Fermate Israele
di Rossana Rossanda*
Il sequestro di 64 parlamentari palestinesi di Hamas, fra i quali otto ministri, in tutte le città della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano non è un rappresaglia, è il tentativo di affondare per sempre la già assediata e affamata Autorità palestinese e di chiudere con ogni trattativa che pareva potersi aprire negli ultimi giorni. Sul documento dei prigionieri palestinesi in Israele,Hamas e Al Fatah avevano raggiunto un accordo per molti versi storico. Per la prima volta Hamas riconosceva, sia pure implicitamente ma in modo inequivocabile, la legittimità dell’esistenza di due stati.
Contro questo accordo, che innovava radicalmente non solo la linea di Hamasma anche i suoi rapporti conAl Fatah, un gruppo fondamentalista - del quale, mentre scriviamo,non conosciamo l’identità - aveva catturato un pilota di tsahal, dichiarando che non l’avrebbe riconsegnato finché non fossero state liberate le donne e i bambini che sono fra i circa ottomila detenuti palestinesi in Israele (obiettivo tanto umanamente ragionevole quanto sicuramente negato da Tel Aviv) e poi sequestrava un colono di 18 anni - ieri poi ucciso.
La collera di Israele era comprensibile, ma la reazione è stata spropositata al punto da preoccupare anche iG8 oggi riuniti a Mosca, che le hanno mandato un ammonimento formale: non esagerate. Ma non si tratta di una sbavatura di militari infuriati: la cattura di un così consistente gruppo di parlamentari dei territori occupati, l’annuncio che ne seguiranno altre, mirano a mettere fuori gioco l’intero governo palestinese costringendo in queste ore tutta la rappresentanza diHamasa entrare in clandestinità.
Non solo: Israele ha appena bombardato il principale asse stradale di Gaza, distruggendone tre ponti, la centrale elettrica che fornisce energia a metà della Striscia di Gaza e ha tagliato le forniture d’acqua, sprofondando il paese in una situazione sanitaria insostenibile. Già stava succedendo dopo le sanzioni inflitte dall’Europa.
Qui non si tratta di un eccesso di vendicatività, si tratta della volontà del governo di Ehud Olmert, in cui evidentemente sta anche il laburista Amir Peretz, di chiudere qualsiasi porta o dialogo di pace per togliere la Palestina come nazione dalla faccia del Medio Oriente. Politicamente parlando, è l’esatto reciproco del gruppo fondamentalista islamico che sequestrando due israeliani e uccidendoneuno havoluto sabotare ogni possibile avvio di scioglimento dell’ormai tragico e quasi quarantennale contenzioso fra le parti. C’è un fondamentalismo in Palestina che non riconosce l’esistenza di Israele e un fondamentalismo israeliano che non riconosce quella della Palestina. Così stanno le cose, naturalmente tra forze del tutto impari. Sharon in coma, sembra caduto in coma ogni residuo di ragionevolezza del governo israeliano.
Non è possibile, non è decente che il Consiglio di sicurezza non intervenga. È ben vero che da decenni Israele disattende le sue decisioni ma è anche vero che questa arroganza le è stata consentita, specie dagli Stati uniti. E senza attendere il Consiglio di sicurezza bisogna che l’Europa, su questo terreno dubitosa e incerta per l’incrocio ormai evidente fra il sentimento di colpa verso gli ebrei e un antiarabismo inconfessabile, si esprima subito. E subito ha da esprimersi il governo italiano. Non farlo sarebbeun gesto inammissibile di irresponsabilità.
* il manifesto, 30 giugno 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
L’ideologia israeliana
di Rossana Rossanda (il manifesto, 15 gennaio 2010)
Anche da Israele viene la critica ai miti che accompagnano dovunque l’idea di nazione e in più con il crisma di una religione rivelata. Ma non ha sfiorato i governi di Sharon, di Barak e Tzipi Livni, né sfiora oggi quello di Netaniahu e di Lieberman. È come se vi coesistessero, ignorandosi, una storia in genere, libera nelle edizioni e per gli studiosi, e una «storia degli ebrei» inquadrata, ufficiale, base dell’istruzione obbligatoria.
Qualche mese fa è uscito in Francia il volume dello storico israeliano Shlomo Sand: Comment le peuple juif fut inventé (letteralmente «Come è stato inventato il popolo ebreo», Fayard, Parigi, pp. 446, euro 23, già segnalato da Maria Teresa Carbone nella edizione inglese, Verso). Shlomo Sand insegna all’Università di Tel Aviv e fa parte della giovane scuola di storici degli anni Novanta, che sulle tracce di Baruch Zimmerling (Berkeley, 1993) e Boaz Evron (Bloomington, 1995) - a loro volta seguendo i lavori di Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein ed Eric Hobsbawm - discutono alla radice i concetti di popolo, nazione e razza prosperati in Europa nella seconda metà del XIX secolo. E rifioriti adesso con la caduta dell’«universalismo» dei lumi e del movimento operaio socialista e comunista. Ma quel che i nostri nonni si sono raccontati, e cioè che in ogni terra sarebbe insediato ab origine un popolo o razza o etnia rimasto immutato nei secoli che quindi su di essa vanterebbe un diritto naturale, è un «romanzo» ottocentesco. Destinato a rafforzare gli stati, la loro chiusura e le loro eventuali velleità espansionistiche. Così anche per Israele.
Accusati di deicidio
La tesi di Sand è drastica: l’ebraismo non è un «popolo» o una stirpe o, neanche a dirlo, una razza, ma la prima grande religione monoteista diffusa sulle rive del Mediterraneo. Non è una popolazione insediata immemorialmente in Palestina, deportata di là dai romani nel 70 d.C., e da qualche decennio tornata dopo quasi duemila anni di esilio; è il primo monoteismo che si è esteso dal crogiolo mediorientale fra i due fiumi sulle sponde del Mediterraneo fino all’Africa settentrionale e, durante il regno degli asmonei, nel II secolo prima di Cristo, su parte dell’odierna Russia, contendendo il primato alle religioni persiane, ai politeismi egizio, greco e romano, poi al cristianesimo e, dopo il VII secolo, all’islam - due filiazioni del suo stesso Libro. Quanto agli abitanti di Israele e della Giudea, che secondo il Vecchio Testamento sarebbero stati unificati da Salomone e in seguito conquistati dai babilonesi e poi da Roma, è dubbio che siano stati riunificati dal sapiente, non sussistendo nessuna traccia né di lui né delle sue grandiose città, ma è certo che non sono stati deportati dai romani; ne sono stati assoggettati, passando dall’impero romano d’occidente a quello bizantino d’Oriente per essere infine occupati dai «cavalieri del deserto» arabi, con qualche sollievo per la loro maggiore tolleranza rispetto a Bisanzio (si contentavano di imporre ai non musulmani una tassa).
Certo non sono stati costretti a vagare di paese in paese. I fedeli di questa religione superiore, genti assai miste, si sono diffusi come altri nell’Europa e nel mondo, ma obbligati a difendersi dalla maledizione loro gettata dai cristiani che gli avevano attribuito, contro ogni evidenza, la colpa di deicidio. Menzogna mai esplicitamente riconosciuta dalla chiesa come propria: Giovanni Paolo II l’ha attribuita ad «alcuni cristiani», come se non sapesse che l’accusa era sorretta da qualche Vangelo, anche fra i non apocrifi, e più di un concilio. Il Laterano IV ne ribadiva la discriminazione come necessaria, come l’obbligo di portare una ruota vermiglia sull’abito per essere riconoscibili, l’esclusione da ogni pubblico ufficio e possibilmente l’espulsione. Non è l’ultimo dei paradossi che l’ebraismo abbia assunto dal suo principale avversario un tema fondativo come quello dell’esilio.
A suo sostegno Sand porta le fonti scritte e i reperti archeologici provenienti dagli scavi della seconda metà del Novecento, sia in Medio oriente, sia nell’Africa settentrionale, sia in parte della Russia meridionale, un’analisi dettagliata della nascita e degli sviluppi del sionismo dal 1870 ad oggi. E, in quanto costituzionalmente fondata su di esso, conclude con un dubbio sulla qualità della democrazia israeliana.
Un passato di discriminazioni
Va da sé infatti che quanto sopra costituirebbe una controversia storica, niente di meno e niente di più, se sulla teoria di un popolo ebraico secolarmente esiliato non si fondasse l’affermazione che la Palestina sarebbe la terra propria ed esclusiva degli ebrei, l’invito a tutti gli ebrei del mondo a raggiungerla e la cacciata da essa dei palestinesi. Ma il libro di Sand non ha dato luogo in Francia, per quanto mi risulta, a una contestazione da parte della comunità ebraica. Probabilmente per la sua massiccia documentazione e bibliografia, e perché la cultura che egli attacca ha ormai la consistenza di una tradizione recente ma spessa, popolare e populista, che con le radici nei secoli ha poco o nulla a che fare. È come se fosse nata da centotrent’anni, e fosse dotata da allora di una irriducibilità che l’ebraismo non aveva mai avuto.
All’impianto di Sand si può opporre, credo, un’unica obiezione, e cioè se una «identità» assai simile a «popolo» non sia da riconoscere proprio e soltanto a chi si definisce ebreo. Non gli è stata forse costruita addosso, negandogli una cittadinanza e opponendogli ossessivamente forme di esclusione? Quando migliaia, e nel Novecento milioni, di uomini e donne vengono discriminati, deportati o massacrati per essere «ebrei» ed è contemplato il loro sterminio totale, l’«essere ebrei» diventa più pesante di una discendenza millenaria e univoca di sangue, ammesso che questa si dia da qualche parte.
Questo vissuto può non giustificare niente ma spiegare tutto. Una riflessione sulle concezioni di popolo etnia e razza andrebbe fatta non sugli ebrei, «differenza» come un’altra, ma sulla pulsione che spinge a catalogare l’altro come diverso, a metterlo fuori dalla «polis» quando non addirittura dalla norma della natura, a temerlo e odiarlo. È una pulsione assassina e risorgente, non appartiene alla ragione ma all’oscuro e all’inarticolato.
Ma torniamo al libro di Sand. Egli punta il dito sull’assunzione della Bibbia da parte di Israele non già come testo fondatore ma come testimonianza di fatti realmente avvenuti in precisi luoghi e precisi tempi. E non importa che sulla datazione dei Libri e le molte mani che vi hanno concorso la discussione sia aperta fra gli stessi biblisti, o che il racconto della Genesi sia favoloso rispetto ai risultati della scienza - il big bang, i suoi tempi e la loro sequela - o quello dell’Esodo rispetto a quelli più modesti della storia. Succede con il tempo e i modi dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto, sullo spettacoloso aprirsi del Mar Rosso per aprire loro un varco, sulla sopravvivenza per ben quaranta anni di una ingente massa di persone nel deserto, sullo spietato sterminio di un’intera città, donne vecchi e bambini inclusi, ad opera di Giosuè ma per volere di dio, di cui fortunatamente non esiste traccia.
Ora un conto è l’acquisizione critica di un testo sacro, un altro è telegrafare come Ben Gurion ai soldati nel 1956 dopo la conquista del Sinai: «E ora possiamo intonare l’antico cantico di Mosè e dei figli di Israele... in un immenso slancio comune di tutti gli eserciti di Israele. Avete riannodato con il re Salomone che fece di Eilat il suo primo porto tremila anni fa... e Yotvat, che fu millequattrocento anni fa il primo nostro regno indipendente diventerà parte del terzo regno di Israele» (nel quotidiano «Davar» del 7/11/1956).
Gli eventi anche più antichi lasciano una qualche traccia, ed è normale metodo storico riscontrarne presenza o mancanza. E molte tracce si trovano a testimonianza di una religione ebraica presente su gran parte della riva del Mediterraneo, come fra i berberi nella vicenda della grande regina Kahina, o del lungo regno russo dei Kazari. Con l’avvicinarsi delle fonti storiche, dal vasto lavoro dell’ebreo romanizzato Flavio Giuseppe a quello indiretto del greco Dione Cassio, cade infine il mito della deportazione e si aprono, fra le altre, le pagine della discussa pratica della conversione e della discendenza matrilineare, probabilmente assente fino a Esdra; la Moabita Ruth essendo l’ava diretta nientemeno che di Davide.
I pogrom dell’Ottocento
Tuttavia assai più ricco di interesse è lo snodarsi del sionismo, a partire dall’amico di Marx, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau, tutti e tre tedeschi, inseriti nel movimento di identità nazionale allora in energica crescita in Germania e aspiranti ad esservi assimilati. È l’inizio; saranno più rigidi i loro successori provenienti dal vasto terreno yiddish fra Germana e Russia, e provati dai feroci pogrom di fine secolo l’antisemitismo all’est essendo stato più acuto che nell’Europa occidentale. Alla ricerca dell’origine degli ebrei non segue così immediatamente la domanda di una terra; essa è segnata piuttosto dal coacervo di tesi scientifiche o presunte tali, che mescolano e scontrano darwinismo e teorie della razza, spinta all’assimilazione e principio di sangue. Il sionismo ne porta i segni, e con l’ossessione di una origine «pura», l’ebraismo cessa di essere una ricca e varia cultura religiosa e diventa un «popolo» circoscritto; come il Volk tedesco o il narod polacco e russo. Ma diversamente da essi non ha un legame territoriale con le zone in cui risiede. È quindi una acuta mutilazione e mancanza, rovesciata nell’ammonizione divina per cui Israele «Non farà parte delle nazioni umane» (Numeri, 23,9).
