Il nuovo grande gioco
di Barbara Spinelli (La Stampa,16 luglio 2006)
QUANDO l’amministrazione Bush decise di rispondere con due guerre all’attentato terrorista dell’11 settembre, non furono pochi in America coloro che pensarono, attraverso le scelte del Presidente, di rifare in pochi anni il Medio Oriente e tutta l’area circostante cui venne dato il nome di Grande Medio Oriente. Immaginarono di poterlo finalmente democratizzare, e dunque pacificare in maniera stabile. Immaginarono un’ampia zona composta di Stati amici dell’America e in pace con Israele: una zona che dalla Palestina s’estendeva fino agli Stati petroliferi, nel Golfo; e fino ai margini dell’Asia centrale, in Afghanistan. Ci furono momenti in cui sembrò che un vecchio sogno abitasse le menti del governo Usa: il sogno di far rivivere il Patto di Baghdad (l’organizzazione denominata Cento), che Washington stipulò nel 1955 con Iraq, Turchia, Pakistan, Iran, ai fini di contenere l’espansione sovietica e di creare in Asia centrale una Nato parallela. Il patto si rivelò futile, anche perché concepito senza ripensamento alcuno sui colonialismi passati: tre anni dopo fallì - quando il partito Baath rovesciò la monarchia irachena - e nel ’79 venne definitivamente sepolto dalla rivoluzione iraniana. Quel che accadde dopo, gli Stati Uniti non solo non l’hanno mai accettato. Non l’hanno neppure capito, non hanno intuito l’emergere degli integralismi islamici, e di conseguenza non hanno saputo edificare una politica verso i nuovi attori di Medio Oriente e Golfo. Le loro sole armi furono, lungo i decenni, prima il corteggiamento di dittatori come Saddam poi la guerra distruttiva contro lo stesso Saddam. Una guerra che doveva appunto ricostruire il Grande Medio Oriente e garantire la potenza amica che è lo Stato d’Israele, forte dell’atomica ma incapsulato in uno spazio arabo sempre più islamizzato e radicale.
Quel che sta accadendo in questi giorni, con le truppe israeliane che si trovano a dover bombardare e occupare di nuovo il Libano per fronteggiare le aggressioni di Hezbollah contro il proprio territorio, è segno che il nuovo Grande Gioco Usa è fallito, trasformandosi in dannazione per Israele stesso. Due guerre e l’assenza di politica statunitense hanno avuto come risultato il radicalizzarsi del mondo arabo, la creazione in Iraq di una vasta base terrorista, l’ascesa di Hamas in Palestina, la decisione di Hamas e Hezbollah di unire le forze e stringere Israele in una tenaglia. Sullo sfondo, infine, hanno facilitato l’emergere impavido della Siria e quello mortifero di Ahmadinejad in Iran. La stessa rivoluzione dei cedri in Libano, che Washington e gli europei hanno tanto caldeggiato senza avere una sola idea su come farla riuscire, ha partorito uno Stato inetto, fintamente indipendente da Siria e Iran, incapace di esercitare sul proprio territorio il monopolio della violenza: il potere di Hezbollah nel Sud libanese è stato tollerato dagli occidentali e dagli europei che le rivoluzioni magari le favoriscono, ma non sanno comprenderle né gestirle, anche quando l’Onu impone risoluzioni e ordina, come in Libano, il disarmo di milizie incontrollate.
Il risultato - pessimo per gli Stati Uniti - è catastrofico per Israele. Il suo esercito resta il più potente nel Grande Medio Oriente, e si sente protetto in extremis dall’atomica. Ma la sua forza di dissuasione è compromessa gravemente e i suoi punti deboli son conosciuti e sfruttati dall’avversario. La guerra mondiale contro il terrore ha rafforzato i nemici di Israele, ha acutizzato il loro estremismo, ha liberato la loro parola, le loro provocazioni. È quello che molti amici di Israele, anche in Italia, sottovalutano. Non vedono come sia stato esiziale puntare tutto sulla strategia antiterrorista Usa. Non vedono i compiti immani che ha davanti Israele: il tempo oggi davvero lavora contro di lui, il ritiro da tutti i territori e un negoziato con Hamas diventano sempre più urgenti. Non vedono neppure quel che l’Europa può fare, per darsi una politica alternativa a quell’americana senza però abbandonare a se stesso Israele. Chi accusa Israele di avere una reazione sproporzionata (lo sostiene la maggioranza del centrosinistra in Italia) giudica assennatamente ma non guarda lontano e soprattutto non ripercorre con spirito critico quel che è successo negli ultimi anni: uno Stato così accerchiato, con la dissuasione a pezzi, ha poche alternative quando vede che perfino le azioni ragionevoli - ritiro dal Libano nel 2000, ritiro da Gaza nel 2005, volontà sia pur ambigua di ritirarsi da parte della Cisgiordania - non calmano l’avversario ma ne eccitano i trionfalismi distruttivi.
