L’appello su "Le Monde"
"Difendiamo Israele, non le colonie"
ebrei d’Europa in campo per la pace *
PARIGI - «Vogliamo creare un movimento europeo capace di esprimere la voce della ragione». Comincia così l’appello che è stato pubblicato ieri su Le Monde e firmato da noti intellettuali ebrei d’Europa: «Il nostro obiettivo è difendere la sopravvivenza di Israele con la condizione necessaria della creazione di uno Stato palestinese sovrano».
L’appello sarà presentato al parlamento europeo il 3 maggio e ha tra i firmatari gli scrittori Alain Finkielkraut e Bernard-Henri Levy, il Nobel per la Fisica Daniel Cohen-Tannoudji, l’ex presidente della Svizzera Ruth Dreifuss, il rabbino di Bruxelles David Meyer, lo storico Pierre Nora.
Dall’Italia, ha firmato anche Gad Lerner. «L’avvenire di Israele passa necessariamente per la pace con il popolo palestinese e l’affermazione del principio "Due popoli, due Stati"», ricordano i promotori. «Non sottovalutiamo la minaccia dei nemici esterni - continuano - ma sappiamo che il pericolo per Israele è anche nell’occupazione e nel prolungamento di colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est». L’appello è consultabile online al sito jcall.eu. (a. g.)
* la Repubblica 27.4.10
Il discorso
Il dovere della speranza
Un paese ostaggio della disperazione ma io continuo a sognare la pace
di David Grossman (la Repubblica, 09.07.2014)
SPERANZA e disperazione. Ci sono stati anni in cui abbiamo oscillato fra le due. Oggi sembra che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi si trovi in uno stato d’animo nebuloso, piatto, privo di orizzonte. In un torpore ottuso, in un’auto-narcosi.
AL giorno d’oggi, in un Israele avvezzo alle delusioni, la speranza (sempre che qualcuno vi faccia cenno) è immancabilmente insicura, un po’ timida, sulla difensiva. La disperazione invece è disinvolta, risoluta. Pare che parli a nome di una legge della natura o di un assioma che stabilisce che questi due popoli saranno per sempre condannati alla guerra e non avranno mai pace. Agli occhi della disperazione chi ancora spera, o crede, in una possibilità di pace è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo o un visionario delirante, e, nella peggiore, un traditore che, irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di resistenza. In questo senso la destra ha vinto. È riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove servirebbero audacia e flessibilità e creatività, ma perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire «lo spirito israeliano»: quella scintilla, quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza.
Nell’ambito più importante della sua esistenza Israele è quasi del tutto immobile, se non addirittura impotente. Stranamente, però, questa situazione non comporta una sofferenza visibile per i suoi leader e per gran parte dei suoi cittadini che sono bravissimi a compiere una netta separazione tra lo stato di cose esistente e la loro coscienza. Molti israeliani vivono così da molti anni, quarantasette per la precisione, e nemmeno troppo male, laddove di fatto, al centro del loro essere, c’è il vuoto. Un vuoto di azioni e di coscienza in cui si verifica un’efficace sospensione del giudizio morale.
Lo scrittore americano David Foster Wallace racconta di due pesciolini che, mentre nuotano in mare, incontrano un anziano pesce. Salve ragazzi, li saluta l’anziano, come va? Alla grande, rispondono i due. E l’acqua, com’è? Domanda il vecchio. Ottima, gli rispondono. Poi lo salutano e continuano a nuotare. Dopo qualche istante uno dei pesciolini domanda all’altro: dì un po’, ma cosa diavolo è l’acqua?
Ascoltate l’acqua. L’acqua in cui nuotiamo e che beviamo da quarantasette anni. Alla quale siamo talmente abituati da non percepirla. È la vita che scorre qui, ancora indubbiamente piena di vitalità e di creatività ma anche un po’ folle, con un’atmosfera caotica da saldi di fine stagione, da disturbo bipolare in cui mania e depressione si intrecciano, in cui la sensazione di possedere un grande potere si alterna a cadute di profonda debolezza. Una vita che scorre in una democrazia compiaciuta di se stessa, con pretese di liberalità e di umanesimo ma che da decenni si impone su un altro popolo, lo umilia e lo schiaccia. Una vita che scorre nel forte clamore dei media, in gran parte mirato a distrarre l’opinione pubblica e a intorpidire i sensi. Come si può infatti resistere in una situazione simile senza distrazioni, senza un po’ di autonarcosi? Come si possono affrontare, per esempio, le conseguenze della cosiddetta “opera di insediamento” e il pieno significato di questa folle scommessa sul futuro del paese? Ascoltate l’acqua: sotto la melma nella quale sguazziamo ormai da quarantasette anni c’è una corrente profonda e gelida: il terrore di un errore storico, di uno sbaglio madornale, di ciò che, sotto ai nostri occhi, sta assumendo la forma di uno Stato binazionale, o di uno Stato di apartheid, o militare, o rabbinico, o messianico.
Nella disperazione israeliana c’è anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo delle nostre stesse disgrazie. Talvolta sembra che nell’animo degli israeliani frema ancora l’offesa del 1993 quando, con la firma degli accordi di Oslo, osarono credere non solo che il nemico si fosse trasformato in un partner, ma che le cose avrebbero anche potuto andar bene qui, che un giorno saremmo stati bene. È come se avessimo tradito noi stessi - dicono i rappresentanti del partito della disperazione - per essere stati tentati a credere a qualcosa di totalmente contrario alla nostra esperienza, alla nostra tragica storia, a un qualche segno distintivo del nostro destino. E per questo abbiamo pagato e ancora pagheremo, con gli interessi. Ma per lo meno, da ora in poi, nessuno più ci coglierà in fallo, non crederemo più a niente, a nessuna promessa, a nessuna opportunità. E anche se Mahmoud Abbas si batterà con tutte le sue forze per prevenire il terrorismo contro gli israeliani, anche se proclamerà che verrà a Safed, sua città natale, unicamente come turista, anche se dichiarerà che la Shoah è il peggior crimine della storia umana e attaccherà ferocemente gli assassini dei tre ragazzi rapiti, il primo ministro israeliano Netanyahu si affretterà a versargli in testa un secchio d’acqua gelata.
È interessante notare che sebbene Israele abbia seriamente tentato la via della pace con i palestinesi soltanto una volta, nel 1993, è come se avesse deciso di rinunciare per sempre a perseguire questa possibilità dopo quel fallito tentativo. Anche qui entra in gioco la logica distorta della disperazione. La strada della guerra, dell’occupazione, del terrorismo, dell’odio, l’abbiamo provata decine di volte senza stancarci né scoraggiarci. Come mai invece ci affrettiamo a respingere definitivamente quella della pace dopo un solo fallimento? Israele, naturalmente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di stare in ansia. Ma proprio davanti a pericoli e minacce la disperazione e l’inazione non possono essere considerate una linea politica efficace.
L’attuale governo israeliano, come i suoi predecessori, si comporta come se fosse prigioniero della disperazione. Non ricordo di aver mai sentito un discorso di seria speranza da parte di Netanyahu, dei suoi ministri e dei suoi consulenti. Nemmeno una parola sul sogno di vivere in pace, sulle possibilità racchiuse in un simile ideale, o sull’opportunità che Israele si inserisca in un intreccio di nuove alleanze e interessi in Medio Oriente. Come ha fatto la speranza a trasformarsi in un termine volgare, colpevolizzante, secondo per pericolosità soltanto a “pace”? Guardateci: il paese più forte della regione - una potenza, in termini locali - che gode dell’appoggio quasi inconcepibile degli Stati Uniti, della simpatia e del sostegno di Germania, Inghilterra e Francia, dentro di sé si considera ancora una vittima impotente. E si comporta come tale: vittima delle proprie paure, reali o immaginarie, delle atrocità sofferte in passato, degli errori di vicini e nemici.
Quale speranza ci può essere in una situazione tanto difficile? Una ce n’è, malgrado tutto. La speranza che, senza ignorare i pericoli e le numerose difficoltà, si rifiuta di vedere solo quelli. La speranza che, se le fiamme del conflitto si affievoliranno, potrebbero ancora emergere, a poco a poco, i tratti sani ed equilibrati dei due popoli sui quali comincerà ad agire il potere terapeutico della quotidianità, della saggezza della vita, del compromesso, di una sensazione di sicurezza esistenziale grazie alla quale poter crescere i figli senza la minaccia della morte, senza l’umiliazione dell’occupazione, senza la paura del terrorismo, e aspirare a un tessuto di vita semplice, familiare, fatto di lavoro e di studio.
Oggi, nei due popoli, agiscono quasi esclusivamente agenti di disperazione e di odio. Potrebbe essere quindi difficile credere che la visione che ho prospettato sia possibile. Ma una realtà di pace comincerà a forgiare agenti di speranza, di vicinanza e di ottimismo, che abbiano un interesse concreto e privo di risvolti ideologici a creare sempre più contatti con i membri dell’altro popolo. Forse, un giorno, fra molti anni, ci saranno un riavvicinamento più profondo e persino rapporti di amicizia tra questi due popoli. Tra questi esseri umani. Non sarebbe la prima volta nella storia.
Io mi aggrappo a questa speranza e la custodisco in me perché voglio continuare a vivere qui. Non posso permettermi il lusso della disperazione. La situazione è troppo grave per esse- re lasciata ai disperati e, accettarla con rassegnazione, sarebbe di fatto un’ammissione di sconfitta. Non una sconfitta sul campo di battaglia ma una sconfitta umana. Nel momento infatti in cui accettiamo che la disperazione ci governi qualcosa di profondo e di vitale in noi esseri umani ci viene negato, ci viene portato via. Chi segue una linea politica che, di fatto, non è che una sottile patina di rivestimento di un sentimento di profonda disperazione, mette in pericolo l’esistenza di Israele. Chi si comporta in questo modo non può sostenere di «essere un popolo libero nella nostra terra». Può forse cantare la Tikvah, la Speranza, il nostro inno nazionale, ma nella sua voce, al posto della parola «speranza», echeggerà «disperazione ». «Una disperazione di duemila anni».
Noi, che da moltissimi anni chiediamo la pace, continueremo a insistere sulla speranza. Una speranza consapevole e che non si dà per vinta. Che sa di essere, per israeliani e palestinesi, l’unica possibilità di sconfiggere la forza di gravità della disperazione. (Traduzione di Alessandra Shomromi)
Israele e l’orrore dei ragazzi assassini
A ISRAELE, per fortuna, non basta consolarsi additando la barbarie praticata dal nemico per trovare giustificazione alla barbarie perpetrata dai suoi figli. La ricerca di alibi morali, o magari di attenuanti, cede il posto a un profondo turbamento interiore.
di Gad Lerner (la Repubblica, 08.07.2014)
OGGI Israele deve guardarli in faccia, questi suoi figli che per vendetta hanno afferrato un coetaneo palestinese di 16 anni, Mohammad Abu Khdeir, e lo hanno bruciato vivo in un bosco di Gerusalemme. Li guarda in faccia e li riconosce perché gli sono ben noti, familiari. Magari finora se ne vergognava un po’, ma liquidava la loro esuberanza come teppismo generazionale proletario.
Sono i ragazzi di stadio della curva scalmanata del Beitar, organizzati come ultràs in un raggruppamento dal nome sefardita, “La Familia”, scelto in contrapposizione linguistica all’élite tradizionalmente ashkenazita dello Stato. Anche il premier Netanyahu tifa per il Beitar, il che naturalmente non significa nulla, se non che il sabato sugli spalti udiva spesso lo slogan “morte agli arabi” rivolto contro i calciatori arabo-israeliani; così come udiva le irrisioni blasfeme della fede musulmana.
Di fronte al baratro della perdizione e del disonore, Netanyahu agisce da politico responsabile di uno Stato di diritto. Parla di «atto ripugnante», telefona le sue condoglianze al padre di Mohammad, assicura che «nella società israeliana non c’è spazio per gli assassini, ebrei o arabi». Lo avevano preceduto, con parole nobilissime, i genitori in lutto per la morte di Eyal, Gilad e Naftali. Loro certamente si sono immedesimati nella sofferenza di una famiglia che non possono sentire nemica. Ma per poter sperare che l’orrore degli adolescenti ammazzati a casaccio rimanga un episodio circoscritto, sarà inevitabile un’autocoscienza collettiva delle società che tanto odio hanno generato. E qui viene il difficile.
Estrema e degenere, ma è la filiazione di una storia importante la vendetta che si è consumata all’alba di mercoledì 2 luglio in un bosco di Gerusalemme. Ha rilevato i codici di un fascismo-razzismo che pensavamo rinchiuso negli stadi di calcio, proprio come, vent’anni fa, le belve della guerra etnica dell’ex Jugoslavia si forgiarono nelle tifoserie organizzate.