Questa chiusura in sé rende la cultura ebraica di quel tempo tutt’altro che ostile al concetto di «razza»: non la scandalizza la tesi di Houston S. Chamberlain ma la sua definizione degli ebrei come razza bianca, sì, ma imbastardita. Così sono innamorati della razza un po’ tutti, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau (quest’ultimo ha cambiato perfino il nome da Sudfeld a Nordau). Costui diventerà un potente difensore della purezza della razza ebrea contro le degenerazioni della cultura, dell’arte, dell’omosessualità, delle malattie mentali... bisogna che gli ebrei prendano più sole, espandano i muscoli e facciano ginnastica. Martin Buber, personalità poi ragionante e moderata, scrive pagine deliranti di romanticismo sul sangue, la cui purezza è purezza dell’anima, ed è «lo strato più profondo della nostra comunità». Tutt’altro genere è Vladimir Jabotinski, furiosamente di destra e opposto a ogni composizione fra ebrei e non ebrei, ma sul sangue la pensano allo stesso modo: «un sangue ebreo puro non potrà mai adattarsi allo spirito tedesco o francese come il negro non potrà cessare di essere negro». Il rapporto con i fellahs I fondatori dello stato ebraico, Ben Gurion e Ben Zvi sono convinti fino alla rivolta araba del 1929 che i fellahs palestinesi sono della stessa loro razza, poi lo escludono. Insomma destra e sinistra nazionaliste procedono da parametri simili diversamente applicati, fin con gli ebrei stessi - come la tesi vagamente darwiniana che gli askhenazi sarebbero razzialmente superiori ai sefarditi per le maggiori difficoltà di selezione sopportate. Queste idee circolano anche ora.
Dal calderone tardo ottocentesco si stagliano poi le figure di Markus Isaac Jost e di Heinrich Graetz, e Heinrich von Treitsche; il pericolo di una reazione antisemita è avvertito da Thoeodor Mommsen.
Ed è uno scontro da far impallidire la recente Historikerstreit. Ma Graetz e Doubnov andrebbero ripubblicati per la massa concettuale che affrontano e rappresentano, e insieme il suo superamento - anche ma non solo, per la terribile crudeltà della Shoah. Quel che oggi costituisce l’ideologia israeliana non ne è che lo scheletro secco.
Che resta come l’eccezione e forse la contrapposizione massima alla natura che si vuole democratica dello stato di Israele. Su questo ossimoro si conclude il libro di Sand, dedicato a una speranza di pace. Peccato che non abbia trovato un editore in Italia.
Germi velenosi
di Rossana Rossanda *
Che cosa è necessario oggi per esistere? Sfondare i media. Così ben nove sconosciuti fra i diecimila che hanno sfilato a Roma sabato scorso per la Palestina - scrive La Repubblica - si sono affiancati al corteo con tre pupazzi di cartapesta, raffiguranti un soldato americano, un israeliano e un italiano, per dargli platealmente fuoco al cospetto di telecamere e cronisti. E così starnazzando: «Una cento mille Nassiriya».
Erano in nove, è durato qualche minuto. Si poteva affogarli nella loro insignificanza. Invece no. Tutti, proprio tutti - giornali, politici, generali con lacrima al ciglio, financo Ingrao, financo il Presidente della Repubblica - si sono precipitati ad amplificare. Sdegno ed orrore, hanno insultato «i nostri ragazzi», vogliono la distruzione di Israele, è la sinistra massimalista antipatriottica e antisemita, sono i centri sociali, eccetera. Il portavoce di Prodi, Sircana, è uscito in un sorprendente: erano pochi, questo è il più grave, come se fosse stato accettabile se fossero stati in molti. Nei tg di sabato sera e domenica quel fuoco ricominciava ad ardere a ogni dichiarazione di condanna, come se Roma fosse fitta di roghi. Gli altri diecimila dimostranti della capitale sono stati sbeffeggiati perché anziani e composti, i cinquantamila di Milano, compostissimi e sprovvisti di piromani, sono stati accusati - specie il segretario della Cgil Epifani - di aver partecipato a un corteo per la Palestina dove non si sa mai, anzi si sa bene, quel che può succedere.
Così è andata, cara Miriam Mafai, donna saggia e giornalista avveduta, che hai scritto l’editoriale indignato su La Repubblica. Ci conosciamo da oltre mezzo secolo. Sei uno dei pochi leader del giornalismo italiano che si è posto, durante la tua presidenza e in tempi foschi, domande essenziali sulla deontologia del nostro mestiere. Non sarebbero da riproporre per la condotta dei media il 18 novembre?
La nostra categoria si inviperisce ogni volta che è in pericolo il diritto di cronaca. Ha ragione. Esso consiste nello scrivere la verità. Ma tutta la verità. Di quel che è successo sabato è stato enfatizzato un frammento. Esso andava registrato, sicuro, perché dimostra che qualcosa non gira in alcune teste, come gli ammiccamenti di qualche altro foglio che non mi sono sfuggiti. Ma se non si rispettano le proporzioni fra quel minuscolo episodio e l’imponenza delle manifestazioni vere - nove persone su sessantamila - non si dice la verità. La si falsifica.
Per gusto dello scandalo o per altre intenzioni. Non siamo nate ieri né tu né io, sappiamo come puntare i proiettori su una sola parte della realtà sia un modo per oscurarne l’altra. In questo caso, sia per far passare la tesi che ogni manifestazione per la Palestina porta in sé un germe velenoso, sia per sottolineare come ogni manifestazione della sinistra del centrosinistra sia massimalista, anzi estremista. Il governo, si sottintende, farebbe bene a liberarsene. Si sottintende, ma non si dice, che sarebbe meglio se Prodi sbarcasse Rifondazione, Pdci e Verdi e imbarcasse la Udc. Si sussurra e non si scrive.
E fin qui sarebbe una puntata della poco ammirevole nostra fiction politica, se non ci fosse di mezzo il conflitto fra Israele e Palestina, che tutti dichiarano una tragedia gettando peraltro benzina sul fuoco.
Per un Bernocchi dei Cobas, il quale non vuole sfilare sotto lo slogan «Due popoli, due stati» (ma poi sfila) perché preferisce ululare contro l’unico di essi che per ora esiste, decine di politici si scordano che se qualche razzo lanciato da poco preveggenti estremisti palestinesi o di hezbollah fa danni a Sderot, le bombe di Tsahal demoliscono presunti covi di presunti terroristi nel Libano e a Gaza facendo ogni volta morti a decine. E Tsahal non è un gruppo di scalmanati, è il governo israeliano, il quale minaccia a ogni piè sospinto di ricominciare la guerra. C’è una tale sproporzione di forze che una elementare correttezza suggerirebbe di metterla ogni volta in evidenza. Come la miseria di Gaza. Come il fatto che Tel Aviv detiene molti soldi di proprietà palestinese mentre i palestinesi crepano di fame. E che per Tel Aviv le risoluzioni delle Nazioni Unite sono carta straccia, ne ha respinto una su Gaza proprio ieri. Ma chi ha il coraggio di scriverlo? Di titolare che in questi giorni Francia, Spagna e Italia hanno proposto una conferenza sul Medio Oriente ma Israele ha detto subito di no?
Io non penso che Israele sia una nazione come un’altra. E’ la nazione di un popolo perseguitato da duemila anni e che la generazione dei nostri padri - ahi, anche italiani - ha tentato di sterminare. Non è lecito dimenticarlo. Degli ebrei va capita l’angoscia. Non ne vanno incoraggiati gli incubi. Non ne vanno appoggiate le sconsiderate rappresaglie. Né si deve tacere - ha ragione Angelo d’Orsi - perché è abitudine degli attuali rappresentanti delle comunità ebraiche di Roma e Milano dare dell’antisemita a chiunque critichi il governo di Tel Aviv. Questa è una canagliata, tale e quale quella dei bruciatori di sabato. Cerchiamo di ragionare come David Grossman e Abu Mazen, dismettendo reticenze e ricatti. Non è molto chiederlo alla stampa democratica, chiedercelo almeno fra noi.
* il manifesto, 21.11.2006
Lieberman: «Operiamo a Gaza come Mosca in Cecenia»
Il Ministro israeliano per gli Affari Strategici presenta il nuovo piano
(www.lastampa.it, 1/11/2006)
GERUSALEMME. Al suo debutto alla riunione di gabinetto nel ruolo di ministro per gli Affari Strategici, Avigdor Lieberman ha smentito la sua fama di falco: commentando la vasta operazione delle forze armate israeliane (IDF) in corso a Gaza, il leader ultra-nazionalista del partito «Israel Beitein» ha suggerito di agire nella Striscia «come la Russia opera in Cecenia». Un modello discutibile dal momento che la presenza russa nella piccola repubblica caucasica è uno dei tallone d’Achille di Mosca, costantemente sotto accusa per le ripetute violazioni dei diritti umani compiute dai suoi soldati e dai gruppi para-militari locali.
A ciò, si aggiunge l’alto costo - morale e materiale - di una guerra che dal 1994 ha fatto, finora, 300 mila vittime civili, 200 mila «desaparecidos», senza contare i profughi e i circa 25 mila soldati russi morti. Come riferisce il quotidiano «Yedioth Ahronoth», nella riunione di gabinetto - appena terminata - ha tenuto banco la situazione nella Striscia di Gaza, dove questa mattina sono penetrati reparti di fanteria israeliana, seguiti da carri armati ed aviazione, nell’ambito di una vasta operazione tesa a smantellare le basi di lancio dei Qassam che da giorni colpiscono il territorio israeliano.
I ministri hanno inoltre discusso del vasto contrabbando di armi attraverso il corridoio di Philadelphi, una striscia di terra permeabile alle ’infiltrazionì fra Gaza ed Egitto. Secondo infatti un rapporto dell’intelligence israeliana, dal ritiro nell’agosto del 2005, tonnellate di armi sono entrate a Gaza per finire poi nelle mani di Hamas, compresi razzi anti-carro e versioni sempre più sofisticate di Katyusha. A questo proposito si sarebbe discusso della possibilità che l’Egitto collabori nella chiusura del corridoio Philadelphi per cercare di bloccare il passaggio di armi e uomini.
Operazione "Nuvole d’autunno" a Gaza, 6 morti e 40 feriti *
Un’ incursione con carri armati e elicotteri è stata lanciata nella notte tra martedì e mercoledì dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Le truppe di Tsahal sono penetrate nel villaggio palestinese di Beit Hanoun, dove i bulldozer hanno demolito due case e i carri hanno sparato obici contro decine di altre, i soldati si sono appostati sui tetti ingaggiando una violenta battaglia con i gruppi palestinesi armati mentre gli elicotteri sorvolavano il villaggio. L’operazione militare, ufficialmente volta a sgominare le bande di terroristi e a trovare il soldato Gilad Shalit, ha prodotto sei morti e una quarantina di feriti. Tra le vittime un militante di Hamas, Hussam Abu Hirbid, guardia del corpo di un ministro, e un diciottenne, Ahmed Shaadat. Una terza vittima è un poliziotto, Mohamemd Zuweidi. Le milizie armate di Hamas e della Jihad Islamica hanno rivendicato l’uccisione di un soldato israeliano, ma la notizia - diffusa da Al Jazira - non ha finora trovato conferme a Tel Aviv.
L’operazione - nome in codice "Nuvole d’autunno"- era ancora in corso mercoledì mattina quando il gabinetto di guerra del governo Olmert - la prima alla presenza del nuovo "stratega", il falco Avigdor Lieberman, del partito ultranazionalista russofono Israël Beiténou - ha deciso di non ampliarne la portata. «Il nostro obiettivo - ha spiegato il ministro della Difesa Amir Peretz - era ridurre sensibilmente la capacità di attacco e di lancio di razzi su Israele». Ma la radio militare ha spiegato che Peretz si è opposto vivacemente ai piani per l’operazione, molto più estesi, presentati dallo Stato maggiore dell’esercito. Le truppe di Tshal hanno compiuto un’incursione anche nell’aeroporto di Rafah e in un villaggio vicino. Ma il viceministro della Difesa Ephraïm Sneh si è affrettato a smentire che Israele intendesse rioccupare tutta la Striscia.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha vivacemente protestato per l’ennesima operazione militare oltre confine degli israeliano, parlando di un nuovo «massacro israeliano». Il leader dell’Anp, si legge in un comunicato dell’Autorità palestinese, «ha fermamente condannato il massacro israeliano che ha fatto sei martiri e oltre quaranta feriti a Beit Hanoun». Definendo l’operazione dell’esercito israeliano un «crimine odioso», Abu Mazen ha invitato «il governo di occupazione a porre fine immediatamente a tutte le sue azioni ostili contro il popolo palestinese». Il presidente dell’Anp ha chiesto l’intervento dell’Autorità nazionale affinché «intervenga rapidamente per far cessare queste aggressioni e impedisca un nuovo deterioramento della situazione nella regione». In pratica, ha invocato un diritto alla resistenza, un diritto che naturalmente Israele non riconosce e la cui rinuncia chiede che la comunità internazionale ponga come condizione ai palestinesi.
