La denuncia del ministro degli Esteri britannico: "Rischio epidemie e malnutrizione"
Diplomazia al lavoro per fermare la guerra civile. Veltroni: "Intervenga il governo italiano"
Congo, 1,6 milioni di profughi
"Non hanno né acqua né cibo"
ROMA - "Gli sfollati in Congo sono più di un milione e 600.000. Sono presi in trappola senza né acqua né cibo". La denuncia è del ministro degli esteri britannico David Miliband che ha raggiunto la capitale del Congo devastato dalla guerra civile tra l’esercito del generale ribelle Laurent Nkunda e le truppe del presidente Joseph Kabila. "I profughi - ha detto Miliband - non possono essere raggiunti facilmente dagli aiuti umanitari. La minaccia di epidemie e di diffusa malnutrizione nella zona degli scontri è più che reale".
Il secondo giorno consecutivo di tregua sembra reggere, ma continuano le vessazioni compiute dai ribelli, dai soldati governativi e dagli sbandati di entrambi le fazioni, che hanno costretto centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le loro case e a vagare nel Paese senza meta.
Il mondo diplomatico sembra reagire. A nome dell’Unione europea, il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner, insieme al collega britannico, sono in missione a Kinshasa. "Nessuno può restare indifferente dinanzi ai drammatici fatti che stanno accadendo nel Congo", ha detto Walter Veltroni, segretario del Partito democratico: "E’ necessario che il governo italiano assuma un’iniziativa assieme ai partner europei riferendo al più presto alle Camere".
Il fronte della guerra tra l’esercito della Repubblica democratica del Congo e i ribelli del generale Laurent Nkunda muta in continuazione. Si sposta dal massiccio del Masisi, fino ai confini con il Ruanda e l’Uganda. "La gente - racconta Raffaella Gentilini, coordinatore sanitario di Medici senza frontiere, una della pochissime ong ancora attive nella regione insieme a alla missione salesiana - non sa dove andare. Avanza a tentoni. Cammina qualche chilometro, cerca un rifugio dove poter sostare qualche giorno. Ma vive nell’incertezza. Sa che dovrà spostarsi ancora".
Migliaia di profughi si muovono con ogni mezzo. Spesso senza scarpe, si riparano con un telo o una coperta. Hanno fame. Tendono la mano davanti ai villaggi ancora abitati. Alcuni hanno lo stomaco gonfio per le radici e l’erba ingoiate negli ultimi giorni. Molti non mangiano da un settimana. Avanzano stremati. Non sanno dove andare. Si fermano quando il corpo cede alla stanchezza, al dolore e alle ferite. Si accasciano al suolo. Crollano e dormono.
* la Repubblica, 2 novembre 2008.
L’attualità attraverso le carte
Congo tra etnie e diamanti
di Alfonso Desiderio - carte di Laura Canali
Di ora in ora si aggrava la crisi nella Repubblica Democratica del Congo. Nel Nord Kivu, al confine con il Rwanda, ormai gli sfollati sono 1,6 milioni. L’ennesima tragedia nell’ex Zaire, dove negli ultimi 15 anni si è combattuta la cosiddetta prima guerra mondiale africana. Tra guerre e carestie sono stati oltre 5 milioni i morti.
Congo: 1,6 milioni di sfollati.
L’Ue valuta l’invio di truppe
Il Congo non può essere lasciato solo. L’est della Repubblica democratica del Congo è teatro da diverse settimane di un tragico conflitto, residuo del genocidio di un milione di tutsi e hutu nel 1994, in Ruanda. La guerra civile si è scatenata fra i ribelli del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) guidati dal generale dissidente Laurent Nkunda, che affermano di agire per difendere la comunità tutsi, e le forze governative congolesi, accusate di collaborare coi miliziani hutu. Le milizie di Nkunda sono arrivate mercoledì alle porte di Goma, capoluogo della provincia orientale del Nord Kivu, e hanno proclamato da allora un cessate il fuoco unilaterale, che finora sembra rispettato. I combattimenti, in realtà, sono ridotti al minimo negli ultimi giorni, ma continuano le vessazioni compiute dai ribelli, dai soldati governativi e dagli sbandati di entrambi le fazioni, che hanno costretto centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le loro case senza sapere dove sia possibile trovare un rifugio.
I ministri degli Esteri britannico e francese, David Miliband e Bernard Kouchner, sono già intervenuti, con una missione diplomatica in Africa e mettono in guardia gli altri Paesi dal rischio di una nuova escalation di violenza: serve immediatamente, dicono, un’azione «energica della comunità internazionale» per risolvere la crisi. «Le emergenze in termini di cibo, acqua, accoglienza e cure sanitarie - aggiungono i due ministri - devono essere affrontate con una mobilitazione internazionale e garantendo la sicurezza delle strade che permettano l’arrivo degli aiuti in tutto il Nord Kivu, dove la maggioranza dei campi sono isolati e inaccessibili». Miliband e Kouchner hanno promesso di impegnarsi «a usare la nostra influenza alle Nazioni Unite per sostenere questo processo».
In realtà, come ricorda il ministro francese Kouchner, «non dobbiamo ridefinire un protocollo di pace. Questo c’è già», ha detto facendo riferimento all’accordo del novembre 2007, raggiunto a Nairobi da Congo e Ruanda. L’intesa è centrata su una delle principali cause del riesplodere della crisi: il rientro in patria degli hutu espatriati, che attualmente si trovano in Congo sotto la bandiera del Fronte democratico di liberazione del Ruanda. Miliband e Kouchner si riferivano anche all’accordo del gennaio 2008, secondo il quale tutti i gruppi armati che operano nella regione del Kivu si impegnavano al cessate il fuoco e alla smobilitazione. Entrambi gli accordi sono rimasti lettera morta.
In Italia, finora, l’unica voce politica che si è levata sulla situazione in Congo è quella del segretario del Pd Walter Veltroni, secondo il quale, «i drammatici fatti che stanno accadendo nel Congo scuotono le coscienze in tutto il mondo. È necessario - chiede - che il governo italiano assuma un’iniziativa assieme ai partner europei nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e insieme all’Unione Africana riferendo al più presto anche alle Camere sulla situazione del paese africano e sui suoi sviluppi».
Kouchner ha confermato oggi la linea prevalsa ieri tra i 27, di non inviare per il momento truppe in Congo e di esercitare invece una forte azione diplomatica per risolvere la crisi. L’invio di truppe europee, così come fatto in Ciad per tutelare i profughi del Darfur, resta però sul tavolo e sarà discussa lunedì a Marsiglia, nella riunione informale dei ministri degli Esteri della Ue.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.08, Modificato il: 02.11.08 alle ore 16.03
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Statue abbattute e revisione storica.
Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
L’iconoclastia è una costante. E senza revisione (che non è revisionismo) la storia è nulla
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 11 giugno 2020)
Nella complessa geografia politica dell’Africa le aree centrali del grande continente sono fra le più difficili da decifrare perché emergono - a poco a poco e solo da poco - dalla grande nebulosa che chiamiamo, collettivamente, Congo, e che ha dato vita a diversi Stati venuti fuori dai domini coloniali all’indomani della seconda guerra mondiale. Fra questi l’antico Congo belga oggi Repubblica Democratica del Congo, rimasta sotto il dominio di Bruxelles dal 1908 al 1960: ma prima di allora, tuttavia, la corona belga con il sovrano Leopoldo II aveva già giocato un ruolo importante nell’area.
Torniamo a parlarne oggi perché ad Anversa una statua del sovrano è stata rimossa da una piazza a seguito del movimento che, tra Stati Uniti e Europa, sta abbattendo o imbrattando le statue di personaggi che sono venerati come simboli della nazione, ma che allo stesso tempo si sono macchiati di crimini coloniali e schiavisti.
In Belgio il movimento Réparons l’Histoire ha lanciato una petizione chiedendo di rimuovere tutte le statue di Leopoldo II. Intendiamoci: è chiaro che la storia non si ’ripara’ e non è compito degli storici giudicare il passato; il loro ruolo è studiarlo, comprenderlo e insegnarlo. Tuttavia, non bisogna neppur credere ingenuamente che la realtà politica e il pensiero etico si esprimano e si esauriscano tutti e solo all’interno delle aule universitarie e dei seminari accademici: l’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita.
A Londra una statua di Winston Churchill è stata imbrattata con uno scritta che accusa lo statista inglese di essere stato un razzista, il che è noto è comprovato: Churchill definiva ’bestie’ gli indiani e diceva che gli espropri dei Nativi americani e degli aborigeni australiani erano giustificati dalla necessità del trionfo della razza bianca; e fece anche di peggio, come quando durante la Seconda guerra mondale non permise alle derrate alimentari di raggiungere il Bengala, sotto il controllo britannico, affetto da una grave carestia, preferendo stornarle verso i suoi compatrioti: un’azione che portò alla morte di quattro milioni di persone.
