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Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi
ASCOLTO ( Roland Barthes e Roland Havas - ENCICLOPEDIA EINAUDI).
UN RE IN ASCOLTO (ITALO CALVINO).
Percorsi calviniani. L’ascolto, il silenzio e la letteratura del nuovo millennio ("INSULA EUROPEA", 7 Novembre 2023, Maria Angela Cernigliaro).
Nel sito, si cfr.:
LA COSCIENZA A POSTO. Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere (...)
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LINGUAGGI
Voce, corpo, relazione
di ANNALISA PELLINO *
"Are the humanities undergoing a vocal turn?”. In un articolo del 2015 apparso sulla rivista Polygraph, Brian Kane avanza l’ipotesi che gli studi umanistici siano stati interessati negli ultimi anni da un vero e proprio vocal turn, in grado di competere con il linguistic turn e il visual turn. L’attenzione del musicologo per l’espressione vocale rientra in una più generale tendenza a riconsiderare l’importanza del suono e dell’ascolto nella lettura dell’esperienza audiovisiva contemporanea e nei processi di soggettivazione. Altri studiosi, invece, preferiscono parlare di auditory turn, che effettivamente esprime meglio la varietà dei fenomeni aurali che interpellano l’ascolto e la sua interazione con gli altri sensi. Che si scelga di usare l’una o l’altra formula, la voce è certo uno degli oggetti più interessanti da considerare in questo ripensamento radicale del modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo, entriamo in relazione, ripensiamo i termini della nostra stessa identità e il rapporto con la tecnologia: messaggi vocali, interfacce conversazionali, podcast, tecnologie di sintesi vocale per la lettura dei testi e deepfake della voce realizzati con sistemi di intelligenza artificiale (si pensi a quella di Warhol nella nuova serie di Netflix The Andy Warhol Diaries).
Di fronte a questo scenario, però, c’è un aspetto che viene sottovalutato nella riflessione sullo statuto della phoné, sulla sua materialità e sulle sue implicazioni socio-psicologiche, etiche, estetiche e politiche. È il fatto che essa resta comunque il più carnale di tutti i suoni, e a dispetto dei vari tentativi di ricreazione delle sue caratteristiche specifiche come il tono o il timbro, con effetti più o meno naturalistici. Di questa corporeità si è occupata Adriana Cavarero, che nel suo A più voci. Filosofia dell’espressione vocale (Castelvecchi, 2022) - appena ripubblicato dopo circa vent’anni dalla sua prima uscita - esplora lo statuto della voce risalendo alle origini metafisiche del pregiudizio epistemico che ci porta ad assegnare un peso conoscitivo più alla parola scritta che non alla voce che la esprime. L’analisi di Cavarero non solo scuote le fondamenta della cultura occidentale basata sul paradigma oculocentrico, ma sostiene la centralità della voce nell’articolazione del politico e del femminile e, a partire dal pensiero della differenza sessuale, mostra come tale articolazione sia orientata dal sistema del linguaggio. In particolare, la filosofa valorizza l’idea dell’eccedenza della phoné, che è insieme fonazione e relazione, misura del sé ma anche dell’altro, contemporaneamente medium del linguaggio e sua messa in discussione.
Il saggio parte da un confronto serrato con Platone per rileggere l’intera storia della filosofia come un processo di “devocalizzazione del logos”. Nelle concezioni arcaiche della voce, infatti, la phoné è assimilata sia al divino - come sua pura manifestazione sonora - sia al pensiero che si credeva prodotto dai polmoni e dall’apparato respiratorio e fonatorio: non a caso la parola nous (pensiero) rinvia a noos (naso). In questo senso è illuminante la differenza tra la cultura greca che, da Platone in poi, àncora la propria episteme alla sfera del visivo, e quella ebraica, che invece mantiene saldo il legame con la sfera uditiva. Nella prima la voce è sempre ricondotta alla parola scritta, quindi alla sua manifestazione visiva, insonora. Nella seconda, invece, la stessa potenza di Dio si manifesta non tanto nel Verbo, quanto nel respiro (ruah, in ebraico, pneuma nella versione greca dei Settanta e spiritus in latino) e nella voce (qol), sotto forma di “vento, brezza, bufera”, in una “sfera fondamentale di senso che viene prima della parola”. L’atto stesso della creazione consiste in un “puro vocalico, indifferente alla funzione semantica della lingua” e Dio diventa parola solo nella bocca dei profeti: è infatti la rilettura cristiana del Vecchio Testamento che riconduce alla parola (e non al respiro) l’atto della creazione. Sintomaticamente, la differenza si riflette anche nella lettura del testo sacro, che per gli ebrei avviene a voce alta con un’ondulazione ritmica del corpo che sottolinea la sonorità musicale della parola, mentre per i cristiani è silenziosa e immobile.
