Educare, una scommessa che ricomincia dagli ultimi
«Ogni ragazzo che abbandona la scuola è una sconfitta»: apre oggi la kermesse sull’emergenza educativa. Parlano, tra gli altri, Cacciari, Gesualdi e Iavazzo
DA ROVERETO DIEGO ANDREATTA (Avvenire, 26.09.2008).
«Per fare crescere un bambino ci vuole un villaggio intero». Il proverbio africano spicca sulle locandine a Rovereto per illustrare l’inedita formula, partecipata ’dal basso’, della prima manifestazione nazionale tutta dedicata all’emergenza educativa - in corso da oggi fino a domenica -per ’ridare la parola’ a educatori, genitori e insegnanti "sulla scommessa più importante per il futuro del nostro Paese"».
Nel programma di ’Educa’ non ci sono le infinite tavole rotonde dei festival di consumo, ma seminari per genitori e operatori sociali, selezionate testimonianze, laboratori creativi sul gioco, la musica e il web, perfino un grande gioco con le famiglie, la proiezione dell’ultimo film di Pupi Avati commentata dal regista e una serata di letture con Luca Doninelli sulla musica di un’orchestra multietnica.
Fin dall’apertura di stamane (e dal dibattito futuro sul sito www.educaonline.it) la riflessione ruota sul ’Manifesto di Educa’, una piattaforma stringente che invita a chiarire il ’come’ e il ’che cosa’ si debba educare. «Vogliamo enfatizzare l’aspetto positivo, leggero ma non superficiale, gioioso ma non banale del fare educazione» commenta il coordinatore Michele Odorizzi, presidente di Con. Solida, l’effervescente consorzio di 60 cooperative sociali del Trentino. «Siamo convinti che la scommessa educativa stia al centro del nostro lavoro cooperativo, perché l’educazione prima di essere un tempo che dedichiamo ’per gli altri’ è un tempo nel quale scegliamo di stare con gli altri», ribadisce Johnny Dotti, presidente del Gruppo Cooperativo Cgm Welfare Italia che ha lanciato ’Educa’ assieme alla Provincia autonoma, all’Università di Trento, al Comune di Rovereto, ai periodici Vita Non profit e Animazione Sociale.
È l’«educare a una nuova cittadinanza » il raccoglitore delle dieci aree tematiche: famiglia, scuola e agenzie varie, ma anche l’educazione civile (con Gherardo Colombo), il protagonismo dei giovani nelle comunità montane (con Franco Floris), l’interculturalità, fino al confronto sulla modernità tra i filosofi Massimo Cacciari e Silvano Petrosino e uno sguardo critico alle ’colpe del Sessantotto’. Di richiamo anche l’impegno educativo di un missionario salesiano, padre Giuseppe Berton, fra i bambini soldato della Sierra Leone ed il confronto dei genitori con don Antonio Mazzi.
Parlare di questioni serie - è la scommessa di ’Educa’ - ma non nel modo serioso: con concretezza e passione. Sulla scuola passerà da Barbiana a Bovalino la testimonianza di Michele Gesualdi e suor Carolina Iavazzo sulla ’Lettera’ di don Milani: «Ogni ragazzo perso è una sconfitta » . Quarant’anni dopo, la frase è ancora attuale? «Come no! ma non ne siamo consapevoli a sufficienza, anche se la nostra scuola perde ancora troppi ragazzi, circa il 20% nel biennio delle superiori in Toscana », anticipa Michele Gesualdi, ex allievo di don Lorenzo, che osserva le statistiche di oggi: «I ragazzi che abbandonano la scuola sono ancora quasi sempre i figli degli ultimi; ma una scuola che perde gli ultimi è come un ospedale che cura i sani e manda a casa chi è nel bisogno». Nella Locride suor Iavazzo cerca di prevenire le ’sconfitte’ dei ragazzi calabresi: «Quando penso alla speranza - ripete suor Carolina, già collaboratrice di padre Pino Puglisi - non penso a qualcosa che si realizzerà nel futuro: per me la speranza è nel presente, è credere che si realizza nel momento in cui io faccio qualcosa per gli altri. La speranza, non solo nell’educazione, è la realizzazione di un sogno vicino».
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA.
Cos’è EDUCA
L’educazione quindi come passione e relazione di cui sono protagonisti genitori, bambini e ragazzi, educatori e insegnanti, e, più in generale la comunità tutta.