Ieri sempre nella Striscia di Gaza i soldati israeliani hanno ucciso tre miliziani delle Brigate Ezzedin Al Qassam vicino a Khan Yunes,. Erano tutti fratelli: il più giovane Zaki Al Najar, di 19 anni, è morto in ospedale. Gli altri due sono Mohammed di 21 anni e Shadi di 22 anni. Adesso c’è una madre-martire in più per Hamas.
* www.unita.it, Pubblicato il: 01.11.06 Modificato il: 01.11.06 alle ore 12.12
Libano, ancora aerei israeliani su Beirut. Protesta internazionale: "Pace a rischio"
Otto violazioni in due giorni. Onu e Francia stigmatizzano: "Seria preoccupazione, infrazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza". Solana: "La tregua potrebbe fallire" *
BEIRUT - Aerei israeliani in volo su Beirut e sul sud del Libano. In due giorni sono state registrate otto violazioni. Protesta l’Onu. La Francia, che ha il comando operativo dei ’caschi blu’ dell’Unifil, considera le nuove incursioni aeree "contrarie allo spirito e alla lettera della risoluzione numero 1701".
In un comunicato diramato a nome di Geir Pederson, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu nel Paese, si esprime "seria proccupazione per i continui sorvoli da parte israeliana, che costituiscono una violazione della sovranità libanese e, specificamente, un’infrazione della risoluzione numero 1701 del Consiglio di Sicurezza": cioè del provvedimento che il 14 agosto proclamò la cessazione delle ostilità.
Durissimo il responsabile della politica estera della Ue, Javier Solana: "Anche Israele deve osservare la tregua, e deve farlo nella maniera più rigorosa". (31 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 31.10.2006
«IL MONDO FERMI ISRAELE» «Tel Aviv rifiuta la trattativa e la pace perché non vuole ritirarsi dai territori occupati» Parla il ministro siriano Mohsen Bilal di Stefano Chiarini (il manifesto, 14.07.2006)
inviato a Damasco «La situazione è gravissima a causa dell’escalation israeliana a Gaza e in Libano e soprattutto per il suo rifiuto di trattare, anche indirettamente, con la resistenza libanese e palestinese per uno scambio tra i soldati prigionieri di guerra e un certo numero di prigionieri nelle carceri israeliane, in particolare donne e ragazzi. Israele anche in questo caso invece di cercare la pace ha scelto la guerra, l’attacco ad un paese sovrano. E il mondo sta a guardare. Per quanto riguarda la richiesta alla Siria di reprimere la leadership di Hamas all’estero, rifugiati palestinesi al pari degli altri 500.000 che ospitiamo dal ’48 e leader del partito di maggioranza relativa in Palestina, sarebbe contrario ai nostri principi. Così come il negare il diritto alla resistenza dei popoli e il rinunciare a chiedere il ritiro di Israele da tutti i territori occupati comprese le alture del Golan siriano». Mohsen Bilal nuovo ministro dell’informazione siriano, medico chirurgo, docente al policlinico di Baghdad ed ex ambasciatore a Madrid - elegante, capelli bianchi lunghi, una specie di Veronesi siriano - ci riceve nel suo studio alla televisione siriana, nella centralissima piazza Omawyyin, e ci esprime tutto il suo sdegno per la politica dei due pesi e due misure adottata ancora una volta dalla comunità internazionale di fronte alla tragedia di Gaza e agli attacchi al Libano. Quindi, dopo aver firmato alcune carte e averci offerto un ottimo té, l’esponente siriano, ex studente nell’ateneo bolognese, passa a parlare delle sempre più preoccupanti minacce al suo paese: «Il problema della Siria sta nel fatto che Damasco è da sempre il cuore della regione della mezzaluna fertile e quindi è sempre stata nell’occhio del ciclone dell’imperialismo Usa e di Israele. La Siria è sotto assedio perché nel 2003 si è opposta con forza all’Onu alla guerra all’Iraq, sostenendo che avrebbe violato il diritto internazionale e provocato - com’è purtroppo avvenuto - il caos in tutta la regione e per il fatto che chiediamo il rispetto della legalità internazionale, con la restituzione dei territori occupati da Israele, e del diritto dei palestinesi e dei libanesi a resistere agli occupanti israeliani.
E’ possibile parlare di pace con Israele? Noi siamo pronti a trattare - come gli altri paesi arabi - riprendendo le trattative dal punto al quale erano arrivate ai tempi di Yitzhak Rabin, a pochi millimetri dalla loro unica, possibile, conclusione - il ritiro israeliano sulle posizioni del 4/6/67 . Noi siamo stati invitati alle trattative di Madrid e poi queste sono state congelate dagli Usa e da Israele, e non certo da noi. Noi siamo pronti, Israele invece rifiuta la trattativa. Vuole tutto, anche la pace, senza pagare alcun prezzo.
Qual è la posizione della Siria sul terrorismo? Noi siamo per la resistenza dei popoli ma la nostra condanna del terrorismo, brutale e barbaro, è netta e senza equivoci o giustificazioni. Si tratta di un fenomeno che non ha nulla a che vedere né con la religione, né con le razze, né con la politica. E’ sbagliato parlare di terrorismo islamico, anche se ci sono alcuni musulmani in esso coinvolti così come il terrorismo di Israele non è ebraico ma israeliano. L’associare la parola terrorismo ad aggettivi come musulmano, cristiano o ebraico è grave e pericolosa. Inoltre non va dimenticato che la Siria è stata, tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, una delle prime vittime del terrorismo. E in parte lo è ancora
Cosa pensa del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq? Una decisione molto positiva che sana la grave ferita apertasi nei rapporti tra il vostro paese e l’opinione pubblica araba. Spero che questa decisione costituisca un’inversione di tendenza - già in occasione della prossima venuta di D’Alema in Medioriente - anche sulla questione palestinese, sul Libano e sulla Siria con una politica più equilibrata e di mediazione nell’area mediterranea propria del vostro paese sin dai tempi di Enrico Mattei. In ogni caso l’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza ha riempito di orgoglio tutti progressisti dell’area del Mediterraneo.
Lei ha studiato a lungo in Italia, che ruolo ha avuto la sua formazione a Bologna? Direi molta, soprattutto a livello politico culturale. Frequentare Bologna tra la fine degli anni sessanta e la metà dei settanta ha costituito una palestra politica di primaria importanza. Non potrò mai dimenticare la solidarietà dell’Italia nei confronti dei movimenti di liberazione dall’Algeria al Vietnam alla Palestina. Dal punto di vista politicoteorico il frequentare i progressisti italiani mi ha dato una chiara idea dell’importanza del concetto di «egemonia» e della necessità di evitare il minoritarismo al fine di costruire un fronte il più largo possibile a sostegno delle lotte di liberazione nazionale.
Il premier Romano Prodi è sulla stessa lunghezza d’onda
Libano, il Vaticano condanna l’attacco
Il segretario di Stato, Angelo Sodano, deplora l’invasione di una nazione sovrana. Chirac: «Israele vuol distruggere il Libano»
MILANO - «In particolare la Santa Sede deplora ora l’attacco al Libano, una nazione libera e sovrana». Il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato vaticano uscente, ai microfoni della Radio Vaticana commenta quanto sta accadendo in Medio Oriente. Poi «assicura la sua vicinanza a quelle popolazioni che hanno già sofferto per la difesa della propria indipendenza».
«Il Santo Padre Benedetto XVI e tutti i suoi collaboratori - continua - seguono con particolare attenzione gli ultimi drammatici episodi che rischiano di degenerare in un conflitto con ripercussioni internazionali».
PRODI «Pur riconoscendo la legittima preoccupazione di Israele e condannando il rapimento dei soldati, deploriamo l’escalation nell’uso della forza e i gravi danni alle infrastrutture del Libano e le vittime civili dei raid». Lo ha detto il premier Romano Prodi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi.
CHIRAC «Da parte di Israele sembra esserci una volontá di distruggere il Libano». A denunciarlo è il presidente francese Jacques Chirac, che torna ad accusare lo Stato ebraico di uso «sproporzionato» della forza in seguito al rapimento di due militari israeliani, sequestrati due giorni fa dagli Hezbollah.
«Ci si può benissimo chiedere se non ci sia una sorta di volontá di distruggere il Libano, le sue infrastrutture, le sue strade, le vie di comunicazione, i suoi aeroporti. E per cosa?».
Corriere della Sera,14 luglio 2006
Ancora raid aerei sulla capitale libanese. Colpiti i quartieri hezbollah Cannoneggiamenti anche dal mare. Gli Stati Uniti riducono al minimo lo staff. Beirut, tre bombardamenti nella notte Morti, feriti; evacuata ambasciata Usa *
ROMA - In tre ondate i caccia israeliani hanno bombardato Beirut prima dell’alba di oggi, prendendo di mira la periferia sud, roccaforte dello Hezbollah, con un bilancio di almeno due morti e 17 feriti, secondo la tv del movimento sciita, Al Manar.
Mentre la contraerea libanese entrava in azione, i bombardamenti hanno centrato obiettivi sulla superstrada costiera che porta al Sud Libano, due campi da gioco, e due cavalcavia, uno nei pressi dell’aeroporto, l’altro nel quartiere di Haret Hreik, dove ha sede il quartier generale del ’Partito di Dio’ libanese.
Sempre nella zona sud di Beirut - da dove fiamme e fumo si innalzavano verso il cielo - sono stati colpiti anche i quartieri di Gisr al Matar, Moawwad e Ghobeiry, quest’ultimo adiacente al campo profughi palestinese di Shatila.
Navi israeliane hanno invece cannoneggiato un deposito di carburante di una centrale elettrica a Jiyyeh, 30 km a sud della capitale, scatenando un violento incendio.
In precedenza, erano state bombardate proprietà degli Hezbollah alla periferia di Hermel, nel Libano orientale, vicino alla frontiera con la Siria.
Nella notte inoltre, le forze di sicurezza libanesi hanno chiuso al traffico la strada Beirut-Damasco, che ieri sera è stata bombardata in cinque punti su un tratto di una ventina di km tra la località montana di Sofar e la cittadina di Shtaura, nella valle della Bekaa.
A Washington, il Dipartimento di Stato ha intanto autorizzato le famiglie del personale dell’ambasciata Usa, e parte dello staff, a lasciare il Libano, e ha invitato i cittadini statunitensi a evitare i viaggi nel Paese. (14 luglio 2006)
*
www.repubblica.it, 14.07.2006
Giordano: "Si muovano Onu ed Europa, fermiamo Israele prima che sia troppo tardi" di Stefano Bocconetti (Liberazione, venerdì 14 luglio)
Le domande, le solite domande. Quelle che un po’ tutti si aspettano, e - purtroppo - quelle che un cronista si sente in obbligo di fare. Sulla missione in Afghanistan, sul decreto, sulla mozione, sui “dissidenti”, sull’Udc e via dicendo. Franco Giordano, nella sua stanza al terzo piano di viale del Policlinico, risponde a tutto. Con la solita disponibilità. C’è qualcosa però che lo infastidice. No, non è la ripetizione di domande che si sarà sentito fare mille volte in questi giorni. "Non ho alcun problema a parlare dell’Afghanistan. Il nostro obiettivo resta il ritiro, ma credo che sia importante l’aver impedito che crescesse l’impegno italiano in uomini e mezzi, come chiedeva il segretario generale della Nato e addirittura lo stesso Kofi Annan. Siamo per il ritiro ma credo sia importante il documento di politica estera, che accompagnerà il decreto, quello che si sta definendo in queste ore. Se tutto va bene - e le notizie che ho mi fanno dire che si va nella direzione giusta - credo che si possa davvero dire che c’è un’inversione netta gradi rispetto al passato governo". Non sono allora le domande, né l’argomento afghano, che lo infastidiscono.
Che cos’è? Che c’è che non va in queste giornate? La metto giù esplicita. La cosa brutta di queste ore è la miseria della politica italiana. E’ la miseria di un dibattito che fa finta di guardare al contesto internazionale ma che, invece, serve solo ad obiettivi di piccolo cabotaggio. Tutti legati alla provincialissima politica italiana. Serve solo a fini strumentali.
Stai dicendo che quello di queste ore è un brutto dibattito? Io ti dico, d’accordo con quel che ha scritto Liberazione, che vedo molti che si appassionano alle virgole di un documento sull’Afghanistan. E’ importante. Ma ci rendiamo conto che sta accadendo qui a due passi dall’Europa, abbiamo gli occhi per vedere come sta degenerando il conflitto israelo-palestinese? Siamo alla guerra guerreggiata, ce ne siamo accorti o no?