Naturalmente il fascismo-razzismo in Israele ha altri luoghi d’aggregazione. La componente ultràs ne rappresenta solo un orpello simbolico, tipico del linguaggio giovanile universale. Non a caso, però, il suo retroterra culturale porta lo stesso nome della squadra di calcio giallo-nera di Gerusalemme. Beitar è il movimento del cosiddetto “sionismo revisionista” fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky, in contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista e di eccessiva moderazione. Dal Beitar nascerà il Likud, cioè l’attuale destra israeliana, oggi affiancata (e insidiata) da nuovi movimenti messianici e etnicisti.
In forma laica o religiosa, l’ideologia postulata da costoro snatura il significato biblico di terra promessa. Per la precisione, idolatrano la terra e ne rivendicano la proprietà. L’esatto contrario di quanto è scritto nel Levitico 25-23: “...Mia è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori presso di Me”. Un Dio che si è fatto annunciare da patriarchi ebrei senza fissa dimora, eternamente stranieri anche nella terra promessa, viene strumentalizzato come fonte del diritto in base a cui negare legittimità alla residenza dei palestinesi.
Questo naturalmente non basta a spiegare la predicazione dell’odio trasformatasi in azione violenta già prima che il delitto di Hebron sollecitasse pulsioni di vendetta. L’organizzazione “Price Tag” votata a seminare il terrore fra i palestinesi con centinaia di agguati ai civili e alle loro proprietà è attiva da qualche anno, senza che le forze di sicurezza israeliane agissero efficacemente per smantellarla. A legittimarla non è stato solo il fanatismo religioso, ma anche l’affermarsi di una diversa forma di razzismo: l’islamofobia. L’idea, cioè, che gli arabi, ormai quasi tutti musulmani, per loro stessa natura siano inaffidabili e irriducibili. Solo la forza può tenerli a bada, non intendono altro linguaggio. Poco importa chiedersi le ragioni del loro agire, tanto meno intenerirsi per la loro sofferenza. Bisogna solo combatterli. Allontanarli a meno che accettino di sottomettersi.
Va rilevato come questi argomenti riavvicinino la componente ebraica che li propugna alle destre europee che nel frattempo, dopo la Shoah, hanno per lo più ripudiato il loro tradizionale antisemitismo. Anzi, di Israele ammirano proprio l’inflessibilità con cui esercita il suo diritto alla sicurezza e disconosce l’interlocutore palestinese.
“Beitar puro per sempre”, avevano scritto su uno striscione gli ultràs di “La Familia” l’anno scorso, quando la loro squadra voleva ingaggiare due calciatori musulmani. La ebbero vinta, in un paese in cui la stessa nozione di purezza razziale dovrebbe far correre tuttora brividi lungo la schiena. Si tratta di quel medesimo gusto per la violazione di un tabù che spinge molti politici della destra israeliana a accusare di nazismo gli avversari. Ma che ha suscitato enorme scalpore quando è stato lo scrittore Amos Oz a paragonare ai “neonazisti europei” gli estremisti che aggrediscono gli arabi o imbrattano di scritte odiose chiese e moschee.
C’è chi sostiene amaramente che la ricomparsa di Hitler nel dibattito pubblico, sia pure come estrema provocazione, rappresenti una sua vittoria postuma. Anche quando (succede spesso) sono gli oltranzisti ebrei a definire nazisti Hamas o gli Hezbollah. Temo invece che si tratti di qualcosa di più semplice e feroce al tempo stesso, nascosto chissà dove nella natura umana: l’odio inebriante che può sospingere un ragazzo a cospargere di benzina un suo coetaneo e dargli fuoco, pensando di trarre sollievo dall’annientamento di un corpo indifeso eletto a simbolo del nemico.
Il grande storico del fascismo e del pensiero reazionario Zeev Sternhell, vincitore del premio Israele, ha denunciato un cambiamento verificatosi addirittura nella “psicologia della nazione”. La stessa idea di pace si è deformata fino a concepirla possibile solo quando gli arabi accettino il proprio status di inferiorità. I ragazzi ebrei assassini dello stadio di Gerusalemme ne sono una terribile espressione.
Israele-Palestina, l’escalation di brutalità non ha futuro
La violenza non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra violenza
di Luigi Bonanate (l’Unità, 08.07.2014)
Tre ragazzi israeliani uccisi, un altro palestinese bruciato vivo, nove militanti di Hamas uccisi dai droni, 800 palestinesi arrestati a partire dal 12 giugno, quando furono rapiti i tre ragazzi israeliani. Dopo una forsennata caccia all’uomo, vana perché non si sono trovati i colpevoli dell’assassinio dei tre ragazzi, una frangia estremistica israeliana ha proceduto direttamente alla vendetta dando fuoco a un ragazzo rapito di fronte a casa sua e che - neppure lui - aveva nulla a che fare con gli eventi.
Poi, Netanyahu ha parlato con il padre della vittima palestinese e si è scusato, riconoscendo che il terrorismo e la violenza sono sempre la stessa cosa, chiunque vi ricorra; Abu Mazen ha chiesto un’inchiesta Onu sulla vicenda, e Lieberman, capo di uno dei partiti di ultra-destra israeliani, parte dell’attuale coalizione al potere, ha dichiarato che pur senza far cadere il governo il suo partito esce dall’alleanza politica con il Likud di Netanyahu.
L’unica dimensione nella quale una parte di Israele e una della Palestina si incontrano, anzi, si apparentano, è la facilità con cui ricorrono alla violenza e commettono azioni orrende e assolutamente ingiustificabili. Nessuno può permettersi di giudicare e condannare se non ha le mani nette, e purtroppo nessuno si trova in questa condizione, il che significa che la violenza o la accettiamo in toto o la respingiamo altrettanto totalmente. Questa considerazione vale per tutti e non soltanto per scusare gli atti degli amici o condannare quella degli avversari.
Dobbiamo lasciare la politica ai politici, mentre noi dobbiamo cercare di capire, formarci un’opinione, contribuire a formarne una collettiva e a prendere posizioni pubbliche: tutte cose a cui abbiamo purtroppo ormai perduto l’abitudine. Il primo impegno in ogni tentativo di ricostruzione delle dimensioni di questo problema riguarda il potere della violenza: sappiamo per certo che la violenza (politica) non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra (semmai maggiore, in una escalation che può essere senza fine) violenza. Ciò significa che la violenza deve, prima o poi, venire abbandonata: se non lo si fa, è perché si teme quella dell’altro, in un perverso (ma ingenuo) gioco di sfiducia reciproca.
La storia - 66 anni sono ormai passati da quando tutto ciò è incominciato - ci dice che, andando avanti così, nulla mai cambierà. Abbiamo avuto alternanze di riduzione della violenza e di recrudescenze, un numero imprecisato di guerre e due intifade: non sono servite a nulla. Esiste qualche modo di sbloccare questa situazione che, lasciata alle attuali dimensioni, non ne ha alcuno? Le guerre si muovono normalmente su una base di presunta reciprocità, altrimenti non inizierebbero mai, sapendosi prima chi ne sarebbe il vincitore. Tra Israele e la Palestina c’è invece una fondamentale differenza: il primo è uno Stato solido, ricco, riconosciuto dalla comunità internazionale, salvo che da alcune pochissime frange estreme (Hamas, l’Iran); il secondo, la Palestina, è povero e statualmente pressoché inesistente (piccolo com’è, è persino territorialmente diviso).
In una situazione del genere non c’è che una via: che il più fortunato (lasciamo stare da dove questa fortuna gli sia giunta) aiuti il più debole. Per pura e semplice riconoscenza per la fortuna avuta. Israele sa che in una qualsiasi nuova spirale di violenza, uscirebbe sempre vittorioso. Non gli resterebbe allora che una via: spazzar via l’Autorità Nazionale Palestinese (annessi e connessi), e attirarsi contro l’esecrazione planetaria. Gli converrà mai? Ovviamente no, così come non conviene a nessun israeliano né a nessun palestinese pensare che i propri rispettivi figli e discendenti continueranno a vivere nella paura e nel terrore. Non ha alcun senso, perché non c’è argomento che superi quello di un progetto di pacificazione e la conseguente domanda, tanto semplice quanto insuperabile: ma la vita non è meglio della morte?
Filosofi e teologi ricorrono talvolta, per spiegare congiunture particolarmente complesse e difficili, alla formula della «eterogenesi dei fini», che si verificherebbe quando, intendendo con una qualche azione perseguire un certo fine, in realtà si finisce per realizzarne uno diverso. Da certe intenzioni discendono conseguenze che non vi corrispondono. Che sia questo il caso del conflitto israelo- palestinese, in questa sua sorta di inspiegabile inestinguibilità? Ma sia ben chiaro: non è ad azioni casuali, caotiche, sporadiche, che possiamo affidare il futuro del conflitto israelo-palestinese. Tutti - Hamas compreso e come pure i partiti ultra-ortodossi israeliani - diano una prova di saper lavorare con la ragionevolezza e non con la brutalità. Che questo bruttissimo episodio segni finalmente un trionfo dell’eterogenesi dei fini: da un male potrebbe discendere un bene.
Esponente di «Jcall», movimento pacifista ebraico europeo
La tregua non basta, bisogna che riparta la trattativa
«Si è formata sul campo una sciagurata alleanza tra Hamas e il Likud»
di Giorgio Gomell (’Unità, 18.11.2012)
I nemici peggiori possono diventare i migliori alleati. La storia travagliata del conflitto israelo-palestinese lo dimostra una volta di più. Una sciagurata alleanza si è formata sul campo, incurante delle vittime provocate fra la gente inerme, fra Hamas, il movimento integralista palestinese e il Likud, il partito principale di governo in Israele condizionato dalle correnti nazional-religiose e dal movimento dei coloni che lo spingono verso le posizioni più oltranziste. Due nemici irriducibili, ma uniti nel rigettare gli accordi di Oslo del 1993 e nel sabotare poi, anno dopo anno, ogni tentativo di trattativa volta a giungere a un compromesso che comporti la spartizione di quella terra contesa in due Stati sovrani di pari dignità.
Così la formula di «due Stati per due popoli», l’unica che possa fornire una soluzione dignitosa al conflitto appare sempre più messa in forse, come una irraggiungibile utopia. Eppure la sostiene l’Anp di Abu Mazen anche in un’intervista rilasciata di recente ad una TV israeliana con il tentativo di ottenere dalle Nazioni Unite il riconoscimento per il futuro stato di Palestina dello status di osservatore. La sostiene l’opposizione in Israele non solo il movimento che si batte per la pace e i diritti nazionali dei palestinesi, ma buona parte del centro pragmatico del paese.
I sondaggi mostrano in modo persistente che circa 2/3 degli israeliani e dei palestinesi intervistati la desiderano come soluzione, pur ritenendola difficile da conseguire. La sostiene da anni la comunità internazionale, nella forma concreta dei «parametri di Clinton» del 2000 e dei reiterati tentativi del Quartetto di promuovere una seria trattativa fra le due parti assistite da mediatori internazionali. La sosteniamo noi di Jcall (www.jcall.eu), un movimento d’opinione di ebrei europei costituitosi nel 2010 sulla base di un «Appello alla ragione», sottoscritto da oltre 8000 persone, e formatosi di recente anche in Italia (jcall.italia@gmail.com). Dibatteremo di questi temi martedì 20 novembre alla Casa della cultura di Milano (dalle ore 21) con Shaul Ariely israeliano, esperto di questioni di sicurezza e tra i negoziatori degli accordi di Ginevra del 2003 -, Gad Lerner e Stefano Levi della Torre.
Siamo solidali con il popolo d’Israele, di cui affermiamo il diritto a un’esistenza in condizioni di pace e sicurezza e soprattutto con gli abitanti del sud e del centro del paese costretti nei rifugi, privati di una vita normale, e siamo vicini ai civili palestinesi di Gaza che subiscono il costo di una guerra inutile scatenata da Hamas che esercita un potere tirannico nella Striscia e mira a provocare una deflagrazione nella regione, già scossa dalla guerra in Siria e dalle minaccia nucleare dell’Iran, fino all’incrudirsi dei rapporti fra Egitto e Israele, al sovvertimento della monarchia giordana e forse a un intervento armato di Hezbollah contro il fronte nord di Israele.
Israele ha diritto all’autodifesa, ma è illusorio perseguire una soluzione puramente militare del conflitto. Lo ha dimostrato l’offensiva contro Gaza del 2008 e l’embargo imposto all’economia della Striscia prima e dopo quell’episodio. La gente di Gaza non si è piegata, malgrado la durezza del vivere quotidiano, della guerra intermittente e della penuria di beni, e non è insorta contro il regime di Hamas.