Un altro confronto importante per spiegare il fondamento “antiacustico e videocentrico” della filosofia e, per estensione, di tutto il pensiero occidentale, è quello che Cavarero stabilisce tra questa e l’epica, quindi tra Platone e Omero. Nell’epica, ciò che guida il discorso è la metrica, il ritmo e il suono, funzioni di un più complesso sistema mnemonico all’interno del quale il poeta cieco si fa cantore e interprete del messaggio della musa figlia di Mnemosyne. “Il vocalico comanda il semantico”, ma questo non è ammissibile nella casa della ratio androcentrica, tanto che Platone condanna l’epos e la mousiké, ovvero il piacere corporeo della musicalità: “sottratto all’evento dinamico del flusso vocale e consegnato alla fermezza del segno scritto, il linguaggio diventa un oggetto di osservazione [...] assume una forma organizzata, lineare e rivedibile”.
In particolare, ciò che Cavarero contesta alla struttura del sapere occidentale, a partire dalle sue basi filosofiche, è il fatto di ridurre la voce a phoné semantiké, neutralizzandone la corporeità e il potere relazionale. La filosofa, infatti, riconosce alla voce un ruolo centrale nella decostruzione del logocentrismo iniziata da Jacques Derrida con La voix et le phénomène (1967), al quale dedica l’appendice del libro riconoscendogli il merito di aver restituito indirettamente la voce alla sua materialità corporea. Nondimeno, se Derrida si concentra alla parola scritta (grammata) Cavarero si rivolge alla musicalità del vocalico che, attenzione, non va confuso con l’orale e, “come ogni strumento, necessita di una partitura”. Per chiarire la sottile ma sostanziale differenza fra le due dimensioni, la filosofa si richiama alla distinzione operata dal medievalista Paul Zumthor tra oralità, che indica “il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio”, e vocalità, intesa come “l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio”. La voce, infatti, può essere sia portatrice di parola sia pura emissione sonora: del resto, se la prima può fare a meno della seconda, non si può certo dire il contrario. Che si tratti di parola scritta o proferita, la voce le contiene entrambe, ne stabilisce le condizioni di possibilità ma allo stesso tempo le eccede con la sua sonorità, stabilendo una tensione tra performativo e narrativo.
A questa tensione è dedicata tutta la seconda parte del libro, una galleria di ritratti di Donne che cantano, spesso figure femminili mostruose, teriomorfe e mortifere. Si pensi al canto mellifluo e seduttivo delle sirene, che sfidano il raziocinio di Odisseo, e sul cui corpo si consuma il complesso intreccio tra sistema del linguaggio e stereotipi di genere. Quella delle sirene, infatti, è originariamente una voce narrante, proprio come quella della Musa aedica, ma questo legame tra il canto e la phoné semantiké delle donne-uccello viene a perdersi nelle successive rappresentazioni che, non a caso, le trasforma in “sinuose, scarmigliate e pisciformi”, ridotte a puri vocalizzi o addirittura al silenzio. È questa solo la prima di tutta una serie di figurazioni in cui le voci femminili non sono mai presenti come parola o discorso, ma vanno incontro a un processo di sottrazione e fluidificazione: nell’acqua diventano puro suono ambientale che annacqua la soggettività e, per dirla con Douglas Kahn “spegne la scintilla dell’agency” (Noise, Water, Meat. A History of Sound in the Arts, MIT Press, 2001).
Un analogo destino di “nientificazione” (che nella nuova edizione diventa erroneamente “mentificazione”) tocca alla ninfa Eco. Punita da Giunone per il suo eccesso verbale e condannata a ripetere i suoni altrui. La ragazza ciarliera perde la facoltà di articolare i propri discorsi, il suo corpo si scarnifica fino quasi a mineralizzarsi e, assorbito dal paesaggio, si disperde nell’atmosfera. Nell’incontro erotico con Narciso, inoltre, Eco diventa un osceno “specchio acustico”, aspetto fortemente valorizzato nelle Metamorfosi di Ovidio, per cui l’huc coeamus (qui riuniamoci) di Narciso, muta, nella bocca di Eco, in coeamus (uniamoci) con riferimento al coito. Il loro duetto si basa sull’equivoco generato proprio dall’eccesso del vocalico che mina la comprensibilità del semantico: sul ritorno dello stesso suono da una parte e della stessa immagine dall’altra.