E cosa bisognerebbe fare? Per noi è decisivo rilanciare la mobilitazione democratica per strappare impegni veri all’esecutivo. Impegni per fermare il governo israeliano, che occupa Gaza, la Cisgiordania, che minaccia il Libano. Per fermare l’esercito israeliano che rischia di produrre un’inaccettabile tragedia. Sì, li dobbiamo fermare. Dobbiamo provare tutte le forme di pressione per ricostruire le condizioni favorevoli al negoziato, per riprendere la strada che porti alla costruzione di due popoli e due Stati.
Che significa esattamente che occorre provare tutte le forme? Che oggi, proprio come hanno sempre fatto i palestinesi, dobbiamo chiedere con forza che in Palestina e in quelle zone martoriate siano inviate truppe di interposizione dell’Onu.
Anche truppe italiane? Certo, se servono, anche soldati italiani. Bisogna fermare quella guerra.
Credi che il resto della coalizione sia disponibile a battersi per una soluzione di pace in Palestina? D’Alema ha detto cose importanti, diciamo così: ha cominciato, ma non basta. Occorrono interventi molto più effiaci. Più rapidi. Occorrono prese di posizione politiche più nette.
Chiedi segnali di discontinuità in Medio Oriente. E in Estremo Oriente, invece? Lì ci sono quei segnali? Francamnente questa non l’ho mai sentita. Il decreto - perché credo tu mi stia domandando di quello - prevede il ritiro dall’Iraq. Ritiro totale e non, come ha fatto Zapatero, spostando uomini e mezzi verso l’Afghanistan. Più segnale di discontinuità di questo! Un segnale, un obiettivo costruito grazie alla capacità di incidere del movimento pacifista di questi anni.
Citavi l’Afghanistan. Ed eccoci arrivati: a che punto è la trattativa fra le forze dell’Unione su questo paragrafo? Ti ripeto, ancora non conosco la versione finale della mozione che accompagnerà il decreto. Da quel che so, lì ci sono molte delle nostre rischieste. Si prevede una verifica di tutte le missioni, e in particolare quella dell’Afghanistan, nelle sedi internazionali, Onu e Nato. Ci sarà una commissione interparlamentare, aperta al contributo dell’arcipelago pacifista e delle organizzazioni non governative, che valuterà cosa davvero accade in Afghanistan. Si parla di superamento di Enduring Freedom. C’è un richiamo forte, esplicito all’articolo 11 della nostra Costituzione. C’è l’obiettivo di uscire dai diktat atlantici, per cui contano solo le zone del mondo dove ci sono interessi geopolitici, per dirne un’altra, un impegno italiano nel Darfur. In un’altra guerra devastante ma dimenticata.
Ma nel decreto si conferma la presenza dei nostri militari. Una cosa, per cominciare: non ci si poteva pensare prima? Non si poteva discuterne al momento del varo del programma? Tutti sanno che su questo argomento non c’è una semplice diversità di vedute ma ci sono davvero posizioni opposte. C’è chi come noi considera quella in Afghanistan una guerra, come quella in Iraq e sostiene la necessità di una exit strategy e c’è chi vorrebbe aumentare la nostra presenza. Ancora poche ore fa, lo ha chiesto il Presidente della Commissione Difesa del Senato, quello che ha preso il posto che spettava a Lidia Menapace. E le alternative, davanti a questa situazione, sono solo due: o lasciar fare alle forze prevalenti nel centro-sinistra o provare a costruire un terreno più avanzato per far vivere la nostra iniziativa. Scusa la franchezza: ma perché nel decreto non c’è il segno prevalente delle forze moderate del centrosinistra? Io so che se avessimo lasciato fare alle forze prevalenti nella coalizione, queste avrebbero accettato senza dubbi la pretesa del segretario generale della Nato di aumentare gli uomini, i mezzi militari in Afghanistan. Di più: avrebbero accettato la pretesa di impegnare le nostre truppe nel sud del paese, dove il conflitto sta diventando sempre più caldo. Tutte cose che abbiamo impedito.
Tutte cose che non hanno modificato, però, il giudizio di un gruppo di senatori e di deputati sul decreto. E qui ci vedo una sorta di eterogenesi dei fini. Le prese di posizione di una forza politica, e anche - purtroppo - di un gruppo di compagni di Rifondazione fanno correre al paese il rischio di uno spostamento dell’asse politica verso il neocentrismo. Verso una politica molto, ma molto più filo atlantica.
Tu, insomma, non fai nessun calcolo sui voti dell’Udc e della casa dela Libertà. Facciano quel che vogliono. Decidano loro se votare un atto istituzionale che prevede il ritiro senza condizioni da un teatro di guerra come l’Iraq. Teatro dove loro, quella maggioranza di destra, ci ha portato. Se lo fanno, ovviamente, a nessuno sfuggirà il carattere strumentale di quella posizione. L’importante è che l’Unione sia autosufficiente e allora non ci sarano manovre possibili.
Ai dissidenti, cosa dici? Ai partiti che si oppongono ricordo che l’alterità rispetto alla guerra - un’alterità alla quale magari si è approdati da poco ma che considero ugualmente importante - non ha nulla a che vedere con la conquista, con lo spostamento millimetrico di visibilità nella cittadella della politica.
E ai senatori di Rifondazione? Io credo che il partito abbia ricevuto un preciso mandato politico. Abbia ricevuto un mandato su una linea decisa dopo un lungo percorso democratico. Sia chiaro e a scanso di equivoci: credo che sia più che legittimo il dissenso. E credo che sia più che legittimo il diritto a rendere esplicito questo dissenso. L’unica cosa che non può avvenire è che tutto questo metta a rischio il concretizzarsi di scelte decise democraticamente.
Ma insomma cos’è questo rischio? E’ sotto gli occhi di tutti. Chi teorizza, dopo appena due mesi di vita del governo Prodi, una maggioranza a geometria variabie, rischia di snaturare l’Unione. E quindi, rischia di snaturare il ruolo e il compito di Rifondazione in quella coalizione.
Cosa vuoi dire? Nulla, nulla di più di quel che sto dicendo. Faccio un appello, un fortissimo appello perché qualunque sia il dissenso, tutti si sentano parte di questa comunità. Della comunità di Rifondazione. Faccio un appello, vorrei dire di più ma non esiste un accrescitivo di appello, perché tutti scelgano di tutelare gli interessi e le scelte di questa comunità. Che tutti quanti abbiamo contribuito a creare.
Al di là dei senatori o dei parlamentari, vedi disagio in giro nel partito? Vedo una discussione vera. Ma vedo soprattutto una richiesta: non lasciarsi invischiare nel gioco della “politique politicienne”. Il nostro blocco sociale, quelle centinaia di migliaia di precari, di disoccupati, di lavoratori, di pensionati, tutti coloro che giustamente pretendono un risarcimento sociale dopo cinque anni di governo delle destre, ci chiedono di non mettere a rischio l’esecutivo. Ci chiedono di non ridurre la nostra capacità di contrattazione. Al contrario, vogliono che andiamo avanti, che non ci limitiamo a grandi enunciazioni di principio ma che cambiamo in concreto le loro condizioni di vita. Come abbiamo fatto, come stiamo provando a fare col documento finanziario. La nostra base sociale, composta per tanta parte dallo straordinario movimento pacifista di questi anni, ci chiede di non limitarci ad affermazioni identitarie. Ci chiede di non salvarci l’anima, come avverrebbe con un voto di fiducia. Ci chiede di sporcarci le mani, di insistere. Per costruire condizioni sempre più avanzate. Per costruire quelle condizioni che ci porteranno ad uscire anche dal pantano afghano.
Raid israeliano su Beirut Blocco totale al Libano Hezbollah risponde con lanci di missili*
Israele impone al Libano un blocco totale, aereo, navale e terrestre. «Un atto di guerra da uno Stato sovrano», aveva detto il premier Olmert. L’attacco dei militanti di Hezbollah e il rapimento di due militari israeliani è un atto di guerra e Israele reagisce di conseguenza. Otto soldati sono morti dall’inizio delle operazioni. L’esercito israeliano ha bombardato il villaggio di Al Sultaniya, nel sud del Libano, mentre elicotteri con la stella di David continuano a sorvolare le regioni meridionali, in particolare la zona di Zarit, dove giovedì sono stati rapiti i due soldati. La marina di guerra israeliana è penetrata nelle acque territoriali libanesi, bloccando i principali porti (Saida, Tiro, Beirut e Tripoli), mentre aviazione ha costretto le autorità libanesi a dirottare tutti i voli a Cipro. Un alto ufficiale israeliano ha detto che le forze armate si stanno preparando a attività belliche di lunga durata e ha aggiunto che altri aeroporti libanesi saranno obiettivo di incursioni israeliane.
Che la situazione fosse così grave lo si è capito fin dall’alba, quando poco prima delle 6 locali (le 5 in Italia) i caccia F-16 israeliani hanno bombardato l’aeroporto internazionale di Beirut. È stato il via all’operazione «Giusta Retribuzione», diretta contro tutte le postazioni di Hezbollah e il Libano che le ospita. L’aeroporto è stato colpito «perché serviva al trasferimento di armi per gli Hezbollah libanesi», ha detto un portavoce militare israeliano. La capitale libanese è stata colpita anche in alcuni quartieri periferici, come il quartiere di Hart Reik, roccaforte di Hezbollah. Nel mirino degli aerei israeliani c’era la sede dell’emittente tv del movimento sciita, al Manar, con un razzo. Impianti delle emittenti del movimento sciita Hezbollah sono stati bombardati anche nella valle della Beka’a, nella zona di Baalbek, dove ha sede un importante sito archeologico. Sono andate distrutte le antenne della tv del movimento e quelle della radio Al Nur. Una piccola moschea sciita (anche detta "hussainita") è stata colpita a Budai, vicino Baalbek.
Secondo l’esercito, una trentina di combattenti estremisti sono stati uccisi in occasione degli attacchi israeliani. L’esercito ha intenzione di colpire molto duramente Hezbollah nella capitale libanese, dove si trova il quartiere generale del movimento, e le famiglie dei suoi dirigenti, in particolare nella zona in cui abita Hassan Nasrallah, il suo capo.
Il governo libanese si accinge a tenere una riunione straordinaria, la seconda dopo l’inizio della grave crisi che si è aperta con Israele. L’inizio della seduta, stando all’agenzia nazionale Ani, è stato fissato per le 11 ora italiana.
La tv di Dubai, Al Arabiya ha riferito che la «resistenza islamica» (così chiama Hezbollah) ha lanciato missili contro il «comando delle operazioni dell’aviazione israeliana» di Monte Miron, nel nord di Israele. Con un comunicato il comando del movimento sciita ha annunciato di aver usato nuovi missili "Raad 1". "Raad" in arabo significa "tuono Il bilancio delle vittime israeliane, sarebbe, secondo il corrispondente della tv satellitare araba al Jazeera, di «una donna e 29 feriti», di cui uno grave. Il sito internet del quotidiano israeliano Haaretz rifesrisce che la cittadina israeliana colpita è quella di Nahariya, nei pressi del confine con il Libano. La vittima è una donna di 40 anni che era rimasta sul balcone della sua casa, al quinto piano di un edificio, nonostante l’esercito israeliano avesse ordinato ai residenti di mettersi al riparo nei rifugi antimissile. E un missile katiusha ha colpito l’edificio al piano sopra di quello della donna uccidendola. Tra i feriti ci sono diversi bambini.
Il fronte di Gaza Continuano le operazioni di Israele in quello che in un giorno è divenuto un secondo fronte, più marginale. Aerei israeliani hanno lanciato nella notte numerosi missili contro il ministero degli esteri palestinese a Gaza City. Lo hanno riferito testimoni, aggiungendo che nell’edificio è scoppiato un incendio. Per ora non vi è notizia di morti o feriti. I militari israeliani hanno confermato il raid, denunciando che il ministero degli Esteri è «occupato da Hamas» e viene utilizzato «per pianificare attacchi terroristici».
Le Brigate Ezzedin Al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno promesso una risposta «violenta e dolorosa» all’ondata di sangue che ha fatto 18 morti a Gaza (un bilancio che al tramonto è già salito a 23) e il ferimento del loro capo militare Mohammed Deif. Ma quello che è chiaro ora è che il conflitto non è più tra Hamas e Israele. È più esteso e rischia di coinvolgere tutta nell’area mediorientale, se non fermato, compresi Siria e Iran, principali "sponsor" del Movimento di Resistenza Islamico del fu sceicco Yassin: Hamas. È contro Siria e Iran che si sono scagliati infatti le parole di condanna del segretario di Stato Condoleeza Rice. Olmert ha chiarito che «per ora il nostro problema è il Libano». Il Libano dove solo nel febbraio dello scorso anno per le sue denunce dell’influenza di Damasco fu ucciso il deputato Hariri.
