"PARENTS’ CIRCLE", IL DOLORE SAPIENTE PER FORARE LA BARRIERA DEL CONFLITTO
di ENRICO PEYRETTI *
Anche oggi dobbiamo dire la stessa cosa che diceva Hannah Arendt, nel 1948 (1), cioe’ che l’unica strada percorribile per la soluzione del conflitto arabo-ebraico era fare appello "a quegli ebrei e a quegli arabi che sono attualmente isolati a causa della loro provata fede nella cooperazione arabo-ebraica, e chiedere loro di accordarsi per una tregua... Una simile tregua, o meglio un simile accordo preliminare - stipulato anche tra gruppi non accreditati - mostrerebbe agli ebrei e agli arabi che questo si puo’ fare".
Scrive Angela Dogliotti Marasso, studiosa e operatrice di educazione alla pace: "E’ ormai molto ampia anche la documentazione delle esperienze che dal basso cercano di infrangere i confini della diffidenza, dell’odio e della vendetta, impegnandosi per una pace sostenibile, fondata sul reciproco riconoscimento e su passi concreti di ricomposizione del conflitto e di riconciliazione, anche se il deteriorarsi della situazione negli ultimi tempi ha contribuito a rendere questo conflitto sempre piu’ drammatico e tale da interpellare profondamente la comunita’ internazionale e le sue istituzioni" (2).
Sami Adwan palestinese e Dan Bar-On israeliano sono due ricercatori per la pace che collaborano tra loro da vari anni (hanno per questo ricevuto anche il premio Langer nel 2001) e hanno insieme elaborato una metodologia di lavoro per affrontare le ferite profonde provocate dai conflitti cosiddetti "intrattabili", attraverso il racconto di storie di vita fatte in gruppi misti, in particolari condizioni. Essi indicano nel lavoro di Trt (To Reflect and Trust), "working through", il faticoso processo di elaborazione di un trauma, processo che ha il suo cardine nell’attraversare il conflitto e nel saper gestire la sofferenza che accompagna il trauma subito. Perche’ sia possibile la riconciliazione e’ necessario infatti passare attraverso il dolore e il dramma degli eventi passati e i gruppi di incontro tra persone appartenenti a parti avverse possono essere uno strumento per raggiungere questo scopo, insieme ad atti simbolici di pubblico riconoscimento e riconciliazione (3).
Il gruppo Parents’ Circle e’ una eminente esperienza di questo tipo, all’interno di un conflitto che studiosi come Galtung e Patfoort definirebbero appunto tecnicamente "intrattabile". Le famiglie di questo gruppo sono accomunate, attraversando la barriera del conflitto, dal diritto alla pace e alla vita che viene in loro rafforzato dal dolore della perdita di un familiare. Queste famiglie hanno preso coscienza della loro condizione oggettivamente uguale, trasformandola in atteggiamento attivo di ascolto, dialogo, iniziativa sul conflitto stesso che le ha coinvolte, colpite, ferite. Esse elaborano, trasformano, "trattano" un conflitto che si presenta inizialmente come "intrattabile" per il grado di tensione e per l’opposizione delle memorie. Queste famiglie non accettano e non si rassegnano alla "intrattabilita’", alla insolubilita’ del conflitto.
L’esperienza di Parents’ Circle richiama Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese, esempio tra i piu’ alti di "resistenza esistenziale", della quale e’ stato detto: "Nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita a trasformare cosi’ il dolore in forza, il comprensibile odio in indignazione e persino in compassione" (4). Gli studiosi della trasformazione costruttiva del conflitto indicano l’importanza della "terza parte esterna" ai contendenti e del ruolo che questa puo’ svolgere. Queste famiglie israeliane e palestinesi sono una "terza parte interna" ai loro due popoli in conflitto politico. Il loro ruolo appare dunque di singolare significato simbolico e potenzialmente produttivo (5).
Jean-Marie Muller scrive: "Una mediazione puo’ essere avviata solo se l’uno e l’altro dei due avversari accettano di coinvolgersi volontariamente in questo processo di conciliazione... La mediazione non si preoccupa tanto di giudicare un fatto passato - cio’ che fa l’istituzione giudiziaria - quanto di basarsi su di esso per superarlo e permettere agli avversari di ieri di inventare un avvenire libero dal peso del loro passato... Il postulato piu’ importante su cui si fonda la mediazione e’ che la risoluzione di un conflitto deve essere soprattutto l’opera dei protagonisti stessi" (6).
