un lungo articolo che verrà pubblicato da MicroMega nei prossimi mesi in cui, documenti alla mano, credo di dimostrare quanto ho appena affermato, è cioè che in Vaticano nulla accade per caso o errore, ma tutto avviene per calcolo e programmazione. I passaggi della strategia ratzingeriana sono:
1. Ripristino della Messa preconciliare che quasi tutti banalizzarono come ritorno alla “Messa in latino”.
2. Dichiarazione che solo la chiesa cattolica è «pienamente» chiesa, mentre le «chiese» cristiane non lo sono neanche analogicamente.
3. Discorso di Ratisbona, fatto apposta per mettere l’Europa di fronte a ciò che potrebbe accadere se non rafforza le sue radici cristiane. Lo stesso discorso aveva la valenza di parlare al mondo intellettuale musulmano dicendo che l’Europa è un pericolo per qualsiasi religione.
4. Il Vaticano mandò i propri ambasciatori in tutti i paesi musulmani, instaurando rapporti di relazione.
5. Il papa convoca gli ambasciatori arabi presso il Vaticano per spiegare di essere amico dei loro paesi.
6. Il mondo musulmano rispose subito con una lettera di 38 saggi che dichiarano importante la lezione di Ratisbona.
7. Nel primo anniversario di Ratisbona, un gruppo di 138 intellettuali islamici scrivono al papa una lettera deferente e dialogica
8. Nell’ottobre 2008 si svolge a Istanbul il VI Simposio islamo-cattolico sul tema di Ratisbona “Rapporto tra ragione e fede nell’islam e nel cristianesimo”.
9. Pochi giorni dopo, in Vaticano si svolge un Seminario a cui partecipano una sessantina di persone metà cattoliche e metà musulmane sul tema della prima enciclica: «L’amore di Dio nel cattolicesimo e nell’islam». Viene anche ripresa e commentata la lettera dei 138 saggi musulmani.
10. Nel saluto iniziale, il rappresentante musulmano afferma: «Dovremmo unirci nella lotta contro le forze dissacranti e anti-religiose del mondo moderno e questo sforzo comune dovrebbe avvicinarci maggiormente». Come voleva dimostrare.
11. L’incontro col mondo musulmano contro il mondo moderno «relativista» e ateo non può avvenire con i cristiani formati alla scuola del concilio Vaticano II, che anzi è un ostacolo a questa strategia e per questo deve essere archiviato al più presto.
12. L’incontro con il musulmani può avvenire su un solo campo: la tradizione che garantisce una approccio fondamentalista sia con le Scritture che con la società.
13. A questo scopo urge l’abolizione unilaterale della scomunica ai lefebvriani, pur restante intatte le ragioni e i motivi per cui la scomunica fu dichiarata da Giovanni Paolo II. Un papa che ritira una scomunica senza che le cause che la produssero siano state eliminate o è fuori di testa o ha un obiettivo per il quale qualsiasi prezzo è esigibile.
14. Dopo i lefebvriani si ammetteranno nella Chiesa cattolica i fuoriusciti anglicani che rifiutano le apertura della confessione di Canterbury; la Chiesa diventa così un ricettacolo di “passatisti”, di tradizionalisti irriducibili, di fondamentalisti che saranno pronti a marciare contro il mondo moderno per una nuova Lèpanto.
15. Il prossimo passaggio sarà: dichiarare la Messa di Paolo VI «forma straordinaria» e quella tridentina, tanto amata dai lefebvriani «forma ordinaria». A questo punto il concilio non esiste più, tutto ritorna come era prima, si compie la profezia del cardinale Giuseppe Siri (Ci vorranno cinquant’anni per riparare i guasti di Giovanni XXIII e del concilio), di cui si stanno pubblicando gli scritti; il cerchio si chiude.
16. Ormai cattolici e musulmani possono incontrarsi e mettersi d’accordo, fondamentalisti con fondamentalisti, come condizionare attraverso le proprie masse i governi e le legislazioni europee.
La gerarchia senza l’oste
Questa a mio pare la strategia e tutto è logico e coerente, e tutto può accadere, se ... tutto dipendesse dal papa, ma il papa non è Dio e in tutta questa vicenda sta dimostrando di contare molto di più sulla sua restaurazione che sullo Spirito Santo.
Il papa è un illuso se crede di fermare e addirittura di rivoltare la storia all’indietro. Si rassegni potrà solo rallentare un cammino, ma mai bloccarlo. La sua stessa storia e una teoria di papi che hanno detto e fatto una catena di corbellerie lo dimostrano.
Mi auguro che il mondo cattolico reagisca e non subisca supinamente o peggio si rassegni. Mi auguro che singoli, gruppi, associazioni, ecc. manifestino il loro dissenso ai propri vescovi e al papa stesso attraverso lettere, cartoline, telegrammi, sms, e-mail o quello che si vuole.
La Germania ha cominciato, ora tocca a tutti continuare senza paura e senza ritardi. Lo stesso trattamento (e con la stessa fretta) riservato agli scismatici lefebvriani, noi pretendiamo per tutti i teologi e teologhe fedeli al concilio che in America Latina, in India, in Asia, in Africa, in Europa e negli Usa sono stati privati dell’insegnamento, della dignità, del sacerdozio, del ministero ... Non possiamo tollerare due pesi e due misure. Se il papa può andare indietro, noi pretendiamo di andare avanti e crediamo di avere più fede di lui nello Spirito Santo che guida la storia verso il Regno di Dio.
Non lasciamoci strappare dalle mani e dal cuore il Concilio Vaticano II che per altro è un concilio incompiuto e lavoriamo perché si arrivi ad un nuovo concilio dove tutto il popolo di Dio possa essere rappresentato.
Forse non sarebbe un male se chiedessimo a gran voce le dimissioni di Benedetto XVI che oggi è causa di divisone nella chiesa, di confusione per molti e di scandalo per altri.
Genova 4 febbraio 2009
Paolo Farinella, prete
Ansa» 2009-01-13 18:32
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
GOD IS LOVE - My first Encyclical, Deus Caritas Est
DIO E’ AMORE - Mia prima Enciclica, Deus Caritas est *
[...] The Christian tradition proclaims that God is Love (cf. 1 Jn 4: 16). It was out of love that he created the whole universe, and by his love he becomes present in human history. The love of God became visible, manifested fully and definitively in Jesus Christ. He thus came down to meet man and, while remaining God, took on our nature. He gave himself in order to restore full dignity to each person and to bring us salvation. How could we ever explain the mystery of the incarnation and the redemption except by Love? This infinite and eternal love enables us to respond by giving all our love in return: love for God and love for neighbour. This truth, which we consider foundational, was what I wished to emphasize in my first Encyclical, Deus Caritas Est, since this is a central teaching of the Christian faith. Our calling and mission is to share freely with others the love which God lavishes upon us without any merit of our own. [...]