Eppure per gli inglesi Winston Churchill significa la vittoria contro il nazifascismo: ecco che, dinanzi all’assenza di una memoria condivisa e al fenomeno per cui l’eroe secondo alcuni è un aguzzino secondo altri, la rabbia iconoclasta si propone come una risposta antropologicamente pregnante.
L’ha benissimo spiegato, a proposito di altre iconoclastie, David Freedberg nel suo apprezzatissimo Il potere delle immagini. Nel caso di Leopoldo II la storia è forse meno nota. Nel 1876, il re belga organizzò l’Associazione Internazionale Africana con la collaborazione dei principali esploratori sul continente e il sostegno di diversi governi europei per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione dell’Africa. Dopo che Henry Morton Stanley aveva esplorato la regione in un viaggio che si concluse nel 1878, Leopoldo corteggiò l’esploratore e lo assunse per sostenere i suoi interessi nella regione e, dal momento che il governo belga mostrava scarso interesse per l’impresa, il sovrano decise di portare avanti la questione per conto proprio.
La rivalità europea in Africa centrale condusse presto però a tensioni diplomatiche, in particolare per quanto riguardava il bacino del fiume Congo che nessuna potenza europea aveva ancora rivendicato. Nel novembre 1884 Otto von Bismarck convocò a Berlino una conferenza di 14 nazioni per trovare una soluzione pacifica alla crisi congolese. Nel corso di essa, pur senza formale approvazione delle rivendicazioni territoriali delle potenze europee in Africa centrale, ci si accordò su una serie di regole per garantire una pacifica spartizione dell’area. Esse riconoscevano il bacino del Congo come ’zona di libero scambio’ (un eufemismo splendido!). Leopoldo II uscì dai lavori della dalla Conferenza con una grande quota di territorio a lui assegnata come ’Stato libero del Congo, organizzato come un’impresa corporativa privata gestita direttamente da lui attraverso un ’libero sodalizio’, l’Association Internationale Africaine, appunto.
L’entità definita ’Stato libero’, comprendente l’intera area dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, sussisté dal 1885 al 1908: solo allora, alla morte di Leopoldo, il governo belga procedette senza entusiasmo a un’annessione (molti i voti contrari in Parlamento). Sotto l’amministrazione di Leopoldo II, lo ’Stato libero del Congo’ era stato un disastro umanitario, un’autentica infame sciagura.
La mancanza di dati precisi rende difficile quantificare il numero di morti causate dallo spietato sfruttamento e dalla mancanza di immunità a nuove malattie introdotte dal contatto con i coloni europei: come la pandemia influenzale del 1889-90, che causò milioni di morti anche nel continente europeo tra cui il principe Baldovino del Belgio. La Force Publique, esercito privato sotto il comando di Leopoldo, terrorizzava gli indigeni per farli lavorare come manodopera forzata per l’estrazione delle risorse. Il mancato rispetto delle quote di raccolta della gomma era punibile con la morte. Le punizioni corporali, comprese crudeli mutilazioni, erano ordinarie.
I miliziani della Force Publique erano tenuti a fornire una mano delle loro vittime come prova che ’giustizia era stata fatta’. Intere ceste di mani mozzate erano poste ai piedi dei comandanti; a volte i soldati ne tagliavano a prescindere dalle quote di gomma, per poter accelerare il congedo dal servizio militare. Nei raid punitivi contro i villaggi uomini, donne e bambini venivano impiccati e appesi alle palizzate.
Il trattamento riservato agli indigeni, insieme alle epidemie, causò nel Congo di Leopoldo II una crisi demografica gravissima; anche se, come detto, le stime di morti variano, si parla di cifre che vanno tra i dieci e i venti milioni. Se tutti i regimi coloniali hanno accumulato una quota notevole di quelli che ormai definiamo ’crimini contro l’umanità’, e che nella pratica significano massacri impuniti di popolazioni locali, il caso di Leopoldo II è particolarmente efferato perché il Congo, prima del 1908, era una sua proprietà personale e le leggi provenivano direttamente da lui: da un sovrano costituzionale, cattolico e liberale.
Abbattere le statue dei responsabili di tali infamie non cambia certo il passato né risarcisce le vittime: semmai, chissà, forme più pesanti di damnatio memoriae sarebbero opportune soprattutto nei confronti di figuri che sino ad ieri venivano onorati come eroi civilizzatori. Il vero problema non è comunque l’iconoclastia quanto semmai il fatto che di questi crimini non si legga sui libri di scuola, che si continui a considerarli ’minori’ rispetto ad altri.
Forse gli iconoclasti di oggi segnalano che finalmente è arrivato il momento di parlarne. San Giovanni Paolo II aveva fatto in merito un gesto esemplare e decisivo, quando aveva chiesto al genere umano perdono per i delitti dei cattolici nella storia. Ma quella scelta implicava anche un severo mònito: s’invitava con essa altre Chiese e religioni, altre associazioni, altri sistemi sociali a fare altrettanto. Molti risposero riduttivamente, quasi insoddisfatti: ’era ora’ che la Chiesa di Roma riconoscesse i suoi crimini. Il fatto era però che altri non erano stati da meno e molti erano stati da più: e non bastava certo l’alibi dell’unanime condanna dei delitti di Hitler e di Stalin. Papa Francesco, come gesuita argentino, sa bene che la Compagnia, nel Settecento, venne disciolta soprattutto in quanto alcuni governi europei protestarono contro la sua azione in favore degli indios dell’America latina contro le razzìe e i lavori forzati loro imposti dagli schiavisti.
E non parliamo del genocidio dei native Americans che fa parte integrante della storia della costruzione della ’nazione americana’ statunitense. Troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il ’progresso’ e l’arricchimento dell’Europa liberista. Finché non faremo radicalmente e sistematicamente tutto ciò, il lavoro di ’purificazione della memoria’ indirizzato a stigmatizzare i crimini nazisti e stalinisti sarà un esercizio ipocritamente lasciato a metà strada. Non esistono crimini ’condannabili’ e crimini ’giustificabili’: i crimini sono crimini e basta.
Ed è fino dalla scuola che bisogna imparare a riconoscerli, anche con una diversa lettura del passato. E ciò, attenzione, non è ’revisionismo’. È puramente e semplicemente revisione alla luce di criteri di approfondimento e di lucidità. Perché se la storia non è revisione - vale a dire esame e verifica continua del passato alla, luce del presente e in funzione del futuro -, allora non è nulla.
Il miliardario “da Nobel” delle miniere del Congo
L’israeliano Gertler si è arricchito sfruttando la guerra
per ottenere il monopolio dei diamanti del Paese africano
di Jim Armitage (il Fatto e The Independent. 13.12.2012)
A dispetto del suo sorriso e dell’entusiasmo infantile, Dan Gertler è diventato il simbolo dello sfruttamento delle risorse minerarie africane da parte dell’Occidente. Il 38enne miliardario israeliano ha fatto fortuna grazie alla sua amicizia con Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo.
Kabila, che al momento deve fronteggiare una ribellione nella parte orientale del paese dove si trovano la maggior parte delle miniere, per anni ha svenduto a Gertler i diritti di sfruttamento minerario e Gertler ha rivenduto in Occidente i diamanti facendo profitti enormi.
Nel frattempo in Congo la povertà è in continuo aumento; il 70% della popolazione soffre di malnutrizione e grandi aree del paese non hanno né energia elettrica né acqua corrente. OVVIAMENTE GERTLER, che torna in Israele dove ha moglie e 9 figli solo per il fine settimana, è convinto di essere un benefattore. In una intervista si è spinto a dichiarare: “mi dovrebbero dare il Nobel”.
Ma i funzionari del Fmi la pensano diversamente. La settimana scorsa il Fmi ha bloccato un prestito di 500 milioni di dollari destinato al Congo proprio perché non ci vede chiaro nei rapporti d’affari che il governo congolese intrattiene con Gertler e qualche giorno dopo la società mineraria Enrc, quotata in Borsa, ha deciso di interrompere i rapporti con Gertler. “Le aziende occidentali non vogliono più fare affari con lui”, ha dichiarato un esponente dell’opposizione politica congolese.
Ma come ha fatto questo giovane uomo d’affari a diventare così influente e potente e come si è guadagnato il favore del presidente di una delle nazioni più tormentate del mondo? Per rispondere bisogna tornare al 1997 quando viene rovesciato, dopo quasi 30 anni, il dittatore Mobutu, appoggiato dagli Usa. Ad appena 23 anni il giovane mercante di diamanti aveva il gusto dell’avventura e il senso degli affari. Aveva imparato il mestiere dal padre e dal nonno e aveva già acquistato partite di diamanti in Angola e Liberia. Il nuovo Congo gli sembrò una occasione da non perdere.