La dissuasione israeliana è pericolante perché il suo alleato, l’America, è al suo fianco solo verbalmente e chissà per quanto tempo ancora. L’America di Bush non esce rafforzata ma indebolita dalla lotta globale al terrore: non può fare politica, in questa zona che per l’Occidente è essenziale per motivi storici ed economici. Non può aiutare Israele a uscire dal pantano, non può inviare emissari-mediatori capaci di convincere gli avversari di Israele, perché gli Stati Uniti sono invisi nel mondo arabo come di rado in passato. Non può neppure contare su Egitto e Giordania, due moderati oggi impotenti. Al suo stesso interno, infine, cresce l’insofferenza verso una politica che negli ultimi anni si è alleata senza discernimento a Israele, condividendone gli errori e permettendo che si diffondesse in America stessa la paura di una lobby ebraica troppo influente, esigente. La voce di Bush in queste ore è forte nel difendere il diritto di Israele a esistere e difendersi. È flebile, drammaticamente non dissuasiva, sul piano dell’azione politica e diplomatica.
Anche la voce degli Europei è flebile, nonostante il loro prestigio sia più forte nell’area araba e nonostante le pressioni esercitate da anni su Israele, perché negozi più speditamente il ritiro completo dai territori. Ma anche essi non hanno fatto politica. In particolare, hanno fatto pochissimo per stabilizzare il Sud del Libano e permettere al governo di Beirut di liberarsi delle milizie terroriste. Anche la Chiesa ha pesanti responsabilità. Quando Benedetto XVI critica la natura sproporzionata del contrattacco israeliano e denuncia la violazione della sovranità libanese, nasconde una verità che pure conosce: non è sovrano uno Stato che governa i propri confini attraverso una milizia terrorista, manovrata e finanziata da Siria e Iran. I cristiani libanesi che in cambio di potere hanno stretto patti con Hezbollah, accettando che governasse le frontiere e le trasformasse in una ferita purulenta, sono partecipi delle odierne derive.
C’è qualcuno che guarda ai recenti avvenimenti con palese soddisfazione, o comunque con la certezza di poter profittare del presente vuoto di potere. Questo qualcuno, corteggiato nelle ultime ore a San Pietroburgo, è l’anfitrione del vertice dei Paesi industrializzati Vladimir Putin. Il Presidente russo ha in mano molte armi. Ha scommesso sul fallimento del Grande Gioco americano, coltivando al contempo rapporti con radicali e integralisti: con Hamas, Hezbollah, Siria, Iran. Può parlare con loro, cosa che Bush non può e che gli Europei non tentano: non è lontano il giorno in cui il Cremlino diverrà il nostro rappresentante-garante nel Golfo e Medio Oriente. Ma soprattutto, Putin ha in mano l’arma assoluta: il petrolio e il gas, di cui può divenire fornitore esclusivo, alternativo, tanto più capriccioso politicamente. I prezzi alti del greggio non son dovuti solo alla crisi nel Medio Oriente ma non sono senza rapporti con le sue patologie, e il petrolio venduto a carissimo prezzo è nell’interesse non solo economico ma strategico e politico di Mosca. È attraverso il petrolio che la Russia di Putin sta ridiventando superpotenza, in un’epoca che vede scricchiolare la dissuasione nucleare e politica degli occidentali.