La condanna di Annan «Condanno senza riserve rapimento e uccisione di soldati. I sequestrati devono essere rilasciati - ha detto il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan in un’intervista-. Anche il soldato Shalit detenuto a Gaza deve essere rilasciato affinché la tensione scenda. Il risultato del sequestro dei due soldati è stato l’ampliamento delle operazioni da Gaza al Libano ed il Libano ha i suoi problemi, non ha bisogno anche di questo. I rapiti devono essere rilasciati». Considerando i legami di Hamas e degli Hezbollah con Damasco e Teheran il segretario dell’Onu spiega: «Il Medio Oriente è un posto pericoloso e, certo, può diventare esplosivo. Per questo bisogna adottare le misure per bloccare la crisi. Fino a 24 ore fa pensavo che l’escalation poteva essere evitata portando israeliani e palestinesi a collaborare ma ora c’è il Libano: esiste il forte rischio di una escalation del conflitto». *
WWW.UNITA.IT, Pubblicato il 13.07.06
Israele-Libano sull’orlo della guerra Attacco su Gaza strage di bambini L’Onu condanna l’escalation*
Precipita la situazione in Medio Oriente, dopo il rapimento stamane di due soldati israeliani e l’uccisione di altri sette in un raid dei guerriglieri Hezbollah sul confine israelo-libanese. Dura risposta militare di Israele che ha cominciato la mobilitazione delle truppe di riserva.
Proseguono intanto anche i raid israeliani nella striscia di Gaza: in un attacco aereo, la scorsa notte, sono stati feriti quattro capi militari di Hamas. L’attacco ha provocato il crollo di una palazzina di tre piani, sotto le macerie sono rimaste nove persone, tra le quali sette bambini. In totale sono almeno 16 le vittime palestinesi degli attacchi israeliani nella sola giornata di oggi.
Il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha chiesto "l’immediato rilascio" dei due soldati israeliani catturati, e ha condannato "senza riserve" la successiva offensiva israeliana nel sud del Libano. Per Annan "qualsiasi attacco deliberato contro civili inermi è da considerare un atto di terrorismo". [...]
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www.repubblica.it, 12.07.2006
Yael Dayan: «Sì ai caschi blu a Gaza» di Umberto De Giovannangeli *
«Israele farebbe bene a non lasciar cadere la proposta avanzata da Sari Nusseibeh: una forza internazionale di interposizione nella Striscia di Gaza non è una minaccia per noi israeliani ma sarebbe un’assunzione di responsabilità da parte di chi intende contribuire fattivamente a porre un freno all’escalation di violenza e ridare una chance al dialogo». A sostenerlo è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia del generale Moshe Dayan, l’eroe della Guerra dei Sei giorni. «In questo momento - riflette Yael Dayan - la priorità assoluta deve essere data alla liberazione del soldato rapito, ma questo per me vuol dire che tutte le strade devono essere battute per raggiungere l’obiettivo, anche quella di uno scambio con detenuti palestinesi che non siano stati condannati per gravi atti di terrorismo».
Dalle colonne dell’Unità, Sari Nusseibeh, uno degli intellettuali palestinesi più impegnati nel dialogo, ha lanciato un appello all’Europa perché sia parte attiva della costituzione di una forza di interposizione da dislocare nella Striscia di Gaza. Come valuta questa proposta? «È una proposta da non lasciar cadere. Perché chiama la Comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Europa, all’assunzione delle proprie responsabilità in questa area di crisi, ed anche perché cerca di dare una risposta concreta ad una situazione drammatica. Una risposta che non è giocata contro Israele ma è a favore di una coesistenza pacifica tra i due popoli. Ma perché ciò possa determinarsi abbiamo bisogno di un sostegno internazionale. Politico, economico e anche militare. La proposta di Nusseibeh va in questa direzione».
Olmert ha rigettato le critiche dell’Europa su un uso sproporzionato della forza da parte di Israele nell’offensiva militare lanciata nella Striscia. «Di nuovo c’è la tentazione di liquidare certe critiche come pretestuose, "filo-palestinesi", addirittura "anti-semite". Non sono d’accordo con Olmert. Sia chiaro: non intendo mettere in discussione il diritto-dovere di Israele di difendersi dagli attacchi terroristici. Ma questa difesa, del tutto legittima, non può spingersi sino al punto di mettere tra parentesi il rispetto dei diritti umani per ciò che concerne la popolazione civile palestinese. Mi rifiuto di considerare inevitabili "danni collaterali" ad una giusta operazione militare, l’uccisione di civili. Si tratta di un problema politico che non può essere scaricato sui vertici militari né tanto meno sui soldati impegnati nelle operazioni sul campo».
Torniamo alla proposta di Sari Nusseibeh. C’è chi in Israele si è sempre rifiutato di accettare la presenza di una forza di interposizione ritenendola una ingerenza. «Ben venga una tale "ingerenza" se può salvare vite umane, di palestinesi e israeliani. D’altro canto, Israele non ha più, dall’estate scorsa, insediamenti nella Striscia. Ci siamo ritirati sui confini internazionali. Dove sarebbe dunque questa "ingerenza"? Nel mondo ci sono decine di missioni di "peace-keeping" che vedono la presenza sul campo di forze americane, europee, asiatiche.... Qualcuno mi deve convincere che a Gaza oggi non ci sia necessità di ristabilire le condizioni minime di sicurezza...".
Israele ha dichiarato guerra al "governo terrorista" di Hamas, arrestando ministri e parlamentari. «Anche su questo concordo con Sari Nusseibeh: Israele sta facendo di politici di mezza tacca, che stavano fallendo nella loro funzione di governo, degli eroi della resistenza all’occupazione israeliana agli occhi della gente palestinese. "Martirizzando" Hamas non si favorisce la leadership moderata di Abu Mazen, ma si ottiene il risultato opposto».
Olmert non è di questo avviso. «Guardiamo ai fatti: abbiamo eliminato il fondatore di Hamas (lo sceicco Ahmed Yassin); abbiamo fatto fuori il suo successore (Abdel Aziz Rantisi), possiamo anche colpire Khaled Mashaal (il leader di Hamas in esilio a Damasco, ndr.) ma questa pratica non ha portato all’indebolimento di Hamas, semmai ne ha rafforzato la presenza e i consensi in ogni ambito della società palestinese».
C’è ancora uno spazio per la speranza? «Smettere di sperare è consegnarsi anima e corpo ai signori della guerra, a coloro che vogliono tenere in ostaggio il nostro presente e il nostro futuro. Non mi considero una sognatrice idealista, penso invece di essere una persona pragmatica, come lo era Yitzhak Rabin. E come lui continuo a credere che Israele non può realizzare il suo sacrosanto diritto alla sicurezza contando solo sulla propria forza militare. Questa forza va messa al servizio di una strategia politica. Una strategia di pace».
Aumento delle violenze: nella notte l’esercito di Tel Aviv ha colpito una casa a Gaza, morti leader di Hamas, la moglie e i due figli Scontri al confine tra Israele e Libano Rapiti due soldati israeliani, sette uccisi Abu Mazen: "Potrei dare dimissioni e sciogliere Anp" Olmert: "Atti di guerra, attaccati da uno stato sovrano come il Libano" *
GAZA - Cresce la tensione in Palestina e nei territori occupati da Israele ai confini con Libano e Siria. Hezbollah provenienti dal Libano hanno sferrato nei territori invasi dall’esercito israeliano nel ’67 un attacco che avrebbe portato all’uccisione di sette soldati e al sequestro di altri due militari. Questa notte inoltre ci sono stati bombardamenti israeliani a Gaza che hanno provocato sei morti. Tutto fa presagire che la tensione crescerà ancora: il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che quello accaduto in Libano "è un atto di guerra perché gli attacchi vengono da uno Stato sovrano". Gli hezbollah, infatti, fanno parte del governo di Beirut. E ha aggiunto: "Chi colpisce Israele la pagherà cara" e ha convocato per questo pomeriggio una seduta straordinaria del suo governo. Quanto il precipitare degli eventi sia drammatico è dimostrato anche dalle affermazioni del presidente dell’Associazione nazionale palestinese, Abu Mazen, che considera l’opportunità di rassegnare le dimissioni e di proclamare lo scioglimento dell’Autorità nazionale palestinese.
Scontri al confine con il Libano. La battaglia è in corso nei territori contesi tra Libano, Siria e Israele. Gli scontri sono cominciati questa mattina intorno alle 9, quando l’artiglieria di Hezbollah ha sparato una trentina di proiettili e razzi nel controverso settore delle fattorie di Shebaa. L’esercito israeliano ha risposto sparando una ventina di proiettili, poi un’offensiva con truppe di terra: "I nostri aerei, carri armati e l’artiglieria stanno operando all’interno del territorio libanese", ha fatto sapere un portavoce di Tel Aviv.
Poco dopo il rapimento dei due soldati è arrivata la rivendicazione della "Resistenza islamica", braccio armato di Hezbollah, che ha detto di aver sequestrato i due soldati e averli portati in "un luogo sicuro". In cambio degli ostaggi i guerriglieri chiedono la liberazione di detenuti nelle carceri israeliane. Ghazi Hamad, portavoce del governo palestinese guidato da Hamas, citato dalla tv di Hezbollah, ha detto che la cattura dei due soldati " è un grande aiuto per la lotta a Gaza" e "fornisce una seria occasione per un’intesa generale su uno scambio di prigionieri". Ma secondo Al Jazeera, nel blitz per rapire i militari israeliani, sarebbero stati uccisi sette loro commilitoni. La notizia, per ora, non ha trovato conferma.
Raid notturno a Gaza. Nel raid israeliano portato questa notte nella striscia di Gaza sono morte due donne e due bambini e ci sono stati 30 feriti. L’esercito di Tel Aviv aveva come obiettivo l’eliminazione di un comandante dell’ala militare di Hamas, Mohammed Deif, capo delle Brigate Ezzeddin al Qassam, che secondo fonti di intelligence si trovava in una palazzina nel Nord della striscia di Gaza. E ora le brigate al Qassam minacciano di preparare "una risposta violenta e dolorosa" all’offensiva israeliana.
Secondo i militari Deif, che è considerato da Israele il nemico pubblico numero uno, è rimasto ferito nell’attacco "ma non si sa quanto gravemente", mentre un portavoce delle brigate al Qassam ha smentito: "Ciò e totalmente falso - ha affermato Abu Ubaida - Lo smentiamo. Lo smentiamo completamente. E’ solo un tentativo di coprire il massacro di civili palestinesi commesso dal nemico sionista".
La palazzina crollata, nel quartiere di Sheikh Redwan, apparteneva, secondo fonti locali, a un dirigente di Hamas, Nabil Abu Salenyeh, che secondo il quotidiano israeliano Haaretz è morto con la moglie e i figli. Tre abitazioni vicine sono rimaste gravemente danneggiate. In un simultaneo raid contro un’automobile vicina allo stabile, è rimasto ferito, secondo fonti palestinesi, un altro leader militare di Hamas, Abu Anas al Ghandour.