Ogni gesto della vita quotidiana può avere un valore educativo, perciò Educa si articola in momenti e con modalità differenti:
dire: con i seminari, i dialoghi, le testimonianze
fare: con i laboratori creativi per bambini e ragazzi, adulti e famiglie
divertire: perché si educa anche attraverso la musica, il cinema, la poesia, il ballo
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Triste il Paese che non aiuta i bambini
di Luigi Cancrini (l’Unità, 29.09.2008)
Ancora una volta ci troviamo di fronte a un travagliato inizio di anno scolastico. Siamo di fronte ad una progressiva erosione del diritto all’apprendimento, alla socialità, all’integrazione sociale, all’autonomia dei soggetti diversamente abili in età evolutiva, così come peraltro stabilito dalla legge quadro 104/92. Quest’anno infatti i tagli alle cattedre di sostegno (13 in meno soltanto a Pisa come da dati dell’ufficio scolastico provinciale) vengono a convergere con i tagli di cui ancora non è dato conoscere l’entità all’assistenza specialistica che costituisce un altrettanto importante ausilio alla autonomia di questi soggetti.
Una assistenza che negli anni è stata garantita dai lavoratori e dalle lavoratrici delle cooperative sociali con contratti a termine e senza nessuna garanzia di continuità. Tagliare questi servizi significa decretare l’impossibilità di creare percorsi formativi adeguati che puntino alle potenzialità dei soggetti disabili e concorrano al loro sviluppo. Significa lasciare sempre più soli i bambini e i ragazzi per larga parte della giornata, salvo rarissimi casi; significa trascurare i loro bisogni fondamentali, compresi quelli fisici; significa decretare che lo Stato, le Regioni, i Comuni, reputano uno spreco tutto il lavoro svolto in questi anni da docenti e operatori, un prezioso lavoro d’équipe che ora non può più essere garantito. Al di là delle pesanti ricadute in termini occupazionali, riteniamo inaccettabili questi tagli per il tipo di scuola e di società che prefigurano. Invitiamo genitori, docenti e tutti i soggetti interessati ad unirsi per creare un percorso efficace di opposizione.
Bettina
Comitato Lavoratori e Lavoratrici dell’assistenza specialistica di Pisa
Per chi fa un lavoro come il mio, il problema legato al numero degli insegnanti di sostegno attivi (o attivabili) presso le scuole italiane propone un vero e proprio paradosso. Il loro numero è, infatti, da sempre insufficiente perché moltissimi bambini e ragazzi che ne avrebbero bisogno non hanno la possibilità di utilizzare un insegnante di sostegno e perché quelli che ne usufruiscono passano con lui abitualmente (o comunque in un numero grande di casi) una quantità di ore largamente insufficiente.
Più evidentemente, per dolo o per superficialità di notizie relative a questa cronica insufficienza, d’altra parte, i ministri della pubblica istruzione che si occupano di scuola dall’alto (o dal basso) di viale Trastevere altro non fanno che immaginare dei tagli ulteriori nel numero degli insegnanti di sostegno. In modo meno sfacciato della Gelmini, anche Fioroni, infatti, aveva lavorato (e inutilmente da sinistra e da destra qualcuno se ne era lamentato) in questa direzione.
Segnalando l’evidenza di un problema di fondo di cui la tua lettera, cara Bettina, sottolinea di nuovo, giustamente, l’importanza. Il punto da cui conviene partire, per far comprendere anche a chi non ne è coinvolto personalmente, l’importanza di questo problema è quello legato al momento in cui degli insegnanti di sostegno si parlò per la prima volta.
Siamo agli inizi degli anni 70 un tempo in cui l’organizzazione di una scuola pubblica che discrimina i più deboli era stata messa sotto accusa con forza da uomini come Don Lorenzo Milani e Bruno Ciari. Quella che entra in crisi, di fronte alle esperienze di questi e di tanti altri maestri e uomini di cultura è la pratica per cui gli alunni con “piccoli” problemi venivano separati da quelli che almeno apparentemente non ne avevano e messi in classi “differenziali” (dove si chiedeva loro e si dava loro meno di quello che si chiedeva e si dava gli altri) mentre quelli più gravi venivano raggruppati in classi “speciali” allocate, in genere, negli istituti specialistici in cui questi bambini venivano ricoverati.