Con questa Russia l’Europa dovrà ora trattare, ma essendo cosciente che i disegni del Cremlino non puntano necessariamente alla stabilità: né economica, né politica. Dovrà trattare sapendo che non basta sposare le tesi di Putin in ogni circostanza, a cominciare da quel che Mosca dice sulle reazioni sproporzionate di Israele in Libano. Sapendo che la lotta al terrorismo è stata brutale e fallimentare anche in Russia, come dimostra la Cecenia. Avere Mosca come garante della stabilità internazionale è una tentazione forte, per il nostro continente. Ma non è un’alternativa rassicurante, finché gli europei continueranno a cercare con il Cremlino speciali rapporti bilaterali, e rinvieranno il momento in cui l’Unione si dà una politica estera, militare ed energetica comune. È stata Washington a far uscire il mondo fuori dai cardini, ma per gli europei la consolazione è magra. Spetta a loro cominciare ora a far politica, senza aspettare che sia un’altra potenza come quella moscovita, non ancora democratica e esistenzialmente interessata agli odierni sconquassi, a far politica al posto nostro e in nostro nome.
Iran, «piano d’attacco Usa». Teheran minaccia l’Onu *
Sono notizie contrastanti quelle che vengono dall’Iran, teatro principale di una possibile crisi nucleare. Domenica il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto che l’Iran ha raggiunto un nuovo record nel suo programma nucleare rendendo attive più di 3mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Non solo. Teheran minaccia l’Onu: se approverà una risoluzione contro i suoi programmi di sviluppo delle 3mila centrifughe della centrale atomica di Natanz o di altre nel quadro del programma nucleare civile, non ci sarà più nessuna collaborazione con l’Aiea. Un copione già visto che evoca una parola sola: guerra. E la dichiarazione questa volta non viene dall’istrionico presidente ma dal portavoce del compassato ministero iraniano degli Affari esteri, Mohammad Ali Hosseini, lo stesso che si dice disponibile a nuovi colloqui con gli Usa per ristabilire la pace in Iraq. Bastone e carota.
Ma che la situazione sia contraddittoria e sull’orlo del baratro è abbastanza evidente. Il Times di Londra rivela che l’ammistrazione Usa ha un piano d’attacco preventivo già pronto contro il regime degli ayatollah: un blitz della durata di tre giorni contro contro 1.200 obiettivi. E si sa che anche Israele ha questa "opzione" - l’attacco - da mesi nei cassetti del ministero della Difeso ora retto da Ehud Barak.
La rivelazione del Times arriva giusto il giorno dopo l’avvertimento del direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) Mohammed El Baradei. In un’intervista uscita sabato sull’ultimo numero del settimanale tedesco Der Spiegel El Baradei - che rischia di fare la Cassandra come il collega Hans Blix prima dell’attacco all’Iraq quattro anni fa, ndr -ha messo in guardia da azioni militari contro l’Iran da parte di Stati Uniti o Israele, sostenendo che ciò aggraverebbe la crisi nella regione rafforzando coloro che in Iran puntano alla fabbricazione della bomba atomica. Un intervento armato potrebbe forse distruggere gran parte delle installazioni iraniane, ma provocherebbe un terribile incendio in tutta la regione, «rafforzando di sicuro i circoli favorevoli alla realizzazione della bomba atomica».
Prevarranno "i falchi" o le"colombe"? Anche la situazione politica a Teheran è assai confusa, i messaggi sono ambigui. Domenica mentre si svolgeva un’altra impiccagione pubblica, cioè un’altra esibizione di forza del regime, il capo dei pasdaran, le Guardie della Rivoluzione accusate di finanziare Hamas e Jihad islamica e altri gruppi considerati terroristi in Palestina, si è dimesso. Non si sa perché.
