Nel 1841 a Berlino il giovane filosofo ascoltò le lezioni sulla Rivelazione.
Ora escono gli appunti
Quando Kierkegaard ascoltò commosso Schelling
di FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 11.06.2008)
È noto come Søren Kierkegaard accorse nel novembre 1841 a Berlino per seguire il primo corso berlinese di Schelling, tenuto sulla cattedra universitaria sino a pochi anni prima occupata da Hegel. Annotò Kierkegaard nel proprio Diario: «Io sono così contento di aver sentito la seconda lezione di Schelling, indicibilmente contento. Tanto tempo lo sospiravamo io e i miei pensieri in me. Appena egli, parlando del rapporto fra filosofia e realtà, nominò la parola ’realtà’, il frutto del mio pensiero trasalì di gioia come il seno di Elisabetta». Eppure già nel febbraio 1842, annunciando il proprio rientro a Copenaghen, scriveva al fratello Peter: «Schelling chiacchiera in un modo del tutto insopportabile!».
Gli appunti presi a lezione da Kierkegaard, da tempo editi più volte in danese nelle opere complete del filosofo, sono ora disponibili in prima edizione italiana con testo a fronte, a cura di Ingrid Basso, presso Bompiani, intitolati Appunti delle lezioni berlinesi di Schelling sulla ’Filosofia della Rivelazione’ 1841-1842 (pagine 648, euro18,50). Oltre a permettere un importante raffronto con l’edizione, operata sui manoscritti, della schellinghiana Filosofia della Rivelazione, anch’essa edita da Bompiani nella traduzione del compianto Adriano Bausola, la trascrizione di Kierkegaard è rilevante anche per la comprensione dell’elaborazione del pensiero del filosofo danese stesso.
Nel confronto fra Kierkegaard e Schelling, infatti, abbiamo due possibili posizioni di pensatori cristiani, i maggiori almeno degli ultimi tre secoli, nettamente definite e approfondite in maniera incomparabile. Kierkegaard costituisce l’opposizione esistenziale al sistema razionalistico hegeliano, rifiutante la universalità e totalità razionale per la singolarità e soggettività della fede. Invece Schelling il tentativo ancora razionale di comprendere un sistema della libertà, originaria e personale, divina e umana, tale che ragione e rivelazione, potenze del pensiero e della realtà, non siano fra loro in contraddizione benché l’una non completamente riducibile all’altra.
Ciò che indubbiamente poté affascinare Kierkegaard fu la rivendicazione schellinghiana dei diritti della realtà rispetto alla mera riflessione del pensiero, al quale Hegel aveva di fatto ridotto quella. Tuttavia egli fu probabilmente irritato dallo scoprire che Schelling continuava a spiegare la realtà comunque filosoficamente, benché attraverso un riscontro empirico di livello superiore delle potenze a priori del pensiero, cioè attraverso l’interpretazione della rivelazione cristiana e delle mitologie. Per Kierkegaard tale continuità risultò inaccettabile.
Entrambi seguirono quindi due strade differenti. Kierkegaard da lì a poco elaborò tutte le sue principali opere successive alla tesi di laurea, Schelling approfondì ulteriormente, sempre in corsi di lezioni universitarie o accademiche, quanto già succintamente esposto a Berlino.
Kierkegaard non comprese come il passaggio dalla filosofia negativa alla positiva indicato da Schelling attraverso l’esperienza dell’immemorabilmente essente non costituisca una mediazione razionale, quanto una conversione estatica della ragione ad una doppia dimensione dell’umanità, tale che l’umana ragione sia mostrata capace di comprendere i contenuti della fede senza ridurre a sé la libera eventualità di Dio.
Ma come non compreso da Kierkegaard, Schelling fu misconosciuto dalla totalità dei suoi contemporanei, nettamente inferiori a Kierkegaard a livello speculativo, tanto che dovette aspettare i teologi russi, Florenskij in particolare, quasi un secolo dopo, per iniziare a poter esser inteso appieno. Tanto che gli appunti stessi di Kierkegaard del suo corso berlinese, se ben compresi e approfonditi, dimostrano la straordinarietà di un pensiero filosofico aperto alla rivelazione cristiana.
Il corso a Berlino
Gli appunti di Kierkegaard alle lezioni di Schelling
di Armando Torno (Corriere della Sera, 29.05.2008)
Tra il novembre 1841 e il marzo 1842 Schelling tenne a Berlino, alla cattedra che fu di Fichte e di Hegel, un primo corso sulla Filosofia della Rivelazione. Ad esso partecipò un allievo d’eccezione: Søren Kierkegaard. Durante quelle lezioni il pensatore danese prese degli appunti, che ora vengono tradotti in italiano con il testo a fronte da Ingrid Basso (in appendice sono dati i passi dell’opera di Schelling utili per comprendere tali note).
Non è facile trovare aggettivi per riassumere questo incontro durante le giornate berlinesi; Jaspers, più semplicemente, definirà codesti corsi «l’ultimo grande avvenimento universitario della filosofia ». Va ricordato in margine agli appunti - dove si leggono intuizioni sull’ontologia, la metafisica, su Dio, né mancano riferimenti alla logica hegeliana o alla teologia negativa - che Kierkegaard continua a godere di ottima salute editoriale anche in Italia, nonostante la recente scomparsa di Alessandro Cortese (purtroppo il lavoro in corso per Marietti 1820 resta interrotto al terzo volume). Morcelliana, per fare un esempio, si appresta a ripresentare una nuova edizione dell’importante Diario, costata anni di lavoro. Kierkegaard, in altre parole, è ormai diventato un autore di riferimento per il mondo contemporaneo, forse perché come pochi altri ha capito il dramma attuale dell’uomo e non ha prestato fede a tutti quei voli nel nulla che la filosofia ha fatto e continua a fare.
SØREN KIERKEGAARD
Appunti
Trad. Ingrid Basso
BOMPIANI PP. 640, e 18,50
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Oltre Kierkegaard
DI KARL BARTH (Avvenire, 12.12.2007)
Ci sono teologi che, sì, hanno sentito qualcosa di Kierkegaard e possono anche aver letto qualcosa di lui, ma che non sono mai andati alla sua scuola. Non hanno dovuto tenergli testa. Gli sono passati in qualche modo davanti. Che essi pensino in modo più ortodosso o più liberale, più pietistico ed evangelico o più sociale e politico, più speculativo o più attivistico, che la loro forza stia nella predica o nell’insegnamento, nella cura pastorale o nel lavoro scientifico, essi si contraddistinguono per il buonumore che nelle loro affermazioni e nel loro atteggiamento in ultimo non viene mai meno. La loro professione ( Beruf), in quanto tale, non costituisce una prova ( Anfechtung). Sono tipi pratici, e questo non gli procura alcun serio imbarazzo.
Vedono il cristianesimo, e con esso la propria posizione come suoi rappresentanti, saldamente inseriti nella struttura della società umana, assieme agli altri elementi e alle altre funzioni che la compongono. Si rallegrano di vedere che tutti gli uomini di buona volontà accettano e fondamentalmente riconoscono il cristianesimo, e con esso quello che loro fanno.
Fra questi uomini essi non si trovano in terra straniera, ma come se fossero a casa propria. Se si prescinde da qualche occasionale e innocuo fastidio, sono ugualmente in pace con se stessi, con la Chiesa, con il mondo e con Dio. Kierkegaard è vissuto, ha sofferto e ha lottato invano per loro.
Ci sono poi altri teologi che si sono familiarizzati in modo sempre più profondo con Kierkegaard, talmente profondo che non possono più staccarsi da lui e che per questo siedono nella classe superiore della sua scuola.
L’infinita differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, con tutte le sue conseguenze, li ha divorati. Essi vedono se stessi e gli altri, la Chiesa e il mondo circondati dalla minaccia di sonore negazioni. La loro professione è una tentazione nel suo complesso, il cristianesimo vero, autentico, un attacco su tutta la linea contro il cristianesimo corrente. Il loro tema è la salvezza dell’esistenza umana nella conoscenza sempre nuova della sua assoluta problematicità. Il loro annuncio è la pienezza di un vuoto da purificare continuamente da tutti i contenuti.
Il loro triste godimento o la loro tristezza gaudente è l’ironia, che essi vedono profusa su tutti e su tutto e che profondono a loro volta. Una serietà che non gli permette di divenire mai completamente seri, un sorriso che non gli concede mai di ridere.