[...] La tradizione cristiana proclama che Dio è Amore (cfr. 1 Gv 4, 16). È per amore che ha creato tutto l’universo, e con il suo amore si fa presente nella storia umana. L’amore di Dio è divenuto visibile, manifestato in maniera piena e definitiva in Gesù Cristo. Così egli è disceso per incontrare l’uomo e, pur rimanendo Dio, ha assunto la nostra natura. Ha donato se stesso per restituire la piena dignità a ogni persona e per portarci la salvezza. Come potremmo spiegare il mistero dell’incarnazione e della redenzione se non con l’Amore? Questo amore infinito ed eterno ci permette di rispondere dando in cambio tutto il nostro amore: amore verso Dio e amore verso il prossimo. Questa verità, che consideriamo fondante, è ciò che ho voluto evidenziare nella mia prima Enciclica, Deus Caritas est, poiché è un insegnamento centrale della fede cristiana. La nostra chiamata e la nostra missione sono di condividere liberamente con gli altri l’amore che Dio ci prodiga senza alcun merito da parte nostra [...]
*
Si cfr.:
Il Papa incontra i partecipanti al primo seminario del forum cattolico-musulmano
Il nome di Dio può essere solo
un nome di pace e fratellanza, Osservatore Romano, 7 novembre 2008
TUTTO IL POTERE AL DENARO
di Mario Pancera
Fascismo e berlusconismo all’esame dei cattolici *
Affarismo ed egoismo sono i due elementi principali, o almeno i più vistosi, del berlusconismo come si è sviluppato nella politica italiana in questi ultimi dieci anni. Sono d’accordo sacerdoti, giornali e opinionisti cattolici. Per quanto appare da parole e azioni, si tratta di un egoismo individuale e di gruppo. Questo porta molti a considerare il berlusconismo una sorta di fascismo, ben diverso, naturalmente, da quello mussoliniano, che pur essendo dispotico agitava un’ideologia di grandeur nazionale, che nel secolo scorso incontrò molti consensi.
Il sociologo e psicanalista austriaco Wilhelm Reich, a differenza di quel che era il comune sentire, sosteneva nel 1933 che «”il fascismo” è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e della sua concezione meccanicistico mistica della vita». E aggiungeva: «Il carattere meccanicistico mistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa». È un errore considerare il fascismo prodotto di una etnia o di un popolo o di «una piccola cricca reazionaria»: è un fenomeno «internazionale che corrode tutti i gruppi della società umana di tutte le nazioni».
Ben conscio della responsabilità di queste affermazioni, lo studioso sottolineava gli aggettivi «internazionale» e «tutte», affermando tra l’altro che il fascismo «non è un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emozioni “ribelli” e idee sociali reazionarie». Lasciamo naturalmente al sociologo, che spiegava la sua teoria in «Psicologia di massa del fascismo», la sua intera responsabilità, ma alcuni elementi, anche in questo rapido riassunto, sono evidenti anche oggi.
Il fascismo mussoliniano aveva, in effetti, un Credo; si basava su giuramenti; propugnava una sua mistica; aveva parole d’ordine come credere, obbedire, combattere, ed aveva divise, emblemi e riti che colpivano l’immaginazione e i sentimenti popolari (ovvero quelle masse di individui che secondo Reich hanno già il fascismo dentro di sé: ribelli e reazionari insieme). Il berlusconismo è diverso? È un fatto che, negli ultimi decenni, a partire dagli anni in cui ancora non era movimento politico ma solo un insieme di società di affari, ha avuto ed ha ancor oggi copiosi consensi, ha ottenuto i voti di vere masse di elettori.
Può essere che abbia in sé ribellione (non rivoluzione, che è cosa diversa) e insieme idee sociali reazionarie? L’egoismo e l’affarismo - in pratica, tutto il potere al denaro - appaiono chiaramente attraverso i mass media, peraltro aggrediti ogni giorno con l’accusa di essere prezzolati, mentitori e pregiudizialmente ostili.
Le espressioni berlusconiane «Forza Italia» e «Popolo della libertà» non indicano due partiti o movimenti con una ideologia fondante, sia pure di tipo mussoliniano, ma sono slogan adattabili a realtà diverse che vanno dallo sport al qualunquismo ovvero al mercato. È sempre più usata la frase «favorire i consumi». Il cervello, l’intelligenza, lo studio sono ai margini: si lavora e si è pagati per consumare. Altro che figli di Dio. La vita è la vita del consumatore, non dell’uomo pensante oltre che consumante. Lo spirito non è nemmeno ai margini: non se ne parla affatto. Intendo lo spirito sia in senso laico, sia religioso.
Perfino i colori dei seguaci di questi movimenti sono indicativi della mistica del berlusconismo: gli azzurri (che richiamano gli sport e quindi grandi masse di manovra) e la bandiera biancorossoverde attraversata dal loro slogan; ma anche il continuo riferimento alla «gente» in maniera indeterminata e l’inno «Forza Italia» cantato con la destra sul petto come in un rito religioso. Rari e d’occasione i richiami ai lavoratori, al popolo, ai cittadini, che erano invece d’obbligo nei partiti tradizionali, democristiano, socialista, comunista, repubblicano e liberale.
Il berlusconismo si manifesta quindi come ribelle e nello stesso tempo con idee sociali reazionarie? La spinta a spendere, non a lavorare per emanciparsi, cioè non a lavorare per essere ma a lavorare per consumare (che è un subdolo attacco ai valori del cristianesimo); le affermazioni del tipo «meno libertà in cambio di più sicurezza»; l’avversione per la democrazia parlamentare (lo notano anche eminenti politologi cattolici), il tentativo di restringere sempre più il numero dei partiti dell’opposizione, di limitare la libertà di cronaca dei mass media e di non concedere ai cittadini il diritto di scelta sulle schede elettorali: tutto questo è fascismo?
Mario Pancera
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
INTERVISTA.