È prima di tutto per cercare di evitare il precipitare della crisi di cui ha parlato qualche giorno fa anche il presidente francese Sarkozy, che l’Italia sta tentando una sua mediazione diplomatica contando sui buoni rapporti ristabiliti con il mondo arabo. L’iniziativa diplomatica è portata avanti direttamente dal premier Romano Prodi, arrivato domenica in Giordania. Mantenere aperta «la politica di dialogo» con l’Iran avendo «garanzie assolute» che lo sviluppo nucleare di Teheran sia solo civile e non militare: inoltre tutto ciò deve avvenire con «una apertura totale al controllo» dell’Aiea, l’organizzazione delle Nazioni Unite preposta alla vigilanza sul nucleare. Questa è la ricetta da seguire con l’Iran secondo l’Italia. Il premier Romano Prodi ad Amman si è consultato su questa linea con re Abdallah di Giordania. Mentre il ministro degli esteri Massimo D’Alema è impegnato in questi giorni in Israele, Palestina e poi sarà in Egitto. Una missione anche di perlustrazione in vista di una possibile Conferenza internazionale promossa dall’Amministrazione Bush per novembre per la Palestina che è stata preceduta da una intervista a Umberto De Giovannangeli de l’Unità in cui D’Alema torna a chiedere la ripresa del dialogo tra Fatah e Hamas.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.09.07, Modificato il: 02.09.07 alle ore 18.51
Sull’argomento, e dal punto di vista eu-ropeo ed italiano, riprendo qui una ’lettera’ del 2005 (www.ildialogo.org/filosofia, Sabato, 30 aprile 2005)
La crisi del cattolicesimo-romano e della democrazia-americana non si risolve ... rilanciando una politica occidentale da sacro-romano impero !!! di Federico La Sala
Caro Direttore
Concordo pienamente con il suo Editoriale (Alla fine conteranno i fatti e non le parole, del 29.04.2005). Stiamo per cadere definitivamente nella palude più nera che più nera non si può - a tutti i livelli. A prendere dal lato culturale la ‘cosa’, io direi che anche l’intera classe intellettuale (e non solo politica ed economica) ci è caduta e ci sta cadendo definitivamente (basta ri-vedere e ri-considerare l’atteggiamento nei confronti del “berlusconismo” - al di là di poche luminose eccezioni, e della grande determinazione di Furio Colombo, per capire ... il nostro futuro più prossimo). A mio parere, la ragione sta proprio nello scegliere e nel permanere in un’ottica (per dirlo, con un termine unico - con e contro Salvatore Natoli) neo-pagana e di un punto di vista di un individuo chiuso e “finito”... senza porte e senza finestre! Il neo-paganesimo italiano si colloca all’interno di un orizzonte già tramontato, che non riesce a vedere (proprio per la mancanza .. di porte e finestre aperte, all’altro dentro di sé e all’altro fuori di sé) - NON la natura antropo-‘teo’ logica del messaggio ebraico- cristiano e islamico, e della religione in generale; NON la natura edipica dell’ideologia della setta cattolico-romana (questa appare essere la Chiesa cattolico-romana, oggi, ferme restando le posizioni della Dominus Jesus del “pastore tedesco”, e al di là dell’apparenza imposta dalla palude mediatica italiana); - NON il presente “puttanegiare” (Dante) del ‘cattolicesimo’ della Chiesa romana con la democrazia (sempre più da scrivere con virgolette) statunitense, che sta portando tutti noi e la stessa Europa politicamente a saldarsi (a questo si è già preparata con l’intera gerarchia ... fino a piegare il proprio centro-sinistra interno, nella figura del suo ammalato e vecchio Martini.... e con lui trascinare anche il centro-sinistra esterno, con Prodi) con la linea-dottrina del ‘ri.nato’ Bush - anch’essa in crisi di egemonia (interna ed esterna - a tutti i livelli) e a riprendere e a rilanciare un programma disperato (e fuori da ogni possibilità di sviluppi positivi per tutta l’Umanità) di Conquista e ri-Conquista planetaria (rileggere la prima Omelia di Papa Benedetto XVI del 24.04.2005 - nelle sue monche e cieche ‘radici’ simboliche, a partire da e fin dal IV sec.!!!). Questa, se si vuole, è (per usare l’espressione del filosofo neo-pagano Severino) la FOLLIA dell’OCCIDE(re)NTE o, meglio con il teologo protestante