Appena arrivato a Kinshasa, Gertler si fece presentare a Joseph Kabila, figlio di Laurent che governava il paese dopo l’uscita di scena di Mobutu. Dan e Joseph, che era stato appena nominato comandante in capo delle forze armate, divennero grandi amici. Jospeh lo presentò al padre che vide nel ricco israeliano un modo facile per finanziare la guerra. Laurent chiese a Gertler 20 milioni di dollari in cambio del monopolio del commercio dei diamanti in Congo. Nel giro di pochi giorni la somma venne accreditata su un conto corrente in Svizzera.
IN SOSTANZA Gertler ebbe l’abilità di puntare sul cavallo vincente. Nel 2001 Laurent Kabila fu assassinato da una delle sue guardie del corpo, ma il suo posto venne preso dal figlio Joseph e gli affari per Gertler, anche se non poteva più contare sul monopolio, continuarono ad andare alla grande.
Oggi Dan Gertler, grazie ai diritti di sfruttamento minerario in Congo, è uno degli uomini più ricchi del mondo. Da tempo la Ong internazionale Global Witness indaga su Gertler raccogliendo testimonianze e documenti e cercando di seguire la pista del denaro che per lo più porta ad una delle tante società offshore di Gertler nelle isole Vergini britanniche. La Enrc ha troncato i rapporti con Gertler, ma per farlo ha dovuto acquistare le azioni in suo possesso versando nelle sue mani la bella somma di 550 milioni di dollari. Quelle azioni Gertler nel 2010 le aveva comprate per 175 milioni di dollari!
Malgrado le critiche, non sono poche le aziende disposte a collaborare con Gertler. Glencore, discusso gigante del settore, gestisce numerose miniere in società con Gertler. Global Witness ha invitato ripetutamente gli investitori a non fare più affari con il miliardario israeliano e con Glencore. Ora c’è chi spera che la decisione del Fmi induca il governo congolese a cambiare atteggiamento nel timore che anche altri programmi di aiuto possano essere congelati con gravi conseguenze per il paese. Non a caso la decisione del Fmi è arrivata dopo che il governo di Kabila non era riuscito a fornire spiegazioni convincenti in merito alla vendita di una miniera alla Straker, una società che si ritiene faccia parte del gruppo di Gertler.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Il vescovo in armi nel Congo insanguinato
di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 11 dicembre 2012)
Sette ore di viaggio nella più grande foresta equatoriale africana. Su una strada di terra rossa, avvolti dalla giungla, tra dossi di pietre, buche che sembrano crateri e un fiume di fango. Per raggiungere il centro operativo dell’M23, i duemila soldati ribelli che guidati dal vescovo Runiga Rugerero hanno conquistato il cuore della regione più ricca di materie prime dell’intero Congo e che hanno messo in subbuglio gli interessi di decine di Paesi occidentali e di altrettante imprese multinazionali, bisogna inoltrarsi nel Rutshuru: un territorio che il governo centrale di Kinshasa ha di fatto abbandonato. Dopo decine di colline e altrettante pianure raggiungiamo Bunagana, sede del quartiere generale del “Movimento 23 marzo”, un piccolo villaggio al confine con l’Uganda, dove vive arroccato l’ex monsignore di Goma: racchiuso tra dolci colline coltivate a tè, avvolto da boschi di banani, tappeti di felci, distese di palme da ananas, domina dall’alto l’immenso parco naturale di Virunga. «Se mi verrà a trovare», ci ha proposto il vescovo, «conoscerà la nostra terra, capirà chi siamo e perché lottiamo». Ma prima bisogna uscire da Goma, la capitale del Nord Kivu. Lasciare questo inferno di centomila disperati dove da 20 anni le Nazioni Unite, con la missione Monuc, assieme a un centinaio di ong si affannano per una rinascita impossibile.
La strada non esiste. Come tutte le strade del Congo. Il vecchio manto d’asfalto, tracciato ai tempi dell’ex Zaire da Mobutu per affrancarsi le lontani regioni dell’Est, è stato mangiato da migliaia di camion e dalle piogge torrenziali. Piove anche adesso. Cascate di acqua sferzano uomini, donne e bambini piegati sotto il peso di sacchi, fasci di canne da zucchero, cataste di legna e di erba. I più fortunati hanno una bicicletta; i più forti la tipica carriola congolese in legno che rischia di rovesciarsi a ogni dosso perché sommersa dal carico. Donne, uomini e bambini, hanno ceste colme di frutta, manioca, patate e carote che portano sul capo con un equilibrio elegante e naturale. Nessuno si lamenta. Tutti sono coinvolti in questo sforzo collettivo: in Africa si partecipa al lavoro familiare fin da piccoli. Non è raro vedere bambini di pochi anni carichi di bidoni d’acqua che devono raccogliere ogni giorno a chilometri di distanza. Trascinano il loro carico con una cinta passata sulla fronte, seguiti a distanza dai genitori.
La folla arriva dalle campagne per vendere i prodotti al mercato. Ma deve prima affrontare i posti di blocco controllati dalla polizia e dall’esercito ufficiali. Veri centri del taglieggio. Soldi in cambio del passaggio. Erano spariti. Per dieci giorni: il tempo della permanenza dei soldati dell’M23. Dopo il ritiro dei ribelli e il ritorno dell’esercito regolare delle Fardc, tutto è tornato come sempre. Agenti e soldati gridano, bloccano le auto, chiedono i documenti, frugano tra i sacchi. Chi può paga, gli altri si rassegnano. Cedono cibo, vestiti, oggetti. C’è di nuovo grande tensione. I modi bruschi dei militari trasudano vendetta. Il 20 novembre scorso, dopo una breve e intensa battaglia in cui ci sono stati 90 morti, i soldati lealisti hanno dovuto ripiegare sotto l’offensiva dei ribelli, lasciare Goma e fuggire nel sud del Kivu. È stata una vera umiliazione. Adesso si rifanno del lungo digiuno: razziano quello che possono. Il Congo è fatto così: la corruzione, dilagante, sistematica, impunita, affonda il più ricco paese del pianeta. A vantaggio dei clan al potere che sfruttano la debolezza politica e di immagine del presidente Joseph Kabila. Isolati, pagati male e raramente, i soldati delle Fardc contano sul fucile e la divisa per riaffermare il loro potere. E sopravvivere.
Tra Kinshasa e Goma ci sono 1500 chilometri di foresta, malaria, dissenteria. Niente strade, niente ferrovie. Solo il vecchio fiume Congo, il “cuore di tenebra” del capitano Joseph Conrad, unisce due terre così diverse e così lontane. Con i suoi pericoli, le sue tribù aggressive nei confronti del mundele, l’uomo bianco da sempre alla ricerca di avorio e di caucciù e oggi di diamanti. Fino all’oro, al rame, al coltan, tanto utile per i nostri pc e telefonini. E al petrolio, scoperto proprio qui, nel nord del Kivu.
Gli uomini dell’M23 hanno lasciato Goma ma restano piazzati a due chilometri di distanza. Le pressioni dei paesi vicini, Ruanda e Uganda in testa, e le condanne internazionali li hanno convinti a recedere. La ritirata non è stata una sconfitta; al contrario: è una vittoria. Politica, soprattutto. Era la condizione per negoziare. Si sa che nelle guerre di guerriglia si negozia quando si vince. Quando si perde si viene bombardati e travolti. I ribelli, che si fanno chiamare anche “Armata rivoluzionaria congolese”, hanno accettato. Siedono da domenica al tavolo delle trattative aperte in Uganda, in un paese neutro, davanti agli osservatori internazionali. Lo stesso ha fatto Joseph Kabila. E questo equivale a un riconoscimento politico dell’M23 da parte del governo centrale di Kinshasa: un interlocutore ufficiale, ben diverso dalla ventina di milizie (tra Maï Maï, Nyatura, Fdc e gli estremisti hutu del Fdlr) che agisce nella regione, tra violenze e saccheggi, provocando ondate di profughi.
Le rivendicazioni sono semplici: pari diritti di tutti i soldati delle Forze armate della Repubblica democratica del Congo. Con tanto di grado, salario, anzianità. Rientro dei rifugiati, distribuzione delle ricchezze in tutte le regioni del paese. Questi duemila militari sono e si sentono congolesi. Qui sono nati e qui vogliono restare. Ma la loro origine etnica ruandese, a maggioranza tutsi, finisce per farli discriminare tra le fila dell’esercito di Kinshasa. Le scelte degli imperi coloniali non reggono ai mutamenti della storia. Fu il Belgio di re Baldovino I a sfruttare negli Anni ‘50 l’esplosione demografica del Ruanda per assoldare nuova forza lavoro da usare nelle fabbriche del Kivu. Dopo mezzo secolo sono 800mila: un terzo dell’intera popolazione congolese.