Ma come mostrare a quella gente che un accordo di pace può produrre benefici tangibili rispetto al perdurare della violenza? Sharon decise nel 2005 un ritiro unilaterale dalla Striscia, non negoziò un accordo di mutua sicurezza con la leadership palestinese di allora. Ne scaturì un embrione di Stato che poteva essere un inizio di progresso economico e civile, pur con i limiti territoriali di Gaza separata dalla Cisgiordania, ma finì soffocato dall’estremismo di Hamas da una parte e dal blocco imposto da Israele dall’altra.
Oggi è compito urgente anche dell’Unione europea, non solo di concorrere con gli Stati Uniti, l’Egitto, la Turchia, il Qatar a negoziare una tregua sul campo ed impedire l’allargarsi del conflitto, ma anche di premere sulle parti perché riprenda una seria trattativa fra Israele e l’Anp paralizzata ormai dal 2008.
Intervista a Shulamit Aloni
«Israele non è le sue armi. Chi lo dice ci porta al disastro»
Appello al mondo: «Sostenete la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese»
La scrittrice fondatrice di «Peace Now» ha firmato un manifesto di intellettuali israeliani per chiedere il rispetto delle frontiere del ’67. «Sì a uno Stato palestinese, basta apartheid»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 07.05.2011)
L’altro Israele alza la voce, scende in strada e si ribella: «Dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. I governanti d’Israele hanno solo un disegno in testa e lo perseguono con ogni loro atto: il disegno del Grande Israele. Ne faranno un ghetto atomico in guerra con il mondo». L’altro Israele, quello che l’altra sera ha dato vita a una manifestazione di massa conclusasi in piazza Yitzhak Rabin, nel cuore di Tel Aviv, si riconosce nelle affermazioni di Shulamit Aloni, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace adesso). «Chi persegue la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, chi opprime un altro popolo afferma Aloni coltiva l’illusione che la sicurezza d’Israele possa reggersi sulla forza delle armi. Ma questa è una illusione che ha già prodotto disastri e altri ne provocherà ancora, se il mondo non farà sentire la sua voce di protesta. A cui deve unirsi l’Israele che non accetta di essere complice di questi crimini».
Shulamit Aloni è una delle venti personalità israeliane tra cui l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente dell’Accademia delle Scienze di Israele Menahem Yaari che hanno firmato un appello ai leader europei affinché appoggino la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente sulla base del confini del 1967, quando verrà presentata a settembre alle Nazioni Unite. Il nostro colloquio parte da qui.
Qual è il senso di questo appello e delle mobilitazioni di piazza che ne sono seguite?
«È l’affermazione di un concetto fondamentale che rappresenta il vero discrimine oggi...».
Quale sarebbe questo concetto?
«La pace, una pace giusta, fondata sul principio di “due popoli, due Stati”, non è una concessione che Israele fa al “Nemico”, e neanche un atto di giustizia. È semmai un sano atto di “egoismo”...».
In che senso?
«Nel senso che solo riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, integro territorialmente, solo così Israele potrà difendere il bene più prezioso: la sua democrazia. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. Non c’è democrazia in uno Stato che impone a un altro popolo un regime di apartheid. Da qui nasce l’appello e le mobilitazioni che l’hanno seguito. Il passaggio chiave è questo: come cittadini israeliani dichiariamo che se e quando la Nazione palestinese dichiarerà uno Stato sovrano e indipendente, che vivrà a fianco di Israele in pace e sicurezza, appoggeremo questa dichiarazione e riconosceremo uno Stato palestinese basato sui confini del 1967, e chiediamo alle Nazioni del mondo di dichiarare la loro volontà a riconoscere uno Stato palestinese indipendente basato su questi principi».
Il presidente Usa, Barack Obama, non sembra essere di questo avviso...
«Rispetto la sua posizione e ho anche apprezzato alcuni passaggi del suo recente discorso in cui ha fatto riferimento ai confini del ‘67. Ma il presidente Obama sa bene che gli appelli alla ragionevolezza rivolti a più riprese agli attuali governanti d’Israele sono puntualmente caduti nel vuoto. Per questo occorre cambiare registro, e dimostrare a questi oltranzisti che si è capaci di dire basta. Se non ora, quando?».
La destra israeliana non ha nascosto il suo scetticismo, se non la sua contrarietà, verso le rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo...
«Il mio atteggiamento, e per fortuna non sono la sola a pensarlo, è diametralmente opposto: la “primavera araba” può avere ricadute importanti per l’intera regione e anche per Israele. In Piazza Tahrir, il cuore della rivoluzione egiziana, non ho visto bruciare una bandiera israeliana. E questo è un segnale di straordinaria importanza che noi israeliani non dovremmo sottovalutare. Io sono con loro, e non sento minimamente nostalgia per i raìs che hanno spazzato via dalla scena».
* Chi è
La leader storica dei pacifisti israeliani
Scrittrice, combattente nella guerra d’Indipendenza, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace Adesso), parlamentare per diverse legislature, è stata più volte ministra nei governi laburisti guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Per le sue battaglie democratiche è stata minacciata di morte dall’ultradestra israeliana.
Netanyahu, un negoziatore con il mitra
Lo scrittore Yehoshua attacca la politica del premier israeliano
di Stefano Citati (il Fatto, 07.06.2011)
Benjamin Netanyahu non crede ai palestinesi, non crede alla riconciliazione. Partendo da questo punto la sua strategia è quella di tirare per le lunghe, di arrivare a settembre, alla risoluzione che porterà alla nascita dello Stato palestinese, per iniziare le vere trattative, per ridurre al minimo l’estensione della nuova nazione, che per lui non può essere uno Stato a tutti gli effetti, ma avere solo la consistenza di un’ampia autonomia. Vista sotto quest’ottica la resistenza all’America, alle proposte di Obama, si spiegano con la volontà di prendere tempo e far esaurire le possibilità di trattative, per arrivare a concedere ai palestinesi il 60-70% dei territori occupati della Cisgiordania”. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua è più arrabbiato che stupito dopo l’ennesimo atto di violenza del suo governo che ha sparato addosso ai manifestanti nel Golan; una nuova strage che attira su Israele gli strali della comunità internazionale e la frustrazione rabbiosa dei palestinesi. Dal suo punto di osservazione di Haifa - che lascia piuttosto raramente per rispondere agli inviti internazionali: il prossimo, questo fine settimana, a Marina di Pietrasanta per parlare del progetto del suo prossimo libro - non risparmia critiche al suo premier in modo chiaro e netto, come è nel suo stile.
Visto dall’Italia e più in generale dall’estero, l’atteggiamento di Netanyahu appare spesso ottuso e catastrofico. È lo stesso in Israele?
L’opinione pubblica israeliana è tendenzialmente sbilanciata verso il centro-destra: la loro visione è però quella di non rompere la corda che lega all’America e all’Europa, e per questo la posizione migliore è quella di tenere spesso la testa sott’acqua, in modo da non doversi occupare troppo la situazione. Il timore di Netanyahu, di dover rimpatriare di fatto i coloni è condiviso, ed è questo ostacolo interno che condiziona il modo di fare del premier ben oltre le pressioni internazionali, partendo dalla sfiducia nei confronti della controparte.
Netanyahu non rischia di trovarsi a settembre con uno stato di fatto contro il quale non sarà più possibile trattare? Tantissimi Stati riconosceranno il nuovo Paese, ma Netanyahu potrà ancora contare sulla debolezza europea: l’incapacità dimostrata finora di sostituirsi agli Stati Uniti, che non possono essere i guardiani del mondo, e di essere un interlocutore credibile e solido, che controbilanci il potere e l’influenza statunitense. Al premier interessa tenere in piedi la facciata del processo di pace senza agire, spostando il pendolo della pace da una parte all’altra senza arrivare a un movimento completo e decisivo, prendendosi tutto il tempo possibile e annacquando le possibilità di uno Stato palestinese forte e completo. Cosa può rompere questo meccanismo?
Dimostrazioni ripetute e davvero pacifiche dei palestinesi nei territori occupati. Se sapranno scendere in strada con le mani disarmate disinnescheranno la reazione delle forze di sicurezza israeliane e non daranno motivo di essere attaccate e dell’uso della forza. Toglieranno l’alibi a Netanyahu e spezzeranno il meccanismo della risposta violenta . Per cambiare questa atmosfera e questo futuro prossimo questo Israele dovrebbe da subito compiere un gesto unilaterale: fermare e riportare indietro tutti i coloni, anche senza accordi con i palestinesi; sarebbe un segno di volontà seria e responsabile. Come si vede da Israele il sommovimento del mondo arabo; dà più timori o più speranze. È ancora in una fase interlocutoria, ma la chiave resta l’Egitto, se non diventerà un regime ancor più militare, o fondamentalista, un cambio generale sarà possibile.
Dobbiamo sognare come Arna Mer
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 30.11.2010)
Ci sono delle persone che vale la pena di conoscere, anche se solo sulla carta. Arna è una di queste. Chi era Arna Mer? Una israeliana sposata a un palestinese, una donna che per tutta la vita ha sfidato i divieti, gli odi, le bombe, le denunce, ribadendo la sua ebraicità e nello stesso tempo l’amicizia, la solidarietà nei riguardi del popolo palestinese: da Haifa al campo profughi di Jenin e viceversa, tutti i giorni, questo il suo percorso, creando prima una scuola per bambini, «Care and learning» e poi un teatro, «Il teatro della libertà». Arna è stata chiamata «una coscienza viva e parlante». Ma qualcuno l’ha definita anche «una scheggia impazzita». Il suo comportamento, è chiaro, non poteva piacere ai fanatici. La sua scuola è stata piu volte danneggiata. Lei stessa è stata picchiata dai soldati israeliani, come quella volta che, raccontano i testimoni, sbarrò l’ingresso della classe con il suo corpo per impedire ai militari di entrare. Il suo teatro è stato ridotto in macerie e poi ricostruito dal figlio Juliano. «Arabi e israeliani hanno donato materiali da costruzione, sono arrivati volontari da tutte le parti e in meno di un mese è stata creata una sala di 150 metri quadrati», racconta il figlio che oggi è un attore famoso e stimato in Israele.
Arna, sfidando i coprifuoco e le paure, invitava docenti di Tel Aviv a parlare di teatro, a insegnare i segreti della fotografia. Sul palco i bambini imparavano a recitare anziché lanciare pietre. «Ogni tanto Juliano arrivava con un minibus, prelevava i membri della compagnia e insieme andavamo a vedere un film a Tel Aviv o al Luna Park. Era come il viaggio di Alice nel paese delle meraviglie».
Arna Mer è morta di cancro nel 1995. I bambini chiesero piu volte di poterla visitare in ospedale, ma non fu loro permesso, salvo una volta, e fu il giorno prima che morisse. «Questa pace non vale nulla», disse ai bambini, «se non si raggiunge la completa uguaglianza fra palestinesi e israeliani». Il figlio Juliano ha proseguito la sua opera. Anche lui ha fatto la spola fra Haifa e il campo profughi di Jenin, insegnando ai bambini l’arte del teatro, riuscendo a mettere insieme una compagnia teatrale vitale e felice, una oasi nella landa desolata dei vicoli stretti del campo profughi. L’esperienza è durata sette anni. Poi «tutto è andato storto».
Tutto ciò che conteneva fratellanza si è trasformato in odio, tutto ciò che conteneva vita si è trasformato in morte e assassinio. «Degli otto attori che si muovevano con felicità sul palco, cinque sono morti. Non sono stati assassinati. Nessuno di loro era ingenuo (non esiste ingenuità nei campi profughi) quasi tutti erano armati. Ma almeno per un certo periodo di tempo hanno sognato in mezzo alle fogne e ai rifiuti. Ora l’edificio del teatro è stato definitivamente distrutto, gli attori scomparsi, lo spettacolo finito». Quanto c’è di irraggiungibile e quanto di fattibile nel sogno di Arna Mer? Quanto possono andare avanti con l’odio e il sospetto due popoli parenti che dovrebbero imparare a convivere?
