Soren Kierkegaard, il “Socrate del Nord”. Soren Kierkegaard, il poeta, il filosofo, il teologo, il mistico, l’esteta, il religioso, servito come “un canovaccio per lustrare ogni causa”, ebbe a dire Remo Cantoni. Soren Kierkegaard, il dialettico. Il libro “Kierkegaard e la dialettica della “comunicazione della verità”, edito da Ursini edizioni, mette a nudo tutte le manifestazioni filosofiche del pensatore danese negli anni in cui imperava l’hegelismo e l’autocompiacenza umana per restituire il suo pensiero a se stesso attraverso la sua stessa dialettica.
L’“imbarazzo” della comprensione che si prova quando ci si imbatte nei suoi libri è testimoniata dal suo più grande studioso: Cornelio Fabro, che ci ha lasciato questa inaspettata confessione: “la struttura della sua produzione a me pare di comprenderla meglio quando la prospetto in due momenti: prima e al di qua di ogni specificazione e dopo e al di là di ogni specificazione. Voglio dire che quando considero Kierkegaard uomo vivo e cristiano sincero mentre sente e muove i problemi, tutto o quasi tutto mi sembra abbastanza chiaro nella selva della sua vita e della sua opera. Quando invece considero il Kierkegaard dopo e al di là di ogni specificazione - il Kierkegaard “conclusivo” o “conclusivo inconcludente” - mi sembra che neppure uno sia in grado di soddisfare non soltanto me, ma nessuno, esteta, filosofo, teologo, uomo, cristiano o asceta e mistico che sia”. Una dialettica lucida e severa che, in soli quindici anni (dall’età di 27 fino ai 42, quando fu ritrovato svenuto a terra per strada, e poi morì poco dopo.
Nato nel 1813 è morto nel 1855), ha martellato tutto lo scibile umano per ricondurlo alla primitività dell’essere uomo. Alla sua esistenza, invischiata di “conoscenza oggettiva” (Hegel e filosofia in generale), di “rinuncia alla verità” (Illuminismo), e del “narcisismo” dei romantici. A loro il pensatore danese ha sbattuto in faccia la figura di Socrate. La sua maieutica. Fatta di “ignoranza” e di ricerca della verità nell’uomo. “Prima bisogna ritornare a Socrate, e poi...”.
Fatto questo, ha poi annunciato il principio del Cristianesimo, dell’uomo come non-verità e del salto della fede per riacquistare la vera verità con la gratia del perdono. E qui si è scontrato con il “Medioevo”, da una parte, e con il "Luteranesimo" e la "Cristianità stabilità" del tempo, dall’altra.
Il primo perché ha messo troppo in evidenza la non-verità dell’uomo. I secondi nell’aver escogitato il calmante della sola gratia. Il suo procedimento, quindi, anche se fa perno sulla maieutica socratica, vive di luce propria grazie alla scoperta del Cristianesimo. E alla ironia del maestro greco sostituisce l’humour del sapere cristiano che “l’uomo è non verità”, da cui il salto. Salto che avviene solo nella sfera della realtà. Che è lungi dall’essere “inglobata” in quella del pensiero. Anzi, quando la realtà etica viene comunicata questa non può esimersi dal divenire “inquietudine” per gli altri. “Il massimo che un uomo può fare per un altro uomo è di renderlo inquieto”, dice nel suo diario. Inquietudine umoristica che non ha mai abbandonato in tutta la sua vita e in tutto il suo scrivere.
Vita e scrittura, un binomio. Il binomio dialettico-patetico orientato all’esistenza. Alla sua, quale primo lettore dei suoi stessi libri, pubblicati sotto pseudonimo, e poi a quella degli altri. “Lo scrivere ha occupato tutta la vita di Kierkegaard e la vita di lui occupa tutto il suo scrivere”, dice Fabro. Un suo coetaneo, Robert Nielsen, rincara la dose: “Egli non fu un giovane che sia diventato vecchio con gli anni, non un leggero che poi sia divenuto serio, non un esteta che più tardi sia diventato religioso: no, egli era fin da principio tutto ciò che egli poi fu, in un raddoppiamento singolare; vecchio nella sua giovinezza, serio nel suo scherzo, allegro nel suo dolore, dolce nella sua fortezza, mesto nella sua amarezza. Kierkegaard è a tal punto una natura a priori che egli quasi manca della perfettibilità”.