Il decano dei peace researchers, Johan Galtung, nel capitolo "Interventi nel conflitto", entro la sua opera piu’ sistematica (7), afferma che, prima della trasformazione del conflitto dialogica, per opera della mediazione esterna, e’ necessaria una fase di trasformazione del conflitto autonoma, in cui le parti si rendono pronte in modo autonomo. Prima del dialogo esterno, nello spazio sociale, occorre il dialogo interno, nello spazio persona. Questa e’ la meditazione, premessa necessaria alla mediazione (8).
Nel caso di questa associazione di famiglie colpite da lutti inflitti dal conflitto violento, il primo mediatore, attivo nel dialogo interno, nella meditazione, e’ il dolore sapiente, intelligente, compassionevole, che ama la vita, che non si lascia irretire in spirali di morte. Non e’ positivo il dolore, ma e’ positiva la capacita’ personale e culturale di non farsi opprimere dal dolore al punto da venire assoggettati all’azione e ai disegni di chi lo infligge. E’ grandemente positivo saper trovare nel proprio dolore la capacita’ di capire il dolore dell’altro. E’ positiva la capacita’ di fare scaturire dal dolore il bisogno di vita, di gioia, di pace. Una simile reazione positiva e’ il vero onore reso alle vittime della violenza, che le riscatta dall’offesa. Queste risorse interiori, psicologiche e spirituali, sono autentici forti fondamentali fattori della strategia di pace. La violenza calcola di dividere e dominare infliggendo dolori personali, intimi, che dovrebbero esaurire interiormente i colpiti; la spiritualita’ costruttiva e pacifica rovescia questo calcolo nella solidarieta’ aperta e sociale, che attraversa i muri e fonda una unita’ superiore.
Per Pat Patfoort c’e’ violenza, ingiustizia, quando tra due soggetti e’ imposta una relazione "M-m", Maggiore-minore. Questa situazione innesca dinamiche violente, in piu’ direzioni, a meno che non venga attivamente trasformata in una relazione "E-E", di equi-valenza, di affermazione dell’uguale valore dei soggetti (9). Il dolore e l’offesa vorrebbero imporre una condizione insuperabile di minorita’ e dipendenza, di deprivazione interiore fino alla soggezione. La coscienza personale della propria dignita’ mai distrutta, sostanzialmente inviolabile dall’offesa, e’ la tutela piu’ forte e profonda contro la diminuzione che la violenza tenta di infliggere. Nella esperienza forte e promettente di Parents’ Circle io penso di riconoscere queste profonde dinamiche di pace. Ogni cercatore di pace sente per queste famiglie una grande lieta sperante riconoscenza.
Note
1. Hannah Arendt, Salvare la patria ebraica. C’e’ ancora tempo, in Eadem, Ebraismo e modernita’, Milano Unicopli, 1986, ristampato da Feltrinelli, Milano IV edizione 2001, p. 170. La citazione e’ di Angela Dogliotti Marasso nell’articolo "Percorsi di pace in Israele-Palestina: alcune esperienze e riflessioni", nel n. 5, Nonviolenza per Gerusalemme, giugno 2004, p. 175, della rivista scientifica "Quaderni Satyagraha, Il metodo nonviolento per trascendere i conflitti e costruire la pace", Edizioni Plus, Universita’ di Pisa.
2. Angela Dogliotti Marasso, articolo citato.
3. Cfr ancora l’articolo citato.
4. Nadia Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del Lager, Bruno Mondadori, Milano 1999, quarta di copertina.
5. Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 190-197. Una edizione ampiamente rivista e’ uscita presso lo stesso editore nel 2003 col titolo Conflitti e mediazione.
6. Jean-Marie Muller, Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995, pp. 189, 189-190, 190. La traduzione italiana e’ annunciata per l’ottobre 2004 presso le edizioni Plus dell’Universita’ di Pisa [e’ poi stata pubblicata come Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (a cura di Enrico Peyretti) - ndr].
7. Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia edizioni, Milano 2000, pp. 189-207; traduzione di Momi Zanda dall’opera originale Peace by Peaceful Means: Peace and Conflict, Development and Civilization, Sage Publications - Thousand Oaks, London - New Delhi 1996.
8. Joahn Galtung, op. cit., p. 196.
9. Pat Patfoort, Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2000. Mi avvalgo inoltre di appunti personali e di dattiloscritti che raccolgono lezioni e seminari della Patfoort.
* [il seguente testo di Enrico Peyretti venne preparato per la tavola rotonda indetta dal Centro interatenei di studi per la pace, nell’aula magna dell’Universita’ di Torino il 12 maggio 2004, per accogliere i rappresentanti israeliani e palestinesi del Parents’ Circle (l’associazione di genitori dei due popoli israeliano e palestinese, che hanno avuto familiari vittime della violenza nel conflitto Israelo-palestinese, e lavorano insieme per la pace e riconciliazione) in visita a Torino.
Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) (1935) e’ uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell’impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e’ ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell’Ipri (Italian Peace Research Institute); e’ membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita’ piemontesi, e dell’analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e’ membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste.
Tra le sue opere: (a cura di), Al di la’ del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall’albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e’ pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov’e’ la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita’. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e’ disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e’ in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu’ volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu’ ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e’ nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario]
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO, Numero 1365 del 23 luglio 2006
L’ESPERIENZA DI "PARENTS’ CIRCLE - FAMILIES FORUM"
I Parents’ Circle, oggi Families Forum, si definiscono "un gruppo di famiglie in lutto che sostengono la pace, la riconciliazione e la tolleranza".
Il fondatore, Yitzhak Frankenthal, e’ nato nel 1951 a Bnei Brak, Tel Aviv, in una famiglia ortodossa. Il 7 luglio 1994 il corpo di suo figlio Arik, 19 anni, venne rinvenuto in un villaggio vicino a Ramallah, crivellato di proiettili e ferite da accoltellamento. Arik, soldato dell’esercito israeliano ed ebreo ortodosso, stava andando a casa in congedo quando venne rapito e assassinato da alcuni membri di Hamas.
Arik aveva 19 anni. Stava tornando a casa dalla base militare, prese un taxi, dentro c’erano tre palestinesi, ma lui non li aveva riconosciuti perche’ erano vestiti da ebrei ortodossi e stavano ascoltando musica israeliana. Appena entrato in auto gli dissero che erano di Hamas, inizio’ una colluttazione, l’autista fu colpito alla gamba, ma Arik fu colpito alla testa e quella fu la sua fine.
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Quello stesso anno Frankenthal abbandono’ il lavoro e fondo’ i Parents’ Circle, di cui e’ stato presidente fino al 2004. Allora vivevo in un paesino non lontano dall’aeroporto Ben Gurion, un villaggio ortodosso. Iniziai a parlare coi miei amici circa la mia intenzione di iniziare a impegnarmi per una riconciliazione tra i due popoli. A un tratto mi ritrovai senza amici. Non riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una lettera inviata al primo ministro Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare a cercare una soluzione pacifica a questo conflitto. Rabin venne a trovarci a casa, diventammo amici.
In Israele la gente era sotto una forte pressione. Da un lato il governo di Yitzhak Rabin e Shimon Peres pareva fortemente impegnato nel processo di pace avviato a Oslo. Dall’altro tv e giornali sbattevano in prima pagina immagini di terrore, disperazione e morte. Tutti ricordavano le parole di Yitzhak Rabin alla Casa Bianca quello storico 13 settembre 1993, quando avvenne il primo incontro pubblico, aperto e ufficiale, con i leader palestinesi: "Permettetemi di dirvi, palestinesi: noi siamo destinati a vivere assieme, sulla stessa terra. Noi, soldati tornati dalla battaglia macchiati di sangue, che abbiamo visto parenti e amici uccisi sotto i nostri occhi, che abbiamo presenziato ai loro funerali senza poter guardare negli occhi i loro genitori, noi che veniamo da un paese dove i genitori seppelliscono i figli, che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi.
