Un "Goj"
di Luigi Pirandello *
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta - capelli e naso di razza - ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo così irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo.
Tanto più che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già!
Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.
Ma prima ride.
Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, così diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce.
Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare.
Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.
Ma ha fatto anche di più.
S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede.
Dicono però che quella risata così irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.
A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali.
Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza?
Mah!
Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, fors’anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia così notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.
Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca.
Forse però - almeno a quanto si dice non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’aiuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.
Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e più dai figliuoli che sarebbero nati da lei.
Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus.
Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.
Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.
Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?
Eppure, è proprio così. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.
Ora, lasciamo andare che - batti oggi e batti domani - a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, così deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani. E c’è di più. I figliuoli, quei poveri bambini così vessati dal nonno, cominciano anch’essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dov’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dov’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesù - (ecco, il buon Gesù specialmente!) - ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male! Al buon Gesù, specialmente! E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi così densi di perplessa angoscia e di dogliosa rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece... se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.
Ma sì, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ’am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia.
No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?
Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. E naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.
Approvare, approvare, approvar sempre.
Magari, sì, farci sì prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto.
Anche la guerra, sissignori.
Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano più.
Perché bisogna sapere che, nonostante gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale più pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesù appena nato: fiscelle di candida ricotta panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti Franchetti di Soffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre più ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.
Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.
Ci aveva lavorato di nascosto per più d’un mese, con l’aiuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle.
I nipotini non ne dovevano saper nulla.
A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini.
Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.
Il demonio, che gli s’è domiciliato da tanti anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar più requie: giù risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo avena ammonito di non esagerare, di non eccedere.
Non esagereremo, no! - gli aveva risposto dentro il demonio. - Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? così in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.
Così il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.
Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello - e al loro posto mise più propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogn i dimensione, puntati anch’essi di sé, di giù, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.
Poi si nascose dietro il presepe.
Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.
* LUIGI PIRANDELLO, UN "GOJ", Novelle per un anno, Mondadori.
"DUE SOLI".... Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
La teologia del "latinorum"....
ITALIA. SCUOLA DEI "FARISEI" E SCUOLA DEI "PUBBLICANI".
IL "PRO PERFIDIS JUDEIS" DELLA "NUOVA PREGHIERA DEL VENERDI’ SANTO....
I "DI SEGNI" DEI "PERFIDI GIUDEI"....
LO SPIRITO DI ASSISI: AL DI LA’ DELLE PERFIDIE IN-CROCIATE.
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, MEDICINA, FISICA E METAFISICA:
DIALOGO CON UN AMICO IN OCCASIONE DEL SUO ONOMASTICO NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO:
a) "Messaggio (inoltrato)":
Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il #Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.
è il mio onomastico quindi...
b) Risposta:
Ma "Gesù" non aveva nessuna "Compagnia" ... e la compagnia che lo seguiva lo portava là dove si "va-n-gelo".
Francesco I, per or-goglio, si richiama a Ignazio di Loyola, è un "gesuita" non un "cristiano" né un "francescano". È tempo di rifare il presepe e restituire a Giuseppe e Maria, il loro ", Bambino...
Molti auguri e buon compleanno, a te e ai tuoi genitori, "Giuseppe e Maria" ... E padre di Andrea, ginecologo.
La X dell’Apostolo Andrea richiama X di "IXTHUS", "Christos", non dell’ "Ictus", così la Caritas, da non confondere con "caritas" ("mammona"). Buona ri-nascita e buon onomastico ... Buona giornata.
c) Risposta
Dante aspetta ancora. Dalla tragedia "divina" alla "divina" Commedia
d) Messaggio dell’Amico:
La vita dei continui passaggi, per metterla in filosofia, del continuo divenire di Eraclito. Senza la tragedia( il negativo assoluto) non ammireremmo neanche la Bellezza e la Bontà.
e) Risposta:
Infatti! Eraclito era di Efeso ed è suo il principio ripreso e rilanciato dall’ Apostolo Giovanni (non dal Paolo, Saulo di Tarso): il Logos. Il Logos, non è il logo di un’azienda, di una setta,o di un partito: è "l’amore che move il sole e le altre stelle" (Dante Alighieri). Della Terra, il brillante colore...
FILOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA:
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO".
Il dolcissimo padre: la figura di Virgilio in Purgatorio XXVII
di Roberta Conte ("Caffé Letterario 2.0", 24 giugno 2015)
Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre questo è Virgilio, ed è in Purgatorio XXVII che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima.
Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi. È mezzogiorno e viene incontro a lui, Virgilio e Stazio l’angelo della castità che avverte i tre della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.
Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre» (v. 52), nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro («Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte», vv. 20-21) e ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza» (v. 33), e se ne adombra «un poco» (v. 35) pure Virgilio.
Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta portando sempre più vicino al Paradiso terrestre dove incontrerà Matelda.
Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice [...] il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfranca all’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (vv. 35-36).
Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: lei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v. 45) dopo che Dante, al nome della donna, «fatta solla» (v. 40) la sua rigidità, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.
Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più in Purgatorio XXVII non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto.
Dante si rivolge a Virgilio solo una volta con l’appellativo di padre («Lo dolce padre mio», v. 52); quando invece si riferisce a entrambe le guide, dunque includendo anche Stazio, le chiama «buone scorte» (v. 19) e «gran maestri» (v. 114), e anche nel momento in cui Virgilio fa un passo indietro per richiamarsi all’aiuto del nome di Beatrice, si rivolge a lui chiamandolo «savio duca» (v. 41), ancorché l’evocativa immagine dei pastori («tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori», vv. 85-86) ricorda come, nel senso cristiano del termine, il pastore sia guida ma, ancor di più, padre buono e amorevole.
Tuttavia è nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata, come ha notato bene Contini, dall’uso del pronome allocutorio di prima plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino.
Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita.
Dante ha dunque superato questa grande prova e, tralasciando tutti i risvolti simbolici che possono far pensare al passaggio del muro come a un rito di purificazione, da compiersi prima di arrivare nei pressi dell’Eden, ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio.
Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera preparano l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati (v. 112) e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio:
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami». (vv. 115-117)
Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spronarlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro».
Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò [...] li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante «se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno», inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, giustamente osserva la Chiavacci Leonardi, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità. Adesso a Dante viene data totale responsabilità poiché «dritto e sano» (v. 140) è il suo arbitrio.
In definitiva, si può leggere il canto come un momento di formazione in cui il fanciullo Dante, presosi di ardire e avendo con sé l’insegnamento di Virgilio, va avanti per la sua strada non più accompagnato, ma con la padronanza di sé ricevuta dall’incoronazione da parte del padre-maestro di imperatore di se stesso («per ch’io te sovra te corono e mitrio», v. 142). C’è qualcun altro che lo aspetta dall’altra parte, l’amore che vince le barriere di fuoco: Beatrice.
*
LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO": "GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"].
"INCREDIBILE, MA VERO": CHE, DOPO LA LEZIONE EVANGELICA DI FRANCESCO DI ASSISI (GRECCIO, 1223: IL "PRESEPE" COME "MODELLO" ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO), E, ALLA LUCE DELLA ACCETTAZIONE E CONDIVISIONE DA PARTE DI DANTE ALIGHIERI DELLA FRANCESCANA "IMITAZIONE DI CRISTO", è soprendente che, ancora oggi (dopo la celebrazione del "Dante 2021" e l’istituzione del "25 Marzo" come giornata del "Dantedì"), si continui a negare la tradizione evangelica per la quale "Il cristiano è un altro Cristo" e a difendere la tradizione autoritaria e dogmatica della tradizione paolina che "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: ARRIVARE A PENSARE CHE Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni", ma diede conto e testimonianza della Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri", dell’’Amore che muove il Sole e le altre stelle, e sollecitò a porre fine allo "spettacolo" della "tragedia" del cattolicesimo costantiniano, è cosa ancora impensabile per la dottrina della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453), nonostante il lavoro di Lorenzo Valla?! Non è il caso di riorganizzare le idee e orientarsi meglio sul problema antropologico del come nascono i bambini e come è possibile recuperare la diritta via e rinascere a sé?!
Federico La Sala
A PARTIRE DA #AMLETO, CON #PIRANDELLO ED #EDUARDODEFILIPPO: «TE PIACE ’O PRESEPIO?» DEL #PIANETATERRA?!
INTRODUZIONE. Si racconta che Saulo / Paolo di Tarso, un "cittadino romano"(At. 22, 25-28), sia stato portato fino al terzo cielo (2 Corinzi 12:2): va bene! Da ricordare, però, che #DanteAlighieri ("Io non Enëa, io non Paulo sono") è andato ben oltre i cieli di #Aristotele, come racconta l’astrofisico Carlo Rovelli, una volta uscito dal "buco nero" in cui lucifericamente era caduto!
#METATEATRO E #STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA #HAMLETICA PER "RE-SHAKESPEARE" BENE. Antropologicamente (e cristologicamente), c’è da chiedersi, se Paolo ha visto “Gesù Cristo”, come mai - contriamente a quanto visto e insegnato da #Francesco di Assisi con il suo “presepe” (#Greccio, 1223) - non ha notato, accanto a “Cristo” che lo “sgridava” («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»), “Giuseppe” accanto a “Maria”?! Dov’è finito il "Giuseppe", discendente della "casa del #ReDavide" ("de domo David")?
UNA "#IMITAZIONEDICRISTO" ALLA PAOLO DI TARSO DI LUNGA DURATA: #NICEA (325 -2025). La domanda logico-storica è: come mai alla sua proposta di imitarlo e seguirlo, tutti e tutte si sono sbagliati e sbagliate a tal punto da seguire lui, Saulo (Paolo di Tarso), e non Gesù: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e #capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3)?
"ECCE HOMO" (F. #NIETZSCHE, 1888): QUALE #PRESEPE SI VUOLE CONTINUARE ANCORA A "COSTRUIRE", OGGI? Quello di Paolo di Tarso o quello di #FrancescodiAssisi? #Dante, cosa aveva già capito, come anche Shakespeare, e Pirandello e, infine, #Eduardo De Filippo (1931)?
"#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610): QUALE FUTURO PER IL "#DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (#GALILEO GALILEI, 1632)?
STORIA E LETTERATURA TEATRO, METATEATRO E FILOLOGIA:
"RE-SHAKESPEARE" CHIARA-MENTE, CON VICTOR HUGO, LUIGI PIRANDELLO ED EDUARDO DE FILIPPO.
In onore e memoria di Victor Hugo e Charles Baudelaire...
LA «#CHARITE’» DEL VESCOVO #MYRIEL DEI "#MISERABILI", LA #CRITICA (#KANT) DELLA #ECONOMIAPOLITICA (#MARX), E IL #CATTOLICESIMO DELL’#AGAPE COSTANTINIANO. Se è vero cje «Il romanzo “I miserabili” si apre con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine straordinarie (...)», e, ancora, che «Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e "I miserabili", abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, siamo diventati noi i nuovi miserabili e non vediamo più l’innocenza di Jean Valjean, prima e dopo il furto dell’argenteria.», non è altrettanto storicamente e #parresia-stica-mente preciso sostenere - come fa lo storico e l’economista Luigino Bruni nell’articolo «”I miserabili”: la grammatica del dono. Il rischio dell’ospitalità”, il capitolo che egli dedica al capolavoro di Victor Hugo nel suo recente “Viaggio economico nei capolavori della letteratura” ) - che «Myriel ci sta allora insegnando cosa è veramente l’#agape, cioè la forma dell’amore tipica dei cristiani.».
DA #COSTANTINO IL GRANDE, A #NAPOLEONE BONAPARTE, E ALLA FINE DEL "#SOGNO"DEL "SACRO ROMANO IMPERO": RICOMINCIARE DA "#AMLETO"! Da quel poco che conosco dell’opera di Victor Hugo so che conosceva la lingua greca e ne era "parigina-mente" fiero: il famoso #pane (quello "eu-#charis-tico"), la "#Grazia di Dio", richiama sì il #messaggioevangelico, appunto la "#Charitas" (la "Charité", la "Carità") dello "Spirito santo" (1 Gv.), senza il quale l’ #amore (l’#agape), rinvia solo alla "economia" e a #Mammona (alla "#caritas")! Nella prospettiva di una #antropologia (#cristologia) del #dono (e del "per-dono"), se non sbaglio, avevano già lavorato alla grande non solo filosofi ed economisti come #GiambattistaVico e la "Scuola del #Genovesi", ma anche, continuando e ricordando, letterati e poeti come Luigi #Pirandello e #Eduardo #DeFilippo (e Shakespeare, ovviamente): a loro, il #Presepe della "#Danimarca" non è mai piaciuto ("#Natale in Casa Cupiello", 1931).
#NICEA (325-2025). A #EDUARDO E PIRANDELLO, INFATTI, PIACE #PARLARE E #RESPIRARE LIBERAMENTE, LOCALMENTE E GLOBALMENTE. SUL TEMA, PIRANDELLO L’AVEVA GIA’ DETTO E SCRITTO LA "SUA", CON DETERMINAZIONE NELLE "NOVELLE" (NEL 1918 ALLA FINE DELLA PRIMA #GUERRAMONDIALE); ED #EDUARDODEFILIPPO (DUE ANNI DOPO I #PATTILATERANENSI E IL #CONCORDATO TRA CHIESA CATTOLICA E FASCISMO, NEL 1929) LO SCRIVE E LO DICE CON UNA "BATTUTA" DIVENUTA "EPOCALE", NEI CONFRONTI DEL COSIDDETTO "#DONO" DI COSTANTINO, IN "#NATALE IN CASA CUPIELLO", NEL 1931.
LA "RIFLESSIVITÀ" DI BOURDIEU, COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI", ANCORA NELLA "CAVERNA" DI PLATONE E NEL "CERCHIO DEI CERCHI" DELL’ASSOLUTO DI DI HEGEL.
Bourdieu e il senso comune degli scienziati
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 23 Agosto 2024)
Il ricercatore dovrebbe forse provare per metodo ciò che provò Vitangelo Moscarda guardandosi allo specchio quando si accorse che il suo naso era ben diverso da come pensava che fosse. Ma non deve oscillare tra l’essere uno, nessuno o centomila, deve solo essere sé stesso proprio mentre si vede come altro. Ma in fondo è ciò che dovremmo fare tutti quando ci interroghiamo e poniamo la domanda sul nostro stesso fare. Ma è difficile tanto quanto trovare una buona relazione tra conoscere e fare. È questo il dramma della limitatezza umana, perché noi, come ricorda Giambattista Vico, non possiamo conoscere e fare simultaneamente. Ma possiamo riflettere su questa impossibilità e trasformare il riflettere in un fare.
Un tempo si sarebbe detto che includere l’osservatore nel processo di osservazione sarebbe stata una perdita di oggettività del sapere scientifico, lusso che si sarebbero potuto permettere forse le scienze storico-sociali, ma non certo quelle naturali. Da qui la separazione tra le scienze storico-sociali e quelle naturali oppure la riduzione delle prime al criterio di verità determinata dall’esattezza e dall’evidenza delle seconde. Nel ‘900 invece il tema dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione è diventato centrale nell’epistemologia scientifica. Ciò che precedentemente sarebbe stata considerata un’eresia è diventato un interesse metodologico centrale in fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Negli anni ’30 del ‘900 Ludwig Fleck aveva già posto il problema dell’osservatore nel campo della ricerca, ma il suo libro, uscito nel 1935, non suscitò alcun interesse, negli anni ’60, il successo del contributo di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1969), dipese certamente dal fatto che, come si dice, arrivò al momento giusto.
La visione di Giambattista Vico non è poi così lontana da tale interesse metodologico.
Pierre Bourdieu, nel solco del mutamento epistemologico operato da Ludwig Fleck (Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983) e da Thomas Kuhn, ha chiesto alla sociologia qualcosa di più. Ha posto il problema metodologico dell’oggettività del soggetto scientifico che indaga e ha a che fare, a sua volta, con l’oggettività di ciò che è indagato.
Il libro Sulla riflessività (Edizione italiana a cura di G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro, Meltemi, Milano 2024, pp. 117) presenta quattro contributi di Bourdieu sulla riflessività che percorrono un arco della sua ricerca dagli anni ’60 agli anni ’90. Bourdieu chiama questa ricerca dell’oggettività del soggetto riflessività. Cosa significa oggettività del soggetto e cosa significa riflessività? Scrive Bourdieu: “la riflessività non è la riflessione nel senso della cogitatio cogitationis, cioè pensiero di un pensiero, riflessione di un pensiero sul mio pensiero. Non è un semplice ritorno del soggetto conoscente su sé stesso: il soggetto conoscente che prova a conoscersi. La riflessività, così come la intendo io, è effettivamente questo, ma passa attraverso un processo di oggettivazione. Il soggetto conoscente, che si tratti di un sociologo, uno storico, un etnologo e addirittura un economista, è qualcuno che possiede strumenti di conoscenza che può applicare a sé stesso, soggetto conoscente, e più precisamente all’universo sociale in cui questo soggetto conoscente è inserito” (p. 49). Si va dunque oltre l’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione. Bourdieu aggiunge le condizioni oggettive in cui si trova l’osservatore scientifico quando osserva e fa le sue considerazioni.
In altre parole, la riflessività implica la localizzazione sociale del punto di vista. Si tratta di applicare il metodo sociologico di osservazione allo stesso osservatore. “L’ipotesi, continua Bourdieu, è che il soggetto conoscente non abbia accesso, per semplice riflessione, all’essenziale di ciò che è e di ciò che fa. Per accedere, deve passare attraverso un’esplorazione delle condizioni oggettive in cui è stato prodotto così com’è, e nelle quali fa quel che fa. In altre parole, si tratta di fare sociologia come la facciamo sempre, ma sull’universo delle scienze sociali, sul nostro proprio mondo, sul nostro proprio campo” (ibidem). Bisogna tenere conto degli habitus degli scienziati, di ciò che a loro appare ed è vissuto come ovvio, insomma il loro senso comune che, come direbbe Vico, in assenza di riflessione diventa pregiudizio, e che invece va interpretato criticamente. Husserl e Schutz sono qui presenti con la messa in questione del mondo dato per scontato. Ma si possono anche fare altri due riferimenti teorici, tra i molti indicati da Bourdieu. Il primo è Marx con la sua teoria del rapporto tra ideologia e classe sociale (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977). Non ci accorgiamo che le idee dominanti, le quali si presentano semplicemente come idee, esprimono l’ideologia della classe dominante. Il secondo è Wittgenstein con la sua critica a Frazer (Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, Adelphi, 1975) il quale fa apparire il passaggio dalla magia alla scienza come qualcosa di evolutivamente oggettivo e non come il suo modo di vedere il mondo.
Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia. Richiamarsi alla critica degli habitus sociali e mentali del ricercatore come campo decisivo della riflessione significa richiamarsi alla loro storia e al fatto che le stesse categorie sovrastoriche dell’osservazione scientifica hanno comunque a che fare con la storia. Infine, in Bourdieu troviamo il tema del corpo. “...ci sono due modi di guardare il corpo. C’è quello di guardare il corpo altrui o di guardare il proprio corpo allo specchio come un oggetto, oppure quello che consiste nell’essere in esso, di essere con esso, di essere tutt’uno con il proprio corpo. Il punto di vista scolastico è il punto di colui che guarda gli altri è ha una filosofia dello spettatore. Possiamo andare molto oltre grazie a Maurice Merleau-Ponty e non è fare filosofia. È usare la filosofia per sbarazzarsi della filosofia che si fa quando non si ha alcuna filosofia” (ivi, p. 61). Oggi noi assistiamo a un forte ritorno a una filosofia che si fa quando non si ha una filosofia. Un vecchio tema che risorge ogni qual volta si usa la riflessione sulla conoscenza scientifica più come rassicurazione e bisogno di autorità che come ricerca critica e autonoma.
*
LA RIFLESSIVITA’ DI BOURDIEU COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI" ANCORA NELLA "CAVERNA" DI HEGEL. "Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia." (A. I. Iacono, cit.).
A TRECENTO ANNI DALLA NASCITA DI #KANT, NON E’ IL CASO DI DARE IL VIA A UNA #SECONDA "#RIVOLUZIONECOPERNICANA" E PORTARSI OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO DELLA #DOTTAIGNORANZA E DELLA SUA #COSMOTEANDRIA?!
#PSICOANALISI, #STORIA, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA". A mio parere, benché Bourdieu abbia fatto un lavoro eccezionale, di lui, come egli stesso dice di Freud ("mi piace citare la frase di un grande storico"), è possibile dire altrettanto: "[Bourdieu] Freud dimentica che Edipo era un figlio di re."! Non è proprio ora, con #Kafka, come con #Dante, di uscire dalla "#tana", dall’#inferno epistemologico ed antropologico della #tragedia, e ri-scoprire la nostra propria personale e politica #autonomia e #sovranità ?! Se non ora, quando?
TEATRO METATEATRO E SERENDIPITY:
UNA SORPRENDENTE LEZIONE DI FILOLOGIA HAMLETICA
SULLE RAGIONI DEL "MARCIO NELLO STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE)!
Il #gatto, una vera e propria "#trappola per #topi" ("The mousetrap"), ne ha mangiati tanti di "gatti", che ora non riesce più a "funzionare", nemmeno a muoversi, e dorme solo dalla mattina alla sera, e per tutta la notte, davanti allo #specchio!
NOTE:
CALVINO, LA SFIDA A INTERI MILLENNI DI LABIRINTO PUO’ ESSERE VINTA E IL "SENNO DI ORLANDO" (LUDOVICO ARIOSTO) PUO’ ESSERE RITROVATO.
COSMICOMICHE (#CALVINO100), ANTROPOLOGIA, LETTERATURA, E SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE):
Con "Leggerezza": "[...] la lentezza della coscienza umana a uscire dal parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall’invenzione poetica. [...] Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all’antropologia, all’etnologia, alla mitologia. [...]
Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. E’ questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua" (Italo Calvino, "Lezioni americane").
CIELO STELLATO E MALINCONIA BAROCCA. COSMOLOGIA, RIVOLUZIONESCIENTIFICA E ARTISTICA, MA NON ANTROPOLOGICA: QUANDO L’ITALIA E L’EUROPA CADDERO IN UN VICOLO CIECO (1618-1648).
Una sollecitazione a ripensare la storiografia dei primi decenni del Seicento... *
MEMORIA E STORIA: ELSHEIMER E RUBENS. "Adam Elsheimer (Francoforte sul Meno, 16 settembre 1578 - Roma, 11 dicembre 1610): [...] Secondo i biografi, Elsheimer, che lavorava molto lentamente e che lasciò pochissime opere (oggi se ne contano una trentina), morì perciò quasi in povertà. Una famosa lettera, piena di dolore, di #Rubens a Johann Faber che lo informava da Roma della scomparsa dell’amico, è forse il miglior tributo fatto a questo artista. Fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, dove nel 2010 è stata apposta una lapide-cenotafio con profilo in bronzo e l’iscrizione che ricorda tra l’altro: "Nel 1609 dipinse / il cielo stellato / osservandolo / con uno dei primi / telescopi". (https://it.wikipedia.org/wiki/Adam_Elsheimer...).
ARTE E SCIENZA: CIGOLI, GALILEO GALILEI, E LA LUNA. [...] Quella fra Galileo e il Cigoli è, semplicemente, l’amicizia di una vita. Ce ne resta la testimonianza attraverso 29 lettere di Cigoli a Galileo e solo due dello scienziato al pittore perché gli eredi dell’artista, con eccessivo zelo, ritennero di dover distruggere tutte le prove di un sodalizio compromettente dopo la condanna papale. [...]
Cigoli si trasferisce da Firenze a Roma nel 1604; Galileo all’epoca è ancora a Padova. Tornerà a Firenze nel 1610. [...]
Nell’ottobre del 1610 Cigoli riceve da Papa Paolo V l’incarico di affrescare la cupola di Santa Maggiore Maggiore con l’Immacolata Concezione, Apostoli e Santi. La fatica è resa da questo passo nella lettera del 1° luglio 1611: “Nel resto, io attendo a salire 150 scalini a Santa Maria Maggiore et a tirare a fine allegramente, a questi caldi estivi che disfanno altrui; et ivi, senza esalare vento né punto di motivo di aria, tra il caldo e l’umido che contende, me la passerò tutta questa state”. Ma sui ponteggi e sulla cupola di Santa Maria Maggiore succedono cose bellissime. Succede, ad esempio (lettera del 23 marzo 2612), che Cigoli usi un cannocchiale galileiano per osservare le macchie solari: 26 osservazioni, disegnate appositamente per Galileo (fig. 3); [...]
Succede poi che nell’ottobre del 1612, dopo oltre due anni di lavoro, l’affresco sia completato, e che l’Immacolata Concezione sia strutturata secondo un’iconografia del tutto nuova: una Madonna in piedi su una luna perfettamente galileiana (fig. 4) , la stessa luna (fig. 1) le cui fasi Galileo aveva dipinto all’acquerello in uno dei suoi studi (fig. 2). La testimonianza commovente di un amico fedele.
Su Cigoli si può contare, e Galileo non esita a chiederne l’aiuto in vista della pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, a cura dell’Accademia dei Lincei. Ad occuparsi della pubblicazione è direttamente Federico Cesi, il Principe dell’Accademia; ma per scegliere l’incisore che dovrà occuparsi della parte iconografica dell’opera sia Cesi sia Galileo concordano nel rivolgersi a Cigoli . Fu scelto poi l’incisore lussemburghese Matthias Greüter. [...]" (cfr. "Galileo e Ludovico Cigoli: la Luna e le #macchiesolari fra scienza ed arte")
RAGIONE E FEDE: GALILEO E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA: "(...) Il 25 febbraio 1616 il papa ordinò al cardinale Bellarmino di «convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Nello stesso anno il De revolutionibus di Copernico fu messo all’Indice donec corrigatur (fino a che non fosse corretto). Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell’illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato. [...]" (cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei ).
NOTE:
GALILEO E LA PITTURA. "[...] Galileo era appassionato di pittura e pittore dilettante. Era amico di tutti i maggiori pittori dell’epoca, tra i quali in particolare Ludovico Cigoli, con il quale tenne una nutrita corrispondenza e al quale aveva regalato un cannocchiale per osservare la Luna di cui il Cigoli doveva aver fatto un ottimo uso, come si deduce dalla rappresentazione della Madonna in Santa Maria Maggiore a Roma. Il Cigoli aveva rappresentato la Luna ai piedi della Santa Vergine così com’è vista al telescopio «con le divisioni merlate e le sue isolette». (cfr. Lamberto Maffei, "Il cervello artistico di Galileo Galilei", Il Sole-24 Ore, 10 aprile 2011).
OLTRE L’ORIZZONTE•ITALO CALVINO•SUPERLUNA•ARTE E LETTERATURA
La Luna cancellata (di Stefano Sandrelli, Edu-Inaf, 18 Maggio 2021/ Aggiornato 10 Maggio 2023).
FLS
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "20 SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). BENEDETTO CROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
RINASCIMENTO, OGGI: TEMPO, FILOLOGIA E STORIOGRAFIA *
La Vergine delle Rocce tra i Templi di Agrigento
La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce: verso Agrigento Capitale della Cultura italiana 2025.
di Mario Barbagallo *
[Foto] Particolare della Vergine delle rocce, versione Cheramy. Il centro del Mediterraneo si trova in una sala di Villa Aurea, non di certo per meriti geografici ma per una questione d’incontri.
Varcate le soglie del sentiero che porta all’ingresso del percorso espositivo, con gli occhi ancora pieni della maestosità delle colonne doriche, con le gambe cariche del piacevole peso della scoperta ma con la vista addolcita dal fluente divenire del paesaggio che si apre a sud verso il mare, si fa l’esperienza dell’incontro.
Una serie di opere provenienti dalla bottega di Leonardo accolgono il visitatore, comprendendo così quali novità l’artista abbia portato da Firenze e quali nuove soluzioni formali stesse sperimentando a Milano. Le opere di Cesare da Sesto, Marco d’Oggiorno, Giampietrino, Martino Piazza da Lodi, Bernardino Lanino, Bernardino de’ Conti mostrano una nuova attenzione al paesaggio, all’intensità dei corpi che si stagliano naturalisticamente sul cielo scuro: dipinti che invadono gli spazi della sala principale nella quale si confrontano, riprodotte in due schermi differenti, la versione della Vergine delle Rocce del Musée du Louvre di Parigi e quella della National Gallery di Londra.
[Foto] La riproduzione su schermo della Vergine delle rocce del Louvre. In un’atmosfera intima, creata da un’attenzione meticolosa nell’allestimento e avvalorata dalla scelta garbata dei direzionamenti dei fasci di luce, i quali accarezzano le morbidezze dei chiaroscuri e degli sfumati senza offenderne le figure, l’anima viaggia nei secoli cogliendo quel balzo temporale che dalla classicità greca arriva alle soglie del Rinascimento.
Percorrendo l’esposizione in senso orario si arriva alla piccola sala che custodisce gelosamente la perla della mostra: dischiudendo leggermente la tenda il Rinascimento viene svelato agli occhi e l’anima non può che cogliere gli elementi che il Divino ha manifestato sulla Terra.
[Foto] Leonardo e bottega (attr.), Vergine delle Rocce, versione Cheramy, olio su tavola trasportato su tela. La Vergine delle Rocce nella versione Cheramy, proveniente da una collezione privata e attribuita, come riportato dal cartiglio, allo stesso Leonardo con l’ausilio di collaboratori, nello specifico Boltraffio, esterna quella chiarissima discendenza dalla versione del Louvre di Parigi. È una di quelle opere che segna per sempre l’anima. L’occhio attento coglie le differenza che l’artista a livello iconografico mette in opera, sinonimo di un dibattito teologico che in quegli anni doveva essere particolarmente acceso. Ma non lascia dubbi all’occhio il resto: è Leonardo che parla.
La Vergine patrocina l’incontro. Maria è colei che sa e che fa da intermediaria per il piccolo Battista in atto di adorazione verso il Bambin Gesù mentre l’Angelo ci invita direttamente ad assistere con reverenza all’episodio con la stessa osservanza del Battista. Maria al centro della composizione con la mano “svolazzante” e tutta di scorcio all’altezza del viso dell’angelo, appena sopra la mano stessa dell’angelo e sul capo del piccolo Gesù in segno di protezione: un’immagine che viene fissata per l’eternità e nella quale Leonardo stesso si fa interprete di un’ iconografia unica che ne segnerà per sempre il proprio genio. Attorno alle figure le aspre rocce addolcite solo dal lento fluire delle acque e dai profumi estasianti delle piante in primo piano.
La scena deriverebbe, seppur con i necessari adattamenti derivanti dal dibattito teologico coevo, dai Vangeli Apocrifi, nello specifico il Protovangelo di Giacomo, conosciuto nella Firenze del Quattrocento in cui nell’episodio della “Fuga in Egitto” la Sacra Famiglia incontra il Battista già proiettato alla vita eremitica.
La roccia si irradia idealmente e, nonostante la propria natura aspra e desertica, si confronta con quella domata e plasmata appena fuori dalle sale, dove le colonne calcaree s’innalzano fino a toccare l’azzurro, slanciate sinuosamente tra la fertile campagna siciliana, dove i profumi dei fiori dei mandorli inebriano l’aria. In quel preciso istante il confronto diviene questione di sensi.
Akragas e la Milano della fine del XV secolo si trovano in contatto per la prima volta, fuori dal tempo ma non per questo in antitesi con la storia, soprattutto se questa è legata all’arte. In questi termini assume un maggior valore la scelta di una location d’eccezione dove il fil rouge è questione squisitamente “geologica”.
È un viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta di una delle opere più importanti del Rinascimento, quella che permetterà a Leonardo di studiare quei meccanismi in grado di dare “moto e fiato” alle figure, di esprimere emozioni e stati psicologici che saranno visibili, di lì a poco, nel Cenacolo di Santa Maria delle Grazie.
Un dialogo inedito. Un confronto che parla espressamente di matericità, di ricerche verso una nuova monumentalità, di ambienti sacri che fanno da sfondo e accolgono chi porta dentro di sé la propria missione. In quella visione archetipica che Leonardo elabora nella propria mente, coadiuvato da una committenza attenta al dibattito teologico intorno alla Immacolata Concezione di Maria, si fa l’esperienza concreta della materia e di un silenzioso affaccio verso le braccia aperte della Vergine, dove terreno e ultraterreno s’incontrano verso una nuova ricerca di forme che Leonardo elabora a Milano e che segnerà, per citare Vasari, il raggiungimento della “Maniera Moderna”.
La mostra La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce, visitabile dal 31 luglio al 31 dicembre 2023, a cura di Vittorio Sgarbi e Nicola Barbatelli è prodotta da Mediatica, Ellison, Samar e patrocinata dal Ministero della Cultura, dalla Regione Siciliana, dal Comune di Agrigento e dal Parco della Valle dei Templi di Agrigento. Una proposta espositiva alla portata di tutti che ben si configura come conoscenza storico artistica che ciascuno di noi dovrebbe inserire nel proprio bagaglio esperienziale e culturale.
[Foto] Veduta di Villa Aurea, Parco Archeologico Valle dei Templi. Un’occasione per staccarsi dalla contemporaneità e vivere l’eterno presente dell’opera d’arte. I templi custodi della memoria dello spirito dell’uomo divengono un tutt’uno con l’opera di Leonardo vivendo una raffinata simbiosi simbolo di manifestazione del Divino.
La presenza di Leonardo in Sicilia è un evento che riporta l’isola al centro del dibattito storico artistico in vista del 2025, quando Agrigento sarà capitale della Cultura Italiana. Un’occasione per respirare la storia, per ricordare a noi stessi che la cultura è dibattito, incontro e confronto.
* Fonte: Tota Pulchra News, 8 Settembre, 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
*
Nota:
RINASCIMENTO, OGGI. Antropologia, Filologia, Arte e Storia d’#Europa. Sul filo di #Eleusis2023 (e a ricordo della figura di #Demetra), una brillante indicazione (ed ’operazione’) per il Giubileo 2025 (Chiesacattolica, 2025) e per la #memoria di #Nicea2025.
UNA "OPERAZIONE" STRAORDINARIA E UN GRANDE OMAGGIO A #LEONARDODAVINCI E ALLA #CULTURA DELL’#UMANESIMO E DEL #RINASCIMENTO: C’E’ UNA #MEMORIA DA RITROVARE ( "W O ITALY", #Agrigento 1993) E, OLTRE #COSTANTINO (E #NICEA 2025), UNA #FILOLOGIA DA #RICOMINCIARE A STUDIARE (#LORENZOVALLA, 1440), E IL #CAMMINO DI #PROFETI E DI #SIBILLE DA RIPRENDERE... BUON LAVORO E ONORE AD #AGRIGENTO2025
FLS
CULTURA> LIBRI
Pirandello scandaloso, tornano in libreria 17 novelle dimenticate. Pirandello scandaloso, tornano in libreria 17 novelle dimenticate. Messina: «Un autore più attuale che mai»
di Marco Perillo (Il Mattino, Mercoledì 29 Giugno 2022)
In questo sorprendente libro troviamo diciassette novelle del geniale scrittore e drammaturgo, Premio Nobel per la Letteratura 1934, poco note al grande pubblico, pur essendo di alta qualità. Dai preti pedofili alle monache incinte, dall’aborto negato all’utero in affitto, dal bullismo adolescenziale allo stupro di gruppo, dal Risorgimento tradito alla parodia del regime fascista: tutte novelle per le quali Pirandello rischiò di finire all’Indice dei libri proibiti, come ricorda Leonardo Sciascia. L’intervento di monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI, sollecitato dal grande critico teatrale Silvio D’Amico, evitò che ciò accadesse. “Si tratta di un’operazione culturale e letteraria unica che avvicina il mondo dei lettori a un Pirandello meno conosciuto e di grande efficacia e attualità”, evidenzia l’editore Sante Avagliano.
Per il curatore Raffaele Messina, autore di un accurato saggio introduttivo, «sono tante le storie attraverso le quali Pirandello scandaglia il dolore delle creature umane, cogliendolo in figure e situazioni che sorprendono il lettore di oggi per la straordinaria attualità e, dunque, per la lucida sensibilità con la quale il narratore siciliano ha colto sul nascere problematiche destinate ad acuirsi nell’arco del Novecento e anche oltre. Penso alla netta condanna della pedofilia e alla esplicita denuncia della piaga dei sacerdoti pedofili o anche alle tante novelle attraverso le quali Pirandello afferma il principio di autodeterminazione della donna soprattutto in relazione alla questione cruciale della maternità».
Il lettore scoprirà un Pirandello diverso. Al di là di quella decina di novelle già note, sul relativismo e la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, il lettore scoprirà che Luigi Pirandello già nel 1902 denunciava lo scandalo dei preti pedofili. E che difendeva anche la dignità della donna contro la maternità imposta, contro gli uteri in affitto, contro i ‘matrimoni riparatori’ e contro ogni altro abuso. Scandagliava il travaglio psicologico dei figli di genitori separati e faceva nome e cognome dei mafiosi che avevano provato a imporre il pizzo a suo padre.
Sì. Emerge un Pirandello meno cerebrale, meno legato a questioni filosofico-esistenziali, e più immerso nel ‘sapore acre della vita’, nelle mille forme che assume il dolore nella vita di una persona. Insomma, sentiremo la pagina di Luigi Pirandello molto più vicina alle nostre tensioni e ai nostri problemi. Sono novelle che ci aiutano a guardarci dentro; ci aiutano a intendere la realtà che ci circonda; ci aiutano a liberarci catarticamente del nostro dolore; ci aprono la mente e ci rendono migliori.
Certo. Le tristissime notizie che giungono dagli Stati Uniti in materia di aborto, ad esempio, lo dimostrano. È in corso un attacco feroce al principio dell’autodeterminazione della donna e noi dobbiamo ritrovare le motivazioni che portarono a quelle conquiste che oggi dobbiamo tornare a difendere. Non meno attuale è lo scandalo dei preti pedofili: una vergogna che non è frutto della degenerazione dei costumi di questi ultimi anni, ma è questione vecchia, secolare, che rinvia al celibato dei sacerdoti e, più in generale, alla sessuofobia che caratterizza la Chiesa cattolica a differenza di quelle protestanti, ad esempio. E poi, la crisi della famiglia, con costi che troppo spesso pagano i figli. E la crisi della democrazia. È in corso da tempo un logoramento della civiltà liberale e della democrazia; dei valori dell’Illuminismo su cui si fonda la nostra civiltà: la laicità dello Stato, il pluralismo, la tolleranza.
Pirandello, è vero, nel 1924 commise l’errore di credere al fascismo, all’uomo solo al potere, e prese la tessere di quel partito. Ma di ciò si pentì, e non scrisse mai un rigo inneggiante alla guerra o alle prioritarie funzioni riproduttrici della donna o ai destini imperiali dell’Italia. Al contrario, dalla sua esperienza oggi noi possiamo trarre una grande lezione sul fallimento dell’ideologia dell’uomo solo al potere e quindi, sul valore della democrazia.
Quello di Pirandello è uno dei corpus novellistici più ampi della nostra tradizione letteraria, ben più ampio del Decameron, e non meno rappresentativo dell’intera sua epoca: oltre 260 racconti per un totale di circa quattromila pagine. Il primo impegno, dunque, è stato quello di scandagliare l’intero corpus e individuare le novelle meno note, ma non per questo meno pregnanti e valide. Poi sono venuti gli approfondimenti storico-letterari e il lavorio filologico di confronto dei testi, alla ricerca delle varianti e variazioni d’autore che si registrano nel passaggio da un’edizione all’altra della stessa novella: dalla prima pubblicazione sui giornali alla prima raccolta in volume; poi, a partire dal 1922, il riordino nel progetto delle Novelle per un anno e, in molti casi, anche la revisione in vista dell’edizione Mondadori del 1937. Non si tratta di quisquilie formali, ma di interventi correttori che incidono profondamente sulla messa a fuoco o anche sulla ridefinizione del significato della novella. E poi, sullo sfondo, il continuo confronto con la sterminata bibliografia critica. Tanto impegno, dunque. Ma credo che ne sia valsa la pena.
Certo. Questo perché ogni generazione ha il diritto e il dovere, di rileggere i classici alla luce del proprio sentire e delle proprie necessità, senza per questo travisare i testi. È fin troppo evidente che per lunghi decenni, in un’Italia fascista e conservatrice, bigotta e clericale anche dopo la caduta del fascismo, ha fatto comodo rinchiudere la produzione di Pirandello nella gabbia del contrasto vita/forma, delle questioni filosofiche del relativismo e della crisi d’identità. C’è tutto questo nella sua opera, ma anche molto di più.
Pirandello è uno dei miei maestri di scrittura, forse il maggiore insieme a Verga e Manzoni. Non si attraversano le sue pagine senza restarne impregnati nel profondo. L’asciuttezza delle metafore, la gestione delle ripetizioni in tutte le forme possibili, dall’anafora all’anadiplosi, quale marcatore dello scavo emotivo in corso nell’animo dei suoi personaggi. E poi, la struttura narrativa: i suoi attacchi diretti, ‘in medias res’, e le sue chiusure con una battuta secca, secondo il modo di raccontare rusticano. Tutte cose che conservano la loro efficacia anche sui lettori di oggi.
STORIA E MEMORIA... *
L’#ABIURA DI #GALILEOGALILEI (letta il #22giugno 1633), IL "MALEDETTO SIA #COPERNICO!" (L. #Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, 1904), E IL #DISAGIODELLACIVILTA’ (#SigmundFreud, 1929). #Storia e #memoria...
Ricordando che ieri (#28giugno) era il #giorno della #nascita nel 1867 di #LuigiPirandello e che una delle sue novelle più famose è "CIAULA SCOPRE LA #LUNA", non si può non ricordare ancora oggi alla #ChiesaCattolica (#29giugno, memoria di #PietroePaolo) la frase di #Keplero del 1611 : "Hai vinto, o #Galileo!" ("#Vicisti, #Galilaee": una #duplice #vittoria, sul piano scientifico e sul piano della preistorica #cosmoteandria "cattolica"!
La #rivoluzionecopernicana continua il suo #cammino... con #DanteAlighieri, #Shakespeare, #Kant, #Freud, #Ciaùla, e Samantha Cristoforetti, l’intero #genereumano è riuscito a "rivedere le stelle" (Inf. XXXIV, 139).
Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
*
Federico La Sala (29 giugno 2022)
Cei. Bassetti: «Fermare l’inutile strage del nostro tempo»
L’appello del presidente della Cei, aprendo il consiglio permanente, per l’accoglienza dei profughi ucraini: l’Ue li redistribuisca. Sguardo all’Italia: preoccupano calo delle nascite e caro bollette
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 21 marzo 2022)
Il Consiglio permanente della Cei è tornato a riunirsi oggi a Roma “mentre alle porte dell’Europa una guerra devastante sta seminando terrore, morte e distruzione”. E il cardinale presidente, Gualtiero Bassetti non ha peso l’occasione di lanciare fin dalle prime parole della sua introduzione ai lavori un appello per la pace. “Il nostro pensiero va alle vittime, ai loro cari e a quanti sono costretti a lasciare le proprie case per cercare un luogo sicuro: uniamo la nostra voce a quella del Santo Padre - ha detto -, affinché ‘in nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi’. La nostra voce sale a Dio perché questa inutile strage del nostro tempo sia fermata”.
Per questo il cardinale ha anche rivolto un grazie a quanti di prodigano per l’accoglienza dei tre milioni di profughi - l’80 per cento dei quali sono in Polonia, ha sottolineato - e assicurato che anche la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le Caritas è in prima linea.