Kierkegaard è quindi davvero il padre dell’esistenzialismo? Forse questa catalogazione andrà bene per i libri di storia della filosofia, ma non per chi lo legge. E soprattutto per chi riesce a capirlo, attraverso, crede l’autore, la sua stessa dialettica indirizzata all’etica.
Kierkegaard è, in nuce, una personalità eccezionale. Un genio. “Ogni volta che nasce un genio - scrive il filosofo - si fa quasi la prova dell’esistenza; perché egli percorre e rivive tutto ciò che è già passato finché raggiunge se stesso. La conoscenza che il genio ha del passato è perciò diversa da quella che si offre nei compendi della storia universale”. E lui ha rivisitato la storia universale, arrivata fino a lui. Per quale motivo? Perché la filosofia, la cultura, la storia, avendo preso il sopravvento sull’individuo avevano soffocato l’uomo nelle sabbie mobili dell’oggettività del pensiero - dove tutto è necessario. In questo contesto ci voleva un po’ di aria fresca. Una possibilità. “La possibilità è l’unica via di salvezza: una possibilità e il disperato riprende lena. Si rianima, perché se l’uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria”. Lo dice lui stesso.
Il libro si chiude con questa interrogazione: “Se scrivere su Kierkegaard significa più che di semplice ricordo, categoria possibile di una declinazione “estetica”, di una “ripresa” del suo pensiero”, ciò è possibile senza la propria personale reduplicazione etica, quale telos della sua “comunicazione”? La risposta è: no!”
http://www.agoravox.it/attualita/cultura/article/kierkegaard-e-la-dialettica-della-11705
Vi segnaliamo il blog dell’autore del libro Emilio Grimaldi: l’Url di emilio grimaldi
Stig Dalager:
KIERKEGAARD, nostro contemporaneo
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 23 aprile 2016)
Precoce in tutto, Søren Kierkegaard capisce che sta per morire prima ancora che i medici del Frederikshospital di Copenaghen abbiano pronunciato una diagnosi. Resterà ricoverato quarantuno giorni, uno in più degli anni che toccano in sorte, accudito da un’infermiera che avrebbe voluto, anche lei, affermarsi come scrittrice e che a tratti gli ricorda Regine, l’amore assoluto e febbrile, desiderato, negato e infine consegnato alla perfezione dell’ultimo momento. «È anche per questo che il libro si intitola “L’eternità in un istante” », spiega Stig Dalager, scrittore danese molto amato in patria e straordinariamente prolifico in poesia, narrativa e teatro.
Nato nel 1952, è autore di oltre cinquanta opere, tra cui diversi romanzi storico-biografici come Il libro di David e Quei due giorni di luglio, tradotti negli anni scorsi da Lantana. Adesso è invece Iperborea a proporre la fortunata biografia romanzata di Kierkegaard apparsa in patria nel 2013, per il secondo centenario della nascita del filosofo. Racconto appassionante e documentatissimo, che da noi si presenta come L’uomo dell’istante (traduzione e postfazione di Ingrid Basso, pagine 416, euro 18,50). Non appena si rende conto della discrepanza con il titolo originale, Dalager - protagonista in questi giorni del festival milanese I Boreali - chiede spiegazione, ma si rasserena subito allo scoprire che, in effetti, in italiano “L’eternità in un istante” suonerebbe un po’ troppo sentimentale. «No, sentimentale no - dice -, non sarebbe da Kierkegaard».
Eppure il suo romanzo è anche una grande storia d’amore.
«Certo, perché il fidanzamento con Regine Olsen è stato l’elemento centrale della vita di Kierkegaard e, nello stesso tempo, lo sfondo contro il quale risaltano meglio la sua figura e la sua stessa opera. Negli anni Novanta, quando ho iniziato a dedicarmi a questo genere letterario, mi sono a lungo interrogato su come risultare credibile agli occhi del lettore. Stavo lavorando al Libro di David e mi domandavo, nello specifico, come fosse possibile assumere il punto di vista di un ragazzo ebreo durante la Shoah. A quell’epoca vivevo a Vienna e frequentavo Simon Wiesenthal. Che non era solo un sopravvissuto e un cacciatore di nazisti, come si diceva allora. Possedeva un archivio formidabile ed è stato scorrendo quelle carte che mi sono convinto, una volta per tutte, di quanto Adorno si sbagliasse. Specie dopo Auschwitz, la poesia o, se si preferisce, la letteratura è più che mai necessaria».