Noi oggi vi diciamo con parole chiare e a voce alta: basta sangue e lacrime. Basta". Non tutti pero’ condivisero le successive considerazioni di Rabin. "Non aneliamo alla vendetta. Non vi portiamo rancore. Noi, come voi, vogliamo solo poter costruire la nostra casa, piantare un albero, amare, vivere accanto a voi, in dignita’, con empatia, come esseri umani, come uomini liberi. Oggi stiamo dando una possibilita’ alla pace e vi ripetiamo: preghiamo assieme che venga presto il giorno in cui tutti diremo ora basta, addio alle armi".
L’Associazione per le vittime del terrorismo (Tva) era uno degli oppositori piu’ strenui al processo avviato da Rabin. Ogni qualvolta c’era un attentato, l’associazione era la’, all’entrata dell’ufficio del primo ministro, a esprimere la propria rabbia e disperazione con appelli alla vendetta e alla violenza contro i palestinesi. Anche il 7 luglio del 1994 erano la’. Il brutale assassinio di Arik, un giovane soldato con un profilo cosi’ affine a quello dei coloni, certamente incoraggio’ l’associazione ad alzare la propria voce. Tuttavia quel giorno qualcosa accadde, qualcosa di rivoluzionario. Il padre di Arik, anch’egli ebreo ortodosso, affronto’ il gruppo dicendo: "Voi non rappresentate ne’ me ne’ la mia famiglia. Il mio giudaismo non ha nulla a che fare con vendetta e odio".
Io sono un ebreo religioso, ortodosso, come si dice. Ma per me giudaismo significa pace, non occupazione. Dal mio punto di vista l’occupazione e’ una forma di terrorismo. Tenere milioni di palestinesi senza uno Stato, senza un’economia, con l’80% di disoccupazione, senza permettere loro di muoversi liberamente... Se non e’ terrorismo questo... e la reazione sono i kamikaze. Ma li abbiamo spinti noi nell’angolo, noi li abbiamo portati alla disperazione.
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Questa voce inedita venne presto seguita da altre famiglie in lutto. Il Forum era accanto a Rabin, Peres e Arafat quando a questi ultimi venne conferito il premio Nobel.
Era stato Rabin a invitarmi a seguirlo a Oslo. Proprio allora c’era stata una forte protesta da parte delle famiglie in lutto che gli chiedevano di interrompere ogni dialogo con i palestinesi. Quello stesso giorno mi recai da lui e gli dissi che quella gente non parlava a mio nome. "Mi faccia avere la lista delle famiglie colpite da un lutto a causa di questo conflitto e le trovero’ un gruppo di almeno quindici, venti persone che la pensano come me, che vi sosterranno". Lui sorrise ed espresse delle perplessita’ sul numero di persone che sarei riuscito a mettere assieme. Io pero’ ribadii che ero sicuro di trovarne molte, "almeno quindici, venti". Rispose che era impossibile. In realta’ non potei ottenere la lista di queste famiglie, per via della legge sulla privacy. Andai allora in un’emeroteca e mi misi a guardare tutti i giornali dal 1977, anno in cui Begin era diventato primo ministro, fino al 1995, diciotto anni. Individuai 422 famiglie israeliane colpite da un lutto. Mandai una lettera a 350 di loro in cui facevo una precisa richiesta.
"So bene che tanti di voi pensano che non c’e’ con chi fare la pace e che mi considerano naif perche’ io invece penso che si possa fare la pace con i palestinesi. So anche che la maggior parte di voi non e’ d’accordo con me, pero’ ho ricevuto parecchie telefonate di genitori in lutto che mi hanno chiesto: perche’ non ci organizziamo? Per questo motivo vi indirizzo questa lettera. Mi scuso in anticipo se qualcuno di voi si offendera’ per queste righe e spero che nessuno pensi che lo faccia per qualche scopo non dichiarato. Lo faccio solo per il bene del popolo israeliano e perche’ i nostri figli possano vivere in questo paese in pace e in sicurezza. Non sono un uomo politico, non sostengo nessun partito... Sono un uomo che ha perso la cosa piu’ cara che aveva e vorrei proteggere altre famiglie da una simile tragedia. Vi chiedo di prendere parte a questo gruppo di famiglie in lutto che sostengono la pace e la necessita’ di dare ai palestinesi il diritto a vivere nel loro Stato, nella sicurezza di Israele".