Le dichiarazioni di Abu Mazen. E’ stato un dirigente di al Fatah a Gerusalemme, Abdel Qader, a dare la notizia che Abu Mazen mediterebbe di sciogliere l’Anp. Qader ha detto che "le sue minacce sono serie, e non manovre politiche". A quanto pare nel corso di colloqui ad Amman i dirigenti giordani hanno cercato ieri di convincere Abu Mazen a non compiere un passo tanto drastico. "L’aggressione israeliana rischia di condurre allo scioglimento dell’Anp" ha avvertito Abdel Qader. Secondo il dirigente palestinese seri sforzi sono tuttora in corso per convincere Abu Mazen a non attuare le proprie minacce. (12 luglio 2006)
* www.repubblica.it, 12.07.2006
"Israele arresta vicepresidente assemblea EUROMED e l’UE dov’e’? Comunicato stampa di LUISA MORGANTINI *
Presidente della Commissione Sviluppo al Parlamento Europeo e Membro del Comitato Politico dell’Assemblea Parlamentare Euromediterranea
Bruxelles, 10 luglio 2006
"Non ho più parole per esprimere l’indignazione di fronte alle ripetute e impunite violazioni della legalità da parte del governo Israeliano. E a quanto pare neanche l’Unione Europea, che non ha ancora condannato l’arresto, avvenuto lo scorso venerdi 7 luglio, di Hassan Khreshi, Vice presidente della Commissione Politica per la sicurezza e i diritti umani dell’Assemblea parlamentare euromediterranea (APEM), di cui io stessa faccio parte" ha dichiarato Luisa Morgantini (GUE/NGL). "Che altro deve fare Israele, quale altra illegalità deve commettere, quanti altri omicidi di vittime civili devono essere compiuti prima che l’Unione Europea intimi fermamente ad Israele di rispettare le leggi internazionali e il rispetto dei diritti umani?" L’arresto di Hassan Khreshi, ex Speaker del Consiglio Legislativo Palestinese, di cui è membro indipendente dal 1996, e rappresentante palestinese all’Euromed e all’Assemblea Parlamentare della NATO, avvenuto lo scorso 7 luglio , sul ponte Allenby tra la Giordania e la Palestina, mentre stava tornando da un incontro internazionale "è l’ennesimo episodio di arroganza e impunità da parte di Israele -ha continuato la Morgantini- Khreshi non fa parte di nessuna formazione politica palestinese, è un indipendente e nella Commissione Politica, abbiamo tutti apprezzato la sua disponibilità e apertura al dialogo". "Il non-diritto di cui Israele si è avvalsa per fermarlo fa parte di una strategia da guerra, vera e propria, contro l’Autorità Nazionale Palestinese e le sue Istituzioni Parlamentari, elette democraticamente sotto gli occhi degli osservatori internazionali, europei inclusi". "Ad oggi sono 64 i deputati e 8 i ministri dell’ANP sequestrati illegittimamente dal Governo israeliano che non è stato minimamente sfiorato dalle seppur flebili voci di condanna delle Istituzioni internazionali ed europee. L’Unione Europea, con la debolezza della sua attuale posizione rispetto a queste flagranti violazioni della legalità, si rende complice di un’ingiustizia palese e senza precedenti. Ritengo sia necessario oltre che urgente che Bruxelles esiga da Israele, anch’essa membro dell’APEM, e partner europea nel quadro del processo di Barcellona, la liberazione immediata di Hassan Khreshi e di tutti gli eletti al Consiglio Legislativo Palestinese, arrestati e deportati in Israele, e la fine istantanea dell’assedio ai danni della popolazione civile di Gaza e di tutti i territori occupati". Per altre informazioni LUISA MORGANTINI 00393483921465 o Francesca Cutarelli 00393405649335
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WWW.ILDIALOGO.ORG, Lunedì, 10 luglio 2006
Fermiamo Israele. Salviamo la Palestina e Israele di Luisa Morgantini *
Quanto dolore e quanta sofferenza, quanta ingiustizia in Palestina e Israele; bisogna fermare Israele per la salvezza dei palestinesi e degli israeliani. Questa sera a piazza Farnese e in altre piazze d’Italia dobbiamo essere in molti a dire basta muri, basta silenzi. Intervenga la comunità internazionale e le forze dell’Onu per impedire i continui massacri della popolazione palestinese e far ritirare l’esercito israeliano dai territori palestinesi occupati, fermare il lancio di razzi sulle città israeliane al confine con Gaza. Liberare le palestinesi e i palestinesi nelle carceri israeliane, liberare il soldato israeliano. Aprire i negoziati affinché due popoli e due stati possano diventare una realtà e non parole vuote. L’assedio e la penetrazione dell’esercito israeliano a Gaza, ma così come le incursioni continue nella Cisgiordania sono la manifestazione chiara dell’incapacità da parte del governo israeliano di avviare negoziati e riconoscere l’autorità palestinese, sia quella del presidente Mahmud Abbas che quella del governo democraticamente eletto dal popolo palestinese. E’ ormai da lungo tempo che i governi israeliani sostengono la non esistenza di un partner per la pace, lo hanno fatto con Arafat e continuano a farlo anche con Mahmud Abbas che ha vinto le elezioni presidenziali dichiarando esplicitamente il rifiuto della lotta militare per un’Intifada popolare non violenta. La speranza che si era aperta con l’elezione di Amir Peretz sindacalista e laburista che si è presentato alle elezioni sulla piattaforma sociale e che durante la manifestazione per l’anniversario dell’asssassinio di Rabin a Tel Aviv ha detto nel suo intervento che «l’occupazione militare è un’onta morale per Israele », è morta quando Amir Perez ha accettato di essere il ministro della Difesa del governo Olmert. La quotidianità della vita del popolo palestinese non trova parole, un popolo assediato impedito nei movimenti rinchiusi ermeticamente a Gaza ma anche nella Cisgiordania con muri e check point, famiglie separate dai muri, cittadini di Gerusalemme Est espulsi dalla città. La mancanza di luce, elettricità, l’impedimento agli ammalati di recarsi agli ospedali, la mancanza ormai di cibo, migliaia di palestinesi fermi sotto il sole ai confini con l’Egitto impediti ad entrare con la paura di tornare ad essere profughi. Come i sette ragazzi che hanno partecipato agli altri mondiali rimasti a Roma con l’angoscia di vedere le loro famiglie colpite dai bombardamenti. Malgrado questa situazione difficile il presidente Mahmud Abbas e il primo ministro Ismail Annyeh stavano conducendo negoziati per trovare un accordo sul documento presentato dai prigionieri politici palestinesi, dai leader di Fatah di Hamas e della Jihad islamica. L’accordo è stato trovato, un accordo che risponde anche alle richieste dell’Unione europea di riconoscere, nel definire lo stato palestinese nei confini del ’67, lo stato di Israele, da parte della leadership di Hamas lo Stato israeliano e di cessare le azioni militari e di riconoscere gli accordi firmati dall’Olp.
Nel momento in cui questo accordo storico che prevede anche la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, veniva raggiunto, Israele ha accentuato la propria azione militare. La comunità internazionale è responsabile della mancata soluzione del conflitto palestinese-israeliano. Non ha mai dato forza a quelle voci che in Israele denunciano la politica di occupazione militare e di colonizzazione della Cisgiordania e Gaza responsabile della violenza e che insieme ai palestinesi sostengono che l’occupazione militare uccide tutte e tutti. Ripristinare il diritto e la legalità internazionale con equa vicinanza come dice il ministro D’Alema, ma riconoscendo la differenza tra un paese occupante e un paese occupato. Salviamo la Palestina, salviamo Israele.
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Liberazione, Venerdì 7 luglio 2006 pag. 1
Gaza come una zona di guerra Missione urgente dell’Onu Diciotto morti in una sola giornata*
Sono diciotto morti in una sola giornata in Palestina, un bilancio pesante, da Iraq, da Afghanistan. Da guerra insomma. Diciassette sono palestinesi. Uno è un soldato israeliano. La maggior parte dei morti, compreso il soldato in divisa, sono stati alla periferia del villaggio palestinese di Beit Lahiya, non distante da dove l’esercito israeliano vuole spingere i suoi cavalli di frisia per creare una zona "cuscinetto" su modello libanese, per tener distanti i razzi Qassam, ora sperimentati a più lunga gittata. Beit Lahiya è uno dei centri abitati più vicini alla nuova "fascia di sicurezza" e la resistenza all’avanzata dei carri armati ha coinvolto non solo i miliziani, ma anche vecchi e bambini, come dimostra anche il tragico bilancio di sangue documentato dai foto reporter delle grandi agenzie internazionali. «La maggior parte delle vittime sono civili», ha affermato il dottore Mohammed Sultan, responsabile delle urgenze all’ospedale Kamal Radouane a Beit Lahya, precisando inoltre che sette feriti si trovano in condizioni gravi. Tra i feriti ci sono inoltre quattro bimbi con meno di 12 anni.
Due civili sono morti in un attacco aereo nei pressi di Khan Younis, nel sud di Gaza. Il soldato israeliano è stato ucciso da un cecchino ad Atatra, sempre nel nord di Gaza e altri due soldati sono rimasti feriti. I feriti si calcola che in totale siano 46 in 24 ore. Sempre nella zona nord della Striscia di Gaza, in notata ci sono stati violenti bombardamenti. L’esercito israeliano per altro è penetrato più profondamente da varie direzioni, anche da ovest e da sud. Il ministro della Difesa Amir Peretz ha proposto il ritiro delle truppe solo in cambio della liberazione del caporale Gilad Shalit, da due settimane nelle mani dei miliziani di Hamas e dei Comitati di resistenza popolare, un rapimento da cui Israele fa scaturire l’operazione militare vasta di rioccupazione dei Territori.
Ma è davvero questo il motivo dell’offensiva? Dopo la sua cattura sono stati bombardati uffici del governo, centrali elettriche, la Striscia di Gaza è stata strangolata da un assedio che ha fatto precipitare la popolazione civile nella fame, gli ospedali sono allo stremo, senza approvvigionamenti, bombardati anch’essi, senza energia e medicinali.
Giovedì, si è dunque riunito in sessione urgente, il nuovo Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani a Ginevra e ha deciso l’invio di una missione di «verifica dei fatti» nei Territori palestinesi.
Il nuovo organismo sui diritti umani, che raggruppa 47 paesi membri, ha votato la missione urgente a maggioranza su proposta dell’Organizzazione della Conferenza islamica ( 29 sì, 11 no, 5 astensioni e 2 assenti). La risoluzione incarica il relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, il sudafricano John Dugard, di guidare l’ispezione e di riferire sulla situazione nella striscia di Gaza. Per ora non è stata annunciata una data, nè un itinerario. Il testo di due pagine esprime «profonda preoccupazione» per le violazioni dei diritti fondamentali del popolo palestinese ed esorta Israele a porre fine alle operazioni militari nella striscia di Gaza decise dopo il rapimento del soldato israeliano Ghilad Shalit da parte di miliziani palestinesi. Israele deve inoltre «liberare immediatamente i ministri, i membri del Consiglio legislativo palestinese e gli altri civili palestinesi arrestati». La risoluzione chiede infine a «tutte le parti di rispettare il diritto umanitario e di astenersi dal commettere atti di violenza contro i civili».
Invano la Svizzera ha presentato una proposta di modifica con un riferimento anche ai miliziani palestinesi, cui si chiedeva di astenersi da attacchi contro i civili. I Paesi dell’Ue membri del Consiglio, tra cui anche Germania, Francia e Regno Unito hanno votato contro. Hanno invece votato in favore della risoluzione, tra gli altri, Russia, Cina ed India. Stati Uniti e Israele, non membri del Consiglio, non hanno potuto votare ma hanno preso la parola per esprimersi contro la risoluzione.
In termini morali la condotta di Israele è «indifendible» e l’arresto dei ministri palestinesi del partito Hamas sembra costituire una presa d’ostaggi, ha detto il relatore John Dugard. È la prima volta che il Consiglio dell’Onu sui diritti umani, recentemente subentrato all’omonima e discreditata Commissione, si riunisce in sessione speciale.
In serata il ministro dell’Interno palestinese, Said Siam di Hamas, ha ordinato alle forze di polizia e agli agenti dei diversi servizi di sicurezza dell’ Autorità palestinese di respingere l’ attacco dell’ esercito israeliano nella striscia di Gaza. Il portavoce del ministero, Abu Hilal, ha detto che è stato dato l’ ordine alla polizia e ai servizi di sicurezza palestinesi di aprire il fuoco sui soldati israeliani dentro la Striscia.
* www.unita.it, Pubblicato il 06.07.06
Parla lo scrittore Edgar Keret: «La reazione di questi giorni era inevitabile, ma noi dobbiamo rimediare agli errori del passato»
«Israele, esci dal vicolo cieco»
«Fu sbagliato occupare i territori, e più ancora non essersene assunti la responsabilità. Ma dal ritiro da Gaza in poi, i palestinesi hanno attaccato continuamente Spero che Hamas cambi strategia Intanto, tra i giovani c’è sfiducia»
Da Tel Aviv Elisabetta Galeffi (Avvenire, 05.07.2006)
Coltivare l’umorismo, l’unica e l’ultima chance per sopravvivere alla dura realtà di Israele. Un’esigenza emersa ancora più forte adesso, dopo la vittoria di Hamas e con il riaccendersi della lotta feroce tra israeliani e palestinesi a seguito del rapimento di un caporale israeliano, Ghiliad Shalid. Edgar Keret, scrittore israeliano trentanovenne, ha scoperto il potere salvifico dell’umorismo dai giorni del suo servizio militare obbligatorio. Ironia e scrittura sono stati per lui, fin da allora, la pozione magica per riuscire a fuggire la tensione, la violenza, la guerra infinita, la depressione. Il suo stile è una novità assoluta nel panorama letterario israeliano. Nessun richiamo al tragico passato, ma una trascrizione degli stati d’animo dei giovani, soprattutto di quelli della sua città, Tel Aviv. Con protagonisti anti-eroi, come il gruppo di giovani di Pizzeria kamikaze. Keret adesso sta lavorando ad un film per la televisione israeliana, Meduse, storie di ragazze qualunque sulla spiaggia di Tel Aviv. L’anno scorso ha pubblicato, anche per le edizioni italiane E/o, i racconti Gaza Blues, scritti a quattro mani con il palestinese Samir el-Yousef. Scrittore «telaviviano», l’ha definito Yoran Kamuk connotandolo come il figlio di una cultura indipendente, lontana da quella di Gerusalemme. Keret è lo scrittore più amato dai giovani israeliani, e la sua fama in patria è paragonabile a quella di mostri sacri come Amos Oz o Abraham Yehoshua.
Perché si è così diversi a Tel Aviv?
«Si è meno estremisti che a Gerusalemme, e non perché non viviamo vicino ai Territori, ma perché non ci sono ghetti a Tel Aviv. I quartieri non sono divisi per gruppi religiosi o provenienza etnica come a Gerusalemme, qui tutti vivono insieme e gruppi diversi sono perfettamente integrati fra di loro. Tel Aviv non pensa al passato».