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
NAZIONI UNITE
Obama all’Iran: "Porte aperte"
Ahmadinejad: Netanyahu è un killer
Il presidente Usa all’Assemblea generale: "Con l’accordo in Medio Oriente Stato palestinese entro un anno". E apre al dialogo con Teheran, "ma dimostrino intenzioni pacifiche del loro programma nucleare". Israele diserta il discorso: vuote le sedie dei delegati. Il leader iraniano: non pensiamo di fabbricare l’atomica. Poi attacca il premier israeliano *
NEW YORK - L’Iran con il suo controverso programma nucleare e la questione del Medio Oriente sono oggi al centro dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Obama tiene molto ai negoziati diretti 1 tra Israele e Palestina, che ha rilanciato qualche settimana fa alla Casa Bianca, e oggi, nel suo intervento al Palazzo di Vetro ha parlato del sostegno alla formazione di una Palestina indipendente, elogiando il coraggio del presidente dell’Anp, Abu Mazen, ma allo stesso tempo ha avvertito che gli Stati Uniti si opporranno a qualsiasi attacco contro Israele. Il riferimento è al presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad che, in un’intervista con la Cnn, ha definito il premier israeliano Benjamin Netanyahu "killer professionista". I 27 membri dell’Ue, ha spiegato ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sono pronti a una "reazione coordinata", ad alzarsi e ad abbandonare l’Assemblea se il presidente iraniano durante il suo intervento dovesse pronunciare "frasi inaccettabili". Ma il cuore dell’intervento del presidente americano ha riguardato l’apertura al dialogo con l’Iran, a patto che i termini del programma nucleare di Teheran siano chiaramenti definiti come pacifici. Un discorso che ha registrato un fuori programma: le sedie dei delegati israeliani sono rimaste vuote per tutto il tempo.
"Porte aperte all’Iran". Per Barack Obama "la porta del dialogo resta aperta per l’Iran ma sono loro a dover fare il primo passo". E ha ribadito che l’Iran è l’unico Paese che ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare a non poter dimostrare che il suo programma è pacifico.
"Palestina tra un anno all’Onu". Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi, "quando torneremo qui l’anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle Nazioni Unite: uno stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele" ha detto Obama nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu. "Non vi sbagliate - sottolinea il presidente Usa - il coraggio di un uomo come il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, che difende il suo popolo di fronte al mondo, è decisamente più grande di coloro lanciano razzi contro donne e bambini innocenti". Ma, avverte Obama, chi appoggia l’esistenza di una Palestina indipendente, "deve smettere di tentare di distruggere Israele. Deve essere a tutti chiaro che qualsiasi sforzo per scalfire la legittimità di Israele si scontrerà con l’opposizione incrollabile degli Stati Uniti".
Israele estenda moratoria colonie. Israele dovrebbe estendere la moratoria sulle nuove costruzioni negli insediamenti di coloni in Cisgiordania, ha aggiunto Obama. "La nostra posizione è molto chiara, su questo: Israele dovrebbe estendere la moratoria", ha detto Obama. La moratoria di Israele scade il 30 settembre e il suo eventuale mancato rinnovo è il principale ostacolo alla prosecuzione dei negoziati di pace diretti fra israeliani e palestinesi.
Attesa e timore per il discorso di Ahmadinejad. C’è il timore che Ahmadinejd possa di nuovo negare l’Olocausto e minacciare Israele nel corso dell’atteso intervento all’Assemblea. Nell’intervista rilasciata alla Cnn il presidente iraniano ha detto: "Non abbiamo alcun interesse in una bomba nucleare e non ci sarebbe di alcuna utilità". "Sia il regime sionista sia il governo degli Stati Uniti - ha aggiunto - dovrebbero essere disarmati. Le minacce al mondo vengono dalle bombe in possesso degli Usa e del regime sionista". Ahmadinejad ha poi lanciato l’ennesimo attacco a Israele definendo Netanyahu "killer professionista". Il premier israeliano, ha sottolineato Ahmadinejad, "dovrebbe essere processato per l’embargo a Gaza e per il massacro di innocenti donne e bambini palestinesi. E’ un assassino professionista".
Il presidente iraniano ha poi puntato il dito contro gli Stati Uniti e ha addossato a quelli che ha definito "mercenari" degli Usa la responsabilità dell’attentato avvenuto ieri 2 durante una parata militare nella città di Mahabad, nel nord-ovest dell’Iran, in cui sono morte 12 persone e altre decine sono rimaste ferite. Mentre la polizia ha detto di avere arrestato due persone nelle indagini sull’esplosione. "Questo crimine selvaggio, commesso da mercenari della potenza arrogante contro civili innocenti, ha rivelato ancora una volta la vera natura dei cosiddetti difensori dei diritti umani e aggiunto un nuovo episodio alle atrocità del sistema corrotto e oppressore che domina il mondo", ha affermato Ahmadinejad, citato dall’agenzia iraniana Irna, da New York.
L’Iran ha già subito quattro tornate di sanzioni dall’Onu per il suo programma nucleare, che si sospetta sia finalizzato a dotare la repubblica islamica della bomba atomica. Ahmadinejad nega fermamente che il suo Paese stia cercando di dotarsi di armamenti nucleari, ma ha avvertito che se ci sarà un attacco israeliano supportato dagli Stati Uniti, Teheran lo considererà un atto di guerra.
* la Repubblica, 23 settembre 2010
PER SFIDARE L’EMBARGO
Veliero di pacifisti ebrei verso Gaza
Il «Jews for Justice for Palestinians» ha obiettivi pacifici
Sulla barca salpata da Cipro un sopravvissuto all’Olocausto *
Una nave, con a bordo una decina di attivisti ebrei provenienti da Israele, Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna, ha lasciato ieri il porto di Famagosta, nel nord di Cipro, diretta nella Striscia di Gaza, con la speranza di violare simbolicamente l’embargo israeliano. Richard Kuper, uno degli organizzatori del gruppo britannico «Jews for Justice for Palestinians», ha precisato che uno degli obiettivi dell’iniziativa è mostrare che non tutti gli ebrei approvano la politica israeliana verso i palestinesi. Kuper ha poi precisato che la nave non opporrà alcuna resistenza alle autorità israeliane. La nave trasporta giocattoli per bambini, materiale sanitario e altri aiuti per gli abitanti della Striscia di Gaza.
A bordo dell’imbarcazione che si chiama Irene e batte bandiera britannica, c’è anche un sopravvissuto all’Olocausto, Reuven Moshkovitz, di 82 anni. «È un dovere sacro per me, come sopravvissuto all’Olocausto - ha detto - quello di protestare contro la persecuzione, l’oppressione e la carcerazione del popolo di Gaza, compresi 800.000 bambini». Tra i partecipanti alla missione vi è pure Rami Elhan, un israeliano che ha perso la figlia in un attentato suicida in un centro commerciale a Gerusalemme nel 1997. La traversata dovrebbe durare 36 ore. La missione arriva quasi quattro mesi dopo che i commando israeliani hanno bloccato la «Peace Flottila» e che nove attivisti sono rimasti uccisi negli scontri scoppiati a bordo di una nave turca.
Dalla “Fiera di Francoforte
Voglio parlare della pace"
Pubblichiamo il discorso che ha tenuto ieri in occasione del conferimento de "Il premio della pace" dell’Associazione degli editori e dei librai tedeschi alla Fiera del libro di Francoforte
"Non posso dire cosa si aspettino i palestinesi: non ho diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro che conoscano un’esistenza di libertà e sovranità"
"La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano e rinnega anche il nostro comune destino"
"La letteratura è la stupefazione per l’uomo e per la sua complessità La scrittura dà il piacere di immaginare Per questo mi auguro che il mio Paese trovi la forza di riscrivere la sua storia"
"Solo la fine dello scontro darà a Israele una casa, un domani, generazioni future E darà la possibilità di vivere una sensazione mai provata: quella di un’esistenza stabile"
di David Grossman (la Repubblica, 11.10.2010)
Quando ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cento anni - ancor prima che diventasse una nazione - si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l’avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia.
Sarete forse d’accordo con me che il vero grande dramma dell’umanità è quello della famiglia. E ognuno di noi è un personaggio di questo dramma in quanto in una famiglia è nato. Ai miei occhi i momenti più significativi della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in sale di palazzi o di parlamenti bensì in cucine, in camere da letto matrimoniali o in quelle dei bambini.
In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale proietti sé stesso, la sua brutalità, sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto.
Ho cercato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono sostenere.
È la lotta per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani e sentimenti di tenerezza, di sensibilità, di compassione, in una situazione di durezza e di indifferenza nella quale il volto del singolo viene cancellato. A volte paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.
Concedetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.
Se mi chiedeste cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisse al più presto, si risolvesse e regnasse la pace. Ma forse allora insistereste a chiedere: «E se le ostilità dovessero andare avanti ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?». Dopo aver provato una punta di dolore per questa domanda risponderei che in quel caso vorrei imparare a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno, e non chiudermi in me stesso o cercare di proteggermi.
Per me essere uomo in uno scontro tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi aperti, sempre, per quanto io riesca (e non sempre ci riesco, non sempre ho la forza di farlo). Però so di dovere almeno insistere, per sapere ciò che succede, cosa viene fatto a nome mio, a quali cose collaboro malgrado io le disapprovi nella maniera più assoluta. So di dovere osservare gli eventi per reagire, per dire a me stesso e agli altri ciò che provo. Chiamare quegli eventi con parole e nomi miei, senza farmi tentare da definizioni e da termini che il governo, l’esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di dettarmi.
E vorrei ricordare - e spesso è questa la cosa più difficile - che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano con una famiglia, dei figli, un proprio concetto di giustizia, speranze, disperazioni, paure e limitatezze.
Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso "Premio della pace", e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza terrorizzata e paralizzata di israeliani e palestinesi per i quali la parola "pace" è quasi sinonimo di illusione, di miraggio, se non addirittura di trappola di morte.
Dopo cento anni di guerre e decenni di occupazione e di terrorismo la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi non crede infatti più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È ormai rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte. Ma chi non crede nella possibilità della pace è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra continua.
Talvolta occorre ricordare - e di certo su questo autorevole palcoscenico - ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in pace, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall’odio; di vivere con dignità, sia a livello del singolo che come popoli indipendenti in un loro stato sovrano, di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre. E non solo entrambe le parti hanno questo diritto, hanno anche un estremo bisogno della pace, un bisogno vitale.
Non posso parlare di cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non ho il diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un’esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di schiavitù e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani e israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, godere di una vita normale, di pace, e di quanto essa può offrire a qualunque essere umano. Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo.
Ai miei occhi la parola "pace" non definisce soltanto una situazione in cui finalmente la guerra, con tutte le sue paure, sarà finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente da distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, fra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che l’uomo ebreo, che il popolo ebreo, prova in mezzo ad altri popoli, svanirà.
Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni e molte sue tragedie sono derivate proprio da questo. Pensate: ormai da 62 anni Israele non ha confini definitivi. Le sue frontiere sono instabili, vengono modificate, allargate o ristrette, a ogni decennio. Nel nostro mondo chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa i cui muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.
Nonostante la sua grande forza militare Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini il senso di naturale serenità di chi si trova al sicuro nel proprio paese. Non è riuscito - ed è questa la cosa tragica - a guarire gli ebrei da un’amara sensazione di fondo: il disagio di chi non si sente quasi mai a casa nel mondo.
E dopo tutto Israele è stato creato per essere rifugio degli ebrei e del popolo ebreo. Era questo il sogno che ha portato alla sua creazione. Ma fintanto che non ci saranno la pace, dei confini definitivi e concordati e un vero senso di sicurezza noi israeliani non avremo la casa di cui siamo degni e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a casa nel mondo. Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, hanno una cassa di risonanza come in nessun’altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che uso, i palpiti della memoria che questi risvegliano, provengono dalla ferita della Shoà e a essa fanno ritorno. Molto di quanto avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con sé stesso, con la sua famiglia, con i suoi amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un discorso complesso con la Shoà, con il modo in cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, come un colombo viaggiatore della Shoà, tornano sempre "laggiù", a quei giorni.
Ma al tempo stesso, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, io rammento a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo è in grado di risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma dal superamento di ogni limite e freno, dallo sgretolamento di ogni senso di umanità, e di impegnarsi a rispettare i valori dell’etica e della democrazia e di educare i giovani all’idea della pace.
Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dalla profonda paura che palpita nei cuori dei suoi cittadini riguardo al futuro del loro paese e dei loro figli. Credo che non ci sia al mondo un altro stato che viva una tale angoscia esistenziale. Quando leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030 la cosa vi sembra logica e naturale, ma nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Quando penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano....
Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere una situazione, o sensazione, mai provata prima: quella di un’esistenza stabile.
Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato sospeso tra la vita e la morte per migliaia di anni, può solo aspirare a un’esistenza stabile e sicura nella propria patria. Aspirare a sentirsi un popolo radicato nella propria terra, con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro e integrato nel tessuto delle loro vite, con un futuro davanti e finalmente a casa nel mondo.
Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non mai conosciuto un solo istante di vera pace in vita mia, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che proprio ciò che so della guerra mi dia il diritto di farlo.