Anche altri tempi hanno trovato posto nell’Introduzione, da uno sguardo alla situazione del Paese, alla denatalità, all’assegno unico, fino alla protezione dei minori e ai problemi connessi con il fine vita.
La guerra in Ucraina. “La grave crisi internazionale che stiamo vivendo - ha ricordato Bassetti - evoca per l’Europa il fantasma di un passato che si riteneva ormai definitivamente archiviato”. Morti e distruzioni, oltre ai profughi, non possono lasciarci indifferenti. Di qui l’appello del cardinale: “L’auspicio è che la mobilitazione della comunità politica internazionale possa trovare una soluzione al conflitto, intensificando gli sforzi diplomatici per arrivare alla cessazione delle ostilità e dell’indiscriminata violenza, che rappresentano sempre un passo indietro nel cammino dell’umanità”. Il presidente della Cei ha citato anche il recente incontro di Firenze, rivendicando la “bontà dell’iniziativa” e “l’orizzonte che si è aperto con questo nostro con-venire e con la firma della “Carta di Firenze”. Noi vogliamo costruire la pace - ha aggiunto -: vogliamo farlo per le nostre città, per le nostre comunità religiose, per le nostre famiglie, per i nostri figli. La pace è un valore che non si può barattare con nulla. Perché la vita umana non si compra e non si uccide! Sogniamo e vogliamo la pace tra tutti i popoli”.
Per questo, ha annunciato, “venerdì 25 marzo, Festa dell’Annunciazione, ci uniremo con i Vescovi e i presbiteri di tutto il mondo a Papa Francesco che consacrerà la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria: è un ulteriore segno della misericordia di Dio che, al contempo, esprime tutta la preoccupazione del Santo Padre per questa situazione estremamente pericolosa per l’umanità intera”. Le Chiese infatti hanno “un ruolo insostituibile per l’edificazione di una vera pace, che ponga al centro dell’attenzione la dignità umana, il rispetto dei diritti, delle libertà di ogni persona e della vita, la costruzione di comunità solidali e aperte”.
Quanto all’accoglienza, "non si può pensare - ha rilevato Bassetti - che i Paesi di confine possano sostenere da soli questo impegno umanitario: occorrerà che l’Unione Europea decida di attuare un vero e proprio piano di ridistribuzione dei cittadini ucraini nei vari Stati membri. Stiamo, peraltro, assistendo all’arrivo di profughi anche nel nostro Paese. Nelle prossime ore, alcuni voli umanitari, da Varsavia, giungeranno in Italia, permettendo a centinaia di cittadini ucraini di essere accolti da circa 20 Caritas diocesane del nostro Paese. Sono numeri che cresceranno e che richiederanno un’accoglienza di non breve periodo". "Le nostre Chiese - ha aggiunto il porporato - stanno facendo e faranno la loro parte nell’accoglienza e nell’apertura di corridoi per favorire l’arrivo in sicurezza delle persone che sono bloccate nei Paesi di transito, che non riescono più a proseguire il loro viaggio o sono troppo vulnerabili per farlo. Anche questo è un contributo prezioso alla pace".
Lo sguardo alla situazione italiana. Ciò che preoccupa maggiormente i vescovi è che "L’orrore del conflitto" sta causando "un rovinoso effetto domino sull’andamento globale". E dunque "l’impatto sconvolgente della guerra ha colpito la società italiana in un momento in cui sembrava potersi concretizzare il desiderio collettivo di una stagione di ritrovata serenità, avvalorata dai numeri di una ripresa economica eccezionalmente intensa e dal progressivo superamento delle misure anti-Covid". La crisi energetica e l’aumento generalizzato dei prezzi, ha fatto notare il presidente della Cei, stanno invece pesando in misura considerevole sull’andamento dell’economia e sulla vita concreta delle famiglie, già duramente provate dalle conseguenze della pandemia. Del resto, l’esperienza ci dice che la crescita economica è certamente una leva di fondamentale importanza per la ripresa complessiva del Paese, un presupposto ineliminabile, ma le sue ripercussioni sulla società non sono automaticamente virtuose. Un sintomo rilevante è rappresentato dal fatto che nel 2021, a fronte di un’avanzata impetuosa del Prodotto Interno Lordo, il numero delle persone in povertà assoluta sia rimasto sostanzialmente stabile e su livelli allarmanti.
Il calo delle nascite. Anche sul versante demografico, ha ricordato il cardinale Bassetti, "i dati sono ancora una volta negativi, per l’effetto combinato delle morti per Covid - una tragedia che sarebbe intollerabile archiviare con superficialità e non solo perché il virus non è affatto domato - e dell’ennesimo minimo storico delle nascite che per la prima volta si sono fermate sotto la soglia emblematica delle 400mila unità. È confortante la notizia delle prime erogazioni dell’assegno unico per i figli, un provvedimento lungamente atteso che in prospettiva potrebbe contribuire in modo significativo ad arginare questa deriva e che andrebbe integrato con altre misure non solo economiche. Occorre tuttavia essere consapevoli che un’inversione di tendenza non sarà possibile senza un salto di qualità sul piano culturale". In sostanza "bisogna rifuggire la tentazione di strumentalizzare il disagio per interessi ideologici e occorre invece adoperarsi per ricucire e pacificare il tessuto delle relazioni umane e civili, con un’attenzione speciale per i più piccoli e i più fragili".
Lotta agli abusi e protezione dei minori. La Chiesa che è in Italia continua a procedere con passi decisi nella lotta agli abusi. "Un fenomeno - ha sottolineato Bassetti - che interpella nel profondo ciascuno e che non permette di abbassare la guardia. Ma, a tre anni dall’emanazione delle rinnovate linee guida, incentrate sulla garanzia per le vittime, e dalla costituzione del Servizio nazionale, è possibile dire che la rotta è tracciata e ben salda. Non solo vi è una rete di Servizi che tocca ogni Diocesi italiana, ma con l’istituzione capillare di Centri di ascolto, diocesani e interdiocesani, sono stati resi disponibili luoghi dove - con persone formate e competenti in grado di accogliere, comprendere e confortare - viene esercitata l’accoglienza autentica delle vittime. Grazie a una formazione sempre più diffusa, inoltre, è possibile parlare oggi di un aumento globale della consapevolezza in ogni membro della comunità ecclesiale, di una cultura rivolta sempre più alla riparazione che al nascondimento, di una tensione alla verità e alla giustizia che non lascia indietro nessuno. In tal senso prosegue il cammino di discernimento e impegno per comprendere cosa è accaduto e perché, così da implementare ogni possibile attività di prevenzione e di tutela dei minori e delle persone vulnerabili all’interno della Chiesa".
Il fronte del fine vita. Il cardinale rileva che "sono da accogliere con sollievo la sentenza e le motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha respinto il quesito referendario sull’omicidio del consenziente, mentre c’è da sperare che nel corso dell’iter parlamentare la proposta di legge sul fine vita riconosca nel massimo grado possibile il principio di ’tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili’. La Chiesa, fa notare il presidente della Cei, "conferma e rilancia l’impegno di prossimità e di accompagnamento nei confronti di tutti i malati, invocando maggiore attenzione verso coloro che, in condizioni di fragilità o vulnerabilità, chiedono di essere trattati con dignità e accompagnati con rispetto e amore. Ed insieme auspica un “nuovo metodo di partecipazione” rispetto a queste tematiche: il dialogo e il confronto sono le strade maestre per evitare derive ideologiche con cui si smarriscono il valore e la dignità della persona".
Cammino sinodale. Secondo Bassetti, il "percorso su cui si sono incamminate tutte le nostre Chiese sta registrando una partecipazione ampia e coinvolgente. Lo Spirito soffia sui nostri territori, muovendo fantasia e creatività, segno di un rinnovato entusiasmo". E questo perché, "il popolo di Dio ha nel cuore il desiderio di incontrare gli altri, senza preferenza di persona, ed essere riflesso di comunione in ogni luogo, perché fratello o sorella di tutti e, insieme, figli dell’unico Padre". Nella vita personale, dunque, "l’uomo e la donna di fede si mettono in ascolto di ogni persona che incontrano, in atteggiamento di accoglienza incondizionata dell’altro, soprattutto dei più fragili. Scelgono, con la postura del pellegrino, di essere in comunione, operando con delicatezza e umiltà con le Chiese sorelle e le altre religioni, e anche con coloro che, pur professandosi lontani dalla fede, vivono valori profondamente umani".
Santo del giorno.
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Nome: Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Titolo: Esempio santissimo
Ricorrenza: 27 dicembre
Tipologia: Commemorazione
La festa della Sacra Famiglia fu introdotta nella liturgia cattolica solo localmente nel XVII secolo. Nel 1895 la data fissata per tale festa fu la terza domenica dopo l’Epifania, fu soltanto nel 1921 che grazie a papa Benedetto XV la celebrazione fu estesa a tutta la Chiesa.
Giovanni XXIII modificò ulteriormente la data spostandola alla prima domenica dopo l’epifania.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II infine la festa la Sacra Famiglia la prima domenica dopo Natale e quando il Natale cade di domenica, viene spostata al 30 dicembre.
Il suo significato è molto importante in quanto dopo aver visto la Sacra Famiglia dare alla luce e accudire il neonato Gesù a Nazareth, in questa festività la si può ammirare e ricordare nella vita di tutti i giorni, mentre vede crescere il Cristo.
L’eccezionalità di tale famiglia risiede soprattutto nel fatto che i gesti quotidiani che in qualsiasi focolare domestico erano e sono ancora oggi svolti, coincidono allo stesso tempo con il pregare, amare, adorare il proprio Dio, comunicando con suo figlio incarnato in terra.
Accudendo Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui la Madonna e San Giuseppe mettevano in pratica i dovuti atti di culto, rappresentando il punto d’inizio per ogni famiglia cristiana, del tempo e odierna, che viveva ogni istante della giornata come un sacramento.
La festa ha come obiettivo quello di conferire un esempio a tutte le famiglie cristiane, che avrebbero potuto guardare con orgoglio al nucleo familiare che fu di Cristo il quale, nonostante le particolari condizioni note, era caratterizzato da tutte le normali problematiche che chiunque si trova ad affrontare.
Maria seguì lo sposalizio con Giuseppe, seguendo la legge ebraica, ma soprattutto il grande piano del suo Dio, conservando però la propria verginità. In seguito alla Visitazione a Sant’Elisabetta iniziò a sentire i chiari segni di una gravidanza, giungendo infine a dare alla luce il Figlio del Signore.
Prima dell’età adulta raggiunta da Gesù, la Madonna viene citata in alcuni Vangeli per un episodio accaduto durante l’adolescenza di Cristo (al tempo dodicenne), che si intrattenne al tempio con i dottori, mentre i suoi genitori penavano ormai da tre giorni nel cercarlo senza sosta.
MARTIROLOGIO ROMANO. Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, esempio santissimo per le famiglie cristiane che ne invocano il necessario aiuto.
*
Fonte: Santo del giorno
Scheda:
Natale in casa Cupiello *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
Questa crisi e l’appello papale del 1920.
Ecco il mondo che c’è da rifare
di Fulvio De Giorgi (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
Un secolo fa, il 23 maggio 1920, il papa Benedetto XV pubblicò la grande enciclica Pacem Dei munus: il contesto era quello della penosa situazione economico-sociale causata dalla Prima guerra mondiale, peraltro aggravata dalla pandemia della “spagnola” che, tra il 1918 e il 1920, causò decine di milioni di morti nel mondo (solo in Italia 600mila). Il Papa osservava: «Ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; [...] infine un’ingente schiera di esseri debilitati». Affermava pertanto: «Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più dilatare i confini della carità quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo». E proprio mentre, tra difficoltà, stava nascendo la Società delle Nazioni, il Papa auspicava un «legame universale di popoli» e dichiarava desiderabile che, adempiuti i doveri di giustizia e di carità, tutti gli Stati «si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio». E a questo fine proponeva «di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari».
Dopo quell’enciclica del Papa si ebbero due grandi e tragici momenti di crisi mondiale: la Grande Depressione, avviatasi nel 1929, e la Seconda guerra mondiale (1939-45). Da tali due crisi si uscì in modo sensibilmente diverso.
I devastanti effetti della crisi finanziaria ed economica, partita con il crollo della Borsa di Wall Street, portarono a uno choc psicologico ed etico-politico che provocò una grande paura e la vittoria di soluzioni “sovranistiche” cioè nazionalistico-imperialistiche: in Germania si ebbe l’avvento al potere di Hiltler e il sorgere del totalitarismo nazionalsocialista, le altre potenze europee (Gran Bretagna e Francia) cercarono di superare i problemi scaricandoli sulle colonie, anche l’Italia fascista e soprattutto il Giappone svilupparono un imperialismo espansionista; una crescita delle industrie delle armi accompagnò tali processi.Tuttavia questa soluzione sovranistica - l’opposto di quello che aveva auspicato il Papa - si rivelò tragicamente contraddittoria e negativa, indebolendo progressivamente la già fragile Società delle Nazioni e sfociando, infine, nel secondo conflitto mondiale, che rappresentò - ovviamente - una catastrofe umanitaria di eccezionali proporzioni. Da questa seconda crisi mondiale, tuttavia, grazie alla sconfitta delle potenze dell’Asse, si uscì in modo totalmente diverso. Oggi si parla molto di Piano Marshall e si invoca qualcosa di simile per il mondo del dopo-coronavirus. Ma quel Piano (che riguardava l’Europa) avvenne in un contesto complessivo molto preciso: ed è proprio questo l’aspetto storico più rilevante e anche quello più istruttivo per l’oggi e più attuale.
La soluzione alla grave crisi umanitaria, provocata dalla Seconda Guerra Mondiale, fu quella delle “Nazioni Unite”: la nascita dell’Onu, come primo embrione di un sistema istituzionale di governo mondiale. Si ebbe così la Dichiarazione universale dei Diritti umani. Insomma non una soluzione sovranistica, ma una soluzione solidaristico-fraterna: fondata sulla fratellanza universale del genere umano, giunto sulla soglia del possibile suicidio atomico. È questo il «grande crinale della storia» di cui parlò Giorgio La Pira.
Le grandi scelte, che, nei decenni seguenti, furono compiute, si maturarono all’interno di quella generale visione di fondo: il compromesso tra capitalismo e democrazia, con una regolamentazione sociale dell’economia e il progressivo sviluppo del Welfare State, l’avviarsi del processo di unità europea, la decolonizzazione. Anche la guerra fredda rimase appunto “fredda” perché frenata e, in qualche modo, interdetta da quel paradigma generale.
La globalizzazione neoliberale, che ha dominato la fine del XX secolo e l’avvio del XXI, fino a oggi, ha fortemente destrutturato e delegittimato quella soluzione solidaristico-fraterna: non ha potuto cancellarla del tutto, ma la ha indebolita fortemente. Così che, di fronte alla crisi finanziario-economica avviatasi nel 2007-2008, la soluzione solidaristico- fraterna, che pure sarebbe stata la più opportuna, non è riuscita a imporsi. E sono sorte, invece, aggressive e impetuose posizioni neo-sovraniste che hanno ancor più minato (e perfino deriso) gli ideali stessi della fraternità umana e della solidarietà universale: basti considerare l’atteggiamento di molti Paesi del Nord del mondo verso gli esodi di migranti poveri e perseguitati dal Sud del mondo.
Oggi la catastrofe sanitario-umanitaria mondiale provocata dalla pandemia di Covid-19 ci riporta al «grande crinale della storia». Solo una soluzione solidaristico- fraterna universale, che ponga all’ordine del giorno una forma di governo mondiale, potrà salvarci. È ancora un pontefice, papa Francesco, a indicare con tenacia e argomenti forti la strada e al suo fianco - pur nella seria difficoltà di questa grande istituzione sovranazionale e multilaterale - stavolta c’è il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. I perduranti dogmi neoliberisti e le ricorrenti pseudo-soluzioni sovranistiche (con l’implicita idea neo-imperialistica di scaricare i problemi sui più poveri del mondo) sarebbero un errore tragico e fatale, che l’umanità non può permettersi.
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il Papa in Asia
All’Annuncio serve il «dialetto» perché non ne siamo padroni
di Maurizio Patriciello (Avvenire, sabato 23 novembre 2019)
La paura paralizza la libertà, tarpa le aspirazioni, impedisce di guardare oltre l’orizzonte. Dio è amore, libertà, verità. Amarlo vuol dire annunciare la ’sua’ Parola, non la nostra camuffata. In ogni discorso di papa Francesco in Thailandia - come del resto dappertutto - riecheggia il Vangelo che da due millenni impregna le nostre terre. Ogni uomo traduce in immagini le parole che giungono ai suoi orecchi. La parola ’pane’, per esempio, richiama alla mia mente un mondo che ha il sapore della casa, degli affetti, del camino acceso e delle carezze della mamma. Non posso, e non mi permetto, di pretendere che le stesse sensazioni le provi un cinese, o un islandese.
Il rispetto per la persona umana, quando è vero, deve passare attraverso il rispetto della sua cultura, della sua storia, della sua lingua, del suo mondo interiore. Al Papa stanno a cuore le persone, tutte, quelle non credenti e quelle di diverse religioni; e quelle che, come lui, hanno scommesso su Gesù la loro vita. Francesco sa che il grano della Parola che salva può e deve essere separato dalla crusca.
Siamo legati alle nostre tradizioni, è un bene? Si, se riconosciamo che sono ’nostre’, appartengono a noi, alla nostra storia. Via San Gregorio Armeno è un vicolo della vecchia Napoli, che nei giorni di Natale diventa un solo, grande mercato di presepi. Qui, folkrore, fede, tradizione, affari si confondono. Ebbene, credo che proprio il presepe napoletano, nella sua ingenuità, possa assurgere ad esegesi delle parole del Papa. Il mondo che rappresenta, infatti, non è quello di Betlemme dove nacque Gesù ma la Napoli del Settecento. I napoletani lo hanno sempre saputo e non se ne sono mai scadalizzati. Al contrario.
In quelle scenografie in miniatura, oltre alla capanna con la Sacra famiglia, c’è di tutto, e altro si può aggiungere, secondo la fantasia di ognuno. Oggi diremmo che il presepe napoletano è inclusivo. Le bancarelle dei pescivendoli, i negozietti dei merciai e dei macellai, li puoi trovare ancora oggi a Porta Nolana, ai Vergini, ai Quartieri spagnoli. Le massaie sorridenti, con gli zigomi rossi fuoco e i grembiuli che servivano anche come borse per la spesa, sono le nostre bisnonne. Gli zampognari sono scesi dai monti dell’Irpinia e del Molise, per suonare, dietro una piccola offerta, la ninna nanna a Gesù davanti alle nostre case.
«Il Signore non ci ha chiamati per mandarci nel mondo a imporre alle persone carichi più pesanti di quelli che già hanno, ma a condividere una gioia, un orizzonte bello, nuovo e sorprendente» ha detto Francesco in Asia ai religiosi cattolici. Perciò «non bisogna aver paura di cercare nuove forme, simboli, immagini e musiche per inculturare sempre di più il vangelo e ridestare il desiderio di conoscere il Signore».
Il Papa invita poi i cristiani di tutto il mondo a confessare la fede «in dialetto» alla maniera in cui una mamma canta la ninna nanna al suo bambino. Bellissimo. Proprio come ha fatto Maria.
Il Papa come il grande sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Da più di duecento anni, la notte di Natale, nelle nostre chiese, risuona il suo Quann nascette Ninno. In dialetto, appunto. Dobbiamo impegnarci di più per imparare meglio ad annunciare Cristo «in dialetto», facendoci, cioè, «tutto a tutti». Senza tentennamenti, senza paure, senza sentirci padroni di niente. Coscienti di essere solo «servi inutili» che hanno avuto la grazia immensa di averlo conosciuto.
A 30 anni dalla morte
Sciascia, perché è il momento di tornare a leggere lo scrittore siciliano
Una nuova raccolta di saggi permette di approfondire l’autore scomparso nel 1989, che scriveva da narratore nei saggi e da saggista nei romanzi, e che lavorava col pensiero costantemente rivolto a Luigi Pirandello
di Salvatore Silvano Nigro *
Leonardo Sciascia si è spesso soffermato sull’opportunità e il diletto della rilettura. All’argomento ha dedicato un intervento specifico nella raccolta di saggi intitolata Cruciverba, seguendo e sviluppando un discorso sottile e dotto di Borges. Ha scritto: «Un libro non esiste in sé, e non soltanto per l’ovvio fatto che la sua vera esistenza, al di là della sua fisicità, consiste nell’esser letto, ma soprattutto perché è diverso per ogni generazione di lettori, per ogni singolo lettore e per lo stesso singolo lettore che torna a leggerlo. “Ogni volta è diverso”.
Un libro, dunque, è come riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. E sarebbe allora il rileggere un leggere: ma un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l’altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi. Ed è perciò che la gioia del rileggere è più intensa e luminosa di quella del leggere».
Ora è arrivato il momento di tornare a leggere Sciascia. Non perché alle sue opere siano mai mancati i lettori rimasti numerosissimi e fedeli. Ma perché, passati trent’anni dalla morte dello scrittore, ce ne offre l’occasione il completameto dell’edizione Adelphi delle Opere esemplarmente curate da Paolo Squillacioti.
È appena arrivato in libreria il tomo secondo (Saggi letterari, storici e civili) del secondo volume (Inquisizioni. Memorie. Saggi). Si tratta di una vera e propria edizione critica. Ma qui la filologia non è un esercizio passivo. I suoi procedimenti sono affabilmente narrativi. Ogni testo ha una sua biografia minima. E dentro vi si abbreviano racconti filologici che documentano ripensamenti sulle bozze, riscritture, varianti, errori di stampa, sviste, recuperi di brani dai dattiloscritti, ripristino della punteggiatura.
La qualità testuale è garantita anche dall’individuazione del vocabolario letterario di Sciascia, con il recupero di dantismi o leopardismi, per esempio, e dall’esplicitazione delle citazioni riposte e, quindi, delle interlocuzioni sottintese. Nel raccogliere i suoi saggi sparsi, Sciascia aveva fatto cadere le note a piè di pagina (quando c’erano).
Queste note sono state riprodotte nell’apparato, per documentare quanto lavoro, quanti scavi bibliografici, nasconde la leggerezza stendhaliana e saviniana della prosa di Sciascia. Squillacioti ha inoltre l’accortezza di contestualizzare gli articoli di polemica, mediante sintetici e indispensabili cappelli informativi.
Il tomo comprende le raccolte Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Cruciverba, Per un ritratto dello scrittore da giovane, Ore di Spagna, Alfabeto pirandelliano, Fatti diversi di storia e letteratura civile, A futura memoria (se la memoria ha un futuro).
Il titolo del tomo è chiaramente esemplato su Fatti diversi di storia letteraria e civile, commentato dallo stesso Sciascia nell’autorisvolto dell’edizione Sellerio del libro: «Faits divers sono, in francese, quelli che noi diciamo fatti di cronaca, cronache quotidiane, cronache a sfondo nero, passionali e criminali spesso, sempre di una certa stranezza e di un certo mistero. Intitolando “fatti diversi” questa raccolta, si è voluto appunto dir parodisticamente, paradossalmente e magari parossisticamente, “cronache”: a render più leggera la specificazione, di crociana ascendenza, di “storia letteraria e civile”».
Va detto subito che la rivendicazione della «scrittura di letteratura» era forte in Sciascia, scrittore che non avvertiva nessuna tensione tra narrativa e saggistica: considerandosi narratore nei saggi e saggista nei romanzi e nei racconti. E al genere saggistico recuperava gli articoli di giornale, fossero essi di letteratura o di politica. Sentì infatti il dovere di difendere Giuseppe Antonio Borgese, considerato con sufficienza un critico-giornalista: «come se», scrisse, «un articolo di due colonne su un giornale non potesse contenere più idee, e più illuminanti, di un lungo scritto pubblicato in una rivista accademica o in un libro».
A scorrere l’indice del tomo adelphiano risalta subito la persistenza di quella che Sciascia chiamava, compiacendosene, la sua «ossessione Pirandello». Ebbe a scrivere: «Sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, a riviverli. Lo scarto tra i suoi libri e la vita è stato per me sempre minimo ... Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi».
L’ultimo tomo dell’edizione si chiude con le furibonde polemiche giornalistiche di A futura memoria (se la memoria ha un futuro), arrivato nelle librerie lo stesso giorno in cui Sciascia morì. «Sciascia l’eretico» della politica italiana dei compromessi e di tutte le maschere del Potere (negli anni dei casi Moro, Sofri, Tortora, e dei cosiddetti professionisti della mafia), dovette difendersi dagli attacchi che gli vennero da tutte le parti, dai comunisti e dai democristiani.
Amava presentarsi così: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità».
Sciascia sofferse la solitudine di tutti gli «eretici». Chi vuole avere un quadro completo sulla solitudine (politica) di Sciascia, deve leggere il coinvolgente libro di Felice Cavallaro, Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo (Solferino, pagg. 304, € 17).
Uno dei primi recensori di A futura memoria fu Angelo Guglielmi su «Tuttolibri». Scrisse: «Che cosa potrebbe pensare un giovane di oggi, incontrandolo per la prima volta, di Leonardo Sciascia? Intanto l’incontro avverrebbe sull’ultimo (appena uscito) libro A futura memoria ... Probabilmente lo leggerebbe con ansia e partecipazione per le gravi cose di cui il libro parla e la passione con cui ne parla.
Poi, giunto alle ultime pagine, sarebbe assalito da qualche disagio e perplessità trovando questa frase: «Non sono infallibile ma credo di avere detto qualche inoppugnabile verità». Ma come, si dice il nostro giovane, è ancor possibile tanta sfacciata sicurezza? E la verità, dov’è la verità? non è forse nel diffidarne? nel prendere le distanze quando crediamo di averla raggiunta?».
Ebbene, Sciascia avrebbe ribattuto che la verità è nella letteratura in quanto basata sulla forza della ragione e del diritto. E infatti, nel rileggere oggi le opere di Sciascia, una volta consegnate al giudizio della storia le polemiche di una volta, rimane al lettore il grande fascino della scrittura letteraria dell’autore: di uno dei più grandi scrittori del nostro secondo Novecento.
Opere, tomo II (Saggi letterari, storici e civili) del volume II (Inquisizioni. Memorie. Saggi)
Leonardo Sciascia
Adelphi, Milano, pagg. 1484, € 75.
In libreria dal 21 novembre
* FONTE: IL SOLE-24-ORE, 19.11.2019 (RIPRESA PARZIALE).
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Domenica, 20 ottobre 2019 *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
La seconda Lettura della liturgia di oggi ci propone l’esortazione che l’apostolo Paolo rivolge al suo fedele collaboratore Timoteo: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,2). Il tono è accorato: Timoteo deve sentirsi responsabile dell’annuncio della Parola.
La Giornata Missionaria Mondiale, che si celebra oggi, è un’occasione propizia affinché ogni battezzato prenda più viva coscienza della necessità di cooperare all’annuncio della Parola, all’annuncio del Regno di Dio mediante un impegno rinnovato. Il Papa Benedetto XV, cento anni orsono, per dare nuovo slancio alla responsabilità missionaria di tutta la Chiesa promulgò la Lettera apostolica Maximum illud. Egli avvertì la necessità di riqualificare evangelicamente la missione nel mondo, perché fosse purificata da qualsiasi incrostazione coloniale e libera dai condizionamenti delle politiche espansionistiche delle Nazioni europee.
Nel mutato contesto odierno, il messaggio di Benedetto XV è ancora attuale e stimola a superare la tentazione di ogni chiusura autoreferenziale e ogni forma di pessimismo pastorale, per aprirci alla novità gioiosa del Vangelo. In questo nostro tempo, segnato da una globalizzazione che dovrebbe essere solidale e rispettosa della particolarità dei popoli, e invece soffre ancora della omologazione e dei vecchi conflitti di potere che alimentano guerre e rovinano il pianeta, i credenti sono chiamati a portare ovunque, con nuovo slancio, la buona notizia che in Gesù la misericordia vince il peccato, la speranza vince la paura, la fraternità vince l’ostilità. Cristo è la nostra pace e in Lui ogni divisione è superata, in Lui solo c’è la salvezza di ogni uomo e di ogni popolo.
Per vivere in pienezza la missione c’è una condizione indispensabile: la preghiera, una preghiera fervorosa e incessante, secondo l’insegnamento di Gesù proclamato anche nel Vangelo di oggi, in cui Egli racconta una parabola «sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). La preghiera è il primo sostegno del popolo di Dio per i missionari, ricca di affetto e di gratitudine per il loro difficile compito di annunciare e donare la luce e la grazia del Vangelo a coloro che ancora non l’hanno ricevuta. È anche una bella occasione oggi per domandarci: io prego per i missionari? Prego per coloro che vanno lontano per portare la Parola di Dio con la testimonianza? Pensiamoci.
Maria, Madre di tutte le genti, accompagni e protegga ogni giorno i missionari del Vangelo.
[...]
*
PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Domenica, 20 ottobre 2019 (ripresa parziale).
Polonia. Beati i genitori di Wojtyla? I vescovi chiedono di aprire la causa
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale
di Redazione Catholica (Avvenire, venerdì 11 ottobre 2019)
Nel corso della 384ª plenaria dell’episcopato polacco (8-9 ottobre) i vescovi hanno discusso diversi aspetti delle celebrazioni del 100° anniversario della nascita di Karol Wojtyla che cadrà il 18 maggio 2020. L’arcidiocesi di Cracovia ha ottenuto così da parte della Conferenza episcopale, come riporta l’agenzia Sir, l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per il nulla osta all’istruzione a livello diocesano del processo di beatificazione dei genitori di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla e Emilia Kaczorowska.
«Non c’è il minimo dubbio che la spiritualità del futuro santo pontefice si sia formata in famiglia e grazie alla fede dei suoi genitori», ha osservato il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di Giovanni Paolo II. Il porporato si è detto convinto che «i genitori del Papa polacco possano diventare un valido esempio per le famiglie moderne» e ha ricordato che papa Francesco, durante la cerimonia di canonizzazione ha conferito a Wojtyla proprio il titolo di «Papa delle famiglie».
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale.
L’episcopato polacco, nel corso della plenaria ha inoltre appoggiato l’idea che Giovanni Paolo II diventi patrono della riconciliazione tra polacchi e ucraini, necessaria in seguito ai terribili crimini commessi durante l’ultimo conflitto mondiale. La «teologia del dialogo, della riconciliazione e del perdono» promossa dal Papa polacco «in base ai valori del Vangelo» ha permesso ad entrambi i popoli “di compiere dei passi importanti sulla strada della reciproca comprensione”, concordano i vescovi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Chiesa ed Eucharistia. Il comandamento dell’amore e la norma personalistica ....
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger)!!!
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La mostra.
Luigi Pirandello, l’uomo dietro lo scrittore
Dai rapporti con Mussolini a quelli con gli editori, dalle passeggiate parigine alle partite a bocce al mare: alla Biblioteca Nazionale di Roma in documenti inediti la quotidianità del premio Nobel
di Roberto Cicala (Avvenire, domenica 28 aprile 2019)
«Ricordatevi del motto fascista» scrive nella sua calligrafia ariosa Benito Mussolini a Luigi Pirandello in una delle lettere inedite, lontane nella storia ma purtroppo vicine alla cronaca di questi giorni, esposte nella piccola ma succosa mostra “Pirandello mai visto” curata da Annamaria Andreoli e Andrea De Pasquale alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ai più curiosi basterebbero gli spezzoni cinematografici del creatore di Sei personaggi in cerca d’autore ripreso a passeggio lungo i boulevard parigini durante le feste di Natale del 1930: insieme con lui sono il suo traduttore Benjamin Crémieux e gli amici Massimo Bontempelli e Paola Masino. In un’altra sequenza, dell’estate successiva, è a Castiglioncello, immortalato nella quotidianità della spiaggia e di una partita a bocce, ancora con la Masino e Bontempelli. A quest’ultimo Pirandello è legato profondamente, come emerge da vari documenti; in uno scrive all’editore Formiggini di accettare le condizioni di pubblicazione proposte per Fuori di chiave ma perora la causa delle Odi dell’amico fautore del realismo magico: «Sono sdegnato al par di Lei della sordità del pubblico e della crassa ignoranza e della vigliaccheria dei così detti critici, che hanno in mano i giornali più diffusi d’Italia. Bisognerebbe fare una crociata contro tutti questi beoti!». In verità lo sfogo sembra riferirsi non solo alla situazione di Bontempelli, con cui sbotta che «mi hanno messo purtroppo il bollo del novellaro; e non debbo dar altro che novelle e novelle e novelle...».
I documenti esposti nell’allestimento aperto al pubblico gratuitamente fino al 28 giugno nella sede di viale Castro Pretorio (catalogo di De Luca Editori d’Arte), sono tratti dalla collezione della dell’Istituto di studi pirandelliani e sul teatro contemporaneo e della stessa Biblioteca Nazionale, che merita sempre una visita per la splendida e didattica galleria “Spazio900” dedicata alle testimonianze di carta di alcuni dei maggiori scrittori contemporanei, a partire da una commovente stanza di Elsa Morante ricostruita con il suo mobilio originale, mentre del drammaturgo siciliano le vetrine ospitano il Taccuino segreto, il manoscritto delle Elegie renane e le prime edizioni delle sue opere più note. Molti autografi rivelano modalità di composizione che gettano luce sull’officina creativa e sul sistema di composizione del premio Nobel. Altri documenti legano lo scrittore a personaggi del tempo come D’Annunzio (che gli chiede una raccomandazione per una giovane amica) e i figli (ai quali non ha mai tempo di scrivere lettere distinte). E gli appassionati di vicende editoriali trovano spunti poco conosciuti nella bibliografia dell’autore nato all’indomani dell’unità d’Italia a Girgenti. Da qui, nel 1909, scrive a Ercole Rivalta su fogli listati a lutto quando è venuta meno la possibilità di pubblicare I vecchi e i giovani sulla “Nuova Antologia” e il romanzo esce parzialmente a puntate sulla “Rassegna contemporanea” diretta dall’amico Rivalta: «Spedisco la puntata di agosto del romanzo, meno le ultime cartelline, che debbo ancora ricopiare... Desidererei che mi si mandassero al più presto le prime bozze». Ma l’ansia della pubblicazione riguarda anche Suo marito, pubblicato dal fiorentino Quattrini l’anno dopo: non presso Treves, che era la prima opzione, probabilmente a causa dei riferimenti impliciti nel libro alla vicenda biografica della collega Grazia Deledda.
Non mancano nomi, volti e riferimenti alle donne della vita dell’autore di Uno, nessuno e centomila, soprattutto in riferimento al teatro (anche con i costumi di Nanà Cecchi realizzati dalla sartoria D’Inzillo per il recente spettacolo Enrico IV). In una lettera del 1923 Adriano Tilgher confida al maestro che «quelli che La chiamano un cerebrale, nel senso di arido escogitatore di sillogismi e situazioni, non si sono accorti che nel fondo fondo Lei è un lirico! Non mi stupirei se il Suo teatro fosse un passaggio verso una lirica essenziale». Il teatro per lui è Marta Abba (le scriverà: «Senza la tua presenza la mia arte muore») in un rapporto ambiguo tra passione delusa e vite parallele. Si scambiano biglietti rapidi come sms odierni. Dalla nave Conte di Savoia nel 1936 lei scrive: «La saluto, caro Maestro, con l’augurio che la possa ritrovare come l’ho lasciata, di ottimo aspetto, di ottima salute, di ottimo umore». Ma Pirandello morirà di lì a poco dopo averle scritto: «Qui lontano resterò a vivere fino all’ultimo respiro». Ormai è disperato e non sa più gestire quell’umorismo che aveva tanto teorizzato e distillato nelle sue opere fin dal saggio omonimo criticato da Benedetto Croce, tanto che la seconda edizione, per i tipi di Battistelli, esposta in mostra priva della dedica “alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”, è aumentata da una serie di aggiunte in risposta proprio al filosofo napoletano. Per Pirandello l’umorismo resta uno specchio per capire la sua e nostra vicenda, perché, annota deluso, «non ci fermiamo alle apparenze; ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt’al più sorridere».
La vera storia del presepio
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2018)
Mentre sindaci, dirigenti scolastici, deputati e senatori della ex Lega Nord, ora Lega di Salvini, e altri personaggi consimili, tutti membri di diritto dell’eterno Carnevale italiano, si agitano per riaffermare la presenza del Presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, dal momento che in virtù del “politicamente corretto” vi è stato estromesso, esce un bel libro dove la storia del presepio è raccontata per filo e per segno. Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19).
Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”. Seguiamo Bettini. E tenere bene a mente che la parola che l’autore usa, sin dall’esergo infantile, è “presepio” e non “presepe”.
La fonte principale sono naturalmente i Vangeli. Si comincia con Matteo (Matteo 2: 1 sgg). La storia è quella della nascita di Gesù a Betlemme al tempo d’Erode. Ci sono i Magi che vengono dall’Oriente, che passano a chiedere a Erode, il quale si fa promettere segretamente che, trovato il bambino, torneranno da lui a riferirgli. I Magi, il cui numero non è definito, seguono la stella, trovano il luogo in cui è deposto il bambinello ma, avvertiti in sogno, fanno ritorno al loro paese per altra strada senza parlare con Erode. Una storia che abbiamo letto molte volte. Bettini ci fa notare che nel passo non ci sono mangiatoie, pecore o pastori. Da dove spuntano fuori?
Il Vangelo di Luca (Luca 2: 6 sgg) è il vero testo che ha favorito la nascita del presepio, anche se non subito. Lì c’è la mangiatoia, poi i pastori, l’angelo, Maria, Giuseppe, ma non ancora i Magi. Non c’è neppure la grotta, presente in molte iconografie successive, in quadri e affreschi. A contribuire alla costituzione del presepio è un altro testo, il Protovangelo di Giacomo, non entrato tra i canonici. Vangelo apocrifo, ma molto influente presso le prime comunità cristiane, è stato composto nel II secolo; è il Vangelo dell’infanzia di Gesù, da cui provengono molte storie sul bambino divino. La vicenda del presepio trova lì una serie di dettagli significativi. Il testo ha un andamento narrativo; fa parlare i personaggi, compresa un’ostetrica, che aiuta Maria a partorire. Lì si trovano il bue e l’asino, fondamentali per ogni presepio che si rispetti, e anche i Magi. Di questa versione all’autore del libro interessa la presenza della grotta. Gesù nasce lì, non in una casa come in Matteo.
Questa la partenza. Per diventare un vero presepio deve attraversare un altro terreno occupato dai teologi e dai commentatori delle sacre Scritture. Il primo che ci interessa è Origene, anche se ci sono altri prima, compresi eretici come Celso. Origene dà forma canonica al tutto: Betlemme, la grotta, le fasce, la mangiatoia. Il punto su cui si concentra Bettini da antichista, è il parallelo tra Gesù e le figure mitiche che l’hanno preceduto: le storie delle nascite dei bambini divini. In particolare Adone, che sembrerebbe fungere da modello per la nascita dello stesso Salvatore. Inutile dire ci sono innumerevoli paralleli e anche molti dettagli simili tra tutte queste storie, compresa la grotta in Arcadia sul monte Cillene in cui è posto Adone. E poi c’è la storia della nascita di Dioniso stesso.
I commentatori cristiani hanno sovrapposto le tradizioni pagane a quelle del nuovo Dio e fatto slittare i significati dalla tradizione passata al nuovo evento mitico narrato dai Vangeli, e commentato dagli esegeti. L’autore si concentra sul termine “mangiatoia” per via di questa sovrapposizione di storie: líknon è l’oggetto greco che corrisponde al nostro “mangiatoia”; i Romani lo chiamano vannus, ed è il cesto utilizzato per vagliare il grano. Il viaggio che Bettini ci fa fare tra le parole e le cose è affascinante; ci mostra la parentela tra i miti greci, e poi romani, e il mito cristiano, tra le nascite divine e quella di Gesù a Betlemme.
Luca indica la mangiatoia come un “segno” dato ai pastori per riconoscere il Salvatore, cosa non indifferente, perché lo scambio dei bambini è un topos sempre presente nelle storie mitiche, come racconta la proto-saga di Harry Potter, Animali fantastici, ora nelle sale cinematografiche. Conclusione di questo primo tragitto: il mondo antico è ricco di racconti in cui c’è un bambino nato in una grotta in circostanze eccezionali, deposto non in una culla, bensì in un contenitore differente. Si pensi alla vicenda di Mosè per restare alla tradizione ebraico-cristiana.
Gli animali rivestono qui un ruolo non secondario: Animali soccorrevoli s’intitola il secondo capitolo del libro. A partire da Gilgamesh sino ad arrivare a Romolo e Remo, e quindi Gesù, sono gli animali a soccorrere il fanciullo divino, il predestinato a grandi cose; una tradizione che nel mondo antico ha conosciuto una grande fortuna. L’eroe bambino è rifiutato dalla cultura e salvato dalla natura, scrive Bettini. Come entrano nella storia della nascita di Gesù l’asino e il bue? Attraverso Virgilio. Mi si perdonerà se qui sarò breve, perché Bettini, che è lettore ed esegeta acutissimo dei testi, non fa mai salti in avanti: procede calmo e sicuro, e vaglia pazientemente tutte le fonti che incontra.
Siamo nella quarta egloga delle Bucoliche con un vaticinio a lungo commentato, che ha portato Virgilio a entrare nel poema dantesco quale guida e mentore. Diamo per scontato anche il passo profetico redatto dal poeta latino; e qui non posso che rimandare alle pagine del libro, così come per la storia di Costantino. In breve: Virgilio sembra anticipare la venuta del Bambino divino, di Gesù, o almeno così può essere interpretato il passo cui si fa riferimento nel libro. Tutta l’antichità cristiana l’ha detto e ridetto, compreso il vaticinio cumano, quello della Sibilla, presente in pitture e intarsi marmorei.
Arriviamo così a Prudenzio (348-402). In una raccolta intitolata Odi quotidiane parla del Natale di Gesù e degli animali (“i bruti animali”). Arrivano i quadrupedi alla mangiatoia. Bettini ci mostra almeno un paio di sarcofagi cristiani con natività dove sono raffigurati i Magi. Per riassumere e per non perderci in questo che è solo un condensato sommario delle pagine di Presepio, diciamo che le due tradizioni narrative della nascita del Salvatore (Luca e Matteo) confluiscono in un unico racconto visivo. Il passaggio è importante: è un racconto visivo. Il presepio, non bisogna mai dimenticarlo, è prima di tutto un fatto visivo. Possiamo aggiungere: una piccola scultura fatta di tante piccole sculture. Per usare un termine contemporaneo, che non so quanto adeguato, e che Bettini certo non usa, il presepio è un evento performativo. Non siamo al “dire è fare” di J. L. Austin, ma neppure troppo lontani.
Sono le immagini delle opere d’arte (affreschi, bassorilievi, pitture su tavola) che rendono visibile il presepio: dalle parole all’opera. Siamo in quella che Bettini chiama la “memoria culturale”; il suo libro s’iscrive all’interno di quest’area. Tuttavia senza le parole non ci sarebbero queste immagini. Non le immagini in generale, ma proprio queste. Da qui comincia il presepio propriamente detto: con bambino nella mangiatoia, il bue e l’asino, i pastori, i Magi, con Maria e a volte anche Giuseppe, ma non sempre. I due animali costituiscono un punto importante, come si vedrà poi con San Francesco. Le fonti sono affreschi: nelle catacombe romane e a Verona nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle.