Anche se dal punto di vista pratico non assomigliano in tutto al maestro, perché per esempio non soltanto sono fidanzati, ma normalmente anche sposati, essi pure nella loro condotta e nella loro dottrina, ed eventualmente anche nei loro scritti e nei loro libri, cercano di rendere visibile quanto più possibile che hanno di mira non lo stare in piedi e nemmeno il giocare, ma il tenersi sospesi, e che si arrabbiano parecchio se chi li circonda non cerca di fare altrettanto. Kierkegaard è divenuto per loro un sistema.
Infine vi è anche un terzo tipo di teologi che hanno letto Kierkegaard e sono passati per la sua scuola, ma che appunto sono passati per essa.
Anch’essi hanno ricevuto da lui uno spavento, una scossa di fronte alla grande estraneità del cristianesimo, alla novità del suo annuncio e al rigore della sua esigenza, uno spavento di fronte al carattere problematico dell’esistenza umana che egli ha messo in luce. Non hanno più potuto metter da parte l’impulso ricevuto da Kierkegaard, non sono potuti più ricadere nel sonno di una religiosità puramente estetica, né ritornare alle marmitte di carne della cristianità e della ecclesiasticità borghesi di antica o nuova fattura, né mai più tralasciare e tacere il “no” pronunciato dal Vangelo verso il mondo e la Chiesa.
Ma essi, e questo li ha condotti oltre Kierkegaard, hanno potuto percepire e testimoniare questo “no” come il “no” racchiuso nel “sì” di Dio, come il fuoco del suo amore, che ha come fine non questo o quel singolo, ma il mondo intero nel suo ateismo e che, come tale, vuole essere annunciato dalla Chiesa.
Soltanto così hanno potuto comprendere e far valere correttamente l’autentica asprezza di questo “no”. Esso ha perso il suo carattere filosofico, di principio. Pur senza tacerlo, il “no” non poteva più essere la legge imposta su di loro e sugli altri e dunque non poteva più essere il loro tema. La loro disperazione è divenuta una disperazione fiduciosa ( desperatio fiducialis, Lutero). La loro professione e il dubbio provocato da essa ha assunto i tratti della speranza.
Essi hanno trovato la consolazione per i poveri cristiani, che è anche la consolazione del mondo intero e la propria, non in qualcosa che l’uomo potrebbe essere e fare per conto proprio di fronte a Dio, ma in quello che Dio nella maestà del¬la sua libera grazia ha fatto per lui e con lui, che tuttora continua a fare e che farà in modo definitivo.
A partire da lì non hanno più potuto confondere, né apertamente né segretamente, la teologia con una filosofia esistenziale, né hanno potuto adattare, direttamente o indirettamente, le strutture di quest’ultima. A partire da lì sono dovuti divenire serissimi, e nello stesso tempo hanno potuto ridere di gusto. A partire da lì sono potuti divenire un po’ più umani.
Non hanno più fatto uso dell’ironia, e il volersi tenere sospesi non è più stato per loro un bisogno. Questo è quello che hanno potuto imparare, ma appunto per farlo sono dovuti andare a scuole diverse da quella di Kierkegaard. La critica a una speculazione astratta pone in una situazione diversa chi non ha conosciuto il filosofo, chi vi è rimasto impigliato, chi l’ha oltrepassato
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ...sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
ANTROPOLOGIA, MATRIMONIO, E MESSAGGIO EVANGELICO: "ECCE HOMO" ("QUEL SINGOLO")!
KIERKEGAARD CON SHAKESPEARE RIPRENDE IL LAVORO CRITICO CONTRO LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA DEL SUO TEMPO:
"HANG UP PHILOSOPHY!" [IMPICCA(la), LA (tua) FILOSOFIA] (cfr. "Romeo e Giulietta", III, 3, 57)!
CON SOCRATE, OLTRE PLATONE ED HEGEL. Lo scandalo del paradosso (e l’ "Esercizio di cristianesimo", 1850). Dopo aver posto in esergo alle sue "Briciole di filosofia" (1844) la frase di Shakespeare: "Meglio male impiccato, che male sposato", nella Prefazione alla "Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di Filosofia»" (1846), Soren Kierkegaard così commenta: "In conformità del motto del libro («Meglio male impiccato, che male sposato») l’autore è tranquillamente impiccato, anzi ben impiccato, e rimane penzoloni. Nessuno, neanche per scherzo, gli ha chiesto nel gioco per quale motivo è stato impiccato. Ma era proprio questa la situazione ideale: meglio bene impiccato che non, mediante un matrimonio infelice col sistema, aver contratto parentela con tutto il mondo".
A osservare in profondità il legame di Kierkegaard con il lavoro critico di Shakespeare ("la mia anima torna - così egli scrive in "Aut Aut" - sempre all’Antico Testamento e a Shakespeare. Là si sente che quei che parlano sono uomini"), a mio parere, si comprende quanto lungimirante e profondo sia stato il contributo di "Quel Singolo" (come scritto sulla tomba di Kierkegaard) per affrontare la questione antropologica politica e teologica dell’attuale presente storico. In gioco c’è non solo la dignità ma la stessa sopravvivenza dell’intero genere umano.
ABRAMO (E LE TRE RELIGIONI). Al di là della dimensione estetica, etica, e religiosa, come da indicazione di Kafka (in una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock), c’è da "pensare un altro Abramo", se si vuole, risolvere l’enigma dei tre anelli (Gioacchino da Fiore): "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Kafka, 1921).
Federico La Sala
Kierkegaard, un intreccio fra umano e divino
Filosofia. «Ogni cosa ha il suo tempo», a cura di Giulia Longo, per Mimesis
di Alberto Giovanni Biuso (ill manifesto, 15.09.2018)
In un appunto del 1846 - per la prima volta tradotto in italiano da Giulia Longo in Ogni cosa ha il suo tempo: il ‘nodo dialettico’ kierkegaardiano tra ‘edificante’ e ‘ripresa’ (Mimesis, pp. 287, euro 26, presentazione di Eugenio Mazzarella, con scritti inediti del filosofo) - Kierkegaard afferma che «da molto tempo ho pigramente rinunciato all’umanità sebbene o proprio perché l’ho studiata a fondo». Si può forse partire da questo filo per seguire il modo in cui l’autrice conduce il suo percorso cronologico e teologico dentro il complesso gomitolo che la persona e il pensiero di Kierkegaard sono stati.
SE QUESTO SCRITTORE è in qualche modo un unicum dentro il pensare cristiano è anche perché il suo essere «autore religioso dal principio alla fine» non ha a che fare con rigorosità luterane o clemenze cattoliche ma con l’«onestà» da lui più volte rivendicata.
Onestà che lo conduce al nucleo teoretico rappresentato dal tempo come questione inestricabilmente umana e divina. Kierkegaard si chiede infatti sino a che punto dei mortali possano parlare dell’eterno, possono averne un’idea. Per noi infatti «ogni cosa ha il suo tempo». Questa formula del Qohélet è per Kierkegaard la sentenza fondante che edifica il mondo poiché «contiene al suo interno tanto il rimando alla temporalità (Timelighed) quanto l’accenno alla e della eternità (Evighed) posta nel cuore di ciascuna stessa cosa».
LA TEMPORALITÀ edificante diventa in se stessa ripresa in quanto movimento che procede in avanti sul fondamento di un ricordare che incide assai più sul futuro di quanto possa fare nei confronti del passato. L’apertura heideggeriana all’avvenire, inteso come scaturigine del presente e dell’essere stato, ha qui uno dei suoi fondamenti. Allo stesso modo, una delle fonti della concezione dell’esistenza quale ‘essere alla morte’ è la meditazione kierkegaardiana che vede nella morte «il più grande pensatore», la cui eloquenza non ha concorrenti nell’evidenza ogni volta ripetuta della propria verità. La radicalità di questo pensare rischia in Kierkegaard di diventare paradossale. In suo nome, infatti, il filosofo cristiano si allontana sia dalla Chiesa sia dalla filosofia.
