Politica

AFGHANISTAN: CHE FARE? APPRENDERE DAGLI ERRORI E SVEGLIARSI ALLA RAGIONE. Le indicazioni di Barbara Spinelli

domenica 2 luglio 2006.
 
[...] La manifestazione del 29 maggio a Kabul, contro americani e occidentali, è il risultato di un conflitto che va ripensato. Una guerra così non conviene farla, contro il terrorismo, se si fa degradare il paese com’è avvenuto in Somalia: con i signori della guerra appoggiati da Washington e scacciati da islamisti moralizzatori. La scelta non è tra il cedimento di chi assecondò Hitler nel trattato di Monaco e la scelta di combatterlo a oltranza: è sui modi in cui può esser evitata una condotta che accentua il male, pretendendo di saperlo debellare[...]

DILEMMI A SINISTRA

Afghanistan, il fascino del dogma

di Barbara Spinelli (La Stampa, 02.07.2006)

Visto che sono passati quasi cinque anni da quando è cominciata l’offensiva in Afghanistan, e visto che il centro sinistra ne sta discutendo in Italia con particolare intensità - dividendosi tra chi invoca continuità e chi discontinuità - conviene forse guardare ai fatti e non solo ai principi, a quel che sta effettivamente accadendo in questa guerra e non solo all’idea che sinistra o destra, politici o giornalisti, si fanno della sua opportunità. C’è un motto della Bbc che aiuta a pensare più di tanti manuali o dibattiti: put the news first, metti al primo posto le notizie.

Anche politici e giornalisti dovrebbero fare così: metti al primo posto i fatti, e solo dopo vedi se essi s’adattano al dover essere dell’idea. È questo che manca, nelle controversie italiane ed euro-americane. L’ideologia sommerge tutto e tutti, a destra e sinistra. I fatti sbiadiscono sino a svanire. Ognuno s’aggrappa al suo dogma e ne ha cura come fosse l’unica pianticella che conti. La pianticella che conta dovrebbe essere invece la realtà, con le domande che essa suscita man mano che l’azione la plasma, la trasforma.

Perché combattiamo, e cosa abbiamo ottenuto in cinque anni? Con quali fini fu scatenata l’offensiva e con quali fini e mezzi la si prosegue, a partire dal momento in cui i talebani sconfitti fanno in massa ritorno, riconquistando i cuori e le menti della povera gente non solo con la violenza? Abbiamo sbagliato nei fini, nei mezzi, in ambedue? Gli italiani sono in Afghanistan per contare in Iran, dicono alcuni, ma l’astuta mossa è davvero astuta? Non rispondere a queste domande è dogmatismo, dunque ortodossia che non ammette i dubbi, non apprende dagli errori, non incorpora i fatti, le notizie scomode, il terreno su cui la storia presente si fa.

Aggirati, i dubbi vengono chiamati a loro volta dogmi, permettendo al dogmatico di dire: l’ideologia è dell’altro! Come sempre accade, l’alternativa diventa a questo punto binaria: o sei incondizionatamente per la guerra o sei incondizionatamente pacifista. O appartieni a una sinistra riformista che accetta l’Occidente e l’America, o sei prigioniero di atavici massimalismi. L’ortodossia dogmatica è per la verità assai ben distribuita, essendo presente in ambedue i campi: in chi vuole a tutti i costi la continuità dell’operazione e in chi vuole la discontinuità. Vediamo il dogmatismo dei primi: essi difendono una guerra che certamente non fu illegale, avendo ricevuto l’approvazione Onu prima che scoppiasse anziché dopo; che fu intrapresa contro un pericolo tangibile (i talebani legati a Bin Laden), e non fittizio come le armi di distruzione di massa in Iraq.