e resistente (proprio contro il fondamentalismo bio-teo-con nazista!) Dietrich Bonhoffer (Resistenza e resa), la STUPIDITA’, la stupidità dell’OCCIDE(re)NTE !!! Persa la grande occasione della rilettura di Nietzsche (dal capolavoro dell’edizione Colli-Montinari), al di là delle mode marxiste e heideggeriane (in qualche modo, insieme e nello stesso tempo, nichilistiche e relativistiche e platoniche) non hanno saputo né interpretare (salvo un lodevolissimo tentativo inziale di Vattimo,) né voluto capire (come ha ben detto Luce Irigaray, nel suo intervento nel “Diario” sul “Relativismo” (“la Repubblica” del 26.04.2005), intitotolato “Come accogliere le differenze” (p. 43) che la direzione di ricerca e la “volontà” di Nietzsche non era quella di restare nella gabbia o nella caverna platonica dello “spirito di risentimento e di vendetta”, ma era di “riaprire l’orizzonte della nostra tradizione per accogliere la vita in tutte le sue manifestazioni, per assentire a tutto ciò che vive”, di “andare oltre la nostra concezione ristretta dell’umanità, della nostra interpretazione troppo moralistica della vita del Cristo, del nostro fermarci alla ripetizione del passato senza costruire un futuro dove la nostra umanità sia più compiuta”. E, soprattutto, non avendo capito e non avendo nemmeno gli strumenti per capire la caduta del Muro di Berlino, non hanno saputo che imitare gli imitatori e seguire la corrente ... per finire, tutti come pecore, a belare prima dietro il pastore polacco e ora dietro il pastore tedesco (e dietro il pastore...italiano - sul tema, tutti gli onori a Franco Cordero!!!). Meno male che il discepolo di Guido Calogero, il nostro Presdiente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha tenuto alta la bandiera della nostra dignità di uomini e donne, di cittadini e cittadine, altrimenti.... Che dire?! Che il “dio” dei cittadini-sovrani e delle cittadine sovrane, dei nostri padri e delle nostre madri, ci aiuti a proseguire sulla strada della Liberazione e della Costituzione - non solo in Italia, e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, e su tutta la Terra. Che l’O.N.U diventi veramente un U.N.O... e smettiamola di programmare “una inutile strage” e l’intera distruzione del pianeta e della nostra stessa intera Umanità!!! Federico La Sala (Sabato, 30 aprile 2005).
Non c’è tempo da perdere di Umberto De Giovannangeli *
Le bombe contro le parole. Un popolo in fuga a cui non bastano, non possono bastare gli appelli alla moderazione, gli inviti a «contenere l’uso della forza» che piovono in queste ore drammatiche da tutto il mondo. La pioggia di parole non ferma la pioggia di bombe che da quattro giorni si sta abbattendo sul Libano. Così come le parole non fermano i razzi katyusha che continuano a devastare l’Alta Galilea, provocando terrore e morte tra la popolazione civile israeliana. Da Beirut, il premier libanese Fuad Siniora si appella ai Grandi della Terra perché agiscano subito per salvare il Libano dalla devastazione.
Ai Grandi riuniti nel vertice G8 a San Pietroburgo, Siniora, primo ministro del Libano, chiede anche un’altra cosa. Concreta. Impegnativa. Decisiva: «Aiutate il mio Governo a riprendere il controllo del Sud» del Paese, oggi roccaforte delle milizie Hezbollah. Chiede una forza di interposizione, Siniora, che accompagni una pressante iniziativa diplomatica che porti ad una «tregua immediata e totale». Una forza di interposizione a garanzia della sicurezza della popolazione civile libanese ma, sia pure indirettamente, anche di quella dell’altro lato del confine. Una forza di interposizione, sotto egida Onu, che aiuti le autorità di Beirut a riconquistare una parte del proprio territorio, sottraendolo alla milizia sciita, impegnata a condurre una guerra per conto terzi (l’ala più oltranzista del regime iraniano). L’impotenza delle parole non regge quando questo esercizio retorico è condotto dal presidente dell’iper potenza mondiale, gli Usa, quando a dispensare appelli e condanne - sempre parole, sia pure impegnative - è quella Europa che nel Vicino Oriente resta un gigante economico ma ancora un «nano» politico.