Già da molti anni la mia vita, i miei libri, si dipanano in un questo miscuglio di guerra, di paura delle sue conseguenze, di ansia per Israele e per i miei cari che ci vivono, di lotta per il diritto ad avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.
E quanto più conosco profondamente la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se questo fosse un modo di rivendicare il mio diritto all’individualità, di dire "io" anziché "noi".
La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega anche la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino. La letteratura, non solo scrivere libri ma anche leggerli, è l’opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all’individuo, al suo diritto di essere tale e al destino che condivide con l’intera umanità. La letteratura è lo stupefazione per l’uomo, per la sua complessità, la sua ricchezza, le sue ombre.
Quando scrivo cerco di redimere con tutte le mie forze ogni personaggio dalla morsa dell’estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Quando scrivo lotto, talvolta per anni, per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.
C’è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni del personaggio che crea. C’è un che di vulnerabile e di sprovveduto nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese ai personaggi di cui scrive. È forse questo ciò che di grande può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà, di esilio, di sensazione che il suo "io" venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.
Signore e signori, ho aperto questo discorso parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e la madre, in ansia per il figlio, fugge di casa perché un’eventuale brutta notizia non la raggiunga.
Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato a scrivere il libro è scoppiata la seconda guerra del Libano in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione entro i confini di Israele. La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri è stato ucciso insieme a suoi tre compagni, l’equipaggio di un carro armato, da un razzo lanciato da Hezbollah.
Dirò solo questo: pensate a un ragazzo sulla soglia della vita, con tutte le speranze, l’entusiasmo, la gioia di vivere, l’ingenuità, l’umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri e così erano migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso, e continuano a perdere, la vita in questo conflitto.
Al termine della settimana del lutto ho ripreso a scrivere. Quando a un uomo capita una tragedia una delle sensazioni più forti che prova è quella di essere esiliato da tutto ciò in cui credeva, di cui era certo, dalla storia di tutta la sua vita. All’improvviso niente è più scontato.
Per me, tornare a scrivere dopo la tragedia è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo avrei potuto, in un certo senso, tornare dall’esilio.
Ho ripreso a scrivere. Sono tornato alla storia che, stranamente, era uno dei pochi luoghi della mia vita che ancora potevo capire. Mi sono seduto alla scrivania e ho cominciato a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana ho sentito per la prima volta, con un certo stupore, il piacere di scrivere. Mi sono ritrovato a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un preciso sentimento. Mi sono reso conto di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente quel sentimento. A tratti mi stupivo che qualcosa di tanto piccolo accentrasse a tal punto la mia attenzione quando il mondo intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo la parola giusta avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei più provato in vita mia: quella di fare qualcosa come si deve in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie di casa, si guarda intorno, e comincia a impilare un mattone sull’altro.
E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Inventavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più ci fossero in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo dentro di me il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta questo contatto provoca. Riscoprivo che scrivere è per me il miglior modo di combattere l’arbitrarietà - qualsiasi arbitrarietà - e la sensazione di essere una vittima impotente dinanzi a essa. E ho imparato che in certe situazioni l’unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta questo è un modo per non essere più una vittima.
E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, i popoli. Mi auguro che il mio paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la sua storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e ricrearsi da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.
Grazie e shalom
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
LA "NAVE DEGLI EBREI" (JEWISH BOAT) PER GAZA PARTIRÀ PRESTO *
07/06/2010
In un porto del mediterraneo (e non diciamo per ora quale) un piccolo vascello aspetta una missione speciale: partirà per Gaza. Per evitare sabotaggi, data e nome esatto del porto di partenza verranno annunciati solo poco prima della partenza.
"Il nostro obiettivo è chiedere la fine dell’assedio di Gaza, di questa illegale punizione collettiva della intera popolazione civile. La nostra barca è piccola, per questo quello che portiamo può solo essere simbolico: portiamo borse per la scuola, piene di regali degli studenti delle scuole in Germania, strumenti musicali e materiali artistici. Per i servizi medici portiamo medicine essenziali e piccole attrezzature mediche e per i pescatori portiamo reti e attrezzature. Siamo in collegamento con i servizi medici, educativi e mentali a Gaza."
’’Attaccando la flotta della libertà Israele ha dimostrato, ancora una volta, a tutto il mondo la sua odiosa brutalità. Ma io so che ci sono moltissimi israeliani impegnati nella campagna per una pace giusta con passione e coraggio. Dal momento che sulla nostra barca ci saranno importanti giornalisti dei canali radiotelevisivi, Israele avrà una grande occasione per mostrare al mondo che c’è un’altra strada, una strada di coraggio e non di paura, una strada di speranza e non di odio’’,dice Edith Lutz, una degli organizzatori e passeggeri della “nave degli ebrei”.
La ’’Jüdische Stimme’’ (Voce ebraica per una pace giusta in medio oriente), insieme ai suoi amici della rete “Ebrei europei per una pace giusta in Medio oriente” e “Ebrei per la giustizia per i palestinesi (UK)” inviano un appello ai leaders del mondo perché aiutino Israele a tornare alla ragione, al senso di umanità, alla vita senza paura.
Le “voci ebraiche” si aspettano che i leader di Israele e del mondo garantiscano un passaggio sicuro verso Gaza per la piccola nave e in tal modo aiutino a realizzare un ponte verso la pace.
Edith Lutz, Ejjp-Germany
Kate Leiterer, Ejjp-Germany
Glyn Secker, Jews for Justice For Palestinians (UK)
* Il Dialogo, Martedì 08 Giugno, 2010 Ore: 17:20
Israele - Riflessione
«Sulla strada per diventarlo»
di Piero Stefani *
Nell’immediato secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto sterminata nei lager gran parte della sua famiglia, pubblicò un libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver sottolineato l’appartenenza di Gesù al popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe dei paesi mediterranei, continuava a ripetere: fino al 70, il popolo d’Israele era indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste diaspora.
Il sionismo ha creato molti miti nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada) sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo; tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi del II sec. sembrano ormai particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto consapevole, riproposizione del pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni teologiche). «I fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila 200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci. Si potrebbe obiettare che si trattava di piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni: già nel primo secolo - senza che intervenissero particolari coercizioni esterne - la maggioranza del popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele.
L’invenzione di miti storici è parte organica della costruzione di ogni identità collettiva. Spesso importa poco se essi siano palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi, il regime di cristianità fu obbligato a inventare il mito della punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che ha reso tuttora impossibile - assieme a molti altri fattori - la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo nodo.
Un grande intellettuale israeliano del Novecento - da sempre sionista - Y. Leibowitz dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale, strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?” “Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo» (Il Regno documenti 1,1989, p. 62).
Più di vent’anni dopo siamo in realtà allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo», il che è, a un tempo, conferma e smentita delle previsioni di allora. Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso. Nella fattispecie, ciò lo renderebbe non già (come per l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli ebrei», ma appunto integralmente «Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico.
Piero Stefani
* Il Dialogo Sabato 05 Giugno,2010 Ore: 18:09
Verso la catastrofe
di Moni Ovadia *
Era inevitabile che accadesse. L’insensato atto di pirateria militare israeliano contro il convoglio navale umanitario con la sua tragica messe di morti e di feriti non è un fatale incidente, è figlio di una cecità psicopatologica, della illogica assenza di iniziativa politica di un governo reazionario che sa solo peggiorare con accanimento l’iniquo devastante status quo. Di cosa parliamo? Dell’asfissia economica di Gaza e della ultraquarantennale occupazione militare delle terre palestinesi, segnata da una colonizzazione perversa ed espansiva che mira a sottrarre spazi esistenziali ad un popolo intero.
Dopo la stagione di Oslo, il sacrificio della vita di Rabin, non c’è più stata da parte israeliana nessuna vera volontà di raggiungere una pace duratura basata sul riconoscimento del diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione due popoli due stati. Le varie Camp David, Wye Plantation, Road Map sono state caratterizzate da velleitarismo, tattiche dilatorie e propaganda allo scopo di fare fallire ogni accordo autentico. Anche il ritiro da Gaza non è stato un passo verso la pace ma un piano ben riuscito per spezzare il fronte politico palestinese e rendere inattuabili trattative efficaci. Abu Mazen l’interlocutore credibile che i governanti israeliani stessi dicevano di attendere con speranza è stato umiliato con tutti i mezzi, la sua autorità completamente delegittimata.
L’Autorità Nazionale Palestinese è stata la foglia di fico dietro alla quale sottoporre i palestinesi reali e soprattutto donne, vecchi e bambini ad una interminabile vessazione nella prigione a cielo aperto della Cisgiordania e nella gabbia di Gaza resa tale da un atto di belligeranza che si chiama assedio. Ma soprattutto l’attuale classe politica israeliana brilla per assenza di qualsiasi progettualità che non sia la propria autoperpetuazione.
È riuscita nell’intento di annullare l’idea stessa di opposizione grazie anche ad utili idioti come l’ambiziosissimo “laburista” Ehud Barak che per una poltrona siede fianco a fianco del razzista Avigdor Lieberman. Questi politici tengono sotto ricatto la comunità internazionale contrabbandando la menzogna grottesca che ciò che è fatto contro la popolazione civile palestinese garantisca la sicurezza agli Israeliani e a loro volta sono tenuti sotto ricatto dal nazionalismo religioso di stampo fascista delle frange più fanatiche del movimento dei coloni, una vera bomba ad orologeria per il futuro dello stato di Israele.
La maggioranza dell’opinione pubblica sembra narcotizzata al punto da non vedere più i vicini palestinesi come esseri umani, ma come fastidioso problema, nella speranza che prima o poi si risolva da solo con una “autosparizione” provocata da una vita miserrima e senza sbocco. Le voci coraggiose dei giusti non trovano ascolto e anche i più ragionevoli appelli interni ed esterni come quello di Jcall, vengono bollati dai falchi dentro e fuori i confini con l’infame epiteto di antisemiti o antiisraeliani. Se questo stato di cose si prolunga ancora il suo esito non può essere che una catastrofe.
* l’Unità, 01 giugno 2010
MEDIO ORIENTE
Israele, attacco a flotta umanitaria
"Dieci morti e numerosi feriti"
La nave turca trasportava aiuti per la popolazione di Gaza.
Ora
si teme un’escalation di violenza
Ankara: «Attacco inaccettabile» *
GERUSALEMME Almeno dieci persone sono morte e una trentina sono rimaste ferite quando tre unità della marina israeliana hanno intercettato e attaccato una imbarcazione turca della «Freedom Flotilla», la missione di organizzazioni non governative internazionale partita ieri dal porto cipriota di Nicosia con aiuti umanitari per i palestinesi di Gaza. È quanto ha riferito la televisione israeliana.
Secondo una ong turca, le vittime sarebbe invece almeno due. Un bilancio, quest’ultimo, riferito questa mattina anche dall’emittente satellitare al Jazeera e dalla tv turca NTV, secondo le quali sono stati uditi numerosi colpi d’arma da fuoco. Tra i feriti, alcuni dei quali sono già stati trasferiti in ospedale, ci sarebbe il capitano della nave assaltata. In Siria, intanto, otto gruppi palestinesi con base a Damasco hanno chiesto agli stati arabi e musulmani di dare supporto alla «Flotilla» ed hanno avvertito Israele di evitare «ogni sciocchezza per ostacolare le navi».
«Ciò potrebbe creare nuove tensioni e imprevedibili reazioni», hanno fatto sapere i gruppi palestinesi, tra cui Hamas e Jihad islamica. Per arrivare nell’enclave palestinese, le sei navi, con a bordo 700 pacifisti pro-palestinesi e 10.000 tonnellate di aiuti umanitari, devono superare il blocco israeliano. Secondo il governo dello Stato ebraico, le imbarcazioni pacifiste della «Freedom Flotilla», dirette verso la Striscia di Gaza «sono una provocazione». «Abbiamo la ferma intenzione di arrivare a Gaza malgrado le intimidazioni e le minacce di violenza che abbiamo ricevuto», aveva detto ieri uno degli organizzatori della «Freedom Flotilla».
Dopo l’assalto alla nave turca, la radio pubblica israeliana ha annunciato questa mattina che la censura militare ha proibito la diffusione di qualsiasi informazione su morti e feriti trasferiti negli ospedali di Israele. La radio pubblica israeliana ha precisato che non dispone di informazioni sul trasferimento dei feriti in ospedali israeliani. Ma numerosi centri sanitari dello Stato ebraico hanno ricevuto l’ordine di prepararsi ad accogliere un numero elevato di feriti.