Bettini, da quello che si apprende leggendo il libro, ci ha messo anni per mettere insieme le cose che racconta e spiega. Non tanto, e non solo, le informazioni; i pezzi c’erano già, per quanto separati. Quello che più conta in questo volume riccamente illustrato sono le motivazioni di fondo, cioè le domande più o meno esplicite che Bettini fa al suo presepio anche se non lo allestisce più da anni; l’ha fatto nel passato e questo, come si vedrà, è quello che conta.
C’è un altro passaggio importante che chi ha fatto il Liceo classico darà per scontato, ma che chi proviene dallo Scientifico o dagli Istituti Tecnici e dall’Artistico non è detto colga al volo. Si tratta del passaggio dall’allegoria al racconto. Oggi anche i ragazzini delle medie inferiori sanno cos’è l’allegoria. Senza allegoria non si capisce la letteratura medioevale, ma soprattutto le Sacre Scritture. La grande tradizione allegorica sta alle nostre spalle, eppure, in qualche misura, anche davanti a noi.
La mangiatoia non è mai esistita, dice Bettini, eppure è diventata importante grazie al suo contenuto allegorico; di più: grazie alle allegorie dei commentatori. Tutto un fatto di parole: “dire è fare”; da “mangiatoia” si arriva a “greppia”, poi a “recinto”; “presepio” significa esattamente “recinto”, ciò che si “chiude davanti”, come una “siepe”, e questo è lo spazio dove stanno gli animali. E l’allegoria? Origene è lui che porta dentro la storia del presepio gli animali. Cita Isaia 1, 2: “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone”. Un passaggio che Origene lega strettamente a Gesù il Salvatore. Il gioco è fatto: uso allegorico e esegesi del passo. I due animali entrano in scena.
La parola “presepio” c’è già nella traduzione di Isaia. Sant’Ambrogio ne è il mediatore. Ciascuno porta il suo pezzetto e tutti insieme creano il presepio. Tralascio alcune cose molto interessanti, che riguardano la presenza o l’assenza di Maria, dei pastori e dei Magi. Gregorio di Nissa spiega la presenza di tutti o quasi i personaggi in questa scenografia natalizia della natività.
Bettini dice una cosa molto importante, che riguarda un’espressione oggi in uso, seppure inflazionata, e quindi in progressivo deprezzamento: storytelling. Dice che dai testi si arriva al racconto. Forse era già implicito, o almeno lo è per chi ha considerato i Vangeli dei racconti. Non è sempre stato così. Aggiunge anche un’altra osservazione che aiuta ad afferrare come funzionano le fake news: i testi falsi o falsificati nella storia della cultura sono quelli che esercitano la maggior influenza sulla memoria e sulle tradizioni. Questo è il succo della storia del presepio: una tradizione inventata in un lasso di tempo lungo, seguendo linee di sviluppo per nulla scontate: caso o necessità? Entrambi, direi.
C’è ancora un altro partecipante al rito del presepio, partecipante al plurale: i Re Magi. Arrivano il 5 gennaio, o almeno così dovrebbe essere, in ogni presepio che si rispetti. Qualcuno comincia a metterli prima, e poi li avvicina, progressivamente alla capanna, o grotta, il giorno fissato: Epifania. Qui ci sarebbe un altro punto interessante da sviluppare: la Befana. Non sto però qui a farlo. Basta ricordare che si tratta di tradizioni che si sovrappongono o divergono, come per la storia di Babbo Natale. La cultura è sempre ibridazione.
C’è una tradizione che sostiene che l’arrivo dei Magi sia legato alla identità taumaturgica di Gesù; i miracoli sono il risultato di una investitura, o riconoscimento, che avviene grazie a loro. Come nelle teorie del complotto - il paragone non appaia irriguardoso - si cerca di far collimare cose diverse, di fonderle insieme; qui è la nascita e le profezie bibliche; è il caso di Isaia citato. In Matteo il ruolo dei Magi è decisivo e non è solo legato a una questione astrologica come qualche volta è stato detto.
C’è un’opera esemplare di tutto questo: i Re Magi che compaiono nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, realizzati nel VI secolo. Una meraviglia: mantelli, doni, postura, volti, berretto frigio: tutto questo vale da solo il viaggio nella città romagnola, antica capitale. Ora, come mai i Magi sono diventati tre, mentre in Matteo erano plurali, di numero non definito? E poi perché sono dei re? Rimando alle pagine di Bettini, anche se non esauriscono una storia che da sola meriterebbe un libro a sé. Chissà che l’autore di questo libro non la scriva prima o poi.
C’è un testo di un cristiano alessandrino vissuto tra il V e il VI secolo che risalirebbe a un monaco della corte merovingia, una storia avventurosa essa stessa: Excerpta Latina barbari; qui vengono finalmente dati i tre nomi ai Magi: Bithisarea, Melchior, Gathaspa. E il Re Mago nero? E perché in alcuni dipinti figurano un vecchio, un giovanotto e un nero? Risposta di Bettini: la macchina narrativa produce dettagli e notazioni che arricchiscono man mano il racconto. Chi ha letto Propp lo sa. Meraviglia del narrare! Quello che fa specie all’autore di questo volume è che all’origine di tutto ci sia la “lambiccata opera dei teologi”, dal che si capisce che Bettini, pur avendo studiato dai gesuiti, come racconta, non ami le lambiccature. E qui sta probabilmente il cuore del suo libro.
Prima di spiegarlo bisogna andare a Greppio, al presepio vivente di Francesco. Il santo crea il presepio come dal racconto di Tommaso da Celano. La faccio breve, per quanto esista sulla storia un’ampia letteratura da cui, pur conoscendola, Bettini prescinde. Il centro di questo imprescindibile episodio, da cui verrebbe il nostro presepio attuale, c’è una assenza. Mancano il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori e agli angeli. A Francesco interessano il bue e l’asino in carne e ossa da mettere vicino alla mangiatoia. Questo è il focus del praesepium: il fieno contenuto. Possibile? Sì, il santo mette al centro dell’attenzione un oggetto. Non vuole raccontare l’intera vicenda della Nascita, scrive l’autore, come si è creata nella tradizione cristiana sin lì. Si prefigge di mostrare, di far vedere con gli occhi del corpo i disagi che Gesù ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita: mangiatoia, fieno, asino e bue a riscaldarlo. Il resto non gli importa.
Qui è il centro della ricostruzione di Bettini: il praesepium è il fulcro della storia. La “cosa”, non la scena, viene da dire. Gli interessa la traccia linguistica - líkna - che ha inseguito in tutto questo lungo percorso come un detective.
A questo punto, siamo al capitolo terzo del libro, intitolato Un’antropologia del presepio, Bettini capisce di non aver “capito” il presepio. Il suo flusso di memoria culturale sì, ma non “la cosa”. Che cos’è “la cosa”? Il presepio, scrive, è un artefatto, posto al centro di un rituale, culturalmente significativo. Tuttavia ha perso il suo significato originale, quello su cui lavoravano i teologi e gli esegeti. Necessita qualcosa che Bettini non ha più - dice di averlo avuto, ma che non l’ha più da decenni.
Qui il libro cambia tono e ritmo. L’autore narra di aver visitato tanti presepi alla ricerca dell’essenza del presepio stesso - questa espressione è mia. A Pisa, a Firenze, a Parigi, alle Cinque Terre, a Bressanone. Racconta di presepi magnifici, anche se le sue descrizioni sono sempre un po’ malinconiche.
Rientra a casa e conclude: il vero presepio è quello che si fa per conto proprio, nella propria abitazione.
Queste considerazioni gli danno l’occasione di dire cosa è il presepio. Siamo nel campo dei significati, non delle origini e neppure delle spiegazioni. Il presepio è il ciclo del tempo; ha una natura fiabesca; implica degli spettatori che non sono dei creatori. Bettini è innamorato dei personaggi del presepio, quelli introdotti successivamente. Sono pagine molto belle, sognanti. Lo studioso ha lasciato qui il passo allo scrittore, al sognatore del presepio.
Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo. In realtà questi tempi si fondono insieme e solo lo studioso, l’esegeta della “cosa” presepio riesce a vederli e distinguerli. Tutto sta nella temporalità che si vive. Quella sacra è stata fondamentale per secoli. E oggi? Per arrivare alla conclusione, che in realtà è lì, a pochi passi da lui, Bettini deve rivestire i panni dello studioso e raccontarci un’altra storia, quella dei Sigillaria, le feste del dio Saturno a Roma. Non starò a raccontare anche questo passaggio. Rimando al libro e vi assicuro che ne vale la pena.
C’è ancora un altro passaggio, quello che riguarda i Lari, i protettori della casa. Sono storie di statuine, di piccole sculture di terracotta, presenze del passato. C’entrano con Gesù, spiega l’autore. Sono presenze dell’assente, gande tema religioso, sia pagano che cristiano.
Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia.
Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna, come ci fa capire Bettini, nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco.
EUROPA 1918 - EUROPA 2018. Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare ....
EPISTOLA
DOPO GLI ULTIMI
DEL PAPA BENEDETTO XV
AL CARDINALE DI SANTA ROMANA CHIESA
PIETRO GASPARRI,
SEGRETARIO DI STATO,
IN OCCASIONE DELLA FIRMA DELL’ARMISTIZIO
FRA ITALIA E AUSTRIA *
Signor Cardinale, dopo gli ultimi fortunati successi delle armi italiane, i nemici di questa Sede Apostolica, fermi nel loro proposito di sfruttare a suo danno tanto i tristi quanto i lieti avvenimenti, hanno procurato e procurano di eccitare contro di essa l’opinione pubblica italiana esultante per la ottenuta vittoria, quasi che il Sommo Pontefice ne fosse invece in cuor suo dispiacente.
Ella, signor Cardinale, ben conosce per quotidiana consuetudine i Nostri sentimenti, come altresì quale sia la prassi e la dottrina della Chiesa in simili circostanze. Nella lettera del 1° agosto 1917 ai Capi delle diverse Potenze belligeranti Noi facemmo voti, ripetuti poi anche in altre occasioni, perché le questioni territoriali fra l’Austria e l’Italia ricevessero soluzione conforme alle giuste aspirazioni dei popoli; e recentemente abbiamo dato istruzione al Nostro Nunzio in Vienna di porsi in amichevoli rapporti colle diverse nazionalità dell’Impero Austro-Ungarico che ora si sono costituite in Stati indipendenti. Egli è che la Chiesa, società perfetta, che ha per unico fine la santificazione degli uomini di ogni tempo e di ogni paese, come si adatta alle diverse forme di Governo, così accetta senza veruna difficoltà le legittime variazioni territoriali e politiche dei popoli.
Crediamo che se questi Nostri giudizi ed apprezzamenti fossero più generalmente conosciuti, nessuna persona assennata vorrebbe insistere nell’attribuirci un rammarico che non ha fondamento.
Non possiamo peraltro negare che una nube turba ancora la serenità nell’animo Nostro, perché non sono cessate dovunque le ostilità, ed il fragore delle armi cagiona ancora in più luoghi e preoccupazioni e timori. Ma, sperando che la lieta aurora di pace, spuntata anche sul Nostro diletto paese, non tardi ormai a rallegrare gli altri popoli belligeranti, Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare fra gli uomini e la universale concordia stringerà le Nazioni in lega feconda di bene.
Ci è caro intanto di confermare a lei, signor Cardinale, la Nostra particolare benevolenza, e vogliamo che di questa Le sia nuovo pegno la Benedizione Apostolica che le impartiamo con effusione di specialissimo affetto.
*
Dal Vaticano, 8 novembre 1918.
BENEDICTUS PP. XV
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
“Scusi, siamo pieni”: così Laterza mollò Pirandello
Il Nobel e il fondatore - Luigi Pirandello, poco prima del successo con “Il fu Mattia Pascal”, scrisse a Giovanni Laterza, che si rifiutò di pubblicarlo
di Giorgio Nisini (Il Fatto, 25.10.2018)
Si inaugura oggi alle 12, nel museo letterario Spazio900 della Biblioteca nazionale centrale di Roma, la mostra “La casa editrice Laterza e i grandi scrittori del Novecento”. Oltre a prime edizioni, riviste e giornali, sono esposte alcune lettere, per lo più inedite, tra Laterza e alcuni grandi autori. Riportiamo il carteggio tra Luigi Pirandello e Giovanni Laterza.
Il 15 agosto del 1904 Luigi Pirandello scrive una lettera alla casa editrice Laterza per proporre la pubblicazione di una sua raccolta di novelle. È una lettera molto breve, dal rapido tratto commerciale, in cui la principale preoccupazione dell’autore non è tanto quella di fornire informazioni sul carattere letterario della raccolta, di cui non viene citato neanche il titolo - forse si tratta di una prima versione del futuro Erma bifronte, apparso nel 1906 per Treves - quanto il suo risvolto editoriale: numero e tipologia dei testi, sviluppo del volume in pagine, possibilità di “ottenere gratis una bella copertina illustrata”. La lettera, che per oltre cento anni è stata conservata nell’archivio epistolare della casa editrice barese, e che viene qui presentata per la prima volta insieme alla riposta di rifiuto di Giovanni Laterza, testimonia un particolare momento nella vita di Pirandello: i mesi che precedono il suo primo grande successo letterario, ottenuto grazie alla pubblicazione de Il fu Mattia Pascal.
Ma come mai Pirandello si era rivolto a una casa editrice come Laterza? Il rifiuto laconico e insindacabile del giovane editore barese, documentato dalla lettera di risposta del 22 agosto dello stesso anno, era in fondo del tutto in linea con le direttive di Benedetto Croce, che già nel 1902 lo aveva esortato a non “accettare libri di romanzi, novelle e letteratura amena”.
Un’indicazione che se da un lato fu determinante nel definire l’impianto storico, filosofico e critico-saggistico della casa editrice - nata nel 1901 come sviluppo di un’attività tipografica e libraria di famiglia - dall’altro non impedì alcune sporadiche e interessanti eccezioni. Furono queste che probabilmente colsero l’attenzione di Pirandello: una raccolta di novelle di Salvatore Di Giacomo (Nella vita, 1903), una collage di storie “per giovinette” di Rosa De Leonardis (Occhi sereni, 1903), i racconti giovanili di Maksim Gor’kij (I vagabondi, 1903), un romanzo di Filippo Abignente (La moglie, 1904), o ancora - ma siamo ormai nei due decenni successivi - la riedizione postuma dell’opera di Alfredo Oriani (Gelosia, Vortice, Olocausto ecc.). Deroghe, appunto, destinate a rimanere confinate fuori collana e limitate ai primi anni di vita della casa editrice, ma che lasciano intuire un rapporto tra i Laterza e gli scrittori del Novecento molto più intenso e articolato di quanto si potrebbe immaginare.
A fare luce su questo rapporto prova adesso una mostra organizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma e da Laterza. Partendo dal prezioso e quasi del tutto inedito archivio epistolare della casa editrice, il percorso espositivo ripercorre le varie tappe e le varie angolazioni con cui i Laterza si sono confrontati con gli ambienti letterari del proprio tempo: dai carteggi con alcuni protagonisti del mondo culturale d’inizio secolo (Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Ada Negri, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini ecc.), fino all’esperienza paradigmatica di Vito Laterza, che nel clima post-crociano del secondo dopoguerra, seppe imprimere un profondo e originale rinnovamento alla casa editrice grazie anche a un dialogo costante con scrittori di varia generazione e provenienza, da Carlo Levi a Corrado Alvaro, da Cesare Zavattini a Carlo Bernari, da Romano Bilenchi fino agli autori coinvolti nella collana “Libri del tempo”, tra cui Bianciardi, Cassola, Brancati, Anna Maria Ortese e Leonardo Sciascia.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Fu Mattia Pascal, svelata la cronologia grazie agli archivi della “Stampa”
Due quinte dell’Alberghiero Colombatto di Torino hanno scoperto grazie a confronti incrociati che il romanzo è ambientato nel 1901
di Mario Baudino (La Stampa, 23.02.2018)
Non ci sono solo molti riferimenti autobiografici ma, ben nascoste, anche alcune date cruciali della vita dell’autore. Tanto che non sembra peregrina l’ipotesi secondo cui Mattia Pascal potrebbe avere la stessa età di Luigi Pirandello.
Lo hanno scoperto gli studenti dell’Istituto alberghiero Colombatto di Torino, due classi quinte, cui il professore di Lettere, Nicola Adduci, ha fornito una prima chiave per aprire il complesso meccanismo temporale del romanzo, generalmente considerato privo di riferimenti precisi agli anni in cui si svolge la vicenda. Invece non è così, è lo dimostra a sorpresa lo scoop filologico dei ragazzi.
Il fu Mattia Pascal fu scritto e pubblicato nel 1904, quando l’autore subì un improvviso rovescio di fortuna. Così il suo personaggio: nato ricco, perde tutto, ha un matrimonio infelice e progetta di fuggire in America. Capita al Casinò di Montecarlo, dove una enorme vincita gli fa cambiare idea. Ma in viaggio verso casa scopre che al paese hanno trovato il cadavere di un suicida, e lo hanno identificato in lui. Decide così di sfruttare l’equivoco: «muore», sparisce davvero, vagabondando per l’Europa e l’Italia, fino a stabilirsi a Roma. Qui una serie di avventure e di imbarazzi lo convince però che è impossibile - oltre che penoso - vivere come un fantasma, senza un’identità legale; torna allora in famiglia; scopre che la moglie si è risposata ma non fa valere i propri diritti. Lascia le cose come sono e muore, per così dire una seconda volta, chiudendosi in una vecchia biblioteca dove scrive il resoconto della sua incredibile vicenda.
Questo il romanzo, lettura abituale - e non facilissima - nell’ultimo anno della scuola superiore. Ma i ragazzi del Colombatto sono andati molto oltre, fino a scoprire, grazie a un docente appassionato e carismatico - complice l’archivio on line de La Stampa -, qualcosa che la critica ha sempre trascurato.
Tutto è partito da una domanda: il giornale che Mattia Pascal, dopo la vincita a Montecarlo, legge in treno sarà mai realmente esistito? La risposta è no. È del tutto immaginario? No, ancora una volta. Mattia Pascal si sofferma su alcuni articoli. Al professor Adducci è venuta la curiosità di sapere se ce n’era traccia sulla stampa del primo Novecento, e sul nostro archivio on line ha trovato quel che cercava: un titolo dell’8 luglio 1901, dove si rendeva conto di una visita diplomatica in Germania.
A questo punto ha lanciato la sfida agli studenti, che si sono messi al setacciare il testo in cerca di riferimenti temporali. Ne sono venuti fuori parecchi, confermando che il viaggio in treno avviene nell’estate di quell’anno, ma non in una data precisa. Un’altra notizia, assente dai giornali, salta fuori - in inglese - grazie a Google libri: è sempre del 1901, ma del 23 giugno. I ragazzi non si fermano più e nel giro di un mese la cronologia è completata; tutto torna, le tessere del mosaico si incastrano perfettamente, a partire dall’età di Oliva - la figlia del fattore amata e sedotta da Mattia Pascal, ma che sposa per interesse l’amministratore ladro - per arrivare al matrimonio, infelicissimo, con Romilda: fino a ipotizzare la possibile concomitanza di età fra protagonista e autore.
Che Mattia Pascal fosse in gran parte Pirandello già lo si sapeva, ma che anche nella scansione dei tempi del racconto - sempre implicita - lo scrittore avesse seguito quelli della propria vita, ebbene è una suggestione critica non da poco. Usare il romanzo come un documento storico «è stata una sfida culturale» ci dice il professor Adduci. Riuscita, anche se non è la prima. Gabriele, Irene, Zoe, Luca, George e i loro compagni - una cinquantina, a diversi livelli di impegno com’è ovvio - hanno imparato un modo nuovo e appassionante di leggere.
Non è nemmeno la prima volta. L’anno scorso avevano realizzato un booktrailer sul Giovane Werther, visibile sul sito dell’Istituto. Ora «correggeranno» Wikipedia, tanto per cominciare, poi chissà. Tra l’altro, l’idea di far conoscere il lavoro tramite La Stampa è venuta proprio a Zoe. Grazie ai giornali in classe, ci hanno preferiti ai social.
Teatro vecchio togliti gli occhiali
A 150 anni dalla nascita, il discorso pronunciato nel ’34 all’inaugurazione della nuova sede dellaStampa
di Luigi Pirandello (La Stampa, 25.06.2017)
Sarà forse nota anche a voi l’avventura di quel povero campagnuolo, il quale, avendo sentito dire al suo parroco che non poteva leggere perché aveva lasciato a casa gli occhiali, alzò l’ingegno e concepì la peregrina idea che il saper leggere dipendesse dall’aver un pajo d’occhiali; per cui se ne venne in città ed entrato in una bottega d’occhialajo domandò:
— Occhiali per leggere!
Ma poiché nessun pajo d’occhiali riusciva a far leggere il pover’uomo, l’occhialajo alla fine spazientito, dopo aver buttato giù mezza bottega, sbuffò:
— Ma insomma, sapete leggere?
Al che, meravigliato, il campagnuolo:
— Oh, bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?
Orbene, di questa ingenua maraviglia del pover’uomo di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchezza tutti coloro che, non avendo né un proprio pensiero né un proprio sentimento da esprimere, credono che per comporre una commedia, un dramma o magari una tragedia, basti semplicemente mettersi a scrivere a modo d’un altro.
Alla domanda: - Ma, insomma, avete qualche cosa di proprio vostro da dirci? - dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispondere: - Oh, bella! E se avessimo qualcosa di proprio nostro da dire, comporremmo forse così, a modo d’un altro?
Ma comprendo che questo sarebbe veramente un chieder troppo.
Basterebbe forse che questi tali non s’indispettissero tanto allorché qualcuno fa loro notare pacatamente che nessuno vieta, è vero, l’esercizio di fare e rifare un teatro già fatto, ma che questo esercizio significa che non si hanno occhi propri, bensì un pajo d’occhiali tolti in prestito altrui.
È stato detto e ripetuto che la facoltà imitativa o decorativa nella natura dell’ingegno latino in generale è superiore alla inventiva o creativa, e che tutta quanta la storia del nostro teatro, e in genere, della nostra letteratura, non è altro in fondo che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate; e che, insomma, cercando in essa si trovano certo moltissimi occhiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non sdegnarono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antiche lenti classiche per vedere a modo di Plauto o di Terenzio o di Seneca, che a loro volta avevano veduto a modo dei tragici greci e di Menandro e della commedia di mezzo ateniese.
Ma questi - diciamo cosi - ausili visivi erano almeno fabbricati in casa nostra dalla Retorica che tenne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi occhiali passarono da un naso all’altro per generazioni e generazioni di nasi, finché all’improvviso, con l’insorgere del romanticismo, non si levò il grido: - Signori, proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri! - Si tentò; ma, ahimè, si riuscì a vedere ben poco. E cominciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.
Storia vecchia. E non ne avrei fatto parola, se veramente un po’ da per tutto non si fosse arrivati a tal punto che, per entrare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere un pajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajo di occhiali altrui, i quali faccian vedere uomini e vita d’una certa maniera e di un dato colore, cioè come vuole la moda o come il gusto corrente del pubblico comanda. E guaj a chi sdegni o ricusi comunque d’inforcarseli, a chi s’ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo: il suo vedere, se semplice, sarà detto nudo; se sincero, volgare; se intimo e acuto, oscuro e paradossale; e la naturale espressione di questo mondo nuovo apparrà sempre piena di grandissimi difetti.
Riparlerò di questi difetti. Il più grosso e il più notato, è stato sempre - in ogni tempo - quello dello « scriver male». È una pena riconoscerlo, ma tutte le visioni originali della vita sono sempre espresse male. Cosi almeno furono sempre giudicate al loro primo apparire, segnatamente da quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene. [...]
Signori, per il colto Quattrocento Dante scriveva male, la Divina Commedia era scritta male, e non soltanto perché non composta in latino ma in volgare, ma proprio scritta male anche in quello stesso volgare; e Machiavelli? Scrive Il Principe e deve con vergogna scusarsi e confessare di non esser colto abbastanza di lettere per scriverlo meglio. E ai fanatici del fioritissimo Tasso non sembrava forse scritto male anche L’Orlando furioso dell’Ariosto? E scritta non solo male, ma pessimamente apparve La Scienza Nuova del Vico, a cui avvenne il caso ben curioso di mettersi a scrivere in tutt’altro modo, da parere un altro, quando volle piacere a tutti coloro che erano soliti leggere con gli occhiali di quella Retorica, che egli stesso poi abitualmente professava.
Per concIudere questo discorso d’cchi e d’occhiali, il bello tuttavia è che quelli che han gli occhiali (e tutta Ia gente coIta li ha o almeno si presuppone che debba averli, e tanto più, quanto più finga di non avvedersene) predicano che in arte bisogna assolutamente aver occhi proprii; e intanto danno addosso a chi, bene o male, se ne serve; perché - intendiamoci! - occhi proprii sì, ma debbono essere e vedere in tutto e per tutto come gli occhi loro, che viceversa sono occhiali, tanto che se cascano, felice notte. [...]
Figlio del Caos contro la “gente perbene”
Lo scrittore a Torino, tra le prime teatrali e una stroncatura preventiva
di Maurizio Assalto (La Stampa, 25.06.2017)
Quando il 12 maggio 1934, inaugurando la nuova sede torinese della Stampa, in via Roma angolo via Bertola, Luigi Pirandello pronunciò il suo discorso sul teatro nuovo e il teatro vecchio, mancavano soltanto sei mesi alla consacrazione del premio Nobel. Il «figlio del Caos» - come si definiva emblematicamente, dal nome della contrada di Girgenti in cui aveva visto la luce il 28 giugno 1867 - era all’apice della fama, una celebrità internazionale contesa dai teatri di tutto il mondo e corteggiata dal cinema. Eppure la sua prosa era intrisa di pungente ironia contro «quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene», la stolida «onesta borghesia» che fino a pochi anni prima lo aveva contestato sonoramente.
Anche se - come continuava il discorso - ormai era richiesta «un po’ dovunque una certa lente Pirandello a detta dei maligni diabolica, che fa veder doppio e triplo, e di sghimbescio, e insomma il mondo sottosopra», nelle orecchie dello scrittore dovevano ancora risuonare gli schiamazzi del pubblico che alla prima dei Sei personaggi, nel 1921 al Teatro Valle di Roma, lo aveva costretto alla fuga in carrozza con la figlia Lietta, fatto bersaglio di monetine, mentre alcuni giovani tra i quali Galeazzo Ciano e Orio Vergani (la cui sorella Vera recitava nei panni della Figliastra) avevano formato una nerboruta squadra in sua difesa (l’episodio fu rievocato da Lucio Ridenti sulla storica rivista Il dramma, da lui fondata e diretta fino al ’68).
Al teatro, Pirandello si era volto dal 1910, quando su sollecitazione di Nino Martoglio aveva composto Lumìe di Sicilia, subito realizzando che i proventi del palcoscenico superavano di gran lunga quelli della narrativa. A Torino, dove all’inizio del secolo l’editore Streglio gli aveva pubblicato le novelle di Quand’ero matto e di Bianche e nere, lo scrittore era di casa. Qui, il 27 novembre 1917, al Teatro Carignano, esordì in prima nazionale Il piacere dell’onestà, con la compagnia di Ruggero Ruggeri.
Nelle pagine torinesi dell’Avanti! Antonio Gramsci lo recensì con favore, ben cogliendone la portata eversiva: «Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sedimenti di pensiero». E ancora Torino, nel giro di un mese, nel 1929, ospitò la prima di due testi meno noti, O di uno o di nessuno e Lazzaro.
Ma nel frattempo, a partire dai Sei personaggi, il drammaturgo dinamitardo aveva fatto saltare anche l’invisibile «quarta parete» tra gli attori e il pubblico, e le elucubrazioni meta-drammaturgiche del palcoscenico avevano messo a dura prova le platee più tradizionaliste. E proprio la pièce conclusiva della trilogia del «teatro nel teatro», Questa sera si recita a soggetto, vide sotto la Mole la sua prima nazionale (dopo l’esordio a Königsberg), il 14 aprile 1930 al Teatro di Torino, con la compagnia appositamente costituita da Guido Salvini.
Nel bene e nel male, Pirandello incrocia più volte la strada per la capitale subalpina. Già vi era transitato nel 1901 (e se ne sarebbe ricordato tre anni dopo nel Fu Mattia Pascal, rievocando un tramonto sul Lungo Po), diretto a Coazze per un mese di villeggiatura. Nel paese della Val Sangone lo colpì il motto vergato sul campanile della chiesa, «Ognuno a suo modo», che nel 1924 gli ispirò il titolo della seconda commedia della trilogia, Ciascuno a suo modo.
Ma da Torino, e proprio per questa pièce, gli venne quell’anno un dispiacere, quando dalle colonne della Gazzetta del Popolo Domenico Lanza, fondatore e direttore in città del primo Teatro Stabile italiano, fine critico singolarmente chiuso alle novità del lavoro pirandelliano, stroncò lo spettacolo prima ancora dell’esordio, il 22 maggio al Teatro dei Filodrammatici di Milano.
Già due giorni prima, tuttavia, in una lettera al Corriere della Sera, l’autore si era vendicato con uno sberleffo del «feroce e riveritissimo nemico», informandolo di avere provveduto a inserire la sua stroncatura «nel primo degli intermezzi corali della commedia», in cui «sono introdotti anche i critici drammatici a dare il loro parere». Così «il signor Domenico Lanza, di qua a venti giorni, allorché la commedia sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di scriverne ancora sulla Gazzetta del Popolo, constatando con soddisfazione come io abbia dal palcoscenico reso noto il suo anticipato giudizio anche a quella parte del pubblico che per caso non avesse letto il giornale».
Dalle contestazioni violente alla celebrazione mondiale
Nel 2000 Time ha scelto i Sei personaggi come migliore pièce del ’900. Oggi è con Shakespeare il più rappresentato in Italia
di Masolino D’Amico (La Stampa 25.6.2017)
Per salutare l’anno 2000 la rivista americana Time tracciò alcuni bilanci del secolo precedente, e come miglior pièce teatrale del ’900 scelse I sei personaggi in cerca d’autore. Con questa motivazione: «Realizza le principali preoccupazioni del secolo circa la vita e l’arte: la condizione esistenziale dell’uomo, la linea tra illusione e realtà». Ottant’anni prima, al debutto romano il capolavoro di Luigi Pirandello aveva provocato contrasti violenti, addirittura scazzottate in strada tra ammiratori e avversari, e aveva avuto tre sole repliche.
Le cose andarono meglio con la ripresa di Milano; in ogni caso, la risonanza oltralpe fu quasi subito impressionante. A Londra, è vero, il Lord Censore lo vietò e lo si dovette allestire in un club privato. Ma l’edizione parigina di Georges Pitoeff fu osannata dalla critica e batté il record di incassi; quella di New York ebbe 134 repliche consecutive, e fu seguita da una versione in yiddish.
Da allora in poi Pirandello incontrò all’estero più attenzione che nel suo Paese, al punto che si trasferì per un lungo periodo in Germania e poi a Parigi. Alcuni suoi lavori debuttarono in terra straniera, e il cinema inglese e americano lo corteggiarono spesso, specie dopo l’avvento del sonoro, anche se con pochi risultati davvero soddisfacenti (se vi par poco un Come tu mi vuoi con Greta Garbo e Erich Von Stroheim). Nel 1934 il premio Nobel sancì una reputazione mondiale indiscussa.
Audacia innovativa
A parte l’audacia innovativa del suo teatro, audacia che non si compendia certo nella rottura della barriera tra spettatori e pubblico nei Sei personaggi, è probabile anche che Pirandello rendesse di più in traduzione, almeno agli orecchi del pubblico di allora. Che da noi era sintonizzato sulla magniloquenza dannunziana, ovvero sulla prosa d’arte, e non trovava ammirevole la secchezza di un autore così concreto nell’espressione come sfuggente nei concetti.
Oggi è il contrario, dagli anni 1960 in poi Pirandello è, con Shakespeare, il drammaturgo più eseguito in Italia. Prima di dedicarsi al teatro, dove giunse in età relativamente avanzata, aveva scritto parecchio, anche un bestseller, il romanzo Il fu Mattia Pascal, ristampato ininterrottamente da allora (1904): libro che la critica ufficiale prese sottogamba.
Inoltre l’uomo di Girgenti aveva prodotto, sempre senza ostentazioni di eleganza formale, decine e decine di racconti nella tradizione del suo predecessore Giovanni Verga (che fu tra i suoi primi estimatori), impressionanti per varietà di temi e personaggi di tutte le età e condizioni sociali, vivacissima commedia umana dalla quale avrebbe poi tratto spunti per il suo teatro. Al quale arrivò quando negli anni 1910 l’amico Nino Martoglio gli chiese qualcosa per una sala che dirigeva, e per il quale si scoprì subito un talento anche di attore - famose le sue letture alle compagnie - e di manager.
Mal sopportato dal Duce
Gli oltre quaranta testi che firmò spaziano in più generi, tra cui la farsa, anche gustosissima (L’uomo, la bestia e la virtù) e l’idillio paesano in dialetto (Liolà). Ma quelli che meglio lo caratterizzano trattano casi umani fondati sull’impossibilità di raggiungere una verità soddisfacente per tutti. Per Pirandello le persone non «sono», ma «recitano» una parte, e la società non consente loro di uscirne. Quando una comunità si coalizza per costringere una sconosciuta a rivelare chi sia - Così è (se vi pare) -, ella risponde: «Io sono colei che mi si crede».
Audace nella costruzione, con primi atti in cui spesso, diversamente dalla consuetudine, non solo non si chiarisce la situazione ma si confondono le acque, Pirandello si fece una fama di causidico, di cavillatore. Benedetto Croce non lo prese sul serio come pensatore, dal che secondo alcuni il suo clamoroso voltafaccia al Manifesto degli intellettuali e l’adesione al Fascio subito dopo il delitto Matteotti. Da quel gesto Pirandello si aspettava che il regime aiutasse finanziariamente le compagnie teatrali che fondò, ma non ottenne mai altro che promesse. Del resto la sua sconsolata visione di un mondo in cui non possono esservi certezze, dell’uomo come creatura in grado di vedere solo entro il raggio del «lanternino» che si porta appresso, non poteva piacere alla fiera e progressista propaganda del regime.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
San Giuseppe, il "disobbediente" che si prese cura di Gesù
Il cardinale e biblista Gianfranco Ravasi ci guida alla scoperta del carpentiere di Nazareth. Che non obbedì alle leggi del suo tempo per abbracciare la volontà divina
di Gianfranco Ravasi (Famiglia Cristiana, 19/03/2017)
I testi biblici relativi a Giuseppe, lo sposo di Maria e padre legale di Gesù, sono piuttosto scarsi, a prima vista quasi lacunosi, e ciò spiega l’abbondanza di letteratura apocrifa sul personaggio, tra cui si segnala in particolare il Protovangelo di Giacomo. Nondimeno, scavando con attenzione nei dati neotestamentari, emerge una figura interessante, capace di interpellare anche il lettore odierno. L’evangelista Marco non parla mai di Giuseppe, ma si limita a riportare quanto dicono i nazareni, allorché affermano che Gesù è il figlio di Maria, e che fa il carpentiere. È invece da Matteo e da Luca che conosciamo il nome del padre legale di Gesù e sposo di Maria. Per quanto riguarda l’attività di Giuseppe, bisogna riferirsi a Matteo 13, 55, versetto in cui Gesù viene definito come “il figlio del carpentiere”. Il termine greco téktôn, che si traduce solitamente con “carpentiere”, corrisponde al latino faber e indica un artigiano che lavora il legno o la pietra. Concretamente si può pensare al lavoro del carraio, o del fabbricante di aratri e di strumenti per l’agricoltura, nonché a uno che tratta genericamente il legno, il classico falegname, o ancora al carpentiere che provvede alle strutture in legno necessarie all’edilizia; questa era in quei tempi assai fiorente nella regione della Galilea, a causa della costruzione di nuove città. Ciò significa che Gesù ha imparato il mestiere da Giuseppe e ne deve aver rilevato l’attività alla sua morte; risulta pertanto il ritratto di una condizione economica dignitosa della famiglia di Giuseppe, anche se non si può definire agiata. Tale condizione permette ad esempio, a Giuseppe e a Maria, di recarsi ogni anno in pellegrinaggio a Gerusalemme, affrontando le spese del viaggio.
Com’era composta la famiglia di Giuseppe
Per quanto riguarda poi la composizione della famiglia di Giuseppe, la questione è difficilmente risolvibile alla luce dei dati a nostra disposizione, poiché si intreccia con il problema della presenza di “fratelli e sorelle” di Gesù, dei quali si parla più volte negli scritti neotestamentari e che non necessariamente vanno intesi come fratelli di sangue veri e propri, ma possono essere semplicemente cugini o anche parenti più lontani. Per vari interpreti si tratterebbe di fratellastri e sorellastre di Gesù, avuti da Giuseppe da un precedente matrimonio; ma la fonte di ciò è il più tardivo apocrifo noto come il Protovangelo di Giacomo e non uno scritto canonico. È Matteo che pone particolare attenzione alla figura dello sposo di Maria, offrendoci un ritratto squisito, indimenticabile, di Giuseppe. Infatti il primo Evangelista ci descrive come egli, dapprima, di fronte all’inattesa gravidanza della promessa sposa, vorrebbe uscire rispettosamente da una storia più grande di lui, senza opprimere con la sua presenza quella giovane donna che egli ama profondamente, e quel misterioso bambino che ella attende: “Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto”.
La giustizia di San Giuseppe è accoglienza della volontà divina
Essendo tuttavia uomo “giusto” - perché disponibile a compiere gioiosamente e fedelmente la volontà divina - subito dopo, obbediente alla parola di Dio, consegna la propria vita a un progetto che lo trascende, con l’accettazione del comando di prendere con sé Maria. Ecco la giustizia di Giuseppe, che non è semplicemente quella derivante dall’osservanza scrupolosa dei comandamenti, ma la giustizia che è ricerca integrale della volontà divina, accolta con obbedienza piena. Attraverso questa obbedienza inizia per Giuseppe una vita nuova, con prospettive assolutamente insospettate, e con la scoperta di un senso più profondo del suo essere sposo e padre. Rimarrà così accanto alla sua donna quale sposo fedele, e a quel bimbo quale figura paterna positiva e responsabile. L’assunzione di questa responsabilità è espressa attraverso il fatto che è Giuseppe - secondo l’ordine angelico - a dare il nome di Gesù al figlio generato da Maria. L’atto del dare il nome significa che egli conferisce a quel bambino la sua identità sociale e che, proprio per questo, Gesù può essere riconosciuto quale vero discendente di Davide, così come esige la natura del Messia atteso. Questo bimbo è dunque consegnato alla responsabilità e all’amore di Giuseppe e, attraverso di lui, Dio consegna alla storia umana il più grande pegno della sua fedeltà, colui che è l’“Emmanuele”, il “Dio-con-noi”, profetizzato da Isaia. Certamente tutto ciò è avvolto nel mistero di Dio, al quale si accede solo con la fede. Ebbene, anche in questa eccelle Giuseppe, definito, proprio per la sua fede, con l’appellativo sobrio e grandioso, di “uomo giusto”.
Uomo "dei sogni", obbediente alla volontà di Dio e capace di prendersi cura
Nel Vangelo matteano dell’infanzia, ogni volta che entra in gioco Giuseppe, la sua figura è caratterizzata da tre aspetti tra loro intrecciati: Giuseppe è l’uomo dei sogni, è l’obbediente che accoglie integralmente la volontà di Dio, è l’uomo che sa “prendere con sé”, cioè sa prendersi davvero cura delle persone affidategli. Attraverso il tema della visione angelica ricevuta nel sogno, l’Evangelista vuole alludere, con un linguaggio tratto dall’Antico Testamento (si pensi qui ai sogni dell’omonimo Giuseppe, nei racconti della Genesi), al mistero dell’irruzione del divino nella vita umana. Ebbene, Giuseppe è l’uomo che accoglie il sogno di Dio, perché in qualche modo sa egli stesso sognare una storia in cui Dio è coinvolto totalmente per la salvezza delle sue creature, così come suggerisce anche il nome di Salvatore-Gesù dato a quel bambino. Agli ordini angelici Giuseppe obbedisce sempre prontamente e ogni volta ricorre un’espressione assai suggestiva circa la sua pronta risposta: “prese con sé”. La prima volta è al termine dell’annunciazione di cui egli è il destinatario: “fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”. Successivamente, il “prendere con sé” riguarda l’ordine angelico circa il bambino e la madre da far riparare in Egitto; infine la stessa espressione ricorre quando si tratta di ritornare dall’Egitto. In tutto ciò emerge il ritratto di Giuseppe come di un uomo che ha scoperto l’amore divino per questa umanità, e che ha esperimentato la serietà della decisione di Dio di essere l’“Emmanuele”. È da questa evidenza intima che procede la sua forza di prendersi cura e di accogliere con sé Maria e il bambino.
Custodisce e si prende cura di Gesù anche nel pericolo
Ma c’è un particolare che risulta davvero intrigante: quando l’angelo comanda a Giuseppe di rifugiarsi in Egitto per sottrarsi alla minaccia di Erode, il testo evangelico annota che Giuseppe “destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte, e fuggì in Egitto”. Questa “notte” non è soltanto un’indicazione cronologica delle circostanze della fuga precipitosa, ma segnala la prontezza dell’obbedienza di Giuseppe, e assume lo spessore simbolico del tema della notte nei testi biblici. In questo senso Giuseppe emerge davvero come padre di Gesù, non nell’aspetto biologico, ma nel significato più profondo: il padre è infatti colui che custodisce, protegge, apre il cammino. Il genitore è la figura umana che illustra al meglio quello che significa il prendersi cura da parte di Dio della nostra fragilità. Ebbene, Giuseppe è il padre che non soltanto custodisce e provvede al bambino quando è giorno, quando tutto è facile, scontato e solare; egli lo prende con sé nella notte, quando le difficoltà sembrano avere il sopravvento, ed espandersi le tenebre del dubbio, dell’agguato e del terrore. Alla dolcezza della madre e alla debolezza del bambino, egli accompagna la fermezza della sua presenza e dedizione. Giuseppe sa muoversi anche nella notte, mentre tiene fermo il ricordo del giorno, quel giorno che egli ha conosciuto vivendo una vita nella giustizia, cioè in un atteggiamento orante e obbediente davanti a Dio. Giuseppe non ha giocato al ribasso, a tirarsi indietro, a puntare sulle proprie comodità e sicurezze, ma ha preso con sé il bambino e Maria, diventando così per loro come un simbolo concreto, visibile, di quel Padre buono, di quel Dio che ha cura di tutti, di cui Gesù parlerà nell’Evangelo.
Non è un detentore del potere
Nel Vangelo di Luca la maternità verginale di Maria è chiaramente indicata nel contesto dell’annunciazione alla Vergine di Nazaret e non si dice nulla a proposito dell’atteggiamento di Giuseppe di fronte all’avvenimento misterioso che lo coinvolge. Semplicemente, nel prosieguo del racconto, in occasione del viaggio a Betlemme durante il quale Gesù viene alla luce, si mostra come Giuseppe abbia preso con sé Maria, sua sposa, assumendo dunque il carico della situazione creatasi. I successivi racconti dell’infanzia vedono Giuseppe al fianco di Maria, sposo solidale con lei, strettamente unito a lei in tutta la vicenda, dalla nascita alla circoncisione del bambino, fino alla presentazione al santuario di Gerusalemme e al misterioso episodio dello smarrimento e ritrovamento di Gesù dodicenne fra i dottori del tempio. La presenza di Giuseppe a fianco di Maria suggerisce la realtà di una coppia realmente affiatata, tutta protesa alla costruzione di una famiglia al cui centro sta la ricerca della volontà di Dio e dell’obbedienza alla sua legge. Giuseppe è un vero capofamiglia, che non vuole essere il detentore del potere, ma aiutare i membri della famiglia a lui affidata a compiere la propria vocazione. Per questo Luca, che ben conosce l’origine trascendente del Figlio di Maria, non esita a designare per due volte Giuseppe come “padre di Gesù”.