Cavarero si sofferma a lungo sul confinamento della voce femminile nell’inarticolato o nei due estremi del canto e del silenzio, che si configurano sia come campi speciali di interdizione da parte dell’ordine simbolico patriarcale, sia della sua sovversione. Si pensi ad Ada (Holly Hunter) in The piano (Jane Campion, 1993), o ancora a tutti i personaggi femminili inaddomesticati del melodramma che muoiono cantando: “Carmen è una zingara, Butterfly e Turandot sono esotiche, Tosca è una cantante, Violetta è una poco di buono. Donne che vivono al di fuori dei ruoli familiari, figure trasgressive e spesso capaci di indipendenza, esse non si limitano a morire, ma devono morire perché tutto torni a posto”. L’opera, fra l’altro, è per Cavarero il luogo per eccellenza dove il principio acustico che orienta il femminile vince su quello videocentrico del maschile: ciò avviene attraverso la figura del castrato che rinuncia ai propri connotati virili per farsi corpo-voce di donna. E anche quando si riversa nella scrittura, la voce femminile mantiene il suo legame con la “sfera preverbale e inconscia, non ancora abitata dalla legge del segno, dove regna l’impulso ritmico e vocale”. A tal proposito la filosofa fa riferimento a l’écriture feminine di Hélène Cixous - qui assimilata alla nozione di chora semiotica di Julia Kristeva - insieme gesto estetico e politico: “scrittura fluida, ritmica e debordante, che rompe le regole del simbolico facendo esplodere la sintassi. Essa precede ed eccede i codici che governano il logos fallocentrico.” Cixous è un’ebrea algerina che prova a scompaginare e reinventare la sintassi della lingua paterna - il francese, la lingua del colonizzatore - musicandola con il tedesco da ebrea askenazita della madre in maniera del tutto in(a)udita: si tratta di un piacere legato alla voce materna che si mescola con quello orale del latte e informa una “lingualatte (languelait) che, nella sua effusione gratuita, ricopre tutto il registro dei piaceri orali e delle vocalizzazioni infantili”.
Ma allora, viene da chiedersi, cosa significa la voce quando si sottrae al sistema della significazione? Due sono gli aspetti su cui insiste Cavarero: l’unicità della persona e la relazione. La phoné esprime innanzitutto il corpo che la emette, in quanto manifestazione di una “singolarità irripetibile” che si manifesta nel dire piuttosto che il detto: “la voce pertiene al vivente, comunica una presenza in carne e ossa, segnala una gola e un corpo particolare”. Inoltre, al contrario dello sguardo, la voce è sempre relazionale: in latino, ci ricorda la filosofa, vocare è chiamare: “prima ancora di farsi parola, la voce è un’invocazione rivolta all’altro e fiduciosa di un orecchio che la accoglie”. Nella “prossimità pneumatica” si stabilisce dunque l’essere per l’altro, ovvero la relazione che ha luogo nel contatto diretto tra le cavità di un corpo che emette un suono e quelle di un corpo che lo riceve, in ciò che di più nascosto e vibrante c’è in ognuno di noi.
Anche qui sono numerose le voci, filosofiche e letterarie, che si incontrano in questo viaggio a ritroso alla scoperta della materialità della phoné: da Ida Dominijanni ad Hannah Arendt, da Jean-Luc Nancy a Emmanuel Lévinas; dal Re in ascolto di Italo Calvino a Hurbinek - il bambino nato nel campo di concentramento di Auschwitz la cui vicenda, narrata da Primo Levi ne La Tregua (1963), chiude significativamente il saggio. Proprio le storie del Re in ascolto e di Hurbinek dicono di quanto la voce sia un plus-de-corp - per usare un’espressione di Mladen Dolar (La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, Orthotes, 2014) - che si rivela attraverso una serie di manifestazioni fisiologiche e somatiche capaci di eccedere la struttura del linguaggio, occupando uno spazio di verità e di relazione non linguistica con l’alterità, dove umano e animale si approssimano e la voce “qualcosa dice, ma niente che si possa fissare in un significato. Mima il linguaggio, senza arrivare alla parola. Comanda, seduce”.