Il governo di Ankara, che ha convocato l’ambasciatore israeliano, ha definito «inaccettabile» l’attacco israeliano contro la flotta umanitaria e ha messo in guardia da «irreparabili conseguenze». Intanto il movimento islamico Hamas esorta arabi e musulmani di tutto il mondo a «elevare la protesta» dinanzi alle ambasciate israeliane di tutto il mondo, mentre la polizia israeliana ha alzato il livello di allerta in Israele per far fronte a «eventuali disordini» da parte di arabi israeliani.
* La Stampa, 31/5/2010 (8:0)
Le navi di pace sfidano Israele
Lieberman: li fermeremo
I pacifisti non demordono: la «Flotta della solidarietà» proverà oggi a forzare il blocco navale israeliano per raggiungere Gaza. La tensione è altissima. La marina dello Stato ebraico è pronta all’abbordaggio.
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 29.05.2010)
I falchi di Gerusalemme «abbordano» la Flotta della solidarietà. Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, bolla come un atto di «propaganda violenta contro Israele» la spedizione della flottiglia multinazionale delle organizzazioni non governative di «Free Gaza» salpate in questi giorni con l’intenzione dichiarata di spezzare il blocco contro la Striscia.
AVIGDOR ATTACCA
«Nella Striscia di Gaza non c’è crisi umanitaria», sostiene Lieberman, in polemica con diverse istituzioni internazionali, nel corso di una riunione ad hoc durante la quale ha ribadito che il suo governo non permetterà ai battelli di raggiungere la meta. «Israele aggiunge si sta comportando nel modo più umanitario possibile e lascia passare migliaia di tonnellate di cibo e materiale verso Gaza, malgrado i crimini di guerra e i lanci di razzi di Hamas». L’iniziativa delle Ong rincara la dose è dunque solo «un tentativo di propaganda violenta contro Israele» cui Israele risponderà «non consentendo alcuna violazione della sua sovranità: in mare, nei cieli o a terra». Secondo voci riportate dai media delle regione, le forze di sicurezza israeliane hanno già provveduto a mettere in campo sistemi di disturbo delle comunicazioni attorno alla Striscia sottoposta dallo Stato ebraico a una forte limitazione di accesso di merci e persone fin dall’ascesa al potere degli islamico-radicali di Hamas, nel 2007 e hanno predisposto tende e servizi attorno al porto di Ashdod (sud di Israele): dove hanno annunciato di voler dirottare la flottiglia, per poi provvedere al rimpatrio forzato degli attivisti e al trasbordo via terra dei loro aiuti sotto il proprio controllo. I moniti israeliani non hanno in ogni caso scoraggiato i responsabili della traversata, promossa da Ong registrate in Turchia, Svezia, Grecia, Cipro, Irlanda e Algeria, con la partecipazione anche di alcuni pacifisti italiani.
DETERMINATI A PROSEGUIRE
La tensione è altissima. La flottiglia internazionale ha rimandato a oggi la partenza, secondo quanto hanno reso noto gli organizzatori. «Abbiamo cambiato due volte i programmi perché gli Israeliani minacciavano di catturare l’imbarcazione turca e quindi abbiamo deciso di rinviare il raduno di tutte le imbarcazioni», spiega Audrey Bomse, una delle organizzatrici del movimento «Free Gaza», che guida l’iniziativa. Un altro problema, aggiunge Bomse, è stato un guasto tecnico che ha colpito uno dei natanti. Sette imbarcazioni cariche di aiuti umanitari si sono radunate nelle acque internazionali al largo di Cipro per fare rotta su Gaza. La «Flottiglia» trasporta tonnellate di medicinali, materiali da costruzione, generatori di corrente, carrozzine elettriche e materiale scolastico per la popolazione della Striscia (1,5milioni di persone, in maggioranza donne, bambini e adolescenti).
PALAZZO CHIGI ALLERTATO
La «Freedom Flotilla Italia» ha inviato-27maggio ore19:42-un faxal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta. «Di sicuro saprà si legge nel messaggio che agenzie di stampa hanno riportato come il Governo di Israele ha ripetutamente minacciato di impedire al convoglio, denominato Freedom Flotilla, di giungere a Gaza ricorrendo anche alla forza ed all’arrembaggio. Non saprà forse, signor sottosegretario, che la Freedom Flotilla navigherà unicamente in acque internazionali e nella acque territoriali di Gaza, sicché qualsiasi azione della marina israeliana si configurerebbe come atto di pirateria, ciò che la comunità internazionale non può permettere...Ci rivolgiamo perciò a lei auspicando vivamente che il Governo Italiano svolga con immediatezza perché le navi giungeranno tra breve in vista della acque territoriali di Gaza - i passi necessari per invitare il Governo Israeliano al rispetto delle norme del diritto internazionale che non riconoscono ad Israele alcun diritto su Gaza da dove ha ritirato con scelta unilaterale il proprio esercito. Lo stesso assedio di Gaza che dura da un anno e mezzo è arbitrario ed illegittimo Restiamo in fiduciosa e vigile attesa, confidando in una sua risposta rassicurante...». La risposta, finora, è solo una: il silenzio. Inquietante. Complice.
Israele nega l’ingresso
Chomsky: respinto
Funzionari israeliani hanno negato l’ingresso in Cisgiordania, domenica pomeriggio, al filosofo e linguista americano Noam Chomsky, noto anche per le sue posizioni critiche nei confronti della politica israeliana. Chomsky ha definito “regime stalinista” il governo israeliano che gli ha impedito di tenere una lezione all’Università palestinese di Bir Zit, nei pressi di Ramallah.
* il Fatto, 18.05.2010
l’Unità, 23.05.2010
Chomsky: Israele è paranoico. E va in visita da Hezbollah
Per l’accademico e esponente della sinistra radicale Usa Noam Chomsky Israele è «isterico e paranoico», ma è difficile che scatenerà una guerra contro Hezbollah: «se gli israeliani useranno la testa non lo faranno». L’intellettuale ebreo americano, respinto da Israele giorni fa, è andato nel Libano meridionale, dove il movimento Hezbollah, che gli Stati Uniti considerano come terrorista, sta celebrando il decimo anniversario della liberazione dall’ occupazione militare israeliana. Chomsky ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione di un museo dedicato a Hezbollah e alle sue azioni militari. Il responsabile di Hezbollah per il sud del Libano, sheikh Nabil Qaouq Qaouq, è in allerta per le manovre difensive israeliane di oggi e ha detto che «in caso di una nuova aggressione contro il Libano, gli israeliani non troveranno posti per nascondersi».
Il caso Chomsky e la democrazia in Israele
di Carlo Tagliacozzo (il Fatto, 23.05.2010)
Il caso dell’ingresso negato a Chomsky in Israele e Palestina merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, ma trattandosi di un personaggio di altissimo profilo ha avuto l’attenzione dei media. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all’ingresso in Israele e per 5 anni non possono più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, il MIT. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Nel caso di Chomsky si è applicato un boicottaggio individuale, in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Un esempio che dovrebbe far riflettere quanti sostengono che Israele sia “l’unica democrazia in medio oriente”.
Ebrei europei: un appello alla ragione
Messaggio: FEDERICO LA SALA scrive: 2 maggio, 2010 alle 3:12 pm
SIGMUND FREUD (LONDRA, 16 NOVEMBRE 1938) E MAREK EDELMANN (MAGGIO 2008) PER LA DEMOCRAZIA E PER LA PACE - IN EUROPA E IN ISRAELE.....
PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA E FARAONICA. E PER L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" ...
SIGMUND FREUD E LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO". IL ‘LUPO’ HOBBESIANO, L’ ‘AGNELLO’ CATTOLICO, E “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTA”. Indicazioni per una rilettura:
http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1272798693.htm
Federico La Sala
Se gli intellettuali ebrei criticano Gerusalemme
di Sandro Viola (la Repubblica, 05.05.2010)
Non è difficile immaginare quale sarà la risposta delle destre israeliane alla lettera che 3.560 ebrei dei diversi paesi d’Europa, in gran parte intellettuali, hanno presentato al Parlamento europeo contro la politica delle nuove costruzioni nei Territori occupati condotta sinora dal governo Netanyahu.
Non è difficile immaginarla, perché quando le critiche ad Israele erano venute da ebrei, anche se religiosi e praticanti, anche se israeliani con ruoli di spicco nella cultura dello Stato ebraico, la replica era sempre stata la stessa: «Sono ebrei che odiano gli ebrei». Mentre le critiche che giungevano dai non ebrei, venivano sistematicamente, sprezzantemente accusate di antisemitismo.
Ma la lettera dei 3.560 rappresenta comunque un fatto nuovo e significativo, perché rende ancora più visibile, più pesante, l’isolamento in cui si trova oggi Israele. L’estendersi delle costruzioni nella Gerusalemme araba, il "non intervento" del governo rispetto agli insediamenti illegali in Cisgiordania, hanno suscitato una profonda, scoperta insofferenza nei governanti europei, la Merkel e Berlusconi inclusi. Persino l’appoggio degli ebrei americani alla politica delle nuove costruzioni, sino ad oggi costante, si va affievolendo. E questo mentre negli ultimi due mesi il rapporto con gli Stati Uniti, l’incrollabile alleato, il Protettore di Israele, non ha fatto che deteriorarsi. Per la prima volta, infatti, l’America di Barack Obama ha chiarito che i suoi interessi politici e strategici non coincidono più, com’era sempre stato in passato, con gli interessi politici e strategici di Israele. L’ha detto Obama, l’hanno detto i vertici del Pentagono, lo ripetono ogni giorno i grandi giornali americani.
Quel che non era mai accaduto dalla nascita dello Stato ebraico, accade adesso. Nel cemento dell’alleanza America-Israele si sono aperte crepe che non si possono più nascondere, e anzi diventano col trascorrere delle settimane sempre più vistose. Sbaglierebbe, infatti, chi riducesse il contenzioso tra la Casa Bianca e il governo Netanyahu alla sola questione delle nuove costruzioni nella Gerusalemme araba. Questa è la punta dell’iceberg, ma sotto c’è molto di più. C’è la posizione assunta in questi due mesi dal presidente americano. La convinzione che la riluttanza del governo d’Israele a negoziare seriamente sulla formula dei "due Stati", i continui rinvii nell’affrontare i nodi veri della contesa sulla Palestina (dopo ben nove mesi di faticosi tentativi fatti dall’inviato di Obama, George Mitchell), «stanno mettendo a rischio interessi vitali per la sicurezza degli Stati Uniti».
È vero che al momento lo stallo delle trattative tra israeliani e palestinesi sembra superato. Gli americani sono riusciti a fare accettare alle due parti l’idea di procedere per ora con la formula dei "negoziati indiretti". Con George Mitchell e il suo staff che faranno la spola tra gli uni e gli altri per ascoltarne le proposte e poi riferirle alla controparte. Beninteso, Netanyahu continua a dire in pubblico che non fermerà le costruzioni a Gerusalemme Est. Ma questo serve solo ad evitare beghe politiche interne, una possibile crisi della sua coalizione di governo, la più inadatta (con partiti tra l’estrema destra e la destra, e un’ininfluente presenza dei laburisti) a discutere con l’Autorità palestinese. Nei fatti, però, un congelamento delle costruzioni è ormai in atto.
Dunque il cosiddetto "processo di pace" (una definizione sempre più risibile, se si pensa che i negoziati si trascinano da diciannove anni) accenna a ripartire. Ma il suo contesto è cambiato. Gli Stati Uniti non sono più il mediatore sempre parziale, sempre sbilanciato a favore dei governi israeliani. Perché adesso risolvere il conflitto israelo-palestinese è divenuto per l’America di Barack Obama un "imperativo strategico". E la Casa Bianca ha in serbo nuovi e potenti mezzi di pressione. Uno è la possibilità di astenersi, invece che usare il diritto di veto, nel caso d’una condanna d’Israele da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un altro è l’idea di varare un "piano americano" per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che le parti dovrebbero o accettare, o respingere con conseguenze clamorose.
Sembra chiaro che negli ultimi mesi gli israeliani non avessero colto l’ampiezza della svolta americana. Avevano ritenuto che l’Obama di febbraio-marzo, non ancora rafforzato dal successo della riforma sanitaria e dalla firma dello Start 2, avrebbe esitato, segnato il passo, dinanzi all’eventualità d’entrare in collisione col governo Netanyahu. Ma non è stato così. Sostenuto, come s’è detto, dal Pentagono e da una grossa parte dell’opinione pubblica, il presidente è andato avanti: il negoziato con i palestinesi non è più rinviabile, la soluzione dei "due Stati" dovrà essere trovata entro il 2012.