Un centinaio di lettere torno’ indietro perche’ l’indirizzo non era corretto, ma duecentocinquanta persone avevano ricevuto la mia lettera. Mi arrivarono due risposte molto brutte, che mi davano del pazzo, a dir poco, ma quarantaquattro risposero positivamente e con questi creammo un gruppo.
Al primo incontro dissi loro che volevo provare a contattare anche qualche famiglia palestinese che fosse ugualmente decisa a lottare per la pace e la riconciliazione insieme a noi. Il primo incontro con una famiglia palestinese me lo ricordo ancora. Fu difficilissimo. Proprio sul piano emotivo. Quei genitori avevano perduto la figlioletta di soli tre mesi. Era stata uccisa dagli israeliani, certo non intenzionalmente, e tuttavia era morta a causa dell’occupazione. Uscii da quell’appartamento in lacrime: una bambina di tre mesi. Arik aveva 19 anni, almeno lui aveva vissuto. Quella bambina era stata al mondo tre mesi...
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Frankenthal era accanto a Rabin anche la tragica notte dell’assassinio. Il 5 novembre 1995, durante le manifestazioni tenutesi a Tel Aviv, io parlai pubblicamente. Dieci minuti dopo Rabin venne assassinato. Finito il mio discorso, lui era venuto ad abbracciarmi e baciarmi e sua moglie aveva detto alla mia: "Guarda quanto si vogliono bene i due Yitzhak".
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Yitzhak Frankenthal scrivera’ una seconda lettera nel 2000, dopo la morte del piu’ giovane dei figli dell’amico Roni Hirshenson, indirizzata agli abitanti di Netzarim. Una lettera aperta, durissima, nella quale censurava in termini gravi e amari la pervicacia con cui stavano abbarbicati al loro insediamento, situato nel cuore stesso di Gaza.
"Agli abitanti di Netzarim. Stamattina alle otto ho ricevuto una telefonata dal mio caro amico e collega Roni Hirshenson che mi ha informato che suo figlio Elad si e’ suicidato. Ha lasciato una lettera in cui ha scritto che non poteva continuare a vivere dopo la morte del suo migliore amico David, ucciso a Netzarim... Roni e Miri, i genitori di Elad, avevano gia’ seppellito un figlio, Amir, ucciso nell’attentato di Beit Lid, nel gennaio del 1995 e ora ne stanno seppellendo un altro.
Scrivo questa lettera dal profondo del cuore, scosso da una sorta di furia, e la mia anima trema al rumore dei sacchi di sabbia che verranno vuotati sulla sua bara. Guardate cos’e’ accaduto alla nostra gente e al nostro paese a causa della mancanza di pace... Ogni individuo sano di mente sa che Netzarim sara’ uno degli insediamenti che andranno evacuati non appena tra noi e i palestinesi verra’ raggiunta la pace... In nome della divina misericordia, perche’ mai volete continuare ad abitare questo luogo maledetto, al quale tante vite umane sono gia’ state sacrificate? Dove sta l’amore che avete per i vostri figli, se poi mettete a rischio le loro esistenze? Avete ridotto il vostro messianismo alla difesa di un insediamento che niente ha a che fare con la sicurezza di Israele. Non ho bisogno della vostra compassione, voglio la vostra comprensione. Voglio che capiate che con le vostre azioni state provocando un numero infinito di tragedie per la gente di Israele. Non crederete davvero di star aiutando la sicurezza di Tel Aviv. I cittadini di Tel Aviv non hanno bisogno della vostra protezione. Hanno piuttosto bisogno di essere protetti da voi.
Davvero pensate che Israele possa avere la sicurezza senza la pace, che ci potra’ essere la pace senza compromessi dolorosi per ambedue le parti? Al posto dei palestinesi forse non avremmo compiuto gli stessi attentati per avere un nostro Stato? Perche’ i palestinesi dovrebbero essere differenti?
Di nuovo, per favore, non datemi del disfattista. Ho combattuto per la pace, assieme a Roni, per molti anni, proprio per evitare altre inutili e tragiche morti. Per noi la terra di Israele e’ importante e amata. Ma puo’ la terra essere piu’ importante di un essere umano? Cosa vi fa credere che questo dannato buco dimenticato da tutti - Netzarim - che gia’ tante vite e’ costato, valga la vita dei figli che stiamo mandando al macello?".