LA CHIESA DI STATO danese viene accusata in modo netto e ripetuto di costituire una «cristianità» che sarebbe l’esatto contrario del «cristianesimo», tanto da giungere alla constatazione che «il Cristianesimo del Nuovo Testamento non esiste più». Affermazione analoga e insieme diversa rispetto alla constatazione nietzscheana per la quale «in fondo è esistito un solo cristiano, e questi morì sulla croce. Il ‘Vangelo’ morì sulla croce. Ciò che da quel momento è chiamato ‘Vangelo’ era già l’antitesi di quel che lui aveva vissuto» (L’anticristo, § 39). A che cosa è servita la critica kierkegaardiana? Longo riconosce che «oggi in Danimarca le chiese sono pressoché deserte. Viene da chiedersi se le kierkegaardiane «acrobazie con la camicia di forza» siano valse a qualcosa, o se non si siano rivelate, anch’esse, vanità e fatica inutile».
PER QUANTO RIGUARDA la filosofia, secondo Kierkegaard la «Verità» è troppo esaltata dal pensiero moderno, sino a diventare qualcosa di gelido. E tuttavia domandiamoci che cosa potrebbe sostituire la filosofia: l’onestà, un testo sacro, un pensiero interamente religioso?
A Kierkegaard è forse lecito chiedere soltanto frammenti di risposta. Di questi frammenti sono parte l’«educazione al distacco» che lo scrittore esercitò in particolare, ma non solo, con la fidanzata Regine; il riconoscimento rivolto al paganesimo di essere stato - nonostante tutto - «l’unica grande evoluzione della storia universale» e ai Greci di essere sempre rimasti la sua «consolazione»; l’esatta intuizione per la quale «il tempo proprio dell’eterno è essenzialmente differente rispetto al tempo del mutevole, del corruttibile, piagato dall’annosa ‘saggezza degli anni’. Ove questo, e ogni cosa in esso, ha il suo tempo, l’eterno ha sempre tempo».
Una complessità paradossale, edificante e ripetuta intesse di sé anche l’andamento teoretico e lo stile di questo libro, nel quale sembra davvero di sentire l’«euritmia argomentativa» di Kierkegaard.
Søren Kierkegaard e Regine Olsen
In amore meglio soffrire
Perché il filosofo abbia lasciato la sua musa è un mistero. L’ipotesi più probabile è che gli servisse un dolore da investire nella sua creatività
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.05.2018)
Una sera d’estate del 1996 Joakim Garff, autore di un’importante biografia di Kierkegaard, dà una lezione in una cittadina di provincia. Al ricevimento che segue gli viene presentata un’anziana coppia, lui in giacca blu e cravatta a farfalla, lei con una chioma ben sistemata e occhi vivaci. La signora risulta essere la nipote di Cornelia, sorella di Regine Olsen, e rivolge a Garff un’offerta che lo lascia senza fiato. Se vuole, può visionare un centinaio di lettere che Regine mandò a Cornelia durante i cinque anni in cui visse nelle Isole Vergini, allora parte dell’impero coloniale danese. Se vuole?, pensa Garff, che ha appena ricevuto un dono per lui inestimabile.
Søren Kierkegaard incontrò Regine Olsen nel maggio 1837, quando lui aveva 24 anni e lei 15. All’epoca non la notò, ma due anni dopo Regine era divenuta «signora del suo cuore» e l’8 settembre 1840 le propose di sposarsi. Regine era interessata al suo istitutore, Johan Frederik (Fritz) Schlegel, ma Kierkegaard la scosse come un turbine e i due si prepararono per una vita insieme. Finché, il 12 ottobre 1841, lui ruppe il fidanzamento, nonostante le suppliche di lei e le proteste del padre. Il 28 agosto 1843 Regine si fidanzò con Fritz e il 3 novembre 1847 lo sposò. Gli sarebbe rimasta fedele fino alla morte, che arrivò per lui nel 1896 e per lei nel 1904.
Perché Søren abbia lasciato Regine è, a dispetto delle infinite parole da lui dedicate all’episodio nei suoi diari e (indirettamente) nei suoi scritti, un mistero. L’ipotesi più probabile è anche la più squallida: che cioè nei pochi mesi di passione non consumata avesse ottenuto da lei tutto quel che gli serviva, uno stimolo alla sua creatività, e non volesse perderlo nella mediocre routine quotidiana di un’esistenza borghese, in cui, dichiara preoccupato nei Diari, «non avrebbe combinato niente». Meglio mantenerla come sprone inesausto; meglio sublimare l’amore in migliaia di pagine intense e profetiche; meglio sacrificare la vita (altrui) e investire sull’eternità, come molti di quei borghesi che Kierkegaard disprezzava investono i risparmi nel mercato azionario.
Regine vede spesso Søren per strada ma non gli parla più; lui ne scrive ossessivamente. Poi, nel 1855, Fritz viene nominato governatore delle Indie Occidentali Danesi: le tre isole di St. Thomas, St. John e St. Croix (vendute agli Stati Uniti nel 1917 per 25 milioni di dollari). I due sposi partono per un viaggio che li allontana di oltre seimila chilometri da casa. Kierkegaard muore quello stesso anno, non prima di aver inviato una lettera a Fritz chiedendogli un colloquio (rifiutato) con sua moglie. Regine comincia a scrivere a Cornelia, in una corrispondenza che durerà fino al ritorno in patria nel 1860, e comincia il libro di Garff.
Quel che colpisce, in questo libro che per una volta racconta, dal suo punto di vista, la storia di una donna ingannata e abbandonata da uno dei tanti geni più o meno incompresi, è l’ammirevole equilibrio di questa donna: la sua correttezza. Regine non dimentica mai il suo Søren ma ne parla solo in modo obliquo, senza farne il nome. Alla tristezza che è irreparabilmente calata sulla sua vita attribuisce ragioni diverse: la lontananza della sorella, le difficoltà di adattamento al nuovo clima, le incombenze di società legate al suo ruolo istituzionale.
Per il marito manifesta un quieto affetto e una cura premurosa (figli non ne vengono) e anche lui mantiene la sua dignità, pur sapendo di essere destinato al ruolo di riserva del campione assente.La situazione emotiva degli Schlegel viene complicata dal fatto che Kierkegaard, nel suo testamento, lascia tutto a Regine; in particolare, i suoi scritti inediti. Fritz scrive a nome di entrambi i coniugi che la moglie accetterà alcune lettere e piccoli gioielli, respingendo al mittente il resto. Regine rientra così in possesso del suo scambio epistolare con Søren, di cui conserva la parte di lui (la sua la distrugge). Quindi gli Schlegel convissero per decenni con la consapevolezza di queste missive estremamente private, cui si aggiunse, a partire dal 1872, la pubblicazione dei Diari, con Regine indiscussa protagonista.
Non venne meno la dignità; non venne meno il riserbo; Regine accettò di parlare (con discrezione) di Kierkegaard solo dopo la morte del marito. In Timore e tremore, leggiamo di un cavaliere dell’infinito, presuntuoso e irritante, tutto compreso nella sua straordinarietà, e di un cavaliere della fede, pacato e sereno, simile all’apparenza a un qualsiasi postino o bottegaio. Leggendo il libro di Garff non si può fare a meno di pensare a Kierkegaard come al vanesio cavaliere dell’infinito e a Regine come al solido, imperturbabile, insondabile cavaliere della fede.
Marx e Kierkegaard giornalisti
di Fabrizio Denunzio (DoppioZero, 21 giugno 2016)
Cosa hanno in comune due autori così radicalmente diversi come Karl Marx e Søren Kierkegaard? Cosa accomuna il padre del comunismo a quello dell’esistenzialismo? In cosa convergono filosofie che hanno come protagonisti agenti sociali antitetici come quello oggettivo, massificato del proletariato industriale e quello soggettivo, isolato del credente cristiano?
Un’autorevole risposta la troviamo in un classico del pensiero filosofico, Da Hegel a Nietzsche (1941) di Karl Löwith. A parere dell’autore il terreno comune su cui si fondano le riflessioni di Marx e di Kierkegaard è rappresentato dal comune nemico contro cui entrambi combattono: Hegel. Lì dove quest’ultimo, dovendo legittimare lo Stato prussiano, spinge ad accettare la realtà esistente sostenendone l’intrinseca razionalità, di conseguenza mettendo fuori gioco la dialettica oppositiva che anima il conflitto sociale, Marx e Kierkegaard insorgono, di fronte a questa conciliazione reazionaria tornano a separare proprio ciò che Hegel ha unito: la ragione dalla realtà. Lì dove Hegel assicura unità e saldezza al mondo borghese, capitalista e cristiano, tanto Marx, per ciò che riguarda il sistema di produzione, quanto Kierkegaard, per ciò che concerne il sistema della credenza, provvedono a dissolverlo. Il primo con la rivoluzione comunista, il secondo con un profondo rinnovamento della cristianità.