Quello di cui ci si rendeva conto, infatti, era che questo tipo di separazione selettiva funziona come un moltiplicatore delle differenze da cui si è partiti. Sul piano politico perché perpetua, traghettandolo da una generazione all’altra, il meccanismo di classe su cui essa si basa. Sul piano pedagogico perché ignora la grandiosità delle risorse attivabili, attraverso iniziative di socializzazione intelligenti nei bambini che presentano delle difficoltà: modeste o gravi. Sta nell’abolizione delle classi differenziali e speciali oltre che nel superamento degli istituti per minori in cui queste ultime erano organizzate (e dove i minori erano abbandonati a sé stessi, sottratti anche all’amore delle famiglie) il punto di partenza di questa nuova attività.
Concepita come un aiuto da dare in classe al bambino diversamente abile nel suo sforzo di integrazione con gli altri (una integrazione che deve essere sociale ma anche il più possibile cognitiva e didattica) l’insegnante di sostegno è una presenza necessaria, nella scuola, per assicurare al bambino che apprende più lentamente per motivi di ordine culturale e sociale o per motivi più personali (dalla dislessia al ritardo cognitivo, dalla sindrome post traumatica all’autismo) l’aiuto di cui ha bisogno per tenere il passo degli altri o per staccarsene il meno possibile.
Sarà l’Ocse, a metà degli anni ‘80, a riconoscere, sulla base di una rilevazione sul campo, la validità di questa esperienza italiana (e norvegese) da tanti considerata, all’estero, con grande rispetto e interesse. Saranno i governi del nuovo millennio a decretare con provvedimenti sempre più distratti e infelici la crisi che ora la Gelmini sembra voler portare a termine. Staccando la spina ad una organizzazione sempre più debole.
La cosa che più colpisce oggi, tuttavia, è il silenzio in cui tutto questo accade e va avanti. L’attenzione ai problemi dell’handicap e della disabilità è sempre più debole a livello di opinione pubblica e non vi sono giornali o tg che dedicano loro attenzione. Le forze politiche si occupano con stanchi rituali di quelli che a tanti piace chiamare con un sorrisetto di sufficienza, diversamente abili. I sindacati potrebbero farne oggi un punto di forza della loro lotta contro i tagli della Gelmini ma sono stati messi in difficoltà, forse, in passato, dal carattere instabile di un lavoro che non desta sempre l’entusiasmo che dovrebbe destare in troppi dei loro iscritti ma dovrebbero affermare chiaro e forte oggi che l’integrazione non si tocca.
Viviamo un tempo, cara Bettina, in cui il concetto stesso di democrazia si sta corrompendo. Per troppi, politici e non, libertà è possibilità di fare il più possibile quello che si vuole quando si ha il potere o la forza di farlo: senza preoccupazioni o pensieri sul fatto che gli altri esistono e che la libertà o è di tutti o non è di nessuno. Dimenticando con leggerezza berlusconiana (lui a suo modo offre un modello di vita) l’idea di Montesquieu (citato da Luciano Canfora, «La democrazia», Laterza pag. 101) per cui «la libertà non può consistere nel poter fare ciò che si deve volere», un’idea il cui compimento, ricco di sviluppi in molte direzioni, ivi compresa la giustizia sociale è: «nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere».
Se la scuola ritorna all’età della pietra
di Cristina Di Geronimo (l’Unità, 28.09.2008)
Il primo grande errore che si compie in Italia quando i media affrontano il tema della scuola, sotto la spinta di iniziative legislative, è quello di parlarne al singolare. Molto più corretto sarebbe parlare di scuole, sia in senso verticale che orizzontale, cioè per ordini e anche per distribuzione territoriale nello stesso ordine (basti pensare alla diffusione del tempo pieno al centro- nord e al ritardo del sud). Gli ordini di scuola, infatti, sono molto diversi fra loro per storia, tradizione culturale e caratteristiche del personale docente. Per l’ultimo aspetto basti pensare alle competenze pedagogiche e didattiche degli insegnanti di scuola materna ed elementare e all’assoluta assenza di tali competenze nella formazione dei docenti delle scuole medie e superiori.