* cfr." LINGUAGGI ANNALISA PELLINO / IMMAGINE: JOHN WILLIAM WATERHOUSE, ULYSSES AND THE SIRENS, 1891 / 11.5.2022". Il Tascabile (ripresa parziale - senza immagine).
DUE OBIEZIONI A KUNDERA
di ITALO CALVINO *
"FRANZ aveva dodici anni quando il padre abbandonò la madre all’ improvviso. Il ragazzo intuì che era accaduto qualcosa di grave, ma la madre velò il dramma dietro parole misurate e neutre, per non turbarlo. Quello stesso giorno erano andati in città e Franz, uscendo di casa, si era accorto che la madre aveva ai piedi scarpe diverse. Rimase confuso, voleva farglielo notare, ma allo stesso tempo temeva in quel modo di ferirla. E così aveva passato due ore con lei in giro per la città e per tutto il tempo non aveva potuto staccare gli occhi dai suoi piedi. Allora, per la prima volta, aveva cominciato a capire che cos’ è la sofferenza". Questo passo dà bene la misura dell’ arte di raccontare di Milan Kundera - della sua concretezza, della sua finezza - e ci avvicina a comprendere il segreto per cui nel suo ultimo romanzo (L’ insostenibile leggerezza dell’ essere, traduzione di Antonio Barbato, Adelphi, pagg. 318, lire 20.000: quando uscì in Francia ne parlò su queste pagine Elena Guicciardi) il piacere della lettura si riaccenda di continuo.
Tra tanti scrittori di romanzi, Kundera è un romanziere vero, nel senso che le storie dei personaggi sono il suo primo interesse: storie private, sopratutto storie di coppie, nella loro singolarità e imprevedibilità. Il suo modo di raccontare procede a ondate successive (gran parte dell’ azione si sviluppa nelle prime trenta pagine; la conclusione è già annunciata a metà romanzo; ogni storia viene completata e illuminata strato a strato) e attraverso divagazioni e commenti che trasformano il problema privato in problema universale, dunque anche nostro. Ma questa problematicità generale, anzichè aggiungere gravità, fa da filtro ironico, alleggerisce il pathos delle situazioni.
Tra i lettori di Kundera ci può essere chi s’ appassiona di più alla vicenda e chi (io, per esempio) alle divagazioni. Ma anche queste si trasformano in racconto. Come i suoi maestri settecenteschi Sterne e Diderot, Kundera fa delle sue riflessioni estemporanee quasi un diario dei suoi pensieri e umori. L’ironica problematicità universal-esistenziale coinvolge anche ciò che, trattandosi di Cecoslovacchia, non può essere dimenticato neanche per un minuto, cioè quell’ insieme di vergogne e insensatezze che una volta si chiamava la Storia e che ora può solo dirsi la maledetta sfortuna d’ essere nato in un paese piuttosto che in un altro. Ma Kundera, facendone non "il problema" ma solo una complicazione in più dei guai della vita, elimina quel doveroso, allontanante rispetto che ogni letteratura degli oppressi incute in noi immeritatamente privilegiati, e in questo modo ci coinvolge nella disperazione quotidiana dei regimi comunisti molto di più che se facesse appello al pathos.
Il nucleo del libro sta in una verità tanto semplice quanto ineludibile: è impossibile agire valendosi dell’ esperienza perchè ogni situazione cui ci troviamo di fronte è unica e ci si presenta per la prima volta. "Qualsiasi studente nell’ ora di fisica può provare con esperimenti l’ esattezza di un’ ipotesi scientifica. L’ uomo, invece, vivendo una sola vita, non ha alcuna possibilità di verificare un’ ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento". Kundera collega questo assioma fondamentale con corollari non altrettanto solidi: la leggerezza del vivere per lui sta nel fatto che le cose avvengono una volta sola, fugacemente, dunque è quasi come se non fossero avvenute. La pesantezza invece sarebbe data dall’ "eterno ritorno" ipotizzato da Nietzsche: ogni fatto diventa spaventoso se sappiamo che si ripeterà infinite volte.
Ma - obietterei - se l’ "eterno ritorno" (sul cui possibile significato esatto non ci si è mai messi d’ accordo) è ritorno dell’ identico, una vita unica e irripetibile equivale esattamente a una vita infinitamente ripetuta: ogni atto è irrevocabile, non modificabile per l’ eternità. Se invece l’ "eterno ritorno" è una ripetizione di ritmi, di schemi, di strutture, di geroglifici del destino, che lasciano spazio per infinite piccole varianti nei dettagli, allora si potrebbe considerare il possibile come un insieme di fluttuazioni statistiche, in cui ogni evento non escluderebbe alternative migliori o peggiori, e la definitività d’ ogni gesto risulterebbe alleggerita.