Agli inizi Netanyahu aveva cercato di imbrigliare la pressione di Washington mettendo avanti la minaccia del nucleare iraniano, e i rischi che ne derivano per l’esistenza stessa d’Israele. La questione (che non è certo trascurabile, anzi) ha consumato molte energie dei negoziatori americani, e molto tempo, sinché gli israeliani non hanno dovuta toglierla temporaneamente dal tavolo. Mentre di fronte alle successive manovre diversive di Netanyahu, la posizione di Obama s’è fatta anche più recisa. Con 200.000 uomini tra Iraq e Afghanistan, un fallimento del negoziato israelo-palestinese rischia - secondo la Casa Bianca - di costare all’America «un prezzo enorme di sangue e di risorse economiche». Parole che nessun governante israeliano aveva mai dovuto ascoltare, e che hanno sicuramente avuto un peso decisivo nel varo dei "negoziati indiretti" che dovrebbero cominciare a metà mese.
La lettera dei 3.600 ebrei d’Europa farebbe riflettere qualsiasi governo sulla caduta dell’immagine dello Stato ebraico nell’opinione pubblica mondiale, ma lascerà probabilmente indifferenti i Moshe Feiglin, gli Avigdor Lieberman, gli Eli Yishai, la parte cioè più miope e intransigente del governo di Gerusalemme. Mentre se fossero capaci di ragionare, anche loro dovrebbero cogliere i rischi dell’isolamento d’Israele. Primo fra tutti quello di servire da alibi ad una torva, odiosa - ma vasta, molto vasta - riapparizione dell’antisemitismo.
Perché bisogna parlare con l’Islam
di Alain Touraine
Anticipiamo parte dell’intervento che pronuncia al convegno che oggi e domani si svolge a Palermo, «Mediterraneo: Porta d’Oriente», organizzato dalla Fondazione Roma Mediterraneo presieduta da Emmanuele Emanuele e dal Censis. Partecipano, fra gli altri, Shirin Ebadi, Adonis, Tahar Ben Jelloun, Ferzan Ozpetek e Giuseppe De Rita.
la Repubblica, 13 maggio 2010
Perché il Mediterraneo? Perché il Mediterraneo rivolto a Oriente? La non difficile risposta a queste domande sta in un nome: Islam. Oggi ci viene chiesto di dar vita a un’Europa politica e internazionale, un’Europa che, per sua stessa decisione, non svolge alcun ruolo sulla scena internazionale, dalla quale è assente. Questa è la sostanza. Che guardi a nord, a sud, a est o a ovest, l’Europa non interviene in alcun luogo e il suo posto al mondo retrocede per svariate ragioni: demografiche, economiche, perfino culturali, poiché non viviamo più in un mondo unico che è estensione dell’Europa, e soprattutto dell’Europa occidentale.
La globalizzazione non è più appannaggio del solo sistema economico. Siamo ormai obbligati a pensare i nostri problemi sociali e politici inseriti in un contesto mondiale, perché oggi la questione dominante è: un mondo diverso e in cui le parti si conoscono ancora molto poco possiede realtà e diritti universali? (...) Formuliamo un’ipotesi utilizzando il più semplice dei termini: gli Stati Uniti hanno intrapreso dei conflitti con nazioni, popoli, popolazioni e Stati musulmani la cui caratteristica è di essere stati a lungo colonizzati e di non essere mai riusciti a costruire uno Stato nazionale. Il caso più estremo è quello dei palestinesi, la cui esistenza stessa fu messa in questione dalla Lega Araba nel 1948 quando attaccava violentemente l’insediamento di Israele sulle terre arabe. Ma pressoché ovunque nel mondo arabo non è esistito lo Stato nazionale. (...)
Questa breve evocazione non fa forse risaltare la necessità per l’Europa di stabilire rapporti con il mondo islamico su una base completamente diversa, rivolgendosi a paesi che non sono stati colonizzati e che hanno sempre avuto un forte Stato nazionale. La prima a rispondere a questa definizione è la Turchia, che ha addirittura conquistato e a lungo occupato una parte dell’Europa e le cui successive forme di Stato sono state sempre forti, soprattutto con il kemalismo e la volontà dei giovani ottomani di adottare una vita politica e di Stato ispirata al modello europeo. Si potrebbe dire pressoché la stessa cosa dell’Iran, colonizzato soltanto dalla Turchia, dove la teocrazia resta al potere solo grazie al terrore e a risultati elettorali falsati. Alcuni, soprattutto gli Stati Uniti, sono grandemente tentati dal dare l’assalto alla Repubblica islamica, il che rappresenta una strada molto più rischiosa e meno efficace della fiducia riposta nella popolazione iraniana, la quale non vive affatto isolata, grazie soprattutto a Internet, e la cui coscienza della contraddizione generale tra le sue ispirazioni e gli obblighi del regime islamico aumenta.
È dunque innanzitutto con la Turchia e poi, dopo la propria auto-trasformazione, con l’Iran che è necessario stabilire rapporti che non siano né di conquista, né di diffusione dei modelli politici e culturali europei. È con la Turchia, in maniera diretta e completa, cioè all’interno dell’organizzazione europea stessa e senza mettere in causa l’attaccamento della maggior parte della popolazione turca all’Islam, che bisogna intraprendere questa grande ricerca di ciò che abbiamo in comune e di ciò che abbiamo di diverso tra un mondo e l’altro, iniziando con lo sbarazzarci della definizione di civiltà data da Samuel Huntington che porta in sé inevitabilmente la guerra. (...)
E qui torno all’idea con cui ho aperto: questo obiettivo non è separabile dalla creazione degli obiettivi politici dell’Europa, cioè quegli obiettivi che danno all’Europa un ruolo attivo nell’analisi e nella trattazione dei problemi internazionali. Non è il semplice appello alla conoscenza dell’altro che può svegliare l’Europa. È il suo impegno reale, pratico, vale a dire politico, di poter dimostrare ai propri amici come anche ai propri nemici di essere capace di creare con l’Islam, con alcune parti dell’Islam per iniziare, dei rapporti che escludano ogni jihad, ogni azione armata e ogni terrorismo. Bisogna insistere su questo punto perché niente è possibile senza un risveglio politico e intellettuale degli europei. (...)
Da molto tempo ormai sappiamo che ogni soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi implica la totale accettazione dello Stato palestinese. Gli Stati Uniti si sono impegnati con Israele e continuano a manifestare timori nei confronti del mondo palestinese. Gli europei non possono considerare la scomparsa di Israele, paese molto più vicino al mondo europeo degli altri paesi della regione e che resta, almeno per gli uomini della mia generazione, il paese istituito per dare una risposta creatrice alla Shoah. Ma gli europei, che hanno conosciuto la decolonizzazione, capiscono la volontà dei palestinesi di essere cittadini di uno Stato nazionale.
Nella situazione in cui ci troviamo si può dire, anche se con prudenza, che i rapporti tra israeliani e palestinesi possono essere facilitati dalla presenza congiunta di americani ed europei nella ricerca di una soluzione. Gli europei contribuiscono fortemente alla sopravvivenza dei palestinesi e solo qualche estremista di destra e di sinistra nega il diritto di Israele all’esistenza. Gli americani, dal canto loro, hanno intrapreso sempre di più la ricerca di una soluzione che comporta l’esistenza di due Stati nazionali. (...)
Solo loro possono assumere un linguaggio che rispetti la moschea di Omar tanto quanto il muro del pianto e il diritto al ritorno di coloro che sono stati cacciati dalle proprie terre sin dal 1948, diritto che si sa che non può essere rivendicato ed esercitato ovunque senza un’ingestibile catastrofe, ma che può essere accettato, come deve esserlo per tutti, l’esistenza garantita di Israele.
LE IDEE
Israele ha perso la fiducia
di AVRAHAM B. YEHOSHUA *
Dopo la Guerra dei sei giorni in Israele prese il via il dibattito sul futuro dei territori conquistati. Per anni si è potuta operare una distinzione fra i sostenitori delle diverse prese di posizione politiche in base alla percentuale di territorio che chiedevano di annettere come condizione di un accordo di pace.
Gli estremisti di destra volevano conglobare nello Stato ebraico l’intero territorio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (pari a circa seimiladuecento chilometri quadrati), mentre i propugnatori di opinioni più moderate, appartenenti al partito laburista, rivendicavano soltanto il venti o il trenta per cento di quel territorio, sia per ragioni di sicurezza sia perché non volevano annettere un’alta percentuale di popolazione palestinese.
I partiti religiosi erano attenti ai luoghi di interesse e di importanza storico-religiosa mentre la sinistra radicale si sarebbe accontentata di piccoli ritocchi ai confini di Gerusalemme Est per assicurare agli ebrei l’accesso alla città vecchia. Così, per parecchi anni, almeno in teoria, chiunque ha potuto esprimere la propria opinione politica, fosse essa di destra o di sinistra, elencando cifre e percentuali che talvolta la chiarivano meglio di quanto potesse farlo una dettagliata spiegazione verbale.
Ma i dibattiti fra la destra e la sinistra erano puramente teorici. I palestinesi più moderati non hanno infatti mai smesso di considerare le frontiere del 1967 come la base per la creazione di un loro futuro Stato (e a ragione, a mio parere). Fintanto però che nessun negoziato chiaro e vincolante veniva avviato gli israeliani continuavano a giocare con i numeri.
Di quando in quando si dovevano aggiornare le cifre, vuoi per una colonia trasformatasi nel frattempo in una vera e propria città ormai difficile da sgomberare, vuoi per il ritiro dalla Striscia di Gaza che ha di colpo sottratto al calcolo delle possibili concessioni 370 km quadrati di territorio (visto e appurato che le aree consegnate ai palestinesi non rappresentano più un argomento di dibattito in Israele).
Negli ultimi anni però queste dispute tradizionali sono cessate, soprattutto fra coloro che possiedono qualche nozione di geografia e una certa esperienza in campo militare e politico. La sempre più salda convinzione della comunità internazionale che i confini del 1967 rappresenteranno quelli del futuro Stato palestinese e la consapevolezza sempre più lucida degli israeliani che sarà impossibile mantenere il carattere democratico ed ebraico dello Stato di Israele dopo l’annessione della Cisgiordania, hanno riportato in auge lo slogan «due Stati per due popoli», e non solo fra i sostenitori della sinistra moderata. Persino il falco Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro dello Stato ebraico, ha più volte proclamato l’accettazione di tale principio.
Ciò nondimeno l’ideale di due Stati per due popoli (che dovrebbe rallegrare moltissimo chi ha lottato per lunghi anni per la pace) si rivela oggi null’altro che la dolce glassatura di un boccone estremamente amaro da inghiottire.
In altre parole questa presa di coscienza politica moderata e conciliante, considerata ormai da quasi tutti in Israele come l’unica soluzione possibile al conflitto con i palestinesi, nasconde in realtà un profondo senso di pessimismo e di incertezza nei confronti di una eventuale soluzione. Pessimismo e incertezza che non derivano necessariamente da motivi ideologici o di sicurezza e che sono presenti anche in chi in passato credeva nella pace. Vent’anni fa la sinistra moderata riteneva che fosse sufficiente ritirarsi dai territori occupati per ottenere la pace, mentre la destra oltranzista sosteneva che se avessimo annesso la Cisgiordania e costruito molti insediamenti i palestinesi avrebbero accettato la situazione e si sarebbero rassegnati alla nostra presenza. Questo approccio ottimista, sia della destra che della sinistra, si è molto indebolito negli anni a causa di un senso di sfiducia sempre più forte e di natura apolitica che contrasta con il passato spirito di intraprendenza e di creatività di Israele (che tuttavia ancora sopravvive in campo economico e culturale). Un senso di sfiducia alimentato non da principi ideologici o da timori esistenziali, ma da sentimenti di impotenza interiore, di fatalismo, di scetticismo. Neppure nei momenti più difficili del conflitto arabo-israeliano degli ultimi cento anni gli ebrei avevano perso fede nella pace.
«È vero», si sente spesso dire da molti israeliani, «la soluzione di due Stati per due popoli è l’unica possibile. Ma non riusciremo a sgomberare gli insediamenti senza che scoppi una sanguinosa guerra civile fra gli ebrei. Anche la divisione di Gerusalemme, per quanto indispensabile, è ormai impossibile da realizzare. E che faremo se dopo aver firmato un accordo i palestinesi chiederanno di tornare a Haifa o a Jaffa? O nel caso Hamas assumesse il controllo dello Stato palestinese?». Insomma, tutte queste obiezioni non hanno altro scopo che dimostrare che la pace è oggettivamente impossibile, e non a causa di ideologie contrastanti.
E così, malgrado la maggior parte della popolazione di Israele abbia accettato la formula e i principi di un accordo di pace, nello Stato ebraico regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo che potrebbe preparare il terreno, Dio non voglia, a una guerra futura.