Questo aspetto, estremamente trascurato, è a fondamento della riconosciuta efficienza dei primi due ordini di scuola, materna ed elementare. C’è poi l’elemento della «missione» dei vari ordini di scuola. Detto più semplicemente, dei Programmi scolastici. Fermandoci solo alla scuola elementare, e alla discussione intorno al maestro unico, sarebbe importante, prima di stabilire quanti ne occorrono, conoscere i Programmi scolastici, cioè cosa lo Stato chiede agli insegnanti di insegnare e agli alunni di apprendere.
Quelli attualmente in vigore si titolano «Indicazioni nazionali» e sono un allegato al Decreto legislativo di riordino dei cicli n. 59/04 a firma Letizia Moratti. Sarebbe un dovere, per tutti coloro che vogliono parlare di scuola elementare, leggerli. Basterebbe l’esempio della disciplina nuova «Cittadinanza e Costituzione», recentemente introdotta per Decreto Legge. Nelle «Indicazioni» di cui sopra, si chiama «Educazione alla Convivenza civile» e comprende educazione alla cittadinanza (Costituzione, carte dei diritti, concetti di diritto/dovere ecc.) educazione stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività.
Ecco le altre discipline: religione cattolica (non obbligatoria), italiano, inglese, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia e informatica (uno degli obiettivi della classe prima elementare: utilizzare il computer per eseguire semplici giochi anche didattici - accendere e spegnere la macchina con le procedure canoniche, attivare il collegamento a Internet - Accedere ad alcuni siti Internet, ad esempio quello della scuola) arte e immagine, scienze motorie e sportive, musica. Tutte le discipline si sviluppano su obiettivi per i cinque anni ed,inoltre, si richiede, in premessa, ai docenti di elaborare, per singoli alunni il «Piano di studio personalizzato che resta a disposizione delle famiglie e da cui si ricava anche la documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze individuali».
Ora, la domanda è la seguente: bastano 24 ore settimanali ed un unico docente per raggiungere almeno una parte degli obiettivi prescrittivi dei programmi statali? No, non bastano. Per coerenza, allora, si dovrebbe avere il coraggio, e contemporaneamente, di tornare indietro tutta. Ripristinare i programmi del 1945, che, fra l’altro, furono ispirati al lavoro di una commissione presieduta, già nel 1943, dal grande pedagogista americano Washburne, seguace di Dewey, e che sono chiari anche nelle indicazioni su cosa si richiede alla fine della quinta elementare. Più moderni anche, nell’aspetto valutativo: «...questo esame, ridotto nel numero delle materie e dei programmi, acquisterà maggior valore se,....più che del voto per ogni materia... si terrà conto del giudizio complessivo da cui apparirà la personalità, appena in formazione, dell’uomo e del cittadino di domani». E poi bisognerà ridare alle nostre maestre penne rosse e blu, ceci e bacchetta, libertà di bocciare chi non studia, senza sottoscrivere patti di corresponsabilità con nessuno.
In conclusione, c’è da augurarsi almeno che la scuola elementare non vada a pescare principi e valori più indietro del 1945! Dico questo perché, più della crisi economica e quindi della necessità dei tagli (sarebbe stato meglio tagliare le spese per la politica) è preoccupante il clima culturale così dispregiativo nei confronti di chi prende nelle mani il destino delle nuove generazioni. Il ministro continua a ripetere che vuole eliminare le «compresenze», facendo credere che tutti i giorni vi siano tre maestre in una sola classe, magari anche solo composta di dieci alunni. In realtà, molto spesso i maestri vengono utilizzati per prolungare il tempo scolastico previsto per i rientri pomeridiani. Il famoso modulo tre su due o quattro su tre non esiste più da anni.
Esiste invece un maestro prevalente, affiancato da altre figure la cui presenza varia in realzione all’orario scolastico. Le ore di vera compresenza non sono mediamente più di tre a settimana per classe, al contario di quanto si va dicendo. Gli organici degli insegnanti sono assegnati infatti sul numero degli alunni e delle classi, e naturalmente sul tempo scuola previsto. Il tempo scuola obbligatorio era di 27 ore settimanali elevabile fino a 36 con la Riforma del 1990, con la Moratti è diventato 27 più 3 opzionali, e poi, con Fioroni, sono rimaste 30 obbligatorie senza opzioni da parte dele famiglie. Ridurre il tempo scuola a 24 ore obbligatorie è l’unico modo per consentire la riduzione dei posti, e dunque l’applicazione della «Riforma Gelmini».