Un segnale concreto. È ciò che chiedono oggi i libanesi, ed anche l’altro popolo - quello israeliano - che vive l’incubo degli attacchi missilistici di Hezbollah, e che anela solo di ritornare alla normalità. Stati Uniti, Russia, Unione Europea: hanno la forza, gli strumenti - politici, economici, militari - per poter agire sui protagonisti, diretti e indiretti, di questa drammatica crisi in Medio Oriente. Resta da capire se hanno anche la volontà politica per attivarli. Il tempo non lavora per la pace. L’impotenza delle parole può fornire l’innesco a chi punta a far esplodere la polveriera (nucleare) mediorientale. Ciò che si richiede è un uso «proporzionato», e lungimirante, della politica per far fronte ad un uso «sproporzionato» della forza. Sostenere la richiesta del premier libanese non significa schierarsi «contro» Israele, ma al contrario, è un modo concreto per far vivere, fuori da una stucchevole disputa lessicale, l’«equivicinanza» a due popoli che oggi rischiano di essere schiacciati da un esercizio di forza militare che nasconde una preoccupante impotenza politica. Si susseguono gli appelli alla calma. Si annunciano missioni diplomatiche. I Grandi sembrano muoversi. In ritardo, ma sembrano aver compreso la pericolosità del momento. Ora alle parole devono seguire i fatti. A chiederlo è un Paese in fiamme. Le Tv libanesi mandano in onda le immagini di strade, ponti, infrastrutture civili distrutte. Immagini di feriti che affollano gli ospedali. E immagini delle navi che portano in salvo cittadini europei. Un impegno dovuto. L’importante è che quelle navi non divengano la triste metafora di una fuga. Dalle nostre responsabilità.
GUERRA di Furio Colombo*
L’orrore, che credevamo dietro di noi, si ripresenta davanti a noi; il peggior passato sta diventando il nostro futuro: la guerra.
Come spesso è accaduto nella storia, la guerra comincia come un caos su cui si piantano bandiere e a cui, poi, si danno motivazioni. Purtroppo so di usare la parola nel suo senso peggiore. Non «una guerra». Non la guerra in un luogo. La parola maledetta risuona nel mondo. La parola risuona nel suo senso peggiore: ancora un passo, e sarà guerra senza limiti. Infatti, in apparenza non ha autori, non ha strategie, non ha un senso comune, sfida ogni criterio di protezione e di umanità. Ma accade. I luoghi e le vittime sono o saranno casuali come gli eventi, tremendi ma caotici, che stanno portando a questo momento. Il mondo si ammala gravemente lontano da un ospedale e senza un medico accanto. Solo stregoni. Scrivo queste righe dopo avere partecipato all’incontro del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, con i parlamentari italiani.
L’uomo che dovrebbe garantire il punto di incontro tra le tensioni del mondo era di fronte a noi consapevole e inerme. Poteva dire la verità, ma non era in grado di dare neppure una vaga speranza di soluzione. Dopo le domande politicamente mirate di alcuni dei parlamentari italiani, formulate come un suono di fanfara («siamo andati in Iraq con l’autorizzazione dell’Onu...») Annan ha scansato o ignorato i colpi di grancassa, che dovevano essergli sembrati un po’ assurdi. E ha risposto descrivendo l’Iraq per quello che è: una tragedia in cui l’Onu è stata spinta ai margini, la forza militare al centro, quella venuta da fuori e quella interna (che Kofi Annan ha osato definire «resistence», non come celebrazione ma come descrizione) e ha detto senza camuffamenti che una violenza nutre l’altra, e che senza un cambiamento di attori insanguinati - che però è impossibile - non c’è modo di prevedere la fine. Restare o andarsene? La risposta del Segretario Generale dell’Onu a questa domanda è la più tragica: l’Onu accetta l’una soluzione o l’altra, non ha una indicazione da dare. Non per ignavia. Perché non può. Perché l’incastro tragico è diventato guerra civile. Ha detto «guerra civile».
Le notizie dal Libano sono arrivate un momento prima del suo incontro con i parlamentari italiani. Gli abbiamo chiesto, citando le affermazioni hitleriane del presidente dell’Iran Ahmadinejad: «È mai successo nella storia delle Nazioni Unite che un capo di Stato proclamasse ripetutamente, solennemente e in pubblico che è doveroso e urgente procedere alla cancellazione di un altro stato (Israele)?». «No - ha detto Kofi Annan - non è mai successo. E quelle dichiarazioni meritano tutta la nostra condanna». Per forza quella condanna si ferma lì e finisce lì. Il dramma non è che non seguano azioni o sanzioni contro l’Iran, perché saremmo da capo con la logica barbara e antica della guerra che ferma la guerra e porta la pace. Il dramma è che l’affermazione viene fatta di fronte a una piazza vuota. Vuota di governi, di opinioni pubbliche, di presenza e iniziative internazionali. Vuota persino di attenzione.
Le Nazioni Unite, nel loro funzionamento migliore, sono come un bravo insegnante a scuola. Se la classe volta le spalle non passerà e non resterà una parola di ciò che accade in quella classe.