* La Stampa, 30/4/2010
Intellettuali e politici hanno firmato la petizione che sarà presentata all’Europarlamento Critiche alla politica degli insediamenti in Cisgiordania: deve nascere uno Stato palestinese
Appello di 3mila ebrei europei: «Israele, ragiona Basta colonie»
Un atto d’amore per Israele. Un amore vero e per questo anche critico. Tra i firmatari intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit.
Reazioni contrastanti. La sinistra israeliana lo approva La destra lo rigetta
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 04.05.2010)
«Siamo cittadini ebrei di Paesi europei impegnati nella vita politica e sociale dei nostri rispettivi Paesi. Qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità. Il futuro e la sicurezza di questo Stato al quale siamo molto legati ci preoccupano... Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto Stato...».
APPELLO COSTRUTTIVO
Un «Appello alla Ragione». Un atto d’amore verso Israele. Ma un amore sincero, e per questo anche critico. Un appello che sarà presentato al Parlamento europeo e illustrato in una conferenza stampa a Bruxelles sottoscritto da oltre tremila ebrei europei, tra cui intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit. I promotori di questa iniziativa, denominata JCall, paragonano i loro obiettivi a quelli di JStreet, una lobby ebraica americana pro-Israele di indirizzo liberal. La petizione di JCall ribadisce il diritto di Israele a esistere come «Stato ebraico e democratico», ma critica anche la politica israeliana degli insediamenti in Cisgiordania e sostiene la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, coesistente in pace al fianco di Israele.
«La nostra iniziativa vuole mostrare che all’interno della comunità ebraica c’è un dibattito un dibattito aperto e che non siamo monolitici», spiega al quotidiano Haaretz David Chemla, uno dei promotori. «Noi ci identifichiamo con Israele e con i suoi diritti, ma samo critici. Questo è salutare siamo ebrei, sionisti e pronti a sollevarci per difendere il diritto all’esistenza di Israele, ma vogliamo mostrare che è giusto identificarsi con Israele e allo stesso tempo criticare alcune sue azioni».
DIALOGO STRATEGICO
Per questa ragione rimarca l’Appello «abbiamo deciso di mobilitarci intorno ai principi seguenti : 1) Il futuro di Israele esige di giungere a un accordo di pace con il popolo palestinese sulla base del principio di “due popoli, due Stati”. Lo sappiamo tutti, l’urgenza incalza. Presto Israele sarà posta di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile; 2).
È essenziale che l’Unione Europea a fianco degli Stati Uniti eserciti una pressione forte sulle parti in lotta e le aiuti a giungere a una composizione ragionevole e rapida del conflitto. L’Europa in ragione della sua storia ha una grande responsabilità in questa regione del mondo;. 3) Se la decisione ultima appartiene al popolo di Israele, la solidarietà degli ebrei della Diaspora impone di adoperarsi perché questa decisione sia quella giusta.
Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele. 4) Vogliamo dare vita a un movimento europeo capace di fare intendere a tutti la voce della ragione. Un movimento che si pone al di sopra delle differenze di parte e di ideologia con l’unica ambizione di adoperarsi per la sopravvivenza di Israele come Stato ebraico e democratico, che è strettamente legata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e autosufficiente».
DESTRA SPIAZZATA
Gli «amici» non fanno sconti. Lo chiarisce uno dei firmatari: «Non credo che Netanyahu sia serio quando dice: “Due Stati per i due popoli”. Penso che lui non si fidi dei palestinesi, che voglia garantire la stabilità della sua coalizione di governo», afferma Alain Finkielkraut in una intervista alla radio militare israeliana. Quando il premier israeliano pronuncia quella formula, osserva l’intellettuale francese, «non c’è dietro un contenuto, non c’è un significato reale». Finkielkraut ha aggiunto ancora di aver apposto la propria firma al documento «con grande sofferenza, e nella preoccupazione per il futuro di Israele».
L’ «Appello» è stato subito accolto con grande favore da esponenti della sinistra sionista (come gli ex ministri Yossi Sarid e Shlomo Ben-Ami), mentre è stato respinto da esponenti della destra.
«Si tratta di una importante assunzione di responsabilità dice a l’Unità Yossi Sarid da parte di personalità europee che non sono certo tacciabili di essere filo-palestinesi. I firmatari si schierano con le ragioni del dialogo e del compromesso. Concetti che non appartengono al vocabolario politico dei fautori di Eretz Israel».
Intervista a Zeev Sternhell
«Netanyahu ascolti questi veri amici del nostro Stato»
Lo storico israeliano: «Gli oltranzisti sono un pericolo per la nostra esistenza. Rischiamo di diventare un ghetto atomico. La pace con i palestinesi è fondamentale»
La dialettica. Giusto contestare le scelte sbagliate del governo israeliano
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 04.95.2010)
Una iniziativa di grande valenza politica, culturale, etica. Un movimento di opinione che ha il coraggio di guardare a Israele con un atteggiamento costruttivamente critico». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici israeliani: Zeev Sternhell.
Qual è la valenza dell’«Appello alla Ragione »?
«Una valenza importante, sotto vari punti di vista. È importante sul piano politico, perché l’appello è molto chiaro su alcuni punti cruciali...».
Quali?
«Penso alla critica alla colonizzazione in atto nei quartieri arabi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania; una politica che svuota di contenuto concreto il principio, che i firmatari dell’ appello sostengono, di “due popoli, due Stati”. Ma la forza dell’appello va oltre l’aspetto più propriamente politico. E tocca un nervo scoperto che investe il rapporto stesso tra lo Stato d’Israele e la Diaspora...».
Come viene ridefinito questo rapporto?
«In una concezione dialettica fecondamente critica. La Diaspora non è intesa come mera cassa di risonanza di qualsiasi scelta compiuta da coloro che governano Israele. Il rapporto si fa dialettico. E questa è un’acquisizione importante. Si critica Israele per quel che fa e non per quel che è. Si criticano scelte politiche, ritenute sbagliate; quelle scelte, come la colonizzazione, che non solo allontanano un accordo di pace ma che, rileva giustamente l’appello, alimentano la delegittimazione, a livello internazionale, di Israele come Stato. Molti degli intellettuali firmatari dell’appello sono considerati nei loro Paesi degli strenui difensori d’Israele. Ebbene, con questa presa di posizione ridefiniscono cosa sia “difendere” oggi Israele. Una difesa attiva, critica, costruttiva, il contrario di quell’appiattimento acritico che, rimarcano i firmatari, rappresenta un pericolo per Israele».
Qual è l’altro aspetto dell’appello che da storico e scienziato della politica che l’ha più colpita?
«L’aver evidenziato con chiarezza che la pace con i palestinesi e la costituzione di uno Stato di Palestina non sono delle concessioni al “nemico”, ma i fondamenti per salvaguardare e rafforzare due pilastri dell’identità nazionale d’Israele: l’identità ebraica e la sua struttura democratica. L’appello lo afferma con grande coraggio intellettuale: se non imbocca questa strada, Israele - cito un passaggio dell’ appello “sarà posto di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile...”. È la verità. Ed è importante che è ribadirla siano tremila veri “amici d’Israele”».
L’appello lancia un grido d’allarme: Israele è ancora una volta in pericolo, ma esso viene anche dall’interno.
«Israele ha il futuro nelle sue mani. Ha la forza per compiere scelte impegnative, deve trovare in sé la volontà, politica e morale, per imboccare la strada giusta: quella della pace. Una pace che non sarà a costo zero, ma senza la quale Israele vedrà erodere le fondamenta della sua identità... Certo, la nostre capacità militari basteranno a preservare la sicurezza del Paese, ma senza una scelta coraggiosa a favore della pace, Israele si vedrebbe trasformato in un ghetto atomico in perenne conflitto con l’esterno...».
La destra oltranzista israeliana non apprezzerà questo appello...
«Non me ne meraviglio né mi spavento. Considero gli oltranzisti un pericolo per Israele, per le idee che professano e per come le portano avanti. Costoro sono portatori di una visione fondamentalista di Israele. La loro ostilità è la conferma che l’appello dei Tremila va nella direzione giusta».
YEHOSHUA: UN INSULTO A SEI MILIONI DI MARTIRI (commento alla lettera di Abrham B. Yehoshua, pubblicato dalla Stampa del 18/01/2009)
Abrham. B. Yehoshua. “Caro Gideon,
negli ultimi anni ... Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera..."
Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell’ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja". Perché nell’agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l’ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.
A.B.Y. "Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare."
Arafat riconobbe Israele nel 1993, agì fermamente per reprimere Hamas (come testimoniò Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti Shab’ak israeliani, nel 1998) e cosa ottenne? Barak, Clinton e poi Sharon lo distrussero. Hamas ha dichiarato ufficialmente nel luglio del 2006 con una lettera al Washington Post di riconoscere il diritto degli ebrei all’esistenza in Palestina fianco a fianco dei palestinesi. Nessun media italiano o europeo ha ripreso la notizia. Nessuno.
A.B.Y. "... I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco..."
Respinto l’occupazione? Sono in una gabbia che li affama, che li fa morire ai posti di blocco, che gli nega l’essenziale per vivere. Di nuovo Dugard: "A tutti gli effetti, a seguito del ritiro israeliano, Gaza è divenuta un territorio chiuso, imprigionato e ancora occupato".
A.B.Y. "Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi seguaci (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile..."
Questo è il razzismo di questi assassini vestiti da colombe. Vogliono ’educare’ gli ’untermenschen’ arabi a frustate, "fargli capire", come usava ‘far capire’ nei campi di cotone della Louisiana 200 anni fa o nel ghetto di Varsavia, pochi decenni fa. ’Fargli capire’ le cose ammazzando i loro bambini? Le loro donne? Questo si chiama massacro, è un crimine contro l’umanità che viola le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga. Questo Abrham B. Yehoshua è un mostro, e lui e i suoi colleghi non hanno appreso alcunché dal nazismo, anzi, hanno solo appreso come replicarlo.
"Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio."
Su una porzione del suo territorio... Non c’è limite all’abominio intellettuale di questo scrittore. Gli ’untermenschen’ arabi devono essere grati di poter fare la fame su un fazzoletto di terra privo di ogni sbocco economico/commerciale e che è una frazione di quel 22% delle loro terre che gli è rimasto dopo che Israele gli ha rubato il 78% a forza di massacri e pulizia etnica.
"Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni..."
Come aver detto agli etiopi nel 1984: "Se imparaste a coltivare la terra invece che chiedere l’elemosina all’ONU...".
Questo Abrham B. Yehoshua è, lo ribadisco e me ne assumo la responsabilità, un mostro. Lo è in forma più disgustosa di Sharon, di Olmert, della Livni, poiché traveste la sua perfidia disumana da ’colomba’.
L’ipocrisia della tragedia israelo-palestinese è arrivata a livelli biblici di disgusto. E ricordo, per tornare in Italia, la posizione dei nostri intellettuali di sinistra, ‘colombe’ anch’essi, come esplicitata sul sito http://www.sinistraperisraele.it/home.asp?idtesto=185&idkunta=185, dove campeggia una commemorazione di Uri Grossman, figlio dell’altra ‘colomba’ israeliana di chiara fama, David Grossman, ucciso durante l’invasione israeliana del Libano del 2006. La morte di un figlio è sempre una tragedia immane, e quella morte lo è nel suo aspetto privato. Non oserei profferire parola su questo.
Ma vi è un aspetto pubblico di essa, che stride e che fa ribollire la coscienza: Uri Grossman era un soldato di un esercito invasore, criminale di guerra, oppressore da 60 anni di un intero popolo, e che in Libano ha massacrato oltre 1000 esseri umani innocenti, dopo averne massacrati 19.000 in identiche circostanze nel 1982 e molti altri nel 1978. Uri Grossman era una pedina di una impresa criminale, ma venne commemorato su tutti i media italiani, e ancora lo è sul sito dei nostri ‘intellettuali colombe’.
Dove sono le commemorazioni della montagna di Abdel, Baher, Fuad, Adnan, la cui vita spezzata a due anni, a tredici anni, a trent’anni, e senza aver mai indossato la divisa di un esercito criminale di guerra, ha lasciato il medesimo strazio e il medesimo buio di vivere di “papà, mamma, Yonatan e Ruti” Grossman? Dove sono? Dove?
"Far capire"... "malauguratamente è l’unico modo". Queste parole, Abrham B. Yehoshua, questi ’intellettuali’ traditori, la difesa del sionismo e delle condotte militari di Israele dal 1948, sono un insulto a sei milioni di martiri ebrei dell’Olocausto nazista. Lo scrivo, lo dico e mi chiamo Paolo Barnard.