Le ambizioni ruandesi e ugandesi sulla regione sono evidenti. Ma nel caso dei ribelli dell’M23 emergono motivazioni più profonde. La discriminazione etnica sostenuta dagli imperi coloniali, con tanto di carta di identità su cui veniva indicato il proprio ceppo di appartenenza, fino al genocidio in Ruanda di un milione di tutsi e moderati hutu nel 1994 agitano fantasmi e paure. Sentimenti che gli accordi del 23 marzo 2009, tra il Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) del generale Laurent Nkunda e il governo di Joseph Kabila, avevano placato.
Le milizie venivano smantellate, tutti i ribelli sarebbero stati integrati nell’esercito nazionale, il Kivu avrebbe avuto gli aiuti e il giusto peso nelle decisioni centrali. Ma gli accordi - da cui prende il nome M23 - non sono mai stati applicati. Il Kivu è ambito da molti.
Così, mantenere un Congo instabile fa comodo a tutti. Avere nel Kivu un nuovo interlocutore come l’M23 altera equilibri e punti di riferimento. Significa rimettere in discussione gli accordi raggiunti a Kinshasa. Significa perdere le esclusive e le tangenti già versate. I ribelli lo sanno. Chiedono trasparenza e la distribuzione delle ricchezze in tutto il paese. Hanno bisogno di uno Stato, di istituzioni, di legalità. Nei cartelli che punteggiano la zona, oltre alla avvertenze sanitarie, alla condanna delle violenze sessuali, alle campagne contro l’Aids, si incita a combattere la corruzione.
Non vediamo bambini soldato, né raccogliamo denunce di donne violentate. Le razzie segnalate a più riprese da ong e Nazioni Unite sono altre: mezzi dell’amministrazione e armi abbandonati a Goma dall’esercito in fuga. Li vediamo con i nostri occhi. Jeep e camion con l’insegna della polizia congolese sfrecciano lungo le strade che collegano le decine di villaggi della regione. Li usano i ribelli, divise da soldati e poliziotti con lo stemma dell’M23 sulla manica, per controllare la regione del Rutshuru e difendere la popolazione dalle milizie di banditi. Fanno quello che il governo centrale di Kinshasa non ha mai fatto. Pronti a conquistare nuovo territorio se il tavolo dei negoziati salterà. Come già rischia di avvenire.
“Mancano scuole e strade ci battiamo per questo”
intervista a Runiga Rugerero
a cura di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 11 dicembre 2012)
«Noi chiediamo solo rispetto. Come congolesi e come uomini che lottano per la dignità, lo sviluppo, la giustizia», ci dice l’ex vescovo di Goma Jean-Marie Runiga Rugerero, oggi presidente e guida spirituale dell’M23. Un vescovo cattolico che si sente un po’ italiano. «Da piccolo», ci confida con orgoglio e nostalgia, «sono stato adottato da una donna di Salerno. La sento spesso e so che mi ama».
Cosa prevedevano gli accordi del 23 marzo 2009?
«Il riconoscimento dei gradi dei soldati, il ritorno dei rifugiati nei luoghi di origine, la creazione di una unità di riconciliazione in Congo». Perché sono stati disattesi? «Le elezioni del 2011 hanno reso più difficile la situazione. La democrazia è stata presa in ostaggio».
Adesso vi siete ritirati da Goma. Cosa farete?
«Abbiamo aderito alla richiesta della Comunità internazionale. Era la condizione per avviare il dialogo con il governo».
Il governo di Kabila cosa ha risposto?
«Oggi abbiamo iniziato e subito interrotto le trattative a Kampala. Il governo di Joseph Kabila continua a lanciare accuse infondate. Noi chiediamo verità e dialogo. Siamo stanchi di tutte queste guerre. Vogliamo affrontare i veri problemi del paese».
Quali, per esempio?
«In Congo non ci sono scuole, strade, ospedali. Per raggiungere Kinshasa bisogna prendere l’aereo. Le strade sono piene di ragazzi che non possono studiare. Perché il governo non costruisce scuole e non paga gli insegnanti. Chiede ai genitori di farlo. Tutto questo è assurdo, deve terminare».
Diversi rapporti trasmessi all’Onu accusano Uganda e Ruanda di sostenervi.
«Il problema è solo congolese. Kinshasa ha tutto l’interesse a dirottare all’esterno l’attenzione di una realtà interna».
Un uomo di Chiesa alla guida di un movimento armato. Come concilia i due ruoli?
«Sono tra i congolesi che amano il proprio paese, il loro popolo e che amano Dio. David prima di diventare re di Israele si è battuto con i filistei, Giuseppe è stato primo ministro in Egitto. Tutti conoscono la nostra integrità morale. Essere alla guida dell’M23 non cambierà il mio impegno come pastore della Chiesa. La comunità internazionale è invitata a venire in Congo. Giudicherà da sola chi vuole distruggere il nostro paese».
Die Zeit, Hamburg - 6 settembre 2010
Se le vittime uccidono
Rapporto ONU sul Ruanda
In Ruanda, dopo il primo genocidio, ve n’è stato un altro? Un rapporto segreto dell’ONU rimette in questione le vecchie certezze. (traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Negli anni successivi al 1994, quando avvenne la tragedia ruandese, ho tradotto e inviato molti scritti circa cause, circostanze, responsabilità, e altro ancora. Vi è stata qualche tempo fa la rottura fra il governo di Paul Kagame e quello francese, basata su accuse reciproche (vedi: http://www.ildialogo.org/estero/estero0127112006.htm).
Con il rapporto ONU recentemente portato a una certa pubblica conoscenza - leggendo l’articolo si comprende perché non dico: "pubblicato" - cominciano ad apparire le tragiche conseguenze a lungo termine di quel genocidio. Il governo di Kagame ha cercato di portare il Ruanda a un certo gradi di riappacificazione e anche di sviluppo economico, ma non ha risolto il dramma degli Hutu espatriati, o forse ha cercato di risolverlo nel peggiore dei modi (http://www.ildialogo.org/estero/articoli_1240998799.htm).
L’ombra di quanto è accaduto in Congo nell’ultimo decennio ne offusca l’immagine, e ancor più mette in evidenza le gravissime responsabilità dell’ONU e delle Potenze occidentali, soprattutto per l’indifferenza, l’inettitudine o, peggio, l’interesse per le grandi ricchezze del sottosuolo di quel devastato Paese.
JFPadova
http://www.zeit.de/2010/36/Ruanda-Voelkermord
Durante la tarda estate del 1994 un collaboratore americano dell’ONU, Robert Gersony, viaggiò attraverso il Ruanda. In quell’epoca il Paese era una fossa comune, aperta. Soltanto a poche settimane prima risaliva il genocidio da parte di estremisti Hutu di 800.000 Tutsi e Hutu moderati; proprio allora i ribelli Tutsi, al comando dell’attuale presidente del Paese, Paul Kagame, avevano preso il potere. Quasi due milioni di Hutu, fra i quali gli assassini e i loro fiancheggiatori, per timore di rappresaglie erano fuggiti nei Paesi confinanti, soprattutto nella parte orientale del Congo.
Gersony era pieno di simpatia per il nuovo regime ruandese, che aveva fermato il genocidio. Per incarico delle Nazioni Unite egli aveva il compito di studiare il modo in cui si sarebbe potuto rimpatriare il più rapidamente possibile la maggioranza dei rifugiati Hutu, che non si erano macchiati le mani di sangue.
Tuttavia Gersony scoprì qualcosa di totalmente diverso: una serie di massacri di civili, che capovolgeva lo schema assassini-vittime. Unità del Fronte Patriottico Ruandese (RPF) di Kagame, durante la loro avanzata nell’estate 1994, avevano ucciso molte decine di migliaia di Hutu.
L’americano consegnò il suo rapporto al quartiere generale dell’ONU a New York, dove nessuno mise in dubbio le sue informazioni, ma tuttavia gli misero la museruola. Aveva avuto luogo un crimine di dimensioni incomparabilmente vaste, un genocidio. La comunità internazionale a causa della propria inerzia si era addossata una pesante corresponsabilità, i Tutsi erano le vittime, l’esercito di Kagame il vincitore militare e morale, il suo nuovo governo il portatore della speranza. Quindi il rapporto di Gersony fu fatto sparire.
In 545 pagine le Nazioni Unite descrivono la peggiore guerra dal 1945 Sedici anni più tardi vi è nuovamente un resoconto, questa volta prodotto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani. Vi si tratta non il crimine perpetrato in Ruanda nel 1994, ma il secondo atto di questa apocalisse africana, le due guerre in Congo fra il 1996 e il 2003. Questa volta ai piani alti dell’ONU non si pensa a mettere sotto chiave il resoconto, ma invece a disinnescarlo.