La morte attorniato dai familiari
Gli ultimi fatti evangelici che vedono coinvolto Giuseppe sono quelli riguardanti lo smarrimento di Gesù al tempio e il ritorno alla “normalità” della vita di Nazaret. Il primo episodio è ambientato in un pellegrinaggio a Gerusalemme, per la Pasqua. Giuseppe è coinvolto in un’inaspettata crisi familiare allorché, con Maria, si rende conto che il ragazzo non è nella carovana che sta tornando in Galilea. È una crisi familiare che scoppia in tutta la sua gravità e che chiede di essere ricomposta, consentendo ai membri di uscirne più cresciuti, più maturi. Da una parte vi è l’adolescente Gesù, che si stacca dai suoi genitori, dall’altra costoro che non hanno ancora fatto i conti con tale distacco, pur essendo Maria e Giuseppe! L’Evangelista non dice che la cosa è stata semplice, né per Giuseppe né per Maria; per questo mostra i tre giorni della loro ricerca angosciata (il termine greco designa anche una pena infinita!), finché non ritrovano Gesù al tempio. In qualche modo Giuseppe, con la sposa Maria, prefigura la comunità dei discepoli che dovrà vivere i tre giorni del mistero pasquale, nell’attesa di una luce, di una parola che le dia speranza e superi la notte tremenda che si è abbattuta sul loro discepolato.
Infine la narrazione lucana porta l’attenzione del lettore sugli anni segreti di Gesù a Nazaret, là dove vive nella sottomissione ai suoi genitori. Qui a Nazaret Gesù entra nell’età adulta e riceve un’educazione nella quale il contributo di Giuseppe deve essere stato senza dubbio molto rilevante. Anzitutto Giuseppe trasmette a Gesù le conoscenze del proprio mestiere, ma lo introduce pure nella conoscenza della Tôrah, perché nel giudaismo l’educazione religiosa dei figli maschi è eminentemente affidata alla figura paterna. Peraltro è il padre che celebra le principali feste religiose che hanno sempre un’importante componente familiare; sempre Giuseppe, come gli altri padri di famiglia, deve avere condotto Gesù in sinagoga ogni sabato, facendogli acquisire quell’abitudine tipica del giudeo osservante, così come annota il Vangelo di Luca. Sempre a Nazaret scompare la figura evangelica di Giuseppe, che infatti non appare più durante la vita pubblica di Gesù. Da ciò la tradizione deduce una morte di Giuseppe circondato dalla presenza dei suoi, in particolare della sposa Maria e di Gesù. Ed è per questo che egli diventa la figura spirituale del protettore del moribondo cristiano, che affronta il trapasso con tutti i conforti della fede. Testimonia tale attenzione alla figura di Giuseppe - e in particolare alla sua infermità e morte - uno scritto apocrifo cristiano del V secolo, noto come Storia di Giuseppe il falegname.
San Giuseppe, tra il culto e i paradossi
di Arnaldo Casali *
Ogni 19 marzo la Festa del papà rende omaggio al papà meno padre della storia della paternità.
È solo uno dei tanti paradossi sviluppati nel corso del Medioevo dalla Chiesa cattolica. Che al culto di San Giuseppe, peraltro, ci arriva lentamente e quasi con fatica.
Il padre-non padre di Gesù è in effetti una figura difficile, imbarazzante; e anche sfuggente. Perché di lui i Vangeli parlano pochissimo: tutto ciò che sappiamo è che faceva il falegname e che discendeva dalla famiglia di Davide, cosa che renderebbe Gesù stesso un erede del Re di Israele. Se non fosse che in realtà Giuseppe, padre di Gesù, non lo è affatto.
Almeno secondo due dei quattro evangelisti: Luca e Matteo - gli unici a interessarsi delle origini di Cristo - raccontano la sua nascita in modo completamente diverso ma una delle pochissime cose su cui concordano è il fatto che sia stato concepito senza rapporti sessuali.
Un dato squisitamente teologico che serve a dimostrare che niente è impossibile a Dio e non ha alcuna valenza morale (la verginità non era un valore nella cultura ebraica) e non è nemmeno connesso alla divinità di Cristo: non a caso il Vangelo che insiste di più su Gesù come “verbo divino” è quello di Giovanni, che non fa alcun cenno al suo concepimento verginale.
Sarà invece la cultura pagana in cui il cristianesimo si innesterà in occidente a recepire Cristo, su modello della mitologia greca, come una sorta di uomo-Dio figlio di una donna “inseminata” dal divino.
Il concepimento di Gesù raccontato nei Vangeli ha, tuttavia, una qualche base storica: se gli stessi farisei durante uno scontro con Cristo sottolineano che “noi non siamo nati da prostituzione” (Giovanni 8,41) evidentemente qualche tipo di pettegolezzo, sul fatto che Gesù fosse un figlio illegittimo, circolava già durante la sua vita, e i racconti di Matteo e Luca potrebbero essere serviti proprio a dissipare le malelingue.
D’altra parte la discendenza di Gesù da Davide ha una valenza squisitamente letteraria: Matteo, fortemente influenzato dal giudaismo, è interessato a dimostrare che Cristo è il Messia atteso dagli ebrei e non è certo preoccupato di una ricostruzione storicamente attendibile né tanto meno di una coerenza di natura biologica.
Per il resto, Giuseppe è completamente assente nella vita adulta di Cristo (per questo se ne deduce che sia morto quando era ancora adolescente) e, spodestato di ogni autorità paterna, si è dovuto accontentare sin dai primi secoli del cristianesimo del ruolo di “custode” di Gesù.
I Vangeli apocrifi - scritti all’alba del Medioevo - lo hanno trasformato poi in un vecchietto che vince una sorta di bando (viene sottoposto ad una prova insieme ad altri pretendenti e ha la meglio perché il suo bastone fiorisce miracolosamente) per aggiudicarsi la custodia della giovanissima Maria che, arrivata alla pubertà, non può più continuare a vivere nel tempio dove è stata allevata.
C’è bisogno di aggiungere che nella religione ebraica non esistono bambine consacrate a Dio e allevate nel tempio e che il racconto (ripreso anche da Fabrizio De André nell’album La Buona Novella) è inventato di sana pianta e privo di qualsiasi attendibilità storica?
Gli apocrifi, peraltro, si premurano di sottolineare che al momento del matrimonio Giuseppe avrebbe avuto oltre novant’anni di età. Più un bisnonno che un marito, quindi, per la giovane Maria. Una precisazione che mira a mettere la Sacra Famiglia al riparo da qualsiasi tentazione sessuale.
D’altra parte se il Vangelo non parla mai di una castità perpetua della coppia e al contrario dà per scontato che dopo la nascita di Gesù i due abbiano avuto normali rapporti sessuali (Marco e Matteo citano quattro fratelli di Gesù - Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda - e diverse sorelle di cui non vengono fatti i nomi) già i padri della Chiesa cercano in ogni modo di dimostrare che Giuseppe non ha mai “profanato” la Vergine Maria, divenuta dopo il concepimento di Gesù un vero e proprio santuario di Dio intoccabile.
Così, da finto padre, Giuseppe diventa anche marito fasullo. Secondo la dottrina cattolica, infatti, il matrimonio non consumato non è valido e può essere annullato.
La Sacra Famiglia, dunque - presunto modello della famiglia cristiana - diventa una comunità piuttosto anomala basata su un matrimonio di facciata e un figlio illegittimo.
Figlio che peraltro, essendo (sempre secondo i Vangeli apocrifi) perfettamente sapiente e consapevole della propria divinità sin dalla nascita, non ha assolutamente nulla da imparare dai propri genitori e non può quindi essere in alcun modo educato, ma solo rispettosamente venerato.
Quando arriva al Medioevo, dunque, Giuseppe non è più né un vero padre né un vero marito: è il “custode” di Gesù e il “castissimo sposo” di Maria.
La sua principale virtù è quella di resistere alle tentazioni sessuali, il grande merito quello di aver salvato la moglie dalla pubblica infamia “coprendo” col suo nome la nascita irregolare di Gesù.
In compenso viene sempre più apprezzato come lavoratore; ché il lavoro, almeno quello, non era solo di facciata e Giuseppe il falegname l’ha fatto davvero.
Non a caso a rinverdire il suo culto - così sbiadito ai primordi del cristianesimo - ci pensano i promotori dell’ora et labora, e cioè i monaci benedettini. Sono proprio loro, infatti, i primi a celebrare la memoria di San Giuseppe nel 1030.
La data del 19 marzo, ovviamente, è puramente convenzionale, visto che di solito i santi vengono celebrati nel giorno della morte e della morte di Giuseppe non si sa assolutamente nulla. Convenzionale ma non casuale: come il giorno di Natale e quello di San Valentino anche la festa di San Giuseppe ha radici antichissime: si colloca infatti alla vigilia dell’equinozio di primavera e veniva solennizzata con baccanali e riti dionisiaci volti alla propiziazione della fertilità e alla purificazione agraria.
Rituali di cui è rimasta traccia nella tradizione - ancora oggi diffusa in molte regioni italiane - dei falò con cui si bruciano i residui del raccolto dell’anno precedente come auspicio di una buona stagione.
Il culto di san Giuseppe, intanto, con il tempo si va sempre più allargando: dal 1324 la festa viene recepita anche dai Servi di Maria (ordine mendicante fondato a Firenze nel 1233) mentre i francescani la adottano nel 1399.
Ci vorrà ancora qualche decennio, però, prima che la ricorrenza venga istituzionalizzata e celebrata da tutti i cristiani; nel calendario romano, infatti, ci entrerà solo nel XV secolo, e sarà estesa formalmente a tutta la Chiesa solo nel 1621 da Gregorio XV, mentre bisognerà aspettare addirittura il 1870 perché Pio IX dichiari San Giuseppe “Patrono della Chiesa universale” riscattandolo definitivamente da quel ruolo ombra cui gli apocrifi lo avevano relegato.
La sua resta comunque una festa primaverile strettamente legata al lavoro della terra, dunque festa del lavoro e dei lavoratori.
Niente ha invece a che fare, nel Medioevo, con la festa del papà; associazione che avverrà più tardi e non in tutto il mondo: ancora oggi, infatti, nei Paesi anglosassoni la festa del papà viene celebrata la terza domenica di giugno e senza alcun carattere religioso.
In compenso in Italia il padre di Gesù, costretto a far nascere suo figlio in una stalla e poi a fuggire all’estero, da profugo, per metterlo in salvo, viene onorato anche come protettore dei poveri.
Di qui l’usanza presente in alcune regioni di organizzare il 19 marzo il “Banchetto di San Giuseppe”. Ed è per questo che un elemento importante legato alla festa è il pane, che ricorre spesso soprattutto nel contesto siciliano, deposto sugli altari.
I falò e le tavole imbandite si ritrovano anche nel Salento, dove la festa è celebrata all’insegna degli elementi fondamentali del pellegrinaggio e dell’ospitalità, mentre a Roma nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro, la confraternita dei falegnami organizzava solenni festeggiamenti e banchetti a base di frittelle e bignè.
Esemplare è poi il dolce napoletano, che prende il nome di zeppola di San Giuseppe seguendo una tradizione secondo cui, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia. In Toscana e in Umbria è diffuso come dolce tipico la frittella di riso, preparata con riso cotto nel latte e aromatizzato con spezie e liquori e poi fritta.
Nell’Italia del nord, invece, dolce tipico della festività è la raviola: un piccolo involucro di pasta frolla o pasta di ciambella richiuso sopra una cucchiaiata di marmellata, crema o altro ripieno, poi cotta al forno o fritta. Alla salute di Giuseppe.
Arnaldo Casali
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
CHIESA
Benedetto XV contro la guerra
Un papa dileggiato
di GIANCARLA CODRIGNANI*
Il ministro degli Esteri vaticano, card. Pietro Parolin, ha inaugurato il colloquio internazionale voluto dalla Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna per rifare il punto sulla personalità e l’azione di “Papa Giacomo della Chiesa nel mondo dell’inutile strage”.
L’ultimo papa appartenente a un casato così nobile da vantare altri due pontefici era stato nominato arcivescovo di Bologna in modo inaspettato (come sarebbe toccato a mons. Montini a Milano) perché l’Austria, tramite l’arcivescovo di Cracovia, aveva posto il veto al primo candidato, il card. Rampolla alla cui scuola diplomatica era cresciuto Giacomo della Chiesa. L’arcivescovo di Bologna era genovese, come, dopo qualche decennio, Giacomo Lercaro; fu eletto papa il 3 settembre 1914, agli inizi della guerra che tutte le cancellerie europee garantivano breve e risolutiva.
La cultura cattolica del secolo XIX portava nella modernità la contraddizione di dover conciliare il principio paolino dell’obbedienza ai governanti con il principio escatologico della pace evangelica, una contraddizione che, nella gravità della situazione politica europea, legava le mani al papa.
Giacomo della Chiesa tuttavia, rifiutò di schierarsi e proclamò la neutralità della Stato Pontificio, decisione che fu attaccata da ogni parte: le critiche degenerarono in «un dileggio diverso da quello anticlericale del Risorgimento, ma di rango internazionale».
Il nuovo papa fu insultato in tutte le lingue: le pape boche, Franzosenpapst, Pilate XV, Maledetto XV. Eppure i poteri costituiti, diversamente da Benedetto XV, non prevedevano la morte di quasi 10 milioni di soldati e la sofferenza, le ferite fisiche e morali, il bisogno estremo di aiuto di altri milioni di persone.
Giacomo della Chiesa "inventò" l’immagine - allora rimasta nell’ombra, ma ancora attuale - di un cattolicesimo non solo "della conciliazione" (già nel programma Ad Beatissimi aveva manifestato l’intenzione di porre fine al contrasto del modernismo e, successivamente, di chiudere la questione romana) e "della misericordia": una Chiesa pronta all’aiuto e solidale con le vittime di una guerra che si rivelava chiaramente una tragedia.
Se anche fu rimosso dalla storia del suo tempo, la rilettura della sua vicenda scopre oggi lo stile di un uomo che, anche perché privilegiava la prevenzione dello strumento diplomatico nelle situazioni conflittuali, in ben diverso contesto, richiama alla mente le denunce di papa Francesco per quella "Terza Guerra mondiale a pezzi” che agita il nostro mondo.
Gli storici, non senza validi motivi, hanno finalmente riscoperto e valorizzato un Benedetto XV autore di una “Nota ai capi delle potenze belligeranti” del 1° agosto 1917, un documento reperibile dal 1984 quando l’archivio vaticano fu desecretato, e di tre lettere (che non ebbero risposta) al Sultano perché fermasse il massacro degli armeni; un diplomatico che vide l’impero ottomano diventare l’attuale Medioriente; che «anziché leggere la guerra come un mero castigo dell’apostasia moderna, la vide come occasione di un annuncio della pace... per cercare una tregua». «Promuovere la pace non era qualcosa di estrinseco alla missione della Chiesa, ma parte essenziale del suo compito davanti alla storia e davanti al Vangelo».
Il programma delle tre giornate del Colloquio Internazionale prospetta una ricostruzione estensiva della personalità di Giacomo della Chiesa, dei suoi tempi, delle politiche che determinano la pace o la guerra.
Gli atti, che verranno pubblicati entro il 2017 - l’anno dell’“inutile strage” - forniranno materiali di estremo interesse non solo per gli storici. L’indirizzo dell’opera è apparso chiaro dalle comunicazioni che hanno fatto seguito all’intervento del Segretario di Stato vaticano.
* Adista Segni Nuovi, 19 NOVEMBRE 2016 • N. 40
VIAGGIO DI PAPA FRANCESCO IN ARMENIA. Il Papa incontra una decina di discendenti dei sopravvissuti, salvati e ospitati a Castel Gandolfo da Benedetto XV....:
L’appello di Papa Francesco a turchi e armeni, ’riconciliatevi’
Pontefice al memoriale rende omaggio alle vittime del genocidio
di Redazione Ansa *
Rivolgendosi ai giovani, durante l’incontro ecumenico e la preghiera per la pace a Erevan, papa Francesco ha detto che "questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione". "Dio benedica il vostro avvenire - ha aggiunto - e ’conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh’".
Il Papa è stato al Memoriale di Tzitzernakaberd, la "fortezza delle rondini" per rendere omaggio alle vittime del genocidio armeno. Francesco e il catholicos Karekin II sono accolti dal presidente Serzh Sargsyan. Il Papa depone una corona di fiori all’esterno del monumento, presente un gruppo di bambini con cartelli dei martiri del 1915. Poi il momento di preghiera nella camera della fiamma perenne. Sulla terrazza del museo il Papa incontra una decina di discendenti dei sopravvissuti, salvati e ospitati a Castel Gandolfo da Benedetto XV.
Davanti alla fiamma perenne, i presenti recitano il Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Quindi il Papa e il Catholicos benedicono l’incenso. Il coro canta l’inno. Dopo le letture, in armeno e in italiano, il Papa recita la sua preghiera di intercessione: "Cristo, che incoroni i tuoi santi e adempi la volontà dei tuoi fedeli e guardi con amore e dolcezza alle tue creature, ascoltaci dai cieli della tua santità, per l’intercessione della santa Genitrice di Dio, per le suppliche di tutti i tuoi santi, e di quelli di cui oggi è la memoria. Ascoltaci, Signore, e abbi pietà, perdonaci, espia e rimetti i nostri peccati. Rendici degni di glorificarti, con sentimenti di grazie, insieme al Padre e allo Spirito santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen". Di nuovo la recita del Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Quindi, lungo il percorso verso il giardino, prima dell’incontro con i discendenti dei sopravvissuti, il Papa benedice e innaffia un albero a memoria della visita. Prima di congedarsi, la firma del Libro d’Onore.
"Qui prego, col dolore nel cuore, perché non vi siano più tragedie come questa, perché l’umanità non dimentichi, sappia vincere con il bene il male. Dio conceda all’amato popolo armeno e al mondo intero pace e consolazione. Dio custodisca la memoria del popolo armeno, la memoria non va annacquata né dimenticata, la memoria è fonte di pace e di futuro". Sono le parole vergate di pugno dal Papa sul Libro d’Onore del Memoriale del genocidio armeno, da lui firmato al termine della visita.
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
I confini della misericordia
Ma davvero la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 23.01.2016)
CONTRARIAMENTE a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere.
FRANCESCO ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione », perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo ») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».
Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto.
In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente».
Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.
Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo.
Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?
Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno.
Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»?
Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.
La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.
Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.
L’OMELIA DI NATALE
DI DON GALLO (25 dicembre 2008)
Ecco qui che penso che possiamo dire stasera...che siamo anche molto numerosi è proprio che Dio che ama...questo amore cosmico che inonda tutti...
Per me il compito come tanti anni e dopo tanti anni di riflettere con voi sui testi che abbiamo qui. Quest’anno i politici lasciamoli un po’ perdere...proprio non meritano granché insomma!
Fermiamoci un po’ prima di tutto al Vangelo. Il primo nome che viene, guardate voi, in questo racconto così semplice, è niente meno che il nome dell’imperatore. Viene anche citato. Questa storia assomiglia poi alla storia che si è distesa lungo i secoli a noi e che è messa in correlazione con l’episodio che è proprio all’inizio, all’opposto....: cosa potete pensare di più lontano dal palazzo dell’imperatore, dal palazzo del potere, che è una mangiatoia in una stalla fuori città! dove una coppia di pellegrini, Maria e Giuseppe, per i quali non c’è posto in città, si rifugia....e dove avviene il parto? L’atto più semplice con cui la specie umana pensava a se stessa, provvede alla propria continuazione...dove avviene questo parto?
In una mangiatoia! Abbandonata, tra l’altro... Quindi il bambino neonato Gesù in una mangiatoia. E’ la storia a quota zero...è l’anti-storia... a mio avviso è quello che succede ancora all’inizio del terzo millennio nel caso di milioni di casupole e baracche disseminate nel mondo. C’era qui padre Zanotelli. E fino, mi ricordo, ai tempi del G8, diceva: il 20%, per farsi comprendere lui dopo tanti anni in Africa, adesso sta da quattro anni al quartiere della Sanità di Napoli. Fino a qualche anno fa diceva: il 20% si pappa l’80% delle risorse... l’ho sentito a Firenze, due domeniche fa, e diceva che adesso è l’11% di abitanti di questa terra si pappa....fate voi la percentuale....siamo addirittura ad oltre l’80% delle risorse mondiali.
Ancora stasera ho visto un pezzo di Rai2: ho sentito parlare autorità, vescovi....tutti dicono la crisi, la crisi quindi a solidarietà, la solidarietà....una solidarietà che continua a rimanere assistenziale... i nomi e i cognomi dei responsabili della crisi sono noti con indirizzo, non li sento....E allora, vi rendete conto che la nascita è l’emblema di quella condizione umana a cui non giunge nemmeno un occhio di giornalista, di cui nessun cronista tiene nel giusto conto...è il simbolo di una immensa moltitudine di persone oggi...si, è vero, fanno tante statistiche, mostre fotografiche, filmati...
Allora? il senso del Natale è che Dio entra nella storia. Ma come ci entra? Non nel punto più alto, ma nel punto basso. Cosa vuol dire? Allora, nei palazzi Dio non c’è ! lì non c’è posto per l’uomo povero... per la donna, per i bambini, per i trans, per i rom, per i gay, per tutti coloro che non seguono la legge del branco...e per quelli che vivono e sopravvivono allo sbaraglio... Pensate solo alla situazioni delle carceri italiane, alle torture, senza protezione alcuna...
Quindi a questo punto qualcuno stasera pensa che don Andrea dia la spiegazione dell’esistenza di Dio....No! io non lo so...come faccio? C’è in S.Pietro il Santo Padre... A noi importa dire: hai speranza? in un cambiamento strutturale, cioè in un nuovo mondo possibile? E allora, secondo me Dio esiste! Il nostro tempo, è vero, è un tempo di iniquità! Ma quante esperienze ci sono...? Guardate queste, anche minuscole, ci fanno sentire il futuro...Ma pensa alla resistenza indioafro-popolare, alla selva lacandona, ai sem terra, alle migliaia di cooperative indigene che ci sono...e via via fino alle nostre parti....quante, quante strette di mano con la gente africana, sudamericana e asiatica...o dell’Est, che parlano con confidenza della fraternità... si aspettano da noi! E noi che dovremmo essere la civiltà occidentale cristiana?!
Io ho fatto più di 60000 km quest’anno...e ne ho viste... il 31 sera sarò in Trentino per una marcia della pace.... Quelli del Dal Molin mi hanno detto di scrivere ad Obama perché la base non si faccia.... Il microcredito a Firenze... Quindi migliaia e migliaia ovunque!
La paura è un sentimento che non si può rimuovere.... Forse noi siamo qui stasera per la paura...è un sentimento reale... e Gesù bambino ci stimola proprio con la sua mitezza e umiltà al dialogo, con chiunque... E soprattutto vorrei che rimanesse impresso nell’orecchio quel grido di Papa Giovanni...non ascoltate i profeti di sventura!
Ma siamo cristiani? Ma siete pazienti ricercatori di spazi di incontri? Il cristiano deve essere un sognatore...c’è bisogno di sognatori! È chiaro che se si sogna da soli il sogno non si avvera mai...sognando insieme, il sogno si realizza... Chi vuole seguire Gesù, dalla sua culla fino alla croce e resurrezione, deve avere molta disponibilità ad ascoltare e comprendere, ad accogliere, questo altro che è e che ha tante risorse....Una fermezza nei principi, unita alla compassione...ecco il cristiano. Al sapere condividere con l’altro...e a volte in questi tempi, a fare silenzio insieme...
Il cristianesimo è un’offerta... il cristiano non pretende di avere il monopolio della verità e della felicità!! Ai cristiani tocca il compito di vivere e testimoniare l’annuncio del Vangelo. E qui aggiungo: in direzione ostinata e contraria! L’annuncio cristiano non deve avere forme arroganti, né un’ostentazione di privilegi...trovare il tempo opportuno per il dialogo e non giudicare mai...!! Non giudicate se non volete essere giudicati... è un’opera di grande costanza e testimonianza...anche di persecuzione, così dicono le beatitudini, non di persuasione forzata... il cristiano non è fatto per vincere! È fatto per convincere ! equità, gratuità, libertà, giustizia, condivisione, pace....
A un certo momento Isaia nella prima lettura dice che Gesù verrà con diritto e giustizia ed è principe della pace!! E quindi questa pace con quattro colonne. Ecco è fuori dai palazzi, da tutti i poteri, dall’informazione menzognera...prima colonna. Seconda colonna che sostiene la pace, le cause dell’ingiustizia. Allora la terza colonna è l’amore, come sentirsi parte dell’intera famiglia umana, come Gesù ne è stato parte ed è stato il salvatore... e fatica sostenuta dalla speranza di un cambiamento strutturale, di una rivoluzione... con speranza e tenerezza.
Vi dicevo prima: basterebbe vedere le beatitudini. Il discorso della montagna... all’aperto, non in un palazzo! Dove va a fare questo grande discorso questo re dei re? Su una montagna... non ce l’ha il palazzo! Beati gli operatori di pace, beati i puri di cuore, beati i perseguitati a causa della giustizia... beati coloro che sono perseguitati nel mio nome...
Ed ecco che Gesù nella sua crescita, ci dice continuamente che è venuto per servire, non per essere servito. Voglio ripetere che non serve a nulla la paura! Dell’altro, del diverso, dello straniero o anche del vicino di casa...cessa di essere estraneo quando lo ascoltiamo... ascoltare non è semplicemente un atteggiamento d’orecchio, ma è soprattutto un atteggiamento interiore. Ciò richiede vigilanza, attenta riflessione, disponibilità a cambiare, una saldezza di convinzioni, a ricominciare da capo ogni giorno...
Vogliamo finalmente fondare la quinta internazionale?! Internazionale della speranza, del cambiamento...! Ma lasciatemi infine fare gli auguri. Mi sono ispirato al grande vescovo don Tonino Bello, vescovo durante la tragedia della Bosnia Erzegovina. Andò a Sarajevo, con 500 persone...in piena battaglia...raccolse musulmani, raccolse cristiani, ortodossi, cattolici ma non una riga sui giornali...ed era già molto ammalato.
Partiamo da Gesù, che nasce per amore. Che dia a tutti noi la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali, senza saper perdere... Ci conceda di inventarci una vita carica di donazioni, di preghiera, di silenzio, di coraggio, di gioia, di bellezza...!
E allora che questo bambino ci tolga qualche volta il sonno e ci faccia sentire il guanciale del letto duro come un macigno! Finché non avremo dato quella che è l’accoglienza...
Questo bambino che diventa uomo ci faccia sentire dei vermi...! Ogni volta che la nostra superbia e indifferenza diventa titolo della nostra vita... lei non sa chi sono io...io pago le tasse... superbia, insolenza, arroganza...
Passiamo a Maria. Che trova solo nella paglia degli animali la culla dove porre con tenerezza il frutto del suo grembo. E allora che ci costringa a svegliarci per la partecipazione alla costruzione di una vita umana!
Giuseppe. E Giuseppe che andrà incontro a mille porte chiuse... chissà quante porte ha bussato...?! Nelle porte chiuse c’è il simbolo di tutte le emarginazioni. E allora che anche Giuseppe disturbi le nostre sbornie ideologiche, partitiche....che ci possano mettere in crisi dalla sofferenza i tanti genitori che versano lacrime... quanti ne vedo qui in ufficio, da tanti anni, tanti genitori che versano lacrime in segreto per i loro figli... senza fortuna, senza salute, senza lavoro...uccisi da trenta anni di proibizionismo sugli stupefacenti...una strage mafiosa!
Gli angeli. Gli angeli annunciano la pace. E allora anche loro che ci disturbino....ci facciano vedere che a un palmo dal nostro naso, spesso con l’aggravante del nostro silenzio complice, del nostro mutismo, indifferenza, si compiono ingiustizie, si sfratta la gente...
Quindi pensate, si fabbricano armi...sapete l’Italia ha più di cento bombe atomiche... si militarizza la terra degli umili!! Non crediamo alle “missioni di pace”! Anche Papa Giovanni nella sua enciclica “pacem in terris” ci dice esplicitamente che è impensabile portare la democrazia con le armi, che ciò è “alienum a ratione”...vuol dire che chi fa quelle missioni è un pazzo!! Quindi la terra è degli umili e si condannano i popoli allo sterminio della fame.
E veniamo ai pastori. Che sono i più poveri. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità, nel loro disfacimento del sistema finanziario. E allora questa città sonnolenta, dell’indifferenza....pensate: ci stanno privatizzando l’acqua! Dio ha dato l’acqua per tutti!! E allora ci facciano capire questi pastori, che se anche noi vogliamo vedere una gran luce dobbiamo ripartire dagli ultimi, dalla stalla, da Gesù....bisogna uscire! Andare e rendere protagonisti i poveri! Una solidarietà assistenziale si deve trasformare in una solidarietà liberatrice. L’elemosina di chi gioca sulla pelle della gente è grave!!
Vorrei ancora dire con i pastori che i ricatti dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio... se provocati da speculazioni corporative. E i pastori vegliano nella notte e fanno la guardia al gregge. E allora noi diventiamo guardiani della nostra comunità, dei nostri gruppi...
Buon Natale, su questo vecchio mondo che muore... è nata la speranza.
La quarta colonna della pace è di una profonda inquietudine ed una grande aspirazione alla libertà...!!
Sia lodato Gesù bambino.
LA "RISATA" DI PIRANDELLO E LA LEZIONE DI FREUD. Ritratto di famiglia in una grotta...
Edipo a Nazareth (1981) - Werner Maria Schroeter
di Emanuele Canzaniello *
«L’arte è una vendetta contro la vita, non ho ancora trovato nulla che riesca a respingere quest’ipotesi nella mia testa», questo dichiarava Schroeter in un’intervista degli anni ’70. E la sua vendetta migliore è consumata oggi con l’uscita del suo Edipo. Non un film ma un music hall d’intertestualità biblica, un Jesus Christ Superstar serissimo, terroso e pieno di scarti di lavorazione da falegnameria. Un teatro di posa all’aria aperta, conversazione e camera mobile.
Ritratto di famiglia in una grotta, con bidè e asciugamani di una modernità infantile, novecentesca e psicanalitica. Grandi liturgie di trucco sul viso degli attori, false e credibili al virare delle luci. Siamo nella storia sacra, ma il repertorio è quello d’opera. Più che nelle musiche lo è nel gesto, nella profondità dei fondali che costantemente si lasciano intuire sulla scena. Il registro musicale tiene la sfida affidandosi alla fama ventilata di arie celebri, ma in splendida maniera incongrua, ostinata e lacera, tirata dentro al film per la tunica. Aida, le piramidi e i calcinacci di Palest(r)ina. Mio dio, il diavolo. Oh tell me the truth about love.
Il padre Giuseppe è così carino, lui sì che è il bello di casa, l’avranno preso su una spiaggia in California, my Hustler, come gli piaceva il mare, anche in Cisgiordania. È la storia di una coppia degli anni ’60 ma ambientata in un deserto serico e scenografico della Galilea, fino a Gerusalemme, luogo della crocifissione. Non si scherza, si arriva fino a lì. Dunque, quest’uomo, Giuseppe, ha trent’anni quando sposa Maria, di soli sei anni più giovane. E come vanno i primi tempi del matrimonio? Benissimo, Maria aspetta la prima figlia dopo nemmeno un anno. Ma com’è questa giovane madre? Maria figlia del tuo figlio, tu, che fai risalire il corso del seme e perverti le generazioni.
Maria non è giovane, è una madre che nasce obesa, anziana e obesa, una signora del sud. Davanti a voi, questa è la donna. Quello il ventre della grazia. Uno scarto magnifico, adipe dello Stabat mater. Il primo figlio maschio è il suo amore, si è incerti se sia lui quello di cui parlano le scritture, il figlio di Davide. È questa l’aspettativa che fa il primo amore. Il matrimonio con Giuseppe s’impoverisce, si annienta ma non si disperde. Come non si disperde il seme su una terra di lavoro, coltivata per dare frutto.
Dall’unione più che tardiva della coppia nasce il secondo maschio, il terzo dei figli di Giuseppe. Il suo nome sarà l’Emmanuele, la sua vita un aborto fino a trentatre anni. La storia sacra viene annotata a margine in scene magnifiche di gelo familiare. La presentazione al tempio riserva tutto il terrore e l’abito della serietà, che la vita è l’irreversibile, vista negli occhi di quel giovane Nazareno nato vecchio, tra genitori imbarazzati dagli anni, dal gesto meccanico dell’accudimento immediato e increscioso.
Il lungo esito del film è di fatto una storia di due fratelli prima che decidano di allontanarsi dalla casa del padre. Fatta dei primi miracoli apocrifi con la sabbia e dei giochi condivisi nonostante l’enorme differenza di età tra i due. Sulla porta della falegnameria la luce migliore d’outremer. Ma non basta, il Nazareno non impara il mestiere dei suoi, legge le scritture ed è solo.
Da solo si masturba e una ricchezza ornamentale mal gestita ci mostra il lungo silenzio e l’affanno del rituale; turgido e imbrattato il lenzuolo intorno al bacino, presagio della deposizione. Con il movimento finale della mano si completa anche il movimento della composizione e l’inquadratura finale, insieme alla musica, ci fornisce l’alibi pittorico per leggervi in quella morte la grande morte rinascimentale sulla croce.
«Provo ad ascoltare Mozart o a finire dal confessore» risponde ad un’amica negli anni che precedono il trentesimo. Nella sua casa, nel suo villaggio, fino ai trent’anni il Nazareno viene salutato a volte, e per errore, con il nome dell’altro, del fratello, il primogenito di sua madre.
Partiti da Canaan, compiuti i primi segni della predicazione, i primi miracoli, il più giovane non lo proteggerà la folla, lo ucciderà il fratello durante una lite. Ricercato dal Sinedrio, il vivo, il sopravvissuto viene protetto dalle sue donne, dalla stessa madre che ha perso l’altro figlio.
Nascosto in casa, viene arrestato solo dopo l’inevitabile perquisizione dei romani. Il venerdì santo, il fratricida, il dio in casa, prende il suo posto in croce in mezzo a due ladri.
Un’operazione di falsificazione imperturbabile, mai rivolta all’occhio di chi guarda, senza neppure l’idea dell’anacronismo, spalle alla storia eppure di un nitore esibito. La chiarezza meridiana e ocra delle pietre antiche di Gerusalemme in riverbero fotografico costante, un set di autentica messa in scena in costume evangelico, e insieme non una parodia ma una rilettura eseguita su un calco sbagliato, su una pietra difforme: l’Œdipus rex. In tutta questa serietà gelosa il meglio che si possa ricavarne è lo sfarzo, pensato in grande e gestito peggio, di fornire al Cristo tratti confusi, irriconoscibili, di una grazia settecentesca vitale, fiorita, immune agli affanni eppure seviziata. Come quando, garbato, il giovane introverso regala delle magnifiche tabacchiere rococò a un Erode non troppo sbalordito ma sorridente. Le implicazioni psicoanalitiche restano del tutto leggibili, ma anche quelle esibite quanto sfigurate, martoriate, prese in giro, riempite di sputi. Il Nazareno non sa di essere il messia, non sa che sua è la varietà di maiale di Gerasa, squisita al taglio. Non conosce il leggero gusto omoerotico che gli ha fornito il suo regista, vuole solo perdere, dormire, nemmeno morire. Non sa che suo è l’odio per i fratelli, l’odio della vita. Non sa che ad essere lui il condannato giustizia è fatta. Non vede, come facciamo noi, la madre che nasconderà il suo assassino, il maggiore, rinchiuso in casa e nutrito come un ebreo protetto dai rastrellamenti. Bella di sole, rapida, estremamente vivida nei rumori, nel vocio in presa diretta, la scena della crocifissione: una liturgia al gusto della menzogna. L’uomo sbagliato muore all’istante, senz’aspettare troppo. Spoglia e cruda: una crocifissione estiva, in pieno splendore di mezzogiorno.
* Emanuele Canzaniello, Elogio cinematografico del suicidio - prima parte (Nazione indiana, 27 novembre 2015).
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986)!!!
Attentati Parigi, Papa Francesco: “Maledetti coloro che operano per la guerra e le armi”
Nuova, dura condanna del Pontefice durante l’omelia della consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta: "Si producono armamenti per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 19 novembre 2015)
“C’è chi si consola dicendo: sono morti ‘solo’ venti bambini. Siamo diventati pazzi! Milioni di morti e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Si producono armi per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato”. È la nuova, dura condanna della guerra che Papa Francesco ha voluto fare nell’omelia della sua consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta. Parole che arrivano dopo le stragi di Parigi, con l’allarme per possibili attentati terroristici anche in Vaticano alla vigilia dell’inizio del Giubileo. Bergoglio ha ripetuto chiaramente che “non ci sono giustificazioni per questa guerra mondiale a pezzi e che Dio piange e piangiamo anche noi per questo mondo che vive per fare la guerra col cinismo di dire di non farla”.
Nella sua meditazione il Papa ha ricordato che “anche oggi Gesù piange perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi ma tutto sarà truccato: il mondo continua a fare la guerra, a fare le guerre. Il mondo non ha compreso la strada della pace”. Subito dopo le stragi di Parigi, il Papa aveva sottolineato che “utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”.
Nella sua omelia Francesco ha anche ricordato le recenti commemorazioni della Seconda guerra mondiale, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, la sua visita a Redipuglia nel 2014 per l’anniversario del Primo conflitto mondiale.
“Stragi inutili”, le ha definite Bergoglio facendo sue le parole di Benedetto XV alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. “Dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio, ma cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Una volta - ha aggiunto il Papa - Gesù ha detto: ‘Non si può servire due padroni: o Dio, o le ricchezze’. La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: ‘Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ‘Maledetti!’. Perché lui ha detto: ‘Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto non c’è giustificazione. E Dio piange. Gesù piange”.
Herr Pirandello tradito dalla sua Germania
Dall’innamoramento alla delusione: il rapporto complesso dello scrittore con il Paese dove si laureò
di Luigi La Spina (La Stampa, 05.11.2015)
Innamoramento, scontro e, da ultimo, delusione. Segnano le tappe del rapporto, comunque profondo, di Luigi Pirandello con la Germania. Il grande scrittore e commediografo agrigentino studia e si laurea a Bonn nel 1891, dopo i contrasti con il suo docente di latino a Roma. Un primo «esilio» all’estero che, in realtà, si rivela una scelta felice, sia dal punto di vista culturale, sia da quello umano, come testimonia la raccolta poetica di quegli anni, intitolata Pasqua di Gea, dove, con delicata leggerezza giovanile, racconta la sua storia d’amore con la figlia dell’albergatore che lo ospita. Pirandello pensa addirittura di trasferirsi definitivamente a Bonn, insegnando in quella università, ma l’occasione dell’incarico sfuma e così, nella primavera del 1891, ritorna a Roma.
A Berlino con Marta Abba
Più conosciuto è il secondo «esilio» tedesco dello scrittore, tra il 1928 e il 1930, molto più tormentato. Pirandello, a Berlino, cerca di lanciare la sua prediletta Marta Abba su un palcoscenico internazionale, ma, dopo un anno, l’attrice - di cui il corrispondente della Stampa, Corrado Alvaro, scrive come «la donna che Pirandello aveva collocato in cima ai suoi pensieri» - ritorna in Italia. Un abbandono intristito dalle beghe, persino giudiziarie, con il traduttore e punteggiato dalle alterne fortune delle sue rappresentazioni teatrali.
Pirandello non andò più in Germania, se non nel 1936, per un breve soggiorno a Berlino durante il quale manifestò la sua delusione con parole molto amare: «Berlino è quasi spenta, non produce più nulla». Il nazismo aveva bandito le sue opere, tradotte da un ebreo, e lo scrittore denunciò l’oscurantismo di Goebbels così: «Qua ci vuole l’autorizzazione per tutto e per tal riguardo si sta molto peggio che da noi».
Il suo zibaldone
Uno squarcio significativo dell’influenza della cultura tedesca nella formazione intellettuale di Pirandello viene rivelato, ora, dagli inediti pubblicati sull’ultimo numero della rivista del Pen, l’edizione italiana diretta da Sebastiano Grasso con la collaborazione di Marina Giaveri, tratti dal Taccuino di Bonn, conservato alla Biblioteca-museo di Agrigento, intitolata al siciliano premio Nobel del 1934. Questo zibaldone di lettere, poesie, appunti, riflessioni letterarie, analisi storiche e sociali sulla Germania nel quadro delle vicende europee documenta con quanto entusiasmo, ma anche con quanta profondità di interesse e di comprensione, il giovane Pirandello si avvicini a un Paese di cui, all’inizio del suo soggiorno di studi, sapeva a malapena la lingua. A questo proposito, in una lettera a un amico, confessa: «Studio il tedesco, perché è vergogna massima non conoscerlo».
Il testo che pubblichiamo in questa pagina vedi sotto - fls dimostra la lucidità intellettuale con la quale, sia pure sinteticamente, Pirandello, poco più che ventenne, individua le componenti letterarie, politiche e religiose sulle quali si fonda la rinascita della cultura tedesca tra il XV e il XVI secolo. Un disegno suggestivo e illuminante di una vicenda molto complessa, colta con rapida intelligenza e con grande capacità di analisi. Gli scritti del giovane studioso di cose tedesche spaziano, in questo «taccuino», in molti campi di interesse, dalle poesie Elegie boreali (queste invece già pubblicate con il titolo Elegie renane) ad accurati resoconti di viaggi, come quello sulla visita alla casa di Goethe.
«Durissima esperienza»
Le lettere ai familiari, durante questi due anni di soggiorno a Bonn, raccontano il compiacimento per la scoperta di un Paese affascinante, ma anche l’ammissione di una «durissima esperienza di studio». Testimoniano l’entusiasmo con il quale Pirandello apprezza la città: «È una bellissima cittadina in riva al Reno, una delle più belle, anzi la più bella addirittura ch’io abbia mai veduto». Rivelano un preciso progetto culturale: «Ho avuto, e ho, e avrò molto, molto, molto da fare. Oltre agli studi universitari, che sono pesantissimi, mi occupo della lettura dei commediografi latini Plauto e Terenzio, per farne un serio confronto con la commedia nostra del Cinquecento»
Durante i primi mesi del soggiorno a Bonn riesce pure a scrivere un saggio critico intitolato Petrarca a Colonia, ma si dedica soprattutto alla materia che più lo affascina, la filologia romanza. sotto la guida del suo maestro, il professor Foerster. Finché arriva l’annuncio trionfale, ma anche traditore, in una lettera alla adorata sorella Lina: «Vi comunico, miei cari, che in aprile sarò dottore in Filologia romanza e che appena ottenuta la laurea e il titolo passerò a insegnare Lettere italiane in questa università di Bonn, con un emolumento annuo di circa 4 mila lire italiane, suscettibili d’illimitato aumento, oltre il provento delle iscrizioni al mio corso e una indennità d’alloggio. Di ciò vado debitore al professor Foerster, del quale, non so perché, mi sono accattivato tutta la simpatia».