Per il sociologo Jacques T. Godbout «la logica del regalo non può sostituire quella del mercato, però può riuscire a correggerla»
Dono, antidoto al capitalismo
«L’atto del dare senza contropartita esprime la massima intensità dei legami sociali, poichè presuppone sempre la fiducia nell’altro»
«La sua semplicità apparente, la sua forza, la sua sincerità ricordano da vicino la nozione cristiana di ’stato di grazia’»
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 28.10.2008).
« I regali e i doni circolano al servizio del legame sociale. Essi presuppongono sempre una fiducia nell’altro. E dunque un rischio. Sta in quest’incertezza il cuore affascinante dell’atto del donare». Ad esserne convinto è il sociologo canadese francofono Jacques T. Godbout, fra i maggiori esponenti del Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali). Di Godbout, Vita e Pensiero ha appena pubblicato in Italia il saggio Ciò che circola fra noi (pagine 392, euro 22,00), già al centro di tanti appassionati dibattiti in Francia e che sarà presentato oggi alla Libreria Vita e Pensiero della Cattolica di Milano (largo Gemelli, 1, ore 13.30) da Mauro Magatti, Pierangelo Sequeri e Stefano Zamagni. Anche in tempi di crisi finanziaria, Godbout non ritiene possibile che la logica del dono possa un giorno sostituirsi a quella di mercato. Ma per il sociologo, oggi più che mai è urgente riflettere sul valore insostituibile degli scambi senza un’immediata contropartita.
Professore, ciò che circola fra le persone resta ancora in parte un mistero per i sociologi?
«In parte, sì. E ciò che circola sotto la forma del dono resterà probabilmente sempre un po’ misterioso. Eppure, si tratta di ciò che esprime al più alto grado l’intensità dei legami sociali. Almeno rispetto agli altri legami, certo anch’essi importanti, che hanno per sfondo gli scambi di mercato e le politiche degli Stati».
La voglia di offrire sembra contraddire la frase attribuita a Sartre secondo cui l’inferno sarebbero gli altri...
«Dopo tanti anni di ricerche in diversi Paesi, sono giunto alla conclusione personale che la voglia di donare è connaturata all’uomo. Si tratta di un modo di far circolare qualcosa che impegna gli individui in prima persona. Certo, il dono può essere talora formalizzato e volto a uno scopo preciso, come nel caso dei regali che si scambiano nel mondo degli affari. Ma non è questa, a mio avviso, la forma di dono più interessante».
Perché?
«In questi casi, il dono è perlopiù un mezzo per propiziare nuovi affari. Al contrario, esistono doni che sono essi stessi un fine e che non richiedono direttamente una contropartita. Già lo stesso dono d’impresa acquista una certa autenticità quando è offerto con sincerità. Ovvero, per ringraziare l’altra parte ed esprimerle la propria stima. In questi casi, il dono entra in uno spazio ambiguo in cui è percepito al contempo come mezzo e come fine. E sta in fondo sempre in quest’ambiguità la natura paradossale del dono. Certi studiosi hanno cercato di forzare questo paradosso, spiegando che il dono ha sempre una contropartita. A mio avviso, invece, il paradosso del dono come mezzo o come scopo non ha una vera soluzione. Nel senso che questo paradosso definisce l’incertezza e il rischio sempre connaturati nell’atto del donare».
Chi cerca di spiegare il dono, impiega talora la nozione cristiana di ’stato di grazia’. Perché?
«Il dono trasporta sempre un messaggio e talvolta questo messaggio è espresso molto meglio dal dono che da qualunque discorso. Il dono può dunque funzionare anche come una semplificazione rispetto ad altri modi di gestire le relazioni sociali. E la sua semplicità apparente, la sua forza, il suo legame con la sincerità hanno in effetti spinto certi autori a riferirsi alla nozione di grazia».
Il dono è davvero una costante umana che si ritrova in tutte le culture?
«Personalmente, sono convinto di ciò, anche se nessuno potrà mai possedere gli elementi per dimostrarlo, dato che occorrerebbe passare in rassegna tutte le culture della storia dell’umanità. Ma quando si comincia ad intuire il meccanismo del dono, diventa difficile immaginare una società capace di privarsi di tale meccanismo. L’alternativa sarebbe un mercato assoluto e totalitario, oppure una ridistribuzione statale dello stesso tipo. Ma ciò escluderebbe ogni tipo di libertà e sembra apparentarsi più a una società di formiche che a una società di persone umane. Se tutto circolasse sotto forma di beni di mercato o di ridistribuzioni statali, forse non saremmo più umani».
Nelle culture rurali, esiste un legame fra l’atto del donare e il dono esemplare ricevuto dalla terra e dalla natura?
«Credo di sì. E sta qui il dramma forse più profondo dell’odierno tentativo di certe multinazionali di brevettare le sementi per estrarle così del tutto dalla sfera del dono ed immetterle in modo forzato nei circuiti di mercato. Beninteso, i rapporti di mercato sono indispensabili ed estremamente importanti a livello sociale. Ma le loro possibili prevaricazioni ai danni del dono possono avere conseguenze molto dolorose».
Esiste dunque oggi una certa tensione fra la socializzazione fondata sul dono e le logiche di mercato?
«Ciò avviene laddove il legittimo e naturale scambio di mercato è contaminato da forme di nevrosi produttiviste. In altri termini, dall’aspirazione folle di ridurre tutto ciò che circola fra gli individui a forme più o meno mascherate di comportamenti di mercato. Su grande scala, ciò diventa un’ideologia che considera il dono come un’azione inutile e anzi quasi dannosa. Si tratta di un’ideologia che vorrebbe strumentalizzare tutto, compresa la natura».
Il dono è anche associato a un’ideale di giustizia sociale e planetaria?
«Sì, quando entra in gioco un’altra logica non meno importante, che si osserva ad esempio nel dono a distanza. Si pensi al dono del sangue, di organi, alle donazioni in occasione di catastrofi naturali o a quelle verso istituzioni di solidarietà. In questi casi, l’idea di giustizia può entrare in gioco se pensiamo di dare a chi ha avuto dalla vita meno di noi, almeno a livello materiale. Ma la libertà e l’autonomia morale dell’individuo restano protagonisti, al punto che certe persone possono trovare in ciò pienamente il senso della propria vita».