Le organizzazioni per i diritti dell’uomo hanno documentato negli anni numerosi crimini e che tutte le parti in conflitto avessero commesso atrocità contro i civili lo si sapeva da lungo tempo. Tuttavia questa è la prima documentazione estesa, anche se per nulla completa, di crimini commessi sul più atroce teatro di guerra dal 1945. La versione provvisoria consiste di 545 pagine e attraverso una fuga di notizie è diventata ora di dominio pubblico. Già a pagina 14 si solleva il sospetto più atroce possibile: che dopo il Ruanda del 1994 potesse esservi stato un secondo genocidio - nota bene: potesse. Su territorio congolese, perpetrato contro i rifugiati Hutu dall’esercito ruandese di Paul Kagame e dai ribelli del suo alleato congolese di allora, il futuro Presidente Laurent Kabila. Nel 1996 con l’aiuto di Kabila Kagame aveva disperso quei campi di profughi nei quali gli estremisti Hutu si erano riarmati per riappropriarsi nuovamente del potere in Ruanda.
Quello che allora era stato presentato come un atto di autodifesa era il preludio di due guerre in Congo, con la partecipazione quasi totale di due Paesi confinanti. Come conseguenza fino al 2003 morirono tre milioni di persone per epidemie, fame, sete, bombardamenti o massacri, come pure verosimilmente molte decine di migliaia di profughi Hutu dal Ruanda. Occorre trattare i numeri con prudenza in questa regione, dove vi sono più teorie di complotti che statistiche affidabili. Per la fattispecie del genocidio tuttavia non è determinante il numero delle vittime, bensì l’intenzione di voler annientare un determinato insieme di popolo.
Contro questo sospetto l’attuale governo ruandese protesta energicamente e ha pubblicamente annunciato di voler ritirare i propri caschi blu dal Darfur in caso di pubblicazione del rapporto. Il capitale politico di Paul Kagame, il suo credito internazionale quale riformatore, che ha tramutato un Paese estremamente traumatizzato in uno Stato africano modello, in pieno sviluppo economico, dipende dalla sua reputazione come militare che ha salvato, e non esiliato o «etnicamente ripulito».
Che cos’è negazione, che cosa verità, propaganda o realtà storica? E chi ha il potere o la legittimazione di decidere su queste questioni? In ogni caso non l’ONU, chiarisce categoricamente il governo ruandese. Sarebbe «immorale e inaccettabile» che proprio l’Organizzazione mondiale che non ha impedito il genocidio del 1994 attribuisse ora un crimine analogo all’esercito che lo aveva fermato». Così ciò che d’altronde è un argomento inaccettabile potrebbe anche essere giustificato: il rimprovero mosso all’ONU di omissione di soccorso.
Per la verifica occorrono pazienza, soldi e buoni medici legali Le Nazioni Unite nel corso degli anni hanno sviluppato una sorprendente abilità nel compendiare in voluminose relazioni anche i peggiori casi del proprio fallimento - e così danno l’esempio anche ai Paesi membri.
Proprio questo è ora accaduto di nuovo. La lettura di questo rapporto conduce a 600 luoghi del crimine in tutto il Paese, la maggior parte dei quali nella parte orientale. Qui un massacro con 300 morti, là 70 persone bruciate nelle loro capanne, un paio di chilometri più avanti donne, bambini e vecchi ammazzati, e poi ancora un ospedale assalito di sorpresa, una paio di dozzine di profughi fucilati. Così si legge da una villaggio all’altro, qui si svolge una sorta di piccola Srebrenica, lì un saccheggio mortale.
Le vittime ricevono, se non un nome, almeno il profilo di una identità, i criminali si individuano se non altro come gruppo. Fra questi si contano non soltanto i ribelli di Kabila e i soldati di Kagame, ma anche truppe ugandesi, unità del Burundi, militari angolani. E tutti coloro che hanno preso parte alla «guerra mondiale africana» lo hanno fatto per assicurarsi lealismo etnico o per procurarsi materie prime o autorità.
Così da ogni pagina del rapporto esce la percezione, sempre motivata con cura, del Congo come teatro di un « conflitto arcaico» e «tipicamente africano», senza storia. Si è trattato e si tratta qui di stravolgimento etnico della politica, di convalida dei confini e di scarsità di terra, della questione di chi può essere cittadino di uno Stato.
Si è trattato e si tratta anche di valutazioni drammaticamente errate da parte delle Potenze occidentali. Prima di tutte la Francia, sostenitrice di quel regime Hutu che poi ha perpetrato il genocidio. Prima anche l’Amministrazione americana di Clinton, che per la coscienza sporca della propria inerzia durante il genocidio elesse Kagame al rango di good guy e gli diede mano libera. Quel governo USA avrebbe saputo come si sarebbe potuto impedire un ulteriore tentativo di genocidio da parte degli Hutu, chiarì a suo tempo un diplomatico americano: «Tutto ciò che dobbiamo fare è guardare da un’altra parte». Sottrarsi a questo rendiconto di buoni e cattivi a quel tempo non era facile, tenuto conto di centinaia di migliaia di Tutsi ammazzati. Le conseguenze di questo passare sopra sono ora descritte in più di 500 pagine.
E adesso? Senza giustizia nessuna pace, si dice. Per l’analisi della guerra e delle atrocità occorre un minimo di stabilità, per non parlare di pazienza, soldi, storici professionisti, medici legali, archivisti e di una giustizia indipendente, internazionale, se deve esserci. Nulla di tutto ciò è disponibile.
La Corte Penale Internazionale de L’Aja può indagare soltanto su crimini che siano stati commessi dopo l’entrata in vigore del suo statuto, il 1. luglio 2002. il Tribunale dell’ONU per il Ruanda non ha competenza sul territorio congolese. La giustizia ruandese indagherà contro i potenti tanto poco quanto quella congolese. Il presidente in carica, Joseph Kabila, è il figlio di uno dei principali indiziati, Laurent Kabila.
Confronti con il passato - in Congo essenzialmente impossibili. Eppure, in un loro tipico modo primitivo, essi sono da tempo iniziati. Per questo rapporto dell’ONU si sono fatti interrogare 1280 testimoni. In ogni piccola città attivisti annotano di pugno su quaderni scolastici i nomi degli uccisi e delle vittime di violenze carnali. Con l’indicazione del luogo del crimine, della data e almeno un sospetto circa la provenienza dei criminali. Non mancano le persone che vogliono deporre le loro testimonianze. Gli investigatori dell’ONU propongono ora l’istituzione di una commissione per l’accertamento della verità. Non già perché essa favorirebbe automaticamente la pace, ma perché limiterebbe il margine della possibile negazione dei crimini.
Sull’argomento “Genocidio in Ruanda” vedi anche:
http://www.ildialogo.org/estero/index31122005.htm (con “Trova nella pagina” la parola “Ruanda)
Dura denuncia dei presuli sulle violenze nellEst. L’Onu ha cominciato a distribuire cibo anche nelle zone controllate dai ribelli. I profughi affollano il Centro di Ngangi: «Da queste parti alla paura ci si abitua»
I vescovi: nel Kivu si sta consumando un genocidio
DA GOMA Mentre il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha iniziato a distribuire scorte di cibo a 12mila persone nelle aree della Repubblica democratica del Congo attualmente dominate dai ribelli, come quella di Rutshuru, l’Onu ha dato il via al maxi trasferimento di 65mila sfollati del campo profughi di Kibati, a un soffio dalla linea del fronte. A Kinshasa è giunto ieri l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la crisi, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, che incontrerà il presidente congolese Joseph Kabula per discutere dell’emergenza. Intanto i vescovi congolesi hanno denunciato ieri il «genocidio silenzioso che avviene sotto gli occhi del mondo intero messo in atto con una crudeltà eccezionale».
Secondo una dichiarazione dei presuli, riportata dall’agenzia “Fides”, «la violenza di oggi fa parte di un piano di spartizione del Paese e delle sue straordinarie risorse minerarie». I vescovi hanno criticato i caschi blu dell’Onu: «Il fatto più deplorevole è che le violenze avvengono sotto l’occhio impassibile di coloro che hanno ricevuto il mandato di mantenere la pace e di proteggere la popolazione civile». Ma altrettanto severo è il giudizio sul governo: «I nostri governanti si mostrano impotenti di fronte alla gravità della situazione, dando l’impressione di non essere all’altezza della sfide della pace, della difesa della popolazione e dell’integrità del territorio nazionale». In un suo messaggio alla “Fides” il vescovo di Goma, monsignor Faustin Ngabu, ha parlato di «danni indescrivibili e non sempre conosciuti». Intanto i rappresentanti di decine di congregazioni missionarie hanno concordato di attuare un’azione comune per rispondere a questa emergenza. Nel loro incontro è emersa la convinzione che questo conflitto va oltre le questioni locali e solleva problemi umanitari, politici e geopolitici. Proprio per questo si chiama in causa la comunità internazionale e le strategie economiche di Paesi impegnati a contendersi le ricchezze del Congo.