Cosa pensano i giovani israeliani della nuova «escalation» di violenza tra israeliani e palestinesi a Gaza e cosa sperano?
«Non sperano in n ulla e non ci pensano, perché preferiscono occuparsi di altre cose. Non parlano di pace. La politica non interessa più, non c’è nessun ottimismo, è meglio impegnarsi nel proprio lavoro, nella situazione sociale, oppure viaggiare e fuggire da questo Paese, anche solo con la testa. Io non sono d’accordo: vivere in questo modo è una vigliaccheria».
Cosa vede nel futuro di Israele ora che Hamas è alla guida del governo palestinese?
«Hamas dovrà prendere atto della realtà, ovvero che non ha né le armi, né la capacità militare degli israeliani. In uno scontro frontale, come quello di questi giorni, rischia solo di soccombere. Questa almeno è la mia speranza. Se Hamas non vuole il disastro della sua gente, non ha altra scelta. All’opposizione poteva prendere decisioni ideologiche, ma come partito di governo deve capire che se non decide di proporsi come un partner credibile agli israeliani, con cui poter negoziare, farà solo il gioco della destra israeliana». È d’accordo con l’invasione israeliana di Gaza, con il bombardamento della casa del primo ministro Hanye e con tutta l’operazione che sta conducendo in queste ore l’esercito israeliano sulla Striscia? «Io avrei preferito che gli israeliani non fossero stati costretti ad una tale reazione. Ma è stato del tutto impossibile evitare la decisione di intervenire. Sono nove mesi - dal ritiro israeliano da Gaza - che ogni giorno i palestinesi lanciano missili Qassam, colpendo prima accampamenti israeliani, e adesso anche la città di Ashelon. Come potevamo non reagire, dopo che si sono spinti anche a rapire un nostro soldato all’interno del territorio di Israele? Io soffro, perché non c’è via di uscita».
Spera nell’appoggio degli Stati Uniti?
«No. Meglio che non si intromettano. Non sono mai stati obiettivi riguardo al nostro conflitto e schierandosi eccessivamente dalla parte israeliana hanno allontanato le possibilità di trovare un accordo con i palestinesi».
Quale è stato secondo lei il maggior errore degli israelia ni in questi anni?
«Occupare i territori palestinesi, e non essersi mai presi la responsabilità di averlo fatto. Ora è il momento di rimediare a questo errore».
Crede che i giovani palestinesi oggi siano più estremisti di quelli della sua generazione?
«Non sono più estremisti, sono lontani dalla realtà dei giovani israeliani. Si incontrano molto meno di prima a causa del "Muro" e della seconda Intifada . Quando io ero un ragazzo a Tel Aviv c’erano molti palestinesi, adesso non è così. Oggi, i ragazzi palestinesi conoscono soltanto, della società israeliana, soldati e coloni. Per loro, Israele è tutto qui».
Prodi: «La pace è due popoli due stati» *
Parola d’ordine «due popoli, due stati». Al settimo giorno di assedio della Striscia di Gaza da parte di Israele dopo il rapimento del soldato Shalit, Romano Prodi, intervenendo al congresso delle Comunità ebraiche italiane, ribadisce che l’unica via per la pace in Medio Oriente è quella della coesistenza: «La pace per noi è due popoli e due stati, l’uno accanto all’altro, in sicurezza ed in libertà. Questa è la posizione della comunità internazionale, dell’Europa e dell’Italia» ha sottolineato con forza il premier.
«Negli ultimi giorni in Medio Oriente c’è tensione, preoccupazione - ha detto il presidente del consiglio rivolto ai delegati delle comunità ebraiche - so che molti di voi e delle vostre famiglie hanno una dimensione concreta di timore e preoccupazione per parenti ed amici». Da qui l’impegno «fermo e sereno» dell’Italia per «contribuire all’indispensabile e così lontana pace in Medio Oriente».
Per la prima volta al quinti summit dell’Unione delle comunità ebraiche (che si chiude martedì) partecipa anche il segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano. «L’Italia abbia e svolga un ruolo in Medio Oriente. Questo sforzo deve partire dall’inseguimento tenace dell’obiettivo di avere due popoli e due Stati - ha dichiarato a margine dei lavori del congresso - Questa è la nostra determinazione perché ha diritto il popolo di Israele a vivere in sicurezza nel suo Stato, così come ha diritto anche il popolo palestinese che da tanto tempo insegue il proprio Stato».
* www.unita.it, Pubblicato il 03.07.06
Blindati israeliani sono penetrati stamane nel Nord della Striscia di Gaza. Bombardati nuovamente uffici amministrativi palestinesi Ultimatum palestinese agli israeliani Prigionieri in cambio del caporale Shalit*
GAZA - Dopo la sesta notte consecutiva di attacchi aerei israeliani, e nonostante un folto gruppo di carri armati sia penetrato nel Nord della Striscia di Gaza, il gruppo di militanti palestinesi che ha rapito il caporale israeliano Gilad Shalit ha lanciato un ultimatum, dando tempo al governo israeliano fino alle 3 GMT (le 5 del mattino di domani, ora italiana) per il rilascio dei prigionieri palestinesi da tempo richiesti. Shalit è stato rapito il 25 giugno.
"Diamo al nemico sionista fino alle 6 di domani mattina, martedì, 4 luglio - si legge nel comuniato del gruppo dei rapitori - altrimenti il nemico avrà la piena responsabilità delle future conseguenze". Il gruppo militante palestinese ha chiesto la liebrazione dapprima solo dei giovani e delle donne detenute nelle carceri israeliani, e successivamente di altri mille prigionieri. Il governo israeliano ha sempre replicato che mai si sarebbe piegato al ricatto.
Nella notte un elicottero ha sparato un missile contro uffici amministrativi a Gaza, utilizzati come luogo di riunione sia da militanti delle ’Brigate Martiri di Al Aqsa’, fazione armata riconducibile a Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, sia dai radicali di Hamas.
In questo attacco è stato ferito un palestinese, mentre altri tre sono rimasti feriti da schegge di proietti sparati dall’artiglieria israeliana sulla cittadina di Beit Lahyia, nel nord della Striscia. Il terzo obiettivo è stato un deposito di armi nella stessa zona.
Carri armati israeliani stamani sono stati visti entrare nel Nord della striscia di Gaza. Fonti militari israeliane assicurano però che non è in preparazione alcun attacco, ma si tratta solo di un’operazione di sicurezza: "Un numero limitato di militari è entrato nel nord della Striscia di Gaza per un’operazione di bonifica delle mine e delle gallerie" scavate dai militanti per condurre attacchi in territorio israeliano, ha riferito una fonte militare.
Ma tra i palestinesi è forte il timore che l’esercito prepari un intervento su vasta scala, tanto più che ieri il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, aveva ordinato ai comandi militari di ricorrere a tutta la forza necessaria per ottenere la liberazione del giovane caporale Gilad Shalit. (3 luglio 2006)
www.repubblica.it, 03.07.2006
"Pace e giustizia in Iraq e Terra Santa" L’appello del Papa all’Angelus *
CITTA’ DEL VATICANO - Guerra, religione e famiglia. Sono questi i temi affrontati da Benedetto XVI che segue "con crescente preoccupazione gli avvenimenti in Iraq e Terra Santa. Di fronte, da una parte, alla cieca violenza che fa stragi atroci e, dall’altra, alla minaccia dell’aggravamento della crisi fattasi da qualche giorno ancor più drammatica c’è bisogno di giustizia, di serio e credibile impegno di pace: che purtroppo non si vedono". Sono le parole del Papa pronunciate dopo la preghiera dell’Angelus . "Per questo - ha sottolineato Benedetto XVI rivolgendosi ai fedeli presenti in piazza San Pietro - "invito tutti a unirsi in una preghiera fiduciosa e perseverante: il Signore illumini i cuori e nessuno si sottragga al dovere di costruire una convivenza pacifica, nel riconoscimento che ogni uomo, a qualsiasi popolo appartenga, è fratello".
Benedetto XVI ha inoltre voluto far giungere al patriarca di Mosca Alessio II un suo messaggio di saluto. Per questo dopo la preghiera dell’Angelus si è rivolto direttamente al capo degli ortodossi russi per assicurare le sue preghiere e augurare successo al summit dei leader religiosi, organizzato dal Consiglio Interreligioso della Russia. "Su invito del Patriarca di Mosca - ha spiegato ai fedeli in piazza San Pietro - la Chiesa Cattolica vi prende parte con una propria Delegazione". Per Papa Ratzinger, "la significativa riunione di tanti esponenti delle religioni del mondo sta ad indicare il comune desiderio di promuovere il dialogo fra le civiltà e la ricerca di un ordine mondiale più giusto e pacifico. Auspico - ha scandito - che, grazie al sincero impegno di tutti, si possano trovare ambiti di effettiva collaborazione, nel rispetto e nella comprensione reciproca, per far fronte alle sfide attuali. Per i cristiani - ha concluso il Papa - si tratta di imparare a conoscersi sempre più profondamente e a stimarsi a vicenda, alla luce della dignità dell’uomo e del suo eterno destino".
Un passaggio il Papa lo ha anche dedicato alla famiglia con il motto "Famiglia vivi e trasmetti la fede", scelto da Benedetto XVI - per ricordare l’ Incontro mondiale delle famiglie che si sta svolgendo a Valencia (si conclude il 9 lulgio) e al quale prenderà parte anche il Pontefice a partire dall’8 luglio. "In tante comunità secolarizzate - ha detto il Papa - la prima urgenza è rinnovare la fede negli adulti" affinchè la possano trasmettere alle nuove generazioni. "Le famiglie - ha aggiunto il Pontefice - siano autentiche comunità di amore e di vita nelle quali la fiamma della fede si tramandi di generazione in generazione". (2 luglio 2006)
* WWW.REPUBBLICA.IT, 02.07.2006
Israele ha diritto alla propria sicurezza. Quando una organizzazione terrorista come Hamas va al governo e lancia attacchi militari contro Israele, questo stato ha il diritto di difendere al propria sicurezza. Il continuo lancio di missili khassam, il rapimento e l’uccisione del colono, l’attacco al blindato con la morte di 2 militari e il rapimento di un terzo legittimano Israele a difendere la vita dei propri cittadini.
Chi sta dimostrando di non voler la pace sono i palestinesi che non trovano altro di meglio da fare che atti terroristici. Israele ha dimostrato la propria buona volontà sgomberando Gaza. A quel gesto di pace Hamas e i palestinesi hanno risposto, ancora una volta, col terrorismo. Ora Israele ha il diritto di rioccuparla di fronte al fatto che da quel territorio provengono attacchi terroristici. Israele ha il diritto di arrestare i vertici politici e militari di una organizzazione terrorista come Hamas. I palestinesi devono sapere che sono causa del loro stesso male affidandosi a una leadership terrorista come Hamas
In Israele sono detenuti 8.000 terroristi di Hamas, non donne e bambini, come la Rossanda vorrebbe far credere. Provi la Rossanda a vedere l’effetto che fa un kamikaze che si fa esplodere nell’autobus in cui lei sta viaggiando. Voglio vedere se ha il coraggio di far liberare quelli che hanno mandato quel terrorista a farsi scoppiare.
Perché questo giornale telematico non pubblica articoli sul terrorismo palestinese? Apre gli occhi solo per condannare chi si difende dalla violenza terroristica? E non si interroga sul perché Hamas non vuole la pace?
Caro Ulisse non ti smentire .... e non fare il ciclope: la situazione non è semplice, e se ci si ferma alla cronaca non si comprende molto. La richiesta di "Fermate Israele" è di una persona che pensa con la propria testa e con il proprio cuore, ed è amica di Israele .... e proprio per questo è capace di criticarlo con tanta forza e coraggio!!! Da parte mia posso solo dire: Onore a Lei !!!
M. cordiali saluti, Federico La Sala
P.S.
Se hai voglia e tempo di conoscerne un po’ meglio il pensiero e la storia leggi il suo ultimo libro:
Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi.
Tra il 1° maggio e il 14 giugno, gli Israeliani hanno ucciso 78 Palestinesi. Nello stesso periodo nessun Israeliano è stato ucciso per mano palestinese.
Mentre l’Occidente "civilizzato" continua a chiedere ad Hamas di rinunciare alla violenza, Israele - che la violenza la utilizza nei Territori occupati come pratica quotidiana - può continuare indisturbato a porre in essere i suoi assassinii e i suoi crimini di guerra senza ormai incontrare più alcun ostacolo politico o morale, interno o internazionale, in un crescendo impressionante che, nel giro di una decina di giorni, ha visto le belve assassine di Tsahal scatenarsi e provocare un vero e proprio bagno di sangue.
Un resoconto di cronaca sommario delle valorose gesta israeliane può iniziare da Sabato 3 giugno quando, verso le 7 della sera, l’esercito israeliano ha condotto l’ennesimo raid nel West uccidendo il 60enne Fakhri Mustafa al ’Aarda, un poveraccio che certamente non era sceso in strada a tirare pietre ai soldati.