All’autorevole risposta di Löwith ne vogliamo affiancare un’altra, non filosofica ma di ordine comunicativo in grado questa di farci sentire tutta l’attualità di questi autori, un’attualità che spesso, purtroppo, la sola filosofia non riesce a evidenziare in tutta la sua potenza. Ciò che a nostro parere hanno in comune Marx e Kierkegaard è l’aver assistito e l’essere stati travolti dalla nascente industria culturale del loro tempo incarnata dal giornalismo.
Come nel caso di Marx è possibile ripercorrere oggi una significativa parte della sua produzione giornalistica attraverso Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99), così anche in quello di Kierkegaard è possibile fare un’operazione del genere grazie ai suoi Scritti sulla comunicazione (a cura di Cornelio Fabbro, pp. 363, euro 25) ripubblicati di recente dalla casa editrice Orthotes.
Il volume, sebbene non raccolga gli articoli scritti dal 1854 al 1855 per il giornale “La Patria”, e debitamente sottratto a una mera lettura specialistica, ci permette di ricostruire nelle sue linee generali il rapporto di Kierkegaard con la stampa: dallo sgomento provato di fronte alla standardizzazione della lettura, quindi alla trasformazione della massa in pubblico prodotta dall’avvento delle testate giornalistiche, alla sua risposta operativa in termini di strategia comunicativa.
Volendo riportare tanto la reazione emotiva quanto la sua corrispondente elaborazione razionale alle teorie sociali del Novecento, diremo che la prima verrà confermata dalla visione apocalittica dell’industria culturale elaborata dalla Scuola di Francoforte, mentre la seconda echeggerà nella concezione del giornalismo di Gramsci. Partiamo dallo sgomento.
L’esistenza della stampa impone un cambiamento di funzione allo scrittore. Dal momento che essa per vivere ha bisogno di una significativa quantità di lettori, il contenuto e la qualità della scrittura si abbassano notevolmente: la prosa giornalistica si caratterizza per astrattezza, impersonalità e superficialità. Questa omologazione verso il basso ha come conseguenza più negativa quella di imporre allo scrittore che non è giornalista, ma che, a suo pari, ha la necessità di essere letto, di adeguarsi allo stato di cose esistenti soprattutto perché, oramai, il pubblico, educato alla lettura secondo le modalità della stampa, si intestardisce nel volere quel tipo di ‘letteratura’. Lo sgomento di Kierkegaard, allora, sta nel fatto che la “letteratura giornalistica abbandona la critica e scrive per la massa”, per la folla, ossia, per “la falsità”.
Sebbene apocalittico, questo sgomento non solo non è estraneo alla storia della cultura - Raymond Williams in Cultura e rivoluzione industria culturale (1958) ha magistralmente dimostrato quanto in realtà esso fosse tipico tra scrittori e poeti inglesi dell’Ottocento e quanto fosse indicativo della loro reazione di fronte all’industrializzazione del mondo sociale - ma ha anche una sua certa lucidità. Permette, ad esempio, guardando attentamente nella sua filigrana, di individuare, allo stato nascente, tratti fondanti dell’industria culturale: “l’interesse finanziario dell’editore”; il “non parlare ad un singolo o a singoli uomini, ma al mondo intero”; “si stampa sempre più in fretta”; “la potenza del momento e la potenza della diffusione”. Capitale culturale, pubblico di massa, alta velocità dei consumi, moda e grande distribuzione. Come dicevamo, quello di Kierkegaard è uno sgomento molto produttivo per capire il momento genetico dell’industria culturale, quei suoi elementi fondativi che, diversamente dosati, continuano ancora oggi a organizzarne il funzionamento.
La cosa molto interessante del filosofo danese è che non lascia questo sgomento a se stesso. Consapevole dello stato in cui si trova la scrittura in seguito all’avvento della stampa, quindi informato dei nuovi termini in cui si configura il rapporto autore/pubblico, decide di elaborarlo razionalmente: “chiunque debba attuare qualcosa, deve conoscere il suo tempo - e così avere il coraggio di affrontare il pericolo d’impiegare il mezzo più sicuro”.
Affrontare il problema del pubblico nell’era del giornalismo, che non sarebbe altro da quello della falsità della folla, significa porre la questione della verità. Anche in questo caso Kierkegaard si ritrova con Marx: infatti il ‘moro’ nel corso della sua attività giornalistica, tanto alla “Gazzetta renana” (1842-1843) quanto alla “New York Daily Tribune” (1852-1861), non aveva fatto altro che praticare un modello di giornalismo animato dal dire la verità che, nel suo caso, significava fare prendere coscienza ai dominati della loro condizione e ribaltarla. Come Marx collegava il suo dire la verità alla critica del sistema produttivo capitalistico, così Kierkegaard la connette a quella della cristianità del suo tempo, con una differenza sostanziale, ammette come possibile l’inganno: “Si può ingannare un uomo per la verità e si può ingannarlo, come faceva il vecchio Socrate, per portarlo alla verità. In fondo non c’è che un modo per portare alla verità un uomo, ch’è preda della fantasticheria: ingannandolo”.
Con una spregiudicatezza inaudita Kierkegaard, fermo nella convinzione che nulla sia più difficile dello scardinare un uomo dalle illusioni in cui vive e che nulla paghi di meno di un attacco frontale a questo mondo illusorio, pratica un modello del dire la verità che fa sue le potenze dell’inganno. Ai simulacri della cristianità in cui crede la folla, Kierkegaard non oppone una verità superiore, tutt’altro, pensa di poterli rovesciare solo con la forza di altri simulacri, per questo motivo, sceso sul mercato editoriale, fa ricorso a una serie infinita di pseudonimi: Victor Eremita, Johannes de Silentio, Frater Taciturnus e così via. Ciò che l’autore si ripromette da un modello di verità di questo tipo, perseguito con il mascheramento, è di collocarsi “esattamente” nel “posto dove si trova l’altro” e, proprio come in seguito farà Gramsci con le nozioni popolari del senso comune (da qui l’affinità tra i due), iniziare a lavorare dall’interno della situazione illusoria per dissolverne, diciamo così, l’illusorietà, in modo tale da “condurlo”, l’altro, “dove ti trovi tu”, che nel caso di Kierkegaard vuol dire in un cristianesimo radicale.
Se in Marx la critica dell’economia politica presuppone la critica dell’ideologia della classe dominante nelle forme (anche giornalistiche) della presa di coscienza, in Kierkegaard la critica della cristianità istituzionale si basa a sua volta su una critica della falsità portata avanti con la forza (anche giornalistica) del simulacro.
Stig Dalager:
KIERKEGAARD, nostro contemporaneo
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 23 aprile 2016)
Precoce in tutto, Søren Kierkegaard capisce che sta per morire prima ancora che i medici del Frederikshospital di Copenaghen abbiano pronunciato una diagnosi. Resterà ricoverato quarantuno giorni, uno in più degli anni che toccano in sorte, accudito da un’infermiera che avrebbe voluto, anche lei, affermarsi come scrittrice e che a tratti gli ricorda Regine, l’amore assoluto e febbrile, desiderato, negato e infine consegnato alla perfezione dell’ultimo momento. «È anche per questo che il libro si intitola “L’eternità in un istante” », spiega Stig Dalager, scrittore danese molto amato in patria e straordinariamente prolifico in poesia, narrativa e teatro.
Nato nel 1952, è autore di oltre cinquanta opere, tra cui diversi romanzi storico-biografici come Il libro di David e Quei due giorni di luglio, tradotti negli anni scorsi da Lantana. Adesso è invece Iperborea a proporre la fortunata biografia romanzata di Kierkegaard apparsa in patria nel 2013, per il secondo centenario della nascita del filosofo. Racconto appassionante e documentatissimo, che da noi si presenta come L’uomo dell’istante (traduzione e postfazione di Ingrid Basso, pagine 416, euro 18,50). Non appena si rende conto della discrepanza con il titolo originale, Dalager - protagonista in questi giorni del festival milanese I Boreali - chiede spiegazione, ma si rasserena subito allo scoprire che, in effetti, in italiano “L’eternità in un istante” suonerebbe un po’ troppo sentimentale. «No, sentimentale no - dice -, non sarebbe da Kierkegaard».