Era il marzo del 1891. Ma il mese dopo, la vita di Pirandello, improvvisamente, prende una via diversa, quella del ritorno in patria, a Roma. La Germania perde un futuro brillante professore, ma l’Italia acquista un futuro premio Nobel.
***
“Tra assolutismo papale e luterano vincerà la Dea Ragione"
di Luigi Pirandello (La Stampa, 05.11.2015)
L’umanesimo italiano e il cesarismo politico tentano di penetrare in Germania, ma il terreno non vi è preparato. Lo spirito d’indipendenza personale e locale vi è ancora troppo fiero - si nota veramente al Sud un certo stringersi delle genti verso casa d’Asburgo - ma il Nord meno incivilito, meno penetrato dagli istituti e dalle idee romane e romanze, si ribella a ogni tentativo e prende cammino a sé, e si collega all’estremo settentrione in un sentimento di rigido pietismo e di rozzo e tenace teutonismo.
Sono i borghesi che non vogliono accettare nulla dai preti e dai cavalieri, loro predecessori, e vogliono far da sé, e tale ostinazione nella tradizione paesana fa parere quasi rimbarbirito per un po’ tutto il Paese. Date loro tempo, avremo tra poco la riforma religiosa - è un’opposizione al romanesimo, ai preti e ai cavalieri - la prima solenne manifestazione della vita tedesca. Vero è intanto che essa riforma porta da principio più danno che bene all’arte, ma non così alla scienza: gli spiriti mediante essa si abitueranno a meglio combattere la lotta dell’avvenire. Oggi l’assolutismo papale, ma dimani anche l’assolutismo luterano, e attraverso questa lotta si giungerà alla vittoria della dea Ragione.
Se anche il Papa condanna il falso mito di Eva tentatrice
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 17.09.2015)
Lo sguardo di Dio sulle realtà create valuta “bello e buono” ( tov ) tutto ciò che è venuto all’esistenza grazie alla parola e allo spirito. Papa Francesco, concludendo le sue catechesi sul matrimonio cristiano e la famiglia,l’ha voluto ribadire ancora una volta: Dio ha creato l’universo attraverso la sua parola mentre il suo spirito si librava sull’informe e sul vuoto. Ora, in quell’azione di Dio nel sesto giorno, dunque all’apice del compimento della sua volontà, c’è la creazione dell’umano, del “terrestre” (Adam) tratto dalla terra ( adamah ): «E creò l’adam a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). La creazione che Dio vuole «molto buona» ( tov meod ) è quella del terrestre, maschio e femmina, che Dio benedice e ai quali affida il compito di abitare e custodire la terra. Uomo e donna sono dunque esseri in alleanza, non uno senza l’altro né uno al di sopra dell’altro.
Ma se questa era e permane la creazione secondo la volontà di Dio, nella storia si è realizzata in modo drammatico: l’uomo contro la donna, la donna contro l’uomo, sicché la prima inimicizia si manifesta proprio nella coppia. Certo, la Bibbia cerca di rivelare questa realtà attraverso immagini mitiche, che portano il segno della cultura del tempo e del luogo, ma l’intento è quello di evidenziare che la responsabilità del male sta nell’uomo e nella donna quando soggiacciono all’alienazione dell’idolatria, che è sempre un falso antropologico. Nel racconto biblico il serpente tenta la donna e questa a sua volta induce l’uomo alla tentazione di non riconoscere il limite umano, ma la lettura di questo testo va fatta con intelligenza, senza letteralismi né fondamentalismi. È innegabile che da questo racconto sia emersa l’immagine della donna tentatrice,ispiratrice del male, ma tale lettura, come denuncia papa Francesco, è un luogo comune, persino offensivo.
Dobbiamo riconoscere che simili giudizi sulla donna sono presenti in testi biblici: basterebbe leggere alcuni brani sapienziali, tra i quali il Siracide (25,24): «Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo», eppure è significativo che Paolo corregga e riformuli proprio questa espressione: «Poiché a causa di un uomo (“terrestre”) venne la morte, a causa di un uomo verrà la risurrezione dai morti» (1 Corinti 15,21), attribuendo la responsabilità del peccato non alla donna soltanto, ma all’umanità tutta e proclamando la salvezza, la resurrezione a causa di un uomo, Cristo, richiamato dalla morte dal Padre suo, il Dio vivente.
Nonostante questa affermazione cristiana in cui l’uomo e la donna sono uguali nella propria dignità resta vero che nella cultura patriarcale si è continuato a giudicare la donna come tentatrice. Come negare che molti uomini continuano a esprimersi in questo modo anche oggi, in una società secolarizzata e senza Dio? Il messaggio evangelico ha proclamato l’uguale dignità dell’uomo e della donna: i vangeli sono una testimonianza senza incertezze dell’atteggiamento di rispetto, di amore, di onore, di dignità riconosciuti da parte di Gesù nei confronti delle donne che furono sue discepole e alle quali fu rivolto il primo annuncio pasquale. Proprio per questo la chiesa ha saputo esaltare Maria di Nazareth, l’umile donna di fede e obbedienza radicale, dichiarandola madre del Signore non solo perché l’ha umanamente partorito, ma perché l’ha anche generato spiritualmente in sé quale donna di fede, di attesa, di carità.
Nella vita cristiana, dice Paolo, «non c’è più né maschio né femmina», cioè questa differenza non può essere motivo di opposizione o di separazione. In Cristo, l’uomo e la donna sono uguali in dignità, hanno la stessa vocazione alla filialità divina, a essere «partecipi della natura divina». Certo, come dice il papa, «c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio» e nella chiesa c’è ancora un lungo cammino da fare affinché la donna sia valorizzata nella dignità che la accomuna all’uomo e nella differenza che segna entrambi.
È comunque urgente, anche se faticoso, giungere a precisare meglio come la donna abbia anche una sua vocazione specifica nella chiesa, nella famiglia, nella società: è portatrice di una specificità oppure è destinata ad appiattirsi sull’immagine dell’uomo? Questa guerra, questo antagonismo tra uomini e donne deve continuare o la ferita della diversità può essere una benedizione per entrambi? Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, ma attraverso una donna che è stata sua madre in tutto, donna di fede e di giustizia dalla nascita di questo figlio fino alla croce. E questo è un messaggio di speranza per gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo.
L’autore è priore della Comunità monastica di Bose
Bergoglio: “Non si può deridere la fede. Uccidere in nome di Dio? Aberrazione”
Papa Francesco parla ai giornalisti sull’aereo durante il viaggio che lo porta dallo Sri Lanka alle Filippine: "La libertà di espressione ha il limite di non offendere nessuno". Definisce i terroristi "squilibrati". E sulla possibilità di attentati dice: "Ho paura per i fedeli"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 15 gennaio 2015)
“Uccidere in nome di Dio è un’aberrazione. Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri, non si può deridere la religione. E la libertà di espressione ha il limite di non offendere nessuno”. Così Papa Francesco ha risposto alle domande dei 76 giornalisti del volo papale, nell’ormai consueta conferenza stampa ad alta quota mentre l’aereo lo portava dallo Sri Lanka nelle Filippine per la seconda tappa del suo viaggio in Asia. “Se subissi un attentato - ha confidato Bergoglio - chiedo solo la grazia che non mi faccia male. Non sono coraggioso. Ho paura del dolore fisico, ma ho il difetto di avere un bella dose di incoscienza. In Vaticano abbiamo misure di sicurezza prudenti ma sicure, ma mi preoccupo prima di tutto per i fedeli“.
Davanti al terrorismo che minaccia attacchi ai simboli dell’Occidente, e dunque anche alla Santa Sede, il Pontefice ha spiegato che “sempre il miglior modo di rispondere è la mitezza. Essere miti, umili come il pane. Senza aggressività, anche se c’è gente che questo non lo capisce”. Oltre al pericolo per gli attentati, Bergoglio ha annunciato che a marzo finirà la sua seconda enciclica, quella sui temi ambientali, che è già alla terza bozza e che sarà pubblicata molto probabilmente a giugno o al massimo a luglio, e ha condannato duramente coloro che schiavizzano i bambini e gli usano per il turismo sessuale.
Ma la riflessione più ampia Francesco l’ha dedicata ai tragici attentati di Parigi, ribadendo anche quanto aveva affermato nel discorso al corpo diplomatico accreditato in Vaticano e ai leader delle diverse confessioni religiose presenti nello Sri Lanka. Francesco ha spiegato che sia “la libertà religiosa che la libertà di espressione sono diritti umani fondamentali. Non si può violarli. Ma, andiamo a Parigi, parliamoci chiaro, non si può nascondere una verità: la religione si deve praticare con libertà, senza offendere, senza imporre né uccidere. E la libertà di espressione è un diritto, un obbligo in un certo senso, perché c’é il dovere di dire quello che si pensa per aiutare il bene comune. Se un deputato o un senatore non lo dice, allora non collabora al bene comune. Dunque abbiamo l’obbligo di esprimere il nostro pensiero, ma senza offendere”.
Il Papa ha voluto fare un esempio concreto: “Se il dottor Gasbarri, l’organizzatore dei viaggi papali, che è mio amico, dice una parolaccia contro la mia mamma è normale che si aspetti un pugno. Non si può provocare, non si può prendere in giro la religione di un altro. Non va bene. Benedetto XVI ha parlato in proposito di una metafisica post-positivista che tratta le religioni come fossero sottoculture tollerate. Questo perché non sono nella cultura illuminata: è l’eredità dell’illuminismo. Così c’è gente che sparla, che prende in giro, ‘giocattolizza’ la religione degli altri. Ogni religione ha dignità e io non posso prenderla in giro. Nella libertà di espressione ci sono limiti come non dire qualcosa contro mia mamma”.
Bergoglio ha, quindi, ribadito che “ognuno ha il diritto di praticare la sua religione senza offendere. E così vogliamo fare tutti. Non si può offendere o fare la guerra, uccidere in nome della propria religione, in nome di Dio. Ci stupisce quello che succede adesso. Ma quante guerre di religione abbiamo avuto, pensiamo alla notte di san Bartolomeo“. E sull’ipotesi di un incontro mondiale per la pace di tutti i leader religiosi, come quelli convocati ad Assisi da san Giovanni Paolo nel 1986 e poi, dopo gli attentati dell’11 settembre, nel 2002, Francesco ha risposto: “Questa proposta è stata fatta. Alcuni ci stanno lavorando. So che l’inquietudine non è solo nostra, ma anche di altre religioni. È nell’aria”.
Il Papa ha usato anche parole molto dure per i kamikaze. “Non vorrei mancare di rispetto a nessuno, - ha affermato Bergoglio - ma mi viene da dire: dietro ogni attentato suicida c’è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano. Quella persona non ha equilibrio sul senso della propria vita, della sua esistenza cioè, e di quella degli altri. Dà la vita e non la dà bene. Qui invece ci si autodistrugge e per distruggere”.
Francesco ha condannato anche l’orrore dell’uso dei bambini come kamikaze oltre che come combattenti. “I minori - ha osservato Bergoglio - sono usati ovunque per tante cose nel lavoro come schiavi e anche sfruttati sessualmente. Alcuni anni fa col Senato, in Argentina, tentammo di promuovere una campagna per alberghi importanti, per dire che lì non si sfruttano i bambini. Era una misura preventiva, ma non siamo riusciti: ci sono molte resistenze nascoste. Il lavoro schiavo dei bambini è terribile. Per non parlare del turismo erotico: quando ero in Germania - ha concluso il Papa - ho visto pubblicizzare sui giornali la zona del turismo nel Sud Est asiatico, un turismo pieno di bambini”.
Papa Francesco a Redipuglia, "Basta pianificatori terrore e affaristi di guerra"
Un pellegrinaggio "per pregare per i caduti di tutte le guerre"
di Redazione ANSA (13 settembre 2014)
"Trovandomi qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia". Così il Papa nella messa a Redipuglia. "La guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!".
Un lungo silenzio ha seguito l’omelia di Papa Francesco. I fedeli si sono raccolti per qualche minuto di silenzio, in memoria dei caduti e di riflessione sulle parole del Pontefice.
Papa Francesco è in Friuli Venezia Giulia per il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale. Atterrato all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, è stato accolto dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti e dal presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani. Bergoglio è salito su una Golf targata Vaticano diretto al cimitero austro-ungarico e al sacrario di Redipuglia. Bergoglio è entrato al cimitero austro-ungarico di Fogliano di Redipuglia e, da solo, si è raccolto in un momento di preghiera. Nel cimitero riposano 14.550 salme di soldati caduti in quest’area nel corso della Prima Guerra Mondiale.
Poi la celebrazione della messa al sacrario, ecco alcuni passaggi dell’omelia.
"Dopo aver contemplato la bellezza del paesaggio di tutta questa zona, dove uomini e donne lavorano portando avanti la loro famiglia, dove i bambini giocano e gli anziani sognano... trovandomi qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia", ha affermato papa Francesco nell’omelia. "Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge", ha proseguito.
"Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto beffardo della guerra: ’A me che importa?’. Tutte queste persone, i cui resti riposano qui, avevano i loro progetti, i loro sogni..., ma le loro vite sono state spezzate. L’umanità ha detto: ’A me che importa?’". Lo ha affermato papa Francesco, citando "la risposta di Caino", nell’omelia della messa celebrata stamane al Sacrario di Redipuglia. "La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà... ’A me che importa?’", ha ribadito.
"La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere... sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto", ha detto il Papa nella messa a Redipuglia. "L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: ’A me che importa?’, ’Sono forse io il custode di mio fratello?’", ha aggiunto.
"Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ’a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni...".
Nella messa al Sacrario di Redipuglia, papa Francesco ha puntato il dito contro "questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi", gli "affaristi della guerra", che "hanno scritto nel cuore: ’A me che importa?’". "Qui ci sono tante vittime. Oggi noi le ricordiamo. C’è il pianto, c’è il dolore. E da qui ricordiamo tutte le vittime di tutte le guerre", ha detto il Pontefice nell’omelia. "Anche oggi le vittime sono tante... - ha proseguito - Come è possibile questo? E’ possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!". "E’ proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere - ha aggiunto il Pontefice -. Con quel ’A me che importa?’ che hanno nel cuore gli affaristi della guerra, forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere".
"L’ombra di Caino ci ricopre oggi qui, in questo cimitero. Si vede qui. Si vede nella storia che va dal 1914 fino ai nostri giorni. E si vede anche nei nostri giorni".
"Con cuore di figlio, di fratello, di padre, chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da quel ’A me che importa?’, al pianto. Per tutti i caduti della ’inutile strage’, per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo. L’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto".
Francesco riceve matricola nonno, combattè Grande Guerra - Papa Francesco ha ricevuto oggi a Redipuglia il foglio matricolare del nonno, Giovanni Carlo Bergoglio, che combattè la Prima Guerra Mondiale anche a pochi passi dal Sacrario, nelle trincee vicine al fiume Isonzo. Nato ad Asti nel 1884, il nonno del Papa fu radiotelegrafista. Il Pontefice ha ricevuto il documento dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti ha donato al Papa un altare da campo della Prima Guerra.
I sonnambuli d’Europa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 31.12.2013)
«VERRÀ il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914»: lo ha detto Angela Merkel, nell’ultimo vertice europeo, citando un libro dello storico Christopher Clark sull’inizio della Grande Guerra,tradotto in Italia da Laterza. I sonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla. Da allora sono passati quasi cent’anni, e molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo territoriale è svanito (resta solo l’Ungheria di Orbàn, residuo perturbante del mondo di ieri, a proclamare compatrioti a tutti gli effetti gli ungheresi di Slovacchia, Romania, Serbia, Austria, Ucraina). Non si combatte più per spostare confini ma l’Unione non è in pace come si dice, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14.
È simile lo stato d’animo dei governi: allo stesso tempo deboli e pieni di sé. Impotenti sempre, anche quando mostrano arroganza o risentimento. Gli anniversari sono un omaggio che si rende al passato per accantonarlo. Meglio sarebbe celebrarli con parsimonia. Ma sul significato di questa ricorrenza vale la pena soffermarsi, e chiedersi come mai Berlino evochi il 1914 per dire che l’euro può sfracellarsi, che se non faremo qualcosa saremo di nuovo sorpresi dal colpo di fucile che distrusse il continente. Come mai torni questo nome - i Sonnambuli - che Hermann Broch scelse come titolo per una trilogia che narra la pigrizia dei sentimenti, l’indolenza vegetativa, che pervasero il primo anteguerra.
Quel che il Cancelliere non dice, ma che Clark mette in risalto, è l’inanità di simili moniti catastrofisti, l’enorme discordanza fra l’eloquio sinistro dei governanti e il loro agire ignavo, incapace di trarre le conseguenze da quel che apparentemente presagiscono.
Si comportarono da sbandati gli Stati europei, quando il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip tirò i suoi due colpi di pistola a Sarajevo: quasi camminassero dormendo. A parole sembrava sapessero quel che stava per succedere, e però erano come incoscienti. Il dire era completamente sconnesso dai fatti, dal fare.
Allo stesso modo gli Stati odierni davanti alla crisi, quando recitano la giaculatoria sul baratro che perennemente sta aprendosi, e non fanno il necessario per allontanare l’Unione da quell’orlo ma anzi l’inchiodano sul bordo, sbrindellata e tremante com’è, senza governo né comune scopo, come se questa fosse l’ideale terapia per tenere vigili gli Stati, per dilatare le angosce dei cittadini, per non provocare la rilassatezza (il «rischio morale», lo chiamano i custodi dell’Austerità) che affligge chi, troppo rassicurato, smette il rigore dei conti.
Proprio come fa la Merkel, quando vaticina l’»esplosione dell’euro» e incrimina l’indolenza dell’Europa dormiente. L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori».
Terribilmente simili all’oggi che viviamo furono i prodromi della Grande Guerra. Verso la fine del luglio ‘14, poco dopo Sarajevo, il premier inglese Asquith preannuncia l’»Armageddon»: il luogo dell’Apocalisse dove tre spiriti immondi radunano i re della terra. Gli fa eco Edward Grey, ministro degli Esteri: «La luce si sta spegnendo su tutta Europa: non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». In realtà gli inglesi avevano altri tormenti in quelle ore - non l’Europa ma l’autonomia dell’Irlanda - e poco si curavano del disastro continentale che profetizzavano.
Anche Churchill utilizzerà più tardi la metafora millenaristica del buio che irrompe: «Una strana luce cominciò a cadere sulla carta d’Europa». Quanto ai generali russi e francesi, le parole ricorrenti quell’estate erano «guerra di sterminio», «estinzione della civiltà».
Sapevano dunque - conclude Clark - ma la sapienza scandalosamente girava a vuoto: «Questa la cultura politica comune a tutti i protagonisti». Il ‘14-18 non è un giallo di Agatha Christie, col colpevole scovato nell’ultimo capitolo: la primaria colpa tedesca, fissata nell’articolo 231 del Trattato di Versailles, è invenzione dei vincitori. Il ‘14-18 fu una tragedia «multipolare e autenticamente interattiva ».
All’origine di questo voluto e fatale divaricarsi tra parole e presa di coscienza: l’ignoranza che ogni Stato mostrava per i patemi storici dell’altro. Ignoranza inglese dell’ossessione russa, ostile con i serbi all’impero austroungarico e ottomano. Ignoranza della Germania in ascesa. E accanto all’ignoranza: la flemma, l’abissale disinteresse per quello che la Serbia significava agli occhi d’un impero asburgico dato anzitempo per morto. Infine il fatalismo: la guerra era forse invisa, ma ritenuta inevitabile. Così l’Europa sbandò verso l’inutile strage denunciata da Benedetto XV.
Ricordando la leggerezza disinvolta narrata da Clark, la Merkel commette gli stessi errori, quasi credesse e non credesse in quel che dice. Anche nel ‘14 mancò l’immaginazione: quella vera, non parolaia. Gli europei erano immersi in una prima globalizzazione. Come poteva sgorgare sangue dal dolce commercio? Poteva invece, perché il mito delle sovranità assolute scatenò i nazionalismi e produsse non uno ma due conflitti: una lunga guerra di trent’anni. Solo dopo il ‘45 capirono, creando la Comunità europea.
Ora siamo di nuovo in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. Come allora, a trascinarci in basso sono i governi ma anche una cultura politica comune. Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark.
Anche i popoli - spogliati di diritti, disinformati - barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice ancora Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo».
Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione.L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo.
Oggi la Grande Illusione è pensare che il ritorno dell’equilibrio fra potenze assicuri nell’Unione il dominio del più forte, più stabile. Ma Darwin è inservibile in politica, e mortifera per tutti è la lotta europea per la sopravvivenza. Nel rapporto tra Usa e Israele, o tra Cina e Nord Corea, sono decisivi i piccoli, i più dipendenti: esattamente come cent’anni fa fu decisiva la Serbia panslavista, rovinosamente sostenuta dalla Russia. La forza fisica che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.
La famiglia, prima scuola di santità
di Ermes Ronchi (Avvenire, 27/12/2012 *
La santa Famiglia di Nazaret porta un messaggio a tutte le nostre famiglie, l’annuncio che è possibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, familiare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non significa essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescente, e malintesi, incomprensione esplicita: ma essi non compresero le sue parole. Santità non significa assenza di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’amore. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.
E non parlo di amore spirituale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un cibo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Adamo verso Eva, me verso l’amico, il genitore verso il figlio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.
Scese con loro a Nazaret e stava loro sottomesso. Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardando i suoi genitori vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle relazioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.
Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici.
(Letture: 1 Samuele 1,20-22. 24-28; Salmo 83; 1 Giovanni 3,1-2. 21-24; Luca 2,41-52)
Il sovvertimento del Natale
di Bernard Ginisty
in “www.garriguesetsentiers.org” del 21 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Una delle tentazioni più forti della mente umana consiste nel fare di tutto perché l’irrompere del nuovo si riduca alla ripetizione del vecchio. La volontà di controllo dell’esistenza cerca di colonizzare il tempo che viene, a rischio di impedirsi la sorpresa dell’imprevisto. Tendiamo a banalizzare l’evento quando sconvolge le nostre tranquillità intellettuali e sociali.
Il senso profondo della liturgia che ci invita ogni anno a rivivere il Natale sta nell’accogliere la rottura provocata da un avvenimento di grande portata qual è una nascita. Una breccia viene aperta dall’irruzione del Verbo fatto carne nella storia degli uomini. La festa che, secondo la liturgia del giorno di Natale, annuncia: “Oggi la luce è discesa sulla terra. Popoli dell’universo, entrate nella luce di Dio” è talmente sconvolgente, che abbiamo tentato di neutralizzarla per farne un grazioso scenario per la celebrazione del consumismo, diventato la pratica “religiosa” indispensabile ad un mondo gestito dall’idolo della finanza.
Questi tentativi di neutralizzazione sono cominciati molto presto. Appena conosciuto l’avvenimento della nascita di Gesù, i poteri, attraverso la figura di Erode, si sono sforzati di uccidere l’avvenimento e di massacrare l’innocenza. Questo scontro tra l’infanzia di Dio e il potere dei Cesari che fa di noi degli schiavi della violenza, del denaro, della produttività e delle immagini sociali, costituisce una linea di continuità nella storia.
L’avvenimento del Natale, quello in cui la Parola si fa carne, introduce un virus radicale nei programmi di coloro che pretendono di avere il potere di controllare l’esistenza umana. L’infanzia degli inizi diventa il luogo fondamentale dell’umano. È la sorgente in cui ciascuno, quale che sia la sua tragedia, può ritrovare una dignità e una speranza. Ecco perché, grazie al Natale, sono i più deboli, gli esclusi, che aprono la via verso il futuro. Non in nome di chissà quale lacrimevole umanitarismo, ma perché coloro che possiedono meno ci invitano a rimanere negli inizi dell’umano. È il senso del versetto evangelico: “la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”.
È a tempi di rinascita che ci invita tutti la festa del Natale. Non in un domani incantato, ma nel concreto dell’oggi. Lo stupore del Natale ha la forza delle origini. Ormai, “il Verbo che viene nel mondo illumina ogni uomo”, e nessun potere può più nascondere questa luce. A Natale, cantiamo l’invito ad inventare ogni giorno la fraternità umana, l’unica che può, da quel momento, dare senso alla storia.
Nascere ha sempre senso
Già prima di Cristo gli stoici negavano che fosse meglio non esistere
In tempi di crisi ritorna il pessimismo cosmico ma conviene seguire Pirandello e non Leopardi
di Marco Rizzi (Corriere della Sera La Lettura, 23.12.2012)
Pur nel mezzo della pesante crisi che stiamo attraversando, un calendario del prossimo anno non mancherà di certo anche nei più smilzi pacchi dono che ci saranno recapitati in questi giorni di Natale. Tuttavia, a differenza di qualche tempo fa, il futuro verso cui ci farà alzare lo sguardo appare segnato dall’incertezza e dal dubbio; quanto riusciremo a conservare del benessere acquisito sino a oggi? Soprattutto: potremo sperare ancora in un futuro migliore, in un progresso comune in cui ciascuno possa inserirsi e lasciare qualcosa di significativo a chi verrà dopo di noi?
Il pensiero ritorna ai banchi di scuola, alla lettura - immancabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado - del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Leopardi, quello in cui un passante smonta, con diabolica abilità dialettica, l’offerta di acquistare un calendario per l’anno nuovo, perché, nonostante le promesse del venditore, nessuno vorrebbe ricominciare daccapo la vita che ha sin lì vissuto: «Ciascuno è d’opinione che sia stato di più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene».
L’idea compariva già in un passo dello Zibaldone di qualche anno precedente; comunemente si pensa che Leopardi l’abbia derivata dai suoi amati autori antichi: è celebre il detto attribuito a Sileno secondo cui «non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare da dove si è venuti» - così nella forma in cui lo riporta Sofocle. Non tutti gli antichi, però, condividevano un simile pessimismo cosmico; i filosofi stoici, ad esempio, non solo ritenevano che la presenza nel mondo di ogni uomo facesse parte di un mirabile disegno provvidenziale, ma addirittura giungevano a sostenere che gli eventi di questo mondo e la vita di ciascuno si sarebbero ripetuti identici nel corso di una infinita successione di ere cosmiche sempre eguali tra loro.
Dal canto loro, i primi cristiani affermavano che nascere era una fortuna, proprio (o solo) perché permetteva di rinascere alla vita eterna; in questo modo, era ribadito il disegno della provvidenza, ma il ciclo degli eterni ritorni veniva definitivamente infranto e il destino dell’uomo posto nell’amore misericordioso di Dio. Anche quando l’attenzione al destino ultraterreno si verrà attenuando, la rottura cristiana della ciclicità del tempo antico lascerà aperto lo spazio della speranza e del fattivo impegno per un futuro migliore già in questo mondo.
È con l’Illuminismo che si opera un decisivo cambio d’orizzonte; nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle, pubblicato nel 1697, il rifiuto di rinascere una seconda volta poggia sull’esperienza del singolo, su di un pessimismo personale, non più su una visione cosmica: è nella vicenda di ciascuno che si rivela drammaticamente l’assenza della provvidenza e di un qualsiasi disegno che diriga la vita dell’uomo, ancor prima che il corso della storia. Non il nascere in quanto tale è un male, come voleva Sileno, bensì il concreto andamento dell’esistenza umana che indica, a chi la osserva con ragione, come non valga la pena di riviverla - salvo invidiare quella degli altri, che illusoriamente appare meno infelice.
Il vasto dibattito illuministico su questi temi, ricostruito da Stefano Brogi (Nessuno vorrebbe rinascere. Da Leopardi alla storia di un’idea tra antichi e moderni, Ets, pp. 216, 22), suscitò ovviamente la reazione dei teologi e dei pensatori cristiani in difesa della provvidenza e dell’azione di Dio nella storia; ma persino Leibniz, che pure sosteneva che quello presente fosse il migliore dei mondi possibili, dovette ammettere che, in fondo, chiunque accetterebbe di rinascere solo a condizione di avere una vita diversa da quella vissuta - diversa, non necessariamente migliore.
Questo è il retroterra su cui si innesta il Dialogo di Leopardi: un testo, a sua volta, presente alle riflessioni di Schopenhauer, che riconosce come «lo scherno e lo strazio di questa esistenza... egli (Leopardi) lo dichiara in ogni pagina della sua opera, e però con una tale molteplicità di forme e di giri, con una tale ricchezza di immagini, da non ingenerare mai fastidio, riuscendo anzi sempre dilettoso e stimolante».
È con Nietzsche che l’idea leopardiana subisce una torsione sorprendente e inaspettata: il giudizio sulla vita dell’uomo resta sconfortante e negativo, ma proprio perché non vi è alcuna provvidenza, e in fondo nessun senso nell’esistenza, l’unica speranza che ci è data è la vita che viviamo, a cui occorre dire di sì in tutti i suoi aspetti, compresa la sua identica riproposizione. Tale si rivela il significato ultimo della dottrina dell’eterno ritorno proclamato dallo Zarathustra nietzschiano: una prova sovrumana, alla quale potrà rispondere solamente l’Übermensch, il superuomo, colui che è «il vero senso della terra». Il mito stoico dell’eterno ritorno non risulta più legato all’azione della provvidenza o alla promessa di Dio, ma diviene trasparente metafora della condizione umana, condannata a consumarsi nel fallimento di questa vita.
A ben vedere, questo esito risulta insostenibile. Lo riconosce un altro insospettabile pessimista incontrato sui banchi di scuola, Pirandello. Nel racconto Notizie dal mondo, Tommaso tiene un monologo sulla tomba dell’amico morto, Momino; interrogandosi proprio sull’origine del mito dell’eterno ritorno, conclude che solo due amici felici - o due innamorati - potevano aver sognato una cosa simile: «Quanto mi piacerebbe, se ci facessero tornare tutti e due assieme! Sono sicuro che, pur non avendo memoria della nostra vita anteriore, noi ci cercheremmo sulla terra e saremmo amici come prima». Siamo ormai consapevoli che non ci è dato scegliere se rinascere o no; né ci è facile cogliere quale sia la direzione in cui l’umanità si muove; proprio questo, però, ci rende liberi di dare un senso al nostro nascere e rinascere ogni giorno, alzando lo sguardo da noi stessi e cercando quello degli altri.
Comincia il ventiquattresimo viaggio internazionale di Benedetto XVI
In Libano come messaggero di pace
E alla vigilia della visita il cardinale segretario di Stato ribadisce che la violenza porta solo a nuove violenze *
Il Pontefice si reca in Libano come "messaggero di pace" e le crescenti tensioni che ancora oggi percorrono drammaticamente l’intera area mediorientale, "lungi dallo scoraggiarlo, hanno reso ancora più urgente il suo desiderio" di compiere questo viaggio. Alla vigilia della partenza di Benedetto XVI il cardinale Tarcisio Bertone offre la chiave di lettura del viaggio papale, definendolo "un invito a tutti i responsabili del Medio Oriente e della comunità internazionale a impegnarsi con una volontà ferma per trovare soluzioni eque e durature per la regione".
In un’intervista rilasciata al quotidiano francese "Le Figaro" e pubblicata nel numero di oggi, 13 settembre, il segretario di Stato ricorda che per il Pontefice la promozione dei diritti dell’uomo, primo fra tutti quella alla libertà di religione, "è la strategia più efficace per costruire il bene comune". E ribadisce la posizione "chiara e netta" della Chiesa di fronte a ogni forma di violenza, che - afferma - "porta solo a nuove violenze" e "ferisce per sempre i corpi ma anche le menti". In questo senso il Papa in Libano "intende essere una voce profetica e una voce morale", invitando "tutti gli uomini e le donne di buona volontà a far sì che la religione non sia mai un motivo di guerra e di divisione".
Per il porporato il Medio Oriente oggi "deve molto alla presenza cristiana", che contribuisce "all’edificazione di una società libera, giusta e riconciliata". All’islam la Chiesa tende perciò "una mano aperta in segno di dialogo e di riconciliazione", consapevole che la posta in gioco è quella di "lavorare insieme per fare di questa regione una nuova culla di civiltà, di cultura e di pace". Convinzione espressa in queste ore anche dal primo ministro libanese Najib Miqati, che in un’intervista ad Aki - Adnkronos International manifesta la fiducia che la visita del Pontefice in un Paese "punto di incontro e di interazione tra le civiltà e le culture" rappresenti "l’inizio di una vera collaborazione tra i popoli di tutti i Paesi mediorientali".
Anche per il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il Papa troverà in Libano una nazione desiderosa di "divenire protagonista in un desiderato processo di pace e di riconciliazione". Certezza condivisa dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, che parla di un Paese "che ha saputo credere nella "intesa possibile", mai cedendo alla fragilità dei risultati e piuttosto dando credito alla condivisa appartenenza a una "terra" venuta dalle mani di Dio e da lui benedetta quale casa accogliente per tutti". Da parte sua il nunzio apostolico, arcivescovo Gabriele Caccia, sottolinea le molteplici dimensioni del viaggio papale - "ecclesiale, sociale, nazionale, regionale e anche internazionale" - mentre il patriarca di Antiochia dei Maroniti, Béchara Raï, riafferma l’importanza del dialogo, del rispetto reciproco e della solidarietà per costruire insieme "la città degli uomini".
* L’Osservatore Romano 14 settembre 2012
Riparte da Sarajevo lo «spirito di Assisi»
di Roberto Zuccolini (Corriere della Sera, 12 settembre 2012)
Dopo il decennio dello scontro, quello dell’11 settembre, oggi «il futuro è vivere insieme». Non c’è altra via. Ci sono, per forza, tante difficoltà, quelle della storia. Ma qui, nella cornice bella e drammatica della capitale bosniaca, le grandi religioni mondiali, riunite nell’Incontro internazionale per la pace, sono convinte che è necessaria una svolta. È raccolta nell’appello della cerimonia finale. Quasi un grido: «L’odio, la divisione, la violenza, le stragi e i genocidi non vengono da Dio».
Lo aveva spiegato bene poco prima anche il ministro Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, la comunità che ha raccolto l’eredità della storica preghiera di Assisi voluta da Giovanni Paolo II: «Oggi c’è una nuova responsabilità delle religioni nel mondo globalizzato». Perché i messaggi girano velocemente e con loro può passare la pace o la guerra, il dialogo o il rifiuto dell’altro: «Il messaggio del 1986, lo ‘‘spirito di Assisi’’, è più che mai attuale: le religioni devono fondare il vivere insieme».
C’è un fatto importante: grazie a questo Incontro «l’Europa guarda di nuovo a Sarajevo», fa notare Riccardi. Anzi, «l’Europa è venuta qui», con il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e il premier Mario Monti all’inaugurazione di una tre giorni che ha ospitato una trentina di conferenze sui temi del dialogo, della povertà, di tante aree di crisi del mondo. A Sarajevo, per tre giorni, è passata la pace. Quella per il mondo e quella per la stessa Bosnia Erzegovina. Fragile, ma carica di novità: dopo il sorprendente ingresso del patriarca ortodosso Irinej nella cattedrale dei cattolici, nonostante le mille dispute che restano aperte, arriva la firma delle quattro componenti del Paese (serba, croata, musulmana ed ebrea) a un appello comune: è la prima volta dopo la fine della guerra.
Ma ci sono mille frontiere in cui si gioca la coabitazione. Qui è risuonata anche la voce del cattolico Paul Bhatti, consigliere del primo ministro pachistano per le Minoranze, erede dell’incarico che svolgeva prima di lui, come ministro, suo fratello Shahbaz Bhatti, assassinato dai terroristi nel marzo del 2011. Ha portato la speranza di una rete di ulema pachistani pronti a difendere i cristiani: «Hanno detto che non tollereranno più che persone innocenti siano minacciate nel nome dell’Islam».
Toccante la supplica dell’anziano cardinale Roger Etchegaray, tra i primi a credere allo «spirito di Assisi»: «Sarajevo, tu che sei giustamente così fiera del tuo passato, ritorna a essere pienamente quella che sei, al servizio di ogni popolo e religione». E alla fine, tra le luci accese da cardinali, rabbini e imam al candelabro della pace, l’annuncio del prossimo Incontro: si terrà a Roma, là dove è partito, dopo Assisi, il pellegrinaggio delle religioni mondiali in cerca di pace
Disobbedire
di Jacques Noyer (vescovo emerito di Amiens)
in “www.temoignagechretien.fr” del 9 settembre 2012 *
«Signor parroco, vorremmo vederla. Stiamo per sposarci, ma io sono divorziato...» Mi è stato riferito recentemente che un prete sentendo queste parole ha richiuso la porta della casa parrocchiale affermando: «Sono desolato ma non posso far nulla per voi!». Ecco un funzionario come si deve! È questa l’obbedienza?
Senza dubbio molti altri avrebbero fatto entrare la coppia e l’avrebbero ascoltata. Alcuni, con molto garbo, avrebbero concluso con le stesse parole: non posso far nulla per voi. Altri avrebbero cercato di rispondere entrando maggiormente nel merito della richiesta di queste persone abitate dal desiderio di situare il loro amore e il loro progetto di vita sotto lo sguardo del loro Dio o almeno sotto lo sguardo della loro famiglia e dei loro amici cristiani. Molti pastori riterranno loro compito vedere queste persone con lo sguardo di Cristo.
Non possono immaginare che colui che si è fermato a parlare con la Samaritana rifiuti di prestare attenzione alla loro richiesta. In quel dialogo, il pastore si impegna con le proprie convinzioni, ma con la preoccupazione di accogliere la sete profonda dei suoi interlocutori. Non ci sono risposte prefabbricate. Con maggiore o minore audacia, proporrà il cammino che ritiene il migliore per il caso singolare che ha davanti.
Potrà ritenere che l’applicazione pura e semplice delle norme ferirà l’attesa confusa che si trova di fronte. Sa che al di là di Gerusalemme e del Garizim, c’è un Dio d’amore che si adora in spirito e verità. Non ci si può rifiutare di superare la linea gialla quando si tratta di evitare di schiacciare qualcuno. La trasgressione in questo caso non è disobbedienza. È responsabilità.
La situazione ecclesiale che si è creata attorno all’ «appello alla disobbedienza» dei preti austriaci diventa non controllabile. Questa provocazione è molto rischiosa. Vogliamo una reazione intollerante capace di generare drammatiche lacerazioni nella nostra Chiesa? L’inerzia del Vaticano, diffusa da una gerarchia impaurita, avrà, una volta di più, ragione di un modo di sentire di alcuni lasciandolo marcire senza risposte? A mio avviso sarebbe stato meglio un «appello alla obbedienza» all’audacia del vangelo.
La Chiesa non può addormentarsi nelle sue certezze e nelle sue abitudini. Non ha il diritto di sacralizzare un momento della storia per rifiutare di amare il presente. I preti non hanno il diritto di far tacere gli appelli del loro animo di pastori per un’obbedienza formale alla legge. I vescovi non possono giustificare la loro inerzia per la paura di una reazione della Curia.
Il Papa ha sufficientemente ricordato la grandezza del Concilio, perché nessuno si dimentichi delle proprie responsabilità nella missione del popolo di Dio. Abbiamo troppo sofferto per un’obbedienza intesa come una semplice rinuncia all’iniziativa e all’inventiva. Credo che l’obbedienza al Padre di Gesù Cristo è contraria ad una sottomissione cieca al diritto canonico.
Desidererei ascoltare a tutti i livelli della Chiesa il fremito dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Mi piacerebbe che ordinare un prete non fosse rinchiuderlo nel ruolo di esecutore di ordini, ma dargli fiducia. Mi piacerebbe che affidare una diocesi ad un vescovo consistesse nel chiedergli pareri e proposte e non invece nell’esigere un giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe poter fare ascoltare fino ai vertici le invocazioni di questo popolo che cerca acqua fresca e rifiuta l’acqua stagnante delle cisterne vaticane.
La Volontà del Padre che manda il suo Figlio e ci invita all’avventura del Regno non è un regolamento ma una creazione, un concepimento, una risurrezione. Che la Tua volontà sia fatta, diciamo! Ma non è un abbandono. Come un’eco, ascoltiamo il Padre ridirci che non ha bisogno di schiavi sottomessi, ma di figli liberi alla cui iniziativa affida la responsabilità del suo progetto d’amore
* Fonte: Incontri di "Fine Settimana".
“Ecumenismo adesso!”
di esponenti del mondo politico, scientifico, culturale, sportivo tedesco
in “oekumene-jetzt.de” del 5 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il superamento della separazione confessionale è lo scopo della nostra iniziativa di persone appartenenti a varie sfere della vita pubblica: politica, scienza, economia, cultura, sport ed altri ambiti sociali.
“Non vogliamo una conciliazione che mantenga la separazione, ma un’unità vissuta nella consapevolezza della molteplicità che storicamente si è andata formando”, si dice nel nostro appello, che presentiamo pubblicamente anche con questa pagina web e per il quale chiediamo il sostegno delle gerarchie ecclesiali e delle comunità.
Ecumenismo adesso: un solo Dio, una sola Fede, una sola Chiesa
“Cercate di conservare l’unità dello spirito per mezzo della pace che vi unisce. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.” (Lettera di Paolo agli Efesini, 4,3-6)
Nei prossimi anni i cristiani in tutto il mondo ricordano due particolarissimi eventi della storia della
Chiesa:
50 anni del Concilio Vaticano II
500 anni di Riforma.
In Germania la “Decade di Lutero” (Luther-Dekade*) deve servire alla preparazione e al riconoscimento di una data storica che, vista in uno sguardo retrospettivo, rappresenta una cesura nella storia, non solo del nostro paese.
I due eventi non riguardano ognuno la rispettiva confessione, ma sono una sfida per tutti ed una opportunità in particolare per le Chiese, ma non solo per loro. Parteciperemo con impegno alla preparazione e alla realizzazione di manifestazioni, mostre, pubblicazioni e liturgie per ricordare e riconoscere il Concilio Vaticano II e la Riforma, e intendiamo fare di tutto affinché dopo i giubilei non rimanga tutto come prima.
Poiché Dio nel battesimo ci ha donato la comunione con Gesù Cristo, i battezzati sono uniti gli uni agli altri come fratelli e sorelle. Formano come popolo di Dio e corpo di Cristo l’unica Chiesa che riconosciamo nel Credo. È perciò urgente che questa unità spirituale possa assumere anche una forma visibile.
Martin Lutero voleva rinnovare, non spaccare la Chiesa. Voleva l’unità della Chiesa, “affinché il mondo creda” (cf anche Gv 17,9-23). Egli riteneva espressamente che l’introduzione di una molteplicità confessionale all’interno di una regione fosse inattuabile e inadeguata. Anche la Confessio Augustana di Lutero sottolinea la necessità dell’unità della Chiesa: “Per la vera unità della Chiesa è sufficiente essere d’accordo [il latino dice: consentire] sulla dottrina dell’evangelo e sull’amministrazione dei sacramenti.” (Confessio Augustana 7).
Tuttavia si è giunti alla separazione delle Chiese. C’erano gravi differenze e malintesi, ma la scissione aveva non solo motivazioni teologiche, ma anche grandi motivazioni politiche: a questo si giunse non per una convinzione di fede di voler diventare evangelici o romano-cattolici, ma in base al luogo dove si abitava. I signori di una regione determinavano la confessione dei suoi abitanti. Per la lunga separazione delle Chiese sono state più determinanti le questioni di potere che le questioni di fede. Era quindi una logica conseguenza che il desiderio di essere un’unica Chiesa cristiana fosse ripetutamente ripreso anche dopo la separazione delle Chiese, benché con diversa intensità.