Leggerezza del vivere è per Kundera ciò che si oppone alla irrevocabilità, alla univocità esclusiva: tanto in amore (il medico praghese Toms vorrebbe praticare solo l’ "amicizia erotica", evitando coinvolgimenti passionali e convivenze coniugali) quanto in politica (questo non è detto esplicitamente, ma la lingua batte dove il dente duole, e il dente è naturalmente l’ impossibilità dell’ Europa dell’ Est di cambiare - o almeno alleviare - un destino che non si è mai sognata di scegliere). Ma Toms finisce per accogliere in casa e sposare Tereza, cameriera d’ un ristorante di provincia, per "compassione". Non solo: dopo l’ invasione russa del ’ 68, Toms riesce a scappare da Praga e a emigrare in Svizzera, con Tereza; la quale però, dopo qualche mese viene presa da una nostalgia che si manifesta come vertigine di debolezza verso la debolezza del suo paese senza speranza: e rimpatria. Ecco allora che Toms, che avrebbe tutte le ragioni, ideali e pratiche, per restare a Zurigo, decide di tornare a Praga anche lui, pur sapendo di chiudersi in una trappola e d’ andare incontro a persecuzioni e umiliazioni (non potrà più fare il medico e finirà lavatore di vetri).
Perchè lo fa? Perchè, pur professando l’ ideale della leggerezza del vivere, e pur avendone un esempio pratico nel rapporto con una sua amica, la pittrice Sabina, ha sempre avuto il dubbio che il vero valore non sia nell’ idea contraria, nel peso, nella necessità. "Es muss sein!" "Ciò deve essere!" dice l’ ultimo movimento dell’ ultimo quartetto di Beethoven. E Tereza, amore nutrito di compassione, amore non scelto ma impostogli dal destino, assume ai suoi occhi il significato di questo fardello dell’ ineluttabile, dell’ "Es muss sein!".
Si viene a sapere più in là (ecco come le divagazioni formano quasi un romanzo parallelo) che l’ occasione che aveva portato Beethoven a scrivere "Es muss sein!" non era nulla di sublime, ma una banale storia di quattrini prestati da recuperare; così come il destino che aveva portato Tereza nella vita di Toms era solo un seguito di coincidenze fortuite. In realtà questo romanzo intitolato alla leggerezza ci parla sopratutto della costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che avvolge le persone, che esercita il suo peso su ogni rapporto umano (e non risparmia neppure quelli che Toms vorrebbe considerare fuggevoli couchages).
Anche il dongiovannismo, su cui Kundera ci dà una pagina di definizioni originali, ha motivazioni tutt’ altro che "leggere": sia quando risponde a una "ossessione lirica", cioè ricerca tra le molte donne della donna unica e ideale, sia quando è motivato da una "ossessione epica", cioè ricerca d’ una conoscenza universale nella diversità. Tra le storie parallele il maggior rilievo va alla storia di Sabina e di Franz. Sabina come rappresentante della leggerezza e portatrice dei significati del libro è più persuasiva del personaggio a cui si contrappone, cioè Tereza. (Direi che Tereza non arriva ad avere il "peso" necessario per giustificare una decisione tanto autodistruttiva da parte di Toms).
E’ attraverso Sabina che la leggerezza acquista evidenza come "fiume semantico", cioè rete d’ associazioni e immagini e parole su cui si basa l’ intesa amorosa di lei e Toms, una complicità che Toms non può ritrovare con Tereza, nè Sabina con Franz. Franz, scienziato svizzero, è l’ intellettuale progressista occidentale come lo può vedere chi, dall’ Europa dell’ Est, lo considera con l’ impassibile oggettività d’ un etnologo che studi i costumi d’ un abitante degli antipodi.