Perché?
«Perché la letteratura è un’esperienza profondamente emotiva, ma non per questo sentimentale, come dimostrano i capolavori di Primo Levi».
Insomma, il sentimentalismo proprio non le piace.
«Il sentimentalismo e la sensualità sono gli elementi caratteristici di quella che Kierkegaard definiva la “vita estetica”, oggi purtroppo predominante. È una visione del mondo egoistica e narcisistica, che induce ad agire in modo del tutto estemporaneo e spesso insensato, senza che mai ci si interroghi sulle conseguenze delle proprie scelte. A questo atteggiamento, com’è noto, Kierkegaard contrappone la “vita etica”, contrassegnata invece da una profonda consapevolezza della responsabilità insita in ogni azione. Una volta entrato in questa dimensione, l’uomo sa che qualsiasi sua decisione è in qualche misura irreversibile, determinante».
È questo che rende Kierkegaard tanto attuale?
«Lo è per contrasto: oggi, nel tempo dell’irresponsabilità, occorre riscoprire e riaffermare l’importanza della responsabilità. Solo un passo nella direzione della vita etica può permetterci di uscire dalla vita estetica di cui Albert Camus ha dato una rappresentazione definitiva nello Straniero: Meursault, il protagonista, non fa altro che abbandonarsi alle sue sensazioni, agisce senza motivo, non si cura delle conseguenze...».
Forse perché vive in un’epoca di crisi, no?
«Ma anche Kierkegaard vive in un epoca di crisi, questo è il punto. Nasce in una Danimarca che ha ormai perso il suo prestigio internazionale, cerca di aderire al pensiero di Hegel, come gli altri giovani intellettuali del tempo, ma non ci si riesce, elabora una critica radicale dell’hegelismo che si muove in una direzione del tutto diversa rispetto all’idealismo di Schelling. In più è dotato, per natura, di un umorismo pungente, corrosivo, che lo porta ad adoperare gli strumenti della parodia e della satira. Scrive, scrive tantissimo, assumendo una serie di identità assai differenti l’una dall’altra. E poi c’è il rapporto con Regine, la clamorosa rottura del fidanzamento. Ma la vera svolta della sua esistenza sta forse nel momento in cui si oppone al padre, che vorrebbe indirizzarlo allo studio della teologia. Søren lo delude, prendendo la strada della filosofia. Ed è in questa occasione che comprende come di ogni decisione vadano vagliati non solo il significato e l’importanza, ma anche la capacità di cambiare la vita di chi la compie».
Nonostante la ribellione al padre, il pensiero di Kiekegaard è fortemente connotato in senso teologico.
«Direi in senso religioso, semmai. Quella che auspicavano in famiglia era una carriera nella Chiesa di Stato danese, nell’ambito di quel “cristianesimo borghese” che sarà poi uno dei principali bersagli polemici di Kierkegaard. Sono convinto che per lui sia stato determinante uscire dalla condizione di agiatezza in cui era stato educato. Solo quando perde il denaro ereditato dal padre, infatti, Søren si rende conto che la povertà non è un argomento commovente da utilizzare nel sermone della domenica, ma una condizione reale e spietata, che segna ogni giorno l’esistenza delle persone. Diventando povero lui stesso, guarda i poveri con uno sguardo nuovo, attentissimo a cogliere la portata delle diseguaglianze sociali. Mi ha sempre colpito la sua posizione sul comunismo: non c’è bisogno di Marx per comprendere che tutti gli uomini solo uguali, diceva, basta leggere la Bibbia. Il punto più alto del suo pensiero sta nell’intuizione che fa della compassione il fondamento stesso della teologia. In questo, la sua visione del cristianesimo è molto vicina a quella promossa da papa Francesco».
Bè, in fondo hanno letto lo stesso Libro...
«Lo hanno letto allo stesso modo, mi permetto di aggiungere: come un’esortazione alla responsabilità in senso metafisico e mistico, oltre che etico. Ogni nostra azione va sempre considerata nella luce dell’eternità e, quindi, dell’amore. E questa, me lo lasci aggiungere, è una prospettiva molto interessante anche per uno scrittore».