“Sia santificato il tuo nome” Vi siete mai chiesti perché in questa preghiera Gesù mise la santificazione del nome di Dio al primo posto? Questo nome era chiaramente di vitale importanza “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!” - Gesu’ disse. CEI. “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. Per comprenderlo, occorre capire come erano considerati i nomi nei tempi biblici.-- Adamo la chiamò “Donna” (’Ishshàh, in ebraico). In seguito egli le mise nome Eva, che significa “Vivente”, perché “doveva divenire la madre di tutti i viventi”. Presso gli israeliti, però, i nomi non erano semplici etichette. Avevano un significato. Per esempio, il nome di Isacco, “Risata”, ricordava la risata dei suoi anziani genitori quando era stato detto loro che avrebbero avuto un figlio. Il nome di Esaù significava “Peloso”, Dio; a volte cambiò il nome di certe persone, o gliene diede un secondo, per indicare il ruolo che avrebbero avuto nel suo proposito. Per esempio, quando Dio predisse che il suo servitore Abramo (“Padre di esaltazione”) sarebbe divenuto padre di molte nazioni, gli cambiò nome in Abraamo (“Padre di una moltitudine”). E cambiò il nome della moglie di Abraamo, Sarai (“Litigiosa”), in Sara (“Principessa”), dato che sarebbe stata la madre del seme di Abraamo. La Bibbia dice che Dio chiama tutte le stelle per nome. Un dizionario teologico del “Nuovo Testamento” dice: “Una delle più fondamentali ed essenziali caratteristiche della rivelazione biblica è il fatto che Dio non è privo di nome: ha un nome personale, mediante il quale può e deve essere invocato”. Tenendo presente tutto questo, è chiaro che è importante conoscere il nome di Dio. Sapete qual è il nome personale di Dio? Eppure molte Bibbie moderne non contengono questo nome, e nelle chiese lo si sente di rado. Perciò, lungi dall’essere “santificato”, è stato nascosto a milioni di lettori della Bibbia. Perché il nome di Dio appare in forme così diverse? Il suo nome è ‘Signore’, l’Eterno, Jahveh o Jehova? O l’uno vale l’altro? Tradurre la Bibbia è quindi un’onerosa responsabilità. Se qualcuno, di proposito, cambia o omette parte del contenuto della Bibbia, sta alterando la Parola ispirata. Dio toglierà la sua parte dagli alberi della vita”. Qual è il vero nome di Dio? In ebraico si scrive .יהוה Queste quattro lettere, chiamate Tetragramma, in ebraico si leggono da destra a sinistra e in molte lingue moderne si possono rappresentare con YHWH o JHVH. Il nome di Dio, rappresentato da queste quattro consonanti, ricorre quasi 7.000 volte nell’originale “Antico Testamento”, o Scritture Ebraiche.
Questo nome è una forma del verbo ebraico hawàh ,)הוה(che significa “divenire”, e in effetti significa “Egli fa divenire”. Perciò il nome di Dio lo identifica come Colui che adempie progressivamente le sue promesse e realizza immancabilmente i suoi propositi. Solo il vero Dio potrebbe portare un nome così significativo. Come si pronuncia il nome di Dio?
A dir la verità nessuno sa con certezza come si pronunciasse in origine il nome di Dio. Finché l’ebraico antico continuò a essere una lingua d’uso quotidiano, non ci fu nessun problema. La pronuncia di questo nome era nota agli israeliti, per cui quando lo vedevano scritto vi aggiungevano automaticamente le vocali (così come per il lettore italiano, ad esempio, l’abbreviazione “cfr” sta per “confronta”, e “btg” per “battaglione”oppure;"plzz"...con le vocali,"palazzo" ). Quale pronuncia userete? Da dove hanno origine invece le pronunce “Jahveh”, “Yahweh”, e simili? Si tratta di forme suggerite da studiosi moderni nel tentativo di ricostruire la pronuncia originale del nome di Dio. Alcuni - ma non tutti - pensano che prima del tempo di Gesù gli israeliti probabilmente pronunciavano il nome di Dio “Yahweh”. Ma nessuno può esserne certo. Forse lo pronunciavano così, forse no.
Nondimeno, molti preferiscono la pronuncia “Geova”. Perché? Perché, a differenza di “Yahweh”, è nota e comune. Ma non sarebbe meglio usare la forma che potrebbe avvicinarsi di più alla pronuncia originale? Non necessariamente, perché questo non è ciò che di solito si fa con i nomi biblici.
Come esempio principale, prendiamo il nome di Gesù. Sapreste dire come lo chiamavano nel parlare quotidiano i suoi familiari e amici mentre cresceva a Nazaret? In effetti nessun uomo lo sa con certezza, anche se forse lo chiamavano Yeshua (o forse Yehoshua). Una cosa è certa: non lo chiamavano Gesù.
Perché bisogna conoscere il nome di Dio
“CHIUNQUE invoca il nome di Geova sarà salvato”.
IL NUOVO PATTO CHIESA CATTOLICA E STATO "ITALIANO"
Forza Italia: una social card per tutti
Sinodo: una Bibbia in ogni casa
Una nota sul documento finale del Sinodo dei Vescovi, 2008:
UN MESSAGGIO tutto VECCHIO!!! APRIRE LE PORTE... AL PASSATO!!!
Caro MARCO *
Le Sacre Scritture DEVONO entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché’ per secoli SONO STATE il riferimento capitale dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune...
La solita musica: in nome del PASSATO (cosa assolutamente anti-cristiana: Io sono la Via, la Vita, la Verità) si teorizza e si giustifica l’OBBLIGO e il DOVERE di FAR ENTRARE dappertutto la LORO Bibbia (una nuova "crociata": L’ART. 7 DELLA COSTITUZIONE, il BUCO NERO per invadere le Istituzioni dell’ITALIA e distruggere il residuo di vitalità dello stesso messaggio evangelico!!!), quella della CHIESA CATTOLICO-ROMANA....
Ormai siamo veramente alla fine!!! I Vescovi hanno fatto un Sinodo per seguire pecorescamente la corrente e non chiedersi nemmeno se il loro Pastore era un Pastore del Dio AMORE ("CHARITAS") o del Dio MAMMONA ("CARITAS").
Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona!!!
L’AMORE DELLA PAROLA - LA FILOLOGIA - E PER LA PAROLA E’ ormai MORTO.... nella CHIESA CATTOLICO-ROMANA.
OGGI LO SPIRITO SOFFIA DOVE VUOLE... Ma IN VATICANO - DOPO GIOVANNI PAOLO II - HANNO SPRANGATO PORTE E FINESTRE e NON vogliono sentire più nemmeno uno spiffero d’aria!!! E nemmeno volare una "mosca" - ricorda ancora e sempre lo SPIRITO che animava Wojtyla!!!