Parlo dell’immenso vuoto del mondo - un vuoto reso più grave da una guerra locale sbagliata (Iraq) che ha inchiodato la più grande potenza del mondo senza dare alcun frutto, alcuna democrazia, alcuna libertà, alcuna dignità, alcuna tollerabile convivenza civile. Parlo del messaggio drammatico, una proposta senza alternativa: o nessuna guerra o tutta la guerra. Parlo con rimpianto della vecchia e giusta proposta di Marco Pannella: rimuovere Saddam Hussein dal potere con un fitto, paziente, ostinato lavoro diplomatico senza distruzione e senza guerra. Solo dopo, autorevoli voci americane e arabe ci hanno detto che stava per accadere, se solo l’Europa ci avesse creduto.
L’opzione del non fare la guerra, purtroppo, è stata scartata da ogni parte in causa, fino al punto da far tornare sugli spalti i fans del grande intervento armato come fatto risolutore. E allora il vuoto di cultura, di idee, di immaginazione, di politica e di diplomazia è come il portellone aperto di un aereo in volo che risucchia con forza irresistibile il peggio del nostro passato e ce lo sbatte davanti. Eccoci qua, con la faccia schiacciata contro gli eventi del Libano che dipendono più dalle direttive dell’Iran che dalla disperazione di Gaza, più dal progetto di cancellare Israele che dal soccorso ai palestinesi. E assomiglia all’inizio, tragico e non resistibile, della Prima Guerra Mondiale. Avviene fuori da ogni immaginabile guida razionale. Si direbbe che solo accidenti o errori o destino dividono la tragedia locale dalla guerra del mondo.
È di fronte a questo scenario tremendo, all’impotenza dichiarata in modo tragico e sincero da Kofi Annan, che molte opzioni italiane che stiamo discutendo con tanta foga e a cui si attribuiscono sortite e furbizie, dichiarazioni ferme e astuzie della politica interna italiana, appaiono sproporzionatamente piccole. Se si pensa che Berlusconi e Casini si sgridano e si congratulano a vicenda per aver trovato un modo per incastrare la maggioranza forse solcata da divisioni, con una loro mozione comune; se si pensa alla dichiarazione solenne dell’ex ministro della Difesa Martino che, di fronte alla questione «voto sull’Afghanistan», dice, tutto contento, mentre si incendia il mondo: «Se quelli non sanno votare compatti se ne andranno a casa», si deve constatare che un fenomeno di nanismo affligge la scena politica italiana. Eppure è uno di quei momenti del mondo in cui un guizzo di grandezza, altruismo e coraggio farebbe (oppure dovremmo dire: avrebbe potuto fare) la differenza, visto che siamo, tutti insieme, in bilico sull’orlo di un baratro.
Il nanismo italiano è denunciato da alcune frasi agghiaccianti. Una è: «Non possiamo abbandonare i nostri soldati» (Berlusconi); un’altra è: «Sulla pelle dei nostri soldati non si fanno giochetti» (Casini). Sono affermazioni prive di senso. Nessuno ha messo a repentaglio la vita dei soldati spagnoli o ha fatto giochetti sulla loro pelle facendoli tornare a casa dall’Iraq. Se mai ha fatto giochetti sulla pelle dei soldati italiani chi li ha mandati in «missione di pace» a scortare con mezzi inadeguati convogli di guerra inglesi. Soldati italiani hanno pagato con la vita sia l’insensatezza della missione (non erano in Iraq per ragioni umanitarie?) sia l’inadeguatezza della dotazione di difesa. Ma anche affermazioni che circolano nella nostra maggioranza non descrivono i fatti e i punti veri della nostra alternativa e del nostro tormento. Per esempio: «I soldati italiani sono indispensabili per la nostra missione in Afghanistan». È chiaro che non è vero, che si può benissimo fare a meno del modesto contingente di soldati italiani in quell’immenso Paese tuttora attraversato da spedizioni di guerra che lo percorrono in tutte le direzioni, con e contro talebani, con e contro signori della guerra. La decisione è politica, non militare. Ecco l’incubo del passato che torna: il truppismo, la falsa esaltazione dei soldati che prima mandi a fare i soldati con una decisione politica e poi, quando quella decisione (politica, non militare, presa dai governi, non dai soldati) viene messa in discussione, ti dicono che sei contro i soldati e che li vuoi abbandonare, senza sostegno della Patria. È l’accusa contro chi li vuole riportare in Patria. In questo modo i politici si nascondono dietro i soldati, creando una confusione che disorienta due volte. Disorienta i cittadini a cui si chiede di schierarsi a sostegno di operazioni militari di cui non sanno niente e di cui niente viene detto. E i pacifisti isolati e irrigiditi dal ricatto sgradevole in cui vogliono farti passare per traditore o per stupido.