L’operazione in Afghanistan vien tuttavia tradotta in sostanza spirituale, in ipostasi: anche se attraversa difficoltà, criticarla e domandarsi se valga la pena equivale a un tradimento, a una fuga infame dalle responsabilità. Anche questo è tipico del dogma, mai fallibile: nel dogma la storia non scorre ma fissa una volta per sempre le ragioni come i torti, e l’etica della convinzione inghiotte l’etica della responsabilità. Quel che distingue l’etica responsabile è il riesame delle convinzioni astratte e proprio tale distinzione non c’è più, impedendo di vedere come una guerra che nel 2001 voleva stabilizzare e democratizzare sia degenerata nel 2006 in guerra che solo dogmaticamente si giustifica, e che ha generato un potere centrale, a Kabul, sempre più impotente e instabile.

L’ortodossia dogmatica che affligge parte della sinistra è apparentemente più attenta ai fatti ma esibisce una certezza non meno ideologica: il ripudio d’ogni guerra, condotta nell’Onu, nella Nato o con gli Stati Uniti. Il dogma è specialmente evidente nel modo in cui questa sinistra interpreta l’articolo 11 della Costituzione: un articolo profetico, che Luigi Einaudi impose dopo i disastri dei nazionalismi europei, e che non obbliga solo al ripudio della guerra, «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Obbliga ad agire se necessario entro istituzioni multilaterali o sovranazionali (Onu, Nato, futura Europa unita): consentendo «a limitazioni di sovranità» e partecipando a iniziative che queste istituzioni riterranno «necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni».

Eventualmente anche iniziative militari, aventi come obiettivo sia la pace sia la giustizia. Consentire alle necessarie limitazioni di sovranità significa rifiutare a se stessi il ritiro unilaterale, quando si ripudia una guerra condivisa con istituzioni multilaterali o sovranazionali. E significa che la loro strategia, i governi devono attuarla dentro queste istituzioni, magari operando perché nasca e si rafforzi un’Unione politica in Europa. È quello che la sinistra radicale non fa, leggendo solo la prima metà dell’articolo 11, e con ciò non fa nemmeno politica. Non si tratta di esser dogmaticamente fedeli agli obblighi presi tra Europei e dentro la Nato, però è in quelle sedi che si negozia, perdendo o vincendo le proprie battaglie. Ma questo non significa che i dilemmi denunciati da chi s’oppone alla guerra non esistano. Se non si vuol esser dogmatici, dobbiamo guardarli in faccia, mettere alla prova certezze, convinzioni. La guerra iniziata a Kabul nel 2001 non è la stessa che si combatte oggi, l’avallo Onu non è dato per sempre.

L’intera strategia va riesaminata alla luce di quel che sta accadendo sul terreno, dei successi o insuccessi conseguiti. Ogni dubbio va accolto, se serve a migliorare l’agire. Se Giordano o Diliberto dicono che la guerra ha prodotto caos in Afghanistan, il mio problema sostanziale non è Giordano o Diliberto ma il caos. Il caos in effetti c’è, e questo significa che la guerra è in bilico. Lo dicono ormai troppe testimonianze, resoconti. Innanzitutto i talebani non sono stati sconfitti, ma stanno riaccumulando forze, ritrovando alleati in Pakistan, riconquistando intere regioni non solo con la forza delle armi e la violenza sui costumi, ma capitalizzando lo sconforto delle popolazioni e il loro senso d’abbandono. Gran parte del Sud è governato da essi, ed è in guerra con truppe straniere e governative. È un ritorno dovuto a errori occidentali vistosi, da cui ci si ostina a non imparare.

L’errore più spettacolare è stato quello di considerare facile questa guerra, in una nazione dove mai gli interventi stranieri furono facili nei due scorsi secoli. È stata ritenuta così facile che prestissimo, prima ancora d’ottenere qualche risultato serio, l’amministrazione Usa ha aperto un secondo fronte bellico, in Iraq, che ha divorato forze, soldi, soldati, cura, fiducia. Ancor prima che l’Iraq divenisse la priorità, il generale Tommy Franks, del comando centrale americano, dichiarava, nell’aprile 2002, che gli Stati Uniti «non erano più impegnati in una guerra in Afghanistan». Era una menzogna allora, e le menzogne si susseguono oggi. La guerra non solo non finì nel 2002, ma oggi rischia la catastrofe. Rischia tanto più in quanto non c’è vero chiarimento tra Europei e Americani, sui rispettivi compiti e le trappole del conflitto. Le operazioni Nato in cui sono ingaggiati gli europei (Isaf) non sono tutte militari, molti Stati partecipano solo con la ricostruzione, e numerosissime sono le clausole che impediscono ai soldati Nato di agguerrirsi.