Eppure il suo romanzo è anche una grande storia d’amore.
«Certo, perché il fidanzamento con Regine Olsen è stato l’elemento centrale della vita di Kierkegaard e, nello stesso tempo, lo sfondo contro il quale risaltano meglio la sua figura e la sua stessa opera. Negli anni Novanta, quando ho iniziato a dedicarmi a questo genere letterario, mi sono a lungo interrogato su come risultare credibile agli occhi del lettore. Stavo lavorando al Libro di David e mi domandavo, nello specifico, come fosse possibile assumere il punto di vista di un ragazzo ebreo durante la Shoah. A quell’epoca vivevo a Vienna e frequentavo Simon Wiesenthal. Che non era solo un sopravvissuto e un cacciatore di nazisti, come si diceva allora. Possedeva un archivio formidabile ed è stato scorrendo quelle carte che mi sono convinto, una volta per tutte, di quanto Adorno si sbagliasse. Specie dopo Auschwitz, la poesia o, se si preferisce, la letteratura è più che mai necessaria».
Perché?
«Perché la letteratura è un’esperienza profondamente emotiva, ma non per questo sentimentale, come dimostrano i capolavori di Primo Levi».
Insomma, il sentimentalismo proprio non le piace.
«Il sentimentalismo e la sensualità sono gli elementi caratteristici di quella che Kierkegaard definiva la “vita estetica”, oggi purtroppo predominante. È una visione del mondo egoistica e narcisistica, che induce ad agire in modo del tutto estemporaneo e spesso insensato, senza che mai ci si interroghi sulle conseguenze delle proprie scelte. A questo atteggiamento, com’è noto, Kierkegaard contrappone la “vita etica”, contrassegnata invece da una profonda consapevolezza della responsabilità insita in ogni azione. Una volta entrato in questa dimensione, l’uomo sa che qualsiasi sua decisione è in qualche misura irreversibile, determinante».
È questo che rende Kierkegaard tanto attuale?
«Lo è per contrasto: oggi, nel tempo dell’irresponsabilità, occorre riscoprire e riaffermare l’importanza della responsabilità. Solo un passo nella direzione della vita etica può permetterci di uscire dalla vita estetica di cui Albert Camus ha dato una rappresentazione definitiva nello Straniero: Meursault, il protagonista, non fa altro che abbandonarsi alle sue sensazioni, agisce senza motivo, non si cura delle conseguenze...».
Forse perché vive in un’epoca di crisi, no?
«Ma anche Kierkegaard vive in un epoca di crisi, questo è il punto. Nasce in una Danimarca che ha ormai perso il suo prestigio internazionale, cerca di aderire al pensiero di Hegel, come gli altri giovani intellettuali del tempo, ma non ci si riesce, elabora una critica radicale dell’hegelismo che si muove in una direzione del tutto diversa rispetto all’idealismo di Schelling. In più è dotato, per natura, di un umorismo pungente, corrosivo, che lo porta ad adoperare gli strumenti della parodia e della satira. Scrive, scrive tantissimo, assumendo una serie di identità assai differenti l’una dall’altra. E poi c’è il rapporto con Regine, la clamorosa rottura del fidanzamento. Ma la vera svolta della sua esistenza sta forse nel momento in cui si oppone al padre, che vorrebbe indirizzarlo allo studio della teologia. Søren lo delude, prendendo la strada della filosofia. Ed è in questa occasione che comprende come di ogni decisione vadano vagliati non solo il significato e l’importanza, ma anche la capacità di cambiare la vita di chi la compie».
Nonostante la ribellione al padre, il pensiero di Kiekegaard è fortemente connotato in senso teologico.
«Direi in senso religioso, semmai. Quella che auspicavano in famiglia era una carriera nella Chiesa di Stato danese, nell’ambito di quel “cristianesimo borghese” che sarà poi uno dei principali bersagli polemici di Kierkegaard. Sono convinto che per lui sia stato determinante uscire dalla condizione di agiatezza in cui era stato educato. Solo quando perde il denaro ereditato dal padre, infatti, Søren si rende conto che la povertà non è un argomento commovente da utilizzare nel sermone della domenica, ma una condizione reale e spietata, che segna ogni giorno l’esistenza delle persone. Diventando povero lui stesso, guarda i poveri con uno sguardo nuovo, attentissimo a cogliere la portata delle diseguaglianze sociali. Mi ha sempre colpito la sua posizione sul comunismo: non c’è bisogno di Marx per comprendere che tutti gli uomini solo uguali, diceva, basta leggere la Bibbia. Il punto più alto del suo pensiero sta nell’intuizione che fa della compassione il fondamento stesso della teologia. In questo, la sua visione del cristianesimo è molto vicina a quella promossa da papa Francesco».
Bè, in fondo hanno letto lo stesso Libro...
«Lo hanno letto allo stesso modo, mi permetto di aggiungere: come un’esortazione alla responsabilità in senso metafisico e mistico, oltre che etico. Ogni nostra azione va sempre considerata nella luce dell’eternità e, quindi, dell’amore. E questa, me lo lasci aggiungere, è una prospettiva molto interessante anche per uno scrittore».
Kierkegaard, voluttà e angoscia
Una biografia interiore in forma di romanzo, costruita con estratti e riassunti presi delle opere del filosofo danese, sostanze della sua stessa vita: "L’uomo dell’istante" di Stig Dalager da Iperborea
di Fulvio Ferrari (il manifesto, Alias, 22.05.2016)
È una giornata d’autunno del 1855 quando il filosofo Søren Kierkegaard, che ha allora solo quarantadue anni, si presenta al Fredrikshospital di Copenaghen per farsi visitare, ma in realtà, non avendo ormai alcuna speranza di guarigione, per essere assistito nei suoi ultimi giorni di vita. Ha così inizio il romanzo biografico di Stig Dalager, L’uomo dell’istante, uscito in Danimarca nel 2013, in occasione del bicentenario della nascita dello scrittore-filosofo, e che appare ora in Italia nell’accurata traduzione di Ingrid Basso per Iperborea (pp. 416, euro 18.50).
Dalager non è nuovo al genere biografico: già nel 2004 ha infatti pubblicato Viaggio nell’azzurro, sulla vita di Hans Christian Andersen, e nel 2012 La luce azzurra, su Marie Curie. Come nei due romanzi precedenti, la narrazione prende le mosse dagli ultimi giorni del protagonista, la cui memoria ricostruisce quindi il racconto biografico in una serie di flash back che, pur seguendo in generale una linea di sviluppo cronologico, permettono all’autore di concentrarsi su momenti particolarmente significativi e intensi, capaci di manifestare con particolare forza e problematicità le questioni che hanno dominato la vita, il pensiero, le emozioni del personaggio.
La strategia di ricostruire una vita in un succedersi di scene, episodi, monologhi interiori e documenti storici si rivela particolarmente adeguata nel caso di Kierkegaard: personaggio più di chiunque altro refrattario alla sintesi con il suo pensiero manifestamente e consapevolmente contraddittorio, con le sue scelte di vita almeno apparentemente irragionevoli, apostolo dell’amore e della mitezza e polemista feroce, che non ferma i suoi attacchi incalzanti nemmeno dopo la morte dell’avversario.
L’operazione di Dalager è difficile e ambiziosa: il romanzo si basa sui più recenti risultati della ricerca storica e biografica e già nella Nota dell’Autore, in apertura del volume, Dalager dichiara il proprio debito nei confronti del libro di Joakim Garff SAK - Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, pubblicato in Danimarca nel 2000 e in Italia, da Castelvecchi, nel 2013. Le finalità di un romanzo sono però assai diverse da quelle di uno studio scientifico e l’intento dell’autore non è quello di dipanare in forma narrativa le vicende della vita del filosofo, ma di esplorare l’intima connessione tra vissuto interiore, vicende esteriori e pensiero. Una esplorazione indispensabile per comprendere il lavorio emotivo e intellettuale di questo pensatore nemico di ogni sistema, che impiegò tutta la propria esistenza a indagare se stesso per comprendere tutti gli uomini e arrivare infine ad accettare l’incomprensibilità di Dio e dell’esistenza, facendosi carico della propria disperazione e tentando il «salto vertiginoso» nella religione e nella fede.