M. cordiali saluti, Federico La Sala
* La Stampa/SAN PIETRO E DINTORNI - scritto da Federico La Sala 24/10/2008 18:23
Un divieto che ci avvicina agli ebrei? Vietato usare il Nome di Dio
Chiesa/ Vaticano: Non usare ebraico ’YHWH’ in preghiere cattoliche
Lettera della Congregazione per il culto agli episcopati
Roma, 19 ago. (Apcom) - Il nome ebraico di Dio, ’YHWH’, non può essere utilizzata nelle preghiere e nelle liturgie cattoliche. Lo stabilisce il Vaticano, che, con una "lettera alle Conferenze episcopali sul ’nome di Dio’", sottolinea che questa prassi mal si concilia con la natura divina di Cristo e con la tradizione della Chiesa.
La missiva, inviata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, porta la firma del 29 giugno scorso ed è destinata solo agli episcopati. Stilato in base ad una "direttiva" del Papa, il documento contesta l’uso del tetragramma biblico o "tetragrammaton" (la sequenza delle quattro lettere ebraiche che compongono il nome proprio di Dio nella Bibbia ebraica) nelle messe cattoliche.
"Per far sì che la Parola di Dio, scritta nei sacri testi, possa essere conservata e trasmessa in modo integrale e fedele, ogni traduzione moderna del libro della Bibbia punta ad essere una trasposizione fedele ed accurata dei testi originali", scrivono il card. Francis Arinze e mons. Albert Malcom Ranjith, prefetto e segretario del dicastero vaticano. "Un tale sforzo letterale richiede che il testo originale possa essere tradotto nel modo più integrale e accurato possibile, senza omissioni o aggiunte per quanto riguarda i contenuti, e senza introdurre glosse esplicative o parafrasi che non appartengono al testo sacro stesso. Per quanto riguarda il nome stesso di Dio, i traduttori devono usare il massimo di fedeltà e rispetto".
"Nonostante questa chiara norma - rileva il Vaticano - in anni recenti ha preso piede la prassi di pronunciare il nome proprio del Dio di Israele, conosciuto come il tetragramma divino". La lettera ricorda diversi passaggi del Nuovo testamento nel quale si mette in luce la natura divina di Gesù Cristo. "Evitare di pronunciare il tetragramma del nome di Dio da parte della Chiesa ha quindi i suoi fondamenti", ne consegue il dicastero vaticano. "A parte i motivi di ordine meramente filologico, c’è anche quello di rimanere fedeli alla tradizione della Chiesa, dall’inizio, di non pronunciare mai il sacro tetragramma nel contesto cristiano e di non tradurlo in una delle lingue nelle quali la Bibbia è stata tradotta".
Conclusione: "Nelle celebrazioni liturgiche, nelle canzoni e nelle preghiere il nome di Dio nella forma di tetragramma ’YHWH’ non è da usare né da pronunciare" e "per la traduzione del testo biblico in lingue moderne, destinato per l’uso liturgico della Chiesa", il "tetragrammaton" deve essere reso con espressioni come "’Lord’, ’Signore’, ’Segingeur’, ’Herr’, ’Senor’, etc".
* Fonte: Apcom, 19.08.2008
L’arcivescovo di Monaco di Baviera: "Nella sua analisi del capitalismo Karl Marx aveva visto giusto" *
Nella sua analisi del capitalismo Karl Marx aveva visto giusto. A sostenerlo in un’intervista al settimanale ’Der Spiegel’ e’ un suo omonimo, l’arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising, Reinhard Marx, 55 anni, elevato alla porpora lo scorso anno da Benedetto XVI. Il porporato manda a giorni in libreria un suo libro dal titolo "Il capitale - Una difesa dell’uomo", che contiene all’inizio una lettera indirizzata al fondatore del comunismo. Nell’intervista Reinhard Marx spiega che "bisogna prendere sul serio" il filosofo di Treviri, ed aggiunge che "e’ un errore considerarlo morto, come pensano in molti. Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate".
L’arcivescovo di Monaco dichiara che "poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perche’ aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili". Alla domanda se bisogna chiedere scusa a Marx per averlo spedito nel dimenticatoio, il porporato risponde: "Gia’ fatto, noi con l’etica sociale della Chiesa non abbiamo mai confuso l’opera filosofica di Marx con Stalin ed i Gulag. Non si puo’ attribuire a Marx cio’ che hanno fatto i suoi epigoni. Lui ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita".
Quando gli viene chiesto se il comunismo sia definitivamente sparito dalla faccia della terra con il crollo dell’Urss, Reinhard Marx risponde: "Niente affatto, poiche’ vediamo che Marx sta rivivendo adesso una rinascita (come conferma la triplicazione delle vendite in Germania del primo volume del ’Capitale’, ndr). Una cosa e’ chiara, con il tipo di capitalismo ereditato dalla Seconda Guerra Mondiale non andiamo lontano". Per sgombrare comunque il campo da possibili equivoci, Reinhard Marx precisa di non essere marxista, ma auspica una societa’ con un’economia "basata su principi etici. Da questo punto di vista la dottrina sociale della Chiesa costituisce una critica del capitalismo. Un capitalismo senza un quadro etico e’ nemico del genere umano".
LA CONTEMPLAZIONE DEI NOMI DI DIO
Dio è impronunciabile.
Dal Cantico di Frate Sole al trattato, ora riscoperto, di Jean-Jacques Olier sugli attributi divini: l’umile risposta cristiana all’ardire cabalistico
di Carlo Ossola (Avvenire, 26.10.2008).
Quand’egli si pronuncia, è la Creazione; o l’irripetibile, l’intraducibile: «Ego sum qui sum» (Esodo, III, 14): «Io sono l’Iosono », «Io sono l’Essente», «Io sono nel mio Essere», tutte lezioni insufficienti. Ed Egli comanda a Mosè: «Sic dices filiis Israel: QUI EST misit me ad vos»: «’Colui che è’, ’l’Essente’, ’il semprePresente’ mi ha mandato a voi».
Al più si può accedere - nelle religioni di ceppo semitico - ai Nomi di Dio, cioè agli appellativi con i quali nelle nostre lingue mortali possiamo evocarne la figura, i meriti, i doni: l’Altissimo, il Misericorde, l’Onnipotente, il Signore. Non è un caso che il primo testo della letteratura volgare italiana, Il cantico di frate Sole, di San Francesco, inizi proprio con la lode dei nomi di Dio e con il riconoscimento della sua impronunciabilità: «Altissimo, onnipotente, bon Signore, / tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione. // A te solo, Altissimo, se confàno / e nullo omo è digno te mentovare».