Le Nazioni Unite hanno raccolto prove della presenza dei reparti di Luanda e Harare
L’allarme sul pericolo di allargamento delle ostilità lanciato da Ban Ki-moon
In Congo soldati di Angola e Zimbabwe
L’Onu: "Il conflitto rischia di estendersi"
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
GOMA - Ci sono anche reparti di soldati angolani e dello Zimbabwe nelle zone del conflitto in corso nel Nord del Kivu. Nei giorni scorsi erano circolate voci che denunciavano la presenza di gruppi armati stranieri. Ma come accade in ogni guerra, soprattutto africana, era difficile distinguere la nazionalità di chi combatteva o imbracciava un’arma. Le divise si cambiano e si gettano. Anche per evitare ritorsioni. Il fronte da queste parti è mobile. Cambia quasi ogni giorno. Ma stamane è arrivata una conferma autorevole: è stata l’Onu, attraverso i suoi portavoce, a riferire di aver raccolto prove sempre più convincenti sulla presenza, a fianco delle truppe dell’esercito regolare della Rdc, di soldati di Luanda e di Harare.
Alcuni militari angolani sono stati segnalati vicino al confine con il Ruanda, ma a un centinaio di chilometri da Goma, quindi nella parte più a nord del Kivu. La cosa non è stata confermata dalle autorità di Kigali impegnate a restare fuori dal conflitto, pur seguendo con molta apprensione quanto accade a due passi da casa. L’Angola è tradizionalmente legata al Congo. Per origini storiche, quando le sua parte settentrionale apparteneva al regno del Congo. Per affinità di interessi, visto che sono in molti a voler sfruttare l’enorme quantità di risorse minerali del paese. Ma l’arrivo sulla scena di consiglieri di altri eserciti è considerato, da molti osservatori, un segnale allarmante. Si rischia davvero di estendere il conflitto.
Il vertice di Nairobi non ha prodotto risultati rilevanti. E’ stato un incontro interlocutorio. Ma è servito a riassumere i nodi del contenzioso. Di fronte alle posizioni concilianti ma rigide sui torti e sulle ragioni dei diversi attori coinvolti nello scenario dei Grandi Laghi, al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon non è rimasto altro che chiedere un forte impegno internazionale. "Il conflitto in corso nel Nord del Kivu", ha annunciato davanti ai giornalisti, "rischia di allargarsi e di incendiare tutta la regione. Ci sono 250 mila sfollati ridotti allo stremo che non hanno assistenza e soccorso. I continui scontri attorno e a nord di Goma impediscono il lavoro delle organizzazioni internazionali. Chiediamo di nuovo l’apertura di un corridoio umanitario e la creazione di isole che tutelino la popolazione civile".
Le Nazioni unite accusano gli uomini del generale Laurent Nkunda del massacro di decine di civili. Alcuni caschi blu sono riusciti a raggiungere il villaggio di Kiwanja, 80 chilometri a nord di Goma, dove giovedì scorso c’era stata una furibonda battaglia. Conquistato dai ribelli del generale, il villaggio era stato poi attaccato dalle milizie dei Mai-Mai, da sempre nemici dei tutsi jomba, alla quale appartiene Nkunda e schierati al fianco dell’esercito congolese. I soldati dell’Onu hanno scoperto 11 fosse comuni con dentro 26 corpi, tra miliziani e civili. Il portavoce del Cnlp, Bertrand Bisimwa, non nega la circostanza. "Ci sono stati molti scontri, con armi anche pesanti. Abbiamo respinto l’assalto dei Mai-Mai e come sempre accade in questi frangenti la popolazione civile è rimasta tra due fuochi". Ma Bisimwa smentisce, nel modo più categorico, come ritiene l’Onu, che ci sia stato un rastrellamento nel villaggio e un’esecuzione dei civili sospettati di parteggiare per i Mai-Mai.
Difficile distinguere, provare, denunciare in situazioni come queste. Le guerre, da sempre, sono tratteggiate da orrore, violazione di diritti umani, torture, soprusi, angherie. A pagarne il prezzo sono i civili. Il dramma riguarda loro. Donne, vecchi e bambini che resistono come possono, vagando di campo in campo, rifugiandosi spesso nelle foreste per sfuggire alle battaglie, svuotando i villaggi che vengono regolarmente saccheggiati e dati alle fiamme.
La forte presa di posizione del segretario generale dell’Onu è arrivata dopo una serie di colloqui bilaterali al vertice di Nairobi. Oltre a Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi, Sudafrica e Unione africana, erano presenti per la prima volta i due protagonisti della crisi: il presidente del Ruanda Paul Kagame e il suo omologo della Repubblica democratica del Congo Joseph Kabila. I due non si parlano da due anni, da quando la ribellione del generale Nkunda, ex ufficiale dell’esercito della Rdc, si è allargata al nord del Kivu. Kabila, figlio di Laurent Desirè Kabila, un personaggio di spicco del movimento di liberazione degli anni Settanta, poi assassinato in un attentato a Kinshasa, accusa il Ruanda di appoggiare indirettamente i ribelli del Cndp. Cosa che Kigali nega recisamente, sostenendo che l’attuale conflitto è una questione interna al Congo.
All’origine della guerra, quasi ininterrotta dal 1996, c’è la presenza delle milizie hutu interhawne del Fdlr, il Fronte democratico di liberazione del Ruanda. Si tratta di decine di migliaia di rifugiati fuggiti in Congo dopo aver partecipato attivamente al genocidio in Ruanda di un milione di tutsi e moderati hutu. Sistemati in enormi tendopoli, lungo il confine est del Congo, hanno vissuto in condizioni difficili e precarie. La maggioranza era composta da civili. Gente che aveva paura delle ritorsioni per il solo fatto di essere hutu. Ma consapevoli che le milizie della loro stessa etnia, anche queste presenti nei campi di rifugiati, si erano macchiate di massacri spaventosi. Per un paio d’anni, gli interhawne si sono abbandonati ad altre violenze e si sono accaniti soprattutto nei confonti dei congolesi di etnia tutsi che vivono nel Kivu. Dopo anni di guerriglia sotterranea, il genarale Nkunda decide si mettersi alla testa dei cogolesi tutsi. Lascia l’esercito regolare e si rifugia nel Kivu. Il conflitto riprende con scontri sempre più violenti. Fino al 2007 quando, sotto l’egida dell’Onu, viene firmato un accordo: il Congo si impegna a disarmare tutte le milizie presenti sul posto (tra le quali i famigerati Mai-Mai, che ieri hanno rilasciato un giornalista belga preso in ostaggio per due giorni), il Ruanda a far rientrare la popolazione hutu fuggita.
Nel vertice di venerdì questo aspetto è stato riaffrontato e i due ministri degli esteri di Congo e Ruanda si sono rinfacciati le responsabilità del fallimento. Crescono le critiche anche nei confronti della Moduc, la missione Onu in Congo. E’ infuriata la popolazione locale che non si sente difesa, sono insofferenti gran parte degli Stati dei Grandi Laghi. "Si spendono miliardi di dollari, sono presenti 17 mila caschi blu", ci diceva stamani il ministro dell’Informazione di Kigali, Louise Mushikiwabo. "E’ il più grande impegno delle Nazioni Unite. Eppure è stato fatto ben poco. Basta poco per spegnere l’incendio: bisogna applicare gli accordi di due anni fa. Disarmare tutte le milizie presenti nella regione, risolvere il problema del Fdlr, protagonisti del genocidio del 1994, rendere più trasparenti i contratti minerari per l’estrazione di materie prime".
L’Onu ha intenzione di chiedere una modifica delle regole d’ingaggio dei caschi blu. Più interventi armati, maggiore libertà nelle reazioni. Ma vuole anche conservare la sua posizione equidistante e reagire solo nei casi estremi. Una posizione difficile. Quasi una trappola. Che ha portato alle dimissioni, appena due mesi dopo la nomina, del comandante spagnolo Vincente Diaz di Villegas. Al suo posto è stato chiamato un senegalese, il generale Babacar Gaye.
* la Repubblica, 8 novembre 2008.
Congo, strage di civili negli scontri tra tutsi e hutu *
Massacri, stupri, cadaveri di ragazzi, donne e anziani abbandonati per strada. La situazione in Congo è sempre più diperata e a testimonearlo, adesso, non sono soltanto gli ufficiali del Monuc, le forze di peacekeeper inviate dall’Onu nel Paese, ma anche i giornalisti che sono riusciti ad entrare nella regione nord-orientale del Kivu, epicentro degli scontri tra i ribelli tutsi del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), guidati dal prete-generale Laurent Nkunda, e i guerrieri hutu mai-mai, che appoggiano il governo.