La vertigine d’ indeterminatezza che ha sostenuto gli entusiasmi di sinistra negli ultimi vent’ anni è indicata da Kundera con il massimo di precisione compatibile a così inafferrabile oggetto: "Dittatura del proletariato o democrazia? Rifiuto della società dei consumi o aumento della produzione? Ghigliottina o abolizione della pena di morte? Non è questo l’ importante". -Ciò che caratterizza la sinistra occidentale, secondo Kundera, è quella che lui chiama la Lunga Marcia, che si svolge con la stessa vaghezza di propositi e di emozioni "ieri contro gli americani che occupavano il Vietnam, oggi contro il Vietnam che occupa la Cambogia, ieri per Israele, oggi per i palestinesi, ieri per Cuba, domani contro Cuba e sempre contro l’ America, ogni volta contro i massacri e ogni volta in appoggio ad altri massacri, l’ Europa marcia e per seguire il ritmo degli avvenimenti e non lasciarsene sfuggire nessuno il suo passo diventa sempre più veloce, sicchè la Grande Marcia è un corteo di gente che corre e si affretta e la scena è sempre più piccola, fino a che un giorno non sarà che un punto senza dimensioni".
Seguendo i tormentosi imperativi del senso del dovere di Franz, Kundera ci porta alle soglie del più mostruoso inferno generato dalle astrazioni ideologiche quando diventano realtà, la Cambogia, e descrive una marcia internazionale umanitaria in pagine che sono un capolavoro di satira politica. Al polo opposto di Franz, la sua partner temporanea, Sabina, fa da portavoce dell’ autore in quanto mente lucida nello stabilire confronti e contrasti e paralleli tra l’ esperienza della società comunista in cui è cresciuta e l’ esperienza dell’ Occidente. Uno dei cardini di questi confronti è la categoria del Kitsch.
Kundera considera il Kitsch nell’ accezione di rappresentazione edulcorata, edificante, "vittoriana", e naturalmente pensa al "realismo socialista" e alla propaganda di regime, maschera ipocrita di tutti gli orrori. Sabina che, stabilitasi negli Stati Uniti, ama New York per quanto vi è di "bellezza non intenzionale", "bellezza per errore", è sconvolta quando vede affiorare il Kitsch americano, tipo pubblicità della Coca-Cola, che gli ricorda le immagini radiose di salute e di virtù tra le quali è cresciuta. Ma Kundera giustamente precisa:
"Il Kitsch è l’ ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici. In una società dove coesistono orientamenti politici diversi e dove quindi la loro influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire all’ inquisizione del Kitsch... Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del Kitsch totalitario".
Il passo che resta da compiere è liberarsi dalla paura del Kitsch, una volta che ci si è salvati dal suo totalitarismo e lo si può vedere come un elemento in mezzo a tanti altri, una immagine che perde velocemente il proprio potere mistificatorio per conservare solo il colore del tempo che passa, la testimonianza della mediocrità o dell’ ingenuità di ieri. E’ quello che mi pare succeda a Sabina, per cui possiamo riconoscere nella sua storia un itinerario spirituale di riconciliazione col mondo. Alla vista, tipica dell’ idillio americano, delle finestre illuminate in una casa di legno bianco su un prato, Sabina sorprende in se stessa un moto di commozione. E non le resta che concludere: "Per quanto forte sia il nostro diprezzo, il Kitsch fa parte della condizione umana".
Una conclusione molto più triste è quella della storia di Tereza e Toms; ma qui, attraverso la morte d’ un cane, e la cancellazione di se stessi in una sperduta località di campagna, si arriva quasi a un assorbimento nel ciclo della natura, in un’ idea del mondo che non ha al suo centro l’ uomo, anzi che non è assolutamente fatto per l’ uomo.
Le mie obiezioni a Kundera sono due: una terminologica e una metafisica. L’ obiezione terminologica riguarda la categoria del Kitsch, di cui Kundera prende in considerazione solo una tra le varie accezioni. Ma del cattivo gusto della cultura di massa fa parte anche il Kitsch che pretende di rappresentare la spregiudicatezza più audace e "maledetta" con effetti facili e banali. Certo è meno pericoloso dell’ altro, ma ne va tenuto conto per evitare di crederlo un antidoto. Per esempio, vedere l’ assoluta contrapposizione al Kitsch nell’ immagine d’ una donna nuda con in testa una bombetta da uomo non mi pare del tutto convincente.
L’ obiezione metafisica ci porta più lontano. Riguarda "l’ accordo categorico con l’ essere", atteggiamento che per Kundera sarebbe alla base del Kitsch come ideale estetico. "La differenza che separa coloro che mettono in discussione l’ essere così come è stato dato all’ uomo (non importa in che modo o da chi) da coloro che vi aderiscono senza riserve" è data dal fatto che l’ adesione impone l’ illusione d’ un mondo in cui non esista la defecazione, perchè secondo Kundera la merda è la negatività assoluta, metafisica.