L’orario del docente (22 ore di lezione e due di programmazione settimanale)- eliminando le due ore di programmazioni che non serviranno più all’insegnante unico - potrà coprire l’intero orario obbligatorio di una classe. Anche sull’impegno di mantenere l’insegnamento di inglese già la Moratti aveva avviato un massiccio piano obbligatorio di formazione in tale disciplina per tutti i docenti. Oggi è obbligatorio, e giustamente, utilizzare prima i docenti che hanno il titolo per l’insegnamento della lingua inglese e poi gli insegnanti specialisti.
Se si riduce il tempo scuola si riduce anche l’offerta formativa. Bene, basta dirlo e non favoleggiare intorno all’urgenza pedagogica del bambino contemporaneo di avere un unico punto di riferimento. Nessun pedagogista o studioso dell’età evolutiva serio potrebbe mai sostenerlo. Scriveva Piaget, molti decenni fà, che il diritto all’istruzione è un diritto inalienabile, come quello alla vita e alla salute, perché quello che una persona potrà diventare nella vita dipenderà da come avrà avuto accesso alle conoscenze. A chi serve un mondo di ignoranti?
* Dirigente scolastico Istituto comprensivo di Casal Velino(Sa)
Con i criteri di calcolo del Piano programmatico del ministri
7.000 delle 14.000 cattedere da eliminare sono nel Meridione
Maestro unico, toccherà il Sud
il 50% dei tagli della Gelmini
di SALVO INTRAVAIA *
Sarà il Sud a pagare il prezzo del "maestro unico" reintrodotto dalla Gelmini. Negli ambienti politici e sindacali la voce circola da giorni e basta fare due conti per rendersi conto che, in effetti, usando gli stessi criteri di calcolo contenuti nel Piano programmatico messo a punto dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, e dal collega dell’Economia, Giulio Tremonti, saranno le regioni meridionali a rimetterci di più in termini di posti di lavoro e servizio scolastico.
Se, come è scritto nel Piano che taglierà 87.000 posti di lavoro in tre anni, il ridimensionamento colpirà le sole classi a tempo normale, il Sud dovrà dire addio a 7.000 delle 14.000 cattedre messe in conto dal governo: il 50 per cento. Nell’Italia centrale Toscana, Lazio, Umbria, Marche sacrificheranno sull’altare delle economie 2.250 cattedre e le sei regioni settentrionali 4.700: un terzo dell’intero balzello.
Domani mattina, in aula alla Camera approda il decreto-legge 137, quello che ha reintrodotto il maestro unico e i deputati del Pd stanno affilando le armi.
"Il duo Tremonti-Gelmini - dichiara Alessandra Siragusa, deputato siciliano del Partito democratico - mira a distruggere la scuola del Sud: secondo i numeri in nostro possesso, in Sicilia e Campania il giochetto del maestro unico costerà 4 mila dei 14 mila posti che il governo intende tagliare. E a parte il taglio dei posti di lavoro la manovra determinerà una contrazione del servizio scolastico. Con 24 ore di lezione in sei giorni i bambini della scuola elementare uscirebbero ogni giorno alle 12.30: non so se le famiglie sono a conoscenza di tutto questo".
Il dibattito parlamentare si annuncia lungo e acceso. "Presenterò tre emendamenti - aggiunge la parlamentare dell’opposizione - che mirano ad allungare il tempo scuola nelle zone in cui la dispersione scolastica è elevata e nelle realtà dove le carenze degli edifici scolastici non consente il tempo pieno".
Secondo i calcoli contenuti nel Piano-Gelmini il maestro unico colpirà soprattutto le 103 mila classi che in Italia funzionano a tempo normale (27 ore a settimana). Tempo normale alla scuola primaria che, per ragioni spesso legate a carenze strutturali determinate dalla mancanza di locali idonei per essere adibiti a refettori/mense, è parecchio diffuso al Sud e molto meno al Nord. Tanto per non restare sul vago, regioni come Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna viaggiano con tassi di tempo prolungato (di 40 ore a settimana), che per stessa ammissione del ministro Gelmini non verranno "toccati", variabili tra il 45 e il 39 per cento. Sicilia e Campania sono attorno al 4 per cento.
* la Repubblica, 28 settembre 2008