L’aspirazione all’unità delle Chiese ha ricevuto un’espressione particolare con il Concilio Vaticano II (1962-1965), che fu convocato per un rinnovamento non solo pastorale, ma anche ecumenico. Un documento fondamentale del Concilio, il decreto sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) sottolineò il dovere per le cristiane e per i cristiani di impegnarsi per la ricostituzione dell’unità della Chiesa: “Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo.
Tutti invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso (1 Cor 1,13). Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura” (Unitatis Redintegratio, n° 1). In questo modo, il decreto romano-cattolico non si pone solo nella tradizione dell’apostolo Paolo, ma anche nella prosecuzione del desiderio di Lutero. Indica contemporaneamente dove cercare la responsabilità per l’aspirazione all’unità.
Non solo i pastori, ma anche e specificamente i fedeli sono esortati a impegnarsi per la ricostituzione dell’unità. “La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici.” (Unitatis Redintegratio, n° 5) Non possiamo e non dobbiamo abbandonare l’impegno per l’unità dell’intera Chiesa fino a che non sia raggiunta tra le gerarchie ecclesiastiche una unità teologica sul modo di intendere la missione e l’eucaristia. E non dobbiamo neppure accontentarci di avere come meta il fatto che le Chiese si riconoscano reciprocamente come Chiese. Anche se attualmente ne siamo ancora lontani: questa meta è necessaria, ma insufficiente! Non vogliamo una conciliazione con il mantenimento della separazione, ma un’unità vissuta nella consapevolezza della molteplicità che storicamente si è andata formando.
Oggi la scissione delle Chiese non è né fondata né voluta politicamente. Sono sufficienti motivi teologici, abitudini istituzionali, tradizioni ecclesiali e culturali per mantenere la separazione delle Chiese?
Noi non lo crediamo.
È evidente che, per quanto riguarda cristiani cattolici ed evangelici sono più le cose che uniscono
che quelle che dividono.
È incontestabile che ci sono posizioni diverse nel modo di intendere l’eucaristia, la missione e le
Chiese.
È però determinante il fatto che queste differenze non giustificano il mantenimento della
separazione.
In entrambe le Chiese è grande la nostalgia per l’unità. Le conseguenze della separazione vengono vissute dolorosamente nel quotidiano da cristiane e cristiani.
Apprezziamo gli sforzi fatti negli ultimi anni per fare dei passi avanti nell’ecumenismo. Siamo riconoscenti per il fatto che l’esperienza della comunità nella fede e la collaborazione pratica di comunità cattoliche ed evangeliche localmente si sia sviluppata più velocemente del processo istituzionale e teologico.
Ci appelliamo alle gerarchie delle Chiese, affinché accompagnino gli effettivi sviluppi che avvengono localmente nelle comunità, in modo che l’ecumenismo non emigri in una terra di nessuno tra le confessioni, ma superi la separazione tra le nostre Chiese. Ci appelliamo alle comunità affinché pratichino ulteriormente l’ecumenismo, modellino insieme la vita ecclesiale, usino in comunione gli spazi e cerchino di realizzare l’unità da un punto di vista organizzativo. Come cristiani in una terra di Riforma abbiamo una particolare responsabilità di porre dei segni e di contribuire a vivere la nostra comune fede anche in una Chiesa comune.
Primi firmatari:
Thomas Bach, avvocato, presidente del Deutscher Olympischer Sportbund e vicepresidente del
Comitato Olimpico Internazionale (CIO), campione olimpionico nel 1976
Andreas Barner, manager in ambito industriale, portavoce della direzione aziendale della
Boehringer Ingelheim GmbH, membro del Consiglio scientifico e preside dell’evangelischer
Kirchentag
Günter Brakelmann, teologo evangelico, fino al 1996 professore di Dottrina sociale cristiana alla
Facoltà di teologia evangelica della Ruhr-Universität di Bochum
Andreas Felger, artista, pittore e scultore. Dal 1960 attività indipendente come artista.
Christian Führer, pastore protestante, cofondatore delle “preghiere per la pace” della Chiesa Sankt
Nikolai di Lipsia
Gerda Hasselfeldt, economista, presidente del gruppo regionale CSU al Bundestag, vicepresidente
del Bundestag dal 2005 al 2011
Günther Jauch, giornalista, moderatore e produttore. Moderatore del Talk-show ARD “Günther
Jauch”. Nel 2000 fondazione di una propria azienda di produzione “I & U TV”
Hans Joas sociologo e filosofo sociale, permanent fellow presso il Freiburg Institute for Advanced
Studies (FRIAS).
Friedrich Kronenberg, economista, segretario generale del Comitato centrale dei cattolici tedeschi
(Zentralkomitee der Deutschen Katholiken (1966-1999), membro del Bundestag dal 1983 al 1990
Norbert Lammert, studioso di scienze sociali, presidente del Bundestag, membro del Bundestag
dal 1980.
Hans Maier, studioso di scienze politiche, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi
(1976-1988), ministro del Land Baviera per istruzione e culto (1970-1986)
Thomas de Maizière, giurista, Ministro della Difesa, Ministro degli interni (2009-2011).
Eckhard Nagel, medico e filosofo, direttore medico della clinica universitaria di Essen, direttore
del Institut für Medizinmanagement und Gesundheitswissenschaften (scienze della salute - IMG)
dell’Università di Bayreuth, membro del Ethikrat tedesco, membro del Consiglio direttivo del
presidio del Kirchentag evangelico, presidente evangelico del II Kirchentag ecumenico di Monaco
del 2010.
Otto Hermann Pesch, teologo cattolico-romano. Fino al 1998 professore di teologia sistematica
all’Università di Amburgo.
Annette Schavan, teologa, studiosa di pedagogia, ministro dell’Istruzione e della Ricerca,
vicepresidente del partito CDU
Uwe Schneidewind, economista, presidente del Wuppertal Institut für Klima, Umwelt, Energie
GmbH
Arnold Stadler, scrittore, vincitore, oltre ad altri premi, del Büchner-Preis (1999) e del Kleist-Preis
(2009).
Frank-Walter Steinmeier, giurista, presidente di una frazione del SPD, Ministro degli esteri (2005-
2009); vicecancelliere (2007-2009)
Wolfgang Thierse, studioso di aspetti culturali, germanista, vicepresidente e presidente del
Bundestag (1998-2005). Membro del Bundestag dal 1990.
Günther Uecker, scultore e artista di oggetti, numerose esposizioni e onorificenze internazionali.
Nel 1998-99 allestimento di un luogo di raccoglimento nell’edificio del Reichstag
Michael Vesper, sociologo, direttore generale del Deutscher Olympischer Sportbund (DOSB),
ministro dei lavori pubblici, casa, cultura e sport (1995-2005).
Antje Vollmer, teologa e studiosa di pedagogia, vicepresidente del Bundestag (1994-2005).
Membro del Bundestag (1983-1990 e 1994-2005).
Richard von Weiszäcker, presidente della Re pubblica Federale di Germania dal 1984 al 1994,
presidente del Kirchentag evangelico (1964-1970 e 1979-1981). Membro del Bundestag (1969-
1981).
Alla data dell’11 settembre 2012, alle ore 17, sono 3880 i sostenitori che hanno aderito
all’appello “Ökumene Jetzt!” firmando on line. L’elenco è consultabile sul sito:
http://oekumene-jetzt.de/index.php/unterstuetzer?view=foxpetition
*La “Luther-Dekade" è una serie di manifestazioni iniziate il 21 settembre 2008 in vista del cinquecentesimo anniversario, nel 2017, dell’affissione delle 95 tesi di Martin Lutero a Wittenberg.
NELLA CITTA’ DI CONTURSI TERME, NELLA VALLE DEL SELE.
Materiali per riflettere ancora e di nuovo sul tema
La Chiesa è multiculturale? Un punto di vista indiano
di Michael Amaladoss SJ
in “popoli” del 14 febbraio 2012
Una delle questioni poste dalla globalizzazione è il rischio della proiezione e imposizione a tutti, attraverso i media e il mercato, di un’unica cultura consumistica, quella nordamericana. Essa coinvolge i media, la tecnologia, le comunicazioni, il modo di vestire e nutrirsi. Influisce meno su elementi culturali più profondi come la lingua, gli atteggiamenti, la letteratura e il modo di vivere, pensare e relazionarsi. A questi livelli le culture tendono a difendersi, a volte anche con violenza. Tuttavia, se la Mecca della globalizzazione, gli Usa, non sono diventati monoculturali, è difficile che possano riuscire a imporsi del tutto sulle culture di altri Paesi.
Il nostro è ancora un mondo multiculturale. Mi ha sorpreso sentire affermare questo, di recente, dalla Conferenza episcopale francese. I francesi sono normalmente considerati nazionalisti riguardo alla propria cultura. Tuttavia, in una dichiarazione dei vescovi dello scorso 3 ottobre, si parla di «fine di una certa omogeneità culturale delle società [occidentali]», dovuta alle ondate migratorie.
L’omogeneizzazione culturale resta una tentazione, non solo a livello globale, ma anche locale. In India esiste una cultura dominante che cerca di rendere subalterne tutte le altre, dai dalit ai popoli indigeni, ma anche altrove alcuni cercano di affermare che l’unità di una nazione dipende dall’unità della sua cultura o addirittura vorrebbero l’omogeneità religiosa.
Quindi, difendere il multiculturalismo e il pluralismo religioso è un dovere costante e necessario e siamo lieti che la Costituzione indiana difenda entrambi, anche con misure speciali per la tutela delle minoranze.
Ma c’è un ambito di questa omogeneizzazione globale che solitamente ignoriamo: la Chiesa, un’istituzione che spesso nella storia ha sostenuto di imporre la propria cultura nel nome di Dio. Secondo teologi come Karl Rahner, il Concilio Vaticano II ha reso la Chiesa consapevole di essere una Chiesa globale. Ha promosso l’inculturazione in vari ambiti. In quello della liturgia, ad esempio, l’unico criterio proposto è stato quello della «piena, consapevole e attiva partecipazione» dei fedeli. Si è affermato che si può cambiare tutto tranne ciò che è stato istituito divinamente ed è stato promosso l’emergere di nuovi riti.
Ciò nonostante, e nonostante l’esistenza di tante piccole Chiese orientali, la Chiesa latina ha dominato nella storia recente e anche recentemente la Chiesa ha difeso con forza l’unità del rito latino. La controversia sul Messale in inglese ne è un esempio: è stata imposta una traduzione del testo latino più letterale della versione precedente, nonostante le obiezioni di vescovi ed esperti. Le persone non possono pregare creativamente nella propria lingua, se non in privato. Ciò accade per tutte le lingue del mondo, che devono tradurre il testo latino in modo letterale e ottenere l’approvazione del Vaticano. Il multiculturalismo, raccomandato per il mondo, non sembra essere rispettato nella Chiesa.
Non mi ha quindi sorpreso leggere un recente articolo di Sandro Magister sul sito dell’Espresso. Alla domanda se con Benedetto XVI la curia romana non stia diventando «troppo» italiana, risponde: «Lo storico della Chiesa Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, anch’essa con fama progressista, ha difeso una simile evoluzione. Ha più volte spiegato che la Santa Sede non può uniformarsi a una qualsiasi grande organizzazione internazionale [...], non può divenire una specie di Onu, perché fa parte della Chiesa romana e deve intrattenere con quest’ultima un legame ecclesiale, umano e culturale particolare». Non è certo un problema, naturalmente, che la Chiesa romana voglia restare romana. Ma allora non dovrebbe cercare di imporre la sua identità sulla Chiesa universale e multiculturale. Quanti dei documenti della Chiesa mostrano più preoccupazione per i problemi culturali di Europa e America che del resto del mondo?
È ormai evidente che da un punto di vista demografico il centro di gravità della Chiesa si sta spostando verso Sud, ma non è così a livello culturale. Lo notiamo anche nelle congregazioni religiose «internazionali», in cui cresce di molto la componente indiana. Un indiano può anche essere eletto Superiore generale della propria congregazione, ma nei capitoli generali i pochi europei e americani rimasti svolgono un ruolo preponderante, forse anche perché facilitati dall’uso della lingua, solitamente inglese, francese o italiano. I documenti che producono sono incentrati su questioni europee e americane.
E i gesuiti? Da diversi anni ci si chiede: che cosa accadrà ai gesuiti con l’ingresso di sempre più persone provenienti dal Sud del mondo? Non saprei dire se questa domanda contenga un elemento di paura. Le nostre Congregazioni generali sono state ampiamente multiculturali, ma alcuni sviluppi e atteggiamenti destano qualche preoccupazione. A Roma abbiamo alcune istituzioni internazionali. Ma sono davvero multiculturali?
Alcuni anni fa, quando si cercavano nuove persone da dedicare a questi istituti, non si scelse fra i teologi che avevano esperienze di insegnamento e riflessione teologica in India, e che potessero quindi portare il contributo indiano in un’istituzione con sede a Roma. Si scelsero invece giovani scolastici che furono portati a Roma per essere formati nella teologia romana, preferibilmente in italiano, per poi continuare a insegnare lì. Questo è multiculturalismo o globalizzazione omogeneizzante?
Ancora: ai nostri teologi, che magari già conoscono due lingue dell’India oltre all’inglese, si chiede che imparino altre due o tre lingue europee. Ma ai teologi occidentali che insegnano in un’istituzione multiculturale si richiede di imparare lingue asiatiche o africane? E se anche non conoscono queste lingue, possiamo almeno aspettarci che abbiano familiarità con le teologie e le culture del Sud del mondo, considerato anche l’alto numero di studenti che provengono da quei continenti?
Nel 2010 in Messico, il Padre generale dei gesuiti, Adolfo Nicolás, ha fatto un’osservazione stimolante durante un incontro internazionale sull’istruzione superiore: «Mi colpisce il fatto che nella Compagnia abbiamo problemi con la formazione. Da circa vent’anni registriamo vocazioni da nuovi gruppi: aborigeni, dalit in India e altre comunità marginali. Le abbiamo accolte con gioia perché ci siamo mossi verso i poveri e i poveri si sono uniti a noi. Questa è una meravigliosa forma di dialogo. Ma ci siamo anche sentiti un po’ incapaci: come formiamo queste persone? Pensiamo che non abbiano sufficiente istruzione alle spalle e quindi offriamo loro uno o due anni di studi in più. Non credo che sia la risposta giusta. Credo che la risposta giusta sia quella di chiederci: da dove vengono? Qual è la loro formazione culturale? Quale visione della realtà ci portano? Noi dobbiamo accompagnarli in un modo diverso. Ma per farlo ci serve un enorme sforzo di immaginazione e creatività, un’apertura verso altri modi di essere, sentire, relazionarci».
In altre parole, quando diventeremo davvero multiculturali nel mondo, nella Chiesa e nella Compagnia di Gesù?
Michael Amaladoss SJ
Gesuita, tra i più noti teologi indiani,
è direttore dell’Institute for Dialogue with
Cultures and Religions a Chennai.
© FCSF - Popoli
"JCALL": PER IL FUTURO DI ISRAELE E PER UNA PACE GIUSTA, EBREI D’EUROPA APPELLO SU "LE MONDE". ________________________________________________________________________
Rapporto shock sui danni provocati dall’uso di armi segrete nel conflitto lanciato da
Israele. Sui corpi feriti trovati metalli tossici e sostanze cancerogene
«La guerra di Gaza causò mutazioni genetiche»
Le analisi. Condotte dai ricercatori di tre Università, coinvolta anche Roma
Mezzi sperimentali. Non hanno lasciato schegge o frammenti sui corpi colpiti
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 14.05.2010)
«La guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati». Così scriveva David Grossman riflettendo sulle conseguenze dell’operazione Piombo Fuso scatenata da Israele nella Striscia di Gaza. Quella ferita continua a sanguinare e come un tragico Vaso di Pandora da quella prigione a cielo aperto e isolata dal mondo che è Gaza, continuano a uscire notizie raccapriccianti.
Come la storia che l’Unità ha deciso di raccontare dopo aver compiuto i necessari riscontri. Una storia sconvolgente. Metalli tossici ma anche sostanze carcinogene, in grado cioè di provocare mutazioni genetiche. È quanto individuato nei tessuti di alcune persone ferite a Gaza durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. L’indagine ha riguardato ferite provocate da armi che non hanno lasciato schegge o frammenti nel corpo delle persone colpite, una particolarità segnalata più volte dai medici di Gaza e che indicherebbe l’impiego sperimentale di armi sconosciute, i cui effetti sono ancora da accertare completamente.
La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie attraverso analisi di spettrometria di massa effettuate in tre diverse università, La Sapienza di Roma, l’Università di Chalmer (Svezia) e l’Università di Beirut (Libano) è stata coordinata da New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l’impiego delle armi non convenzionali per investigare i loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. La rilevante presenza di metalli tossici e carcinogeni, riferisce la commissione in un comunicato, indica rischi diretti per i sopravvissuti ma anche di contaminazione ambientale. I tessuti sono stati prelevati da medici dell’ospedale Shifa di Gaza City, che hanno collaborato a questa ricerca e classificato il tipo di ferita delle vittime. L’analisi è stata realizzata su 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime.
I campioni che fanno riferimento alle prime quattro persone risalgono al giugno2006, periodo dell’ operazione «Piogge estive». Quelli che appartengono alle altre 9 sono state invece raccolti nella prima settimana del gennaio 2009, nel corso dell’operazione Piombo Fuso.
Tutti i tessuti sono stati esaminati in ciascuna delle tre università. Inglobare schegge o respirare micropolveri di tungsteno, metallo pesante e notoriamente cancerogeno, non potrà che provocare nella popolazione sopravvissuta o che vive nei dintorni un aumento della frequenza di insorgenze tumorali.
Sono stati individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature da fosforo bianco e amputazioni. Gli elementi di cui è stata rilevata la presenza più significativa, in quantità molto superiore a quella rilevata nei tessuti normali, sono: alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto, mercurio, vanadio, cesio e stagno nei campioni prelevati dalle persone che hanno subito una amputazione o sono rimaste carbo- nizzate; alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto e mercurio nelle ferite da fosforo bianco; cobalto, mercurio, cesio e stagno nei campioni di tessuto appartenenti a chi ha subito bruciature superficiali; piombo e uranio in tutti i tipi di ferite; bario, arsenico, manganese, rubidio, cadmio, cromo e zinco in tutti i tipi di ferite salvo che in quelle da fosforo bianco; nichel solo nelle amputazioni. Alcuni di questi elementi sono carcinogeni (mercurio, arsenico, cadmio, cromo nichel e uranio), altri potenzialmente carcinogeni (cobalto, vanadio), altri ancora fetotossici (alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese). I primi sono in grado di produrre mutazioni genetiche; i secondi provocano questo effetto negli animali ma non è dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo; i terzi hanno effetti tossici per le persone e provocano danni anche per il nascituro nel caso di donne incinte: sono in grado, in particolare l’alluminio, di oltrepassare la placenta e danneggiare l’embrione o il feto. Tutti i metalli trovati, inoltre, sono capaci anche di causare patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle. La differente combinazione della presenza e della quantità di questi metalli rappresenta una «firma metallica».
«Nessuno - spiega Paola Manduca, che insegna genetica all’Università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group - aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”. «La presenza - prosegue - di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, anche le bruciature da fosforo bianco contengono molti metalli in quantità elevate. La loro presenza in tutte queste armi implica anche una diffusione nell’ambiente, in un’area di dimensioni a noi ignote, variabile secondo il tipo di arma. Questi elementi vengono perciò inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l’attacco militare. La loro presenza comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite». L’indagine fa seguito a due ricerche analoghe del Nwrg. La prima, pubblicata il 17 dicembre 2009, aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree di crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose.
La seconda ricerca, pubblicata il 17 marzo scorso, aveva evidenziato tracce di metalli tossici in campioni di capelli di bambini palestinesi che vivono nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani all’interno della Striscia di Gaza. Una conferma viene anche da attendibili fonti mediche palestinesi indipendenti a Gaza City contattate dall’Unità. Tra queste, Thabet El-Masri, primario del reparto di terapia intensiva presso l’ospedale Shifa di Gaza, il dottor Ashur, direttore dello Shifa Hospital e il dottor Bassam Abu Warda direttore della struttura medica attiva a Jabalya, il più grande campo profughi della Striscia (300mila persone). «L’occupazione di Gaza - riflette Gideon Levy, una delle firme del giornalismo israelianoha semplicemente assunto una nuova forma: un recinto al posto delle colonie. I carcerieri fanno la guardia dall’esterno invece che all’interno». Ed è una «guardia» spietata.❖
La violenza rituale del «melting pot» romano
Un nuovo volume della Fondazione Valla presenta i testi che celebrano la nascita di Roma e le sue mitologie, a cominciare dal ratto delle Sabine
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 08.05.2010) *
Violenza e rapimento, trasgressione e violazione, sono i primi atti compiuti per mutare un ordine e stabilirne uno nuovo.
Dopo la fondazione di Roma, Romolo, ispirato dal padre Marte, decide di prendere con la forza le donne che i popoli del Lazio gli negano, perché disprezzano il suo popolo di pastori.
Organizza giochi in onore di Posidone, ai quali invita gli abitanti delle città vicine. Il ratto delle donne sabine avviene con l’inganno durante il rito.
La violenza ha uno scopo matrimoniale. I Romani vogliono che sia sancito il loro diritto al connubio e alla fusione dei popoli. Alla guerra che segue, al tradimento di Tarpeia in favore dei Sabini, punito con la morte, subentra la riconciliazione tra i popoli: la vogliono le stesse donne rapite.
Dietro lo schema del ratto rituale (affine ai riti di passaggio), diffuso in tutto il mondo, benché più raro in forma collettiva, si celano concezioni del mondo estremamente complesse.
I Romani assimilano Greci, Etruschi, Italici, Orientali, sacralizzano ogni atto e concetto con la stessa concreta mania distintiva degli antichi Vedici.
Nei luoghi consacrati della fondazione della «Roma quadrata» a partire dalla metà del IX secolo a.C. e della sua estensione territoriale, ogni costruzione, distruzione, ricostruzione, prevedeva sacrifici, uccisioni rituali, la città dei vivi si sosteneva sui morti, passati violentemente nell’aldilà.
Questo rapporto ctonio, e celeste, per l’osservazione degli astri e del Tempo nel calendario (lunare e di dieci mesi fino ad età regia), indica la struttura che regola uomini e donne sulla terra.
Quando Augusto si instaurò come nuovo Romolo, nella sua domus inglobò la «Roma quadrata» del fondatore, vi restaurò il Lupercale, il «presepe» di Romolo e Remo nel proprio santuario, definì il calendario solare riformato da Cesare.
Singolarmente, la cappella palatina di Santa Anastasia di età costantiniana, che si affiancò alla domus , iniziò a celebrare lì il Natale cristiano, il presepe nuovo rispetto all’antico.
E le donne? Le donne sono la terra. Che viene presa e posseduta. Le donne diedero allora i nomi alle curie. Una consolazione, rispetto al principio del ratto? No. L’interpretazione simbolica rispetta la violenza reale. Nemmeno sant’Agostino è immune dall’idea del possesso - legittimo, attraverso la violenza: «il vincitore avrebbe conquistato per diritto di guerra le donne che gli erano state negate ingiustamente; invece le rapì contro ogni diritto di pace e fece una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente sdegnati» ( La città di Dio, II, 17).
Si crede che Roma sia conosciuta. Eppure le infinite denominazioni di Giove, Giunone, Venere, di figure come Conso, Pico, Bona Dea, Acca Larentia, Tacita Muta, Anna Perenna, riti come i Matralia, sono ancora nascosti nelle viscere della città. Penso al ritrovamento straordinario (1999) del deposito di Anna Perenna, che presiedeva all’anno, al cibo, alla magia. Questo libro dimostra fino a che punto sia possibile rivedere la realtà antica di Roma, attraverso l’analisi comparata di fonti mitiche, etnografiche, letterarie, artistiche, epigrafiche, giuridiche, di tutti gli studi storici nel loro complesso, alla luce delle più recenti indagini archeologiche stratigrafiche: condotte fino a raggiungere la terra vergine.
*
A cura di Andrea Carandini
LA LEGGENDA DI ROMA
Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio
Fondazione Valla/ Mondadori Pagine 452. Euro 30
Il mea culpa che Ratzinger non fa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 21 marzo 2010)
Finora puntava rigidamente verso il buio, ora sembra orientarsi al contrario verso la luce. Questa svolta radicale, di centottanta gradi, della barca di Pietro annunciata dall’attesissima lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda pubblicata ieri, non può che essere salutata con soddisfazione. Ma la genericità dei discorsi non basta.
Non sono soddisfatte soprattutto le migliaia di vittime devastate nel profondo da fatti di violenza gravissimi. Chiedevano una assunzione di responsabilità personale da parte del sommo pontefice, un mea culpa chiaro e tondo, e si ritrovano con un vero e proprio scarico di responsabilità sui suoi sottoposti.
«Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori - dice il papa ai vescovi irlandesi - avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Chiedevano modificazioni strutturali del sistema chiesa come ad esempio almeno una apertura verso il superamento dell’obbligo del celibato ecclesiastico. Nemmeno un accenno.
Chiedevano meno indottrinamento catechistico dei bambini e più Vangelo. Non un parola. Chiedevano attuazione pratica reale del Concilio e si ritrovano con l’accusa del papa al «frainteso» approccio al Concilio Vaticano II. Chiedevano meno potere della casta sacerdotale, meno assolutismo monarchico della gerarchia e più democrazia o almeno più circolarità comunitaria nella pastorale, nei riti, nella nomina dei vescovi e dei parroci, unica soluzione alla mancanza di trasparenza. E si trovano solo una frase un po’ sibillina del papa in cui tra le cause enumera anche «una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità».
Hanno ragione le vittime ad essere insoddisfatte. Ed è al pari comprensibile l’insoddisfazione di tanti e tante cattolici a cui non basta questa virata della rotta quando è la barca stessa che sta facendo acqua da tutte le parti e che va a fuoco. Non basta l’annuncio di una «Visita Apostolica in alcune diocesi dell’Irlanda, come pure in seminari e congregazioni religiose».
E qui mi sento di esprimere un bisogno che sta emergendo dalla base della chiesa seppure ancora troppo timidamente: riprendere con fede e amore la scelta di considerare l’obbedienza non più una virtù, vincere la paura di drizzarsi in piedi di fronte al potere con tutta la forza della coscienza alimentata dalla rete di relazioni comunitarie e dal Vangelo. Uscire dal silenzio, dai mugugni sussurrati, dalle frammentazioni delle conventicole, dal condizionamento di diadi muffite: dentro/fuori, credenti/non credenti, sacro/profano, obbedienza/disobbedienza e collegare con umiltà ma anche con determinazione le tante e tante esperienze ecclesiali che maturano nell’ombra, chi più dentro e chi più fuori e chi alla frontiera. Senza esclusioni né emarginazioni. Tutto questo sarebbe l’attualizzazione della più genuina tradizione cristiana.
Il cristianesimo è nato così, dal coordinamento di piccole comunità ed esperienze eretiche, è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni, nella storia di questi due millenni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. La liberazione dal dominio del sacro non si è mai interrotta. Ed oggi occorre forse ridarle forza e visibilità.
di Enzo Mazzi (il manifesto, 20 marzo 2010)
La pedofilia del clero è un fenomeno antico, come del resto la pedofilia intra-familiare. Se oggi emerge e fa scandalo non è necessariamente perché tale fenomeno si sia aggravato ma perché le vittime e i loro genitori hanno il coraggio di denunciare gli abusi. Si conferma ancora una volta il paradigma storico che da sempre anima i movimenti dal basso, le comunità di base e questo stesso giornale: la salvezza del mondo viene dalla forza delle vittime.
È grazie a loro, alle vittime coraggiose, che finalmente si è rivelata la fallibilità, reale umana, dell’«infallibile» supremo pontefice, il quale ha dovuto scusarsi, in qualche modo e mai abbastanza, firmando una lettera che riconosce la necessità di cambiare strada. È grazie a loro che molti vescovi, maestri, padri e dottori, hanno dovuto chinare il capo, perfino dimettersi e imparare a tornare uomini fragili scendendo dal piedistallo della sacralità. È grazie a loro che la Chiesa cattolica tutta, la quale si autodefinisce «indefettibile», ha mostrato il suo volto intimo più vero, di realtà defettibile, precaria, umana, ispirata dal messaggio e dalla testimonianza di un uomo che ha detto «se il seme non muore non porta frutto».
La pedofilia è un crimine e quella dei preti lo è a un livello di gravità e pericolosità particolarmente pesante. Il «sacro», cose sacre, persone sacre, luoghi e tempi sacri, proprio in quanto realtà separata tende ad annullare la sacralità dell’esistenza normale, esclude la sacralità del tutto e quindi è implicitamente e intrinsecamente fonte di violenza. Ma se il sacro si rende responsabile di esplicite forme di violenza, come nella pedofilia dei preti, allora la violenza esplicita e quella implicita si potenziano reciprocamente. Il colpevole di turno Gli episodi di pedofilia che stanno emergendo in tutto il mondo evidenziano contraddizioni e deficienze strutturali dell’istituzione Chiesa. È fuorviante scaricare tutto e solo sul colpevole di turno. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e ne deve rispondere verso le vittime e verso la giustizia; ma la responsabilità individuale non assolve affatto le responsabilità dell’istituzione. Vari analisti del fenomeno della pedofilia nella Chiesa e lo stesso Benedetto XVI arrivano a parlare di tolleranza zero, utilizzando acriticamente il linguaggio della destra estrema, ma si guardano bene dal cercarne le radici nella struttura istituzionale ecclesiastica. Sarebbe invece proprio lì, nella struttura del sacro che andrebbe applicata la tolleranza zero.
È nota ormai la relazione che c’è fra il sesso e il potere. Già per i greci ed i romani il fallo era simbolo di potere. Nell’antica Roma non di rado le dimensioni e la forma del pene agevolavano la carriera politica e militare. Tutto ciò che si erige sembra essere un riferimento fallico. Gli obelischi, i campanili, le torri, il bastone del comando, lo scettro regale, il pastorale, la stessa mitria vescovile, che cosa sono se non simboli fallici? Non a caso nella Chiesa il potere è riservato rigidamente a chi possiede il sesso maschile e negato in assoluto alla donna. La pedofilia è interna a questo rapporto fra sesso e potere. Chi cerca il bambino o la bambina per soddisfare l’appetito sessuale lo fa per esprimere la propria sete di dominio verso una creatura fragile. È la sete di dominio la radice più profonda della pedofilia. Per cui combattere la pedofilia senza porre la scure alla radice non dico che è inutile ma certo è insufficiente. Ed è la sete di dominio che andrebbe sradicata dalla struttura del sacro. I fedeli, perenni bambini Fa ancora parte di una pastorale «normale», che avrebbe dovuto essere superata nel dopoconcilio ma non lo è affatto, il condizionamento di coscienze infantili attraverso l’imposizione di sensi di colpa che s’insinuano nel profondo e si trascinano inconsapevolmente per tutta la vita. Per non parlare degli indottrinamenti di un certo modo di fare catechesi e di insegnare religione nelle scuole, che è ancora purtroppo largamente maggioritario. Il Compendio del Catechismo pubblicato di recente dal Vaticano, a domande e risposte preconfezionate, da cui non emerge nemmeno un minimo di senso di ricerca, di autonomia, di coscienza critica, non è esso stesso un invito all’indottrinamento? Come una madre possessiva, sembra che Madre Chiesa voglia mantenere in una perenne condizione infantile i suoi figli, tanto li ama. Se non rischiasse di essere male interpretato, verrebbe voglia di chiamare tutto questo «pedofilia strutturale» della Chiesa, nel senso appunto di amore verso gli uomini e donne perennemente bambini. E la sacralizzazione del potere ecclesiastico, la teologia e la pastorale del disprezzo verso il corpo, il sesso e il piacere, la condanna di ogni forma di rapporto fra sessi che non sia consacrato dal matrimonio, non è tutto questo dominio violento?
C’è in questo momento la tendenza a puntare sulla concessione del matrimonio ai preti rendendo il celibato una scelta facoltativa e non definitiva. Ma è il sacerdozio in sé come casta sacrale detentrice di un potere derivante direttamente da Dio da porre in discussione. È tempo che si crei un grande movimento per restituire al cristianesimo il senso della liberazione dal sacro, in quanto realtà separata, liberazione non solo dalle oppressioni economiche e politiche, ma anche psicologiche, etiche-morali, simboliche. Forse non sparirà la pedofilia ma certo verrà colpita a fondo e non solo quella dei preti.
STORIA. La politica di Benedetto XV al tempo della Grande Guerra ha segnato il percorso della Santa Sede lungo tutto il Novecento
E la Chiesa cercò la pace globale
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale
di ANDREA RICCARDI (Avvenire, 06.02.2010) *
La guerra tra europei era divenuta mondiale. Le nazioni in lotta, attraverso i combattimenti e la propaganda di guerra, allargavano sempre più il fossato che le separava. Era un fatto incontestabile, rilevabile nel panorama internazionale e nelle varie opinioni pubbliche. Di questa lacerazione risentiva la Chiesa stessa nel suo intimo. La guerra mondiale è un terreno invivibile per la Chiesa cattolica, diffusa in tante e diverse nazioni: conduce lo stesso cattolicesimo a una lacerazione interna. Infatti, quella Chiesa cattolica, che Benedetto XV guidava da Roma (dietro le mura vaticane, protetto dalla fragile legge delle Guarentigie, non accettata dalla Santa Sede), soffriva proprio la divisione tra i diversi cattolicesimi nazionali coinvolti nel conflitto, l’uno contro l’altro.
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale, una realtà globale. Si vede come questa Chiesa «cattolica» si confronti con la fervida adesione dei cattolici alla guerra, con il nazionalismo cattolico dei vari Paesi, con la demonizzazione del nemico, operata anche da cattolici di livello. Il predicatore domenicano padre Sertillanges, nel 1917, dichiarava, in presenza dell’arcivescovo di Parigi, dopo la Nota di papa Benedetto, di non volerne sapere della «sua pace». Infatti, la pace di Benedetto, quella da lui ricercata, non era la vittoria di una parte sull’altra, ma la fondazione di un ordine internazionale giusto e stabile, operata anche attraverso il riconoscimento dei diritti e dell’identità delle nazioni, che fino allora erano state conculcate. È una pace perseguita non attraverso le armi, ma con il negoziato e il dialogo.
I nazionalismi lacerano la Chiesa stessa, che è per sua natura soprannazionale. I nazionalismi isolano la Santa Sede dalle nazioni e talvolta dagli stessi cattolici. Ma l’isolamento non spinge il Papa al silenzio e a una prudente inazione. La lacerazione dell’«internazionale cattolica» si sente particolarmente tra le mura vaticane, dove il Papa, ospite di una capitale in guerra dal 1915, non accetta mai di essere appiattito sulle ragioni di una parte. Non si tratta di tatticismo, ma di una posizione coerente con la missione della Chiesa e del suo stesso ministero, che vuole ricordare alle nazioni in lotta che c’è qualcosa al di là del conflitto. C’è la comune appartenenza alla famiglia dei popoli.
Nel vuoto di una famiglia ormai lacerata, il Papa parla e agisce ricordando che i popoli sono fratelli, che debbono agire come se lo fossero, anche se non si riconoscono come tali. È una posizione impossibile nella logica stringente della politica e della propaganda di guerra. Ma Benedetto XV non abdica a questa visione «imparziale», che gli appare dettata non solo dalla «carità» della Chiesa cattolica, ma dalla natura stessa dell’umanità.
La posizione elaborata da Benedetto XV, nei quattro anni di guerra, rappresenta la «filosofia» a cui si rifà l’azione della Santa Sede durante tutto il Novecento per quel che riguarda la pace e la guerra.
Pio XII, che era stato stretto collaboratore di papa Della Chiesa in posizioni di grande responsabilità, ha sotto gli occhi la vicenda della Chiesa nella prima guerra mondiale, quando fa le sue scelte tra il 1939 e il 1945. Ma la filosofia dell’imparzialità, accompagnata dalla ricerca del dialogo e del negoziato come via d’uscita dalla logica delle armi, unita all’impegno umanitario, restano un riferimento decisivo per l’orientamento del cattolicesimo lungo tutto il Novecento. La «dottrina» di Benedetto XV è un punto di partenza decisivo, tra guerra e pace, anche per la Chiesa di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, di papa Ratzinger, che ha voluto prendere il nome di Benedetto, anche per l’azione di pace condotta dal suo predecessore. Si vede chiaramente l’importanza di questo pontificato come laboratorio di scelte destinate a influenzare la vita della Chiesa per un intero secolo.
Chi conosce sommariamente la figura di papa Della Chiesa potrebbe pensare a una figura «profetica» nel senso di un uomo irruento, interventista, implicato in denunce e condanne. Questa è un’idea di profezia invalsa in un periodo della nostra storia, quello dopo il Vaticano II, ma non è l’unica accezione d’essa. Giacomo Della Chiesa è tutt’altro che un irruento interventista. Ha la formazione e l’esperienza del diplomatico: è un realista, come si vede dalla gestione dei suoi rapporti con l’Italia. Il carattere dell’uomo è quello di un tessitore diplomatico di iniziative: possibili.
È un papa che affascinava il giovane Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Il realismo di papa Benedetto non significa, però, l’accettazione della realtà della guerra o l’andare passivamente a rimorchio dietro alle infiammate opinioni pubbliche nazionaliste. C’è nel Papa una indomita passione per la pace che si esprime anche nella capacità di agire contro corrente, rischiando critiche e isolamento. La sua passione si nutre di una partecipazione davvero profonda al dolore degli uomini e delle donne del suo tempo.
* IL LIBRO
Contro l’inutile strage
Esce in questi giorni in libreria il volume di Antonio Scottà «Papa Benedetto XV. La Chiesa, la Grande Guerra, la pace» (Edizioni di Storia e letteratura, pagine 442, euro 45), che ripercorre in particolare la vicenda del Pontefice e il suo impegno per la pace in occasione del primo conflitto mondiale. Dal volume qui anticipiamo ampi stralci della prefazione dello storico Andrea Riccardi.
Il Natale e l’obbligo della felicità
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 21 dicembre 2009)
A Lima, negli ultimi anni, durante la settimana di Natale la percentuale dei suicidi aumenta del 35%. Le ragioni - dice sul Comercio , il più importante quotidiano peruviano, il direttore dell’Istituto Guestalt, Manuel Saravia Oliver - possono essere fin troppo ovvie. Natale è una celebrazione degli affetti familiari, di una raccolta felicità, e chi se ne sente privo o povero ne soffre certo sempre, ma particolarmente in quei giorni. Giorni in cui si ostenta quel calore che gli manca e la cui mancanza si fa più acuta e talora insostenibile.
Quel 35 per cento in più di morti disperati pesa come un dies irae. Chi ha detto che il Natale debba essere un karaoke della felicità, in cui Minnie e Topolino si vogliono eternamente bene, le famiglie sono sempre unite e i buoni sono anche contenti, tutte cose false sia in quella settimana sia nelle altre cinquantuno dell’anno? Il Natale ricorda la nascita di un bambino venuto al mondo nel più grande anche se finora fallito tentativo di portare la pace agli uomini - fallito non per colpa sua, ma perché la pace doveva essere portata, come sta scritto, agli uomini di buona volontà e di questi ultimi se ne vedono pochi. Quel neonato di Betlemme è inoltre destinato, nella sua opera di redenzione, a morire fra tremendi dolori fisici e morali di una morte infame, sulla croce; non promette la felicità, né in pillole né in panettoni, tant’è vero che, vedendo come va il mondo, quel bambino, cresciuto, dirà di essere venuto a portare non la pace, ma la spada. Non è un caso che, a Natale, si pensi sempre meno a lui, sostituito dal faccione paonazzo e svampito di Babbo Natale, giuliva e stolida caricatura della felicità.
Quest’ultima non sembra più essere uno struggente e lacerante desiderio del cuore, bensì un obbligo sociale. Bisogna essere felici; altrimenti, che vergogna. Ma perché la felicità dev’essere come la carta di credito in certi Paesi, nei quali chi non ce l’ha è quasi un reietto, un asociale da disprezzare o tutt’al più commiserare? Tra tante luminarie natalizie, felicità al neon, chi se ne sente escluso può sentirsi indegno, come quel personaggio di Kafka che si risveglia trasformato in scarafaggio, e perdere la stima di sé fino al punto di uscir di scena.
La felicità è una nostalgia, può bruciare come una ferita anche quando c’è, come un amore che ci piomba addosso o come l’incanto della «bella giornata» di cui scrive La Capria, la cui bellezza ferisce il cuore a morte, perché fa sentire tutto quello che ci manca. Non è un rango o un ruolo che si può avere, ma è un mare che ci avvolge; non possiamo avere la felicità, ma essere nella felicità, come in una risata insieme a un figlio che ci fa sentire un’armonia profonda o in un’ora magica e semplice in cui la vita assomiglia al vino che esce da una bottiglia stappata con un amico.
Ogni brandello di gioia e anche di minimo e fugace piacere va afferrato e tenuto stretto più che si può, perché non siamo al mondo per fare stupide, spesso torbide rinunce; ogni dolore va lenito il più possibile e un analgesico che fa sparire un forte mal di testa libera - e dunque eleva - lo spirito non meno di una grande poesia che lo incanta.
Ma non abbiamo il dovere di essere felici, belli e in forma; la vita è certo anche stupida, come sapevano Shakespeare o Flaubert, ma comunque meno dell’Isola dei famosi. Dovremmo lamentarci o addirittura vergognarci quando ci tocca il grigiore dei giorni, la solitudine, la rancorosa stanchezza di un amore che sopravvive a se stesso, la sconfitta, il decadimento fisico e intellettuale, l’invitabile malinteso fra noi e gli altri e pure fra noi e noi stessi? Non è il caso di assumere una posa stoica di eroica forza d’animo, ma piuttosto di arrangiarsi come si può, scansando se possibile i colpi, senza recriminare e senza far troppe domande al tempo che passa, aiutandosi con tutte le protesi fisiche e morali di cui c’è bisogno e cercando di barare un po’ col destino.
Anche a Natale, come in ogni altro giorno dell’anno. Può essere triste - non sempre - essere soli,
ma questo vale per ogni giorno, come l’aver fame che non è mai allegro. L’anno scorso, in questo
periodo, mi è capitato di leggere, nel giornaletto di un liceo di Schio, l’articolo di una ragazzina,
Giulia Baldassarre, che protestava contro lo sciagurato dovere di fare regali di Natale, che rende
quella settimana più affannosa di ogni altra.
Quell’articolo si poneva la stessa domanda posta giorni
fa sul Comercio di Lima da un giornalista peruviano, Adolfo Bazán Coquis, che non credo legga la
stampa scolastica di Schio. A Natale c’è un unico «cumpleañero», uno solo di cui festeggiare il
compleanno: quel bambino di Betlemme. È a lui che andrebbero fatti i regali, non ad altri - se non
a quegli «ultimi» della terra con cui lui si è esplicitamente identificato. E potremmo imitare, anche
per nostro sollievo, la sua festa di Natale, l’unica vera. Nella grotta di Betlemme, quella notte, non
ci sono suoceri, prozii, cognati, cugini di nipoti acquisiti; tutto quel clan che il 25 dicembre si ha il
dovere di invitare e frequentare, anche se in esso ci sono, accanto a persone amate, persone del tutto
estranee e alle quali siamo estranei, persone le quali negli altri 364 giorni dell’anno per noi
sostanzialmente non esistono e per le quali non esistiamo. Nella o davanti alla grotta di Betlemme,
invece, quella notte c’è solo chi ha voluto venire, senza averne l’obbligo e senza averlo deciso né
saputo prima, come i pastori. Ci sono un bue, un asino, verosimilmente alcune pecore; animali
alieni da quei nascosti livori, ambivalentemente mescolati agli affetti, spesso latenti - o esplodenti
nelle grandi famiglie riunite a Natale.