Obietterò che per i panteisti e per gli stilistici (io appartengo a una di queste due categorie, non preciserò quale) la defecazione è una delle più grandi prove della generosità dell’ universo (della natura o provvidenza o necessità o cos’ altro si voglia). Che la merda sia da considerare tra i valori e non tra i disvalori, è per me una questione di principio.
Da ciò derivano conseguenze fondamentali. Per non cadere nei vaghi sentimenti d’ una redenzione universale che finiscono per produrre regimi polizieschi mostruosi, nè nei ribellismi generalizzati e temperamentali che si risolvono in obbedienze pecorili, è necessario riconoscere come sono fatte le cose, ci piacciano o meno, nel moltissimo a cui è vano opporsi e nel poco che può essere modificato dalla nostra volontà. Credo dunque che sia necessario un certo grado di accordo con l’ esistente (merda compresa) proprio in quanto incompatibile col Kitsch che Kundera giustamente detesta.
La coscienza senza cervello
Nella mente delle piante
di Maurizio Corrado (Doppiozero, 11.10.2019)
Il barone rampante è tornato. Questa volta è apparso su di un platano del boulevard Saint-Germain di Parigi, vicino al Ministero della Transizione ecologica, si fa chiamare Thomas Breil e protesta contro l’abbattimento di 25 alberi a Condom, nel Gers. Dopo secoli in cui di Cosimo Piovasco di Rondò si erano perse le tracce, negli ultimi anni è stato avvistato in diversi punti del globo e con nomi diversi, Miranda Gibson su di un eucalipto in Tasmania, Julia Butterfly Hill su una sequoia in California, ma sempre con lo stesso intento: far capire al mondo non solo che le piante sono esseri viventi, ma che sono le uniche che potrebbero aiutarci a non estinguerci miseramente. Quel piccolo meraviglioso trattato di botanica allegra scritto da Calvino nel 1957, molto doveva alla madre di Italo, Eva Mameli Calvino, botanica e naturalista che a lui e all’altro figlio Floriano, poi divenuto geologo, aveva trasmesso la passione e il rispetto per le meraviglie della natura.
Viviamo in tempi in cui i campanelli di allarme non si sentono più perché hanno finito di suonare già da un pezzo, siamo passati alle sirene che urlano che il tempo è scaduto e nel comprensibile panico che precede ogni catastrofe ognuno lancia soluzioni. In questi mesi va molto l’idea di piantare foreste, abbiamo capito che non basta chiedere al sistema industriale di inquinare meno, va anche trovato un modo per eliminare i gas nocivi già presenti e così, mentre le industrie si affannano a trovare sistemi artificiali per sfruttare fino all’ultimo anche questa occasione, altri si ricordano che le piante lo fanno da sempre e lanciano campagne per difendere e aumentare alberi e foreste.
Con un perfetto tempismo, le più grandi foreste del pianeta vanno letteralmente in fumo. Al primo posto l’Africa, con il 70 % del totale degli incendi, poi l’Amazzonia, la Siberia, la Groenlandia. Ma mentre si discute cercando colpe, parlando di complotti e polmoni verdi, il vero problema sta altrove. Prendo a prestito le parole di un post di Matteo Meschiari: “stanno bruciando ecosistemi irripetibili, epopee botaniche e zoologiche, misteriose biblioteche biochimiche, società complesse di non-umani, regni di senza-nome, tassonomie non registrabili, romanzi indios mai scritti, saggi orali conservati nel permafrost, leggende preverbali, vite. Sarebbe come se bruciasse la Biblioteca Vaticana e si parlasse unicamente di "cellulosa", "pergamena", "inchiostro", "pelle", "schedari", "scaffali", "estintori".” Anche il sonnolento mondo della letteratura si è finalmente accorto dell’importanza delle piante e nel 2019 il Pulitzer è andato a un romanzo che parla di foreste.
“Società complesse di non-umani.” Questa può essere una maniera scientificamente corretta di immaginare il mondo vegetale. Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi sulle piante e in particolare su quella che potremmo definire la loro “coscienza”. Il dato interessante è che ormai è innegabile che possiedano una qualche forma di intelligenza anche se non sono dotate di un organo centralizzatore come il cervello, cosa che fa scaturire una serie di domande e considerazioni. -Primo, non è necessario avere un cervello per possedere una coscienza. Questo dato apre una girandola di possibilità che, spingendo solo di poco l’acceleratore dell’immaginazione, apre la facoltà di pensiero ad altri sistemi organizzati non dotati di cervello.