In questo movimento di esplorazione interiore il Kierkegaard descritto da Dalager assume punti di vista differenti e incompatibili, sperimenta diverse concezioni del mondo, frantuma il proprio io in una quantità di pseudonimi, ognuno dei quali rappresenta una parte di lui, ma in assenza di una totalità, che sembra formarsi solo nell’abdicazione di sé, nell’affidarsi all’assurdità della religione: «Uno scrittore si nasconde dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi, l’esistenza scricchiola nel pieno del gioco, è manipolazione e isolamento, ma lui, Søren, dov’è?»
Quello che Dalager, in quanto autore di un romanzo, può darci di più rispetto a una biografia scientifica è la vivida - e angosciosa - descrizione della lacerazione interiore di Kierkegaard, e di come questa lacerazione si trasformi in scrittura.
Due, principalmente, sono le figure con cui il filosofo si misura per tutta la sua vita: il padre Michael e Regine Olson, la giovane donna amata e temuta, conquistata e abbandonata.
Severo e intransigente, il padre incombe sul giovane Søren come un’ombra minacciosa, e tuttavia sarebbe semplicistico vederne solo l’aspetto cupo e oppressivo. Dal padre, Kierkegaard impara a non accontentarsi della superficialità, a non assolversi cercando rifugio nell’inconsapevolezza, ma a scavare spietatamente in se stesso alla ricerca di una ragione di vita, di una verità che giustifichi l’esistenza: «Ciò che conta è trovare una verità che sia verità per me, trovare ciò per cui io voglio vivere e morire».
Impetuoso, tormentato e di fatto impossibile, il rapporto con Regine è ben più di una (fallita) relazione amorosa, è piuttosto un laboratorio psichico in cui Søren viviseziona la propria anima, si confronta con i propri desideri, impulsi, terrori.
Che di Regine sia innamorato non c’è dubbio, e la giovane donna assume ai suoi occhi una funzione quasi salvifica: «Sai che la Chiesa cattolica insegna che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime del purgatorio», le scrive in una lettera riportata nel romanzo per intero, «io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore smetto di udire lo sferragliare di catene, e sono libero». Ma la presenza di Regine non può dare pace al suo innamorato, troppo concentrato sulla sua ricerca interiore per poter tenere aperto un dialogo costante con un altro, vero e concreto essere umano.
Regine diventa così l’incarnazione di tutto ciò che è desiderabile, ma anche di tutto ciò che è negato a chi ha deciso di sacrificare se stesso sull’altare della verità, di una verità che non riesce peraltro a emergere se non nell’atto di negazione di ogni sforzo intellettuale e dialettico, vale a dire nel «salto» nella religione. Ed ecco allora che il ruolo di redenzione che Regine non può svolgere viene almeno in parte assunto dalla scrittura: «Scrivere è un godimento e una liberazione dall’umor nero, una vera e propria voluttà della penna che può nascondere anche un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre all’infinito e fa mancare la terra sotto i piedi».
La scrittura è così espressione e sostanza della vita di Kierkegaard, i suoi libri sono la sua biografia interiore, ognuno di essi è una nuova esperienza di esplorazione di sé. Dalager, quindi, non può fare a meno di accompagnare il racconto con riassunti e estratti delle sue opere, a costo di correre il rischio di rendere la lettura più lenta e difficoltosa. Questi riassunti e questi estratti, peraltro, non possono in alcun modo essere utilizzati per spiegare o riassumere il pensiero del filosofo:
L’uomo dell’istante non è una «guida alla lettura» di Kierkegaard, ma un’indagine del processo creativo in cui esperienza, sofferenza, dubbio e volontà si mutano in pensiero, anzi, in pensieri tra loro in dialogo e, spesso, in conflitto.
In questo senso la vicenda umana di Kierkegaard diviene una vicenda esemplare, un caso estremo in cui l’indissolubile groviglio delle relazioni tra vita esteriore e vita interiore, tra ambiente e individuo, tra dimensione inconscia e riflessione cosciente si rivela in tutta la sua complessità e, anche, nella sua minacciosa instabilità.
E nel lettore restano impresse immagini che hanno la forza di simboli: le surreali cene che Søren organizza con ospiti immaginari, ad esempio, cui fanno contrasto le giornate passate giocando con i bambini, nipoti e figli dei vicini. E, naturalmente, gli ultimi momenti del filosofo: il corpo sempre più debole, la rassegnazione svagata, malinconica, e la dolce presenza dell’infermiera Ilia Fibiger, quasi una riapparizione della donna angelo, protettiva e irraggiungibile, che per tutta la vita aveva avuto il volto di Regine Olsen.
SCIENZA
E Bohr inventò l’atomo (grazie a Kierkegaard)
di Franco Gabici (Avvenire, 8 aprile 2013)
Il famoso modello "planetario" dell’atomo compie cent’anni. Fu il fisico danese Niels Bohr, infatti, a proporlo nel 1913 riprendendo una intuizione di Ernst Rutherford che per primo aveva avuto l’idea di considerare l’atomo come un sistema solare in miniatura, con un nucleo centrale composto da protoni e neutroni attorno al quale giravano elettroni il cui numero uguagliava quello dei protoni. Proposto in questa maniera, però, il modello non reggeva all’evidenza dei fatti. Gli elettroni orbitanti, infatti, possiedono una carica elettrica (negativa) e l’elettrodinamica classica insegna che una carica elettrica in movimento emette energia. Di conseguenza un elettrone in moto dovrebbe ridurre a poco a poco il raggio della sua orbita e terminare la sua corsa sul nucleo.
L’atomo, in altre parole, si distruggerebbe e il tutto dovrebbe avvenire in un tempo piccolissimo. Gli atomi, invece, come dimostra il mondo che ci circonda, sono stabili e dunque occorreva spiegare questa loro stabilità e apportare una opportuna correzione al modello di Rutherford. Ed è a questo punto che interviene Niels Bohr il quale rendendosi conto che il modello non reggeva all’esame delle leggi della fisica classica, applicò i criteri della nuova fisica quantistica e salvò capra e cavoli introducendo nuove ipotesi. Per prima cosa Bohr stabilì che gli elettroni non potevano muoversi liberamente attorno al nucleo ma dovevano girargli intorno solamente su orbite prestabilite (dette "stati stazionari" o "orbite quantiche") a ciascuna delle quali era assegnata una certa energia. E inoltre postulò che quando un elettrone si trovava su una di queste orbite non emetteva energia.
Lo stato stabile di un elettrone, inoltre, era quello corrispondente alla energia minima e questo corrispondeva all’orbita più vicina al nucleo. Un elettrone, infine, poteva "saltare" da un’orbita all’altra e in tal caso se il salto avveniva verso il nucleo si aveva emissione di energia mentre se il salto lo allontanava dal nucleo si assorbiva energia. Questo intervento di Bohr sembrava dunque mettere le cose a posto, ma in effetti apriva altre problematiche. Nel suo modello, infatti, Bohr considera l’elettrone come una particella mentre la nuova meccanica ondulatoria di De Broglie introduceva il dualismo "onda-corpuscolo" secondo il quale ogni particella può essere considerata a volte come un ente materiale e a volte come un’onda.
In altre parole il modello dell’atomo di Bohr pecca ancora, almeno nelle premesse, di "classicità" ma a questo punto vorrei abbandonare questo tipo di disquisizione, che ci porterebbe troppo lontano, per proporre al lettore una considerazione di tipo filosofico che per me ha dello straordinario. Scrive Lewis S.Feuer, infatti, che «la teoria dell’atomo di idrogeno di Bohr può essere vista da un punto di vista psicologico come la proiezione della dialettica qualitativa di Kierkegaard».
Søren Kierkegaard, il padre dell’esistenzialismo, era conterraneo di Bohr (entrambi erano nativi di Copenaghen) e quest’ultimo, guarda caso, fu un suo appassionato lettore. Mentre stava preparando la tesi di laurea, Bohr scrisse a suo fratello che la lettura di Un frammento di vita di Kierkegaard «mi ha procurato molto piacere» e «credo perfino che sia una delle cose migliori che abbia mai letto». Secondo la filosofia di Kierkegaard l’evoluzione spirituale di un uomo si realizza attraverso tre "stadi" (estetico, etico e religioso) e il passaggio da uno stadio all’altro avviene attraverso un "salto", vale a dire una transizione discontinua non spiegabile razionalmente.