Chi invece ha cercato di permutare - nella tradizione ebraica - con silente calcolo, i segni che compongono il ’tetragrammaton’ (le quattro lettere ebraiche che noi traslitteriamo come ’Iahvé’) per creare dalla lettera sacra il vivente, scienza della Qabbalah, intreccio di numeri e sapienza, ha spesso trovato faustianamente il contrappaso di tale ardire, come ricorda, tra gli altri, Il Golem di Borges: «Il rabbino contemplava la sua opera con tenerezza, / Ma non senza orrore. Fui saggio, / davvero, pensava, nel fabbricare questo sgorbio / e nel lasciare l’Astenersi, sola saggezza?!» (Il Golem).
Si è così sviluppata, sul versante cristiano, una tradizione più umile di ’contemplazione’ degli ’attributi divini’, dei nomi di Dio. In età moderna, Luis de León (1527 o 1528 - 1591) ci ha lasciato un mirabile trattato sui Nomi di Cristo (Torino, Einaudi, 1997), il principale dei quali è di essere il ’volto di Dio’, lettera e figura dunque, ’carattere’ e ’icona’ del divino. Nella stessa tradizione appare ora, al Seuil (Parigi 2008), una mistica contemplazione di Jean-Jacques Olier, la Méthode pour faire l’oraison sur Dieu et sur les Attributs Divins, un inedito che risale al 1656. Olier, nato il 20 settembre 1608, è il fondatore della Compagnia di Saint-Sulpice e l’inedito trattato viene pubblicato per cura di una giovane studiosa italiana, Mariel Mazzocco.
L’orazione segue lo schema canonico di molti cammini di contemplazione del secolo XVII (svuotamento di sé, abbandono, introduzione nel mistero dell’Unità, della Verità, della Perfezione, dell’Infinità, della Semplicità, della Santità, dell’Immensità, dell’Eternità, dell’Amore, della Bontà, della Giustizia, di Dio). Ciò che è nuovo, nella dispositio degli attributi divini, è la conclusione affidata alla Forza di Dio: «Dio facendosi presente in noi è la forza stessa. Egli è l’onnipotente; Egli è l’irremovibile, l’invariabile e l’inflessibile. Di modo che, come l’Inferno nulla può contro di Lui, così nulla può contro una creatura che dimori in Dio. Egli è la sua forza e la sua virtù. Dio mia forza [Ps. 17, 2]».
Lungi dal divenire una corazza di superbia, questa forza divina rende consci della miseria della nostra vana iattanza e introduce meglio al nostro nulla: «Il secondo modo per avere questa forza di Dio in noi è quello di temer molto: è vivere al cospetto della nostra impotenza e del nostro nulla, rimettendoci a Dio e credendo in Lui che tutto può in noi». Pascaliana «grandezza e miseria» dell’uomo davanti a Dio.
Resta un fatto inspiegabile come; I nazzisti abbiano fatto tanto male (Il meglio del peggio) essendo cosi’ pochi in due chilometri quadrati, nei campi di concentramento, a migliaia di povera gente, innocente. In Italia, per esempio; non essendocci una legge chiara e specifica contro il ; ( Conflitto d’Interesse)...I politicanti sono I piu’ ricchi del paese. Comunque io sono del parere che; anche se ci fosse l’illegalita’ passerebbe tutto (sotto il tavolo). Quel’e’ la morale di tutto questo mio chicchierare...Siamo noi disposti a schiararci per la minoranza che: alla fine di questo sistema di cose malvaggio ne verranno; una volta per sempre Vittoriosi!!!.
All’inizio del XII- Secolo Gioacchino parlo’ di un (Dragus rufus et magnus, Liber Figurarum, tav. xiv. Copiando naturalmente dal libro della Rivelazione di Giovanni. ( Bestia di colore scallatto) Gioacchino, mette giustamente una sola corona sulla sesta testa che rappresenta Roma , Gioacchino non sapeva chi fosse stata la settima che; dopo alcuni secoli; l’isola dei pirati con una grande flotta navale...sconfisse sia la flotta Francese, Spagnola e Olandase e che piano piano divenne la settima potenza Mondiale e specie dal principio dello secolo scorso; quando si uni’ in alleanza militare con gli USA...L’Inghilterra formando cosi la Potenza Anglo-Americana; Gioacchino non profetizzo’ chi fosse, ne’ la settima e non si avrebbe mai immagginato che ci fosse un’ottava L’ottava potenza Mondiale Come le UN -Nazioni-Unite; rappresentata da l’intera bestia di colore scarlatto. Chissa’ se Gioacchino si rendeva conto che; dopo la distruzione dell’impero della falsa religione ( Babbilonia la Grande)che; ha’ sempre commesso fornicazione spirituale con tutti I re della terra...sara’ distrutta e’ messa a nudo (sbranata dalla bestia stessa che rappresenta le sette potenze Mondiali.) Ci, crediamo...Poco Senzaltro, preferiamo morire con un piede da una parte e con la’altro dall’altra parte.
Vorreste conosciere la VERITA’? Dove, Come?...Nelle Bibblioteche e nelle libbrerie!!! Dove ci sono migliaia di libri che si contraddicono e altri libri vengono considerati non piu’ validi divenendo superati aggiornati e sostituiti!!!
Non esiste tesoro piu’ prezioso da scoprire della verita’ Bibblica. Essa ci libera dalla superstizione, e della confusione e da paure morbose. Ci da’ speranza, e gioia e uno scopo nella vita...(nella minoranza) Solo la verita’ Biblica ci rendera’ liberi, nel piu’ assoluto.
IDEE.