La lettera proseguiva citando le parole della madre di Amir e Elad. "Si e’ mai vista una madre seppellire non uno, ma due dei suoi figli? Li ho messi al mondo per dargli la vita. Li ho mandati a combattere nei loro anni migliori e mi sono tornati morti. Giusto una settimana fa gli avevo comperato un paio di scarpe. Non ha nemmeno fatto in tempo ad indossarle. Io sono una madre che si prende cura dei suoi figli... Con che cuore ora lo lascio qui? Avevo cinque figli. Me ne sono rimasti tre. Come faro’ a rientrare nella mia casa mentre Amir e Elad sono qui sul Monte Hertzel? A quale tomba faro’ visita per prima? Perche’ continuare a vivere? Non ne ho piu’ la forza. Chi mai avrebbe potuto immaginare che a me sarebbe toccato due volte. Grazie a voi, coloni di Netzarim, una linea rossa e’ stata tracciata dal vostro insediamento al monte Hertzel. Ho cresciuto i miei figli perche’ contribuissero alla crescita e alla sicurezza del Paese e cosa ho avuto indietro? Due bare, due tombe ed entrambi avevano solo 19 anni, nessuno dei due e’ arrivato a 20. Non avro’ piu’ le loro maglie da stirare, i loro letti da rifare. Solo due stanze vuote". Yitzhak Frankenthal concludeva con un ultimo accorato appello: "Prima di lasciare il cimitero, il caro Roni mi ha chiesto di scrivervi una lettera.
Spero di essere riuscito, almeno in parte, a trasmettervi il dolore per la perdita dei nostri figli. Vi prego, per favore, prendete le vostre cose e tornate in Israele".
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I processi di riconciliazione sono spesso legati agli scenari post-bellici, tuttavia solo questo permette che entrambi i contendenti cambino in qualche modo la loro visione dell’altro, creando quella fiducia, che rappresenta il prerequisito di qualsiasi processo di pace che voglia ottenere il sostegno di entrambe le societa’.
Cosa significa riconciliazione? Per me vuol dire voltare pagina, essere pronti a dire: "Mi dispiace", e offrire una compensazione, un risarcimento. E soprattutto essere pronti, ciascuno dentro di se’, a fare la pace, e anche a riconoscere che abbiamo sbagliato. Entrambi. Un mese prima che morisse, durante una discussione, Arik mi disse che se fosse stato un palestinese avrebbe ucciso i soldati israeliani, per ottenere uno Stato, come noi avevamo fatto con gli inglesi. L’empatia verso il dolore provato anche dal "nemico" per la perdita dei propri cari e’ un passaggio chiave nel processo di riconciliazione.
Solo il sentire assieme, la condivisione, puo’ provocare quella "scossa emotiva" (cosi’ l’ha definita Aaron Barnea) necessaria per impegnarsi a rivedere le proprie credenze e stereotipi. Consapevoli che "i nostri membri hanno tutti gia’ pagato un prezzo molto alto" e che la linea di separazione non passa tra le due nazioni, ma tra chi persegue una pace giusta e chi no, i membri del Families Forum, che conta ormai un gruppo di 500 famiglie israeliane e palestinesi, non intendono limitarsi a offrire una pura testimonianza, per quanto esemplare, di dialogo improntato alla riconciliazione. L’associazione persegue i propri obiettivi attraverso iniziative concrete, tra cui, principalmente, gli incontri pubblici e nelle scuole, dove si cerca di dare un’idea meno semplificata del conflitto, e di aumentare la consapevolezza del prezzo pagato da entrambe le parti, anche attraverso la condivisione delle proprie storie e dei propri sentimenti.
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[Dal sito di "Una citta’" (www.unacitta.it) riprendiamo il seguente testo, estratto dall’introduzione del libro Per mano. Per mano dell’altro, per mano con l’altro. Una raccolta di interviste a israeliani e palestinesi che hanno avuto un familiare ucciso e che militano insieme nell’associazione pacifista Parents’ Circle - Families Forum, edito dalla casa editrice Una citta’ di Forli’]
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO. Numero 1417 del 13 settembre 2006