Ma questa categoria del salto ci rimanda ai salti degli elettroni da un’orbita all’altra sicché è lecito pensare che Bohr, nella sua formulazione, possa essere stato influenzato dalle «transizioni brusche e inspiegabili» dell’io di Kierkegaard. Ma il pensiero di Kierkegaard avrebbe influenzato Bohr anche nella formulazione del suo famoso "principio di complementarietà" secondo il quale il duplice aspetto onda-corpuscolo non poteva essere osservato contemporaneamente durante lo stesso esperimento perché un aspetto escludeva l’altro.
Per dirla in termini kierkegaardiani ci troviamo di fronte a un vero "aut aut" e Bohr, operando una scelta fra le rappresentazioni complementari, «recitava un dramma kierkegaardiano nella teoria dei quanti». Tutte queste considerazioni potrebbero far storcere il naso a qualcuno ma resta pur sempre il fatto che si tratta di accostamenti intriganti che gettano comunque un ponte fra la fisica e la filosofia. E nel nostro caso specifico tutto questo è oltremodo interessante se pensiamo che il modello dell’atomo di Bohr fu proposto nel 1913, vale a dire nello stesso anno in cui ricorreva il primo centenario della nascita di Kierkegaard.
Oggi, dunque, il calendario ci offre l’opportunità di ricordare il centenario del modello di Bohr (1913) e il bicentenario di Kierkegaard (1813) mettendo assieme fisica e filosofia, un’opportunità straordinaria e un bellissimo esempio di interdisciplinarietà.
Un sorso di sincerità, da Platone a Erasmo
Tra etica ed estetica, Kierkegaard fece la fortuna del motto «In vino veritas»
di Armando Torno (Corriere della Sera, 23.03.2012)
Pochi motti sono stati fortunati come il medievale In vino veritas, ovvero «Nel vino la verità». Nonostante gli sforzi dei filologi, non si trova in questi termini né in Orazio e in Plinio; casomai codesti autori utilizzarono un accostamento tra vino e verità che i Romani conoscevano grazie a un proverbio greco. Il quale, riportato da Alceo, passò anche dalle pagine del Simposio di Platone e nella Vita di Artaserse di Plutarco: «Vino, fanciullo mio, e verità».
L’unione delle due immagini si ritrova anche nei lessici bizantini (quello di Suda, per esempio), ma non è il caso di tormentarsi ulteriormente sulla sua fortuna, perché il vino è sempre stato amato e l’ebbrezza che genera gradita. Anzi a ben guardare talune opere classiche, magari proprio cominciando dal citato Simposio platonico, ci si accorge che il mondo pagano vedeva dietro queste parole una sorta di sacralità dei patti o delle verità pronunciate con l’aiuto del vino.
Non a caso, il corrispettivo del motto medievale si ritrova nelle lingue moderne, a cominciare dal francese: «Avant Noé les hommes, n’ayant que l’eau à boire, ne pouvaient trouver la vérité». Si tratta di una battuta ironica e si riferisce a un passo della Genesi biblica (9, 20-21), riguardante i momenti che seguono il Diluvio: «Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda». Comunque il frutto della vite è sempre piaciuto anche a letterati e filosofi moderni, non soltanto agli antichi così rispettosi di Bacco o del corrispettivo greco Dioniso, dio che ispirava le cerimonie sacre al nettare con perdite di ragione (non a caso il Senato romano ne proibì i riti nel 186 a.C.).
Se Nietzsche ricorda il suo maestro Friedrich Wilhelm Ritschl che «aveva sempre un bicchiere di vino sul tavolo dove lavorava», non dimentichiamoci che il letterato toscano Francesco Redi nel Seicento poteva scrivere nel suo Bacco in Toscana: «... e quando in bel paraggio/ d’ogni altro vin lo assaggio,/ sveglia nel petto mio/ un certo non so che,/ che non so dir s’egli è/ o gioia, o pur desìo:/ egli è un desio novello,/ novel desio di bere,/ che tanto più s’accresce/ quanto più vin si mesce:/ mescete, o miei compagni,/ e nella grande inondazion vinosa/ si tuffi...». Insomma, un vero e proprio inno alla crapula, fonte di verità.
Ma la vera fortuna contemporanea del motto medievale e dello spirito che lo permea, soprattutto nell’ambito del pensiero, si deve a Kierkegaard che intitolò In vino veritas la prima parte della sua opera Studi sul cammino della vita. Pagine scritte nel 1845, rappresentano nel sistema del filosofo danese i diversi gradi del momento estetico. Sono fascinose, seducenti. Kierkegaard ci fa assistere a un dialogo tra personaggi in un banchetto, evocando scene descritte da Petronio nel Satyricon.
Le figure si succedono in una specie di monologo sul tema dell’amore, contaminando etica ed estetica. Il vino aiuta le loro parole. Gli argomenti ruotano attorno alla donna. La quale viene via via definita contraddizione, scherzo, assurdo, creatura ridicola, gioco, ma anche - usando la traduzione di Icilio Vecchiotti pubblicata da Laterza - «una infinità di finitezze», o meglio una sorta di inganno che merita di essere ingannato. Ma se da essa si dovessero prendere le distanze, si giungerebbe a negare l’uomo. Un gioco ironico, perfetto, con comparse che riflettono le opinioni di Kierkegaard. E il suo sublime metodo.
Ci sarebbe da perdersi nel far vivere altre intuizioni. Ci basti chiudere con un’opera che sta a base della modernità: gli Adagia di Erasmo da Rotterdam. Ora che Les Belles Lettres hanno finalmente pubblicato la prima traduzione integrale in una lingua moderna (cinque volumi, con testo latino a fronte; a cura di Jean-Christophe Saladin) si potrà proseguire con le varianti del motto registrate dal meraviglioso umanista. Era convinto che non sempre la verità si contrappone alla menzogna, ma sovente agisce come antidoto alla simulazione. E il vino? Aiuta. Aiuta anche in tale caso.
HANNAH ARENDT: LA RESISTENZA NONVIOLENTA IN DANIMARCA *
La storia degli ebrei danesi e’ una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le universita’ ove vi sia una facolta’ di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario e’ violento e dispone di mezzi infinitamente superiori. Certo, anche altri paesi d’Europa difettavano di "comprensione per la questione ebraica", e anzi si puo’ dire che la maggioranza dei paesi europei fossero contrari alle soluzioni "radicali" e "finali". Come la Danimarca, anche la Svezia, l’Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall’antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese oso’ esprimere apertamente cio’ che pensava. L’Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d’ingegnosita’, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale. Era esattamente l’opposto di quello che fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni. Decisivo fu poi il fatto che i tedeschi non riuscirono nemmeno a imporre che si facesse una distinzione tra gli ebrei di origine danese (che erano circa seimilaquattrocento) e i millequattrocento ebrei di origine tedesca che erano riparati in Danimarca prima della guerra e che ora il governo del Reich aveva dichiarato apolidi. Il rifiuto opposto dai danesi dovette stupire enormemente i tedeschi, poiche’ ai loro occhi era quanto mai "illogico" che un governo proteggesse gente a cui pure aveva negato categoricamente la cittadinanza e anche il permesso di lavorare. (Dal punto di vista giuridico, prima della guerra la situazione dei profughi in Danimarca non era diversa da quella che c’era in Francia, con la sola differenza che la corruzione dilagante nella vita amministrativa della Terza Repubblica permetteva ad alcuni di farsi naturalizzare, grazie a mance o "aderenze", e a molti di lavorare anche senza un permesso; la Danimarca invece, come la Svizzera, non era un paese pour se debrouiller). I danesi spiegarono ai capi tedeschi che siccome i profughi, in quanto apolidi, non erano piu’ cittadini tedeschi, i nazisti non potevano pretendere la loro consegna senza il consenso danese. Fu uno dei pochi casi in cui la condizione di apolide si rivelo’ un buon pretesto, anche se naturalmente non fu per il fatto in se’ di essere apolidi che gli ebrei si salvarono, ma perche’ il governo danese aveva deciso di difenderli. Cosi’ i nazisti non poterono compiere nessuno di quei passi preliminari che erano tanto importanti nella burocrazia dello sterminio, e le operazioni furono rinviate all’autunno del 1943.