Senza impedimenti è invece l’operazione Usa Enduring Freedom, che guerreggia contro insorti e talebani nel Sud o alle frontiere col Pakistan. Ma il confine fra operazione Usa e operazione Nato tende a svanire, la Nato è invitata da Bush a svolgere una parte del compito statunitense, e non si può escludere che essa venga usata da Washington per coprire un eventuale, prossimo disimpegno americano. Qui è il rischio: che l’eventuale passaggio di consegne avvenga senza che gli errori passati siano dibattuti tra Europa e Usa. Senza che siano analizzate e corrette le azioni che hanno disintegrato l’Afghanistan, a cominciare dall’eradicazione della produzione di oppio iniziata a marzo. L’eradicazione è stata applicata con ottusa brutalità e false promesse d’aiuto, dalle truppe anglo-americane, senza tener conto che in vaste zone, soprattutto a Sud, l’oppio permette ai contadini di sopravvivere.

È un punto su cui insiste il Senlis Council, un’associazione che si occupa di narcoterrorismo mondiale: nel rapporto del 6 giugno, è scritto che l’eradicazione, non offrendo alternative ai coltivatori di oppio e colpendo in prima linea i contadini poveri, ha dato forza inaudita a talebani e Al Qaeda, saldando terrorismo insurrezione e droga. Non meno oscuro è il capitolo ricostruzione: la stabilizzazione manca, e mancano sicurezza, elettricità, acqua (solo il 6 per cento degli afghani ha accesso all’elettricità). Il nation building è avvelenato da corruzione e disprezzo delle popolazioni. Un rapporto pubblicato il 2 maggio dalla studiosa afghano-americana Fariba Nawa per il Corpwatch, un’organizzazione che indaga sulle violazioni dei diritti dell’uomo e le frodi degli appalti, narra come enormi somme siano state versate a industrie spesso vicine all’amministrazione Bush (Ashbritt, Halliburton, DynCorp, Louis Berger, Blackwater) per costruire strade, ospedali, scuole, destinati a durare lo spazio di pochi giorni.

Presto le strade s’affossavano, i tetti cadevano, le fogne straripavano. Tutte queste cose hanno creato frustrazione e rabbia nelle popolazioni, e la guerra che si sta acutizzando - i morti afghani nel 2006 sono 800, gli uccisi stranieri sono 34, le vittime civili di bombardamenti Usa aumentano - lo conferma. La manifestazione del 29 maggio a Kabul, contro americani e occidentali, è il risultato di un conflitto che va ripensato. Una guerra così non conviene farla, contro il terrorismo, se si fa degradare il paese com’è avvenuto in Somalia: con i signori della guerra appoggiati da Washington e scacciati da islamisti moralizzatori. La scelta non è tra il cedimento di chi assecondò Hitler nel trattato di Monaco e la scelta di combatterlo a oltranza: è sui modi in cui può esser evitata una condotta che accentua il male, pretendendo di saperlo debellare.

Il lamento afghano che ricorre nei resoconti è sempre lo stesso: tante son state le parole non rispettate, che gli occidentali hanno proferito senza sentirsi in dovere di rispettarle. Troppe le promesse altisonanti, che non son state mantenute. Un giorno o l’altro converrà che su simili dilemmi si discuta, tra governi europei e poi tra europei e Casa Bianca. E se la discussione dovesse arenarsi, toccherà dire a voce alta quel che nel vecchio continente si sussurra: che «non si può combattere una guerra antiterrorista e creare al contempo uno stato debole» (dichiarazione anonima di un dirigente europeo a Pamela Constable, Washington Post, 26 giugno). È una via che la sinistra radicale in Italia potrebbe imboccare ma che potrebbe esser tentata anche da chi vuol proseguire le scelte strategiche passate non riposandosi nel dogma, ma svegliandosi alla ragione e all’apprendimento dagli errori.


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