Come sarà stato, in quella grotta, il pranzo di Natale? Niente cena di magro, la vigilia; nessuna ipocrisia di far penitenza rinunciando per un giorno alla carne e rimpinzandosi di pesci prelibati. E immaginabile che i pastori abbiamo portato del latte, formaggi, frutta, uova, forse un po’ di vino, di quel vino col quale, non molti anni dopo, quel neonato compirà il suo primo miracolo. Mangiare e bere insieme in semplicità, senza menù obbligato ma con amore delle buone cose che allietano il palato ed il cuore, è far festa alla vita e a sé stessi - e ogni occasione è buona per farlo, ogni giorno dell’anno. È difficile invece immaginare Maria, Giuseppe e i loro nuovi amici intorpiditi da quelle succulente e mortali portate dei pranzi di Natale che non è lecito rifiutare neanche quando la sazietà, la sonnolenza e la greve digestione danno l’impressione che vita mastichi e macini per la morte.
La Chiesa tuona contro la secolarizzazione, ma - forse ritenendo di dover patteggiare con la sua potenza crescente - quasi sempre esita a dire troppo apertamente che col Natale, con la nascita di Cristo, il nostro Natale non c’entra proprio niente e somiglia piuttosto alla festa delle zucche di Halloween. Ma per una zucca vuota, almeno, non si è mai suicidato nessuno.
SCANDALO IN NUOVA ZELANDA PER L’IMMAGINE AFFISSA FUORI DA UNA CHIESA ANGLICANA
E se accade con l’Islam?
Cartellone blasfemo scatena la polemica. E se fosse accaduto con l’Islam?
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa,19/12/2009)
Polemica in Nuova Zelanda per un cartellone pubblicitario raffigurante San Giuseppe e la Vergine Maria a letto, appeso fuori da una chiesa anglicana a St. Matthew’s-in-the-city. L’immagine, fatta affiggere dal vicario della chiesa, è accompagnata dalla scritta: «Povero Giuseppe, Dio è difficile da seguire». «Per la nostra tradizione natalizia bimillenaria, Maria è rimasta vergine e Gesù è il figlio di Dio, non di Giuseppe - ha affermato, indignato, Lyndsday Freer, portavoce della comunità cristiana neozelandese - Questo poster è inappropriato e irrispettoso». Secondo un giornale locale, l’immagine sembra suggerire che i due «abbiano appena avuto un rapporto sessuale». Poche ore dopo essere stato affisso, il cartellone è stato deturpato. Qualcuno ha coperto entrambi i volti dei santi e la scritta con della vernice marrone.L’arcidiacono Glynn Cardy, vicario della chiesa di St Matthwès, ha spiegato che il cartellone è stato affisso per «provocare riflessione e dibattito sulle vere origini del Natale». «Il cristianesimo progressista si distingue non soltanto per una visione univoca - ha continuato Cardy - ma anche per instaurare un dialogo con chi la pensa diversamente». E se fosse accaduto con l’Islam?
Primi vagiti
Alla nascita sappiamo già la lingua
I neonati «strillano» con l’intonazione della lingua parlata dai genitori
di Luigi Ripamonti (Corriere della Sera/Salute, 08.11.2009)
Forse è vero che non si finisce mai di imparare, ma certamente si inizia molto prima di quanto si creda. A confermarlo ci pensano due studi su apprendimento e intelligenza fetali. Il primo arriva dall’università di Würzburg, e, forte dell’analisi di 60 neonati francesi e tedeschi, postula che i futuri bambini abbiano un ottimo «orecchio» ben prima di vedere la luce. Talmente buono da assimilare l’intonazione della voce dei propri genitori sin dal terzo trimestre di gestazione e da imparare a imitarla coi propri vagiti. In altre parole i neonati tedeschi, una volta nati, strillerebbero con un’intonazione decrescente «teutonica», mentre quelli francesi si farebbero sentire «in levare», riproducendo in qualche modo l’inflessione della lingua d’oltralpe. Solo una curiosità? Niente affatto, perché il rilievo confermerebbe altri studi che indicano quanto i bambini siano sensibili agli stimoli provenienti dal mondo esterno, linguaggio compreso.
Il secondo studio sulle «facoltà intellettuali precoci» del feto è invece firmato da Irena Nulman dell’Hospital for Sick Children di Toronto, e può consolare le mamme maggiormente vessate dalle nausee gravidiche. Secondo la ricerca, infatti, il disturbo in questione potrebbe essere il segnale che il bebè è destinato ad avere un alto quoziente di intelligenza.
Per arrivare a questa conclusione la dottoressa Nulman e i suoi colleghi hanno eseguito vari test su tre gruppi di bambini tra i 3 e i 7 anni e fra questi, quelli le cui mamme avevano sofferto di nausea durante la gestazione hanno dimostrato in vari ambiti cognitivi (linguistico, matematico etc) performance migliori. Non si sa da che cosa dipenda questa correlazione, ma è certo che i bambini più ’vivaci’ si fanno sentire molto presto. E magari quelli meno «sopportabili» sono quelli che daranno le maggiori soddisfazioni
L’intervento ospitato sulla rivista dei gesuiti, ’Popoli’
Ebrei: ’’Il Papa ha messo in crisi il dialogo’’
Il rabbino capo di Venezia, Richetti: con le parole di Benedetto XVI secondo le quali ’in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana’, si va ’’verso la cancellazione degli ultimi 50 anni di storia della Chiesa’’
Citta’ del Vaticano, 13 gen. - (Adnkronos) - Viene dalla somma autorita’ del cattolicesimo, il Papa, la messa in discussione del dialogo con l’ebraismo. A sostenerlo, con parole pesanti come pietre, scritte nero su bianco in un intervento ospitato dalla rivista dei gesuiti, ’’Popoli’’, e’ il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti. Nell’intervento, nel quale si da’ conto, a nome del Rabbinato d’Italia, dell’attuale crisi nei rapporti ebraico-cattolici in Italia, Richetti spiega che secondo Benedetto XVI ’’il dialogo e’ inutile perche’ in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana’’ e in tal modo si va verso ’’la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa’’. Insomma, sostiene, ’’in quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa e’ la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorita’’’.
E si’ che l’intervento del rabbino e’ preceduto da poche righe in cui ’’Popoli’’ spiega: ’’Il primo passo per un dialogo autentico e’ mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro’’. D’altro canto, oggetto dell’articolo e’ proprio la rinuncia ebraica alla partecipazione alla giornata dell’ebraismo che si celebra ogni anno il 17 gennaio. All’origine della crisi interreligiosa il ritorno della messa in latino secondo il messale di San Pio V nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verita’ cristiana. Una preghiera che in passato aveva peraltro una formulazione ingiuriosa, quella dei ’’perfidi giudei’’, poi modificata da Benedetto XVI nel liberalizzare l’antico rito.
La scelta compiuta dall’assemblea dei rabbini d’Italia, si legge nell’intervento, ’’e’ la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato a manifestarsi quando il Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il modulo da seguire’’.
’’In quella formulazione -scrive il rabbino Richetti- nelle preghiere del Venerdi’ Santo e’ contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla ’verita’’ della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesu’’’. ’’A onor del vero, quella preghiera - prosegue il testo - che nella prima formulazione definiva gli ebrei ’perfidi’, ossia ’fuori dalla fede’ e ciechi, era gia’ stata ’saltata’ (ma mai abolita) da Giovanni XXIII. Benedetto XVI l’ha espurgata dai termini piu’ offensivi e l’ha reintrodotta’’.
Da questo momento in poi, afferma il rabbino, la parte ebraica si e’ presa una pausa di riflessione nel dialogo con la Chiesa cattolica e si e’ avviata una fase di contatti e tentativi di mediazione. ’’Purtroppo -afferma il rabbino capo di Venezia- i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni ’offese’ da parte di alte gerarchie vaticane: ’Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono essere interpretate come anticristiane?’’’.
Ancora, si rileva che non e’ mai arrivata una risposta ufficiale della Conferenza episcopale italiana. Altri prelati hanno affermato, spiega Richetti, che ’’la speranza espressa dalla preghiera ’Pro Judaeis’ e’ ’puramente escatologica’, e’ una speranza relativa alla ’fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro gia’ vietato da Paolo VI)’’.
Ma proprio da qui prende spunto il rabbino per un giudizio estremamente severo: ’’Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identita’’’.
’’Non si tratta, quindi - ha aggiunto - di ipersensibilita’: si tratta del piu’ banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio. Se a cio’ aggiungiamo le piu’ recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perche’ in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana, e’ evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa. In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa e’ la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorita’’’.
’’Dialogare - conclude il rabbino - vuol dire rispettare ognuno il diritto dell’altro ad essere se stesso, cogliere la possibilita’ di imparare qualcosa dalla sensibilita’ dell’altro, qualcosa che mi puo’ arricchire. Quando l’idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sara’ ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant’anni’’.
VIDEO - Rissa tra monaci a Gerusalemme
Fonte Reuters
Una violenta rissa tra monaci armeni e greci ortodossi è scoppiata nella Basilica del Santo Sepolcro, uno dei siti più sacri del cristianesimo. Si tratta dell’ultimo di una serie di scontri tra monaci delle sei diverse confessioni che si contendono il controllo del sito dove secondo la tradizione si trova la tomba di Gesù. - PER VEDERE IL FILMATO, CLICCARE SUL ROSSO.
LIBRI
I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa ( intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita). Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi ( per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico. Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare ( ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca ( e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri ( non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi ( la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post- modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine. Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale ( e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente ( in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.
L’Italia meticcia. Dopo la rivoluzione-Obama, ecco cosa succede e succederù nel nostro paese
La nazione meticcia così gli immigrati ci cambieranno
di Massimo Livi Bacci (la Repubblica, 16.11.2008)
Ci sono prerogative naturali proprie di ciascun individuo che esistono da che mondo è mondo. Spostarsi, scegliere un partner, riprodursi. Spostarsi in cerca di contesti di vita più convenienti: habitat, clima, cibo, relazioni. La scelta del partner e la riproduzione, per vivere e trasmettere la vita. Prerogative che le società hanno condizionato in vario modo, imponendo regole e comportamenti, ma che non possono essere negate o costrette se non alterando i principi naturali della convivenza. Da queste originano le migrazioni e le unioni "miste" tra persone portatrici di caratteristiche diverse, che generano figli nei quali questi tratti confluiscono e si mischiano.
L’umanità si è formata, plasmata, sparsa e articolata sul pianeta, per la forza di questi processi, ora vorticosi, ora più lenti. Ma quanto "diverse" debbono essere le caratteristiche dei partner perché si abbia una mescolanza, un’ibridazione? Questa diversità è senza dubbio una "distanza" fisica (colore della pelle, degli occhi, dei capelli, statura, altre caratteristiche somatiche) ma è anche una "distanza" culturale e sociale (lingua, religione, nazione) che cambia nel tempo e nella storia. Distanze incolmabili in un’epoca si accorciano in un’altra, e viceversa. Così il grado di mescolanza di una società è difficile da definirsi perché il metro che la misura cambia nel tempo.
Siamo ancora lontani dalle cifre degli Stati Uniti, dove tra una generazione la somma delle minoranze sarà la maggioranza della popolazione. Ma anche da noi - oggi è tra coppie miste un matrimonio su dieci e da coppie miste una nascita su otto - una parte importante del futuro si costruirà sui bambini "extraitaliani"
Si usa contrapporre un’America molto mescolata a un’Europa, e un’Italia, assai più omogenee. L’elezione di Barack Obama rappresenta il pretesto mediatico per contrapporre due civiltà, una dinamica e mescolata, l’altra più stagnante e rinchiusa: ma questa rappresentazione rischia di sconfinare in un biologismo deteriore. Tutta l’America - dall’Alaska alla Patagonia, composta da società dinamiche e società stagnanti - è il risultato di un gigantesco processo di mescolanza iniziato con il tremendo shock della Conquista, con la catastrofe degli indios, con il trasporto forzato di dieci milioni di schiavi africani, con l’immigrazione degli europei, con le mescolanze (spesso forzate) tra padroni e schiavi. Negli Stati Uniti questo processo di ibridazione ha avuto un’accelerazione nell’ultimo mezzo secolo, con la rottura della segregazione dei neri e la nuova immigrazione di ispanici e asiatici: minorities numeriche che tra una generazione diventeranno majority secondo le valutazioni recentissime del Bureau of the Census.
In Europa questi processi hanno avuto una storia assai diversa. Prima dell’età moderna l’Europa è un continente aperto che riceve ondate di immigrazione per la via d’accesso del Mediterraneo e attraverso le steppe tra gli Urali e il Mar Caspio, la grande porta orientale. A partire dalle grandi esplorazioni atlantiche, l’Europa cessa di essere meta di immigrazioni e diventa prevalentemente esportatrice di donne e di uomini. Fin verso la metà del secolo scorso, i non rari tratti mongolici tra i nostri compatrioti non erano dovuti a mescolanze recenti, ma alle unioni illegittime di mercanti e signori, veneziani, fiorentini o genovesi, con schiave tratte dall’Oriente. Il fondamentale atlante antropometrico di Ridolfo Livi (pubblicato nel 1896), basato sulle caratteristiche dei coscritti rilevati alla visita di leva, mostrava inequivocabilmente la permanenza di caratteristiche somatiche (occhi chiari, capelli biondi) derivate dall’immigrazione normanna in alcune aree isolate del Sud. Tuttavia, fino alla metà del secolo scorso - prima che la decolonizzazione riportasse in Europa africani, berberi e arabi, assieme ad antillani, indiani o indocinesi - il nostro continente e l’Italia avevano conservato il loro patrimonio umano quasi intatto da influenze extraeuropee, che millenni di immigrazioni e mescolanze avevano contribuito a formare prima dell’età moderna.
Negli ultimi cinquanta anni il corso della storia è cambiato nuovamente. Dopo mezzo millennio, l’Europa ha cessato di esportare risorse umane e ha iniziato a importarne. Consistenti flussi di immigrazione sono affluiti prima dalle ex colonie, poi dalle più varie provenienze man mano che la globalizzazione si è rafforzata. Nel mezzo miliardo di persone che conta l’Unione Europea, gli stranieri non europei sono un numero imprecisato, tra i venti e i venticinque milioni. In Italia gli stranieri superano abbondantemente i quattro milioni, contando anche la numerosa comunità rumena. Si tratta di una collettività in forte crescita (anche se la crisi ne rallenterà temporaneamente il ritmo) per ragioni demografiche ed economiche, che determinerà una nuova fase di mescolanza e ibridazione della nostra popolazione.
Si tratta di un processo complesso, nel quale si debbono distinguere due modalità nettamente diverse. La prima, la più visibile e immediata, consiste nel formarsi e nel crescere delle varie comunità legate dall’origine nazionale, dalla religione, dalla lingua: rumena, marocchina, cinese, albanese, filippina o ecuadoriana. Queste comunità potrebbero perdere gradualmente la loro caratteristica nazionale con il conseguimento della cittadinanza italiana. È un processo non agevole date le regole nel nostro sistema giuridico, ma destinato ad accelerare con l’aumento delle nascite da cittadini stranieri, e soprattutto qualora lo jus soli sostituisse lo jus sanguinis. Tuttavia queste comunità potrebbero restare nettamente separate e "segregate" di fatto, qualora rimanessero strettamente endogamiche. Come è avvenuto negli Stati Uniti, per gli afro-americani, fino a tempi recenti. Oppure per le comunità degli Amish e degli Hutteriti, gruppi riformati emigrati dall’Europa centrale, e rimasti chiusi ed autonomi per secoli.
Tuttavia è dubbio che nel contesto delle società occidentali queste separazioni e distanze possano durare a lungo, senza essere gradualmente erose dalla contiguità, da una vita sociale comune nelle scuole, nei luoghi di lavoro, di culto, di svago. È però vero che la velocità con cui questi processi di mescolanza reale avverranno - l’indice più rappresentativo è la frequenza dei matrimoni misti - sarà determinato dal vigore delle politiche d’integrazione. Le mescolanze saranno tanto più frequenti quanto più verrà perseguita una politica di insediamento abitativo diffuso e non segregato. Se si rafforzeranno le esperienze educative comuni. Se verrà favorita l’ascesa sociale delle seconde generazioni di immigrati e si combatterà il formarsi di una classe subalterna. Se si opererà in modo che le disuguaglianze tra gruppi immigrati e autoctoni si indeboliscano. Nel 2004 i matrimoni misti (per nazionalità, tra italiani e stranieri) furono il nove per cento del totale (per i quattro quinti si tratta di uomini italiani che sposano una donna straniera), tuttavia quasi due terzi degli sposi e spose stranieri erano europei, appena il cinque per cento asiatici, il dodici per cento africani (in prevalenza Nord Africa) e un residuo venti per cento americani del centro e del sud del continente. Sui loro figli - una nascita su otto proviene da coppie miste - si costruirà una parte importante del nostro futuro.
Nella storia di Obama il vigore degli ibridi
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza (la Repubblica, 16.11.2008)
Oggi sappiamo che la divisione degli uomini in "razze" non è giustificata e che la "purezza genetica" nella realtà non esiste. Ma sappiamo anche che sull’incontro tra "diversi" si fonda la forza della vita e della cultura e sono state modellate le più grandi civiltà
Ciò che ci dà più speranza nell’elezione di Barack Obama è che questo grande Paese, che più di mezzo secolo fa ci ha liberato da Hitler, sia anche riuscito a cancellare una delle sue vergogne più gravi: il secolare sfruttamento e disprezzo dei neri. Solo quarant’anni fa negli Stati Uniti la legge ha riconosciuto e imposto la parità di diritti civili. Da noi è prevista dalla Costituzione: eppure, lo immaginate qui un presidente di origine senegalese o keniota, pronipote di uno schiavo?
Resta naturalmente il terribile pericolo che uno dei tanti matti sfrutti un’altra debolezza del sistema americano: l’antica quanto ferrea convinzione dei pionieri che il cittadino debba essere libero di procurarsi qualunque arma ritenga necessaria. La sopravvivenza di questo costume, che mantiene pazzescamente elevata la frequenza di omicidi negli Usa, ha dato occasione a diversi maniaci di uccidere, nel secolo scorso, politici e militanti molto simili a Obama per colore, progetto politico e fascino.
Questa elezione porta anche a riflettere su un fatto importante: Obama è un "ibrido", è cioè il risultato di un incrocio fra due "razze" diverse, un meticcio. Fra gli aristocratici, quando la nobiltà era "di sangue", si diceva anche "bastardo", parola poi diventata un insulto generico. Oggi sappiamo che la divisione della specie umana in razze non è giustificata. La prova più semplice è che chi vuole farlo non riesce a mettersi d’accordo: le classificazioni vanno da due a trecento razze. Darwin lo aveva già notato, e ne aveva indicato il motivo: la variazione che si osserva da una "razza" all’altra è praticamente continua, oltre che molto piccola. Questo non è vero per gli animali e le piante domestiche, in cui l’identità e la "purezza" genetica di una linea prodotta artificialmente hanno anche, spesso a ragione, un valore economico. Proprio in campo applicato, però, si è scoperto quasi un secolo fa che l’ibrido, anziché soffrire di uno svantaggio, ha maggiore vitalità e valore economico rispetto alle "linee pure" o "razze pure" che sono state incrociate per produrlo.
La "purezza genetica" nella realtà non esiste, con eccezioni molto speciali. Se con "purezza" si intendono individui tutti geneticamente identici fra loro, la si può produrre a volontà solo in specie capaci di riprodursi per via asessuata, come è vero di molte piante e di qualche animale, ma non dell’Uomo, dove solo i gemelli identici sono geneticamente uguali: per il resto, la diversità genetica fra individui di una stessa popolazione, qualunque essa sia, è molto più grande di quella fra due qualsiasi popolazioni del mondo.
Il "vigore degli ibridi", come è chiamato, si nota in varia misura per molti caratteri studiati. La prima specie in cui lo si è scoperto è stato il granoturco: quello che si coltiva oggi è praticamente tutto ibrido. Il contadino è costretto a comprare ogni anno il seme e non può tenerlo da parte da un anno all’altro, ma ne ha chiaramente la convenienza. La pratica di produrre ibridi per uso commerciale è stata poi estesa a parecchie altre piante ed animali. E nell’Uomo? In passato, il "divino" sangue reale non si doveva diluire: la pratica di sposarsi fra regnanti imparentati diffuse nelle famiglie reali europee alcune malattie ereditarie, come l’emofilia. Nell’antico Egitto e in altri reami vicini si affermò in più dinastie, nella speranza di perpetuare caratteri desiderabili, l’usanza di sposare fratello e sorella. È una pratica che provoca un’elevata incidenza di malattie ereditarie tra i figli, un aumento della mortalità e una diminuzione di fecondità che alla fine estinguono la "linea pura" che si formerebbe continuando così per parecchie generazioni. Non sorprendentemente, queste dinastie non durarono a lungo.
Oggi in più parti del mondo il matrimonio fra parenti molto stretti non è ammesso; però in altre, non meno numerose, le unioni fra consanguinei (anche cugini primi) raggiungono il cinquanta per cento di tutti i matrimoni. Anche questo diminuisce la fecondità e aumenta la mortalità, ma in misura assai più modesta. Qui però la vera ragione non è il desiderio di aumentare la purezza genetica, ma quello di non disperdere il capitale di famiglia.
È molto probabile che il "vigore degli ibridi" valga anche per l’uomo, almeno sul piano genetico. Il meticcio può avere uno svantaggio sociale, se il suo ibridismo viene riconosciuto, e quello fra popolazioni che provengono da continenti lontani è difficile da nascondere. Soprattutto là dove l’immigrazione da paesi distanti è rara, i tipi fisici insoliti si notano di più, e l’individuo "diverso" all’aspetto può colpire sfavorevolmente chi non vi è abituato. Ne nasce diffidenza, se non timore, dettato dall’ignoranza o da pregiudizi fuorvianti su quel che ci si può attendere da una persona superficialmente un po’ "diversa" da noi.
Un’ipotesi difficile da controllare, ma interessante da tenere presente, è che l’eccellenza intellettuale e spirituale dimostrata da Obama nella sua lunga e combattuta campagna presidenziale possa essere dovuta a "vigore degli ibridi". Non è il primo caso di uomo politico, meticcio di origine, eccezionalmente dotato. Martin Luther King è un esempio molto simile. Nelson Mandela, cui si deve una svolta storica in Africa del Sud, è un ibrido fra due "razze" africane parecchio diverse, entrambe nere, che entrambe godono di poca stima fra i razzisti (anche quelli africani, che pure sono numerosi). In Sud Africa vi sono due sole popolazioni antichissime, lì stanziate da decine di migliaia di anni: i Boscimani e gli Ottentotti (i loro veri nomi sono San e Khoi-Khoi). Mandela dev’essere per metà circa di origine ottentotta, e per il resto bantù, una popolazione che giunse in Sud Africa molto tardi,al termine di una lunga espansione, poche centinaia di anni fa.
Il vigore degli ibridi è dovuto a un fenomeno genetico chiamato "vantaggio degli eterozigoti": un’espressione tecnica che ha lo stesso significato, ma riferito alle singole unità di dna. Per comprendere di cosa si tratta risaliamo a Mendel, lo scopritore delle leggi dell’eredità biologica (1865), che eseguì decine di migliaia di incroci tra "linee pure" di piselli, studiando separatamente caratteri ben visibili e costanti, che non mostravano variazione tra individui della stessa linea, per esempio il colore e la forma dei semi o dei fiori, l’altezza del fusto e così via. Vide che nell’incrocio fra linee diverse compare nella prima generazione di solito soltanto il carattere di uno dei due genitori, per cui tutti gli ibridi di prima generazione sono eguali fra loro e eguali a uno solo dei due genitori. Cioè, se uno dei genitori ha fusto alto e l’altro ha fusto nano, tutti gli ibridi hanno fusto alto, ma il carattere fusto nano non è affatto scomparso e ricompare in proporzioni precise nei successivi discendenti, mostrando chiaramente che entrambi i genitori danno sempre un pari contributo ereditario ai figli. Oggi chiamiamo dna il patrimonio ereditario, e sappiamo che è molto ricco nell’Uomo: ogni genitore contribuisce circa 3,3 miliardi di unità di dna, dette nucleotidi. I caratteri del tipo studiato da Mendel sono di solito prodotti da differenze, fra i due genitori dell’ibrido, in uno solo dei nucleotidi. Il carattere che Mendel chiamò "dominante" perché compare negli ibridi della prima generazione (il fusto alto rispetto a quello nano, per esempio) è sovente più utile all’organismo di quello dominato (che i genetisti chiamano "recessivo", cioè "che si nasconde").
Nella nostra specie, al livello che osserviamo nella vita quotidiana, la fisionomia esterna dell’individuo e parecchi aspetti del suo carattere sono almeno in parte controllati dal dna. In un ibrido fra individui di popolazioni molto lontane il dna dei genitori mostrerà un maggior numero di differenze tra i dna che riceve da padre e madre, rispetto a un individuo i cui genitori sono nati in luoghi vicini. Questo può donare un vantaggio all’ibrido, portando più corde al suo arco: per esempio, una migliore resistenza a un maggior numero di malattie, perché la dominanza fa sì che non sia necessario ricevere da entrambi i genitori il tipo di nucleotide che ci protegge contro una certa malattia, infettiva o meno. Basta riceverlo da uno dei due. Lo stesso ragionamento si può applicare a numerose altre caratteristiche ereditarie, anche di comportamento, compresa la capacità di imparare. L’ibrido può avere insomma un maggior numero di doti, per esempio può essere più adattabile a condizioni ambientali diverse ed eccellere in più capacità.
I politici hanno particolare bisogno di saper lavorare in molte diverse direzioni, data la complessità del loro compito, che richiede di essere buoni oratori, diplomatici, capaci di rispondere rapidamente in situazioni difficili e a persone difficili, di saper analizzare e valutare con buonsenso problemi complessi in campi molto diversi. All’opposto invece un artista, un letterato, un matematico, un musicista, un ingegnere, un industriale hanno bisogno di doti ben sviluppate in una o poche direzioni altamente specializzate.
Ai vantaggi genetici dell’ibrido Obama se ne devono aggiungere anche altri, non genetici, che però hanno un effetto simile: il vantaggio di essere cresciuto in più culture, in ambienti sociali e geografici lontani fra loro - Hawaii, Indonesia, Stati Uniti - ricevendone esperienze e insegnamenti assai diversi. Di avere conosciuto le vite dei neri, dei bianchi, dei meticci, dei ricchi e dei poveri. La sua condizione di ibrido potrebbe forse renderlo più capace della media di ascoltare voci disparate e di parlare a tutti, come la campagna elettorale ha dimostrato. Di avere la visione di un bene comune, fatto di lavoro, istruzione, democrazia e dignità per tutti.
A differenza, in questo, da quei politici bianchi, spesso cresciuti nelle migliori università e nei circoli del potere, che non vedono al di là di ciò che occorre dire a coloro da cui sperano il voto. È forte la tentazione di ipotizzare che il vigore degli ibridi e la varietà delle sue esperienze abbiano contribuito allo sviluppo intellettuale e morale di Obama. Se la diversità è la forza della vita, e il vigore degli ibridi deriva dall’incontro di stirpi diverse, la diversità è anche la forza della cultura e è stata l’humus delle maggiori civiltà. Le sfide che attendono il nuovo presidente degli Stati Uniti sono immani: è incoraggiante pensare che le sue origini e la sua storia lo abbiano attrezzato per affrontarle.
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
*
L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
Pirandello: la fede nata dalla terra e dal Caos
Ricostruita la storia della famiglia e della casa del drammaturgo; che ebbe due zii preti (uno quasi santo) e una madre molto pia
di Andrea Bisicchia (Avvenire, 05.06.2007)
Il lettore de La campagna del Caos di Gianni Di Falco (Editrice Petite Plaisance, Pistoia, euro 13), dinnanzi a una documentazione per nulla nota agli studiosi pirandelliani, essendo costruita su documenti demaniali e catastali in molti casi inediti, finisce per trovarsi in un pianeta sconosciuto per quanto riguarda la fanciullezza di Luigi e gli anni della sua formazione familiare. L’autore, in fondo, ricostruendo la storia del Caos, finisce per ricostruire quella della casa natale di Luigi Pirandello, addirittura prima della nascita, partendo dal matrimonio tra Stefano Pirandello e Caterina Ricci Gramitto, donna religiosissima, sorella di don Vincenzo morto in odore di santità, e di don Innocenzo al quale la tenuta del caos verrà intestata, dopo una lunga trattativa con il barone Salvatore Ricci.
Se da una parte scopriamo che la storia del Caos risale addirittura al 1600, e che soltanto dal 1800 appartiene, dopo varie vicissitudini che stanno dietro al diritto di enfiteusi, agli antenati di Pirandello, dall’altra parte comprendiamo meglio perché il sentimento del sacro sia presente nell’opera pirandelliana, vista l’educazione materna e il suo accentuato cattolicesimo. Il rapporto che Pirandello ebbe con la fede lo ritroviamo, in maniera tormentata, in alcune novelle come, Il tabernacolo (1903), Dono della vergine Maria (1899), La Sagra del signore della nave (1925), La storia dell’Angelo Centuno, utilizzata anche in una scena dei Giganti della montagna (1936), per non parlare del tema del sacerdozio che sviluppa in Lazzaro. Scopriamo inoltre che Pirandello era ossessionato dall’oltre, problema che ritroviamo in gran parte della narrativa e del il teatro. Ne I quaderni di Serafino Gubbio operatore, Pirandello scrive: «C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo». Mentre in Uno nessuno, centomila (1925), Pirandello distingue un Dio di fuori e un Dio di dentro, tanto che il protagonista Vitangelo Moscarda dirà: «A me è bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio». In quegli anni, scrivendo a don De Luca, Pirandello evidenzia ancora questo suo bisogno di fede: «Io ho una fede in Dio, non so se vera per lei, prete, ma fermissima, alla quale ho dovuto obbedire, offrire dolorose rinunzie». Ma è ne I Giganti della montagna, il suo testamento artistico e direi spirituale, che Pirandello sostiene la necessità dell’oltre, dell’invisibile, quello che ci mette in contatto con Dio e con l’infinito. Queste considerazioni mi sono venute in mente approfondendo le figure degli zii preti che, tra l’altro, occupavano un posto importante nella cattedrale di Agrigento e meglio ancora quella della madre, donna pia e devota alla quale Di Falco fa continui riferimenti, raccontandoci anche certi aspetti drammatici del suo matrimonio con Stefano Pirandello dovuti a difficoltà economiche causate da un crollo finanziario che lo vedeva protagonista, ai quali dovette assistere anche il giovane Luigi. La campagna del Caos divenne pertanto il teatro di questa crisi, tanto che Pirandello ne risentì durante gli anni del suo sviluppo culturale e spirituale compiutosi tra Palermo, Roma e Bonn. Di Falco ci accompagna lungo questo viaggio trattando la biografia con i mezzi a cui abbiamo accennato, restituendoci il Caos non solo come spazio fisico, ma come spazio della mente del grande narratore e drammaturgo.
ANNIVERSARI
A settant’anni dalla morte un ritratto «intimo» di Pirandello, scritto dal nipote Andrea. Un genio letterario visto nello «spazio» familiare. Dalla baraonda suscitata dal premio di Stoccolma agli scherzi a tavola, alle canzoncine
E nonno Luigi disse: «Il Nobel? Tutte pagliacciate»
Il grande drammaturgo in casa era affabile, sorridente, ma quando una sua commedia non incontrò il favore del pubblico, si lasciò andare alla collera con i critici. Ce l’aveva poi con Mussolini e i funzionari che gli avevano promesso dei teatri e non avevano mantenuto«Un giorno si udì una discussione animata provenire dallo studio: erano il figlio Stefano e lo scrittore che discutevano di religione. Accompagnati ad assistere, noi nipoti, sentimmo che il nonno non era credente. Ma non è cattivo, ci disse la mamma» «Quando ci richiamarono a casa da scuola perché il nonno aveva vinto il Nobel, trovammo una gran confusione di giornalisti e fotografi. Lui posò alla macchina da scrivere prendendosi gioco del riconoscimento ma dentro di sé era ben contento»
di Vincenzo Arnone;di Andrea Pirandello (Avvenire, 07.08.2007)
A settanta anni dalla morte dello scrittore, nel pozzo letterario di Luigi Pirandello c’è ancora qualcosa di inedito e di interessante. Lo ha scoperto e scritto uno dei nipoti, Andrea, figlio di Stefano, il quale , tra l’altro, due anni fa, diede alle stampe un grosso volume di 372 pagine, Il figlio prigioniero, carteggio tra Luigi e il figlio Stefano, durante la prima guerra mondiale, 1915-18. Pirandello inedito, privato, familiare: nelle sue origini, nella vita, nella professione, nel lavoro teatrale e nelle difficoltà economiche, comuni a tutti gli uomini. Pirandello che ritorna, con la mente, col cuore alla sua fanciullezza e alla fatica di vivere, Pirandello visto dai nipotini, ignari di avere un nonno così grande, letterariamente. Ecco allora il Ricordo del nonno di Andrea Pirandello, il figlio appunto di Stefano.
Uno scritto non apparso fino ad ora in nessun saggio, in nessuna biografia o in nessuno studio degno di particolare nota dello scrittore siciliano. Andrea (nato nel 1925 - undici anni prima della morte dello scrittore - vive a Roma) lo scrisse nel 1986 in occasione di una mostra che si tenne a Milano: «Pirandello l’uomo, lo scrittore e il teatrante». È uno scritto che potrebbe intitolarsi: Pirandello visto dai suoi nipotini, nella vita familiare e con la confidenza che i nipotini hanno verso il nonno, ma anche con la non piena comprensione di tutto ciò che riguarda i grandi, massime se sono dei geni letterari. Anche se scritto in età adulta, tuttavia il Ricordo cerca di cogliere al massimo le emozioni, le intuizioni, la dimensione di divertimento che sono proprie dei bambini, attraverso quel che passava ogni giorno nella vita della famiglia Pirandello in Via Bosio a Roma. E inizia proprio annotando: «Con nonno ci si divertiva». Seguono tante annotazioni di carattere personale, teatrale, religioso (il senso di agnosticismo dello scrittore ), familiare nel senso più banale del termine: gli stornelli, la battute, gli scherzi fatti a tavola, durante i pasti, l’entusiasmo infantile alla notizia del premio Nobel, le collere dello scrittore che arrivavano alle invettive, contro critici letterari, contro Mussolini o i funzionari che gli promettevano dei favori e poi... le piccole delusioni che seguirono all’assegnazione del Nobel, i momenti di tristezza e di depressione per la situazione matrimoniale con la moglie, l’amicizia con Marta Abba di cui soffrì «l’incompletezza del rapporto».
Fino ad arrivare agli ultimi giorni di vita dello scrittore, vissuti dal nipotino con tanto sbigottimento. Vien da pensare come gli epistolari, di diari o i ricordi di familiari come questo, costituiscono come una sorta di discesa alle madri, alle origini di uno scrittore; una dimensione importante e quasi necessaria per l’elaborazione di immagini e di emozioni. «Una parte di ogni vita umana - scriveva Margherita Yourcenar nelle Memorie di Adriano -, persino di quelle che non meritano attenzione, trascorre nella ricerca delle ragioni dell’esistenza, dei punti di partenza, delle origini». Vien da pensare anche a quanto lo stesso Pirandello scrisse a proposito delle origini storiche di ogni scrittore, nel seno della sua vita e della sua famiglia, a contatto con i bambini. «Guai allo scrittore che a un certo punto non si ricorda della sua infanzia, dove ha radici originarie il suo mondo, e non torna fedele all’impegno assunto quando gridò che era nato per esprimere». Questo scritto di Andrea ci aiuta a capire Pirandello uomo e scrittore.
Con nonno ci si divertiva. E credo che anche lui con noi nipoti trovava qualche momento di abbandono e di svago. C’erano giorni o forse ore in cui Pirandello era allegro. Allora anche in famiglia era estroso e si sbrigliava nel suo verso addirittura giocondo. Giocava inventava recitava. La grande confidenza era con mia sorella Ninnì. Era Ninnì che ogni giorno per il pranzo e per la cena correva su tutta contenta per annunciargli che era pronto in tavola. Dall’autunno del 1933 Nonno abitava con n oi, in Via Bosio a Roma, in un appartamento sopra il nostro e per tutte le sue necessità si appoggiava alla nostra famiglia, che era la famiglia del figlio Stefano. Lui appena Ninnì irrompeva nel suo studio smetteva di lavorare, lasciando in tronco un periodo o una battuta di commedia. Sapeva che riprendendo avrebbe subito ritrovato il filo... A tavola, nell’attesa di una portata, era capace d’attaccare e cantare una canzoncina in voga che faceva: «quando suona Veronica, la fisarmonica, gira gli occhi di qua, gira gli occhi di là...» e come trasognati canticchiando ondeggiavano sul ritmo, muovevano la testa e teatralmente roteavano gli occhi come dettava la canzone. Ninnì aveva allora, dal 1934 al 36, dodici tredici quattordici anni. Noi maschi, io e mio fratello Giorgio, più piccoli di tre e quattro anni, seri e tontacchioni, non sapevamo entrare in quelle recite se non come un coro entusiasta. Pieni di ammirazione adoravamo nostra sorella anche per vederla presa dal Nonno alla pari. Forse qualche volta era lei a inventare una variazione e Nonno felice l’assecondava...
Il 9 novembre 1934, di mattina, mandarono a chiamarci a scuola. Dovevamo correre a casa. A casa era piombata la notizia entusiasmante del conferimento del Premio Nobel. Lo studio di Nonno era già invaso da schiere di giornalisti e fotografi e cineoperatori. Una baraonda. Il premiato naturalmente al centro, ma anche noi di famiglia dovevamo farci riprendere in tante pose. Col suo sorriso ilare e bonario che riduceva gli occhi a due spacchi, Pirandello si prestava e fu ripreso a lungo anche alla macchina per scrivere, sulla quale con un pizzico d’insincerità batteva la parola «pagliacciate», ripetendola decine di volte. Erano invece onori piacevolissimi e goduti. Il nobel consacrava definitivamente agli occhi del mondo una grande carriera di scrittore. Ci fu una ripresa di interesse intorno alla sua opera. L’entità stessa del premio era una salutare boccata d’ossigeno. Pirandello aveva un treno di vita dis pendioso e inoltre dava ancora sostanziosi aiuti ai figli, manifestando per questo spesso malumori e sdegni. L’attenzione nuova destata dal premio presto s’attenuò.
Non si sa come, l’ultimo lavoro teatrale pirandelliano, era stato già composto nell’estate del 1934, e andato in scena non fu bene accolto. Da allora Pirandello non scrisse più per il teatro, cosicché non alimentata da nuovi lavori l’attesa di pubblico e critica a mano a mano si spense. Tutto questo aveva ripercussioni in casa. Noi nipoti vedevamo Nonno nelle ore dei pasti. Ho detto dei suoi occhi e del suo recitare. Ma cominciammo ad assistere anche alle sue collere dove si manifestava facinoroso nel suo candore. Pirandello era trasparente come il Paolino di L’uomo, la bestia e la virtù, non nascondeva i moti dell’animo. Ed era uomo di sentimento forte. Perciò talvolta le sue proteste avevano un che di pazzesco. Ai critici detrattori o semplicemente non sostenitori di qualche suo lavoro o delle prove di Marta Abba riservava in famiglia espressioni violente... Il suo astio era anche contro Mussolini e gerarchi e dirigenti, da cui si sentiva tradito. Il regime prometteva di sostenerlo nei suoi progetti per un teatro nazionale o di una rete di teatri comunali, ma non manteneva. E lui a tavola agitato gridava che la vita per lui in Italia s’era fatta impossibile, che voleva riscapparsene all’estero. Se la pigliava anche con Stefano, che cercava più che altro di quietarlo...
Un giorno, in Via Bosio, Nonno era sceso prima del solito al nostro piano e s’intratteneva con Stefano nello studio di questi in una discussione che noi sentivamo animata. Mamma ci chiamò e tutti insieme entrammo nello studio per annunciare che era quasi pronto in tavola. I due ci sorrisero ma non s’interruppero, seguitavano a dibattere. La vertenza era su Dio. Noi capivamo appena, naturalmente. Però intendemmo che Papà parlava della possibilità di un Dio personale, cioè persona; «Perché no ?», udimmo nostro padre dire; Nonno negava quell ’evenienza, ci sembrava. Con la vivacità che sempre mettevano nella contrapposizione, ma senza inimicizia o acrimonia. Al maggior vigore del figlio, Pirandello opponeva alle argomentazioni il suo sorriso arguto, finissimo. Cogliemmo soltanto una sua affermazione strana e memorabile: che se quel Tale si fosse presentato pronunciando la parola «Io», lui si sarebbe inquietato forte; e di nuovo sorrideva col reticolo di rughe intorno agli occhi. Mia madre ci sospinse via come una chioccia preoccupata per lasciare soli i due uomini. E appena fuori della porta ci rassicurava: «Nonno però è buono; non perché parla così dovete pensare che sia cattivo». Noi veramente, e non so dire perché, non eravamo sorpresi dal conoscerlo non credente, né dubitavamo affatto della sua bontà...
Poi l’ultimo ricordo di mio Nonno. Era la fine di novembre 1936. Sei giorni dopo Pirandello si sarebbe messo a letto per una influenza che al terzo giorno si dichiarò invece polmonite-polmonite doppia. Morì la mattina del 10 dicembre. Noi bambini, ammalati anche noi, udimmo sbigottiti il grande urlo sulle nostre teste e un tuono di passi come di gente che fugge al piano di sopra. Pochi attimi dopo sapemmo che Nonno era spirato in quel momento. I parenti e gli amici presenti, all’annuncio avevano gridato e d’impeto erano accorsi alla sua camera.