I racconti descrivono una realtà completamente fuori controllo. Da venerdì 7 novembre, quando in Kenia si concludeva il summit internazionale delle Nazioni Unite sulla crisi congolese - giudicato da Nkunda «un’inutile riunione» -, i combattimenti tra i due fronti opposti sono ripresi con un’impennata di violenza in tutte le zone tribali da nord a sud di Goma, capoluogo del Kivu. Nonostante l’appello alla pace lanciato a Nairobi dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, i ribelli continuano a colpire senza soluzione di continuità, costringendo migliaia di civili all’esodo verso zone più sicure. Si tratta di almeno 100 mila sfollati - ma è una cifra che aumenta di ora in ora - molti dei quali hanno trovato rifugio nelle foreste a nord di Goma, verso il Sudan, senza cibo e in condizioni sanitarie critiche.
Chi resta, chi non può lasciare casa e villaggio perché anziano, malato o perché cerca di opporre resistenza pacifica alle incursioni tutsi, è in serio pericolo di vita. La maggiaor parte degli indigeni è di etnia hutu, e questo basta a scatenare la vendetta dei ribelli. Inoltre, molti dei miliziani filogovernativi non hanno divisa militare e sono facilemente confondibili con la popolazione. Così, nella città di Kiwandja, decine di persone sono state giustiziate dagli uomini di Nkunda solo per essere rimasti nelle loro abitazioni, o nei loro negozi. Esecuzioni sommarie, stupri, torture. Secondo il maggiore del prete-guerriero, Muhire, che prima di marciare su Kiwandja «per liberare la città dai mai-mai» aveva esortato gli abitanti all’esodo, i caduti «sono olre 50, e sono tutti guerriglieri». Secondo i sopravvissuti e i giornalisti inglesi del quotidiano The Guardian, sarebbero invece molti di più, e soprattutto civili, donne, giovani, intere famiglie.
Intanto, sul fronte opposto, dove non sono mancate vendette trasversali e atti crimali, si riafforza l’ipotesi già circolata venerdì seconco la quale truppe angolane sarebbero intervenute a fianco degli hutu, aumentando così il vero e proprio contingente militare dei mai-mai, costituito, oltre che dall’Esercito regolare congolese, anche da militari ruandesi (di etnia hutu). A complicare e amplificare l’escalation di violenza sono i cani sciolti: bande di guerriglieri ugandesi guidati da Joseph Kony, mercenario ricercato dalla Corte penale internzaionale per crimini di guerra e contro l’umanità.
In questo scenario, che già ricorda la tragedia del Rwanda del 1994, l’interferenza di terze parti nel conflitto civile, peraltro confermate da alcuni ufficiali Monuc, potrebbe esterndere la scia di sangue a tutto il territorio dei Grandi laghi africani. L’unico argine, almeno per adesso, è rappresentato dalle Nazioni Unite. Un argine che, tuttavia, sembra fragile e impotente. Da una parte, sul versante degli scontri e dei sopprusi perpetrati da hutu e tutsi, rispetto ai quali i caschi blu, fin dall’inizio dei combattimenti, si lono limitati a dispiegare forze e armi all’interno di impenetrabili fortezze a Kivu, molto vicine ai colpi di mortaio e tuttavia aliene ripetto alla situazione circostante. Dall’altra, sul versante deli aiuti umanitari, riespetto a quelle miglaia di sfollati e rifugiati dispersi nella foresta, lì dove gli del Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu, non potranno mai arrivare e l’emergenza alimentare è sempre più emergenza sanitaria.
Nella terra di nessuno, dimenticata dalla diplomazia internazionale fino a pochi giorni fa, dove anche le Ong sono scappate - eccezion fatta per gli irriducibili Medici senza frontiere - i congolesi aspettano, cibo, acqua, cure, pace.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.11.08, Modificato il: 08.11.08 alle ore 19.11
ANSA» 2008-11-07 12:14
CONGO: BLINDATI ONU INVIATI A FERMARE OFFENSIVA RIBELLI
KIBATI - Sono ripresi oggi in fine mattinata i combattimenti fra i ribelli di Laurent Nkunda e le forze governative congolesi vicino a Goma, il capoluogo del Nord Kivu, nel nord est della Repubblica democratica del Congo (Rdc, ex Zaire). Lo hanno detto diverse fonti. I combattimenti, con scambio di colpi di mortaio e di armi leggere, sono divampati nei pressi di Kibati (circa sette km a nord di Goma), a pochi chilometri da un grande campo profughi. Gli scontri hanno seminato il panico fra i rifugiati in attesa di ricevere cibo dal Pam, il Programma alimentare mondiale, dell’Onu, e migliaia di persone si sono date alla fuga verso Goma.
KINSHASA - Circa 250.000 le persone in fuga nel nord est del Congo, ai confini col Ruanda, flagellato dalle violenze delle truppe ribelli. Una popolazione al martirio, con la scoperta ieri di civili bruciati vivi. Oggi a Nairobi un vertice internazionale con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon.
Mezzi blindati della Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica democratica del Congo (Monuc) sono stati inviati verso una localita’ del Nord Kivu (est) caduta oggi nelle mani dei ribelli di Laurent Nkunda per tentare di bloccare la loro offensiva. Lo ha reso noto un portavoce della Monuc.
I ribelli del Cndp (Congresso nazionale per la difesa del popolo) hanno preso oggi il controllo di Nyazale, località 80 chilometri a nord-ovest di Goma (capoluogo della provincia del Nord Kivu), che ospitava lo stato maggiore della 15ma brigata dell’esercito lealista.
I ribelli si sarebbero anche impadroniti della vicina località di Kikuku, 9 chilometri più a nord, dove "dei blindati della Monuc sono stati inviati", ha precisato il portavoce Onu, aggiungendo che "la loro missione è di arrestare l’offensiva ribelle", "con l’ordine di sparare se necessario".
Il giornalista belga germanofono Thomas Scheen, che lavora per il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, rapito martedì nell’Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc, ex Zaire) da miliziani filogovernativi Mai Mai, è stato liberato.
Notize di scontri a est del Paese, anche se testimoni non confermano
A Nairobi Unione africana e i presidenti di Kenya, Uganda, Tanzania, Burundi e Sudafrica
Congo, tregua di nuovo a rischio
Vertice Onu con Kagame e Kabila
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
NAIROBI - Per la seconda volta in poche ore, la fragile tregua proclamata nel nord-Kivu, estrema regione est del Congo, è stata infranta da una serie di scontri armati tra i ribelli del generale Laurent Nkunda e le milizie dei Mai-Mai, un gruppo di guerriglieri locali in maggioranza di etnia hutu. Il portavoce dei miliziani, Didier Bitani, sostiene che alcune sparatorie sono avvenute attorno all’ospedale generale di Rotshuru, località a 70 chilometri a nord di Goma conquistata mercoledì scorso dai soldati di Nkunda. La notizia non viene però confermata da testimoni presenti sul posto. Secondo quanto abbiamo appreso al telefono, la zona dell’ospedale stamattina appariva tranquilla e non c’erano tracce di combattimenti. Fonti del Congresso nazionale per la liberazione del popolo, l’organizzazione del generale Nkunda parlano di sporadiche "scaramucce". Ma in una zona più a nord, verso il vilaggio di Wiwanja. Un portavoce del Cnlp aggiunge che i soldati ribelli dei banyamulegue continuano a mantenere le posizioni conquistate e spiega che "nonostante le continue violazioni del cessate il fuoco, verrà rispettata ancora la tregua".
In tutta la regione si respira una tensione fortissima. La situazione umanitaria è spaventosa e le poche ong attive fuori Goma cercano ancora di raggiungere le centinaia di migliaia di sfollati per distribuire medicine, cibo, tende e coperte. La sicurezza è precaria, continua ad essere in vigore il coprifuoco a Goma, le strade verso nord sono piene di soldati e miliziani, la Moduc, la forza di interposizione delle Nazioni Unite vigila dalle sue postazioni alla periferia di Goma.
Notizie confortanti arrivano dal fronte diplomatico. Dopo lunghe consultazioni e trattative, la comunità internazionale ha deciso di promuovere un vertice sul conflitto nel nord del Kivu che si terrà venerdì qui a Nairobi. Saranno presenti l’Onu, l’Unione africana, i presidenti del Kenya, dell’Uganda, della Tanzania, del Burundi e del Sudafrica. Ad una domanda specifica, il portavoce del Presidente della Repubblica democratica del Congo ha annunciato che all’incontro ci sarà anche Joseph Kabila. Da Kigali si è appreso che verrà anche il presidente Paul Kagame.