Lunedì, 5 giugno, l’aviazione israeliana ha eseguito un nuovo assassinio "mirato" nella Striscia, sparando due missili contro un’autovettura che transitava sulla Salah al-Din road, a est di Jabalya, con a bordo quattro membri dei Comitati di Resistenza Popolare; due militanti, il 26enne ’Emad Mohammed ’Asaliya ed il 28enne Majdi Hammad, sono rimasti uccisi sul colpo e gli altri due sono rimasti feriti, al pari di due civili che si trovavano nei pressi.
Mercoledì 7 giugno, intorno alle 21:00, tre Palestinesi sono entrati nella cd. "dead zone", la striscia di terra immediatamente adiacente alla barriera di separazione tra Gaza e il territorio israeliano, nel tentativo di entrare illegalmente in Israele, ma sono stati subito fatti oggetto di colpi di fucile e cannonate dei tank provenienti dalle postazioni di Tsahal.
I tre poveracci, vistisi scoperti, hanno tentato di scappare, cercando rifugio in un’area adiacente ad una postazione tenuta dagli uomini della sicurezza palestinese, ma gli Israeliani non si sono lasciati commuovere ed hanno continuato il cannoneggiamento.
Con il risultato che i tre Palestinesi non hanno avuto scampo e i loro corpi sono stati devastati dalle cannonate israeliane, ma che è rimasto ucciso anche un membro delle forze di sicurezza palestinesi, mentre un suo collega è rimasto gravemente ferito dalle schegge; in aggiunta, altri quattro civili che abitavano nella zona sono rimasti feriti nell’azione, e tra essi anche un bambino di 5 anni.
Giovedì 8 giugno, poco prima della mezzanotte, un ennesimo raid "mirato" dell’aviazione israeliana nei dintorni di Rafah ha assassinato il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Jamal Abu Samhadana, insieme ad altri tre militanti dell’organizzazione, mentre fonti ospedaliere parlano di un numero di feriti almeno pari a dieci.
Venerdì 9 giugno, intorno alle 15:00, l’aviazione israeliana ha tentato un nuovo assassinio "mirato", in una zona a est di Beit Hanoun, ai danni di un gruppo di attivisti dei Comitati di Resistenza Popolare; il missile lanciato dall’aereo israeliano ha però mancato il bersaglio, riuscendo soltanto a ferire uno dei militanti, subito ricoverato all’ospedale El-Awda di Jabalya.
Qualche minuto più tardi, tre dei suoi parenti (tra cui due fratelli) si sono recati in ospedale per sincerarsi delle condizioni del ferito ma, sulla via del ritorno, l’auto sulla quale viaggiavano è stata colpita in pieno da un altro missile aria-terra: hanno così trovato la morte il 41enne Khaled El-Za’anin e i due fratelli Basil e Ahmed El-Za’anin, rispettivamente di 26 e 22 anni.
In un separato raid aereo, qualche ora più tardi, tre militanti di Hamas sono stati lievemente feriti e, verso sera, l’aviazione israeliana ha ricominciato a sorvolare i cieli di Gaza, attuando l’odiosa pratica delle cd. "sonic bombs", le ripetute rotture del muro del suono a bassa quota, che creano terrore ed ansia nella popolazione della Striscia, soprattutto nei bambini.
Ma l’azione israeliana più atroce e disumana era già accaduta intorno alle 16:40, quando un proiettile di un obice israeliano da 155 mm. è stato sparato contro la spiaggia di Sudanyya - affollata come ogni venerdì dai Palestinesi in cerca di un po’ di fresco e di riposo - esplodendo proprio in mezzo alla gente e facendo strage dei poveri e ignari bagnanti.
Sette i morti, tutti appartenenti alla stessa famiglia: Ali Issa Ghalya, 49 anni, la moglie Ra’eesa, 35 anni, i loro figli Haitham, 1 anno, Hanadi, 2 anni, Sabrin, 4 anni, Ilham, 15 anni, e Alia, 17 anni; 32 i feriti, e tra loro 13 bambini, alcuni in condizioni gravissime.
Chi ha avuto la fortuna (o la sventura, se volete) di poter guardare i filmati e le foto di questo crimine orrendo e bestiale non potrà mai dimenticare le scene di strazio, di disperazione, di morte: la bambina che piange e si dispera accanto al corpo del proprio padre riverso sulla sabbia, Ra’eesa Ghalya e uno dei suoi piccoli morti uno accanto all’altra, un bambino ferito che grida per il dolore e il terrore, un Palestinese che mostra un tovaglia zuppa di sangue, una tovaglia sulla quale, qualche attimo prima, della povera gente stava allegramente facendo un picnic.
Un crimine di guerra come quello di Sudanyya, di tutta evidenza, è un po’ troppo anche per gli israeliani, che pure ci hanno abituato a "prodezze" di questo genere, e dunque l’esercito israeliano ha condotto un’accurata indagine sull’accaduto, conclusa a tempo di record escludendo ogni responsabilità di Tsahal sull’accaduto!
A parte ogni considerazione sulla credibilità di una "indagine" in cui gli assassini investigano sulla strage da loro stessi perpetrata, un accurato report di Human Rights Watch ha smontato pezzo per pezzo le conclusioni del rapporto predisposto dall’esercito israeliano, conclusioni che persino il segretario Onu Kofi Annan ha definito "strane" .
Sabato 10 giugno, nei pressi di Beit Hanoun, un aereo israeliano ha lanciato un missile contro un gruppo di appartenenti alla Jihad islamica, uccidendo due militanti e ferendone altri tre; in aggiunta, anche quattro civili che si trovavano nei pressi sono rimasti feriti.
Martedì 13 giugno, a Gaza City, l’aviazione israeliana ha portato a termine l’ennesima esecuzione "mirata" - ovvero l’ennesimo orrendo crimine di guerra - uccidendo due militanti della Jihad islamica, ma anche dieci civili che si trovavano nei pressi, in un nuovo e, se possibile, ancor più bestiale crimine di quelli fin qui descritti, per le particolari modalità della sua esecuzione. E’ successo infatti che, intorno a mezzogiorno, un aereo israeliano ha lanciato un missile contro un’auto che trasportava due militanti della Jihad islamica lungo la Salah al-Din Street, all’interno del quartiere di al-Tuffah; l’esplosione del missile ha richiamato una gran folla in strada, compreso del personale medico di un vicino ospedale giunto per prestare soccorso, e solo allora, circa quattro minuti dopo, l’aereo israeliano ha lanciato un altro missile contro i Palestinesi accorsi, facendoli letteralmente a pezzi.
Hanno trovato così la morte dieci Palestinesi ignari e indifesi, tra cui due infermieri e due medici, un padre e i suoi due figli, mentre altri 32 civili sono rimasti feriti, dodici in maniera grave. Ashraf al-Mughrabi, 30 anni, allo scoppio del primo missile era corso davanti alla porta di casa cercando di calmare i suoi due figlioli, Hisham, di 14 anni, e Maher, di 8 anni; "non preoccupatevi" gridava, ma non ha fatto in tempo a dire altro: è morto tra le braccia di suo padre. Probabilmente l’esercito israeliano lancerà un’altra indagine sull’accaduto, peccato che non se ne concluda mai una con l’individuazione di qualche responsabile e la punizione del crimine: stiamo ancora aspettando, del resto, i risultati dell’indagine sulla strage di una intera famiglia avvenuta a Gaza City il 20 maggio scorso, sempre nel corso di una esecuzione "mirata" della IAF. Mercoledì 14 giugno, verso l’una del mattino, alcuni soldati israeliani, appostati al primo piano di una casa di civile abitazione a Jenin, hanno ucciso un militante delle Brigate al-Aqsa, il 24enne Mohammed al-Wahesh, uccidendolo sul colpo.
Il giovane era disarmato e stava camminando da solo nei pressi dell’ospedale Khalil Suleiman, ed è stato ammazzato a sangue freddo, a distanza di una settantina di metri e senza alcun avvertimento. Nella sola settimana compresa tra l’8 ed il 14 giugno, l’esercito israeliano ha condotto 7 esecuzioni "mirate" ed ha ucciso ben 28 Palestinesi, tra cui 21 civili disarmati ed estranei a qualsiasi organizzazione di resistenza: sette erano bambini piccoli; in aggiunta, nello stesso periodo, 76 Palestinesi sono rimasti feriti e, tra essi, venti bambini.
Tutto questo ha un nome ben preciso: crimine contro l’umanità. Eppure la risposta della comunità internazionale a questo bagno di sangue, e le reazioni della pubblica opinione, sono state straordinariamente flebili, se non assenti, tanto da far dire ad Abu Mazen - una volta tanto ne condividiamo le parole - che i Palestinesi sono stati abbandonati a sé stessi.
Quel che disturba di più nelle parole dei pochi che si sono degnati di intervenire al riguardo è il mettere sullo stesso piano le azioni dei Palestinesi e quelle degli Israeliani, se non addirittura il disarmante ribaltamento delle posizioni di vittima e carnefice tra le due parti, come quando - nel caso degli Usa - si afferma che "Israele ha il diritto di difendersi".
Così l’ipocrita Segretario Onu Kofi Annan, pur dichiarandosi "shoccato e rattristato" per la morte dei civili palestinesi, coglie l’occasione per chiedere la cessazione del lancio dei missili Qassam. Così il Santo Padre, anziché gridare con voce forte che gli atti di Israele sono dei crimini contro l’uomo e contro Dio, si limita a "sollecitare i responsabili di entrambi i popoli perché sia . mostrato il dovuto rispetto per la vita umana, specie quella dei civili inermi e dei bambini.".
Ora, è certo che nessuno Stato può accettare che si lancino dei razzi contro il proprio territorio, e non vi è dubbio che tale pratica sia contraria al diritto internazionale.
Ma è altrettanto certo che non è ammissibile mettere sullo stesso piano i 6.000 colpi di artiglieria sparati e gli 80 missili lanciati contro la Striscia di Gaza dalla fine del mese di marzo ad oggi con i circa 200 razzi artigianali Qassam lanciati dai Palestinesi, nello stesso periodo, contro il territorio israeliano. I Qassam sono dei razzi rudimentali ed imprecisi, composti da un miscuglio di zucchero e nitrato di potassio, e non è peregrino ricordare che non hanno fatto nemmeno una vittima nel corso del 2006. Di contro, secondo dati forniti da Human Rights Watch, il solo fuoco di artiglieria contro la Striscia di Gaza ha provocato la morte di 47 Palestinesi, tra cui 11 bambini e 5 donne, ed il ferimento di altri 192 civili: è questo che Israele (e gli Usa) intendono per "diritto di difendersi"?
E, lungi dal cercare di evitare ogni coinvolgimento di innocenti, l’Alto comando dell’esercito israeliano ha ordinato di ridurre la distanza di sicurezza tra gli obiettivi dei bombardamenti e le zone civili da 300 a 100 metri, rendendo così, al contrario, quasi inevitabile la morte e/o il ferimento di poveri innocenti, come è successo sulla spiaggia di Sudanyya.
E ciò vale a qualificare tali bombardamenti indiscriminati, per la loro intenzionalità e sistematicità, come dei veri e propri crimini contro l’umanità, per i quali la combriccola degli assassini - i vari Olmert, Peretz, Halutz e quanti altri - andrebbero condotti senza indugio davanti al Tribunale penale internazionale.
Ora, a parte che le esecuzioni "mirate" in sé sono contrarie al diritto umanitario - in quanto costituiscono una "execution without a trial" - è opportuno ricordare che, secondo i dati forniti da B’tselem, dall’inizio della seconda Intifada ad oggi sono stati ben 123 i civili palestinesi ignari e innocenti coinvolti loro malgrado in queste esecuzioni che, evidentemente, tanto "mirate" non sono. E, infine, dal 17 aprile in poi non si è verificato più alcun attentato kamikaze a danno di Israele, né nessun Israeliano è stato ucciso per mano palestinese mentre, solo nel periodo compreso tra il 1° maggio e il 14 giugno, gli Israeliani hanno ucciso ben 78 Palestinesi!
Che non si possa più aspettare lo mostrano i dati statistici secondo cui, dall’inizio della seconda Intifada ad oggi, Israele ha ucciso ben 3.950 Palestinesi (176 solo quest’anno, contro 15 morti israeliani.) e ne ha feriti ben 30.065 (740 nel 2006).
Di fronte a questo bagno di sangue palestinese c’è anche chi si preoccupa di segnalare con sdegno, come ha fatto Magdi Allam dalle colonne del Corsera, che su un sito islamico gestito dai Fratelli Musulmani compaia "lo stereotipo dell’ebreo carnefice con in testa la kippà, lo sguardo truce e il ghigno crudele, in mano un coltellaccio che gronda di sangue fino a formarne una pozza per terra". Ma certo, che diamine, ha ragione Magdi Allam a essere sdegnato, questa raffigurazione non è per nulla aderente alla realtà! E hanno ragione anche quelli di “Sinistra per Israele” a denunciare la simulazione di un check point israeliano, perché simularli quando funzionano così bene, si potrebbero importare in Italia contro i “comunisti antisemiti”!!!