Quello che accadde allora fu veramente stupefacente; per i tedeschi, in confronto a cio’ che avveniva in altri paesi d’Europa, fu un grande scompiglio. Nell’agosto del 1943 (quando ormai l’offensiva tedesca in Russia era fallita, l’Afrika Korps si era arreso in Tunisia e gli Alleati erano sbarcati in Italia) il governo svedese annullo’ l’accordo concluso con la Germania nel 1940, in base al quale le truppe tedesche avevano il diritto di attraversare la Svezia. A questo punto i danesi decisero di accelerare un po’ le cose: nei cantieri della Danimarca ci furono sommosse, gli operai si rifiutarono di riparare le navi tedesche e scesero in sciopero. Il comandante militare tedesco proclamo’ lo stato d’emergenza e impose la legge marziale, e Himmler penso’ che fosse il momento buono per affrontare il problema ebraico, la cui "soluzione" si era fatta attendere fin troppo. Ma un fatto che Himmler trascuro’ fu che (a parte la resistenza danese) i capi tedeschi che ormai da anni vivevano in Danimarca non erano piu’ quelli di un tempo. Non solo il generale von Hannecken, il comandante militare, si rifiuto’ di mettere truppe a disposizione del dott. Werner Best, plenipotenziario del Reich; ma anche le unita’ speciali delle SS (gli Einsatzkommandos) che lavoravano in Danimarca trovarono molto da ridire sui "provvedimenti ordinati dagli uffici centrali", come disse Best nella deposizione che rese poi a Norimberga. E lo stesso Best, che veniva dalla Gestapo ed era stato consigliere di Heydrich e aveva scritto un famoso libro sulla polizia e aveva lavorato per il governo militare di Parigi con piena soddisfazione dei suoi superiori, non era piu’ una persona fidata, anche se non e’ certo che a Berlino se ne rendessero perfettamente conto. Comunque, fin dall’inizio era chiaro che le cose non sarebbero andate bene, e l’ufficio di Eichmann mando’ allora in Danimarca uno dei suoi uomini migliori, Rolf Guenther, che sicuramente nessuno poteva accusare di non avere la necessaria "durezza". Ma Guenther non fece nessuna impressione ai suoi colleghi di Copenhagen, e von Hannecken si rifiuto’ addirittura di emanare un decreto che imponesse a tutti gli ebrei di presentarsi per essere mandati a lavorare.
Best ando’ a Berlino e ottenne la promessa che tutti gli ebrei danesi sarebbero stati inviati a Theresienstadt, a qualunque categoria appartenessero - una concessione molto importante, dal punto di vista dei nazisti. Come data del loro arresto e della loro immediata deportazione (le navi erano gia’ pronte nei porti) fu fissata la notte del primo ottobre, e non potendosi fare affidamento ne’ sui danesi ne’ sugli ebrei ne’ sulle truppe tedesche di stanza in Danimarca, arrivarono dalla Germania unita’ della polizia tedesca, per effettuare una perquisizione casa per casa. Ma all’ultimo momento Best proibi’ a queste unita’ di entrare negli alloggi, perche’ c’era il rischio che la polizia danese intervenisse e, se la popolazione danese si fosse scatenata, era probabile che i tedeschi avessero la peggio. Cosi’ poterono essere catturati soltanto quegli ebrei che aprivano volontariamente la porta. I tedeschi trovarono esattamente 477 persone (su piu’ di 7.800) in casa e disposte a lasciarli entrare. Pochi giorni prima della data fatale un agente marittimo tedesco, certo Georg F. Duckwitz, probabilmente istruito dallo stesso Best, aveva rivelato tutto il piano al governo danese, che a sua volta si era affrettato a informare i capi della comunita’ ebraica. E questi, all’opposto dei capi ebraici di altri paesi, avevano comunicato apertamente la notizia ai fedeli, nelle sinagoghe, in occasione delle funzioni religiose del capodanno ebraico. Gli ebrei ebbero appena il tempo di lasciare le loro case e di nascondersi, cosa che fu molto facile perche’, come si espresse la sentenza, "tutto il popolo danese, dal re al piu’ umile cittadino", era pronto a ospitarli.
Probabilmente sarebbero dovuti rimanere nascosti per tutta la durata della guerra se la Danimarca non avesse avuto la fortuna di essere vicina alla Svezia. Si ritenne opportuno trasportare tutti gli ebrei in Svezia, e cosi’ si fece con l’aiuto della flotta da pesca danese. Le spese di trasporto per i non abbienti (circa cento dollari a persona) furono pagate in gran parte da ricchi cittadini danesi, e questa fu forse la cosa piu’ stupefacente di tutte, perche’ negli altri paesi gli ebrei pagavano da se’ le spese della propria deportazione, gli ebrei ricchi spendevano tesori per comprarsi permessi di uscita (in Olanda, Slovacchia e piu’ tardi Ungheria), o corrompendo le autorita’ locali o trattando "legalmente" con le SS, le quali accettavano soltanto valuta pregiata e, per esempio in Olanda, volevano dai cinquemila ai diecimila dollari per persona. Anche dove la popolazione simpatizzava per loro e cercava sinceramente di aiutarli, gli ebrei dovevano pagare se volevano andar via, e quindi le possibilita’ di fuggire, per i poveri, erano nulle.
Occorse quasi tutto ottobre per traghettare gli ebrei attraverso le cinque-quindici miglia di mare che separano la Danimarca dalla Svezia. Gli svedesi accolsero 5.919 profughi, di cui almeno 1.000 erano di origine tedesca, 1.310 erano mezzi ebrei e 686 erano non ebrei sposati ad ebrei. (Quasi la meta’ degli ebrei di origine danese rimase invece in Danimarca, e si salvo’ tenendosi nascosta). Gli ebrei non danesi si trovarono bene come non mai, giacche’ tutti ottennero il permesso di lavorare. Le poche centinaia di persone che la polizia tedesca era riuscita ad arrestare furono trasportate a Theresienstadt: erano persone anziane o povere, che o non erano state avvertite in tempo o non avevano capito la gravita’ della situazione. Nel ghetto godettero di privilegi come nessun altro gruppo, grazie all’incessante campagna che in Danimarca fecero su di loro le autorita’ e privati cittadini. Ne perirono quarantotto, una percentuale non molto alta, se si pensa alla loro eta’ media. Quando tutto fu finito, Eichmann si senti’ in dovere di riconoscere che "per varie ragioni" l’azione contro gli ebrei danesi era stata un "fallimento"; invece quel singolare individuo che era il dott. Best dichiaro’: "Obiettivo dell’operazione non era arrestare un gran numero di ebrei, ma ripulire la Danimarca dagli ebrei: ed ora questo obiettivo e’ stato raggiunto".
L’aspetto politicamente e psicologicamente piu’ interessante di tutta questa vicenda e’ forse costituito dal comportamento delle autorita’ tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalita’. Non vedevano piu’ lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro "durezza" si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio. Del resto, che l’ideale della "durezza", eccezion fatta forse per qualche bruto, fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsi, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irreggimentarsi a qualunque prezzo, lo si vide chiaramente al processo di Norimberga, dove gli imputati si accusarono e si tradirono a vicenda giurando e spergiurando di essere sempre stati "contrari" o sostenendo, come fece piu’ tardi anche Eichmann, che i loro superiori avevano abusato delle loro migliori qualita’. (A Gerusalemme Eichmann accuso’ "quelli al potere" di avere abusato della sua "obbedienza": "il suddito di un governo buono e’ fortunato, il suddito di un governo cattivo e’ sfortunato: io non ho avuto fortuna"). Ora avevano perduto l’altezzosita’ d’un tempo, e benche’ i piu’ di loro dovessero ben sapere che non sarebbero sfuggiti alla condanna, nessuno ebbe il fegato di difendere l’ideologia nazista.
* [Da Hannah Arendt, La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, 1993, alle pp. 177-182. E’ un brano che abbiamo gia’ altre volte riprodotto su questo foglio.
Hannah Arendt e’ nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l’ascesa del nazismo la costringe all’esilio, dapprima e’ profuga in Francia, poi esule in America; e’ tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita’ da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori’ a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l’anno di pubblicazione dell’edizione italiana, ma solo l’anno dell’edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita’, Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita’, Milano; postumo e incompiuto e’ apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e’ Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e’ Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita’ e giudizio, Einaudi, Torino 2004; la recente Antologia, Feltrinelli, Milano 2006; i recentemente pubblicati Quaderni e diari, Neri Pozza, 2007. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e’ la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005; Alois Prinz, Io, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1999, 2009. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 395 del 5 dicembre 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
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