Nel suo nuovo libro il filosofo Robert Spaemann affronta una delle questioni scottanti della nostra epoca: in chi credere
Dio, una parola che sfida i secoli
Fu san Paolo a stipulare per primo un contratto di assicurazione come credente quando disse: «Se Cristo non è risorto vana è la nostra fede»
«Il cristianesimo chiede alla ragione di non omettere la domanda su Dio. Ma sa anche che la verità si rivelerà solo alla fine dei tempi»
di ROBERT SPAEMANN (Avvenire, 30.10.2008)
Delle cose degli uomini si può parlare in due modi: da una prospettiva interna e da una esterna. Pensiamo per esempio ad una giovane coppia che stipula una polizza per un’assicurazione sulla vita. Di che cosa si tratti, in questo caso, è ovvio: i due vogliono, in vecchiaia, poter riscuotere una certa somma e proteggersi così dal rischio di finire in povertà. Se aveva senso stipulare tale polizza, si vedrà soltanto nel momento in cui l’evento assicurato avrà luogo e la somma verrà versata. Per il momento, i due giovani devono fidarsi della solidità della società assicuratrice e pensare che la liquidità sarà sufficiente. Questa polizza, però, ha anche un profilo esterno, che non dipende dal fatto che questa fiducia sia giustificata o meno. Il comportamento della coppia può essere oggetto di ricerche di natura sociologica e psicologica.
Si può analizzare quante giovani coppie stipulano un’assicurazione di questo genere, e in base a quali fattori. Ci si può chiedere quali effetti abbia una polizza del genere sullo stile di vita delle persone, sul loro sentimento della vita, sul loro comportamento da consumatori, sulla stabilità della loro relazione, sulla loro disponibilità a correre rischi, nonché sulla loro disponibilità a mettere al mondo dei figli. La prospettiva esterna assicura alcune conoscenze, ma sussiste a partire dalla prospettiva interna. Se la coppia fosse convinta che l’assicurazione non è in grado di onorare il contratto nel caso si verifichi l’evento assicurato, non lo stipulerebbe, e tutti gli altri aspetti non avrebbero alcun fondamento.
In questo senso l’apostolo Paolo scrive ai Corinzi: «Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana [...] la nostra fede» (cfr. 1 Cor 15,14). Infatti, la religione cristiana, avendo un profilo interno e uno esterno, si trova nella stessa situazione di tutte le cose degli uomini. Il suo profilo interno è costituito dalla fede nella realtà di Dio e dalla speranza della vita eterna presso Dio. Ma finché è fede che vive in questo mondo, essa adempie, allo stesso tempo, varie funzioni sociali e psicologiche: ha delle ripercussioni sullo stile di vita degli uomini e sul loro stato d’animo.
Non può, però, essere definita a partire da questi effetti. Sta o cade insieme al suo contenuto cognitivo. «Questa è la vita eterna», dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » ( Gv 17,3). E anche la frase spesso citata della prima lettera a Timoteo, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati...», senza la seconda parte, che dice: «... e arrivino alla conoscenza della verità » ( 1Tim 2,4), non è completa, anzi, trae in inganno.
Il mondo è pluralistico, e lo è sempre stato. In un mondo pluralistico, però, prospettiva interna ed esterna sono inevitabilmente in concorrenza l’una con l’altra. Chi vede delle persone ballare, ma non sente la musica, non capisce i movimenti che osserva. E così, chi non condivide la fede cristiana sarà incline a spiegarla attraverso qualcosa di diverso dalla verità del suo oggetto. E, in ultima analisi, non comprenderà il fedele.
Chi vive nella prospettiva interna si attiene alle parole di san Paolo: «L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» ( 1Cor 2,15). Chi, però, è incapace di calarsi nella prospettiva esterna, in base alla quale la religione cristiana è una concezione del mondo tra altre, diventa un settario o un fanatico che si chiude nei confronti dell’universalità della ragione. La fede cristiana postula la medesima universalità della ragione. Anzi, pretende dalla ragione che non resti indietro rispetto al suo concetto, e constata che resta indietro se omette la domanda su Dio. Ma sa anche che il giudizio dell’“uomo spirituale”, come verità universale, integrante qualsiasi prospettiva esterna, si rivelerà soltanto alla fine dei tempi.
Intanto, corrisponde alla verità delle cose parlare la lingua di tutte e due le prospettive, a seconda delle circostanze nelle quali ci troviamo e delle persone con le quali parliamo. I testi qui raccolti fanno questo. Ci sono riflessioni “dall’esterno”, appartenenti piuttosto alla religione come disciplina scientifica, ma anche conferenze, nelle quali Gesù è chiamato “il Signore”, che sono rivolte ai fratelli cristiani che sanno di chi si parla. E infine ci sono testi nei quali l’autore, sulla base di un discorso razionale di per sé aperto a tutti gli uomini, riflettendo su Dio si rivolge ad ascoltatori o lettori pronti a una riflessione del genere.
Infatti egli crede, contrariamente al grande Pascal, che il Dio dei filosofi non sia altro che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, come anche che la stella del mattino non sia altro che la stella della sera. D’accordo con Platone, l’autore crede che sia un uomo davvero misero chi non è disposto a riflettere in profondità su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, anzi, l’unica cosa che conta veramente (Platone, Fedone 85b). È sempre Platone che fa dire a un interlocutore di Socrate che bisogna «prendere la migliore e la più inconfutabile delle opinioni umane su questo argomento cercando di navigare su di essa come su una tavola di legno, attraverso la vita, finché non si possa viaggiare più sicuri e con meno pericoli su un veicolo più solido o su un Logos divino» ( Fedone 86a).
Il veicolo più solido sembra essere la filosofia. La fede che il Logos divino si è fatto carne per far sì che si possa viaggiare su di lui, secondo Sant’Agostino è l’unica cosa che distingue “i nostri” dai Platonici. Platone stesso non è chiamato in causa da questa distinzione in quanto, ai suoi tempi, l’avvenimento non era ancora accaduto.
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IL LIBRO
Le convinzioni della fede messe alla prova
Il nuovo libro del filosofo tedesco Robert Spaemann (nella foto), «La diceria immortale», che esce oggi per le edizioni Cantagalli (pagine 200, euro 20) è una indagine su ciò che deve spingere a credere in Dio: non per un qualche interesse o per diventare più buoni, dice Spaemann, ma semplicemente perché esiste. Ed è dalla sua esistenza che tutto acquista un senso. Dal libro anticipiamo le pagine dell’introduzione.
SALVATORES: UN PADRE CHE INSEGNA ODIO CON AMORE
di Francesco Gallo *
ROMA - "Un padre ’cattivo’ che insegna l’odio con tanto amore", ma comunque un padre che sa anche dire "questo è nero e questo e bianco. Una cosa di cui un figlio ha alla fine davvero bisogno". Così Gabriele Salvatores quasi giustifica Rino Zena (Filippo Timi) protagonista del suo film ’Come Dio comanda’, un omaccione disoccupato e border-line che non sa insegnare al figlio adolescente Cristiano (Alvaro Caleca) che a difendersi con la violenza, con la forza, senza scrupoli.