___
Il libro
Il quarto Meridiano Mondadori
È uscito l’ultimo dei quattro Meridiani Mondadori dedicati al drammaturgo Luigi Pirandello (Nobel 1934). Il Meridiano contiene opere di teatro «Maschere nude» a cura di Alessandro d’Amico e Alessandro Tinterri - e «Opere teatrali in dialetto», a cura di Alberto Varvaro con introduzione di Andrea Camilleri (Pagine XCI - 1919, euro 55.00). Nell’edizione già diretta da Giovanni Macchia, con rigore filologico e ampia interpretazione storico-critica. In «Maschere nude» le opere composte dal 1929 in poi: le opere drammatiche «Bellavita», «O di uno o di nessuno», «Sogno (ma forse no)», «Lazzaro», «Questa sera si recita a soggetto», «Come tu mi vuoi», «Trovarsi», «Quando si è qualcuno», «La favola del figlio cambiato», «I giganti della montagna», «Non si sa come». Per le «Opere teatrali in dialetto», «Lumìe di Sicilia», «Pensaci, Giacuminu!», «’A birritta ccu ’i ciancianeddi», «Liolà» «’A giarra», «Cappidazzu paga tuttu», «’A morsa», «’A vilanza», «La patente», «U’ ciclopu», «Glaucu», «Ccu ’i nguanti gialli»
Testimone imbarazzante per gli antichi, lo sposo di Maria diviene popolare solo nell’Ottocento, come operaio da contrapporre al socialismo. Ma oggi la sua figura viene rivalutata
Giuseppe, il padre che ci manca
Mai immagine di potere, bensì mediatore che risolve situazioni complicate. Un modello contro la crisi della figura maschile
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 28.12.2006)
Oggi, quando la figura del padre è indebolita e messa in discussione dalla procreazione artificiale, più volte si è sottolineato che il santo ricordato nel giorno della «festa del papà», Giuseppe, non è un padre naturale. L’indagine su questa figura evangelica e sulla sua storia nelle società cristiane è di grande interesse, come prova un’importante ricerca appena pubblicata in Francia (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’occident médiéval, Aubier), che parte dagli inizi della devozione allo sposo di Maria. Inizi non facili, se si osserva che come nome di battesimo quello di Giuseppe era pochissimo diffuso fra i cristiani sino alla fine del Quattrocento, quando appunto cominciò a decollare, grazie soprattutto alla propaganda dei francescani. Giuseppe è un personaggio difficile, se non imbarazzante: il dogma della perpetua verginità di Maria lo pone infatti, fin dai primi secoli del cristianesimo, nello spinoso ruolo dello sposo forzatamente casto, capo di una famiglia dove la moglie e il figlio sono entrambi molto superiori a lui.
Per rendere credibile questa situazione l’apocrifo Protovangelo di Giacomo lo raffigura anziano, per adombrarne l’inattività sessuale, e vedovo, per spiegare in questo modo la menzione dei «fratelli» di Gesù nei Vangeli. E l’età avanzata gli è rimasta addosso, nonostante i tentativi - il più importante fu quello di Jean Gerson - di diminuirne l’età, facendo così della castità di Giuseppe una scelta non obbligata che lo avvicina spiritualmente alla Vergine. Anzi, una delle ragioni della diffidenza dei cristiani verso lo sposo di Maria sta proprio in questa sua somiglianza con un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo. Versione dileggiante del ruolo di Giuseppe riproposta anche da molte opere d’arte sacra: queste lo ritraggono come un contadino goffo, che suscita il riso per la sua inabilità di artigiano, riverber andosi sull’incapacità di mantenere dignitosamente la moglie e il figlio. E sino alla fine del medioevo egli non viene mai rappresentato da solo, e sempre un po’ separato dai personaggi più importanti, Gesù e Maria.
Soltanto dal Quattrocento, in nuove rappresentazioni della natività di Gesù, sia Maria che Giuseppe sono inginocchiati davanti al figlio, ad adorarlo nella stessa posizione. È difficile rivolgere le proprie preghiere a un uomo così umile che non sembra capace di soccorrere i fedeli come altre figure più eroiche di martiri o difensori della fede. Il culto dello sposo di Maria, padre putativo di Gesù, si sviluppa quindi solo in età moderna, quando il santo comincia a essere un modello, non solo un protettore, e non diviene davvero una devozione popolare fino all’Ottocento, quando è valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante. Nel 1870 Pio IX lo dichiara protettore della Chiesa universale, e nel corso del Novecento gli verranno dedicate ben due feste, il 19 marzo come patrono e modello dei padri, e il 1° maggio come artigiano, in palese contrappunto con la festa d’origine socialista. Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. Il culto di san Giuseppe, incentrato sulla sua umiltà e sul servizio a Gesù, nasce in ambiente monastico, spesso con sfumature mistiche, come in san Bernardo, che valorizza la sua intimità fisica con il figlio.
Ma sono i francescani, nell’ambito della loro complessiva valorizzazione dell’umanità di Gesù, a proporre Giuseppe come esempio da seguire. Per loro diventa positiva la povertà della sacra famiglia e del suo umile custode, e per i loro superiori non usano il termine «abate», che significa padre, ma quello di «custode», attribuito appunto a colui che doveva custodire il piccolo Gesù e sua madre. Nel promuovere la figura di Giuseppe, più successo dei francescani ebbero però i Servi di Maria, primi a festeggiarlo il 19 marzo, poco prima della festa dell’Annunciazione: il santo costituiva infatti il modello naturale del loro ordine, che ne legittimava l’identità impedendo una fusione con altri ordini mendicanti.
Ma il vero riscopritore dell’importanza teorica del padre putativo di Gesù fu Gerson, che influenzò l’ambiente universitario parigino del primo Quattrocento proponendolo come modello politico di pace e di unione. In un momento di forte crisi del papato, durante lo scisma d’Occidente, il teologo scrive che la Chiesa ha bisogno di nuovi punti di riferimento e di nuovi modelli di mediazione perché Pietro non sembra più sufficiente, e in un sermone pronunciato al concilio di Costanza propone Giuseppe come nuovo modello di guida politica, capofamiglia ma anche umile servitore di Gesù.
La proposta di Gerson non ebbe seguito immediato, ma fu ripresa nel Cinquecento dai francescani, che fecero di san Giuseppe un esempio di padre spirituale, e quindi del clero, mediatore fra Dio e gli uomini. Ma, al tempo stesso, anche modello per i padri naturali in un’epoca che, dopo la svalutazione della paternità naturale di fronte a quella spirituale, aveva il problema di ricostruire in ambito cattolico il modello paterno di fronte alla Riforma che, abolendo il clero, aveva accentuato il ruolo del padre di famiglia. In questa lunga e affascinante storia Giuseppe dunque non compare mai come figura di potere, ma piuttosto si afferma come mediatore, un pacificatore che risolve situazioni complicate. E di un padre così c’è molto bisogno anche oggi.
La «josephologie» parla francese
La «josephologie» muove grandi passi in Francia. Un nuovo vigore di studi ha indotto a fondare nel novembre 2005 presso il santuario di San Giuseppe ad Allex un «Centre Français de Recherche et de Documentation Joséphaines» (http://www.josephologie.info); lo dirige l’archeologo Christian-Michel Doublier-Villette, il quale ha appena firmato «La saga de Saint Joseph», in cui passa in rassegna le fonti (anche apocrife) relative al falegname di Nazareth e delinea il contesto culturale che ne ha influenzato l’interpretazione nei secoli. Il Centro progetta inoltre di coordinare i centri di «giuseppologia» sparsi nel mondo e la creazione sul Web di una banca dati multidisciplinare.
il caso
Il falegname piace pure a Boff e Coelho
(R.Be)
Beh, che il più prestigioso esponente della «teologia della liberazione» si occupasse del vecchio e pio san Giuseppe forse non ce l’aspettavamo... E invece Leonardo Boff, il celebre ex frate brasiliano che è stato una delle bandiere della teologia progressista, dedica il suo nuovo libro proprio a «Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere» (Cittadella Editrice, pp. 240, euro 16,50), per di più con la prefazione di un «mostro sacro» - forse suo malgrado... - della New Age contemporanea: ovvero lo scrittore Paulo Coelho, il quale rivela di avere per il padre putativo di Cristo «una particolare devozione» e di immaginare volentieri che il tavolo dell’Ultima Cena sia stato costruito proprio dal falegname galileo. Da parte sua, Boff interpreta arditamente Giuseppe come una «personificazione del Padre celeste» e quale completamento - insieme a Gesù e Maria - di una «trinità terrena», attraverso la quale «la Famiglia divina si autocomunica alla famiglia umana».
La Sacra Unione di fatto
di Enzo Mazzi *
«Sacra Unione di Fatto», questa è la giusta definizione del modello cristianamente perfetto di ogni famiglia, incarnato da quella che tradizionalmente viene chiamata "Sacra Famiglia". Potrebbe sembrare una battuta spiritosa e dissacrante. È invece una reale contraddizione teologica irrisolta che il cristianesimo si porta dietro da quando è divenuto religione dell’Impero. Costantino si convertì al cristianesimo ma al tempo stesso il cristianesimo si convertì a Costantino. La nuova religione dovette cioè farsi carico della stabilità dell’Impero accettando di sacralizzarne alcuni capisaldi e fra questi proprio la famiglia. Fu un compromesso fatale.
Il cristianesimo non era nato per difendere la famiglia. Anzi all’inizio fu un movimento di superamento del concetto patriarcale di famiglia. La cultura e la teologia predominanti nella esperienza da cui sono nati i Vangeli è di un "radicalismo etico", quasi una rivoluzione, che si propone di oltrepassare la cultura e la teologia tradizionali: «Vi è stato detto..., io invece vi dico... » afferma Gesù in contraddittorio con sacerdoti, scribi, farisei. «Si trattò all’inizio di un movimento di contestazione culturale e di abbandono delle strutture della società» (G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, 2004). Basta pensare alla reazione di Gesù, in un episodio del Vangelo di Matteo: «Ecco là fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: "E chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"».
Un orizzonte nuovo di valori universali si apre in realtà nel Vangelo col superamento del concetto patriarcale di famiglia: da tale oltrepassamento nasce la comunità cristiana, la nuova famiglia, "senza padre" o meglio con un solo padre «quello che è nei cieli». «Nessuno sia tra voi né padre né maestro... » dice infatti Gesù. Se è vero che «la realizzazione pratica dell’etos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia», come ha sostenuto di recente il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università del papa, la Lateranense, se cioè bisogna rivolgersi alle scelte della grazia di Dio per sapere che cos’è la natura, allora bisogna concludere che Dio privilegia "l’unione di fatto" e non la famiglia. Insomma per dirla con parole semplici prima viene l’amore, l’unione, la solidarietà e poi viene il patto, la legge, il codice. Questa sembra l’essenza più profonda della natura umana. Lo dice plasticamente il Vangelo: «Il sabato (cioè la norma) è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato». Il compromesso con l’Impero portò alla attenuazione se non al fatale capovolgimento di un tale etos evangelico.
È questa una intrigante contraddizione per le gerarchie ecclesiastiche del "Non possumus" e della rigida Nota anti-Dico, per i preti, i cattolici e i laici del Family-day.
Una traccia vistosa e significativa di tale contraddizione si trova ancora oggi nel celibato dei preti, religiosi e religiose. Il dogma cattolico mentre considera biblicamente il matrimonio come «segno sacro dell’Alleanza nuova compiuta dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, con la sua sposa, la Chiesa», d’altro lato ha bisogno di un segno opposto e cioè la verginità e il celibato per significare «l’assoluto primato dell’amore di Cristo» (cf. Compendio del Catechismo 340-342). Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 338 pone la domanda: «Per quali fini Dio ha istituito il Matrimonio?». La risposta è questa: «L’unione matrimoniale dell’uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli». Il fine della "generazione/procreazione" fa parte strutturale della natura del matrimonio. Se esclude il fine della procreazione il patto matrimoniale è nullo. Al n. 344 e 345 lo stesso Catechismo dice: «Che cosa è il consenso matrimoniale? Il consenso matrimoniale è la volontà, espressa da un uomo e da una donna, di donarsi mutuamente e definitivamente, allo scopo di vivere un’alleanza di amore fedele e fecondo... In ogni caso, è essenziale che i coniugi non escludano l’accettazione dei fini e delle proprietà essenziali del Matrimonio». Addirittura al n. 347, il rifiuto della fecondità viene additato come peccato gravemente contrario al Sacramento del matrimonio: «Quali sono i peccati gravemente contrari al Sacramento del Matrimonio? Essi sono: l’adulterio; la poligamia, in quanto contraddice la pari dignità tra l’uomo e la donna, l’unicità e l’esclusività dell’amore coniugale; il rifiuto della fecondità, che priva la vita coniugale del dono dei figli; e il divorzio, che contravviene all’indissolubilità».
La contraddizione si avviluppa su se stessa e si incattivisce: Maria e Giuseppe escludendo dal loro matrimonio la fecondità naturale, per amore della verginità di Maria, secondo il Catechismo cattolico compiono un grave peccato.
Il Diritto Canonico conferma il dogma in modo apodottico in vari canoni. Specialmente il canone 1101 sancisce che è nullo il matrimonio di chi nel contrarlo «esclude con un positivo atto di volontà» la procreazione. È in base a queste enunciazioni dogmatiche e normative che il Tribunale della Sacra Rota emette quasi ogni giorno dichiarazioni di nullità del matrimonio, perché anche uno solo degli sposi può provare di aver escluso per sempre la procreazione al momento del consenso matrimoniale. I cattolici che si battono per la difesa e la valorizzazione della "famiglia naturale" e si preparano addirittura a scendere in piazza per scongiurare il riconoscimento delle unioni di fatto e l’approvazione dei Dico molto probabilmente non hanno mai riflettuto su queste contraddizioni, non le conoscono o le allontanano dalla loro coscienza e dall’orizzonte della loro fede. Esse invece sono invece parte integrante della stessa fede. Vediamo meglio perché. Il Vangelo di Matteo racconta che «Giuseppe, come gli aveva ordinato l’angelo del Signore, prese in sposa Maria che era incinta ed ella, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù». Il dogma cattolico aggiunge che Maria aveva consacrato in perpetuo la sua verginità al Signore e quindi nello sposare Giuseppe aveva escluso in maniera assoluta la procreazione, essendo Giuseppe pienamente consenziente con tale esclusione. "Maria sempre vergine", nell’intenzione e nei fatti. Così dice il dogma. Chi lo nega è eretico. Ma con questa esclusione positiva ed assoluta della prole, per lo stesso dogma cattolico e per il Diritto Canonico il matrimonio di Maria con Giuseppe è invalido. Maria e Giuseppe erano una coppia di fatto che oggi il Diritto Canonico non può riconoscere come vero matrimonio. Dio nel momento in cui decide di farsi uomo sceglie di crescere e di essere educato da una coppia, Maria e Giuseppe, che per il dogma e per il Diritto cattolico era unita di fatto in un matrimonio non valido e quindi non era vera famiglia: era appunto una Sacra Unione di fatto.
Dietro una spinta così forte proveniente del Vangelo, da anni ci siamo impegnati, come tanti altri, e con forti conflitti, a immedesimarsi nelle discariche umane prodotte nella "città delle famiglie normali". E lì abbiamo trovato bambini abbandonati per l’onore del sangue, ragazze madri demonizzate e lasciate nella solitudine più nera, handicappati rifiutati, carcerati privati della parentela, gay senza speranza, coppie prive di dignità perché fuori della norma, minori violentati dai genitori, mogli stuprate dietro il paravento del "debito coniugale". La "misericordia" del Vangelo ci ha imposto di non demonizzare anzi di accogliere la ricerca di forme di convivenza meno distruttive. Per purificare lo stesso matrimonio, non certo per distruggerlo. Quei bambini abbandonati, quelle ragazze madri, quegli handicappati, quei carcerati, quei gay, quelle vittime di violenze intrafamiliari, hanno avuto bisogno di "unioni di fatto", magari cosiddette "case famiglia", che se ne facessero carico. Poi anche le famiglie si sono aperte alle adozioni e agli affidamenti. Ma la breccia è stata aperta da "unioni di fatto".
Fine della famiglia tribale e delle sue discariche? Macché. Nuove emergenze incombono. La competizione globale, questa guerra di tutti contro tutti, riporta a galla il bisogno di mura. Il mondo del privilegio non accetta la condivisione e non ne conosce le strade se non nella forma antica della elemosina che oggi è confusa impropriamente con la solidarietà; conosce molto bene però l’arte dell’arroccamento. E di questo bisogno di blindatura approfittano i crociati della famiglia. Guardando bene al fondo, in nome di che si ricacciano in mare gli extra-comunitari? Sono estranei alla nostra famiglia e alla nostra famiglia di famiglie. La difesa a oltranza della famiglia canonica oggi è fonte di esclusione verso i dannati della terra. L’opposizione al riconoscimento delle nuove forme di solidarietà è nel profondo radice di violenza verso gli esclusi. La crociata contro le famiglie di fatto oggettivamente è egoista, oltre i bei gesti e le belle parole e oltre le stesse intenzioni, al di là delle apparenze. Non basta difendere la famiglia naturale. Bisogna ancora una volta guarirla.
È necessario riscoprire il primato dell’amore e della solidarietà oltre i confini di razza, etnia, famiglia, quell’amore responsabile e quella solidarietà piena che sono sacre in radice e rendono sacro ogni rapporto in cui si incarnano. Bisogna ritrovare le strade dell’apertura planetaria della famiglia, di una famiglia purificata e guarita, già annunciate dal Vangelo, nelle attuali esperienze delle giovani generazione e dei nuovi soggetti, con prudenza creativa, senza nascondersi limiti e pericoli, ma anche senza distruttive demonizzazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.07, Modificato il: 13.04.07 alle ore 14.11
LINGUA ITALIANA: LA PAROLA PIU’ BELLA E’ AMORE PER GLI ABITANTI DEL BELPAESE
Roma, 20 dic.- (Adnkronos) - Non c’e’ dubbio: e’ ’amore’ la parola piu’ bella per gli italiani. E’ quanto emerge da una ricerca di Gfk Eurisko riportata nell’ ’Annuario 2006’ della Dante Alighieri, il piu’ completo vademecum della lingua e cultura italiana, curato da Paolo Peluffo e Luca Serianni.
A indicarla il 22% degli intervistati, soprattutto operai (32%). A grande distanza al secondo posto c’e’ naturalmente ’mamma’, citata dall’8%. Al terzo ’pace’ seguita ad un punto di distanza da ’liberta’’. Tra le altre parole piu’ gettonate anche ’famiglia’, ’amicizia’, ’figli’ e ’felicita’. Nella top ten a pari merito: ’ciao’, ’sole’, ’rispetto’, ’vita’, ’democrazia’ e ’Italia’.
* ADNKRONOS, 20.12.2006
OTTO SECOLI DI UNA TRADIZIONE. Risuscitò il ricordo di Gesù tra chi l’aveva dimenticato. Così Tommaso da Celano descrisse la natività inscenata a Greccio da Francesco d’Assisi nel 1220. Una forza evocativa che ha dato vita a uno dei più sentiti riti natalizi del mondo cattolico
Presepio
di Chiara Frugoni (Avvenire, 10.12.2006)
Greccio è famosa soprattutto per la rappresentazione del Natale istituita da Francesco nel 1223. Per questo chiese aiuto a un amico, Giovanni, a cui spiegò che avrebbe voluto che il sacerdote celebrasse la messa all’aperto, nella notte stellata, per richiamare «il ricordo di quel Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo... come fu adagiato in una greppia, quando lo misero sul fieno tra il bue e l’asino». Chiese all’amico di fargli trovare la greppia e il fieno; chiese il bue e l’asino, ricordati soltanto dai Vangeli apocrifi (cioè quelli che la Chiesa non ritenne ispirati da Dio). Sorprendentemente però «dimenticò» i protagonisti principali: la Madonna e il Bambino. Non chiese alcun bambino, reale o in immagine, mentre già ai suoi tempi si usava, a Natale, mettere sull’altare una tavola dipinta che rappresentasse la Natività; spesso sacerdoti o ragazzi, debitamente addobbati, si trasformavano in attori, permettendo al pubblico di seguire gli eventi di quella notte straordinaria.
Fu soltanto l’eccellente capacità oratoria di Francesco, che suscitò in un astante una visione, a colmare il vuoto della mangiatoia. A quell’uomo pio «sembrò che il Bambinello giacesse privo di vita nella mangiatoia, e che Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da quella specie di sonno profondo». Tommaso da Celano commenta: «per i meriti del santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria».
Con quell’insolita rappresentazione e con la sua predica Francesco lanciò un messaggio preciso (nel 1220 il santo per molti mesi si era trattenuto in Terra Santa, dove si combatteva la quinta crociata): era inutile passare il mare in armi e uccidere in nome della fede. L’importante, per un vero cristiano, era avere Betlemme nel cuore, come appunto in maniera illuminante aveva scritto Tommaso da Celano: per effetto della predica di Francesco «Greccio è di venuta come una nuova Betlemme».
Visti in questa prospettiva acquistano allora un preciso significato quelli che, in un primo momento, potevano sembrare elementi di contorno: il bue, l’asino e il fieno. Infatti in tanti commenti dei Padri della Chiesa (ad esempio Agostino e Gregorio Magno) il bue rappresenta gli ebrei, l’asino i pagani e il fieno l’ostia consacrata. Lo riassume mirabilmente Valafrido Strabone: «Cristo fu adagiato nella mangiatoia perché il corpo di Cristo è posto sull’altare». Il bue e l’asino significano gli ebrei e i pagani che verranno a comunicarsi all’altare.
Il Dio che prospetta Francesco non è il Dio soltanto dei cristiani, ma un Dio creatore di tutto, nei cui piani sono compresi perciò anche gli «infedeli», un Dio che non giudica e non condanna, ma accoglie e redime. A Greccio il Bambino nasce di nuovo attraverso la parola trascinante del santo e l’emozione dei presenti; Betlemme è a Greccio e ovunque nella sorprendente soluzione escogitata da Francesco in risposta al bisogno di liberare con un pellegrinaggio armato i luoghi dell’esperienza terrena di Cristo, propagandato allora dalla Chiesa. La pace fu il punto centrale del progetto di Francesco, instancabilmente ricercata per tutta la vita, pace che coincide con l’essenza stessa del Natale: «Pace in terra agli uomini di buona volontà», annunciano gli angeli nella notte santa (Lc 2,14).
pianeta islam
Ma il presepio è davvero un’offesa ai musulmani?
di Samir Khalil Samir (Avvenire, 12.12.2006)
Da qualche anno in Italia si sta diffondendo la prassi di non fare i presepi nelle scuole e nei luoghi pubblici, di non insegnare canti natalizi ai bambini, di non cantarli e di ridurre al massimo i simboli religiosi «per non offendere la sensibilità dei musulmani». Lo stesso fenomeno si ritrova un po’ ovunque in Europa... sempre con la stessa motivazione. All’aeroporto di Roissy (Parigi), da qualche anno, il «Joyeux Noël» è stato cambiato con il laico e prosaico «Buone feste di fine anno». Nel Regno Unito il 74% delle aziende private e numerose istituzioni pubbliche hanno deciso di cancellare i simboli tradizionali del Natale.
Per noi che viviamo nel mondo arabo la reazione è per lo meno sorprendente. I musulmani hanno sempre avuto grande rispetto per il Natale, e spesso anche una certa devozione per questa festa. Il più bel poema arabo che conosco sul significato della nascita di Cristo è stato scritto dal «principe dei poeti» (amîr al-shu’arâ’) Ahmad Shawqi (1868-1932).
«Con la nascita di Issa (Gesù) sono nate la tenerezza,/ le nobili virtù umane, la luce dei cuori e il pudore./ Alla nascita del Bambino, il mondo si è illuminato come all’alba,/ e il suo splendore ha conquistato il mondo e tutto l’universo. (...) Il suo brillio riempie la terra e i mondi di luce,/ e la terra, illuminata, è simile ad un mare raggiante./ Nessuna minaccia né prepotenza né vendetta,/ né spada né conquiste né effusione di sangue!/ Come un angelo ha vissuto in mezzo agli uomini,/ poi, stanco, ha scelto il cielo per dimora». Il Corano recita (Sura III 45-46): «E quando gli angeli dissero a Maria: O Maria, Dio t’annunzia la buona novella d’una Parola che viene da Lui, e il cui nome sarà il Messia, Gesù figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più vicini a Dio. Ed egli parlerà agli uomini dalla culla come un adulto, e sarà dei Buoni». E un hadith («detto») autentico del profeta dell’islam recita: «Ogni neonato è toccato da Satana appena nato, eccetto Maria e suo figlio»; hadith sempre citato a commento di Corano III 36.
In molti Paesi islamici i musulmani partecipano con i cristiani alle festività natalizie. In Libano, negli ultimi anni, le famiglie sciite comprano sempre più alberi natalizi e ci appendono le decorazioni tradizionali del Natale; e quando si chiede loro «come mai?», rispondono: «È una bella festa che piace ai bambini!». Nelle scuole cattoliche il presepio è sempre visitato dai musulmani, non solo per motivi estetici ma per raccogliersi e contemplare il mistero.
Per il Natale 2004 all’Università San Giuseppe, gli studenti dell’Istituto delle Assicurazioni (41% musulmani) hanno offerto centinaia di pranzi per i «Ristoranti del cuore», e 262 volontari dell’Associazione islamo-cristiana «Offri gioia» hanno distribuito 1800 pullover ai prigionieri del Libano. E sulla piazza dei Martiri, al centro della città di Beirut, il governo pianta per un mese un immenso albero con tante decorazioni. Potrei citare centinaia di esempi da vari Paesi musulmani.
Ugualmente, per le feste islamiche, le città sono piene di simboli musulmani. Tra i più bei ricordi che ho, potrei citare le serate di Ramadan al Cairo, con gli amici musulmani, passando parte della notte a Sayyidna al-Hussein (tipico quartiere musulmano) a festeggiare insieme... e ciò da sacerdote gesuita! E quale istituzione cristiana non offre un iftar (cena di rottura del digiuno) ai musulmani durante il Ramadan?
Condividere insieme le feste, ecco che cosa salda la comunità umana. Più affermiamo insieme la nostra identità cristiana o musulmana, più viviamo la solidarietà nel rispetto delle differenze.
Mi domando: è davvero «per non offendere la sensibilità religiosa dei musulmani» che si cancellano i simboli religiosi cristiani? O non piuttosto perché si è persa l’identità cristiana e, in parte, anche l’identità europea? E mi domando ancora: non si tratta forse anche di un pretesto per secolarizzare ancora di più la società europea, come se non lo fosse già troppo? E questa secolarizzazione piace davvero ai musulmani? Non è proprio questo che li urta quando guardano all’Occidente, o quando ci vivono in emigrazione? E Dio ne sa di più...
PIRANDELLO, SCADONO I DIRITTI D’AUTORE
ROMA - Dal primo gennaio del 2007 libertà sui diritti d’autore per pubblicare i libri, romanzi, racconti, testi teatrali, di Luigi Pirandello. Come per ogni scrittore infatti a 70 anni dalla morte scadono i diritti, così come stabilisce la legge in merito. Pirandello è morto giusto il 10 dicembre di 70 anni fa, nel 1936 e al 31 dicembre dell’anno 2006 scadono i diritti della sua opera.
A ricordalo è "Il giornale di Sicilia" che dedica la pagina della cultura a questa notizia, con richiamo in prima pagina. Il quotidiano cita l’art. 25 della legge 22 aprile 1941, n. 633, che spiega che "tali diritti durano tutta la vita dell’autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte".
Come ricorda il giornale la cosa interessante è anche che Pirandello è tra gli autori più rappresentati ed ora, chi ha intenzione di mettere in scena una sua opera, non dovrà più chiedere neanche l’autorizzazione.
ANSA» 2006-12-10 21:57
DIRITTI PROROGATI PER PIRANDELLO? *
Una proroga sui diritti d’autore per Luigi Pirandello: è quanto ha chiesto il nipote del drammaturgo in una lettera inviata alla Siae pochi giorni prima della loro scadenza, fissata al primo gennaio. Sono infatti passati esattamente settant’anni dalla morte dell’autore del «Fu Mattia Pascal», scomparso a Roma il 10 dicembre 1936. Per legge, quindi, a partire dal primo gennaio la pubblicazione delle sue opere, così come la messinscena dei suoi spettacoli, dovrebbe diventare - finalmente - di pubblico dominio. Ma questo non accadrà se verrà accolta l’istanza presentata dal nipote dello scrittore, secondo il quale dovrebbe essere applicata agli autori italiani la proroga di sei anni e otto mesi già prevista per francesi e inglesi.
L’erede di Pirandello ritiene infatti che il prolungamento della durata dei diritti - previsto dal Trattato di Pace del 1947 per i paesi vincitori - possa essere esteso ai nostri autori sulla base di un accordo internazionale, il cosiddetto «Trips», che nel 1994 ha eliminato le discriminazioni tra i paesi vincitori e i paesi che hanno perduto la guerra. Dando notizia della richiesta del nipote di Pirandello (e pronunciandosi -sia pure a titolo personale - a suo favore), il presidente della Siae Giorgio Assumma ha annunciato sulla questione un pronunciamento entro il 15 dicembre da parte del centro studi della Siae.
E la posta in gioco è grande, se si tiene conto che l’ammontare annuo dei diritti per le opere di Pirandello si aggira in un ordine di grandezza di centinaia di migliaia di euro all’anno solo per l’utilizzo dei lavori teatrali. E che soprattutto la decisione non riguarda solo Pirandello, visto che in scadenza ci sono i diritti di altri autori celebri, da Grazia Deledda (morta come il drammaturgo nel 1936) a Gabriele D’Annunzio (scomparso nel ’38). Se, come appare probabile dalle dichiarazioni di Assumma, la Siae si pronuncerà a favore della richiesta del nipote di Pirandello, si tratterà quindi di un precedente che avrà ripercussioni a catena. Con grave danno - ancora una volta - per la libera circolazione della cultura in Italia.
* il manifesto, 12.12.2006
LIBRI
Pirandello toccato dall’Ecce Homo!
Nel saggio di Antonio Sichera l’opera del drammaturgo siciliano viene posta nel punto esplicativo d’interpretazione del «Cristo alla colonna», cuore di tutte le icone
di Rosita Copioli (Avvenire, 24.11.2006)
Antonio Sichera ha scritto un libro complesso, di una erudizione profonda e composita, che la sua passione di filosofo, teologo, filologo sguinzaglia all’inseguimento di uno dei più inafferrabili scrittori moderni. Come Leopardi Pirandello tenta tutte le vie per decifrare l’esistenza, e non se ne cava né un "sistema" nell’accezione classica della parola, né immagini unilaterali. Il suo pensiero e le sue esperienze artistiche sono un’infinita variazione di ipotesi che sembrano contraddirsi, specchiarsi da lati diversi: si rifrangono l’una con l’altra e mutano fino all’ultimo lasciando di sé un’opera aperta, come nel mirabile e incompiuto mito de I giganti della montagna. Occorreva un’immagine più profonda e reale di tutte le altre, radicata nell’infanzia e nella tradizione siciliana, per potere afferrare saldamente il bandolo della matassa, tessere una nuova configurazione di Pirandello.
Il cuore delle icone, il point esatto, scrive Sichera secondo Pascal, è l’Ecce Homo, il Cristo alla colonna, il re spodestato del regno, l’insultato, il deriso, l’incoronato di spine, il flagellato che soffre, il sovrano del cosmo annientato prima del sacrificio sulla croce. È il simbolo dell’uomo denudato al grado più basso dell’esistenza, dove pare impossibile la salvezza promessa. Eppure quella salvezza sarà ridonata da lui stesso, proprio con il compimento dell’abiezione nella morte per croce. In ogni uomo, in ogni personaggio Pirandello scruta le innumerevoli varianti, anche desolantemente negative di quella immagine di Cristo: lo fa con una delicatezza, una sottigliezza, una grazia, un’angoscia, una lucidità, una durezza, un’ironia desolata, perché la solitudine di quella figura può avere tutte le intonazioni dell’intelletto e del cuore.
In Arte e coscienza d’oggi, Pirandello vede in Lear una delle prime icone dell’uomo spodestato nella modernità: a specchio con il buffone, sconvolto dalla follia, figura dell’uomo caduto. Nell’Umorismo, una citazione di Dostoevskij porta a Marmelàdov di Delitto e castigo: il ridicolo miserabile che si riconosce solo «porco», e mentre lo fa è accolto da Dio.
Ancora Pascal offre a Pirandello una cruda interpretazione del mito della caverna in Platone, che esprime tutto il desiderio, l’impotenza di fuggire dalla morte, e la paura incombente (incubo simile nel Taccuino di Bonn, 1889: «La morte! E non saper più nulla. Uscire da questo sogno. E pure è spaventoso morire»): «Ci si immagini un gran numero di uomini in catene e tutti condannati a morte, di cui alcuni siano ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri; quelli che restano vedono la propria sorte in quella dei loro simili e, guardandosi gli uni e gli altri con dolore e senza speranza, aspettano il loro turno. Tale è l’immagine della condizione degli uomini».
Sichera collega la rilettura di Pascal con Il turno, romanzo che segue L’esclusa, dove l’orribile specchio della suocera morta spinge Marta ad accogliere la paura disperata di Rocco, ed entrambi si aggrappano l’un l’altro «lontani dall’Eden e abbandonati da Dio», perché li unisce solo il terrore. Ne I giganti della montagna, il dramma più ricco di condensazioni simboliche, dov’è tutto Pirandello, la salvezza nella magia dell’arte disincarnata, esposta da Cotrone, si scontra con l’ossessione di Ilse a fare dell’arte «carne» per gli uomini. Ilse sarà sbranata (come Diòniso) dai moderni selvaggi dominati dalla tècne. Forse anche qui, nell’essere puri mendicanti di amore, qual è il marito di Ilse, o nel mero esistere dell’olivo in mezzo alla scena, con cui «si risolve tutto», si cela invece, scrive Sichera, «un’ultima odierna e imprevedibile possibilità del sacro». Sichera esegue un compito indispensabile del buon esegeta, quasi completamente dimenticato. Identifica le fonti nascoste dei testi sacri, letterari, filosofici, antichi e moderni, scova simboli, così coglie il point indivisible del suo autore.
Antonio Sichera, Ecce Homo! Nomi, cifre e figure di Pirandello Olschki. Pagine 492. Euro 48,00
l’Anniversario
Gli eventi in Sicilia *
Oggi sarà presentato a Modica il libro di Antonio Sichera di cui si parla in questa pagina. Da ieri all’1 dicembre 2006 infatti nelle città di Catania, Modica e Ragusa Ibla, si svolgerà un articolato programma di eventi celebrativi dei sette decenni trascorsi dalla morte di Luigi Pirandello: «Pirandello tra follia e mito». Critici letterari, poeti, scrittori, filosofi, psicoterapeuti e teologi celebreranno il "ritorno ai testi" . Lo spettacolo teatrale «I giganti della montagna», per la regia di Giovanni Spadola, andrà in scena domani, a Modica, alla Domus S. Petri e il 30 novembre, a Catania, presso la Sala Teatrale "Scenario Pub.bli.co". L’Ars Musica Ensemble metterà in scena il recital «Pirandello in Musica», domani alla Domus S. Petri. Una mostra di dipinti di Franco Fratantonio, dedicati a Pirandello e alla sua operasarà aperta al pubblico a Modica per due settimane.
* Avvenire, 25.11.2006
26 novembre: solennità di Cristo Re dell’Universo
Ha ricevuto dal Padre la sovrana autorità *
di JEAN GALOT
Celebrando la solennità di Cristo Re dell’Universo, accogliamo il titolo "Io sono re" usato da Cristo stesso per definire il senso della sua venuta. Alla domanda formulata dal governatore romano Pilato, Gesù risponde, letteralmente: "Io sono re" (Gv 18, 37). Venuto per insegnare la verità, non esita a svelare la propria identità, anche se questa rivelazione può rafforzare le accuse che vogliono colpirlo. Afferma la sua dignità di re, precisando pure che si tratta di un regno diverso da tutti gli altri.
Quando Pilato gli aveva fatto la domanda, si riferiva a una qualità di re nel popolo giudaico: "Tu sei il re dei Giudei?" Gesù aveva risposto chiedendo se la domanda veniva da una preoccupazione personale o solo da una accusa da parte di altri. L’espressione: "re dei Giudei", sembrava riferirsi a un regno politico, limitato a un solo popolo. Era il genere di regno che Gesù voleva escludere: non voleva rivendicare un potere di natura politica, simile a quello dei re o capi del popolo, e non poteva attribuirsi un potere che si eserciterebbe su una sola nazione. Pilato stesso contribuiva a porre in luce questo limite dichiarando: "Sono io un Giudeo?". Non essendo Giudeo, non poteva sentirsi personalmente interessato dal titolo di "re dei Giudei" attribuito da alcuni a Gesù.
Ma il governatore romano doveva istituire un processo nel quale Gesù era accusato di pretendere al titolo di re. Anche se Pilato non prendeva sul serio tale accusa, era necessario chiarificare le vere intenzioni di Gesù e il fondamento del titolo di re che gli era stato attribuito. Gesù fa capire che il suo regno è diverso da tutti gli altri regni del mondo: "Il mio regno non è da questo mondo" (Gv 18, 36). Questo regno non appartiene al campo delle rivalità politiche e non vuole entrare in competizione con altri regni. Più precisamente, Gesù usa una dimostrazione concreta che il suo regno non è da questo mondo: "Se il mio regno fosse da questo mondo, la mia gente avrebbe combattuto perché non sia consegnato ai Giudei". Presentandosi a Pilato senza difesa, l’accusato mostrava che non rivendicava un potere di natura politica o militare.
Sappiamo che il principio di un regno diverso dai regni politici ha orientato tutto il regno di Cristo nell’umanità. Ma ci furono molti tentativi per far deviare il regno di Cristo verso le ambizioni politiche. Conscio di questo pericolo, Gesù è stato molto categorico nel suo insegnamento sulla natura del regno.
Già nel corso della sua missione terrena, aveva posto l’accento sulla distinzione fra le cose politiche e le cose di Dio: "Date a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare" (Mt 22, 21). Nella moltiplicazione dei pani, spiega il miracolo svelando il progetto d’istituire l’eucaristia che supera ogni cibo corporale; l’autentico volto del Cristo Re è un volto che non è da questo mondo: volto del Figlio di Dio che ha ricevuto dal Padre la sua autorità sovrana.
(©L’Osservatore Romano - 26 Novembre 2006)
Ad Agrigento al via le celebrazioni a 70 anni dalla morte: la sua posizione sul Meridione dopo l’Unità d’Italia
Pirandello e il Sud: disfatta o riscatto?
Assai prima del «Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, il romanzo «I vecchi e i giovani» evidenzia tre fallimenti: il Risorgimento come rinascita del Paese, l’unificazione come liberazione e sviluppo, il socialismo come rivincita dei poveri. Ma sotto accusa è anche l’ideologia "sicilianista" sempre contro lo Stato
di Andrea Bisicchia (Avvenire, 05.12.2006)
Ritornare a parlare de I vecchi e i giovani, scritto da Luigi Pirandello nel 1913 (come faranno gli studiosi di tutto il mondo da domani al 10 dicembre ad Agrigento, riuniti per celebrare i 70 anni dalla morte del grande scrittore e drammaturgo), è un’occasione ghiotta, non tanto per discutere di sorpassate categorie, riguardanti le soluzioni stilistiche o lo "scriver male" di Pirandello (e anche di Svevo), solo perché la sua pagina risultava disarmonica, rotta, disarticolata, con un ritmo della sintassi molto personale, ma per poter rileggere la storia attraverso la narrativa, senza per questo, considerare I vecchi e i giovani il penultimo romanzo storico, se si ritiene che Il Gattopardo possa essere l’ultimo.
Ciò che deve interessarci oggi è l’uso del tempo che Pirandello riesce a fare nel romanzo, il modo di accostarsi ad un’Italia politica di ieri che non è molto dissimile da quella di oggi, con una tematica, direi cinematografica, dovuta alla sua capacità di utilizzare l’ordine logico-temporale con momenti di stasi, per permettere l’inserimento di sequenze e pezzi retrospettivi, oltre che momenti di accelerazione che sembrano accostare il passato al futuro, grazie all’uso trasformistico della politica, all’assenza di ideali nella borghesia, al malcostume, alla corruzione, alla mediocrità, alla pochezza morale che attraversa la classe al potere per oltre un secolo.
Com’è noto il periodo storico, preso in esame da Pirandello, riguarda il biennio 1893-1894, quello della crisi agraria dell’immobilismo edilizio, della prima recessione industriale, dell’adesione di migliaia di lavoratori al partito socialista, della rivolta dei Fasci, dello scandalo del Banco di Roma, della repressione poliziesca, dell’uso spregiudicato di formule come Destra e Sinistra, intese come «generici orientamenti di gruppi notabiliari», secondo una precisa lettura di Salvatore Lupo. All’interno di questa scena, si muovono i vecchi, rappresentati da Gerlando, Ippolito, Cosmo, Caterina Laur entano e i giovani, alcuni del medesimo ceppo familiare, come Lando Laurentano o Stefano Auriti, altri che arrivano alla politica per fare gli interessi di chi la concepisce come fonte di clientelismo, rappresentato da Flaminio Salvo, Ignazio Capolino, mentre dietro di loro, si consumano fenomeni come il brigantaggio, sul quale pesano ancora le inchieste di Sonnino e Franchetti, o come la mafia che alimentavano le ingiustizie e le turpitudini che si perpetravano, protette dai prefetti e dai deputati, stimolate dalle consorterie locali che, come dice Caterina al figlio Stefano, «appestano l’aria delle nostre città, come la malaria le nostre campagne», grazie a «tirannelli locali capielettori», che hanno facilitato «trent’anni di malgoverno» e di omertà, ovvero di quella forza primitiva messa al servizio di interessi privati, mediante intimidazioni ed estorsioni.
Pirandello aveva capito tutto ed era stato anche presago di come l’omertà si sarebbe diffusa colludendo con la politica. Fatte queste considerazioni, I vecchi e i giovani potrebbe essere inserito nei filoni, non solo del romanzo storico, ma anche di quello parlamentare che aveva avuto i precedenti illustri nell’Onorevole Scipione, (non scritto) da Verga, in Dal tuo al mio, sempre di Verga, ne L’Imperio di De Roberto, ne L’ultimo borghese di Enrico Onufrio, in Rubé di Borgese, nel Daniele Cortis di Fogazzaro. Per i primi esegeti della narrativa pirandelliana, il romanzo più vicino a I vecchi e i giovani sarebbe stato I Viceré di De Roberto fonte assai ravvicinata e meditata, tesi sostenuta da Giovanni Macchia.
Questa continuità, col romanzo storico, è stata recentemente, confermata da Giorgio Pullini, col quale, però è in disaccordo Natale Tedesco che, basando la sua lettura sulle categorie di esemplarità ed antagonismo, lo libera da ogni rapporto col romanzo storico e lo addita come il primo tentativo di narrativa pre-espressionistica. Personalmente non credo che la vecchia tesi di Salinari (1960) sia de l tutto tramontata, anche perché, ne I vecchi e i giovani sono evidenti tre fallimenti collettivi, quello del Risorgimento, come rinascita del nostro Paese, quello dell’unità intesa come liberazione e sviluppo, quello del socialismo che avrebbe potuto far rinascere le fasi avvizzite del Risorgimento. A questi aggiungerei l’ideologia "sicilianista" cara a Giarrizzo (1987) sempre pronta ad accusare lo Stato di deprimere la Sicilia.
Insomma, ci troviamo dinanzi ad un romanzo complesso dove, come osserva Enzo Lauretta, le parti veramente nuove e valide sono quelle in cui la realtà ed il personaggio tendono a dissolversi, nel momento in cui viene scompaginato il grande affresco di una società che non riesce a trovare se stessa.
Teatro, ’Sei personaggi’ da record. Oltre 300 mila spettatori, ora sei repliche a Parigi
(ANSA) - ROMA, 11 DIC - Ancora sei repliche a Parigi all’ Athenee-Theatre Louis Jouvet per i ’Sei personaggi’ pirandelliani di e con Carlo Cecchi. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro delle Marche, ha raggiunto in questi anni numeri importanti: 300.000 spettatori, 78 citta’ toccate, 298 recite effettuate sino a oggi. Dopo Parigi, lo spettacolo entrera’ a far parte del repertorio da conservare e mantenere vivo da parte dello Stabile marchigiano, che lo potra’ riproporre per altre tappe all’estero.
ANSA » 2006-12-11 16:42