E qui, su questo terreno sporcato da inganni un po’ miserevoli, si vede in che cosa sono radicalmente diversi quei due punti del mondo - Iraq e Afghanistan - altrettanto insanguinati e altrettanto immersi nel caos ricoperto da un leggero strato di apparente democrazia. In Iraq che gli italiani restino o non restino, non ha alcuna importanza. C’è stato un vero e proprio inganno in Iraq. Ufficiali italiani sono stati messi a disposizione e discrezione di ufficiali di altri Paesi. Soldati italiani a scorta di altri soldati, agli ordini di piani e strategie di cui altri rispondono ad altri parlamenti, non a quello italiano. Non ci sono trattati o alleanze fra truppe presenti in Iraq. C’è la tristemente famosa «coalition of the willing», una sottomissione imposta (e volentieri accettata dal governo Belrusconi), quel brutto momento detto dell’unilateralismo americano che poi, dopo l’esito disastroso delle operazioni militari in Iraq, è stato abbandonato. E che la stessa Condoleezza Rice ha detto di deprecare.
Lasciare l’Iraq, e subito, non vuol dire voltare le spalle all’America, ma rimettere le cose nella loro situazione normale: siamo un Paese amico, libero e sovrano, pronto ad aiutare in tutti i modi possibili, tranne la guerra, che non è consentita dalla nostra Costituzione. Ma scortare convogli armati di altri Paesi è certo guerra, nonostante le istruzioni date e la dichiarazione soggettiva di agire "in pace" degli italiani. Per valutare l’enormità dell’errore commesso basti pensare a quanto peso un Paese come l’Italia avrebbe potuto avere dopo la distruzione se non fosse apparso, agli occhi degli iracheni, e di tutto il mondo arabo, nella lista dei Paesi intervenuti nella coalizione degli armati.
L’Italia è un Paese afono in Iraq, perché dipende e non comanda, perché esegue e non decide. L’esempio più tragico e più vivido è ciò che è accaduto a un importante funzionario italiano, Nicola Calipari, che è stato ucciso mentre si comportava da rappresentante di un potere amico e sovrano e stava portando in salvo, adempiendo alla missione ricevuta, una cittadina italiana. Forse fa luce il fatto che, al momento dell’uccisione, l’ambasciatore e la bandiera italiana non c’erano su quell’automobile. Chi ha lasciato solo il soldato Calipari? La situazione in Afghanistan non è la stessa. È vero che i governi come quello Fini-Bossi-Berlusconi si sono guardati bene dall’avere una voce sulla conduzione di quella missione e sulle circostanze in cui le cosa avvengono (e vengono decise ed eseguite) in Afghanistan. Ma perché privare un governo certamente libero, certamente non succube, di contare, insieme agli altri Paesi europei in Afghanistan, con un suo progetto (o almeno un suo contributo) di riorganizzazione verso un po’ di pace? È chiaro che dovremmo aumentare enormemente il contributo umanitario, alterando le proporzioni tra gli aspetti delle missioni. Ma sgombrare senza voler sapere che cosa accade è la cosa giusta?
Se ricollochiamo l’episodio del voto italiano e della presenza italiana nel quadro minaccioso di ciò che sta divampando e sta per divampare nel mondo, forse il momento che stiamo vivendo ci dice che è bene che si senta la voce di un Paese come l’Italia, che per Costituzione, per convinzione, per esperienza e per principio si oppone alla guerra. La domanda è se possiamo - o forse dobbiamo - essere parte della comunità internazionale per creare la condizione per il ritorno pieno delle Nazioni Unite. Non sono queste buone ragioni per non indebolire questo governo e non creare varchi al nanismo politico di Berlusconi e associati?