Sarebbe la prima volta, dopo molti anni, che i due principali protagonisti della crisi siederanno attorno allo stesso tavolo. Merito anche del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon che per dare maggior peso all’incontro ha deciso di partire per Nairobi dove è atteso domani in giornata. "Il vertice", ha dichiarato il portavoce dell’Onu, "sarà dedicato esclusivamente al conflitto in corso nel nord del Kivu". Non si sa cosa verrà deciso e se saranno risolti i nodi che stanno ostacolando il percorso di pace nell’est del Congo. Ma la convocazione di un vertice con la partecipazione di tutti i capi di Stato dei paesi dei Grandi Laghi apre nuove speranze: il primo segno del nuovo vento che ha portato Barack Omana alla Casa Bianca.
* la Repubblica, 5 novembre 2008
Congo: 2 milioni di sfollati. I ribelli: il governo tratti con noi *
L’esodo dei profughi continua incessante nel Nord Kivu (Congo). Mancano il cibo, l’acqua, le medicine, un qualsiasi riparo. Il primo convoglio di aiuti umanitari delle Nazioni Unite e delle Ong (Organizzazioni non governative) si muoverà solo in giornata, la speranza è che riesca a raggiungere Rutshuru, la città occupata dai ribelli congolesi nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc, ex Zaire). Porterà una prima assistenza d’emergenza nella zona maggiormente devastata dai combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani del Consiglio nazionale per la difesa del popolo di Laurent Nkunda, l’ex generale che capeggia la ribellione.
Se il corridoio umanitario annunciato dall’Onu sarà rispettato, questi saranno i primi aiuti ai profughi e il primo segnale concreto della tenuta del cessate il fuoco. La crisi umanitaria, insieme ai negoziati politici per mettere uno stop alla guerra civile che infiamma l’est del Congo, sono le priorità su cui le diplomazie europea ed internazionale si stanno concentrando. Il ministro degli esteri britannico David Miliband ha dichiarato che «più di 1,6 milioni di sfollati» nella parte orientale del Congo sono «presi in trappola» e senza possibilità di accesso agli aiuti umanitari. Miliband era a Kinshasa e si trova nella capitale economica della Tanzania, Dar es Salaam, con il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner: entrambi riferiranno ai colleghi europei, alla riunione informale del consiglio esteri a Marsiglia. «C’è una minaccia di epidemie e di diffusa denutrizione nella zona», ha riferito il ministro britannico.
Il capo dei ribelli congolesi Laurent Nkunda, intervistato da un gruppo di giornalisti nel suo feudo di Kichanga, ha detto di volere dei negoziati diretti con il governo di Kinshasa, minacciando in caso contrario di «cacciarlo dal potere». «Vogliamo un negoziato diretto con il governo - ha detto Nkunda -. Attendo una risposta. È una loro scelta rifiutare il negoziato con noi. Ma noi li spingeremo a questi negoziati, altrimenti, li cacceremo dal potere». La roccaforte dei ribelli di Kichanga si trova a 80 chilometri a nordovest della capitale Goma. «Siamo già entrati a Goma - ha detto Nkunda -. Le mie truppe infiltrate mercoledì erano all’aeroporto. Ho detto loro di ritirarsi perchè ho visto la sofferenza dei miei fratelli di Goma, alimentata dall’esercito congolese che fugge dallo scontro».
Negli ultimi giorni i combattimenti si sono ridotti notevolmente, ma continuano le vessazioni di ogni tipo sui civili inermi. Contro di loro si scatenano i ribelli, i soldati governativi, gli sbandati di entrambi le parti, che hanno costretto centinaia di migliaia di persone ad abbandonare i loro villaggi, quasi sempre dati alle fiamme, senza sapere dove sia possibile trovare un rifugio.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.11.08, Modificato il: 03.11.08 alle ore 9.58
Un carico di medicinali e cibo è arrivato nel villaggio di Rutshuru Nkunda propone al governo di avviare negoziati, no di Kinshasa
Congo, primo convoglio Onu nella roccaforte dei ribelli
Imposto il coprifuoco a Goma. Londra non esclude una forza di pace Ue
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
NAIROBI - Il primo convoglio Onu, carico di medicinali e di cibo energetico, è finalmente riuscito a raggiungere il villaggio di Rutshuru, ultimo avamposto conquistato martedì scorso dai ribelli del generale Laurent Nkunda. Non è stata un’operazione facile. Tutta la zona attorno e a nord di Goma pullula di soldati dell’esercito congolese e di ribelli. Ma anche di milizie autorganizzate che non rispondono ad alcun comando.
Tra mille precauzioni e dopo aver ottenuto precise garanzie, dodici mezzi, tra camion e jeep, hanno lasciato il capoluogo del Nord-Kivu e dopo cinque ore hanno raggiunto Rusthuru, circa 75 chilometri più a nord. La situazione che hanno trovato era tranquilla. Gli abitanti circolano per le strade, i negozi e i mercati hanno riaperto, è tornata persino l’elettricità.
La teNsione, e il rischio di una catastrofe umanitaria, continuano a incombere su gran parte della regione. La tregua dichiarata dal leader del Cndp, il Congresso nazionale per la difesa del popolo, regge. Ma gli spazi di trattativa tra il generale Nkunda e le autorità di Kinshasa si assottigliano ogni giorno di più. Dal suo quartiere generale di Kichanga, 80 chilometri a ovest di Goma, il capo dei ribelli "banyamulenge" ha invitato Kinshasa a dei negoziati diretti. Circondato da alcuni giornalisti che lo hanno raggiunto, il generale Nkunda ha ammonito: "Kinshasa ha tutto il diritto di respingere questi negoziati. Ma si deve anche accollare il peso delle conseguenze. La nostra lotta è chiara da anni: difendiamo un popolo che è continuamente sottoposto ad attacchi e a violenze di ogni tipo".
"Il problema - ha proseguito Nkunda - è rappresentato dalla presenza in questa regione dei miliziani del Fdlr, gli estremisti che si sono resi responsabili del genoocidio ruandese nel 1994. Il programma Amani (pace, in swahili), fissato il 23 gennaio scorso a Goma oggi non ci convince più. E’ superato dai fatti. Il Moduc, che ne doveva essere il garante, ha fallito la sua missione. Noi chiediamo un chiaro intervento nei confronti della minaccia costituita dal Fdlr, la creazione di un esercito nazionale repubblicano, un più forte impegno nelle strutture sanitarie, una maggiore trasparenza nei contratti minerari, un federalismo a livello nazionale". Poi il generale ha affermato la disponibilità a trattare: "Noi siamo qui, pronti a trattare. Se la risposta è negativa, possiamo conquistare da subito Goma. Mercoledì scorso, alcuni incursori si erano già infiltrati nell’aeroporto. Ho ordinato loro di fermarsi per evitare nuove sofferenze ai fratelli del Kivu".
La risposta di Kinshasa è arrivata nel giro di pochi minuti. Niente tratattative dirette. "Non ci sono piccoli e grandi gruppi armati", spiega Lambert Mende, portavoce del governo. "Creare un disastro umanitario non dà diritti speciali nei confronti di altri gruppi che operano nel nord del Kivu".
Kinshasa denuncia comunque delle difficoltà oggettive. La nuova offensiva del generale Nkunda è scattata mentre il governo congolese era alle prese con l’ennesima crisi politica interna. L’anziano primo ministro, 82 anni, la settimana scorsa aveva chiesto di essere esonerato perché troppo vecchio e stanco. Per cinque giorni, il parlamento ha ingaggiato una battaglia per indicare nuovi nomi sulla base di un equilibrio politico incerto e precario. Solo tra sabato e domenica, al termine di tratattive estenuanti, si è raggiunto un accordo sul nome di Adolphe Muzito che è stato incaricato di formare un nuovo governo. Sono stati destituiti i ministri della Difesa e dell’Interno e si è avuto il coraggio di denunciare gli autori dei saccheggi e degli stupri ai danni di decine di rifugiati, del milione e 600 mila persone costrette a fuggire dai propri villaggi. "Abbiamo arrestato una decina di nostri soldati", ha annunciato Lambert Mende, "sono responsabili dei saccheggi e degli stupri. Verranno giudicati e se ritenuti colpevoli condannati nel modo più fermo".
Il portavoce della provincia del Nord del Kivu, Julien Paluku, ha decretato il coprifuoco in tutta la zona di Goma. Nonostante la calma apparente, non si fida: "La città non è ancora sicura. Ci sono soldati in giro che sparano. La gente deve restare in casa, evitare di girare a piedi e prendere tutte le precauzioni". Tacciono le armi e lavora la diplomazia internazionale. Il ministro degli Esteri britannico, David Milliband, non esclude il prosssimo invio di un contigente europeo: "La proposta non è ancora tramontata. Ci stiamo lavorando. Vedremo gli sviluppi sul terreno".
* la Repubblica, 3 novembre 2008