E che sa anche indicargli i veri nemici di questa società: gli zingari, gli ebrei e gli extracomunitari che tolgono lavoro agli italiani come lui. Ma questo benedetto Rino, nonostante questo, ama davvero il figlio e ne è riamato.
E se affida tutte le sicurezze che ha alla sua pistola è perché non ha trovato altre risposte a parte quelle rassicuranti della fede nella forza fisica, nell’onore e nella patria ("una parola che nessuno ormai pronuncia più" dice sempre al suo Cristiano). Il film - che uscirà in 250 copie distribuite da 01 dal 12 dicembre ed è tratto dall’omonimo libro di Niccolò Ammaniti (Mondadori) - è un vero pugno nello stomaco per tematiche e ritmi narrativi. Perché il rapporto d’amore tra questo padre alcolizzato e triste e questo figlio ha i toni tragici.
E perché nella natura di un Friuli dove piove sempre, troppo, questi due uomini sembrano davvero essere soli contro tutti. Anzi hanno un solo amico, un certo Quattro Formaggi (Elio Germano), uno fuori di testa dopo aver subito un incidente di lavoro e che passa le sue giornate in casa costruendo un singolare presepio e guardando film porno su un televisore auto-erotico. Dalla loro parte questi due imperdonabili hanno anche l’assistente sociale (Fabio De Luigi) che cerca con vani sforzi di dare una forma a questa famiglia.
Ma la tragedia è alla porte e avverrà in un bosco, e sotto un immancabile temporale, ai danni di una ragazzina (Angelica Leo). Unica presenza femminile in un film che lo stesso regista ha definito stamani "una favola nera con tanto di cappuccetto rosso che incontra il lupo nel bosco". "In questo film ho voluto recuperare la dimensione archetipica - spiega in conferenza stampa Salvatores -. Recuperare le atmosfere skakesperiane. In fondo in ’Come Dio comanda’ c’é un pazzo, un re e un principe che si ritrovano dentro una tempesta".
Ma questo è anche un film "che mi ha fatto molto pensare mentre lo giravo a Fabrizio De André e ai suoi personaggi ’che hanno preso la cattiva strada’". Comunque un film senza donne "anche perché quello che si mostra è un mondo triste - sottolinea Niccolò Ammaniti che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Salvatores e Antonio Manzini - dove c’é solo l’amore degli ’ultimi’, di questi uomini, che si difendono l’un l’altro". Ma si tratta, come ricorda il titolo, anche di un film spirituale dove si sente l’assenza di Dio.
"Io non so se Dio esiste, ma dai pochi segni che lascia sulla terra direi proprio di no - spiega il regista -. A lasciare i segni siamo purtroppo noi uomini e forse così potremmo dire che Dio siamo noi". Del suo personaggio dice Filippo Timi:"é stato davvero bello fare un border-line come Rino. Secondo me nessun essere vivente è privo di colpe, tutti siamo come animali feriti ed è poi davvero catartico poi portare avanti le cose fino in fondo come fa Rino".
Elio Germano parla invece del suo folle "come del personaggio più bello che mi sia capitato di recitare. Uno che vorrei recitare ancora come se fosse un personaggio teatrale". Quello che invece sembra essersi identificato è stato il bravissimo esordiente Alvaro Caleca che dice:"mi sento distante mille miglia da Cristiano, anche se devo riconoscere che è una parte di me che ho sempre represso".
* Ansa
saggistica
Dio, nome che salva e benedice
DI LUCA MIELE (Avvenire, 02.01.2010)
Mentre traducono la Bibbia dall’ebraico al tedesco, Franz Rosenzweig e Martin Buber - due tra i più originali pensatori del Novecento - si imbattono in quella che è considerata la sfida linguistica per eccellenza: la rivelazione del Nome così come appare in Esodo 3,14 (« Èyèh ashèr Èyèh »). L’obiettivo che ispira il loro lavoro è disancorare il testo biblico dalla «confisca » di precedenti traduzioni (da Calvino a Mendelssohn) e, al tempo stesso, liberarne una dimensione fondamentale: l’oralità.
Il cruccio di Rosenzweig e Buber: come rendere il doppio futuro del verbo essere dell’originale ebraico? I due traduttori sono accomunati dalla stessa sensibilità: l’autorivelazione di Dio si accorda non alla concezione di un Essere immutabile o confinano nella staticità, ma a un Essere che entra nella storia e vi agisce. Ai diversi nomi con cui è designato Dio nell’Antico Testamento è dedicato lo studio del teologo Tryggve N.D. Mettinger.
Secondo l’indagine dell’autore, il concetto di Dio nella Bibbia ha due fuochi di un’unica ellisse: il «Dio che salva», che interviene nella storia verticalmente, e il «Dio che benedice», che stende orizzontalmente la sua «benedizione instancabile» sull’uomo, il Dio «che in ogni momento unisce la creazione alla sua sorgente». Il primo si incontra principalmente nei libri storici, Esodo e Deuteronomio, il secondo nella letteratura sapienziale e nei Salmi.
Ebbene cosa ci svela di Èyèh ashèr Èyèh, «Io Sono colui che Sono», l’indagine di Mettinger? «Il testo biblico indica che il verbo essere è la chiave del Nome divino». Ma se questa è la decifrazione, quale senso dare alla teofania divina?
Spiega Mettinger: «Il nome divino biblico esprime la convinzione della presenza attiva e disponibile di Dio, non come espressione che riguarda il passato, piuttosto come un’affermazione di fiducia riguardo al presente e al futuro». La rivelazione di Esodo non esaurisce però il campo delle designazione divine.
Tra i nomi di Dio esaminati da Mettinger ci soffermiamo su due: sul Dio dei padri, il «Dio di Abramo, Isacco e di Giacobbe » e sul «Dio vivente». Chi è il Dio dei padri? Come mostra l’autore, è il Dio legato all’uomo da una «relazione personale sorprendente », il Dio che si fa garante della promessa ed è sorgente inesauribile della benedizione.
Il «Dio vivente» stacca radicalmente Israele da tutte le culture limitrofe: agisce nella storia, abita il tempo e dischiude il tempo della salvezza, spezzando il ciclo cosmico di morte e rinascita.
Tryggve N.D. Mettinger
IN CERCA DI DIO
Il significato e il messaggio dei nomi eterni
Edb. Pagine 292. Euro 28,50