L’altro è che probabilmente dovremmo considerare le piante come portatrici di una vera e propria intelligenza aliena, senza doverla andare a cercare in fantascientifiche ipotesi extraterrestri.
Tra gli ultimi lavori che affrontano la sensibilità del mondo vegetale, c’è La mente delle piante, di Umberto Castiello, professore ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica nel Dipartimento di Psicologia generale dell’Università di Padova. Il libro, uscito nel luglio 2019 per Il mulino, ha come sottotitolo Introduzione alla psicologia vegetale, e si potrebbe definire un piccolo manuale di nuova botanica, dove vengono riassunte le ultime ricerche sulla sensibilità delle piante, dai loro sistemi di percezione alla vita sociale.
Veniamo così a sapere che, in un modo ancora non totalmente chiaro, le piante non solo possiedono facoltà analoghe ai nostri cinque sensi, ma che la loro sensibilità è a volte molto più acuta e precisa. Le piante non solo si muovono ma vedono e hanno preferenze musicali, il canto degli uccelli per esempio determina un aumento dei germogli della zucchina, la rosa cinese fiorisce meglio e allunga i rami quando ascolta musica classica indiana, mentre sembra non gradire la musica rock, anche se lo studio non specifica se le abbiano fatto ascoltare i Motorhead o i Pink Floyd. Hanno un senso del tatto dieci volte maggiore del nostro e anche con l’olfatto non scherzano, il gas etilico ad esempio ha la capacità di far maturare qualsiasi frutto.
Una delle capacità che le piante hanno dimostrato di possedere è la memoria. Possono conservare informazioni e riattingervi dopo un tempo variabile. Ma tra le proprietà più straordinarie c’è la capacità di interagire non solo con le altre piante, ma con gli animali. Sono in grado di mettere in atto delle vere strategie di sopravvivenza chiamando in causa soprattutto gli insetti. Il melo, ad esempio, quando viene attaccato dagli acari è in grado di mandare messaggi aerei che attraggono acari di una specie nemica di quella che li sta distruggendo, provocando una vera guerra fra insetti. Ma è sottoterra che si svolge la vera vita segreta delle piante. Una rete di funghi collegata alle radici fa in modo che queste possano chimicamente comunicare a distanza e aiutarsi o distruggersi a vicenda. Dimentichiamoci della bucolica visione delle pianticelle tutte fiorelletti e sorrisi che formano l’immagine di una natura armoniosa e in pace. Specialmente fra specie simili, la lotta è aspra e combattuta con armi chimiche. Se a una pianta non va bene una vicina, farà in modo di emettere sostanze che faranno morire la malcapitata senza tanti complimenti.
Sembrano comportamenti umani, ma forse sarebbe più corretto dire che sono i comportamenti umani a essere simili a quelli vegetali. Anche solo considerando l’ordine temporale, non c’è paragone fra la comparsa della vita vegetale e quella umana. Ci sono comportamenti vegetali che hanno milioni di anni. Un esempio. Tra la pianta di manioca e una specie di farfalla c’è un patto che dura da 40 milioni di anni. La manioca può essere impollinata solo da quel tipo di farfalla e la farfalla deposita le uova unicamente nei semi della manioca. Nessuno dei due sopravvive senza l’altro. Ma nessuno dei due può esagerare. Se una farfalla deposita troppe uova, la pianta farà morire il fiore che contiene i semi. Patti chiari, amicizia lunga. Lunga quaranta milioni di anni. Almeno fino al prossimo incendio.
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, MATEMATICA, TEOLOGIA URBANISTICA E COSTITUZIONE ("IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS"): "SÀPERE AUDE" (ORAZIO DI VENOSA).
Il percorso della Storia, le strade di Roma e una coppia di cavalli.
Una nota a margine di una riflessione di Alessandro Romano (Facebook, 06 n0vembre 2023):
"Ecco perché amo tanto la Storia", chiarissimi "Alessandro" e "Romano" (CHIARISSIMO Alessandro Romano), perché si comincia a "contare" sempre da Due, da quel "Due In Uno" ("D.I.U."), di cui ogni "uno" e ogni "una" è figlio e figlia ... e che, solo sapendo contare, si possono fare Unità e Comunità, costruire strade e ponti, e raccontare storie.
P. S. - "1435 mm: la vera storia dello scartamento standard":
"La distanza tra le due rotaie di un binario ferroviario, misurata tra le facce interne di queste, è detta scartamento. Com’è facilmente intuibile, per consentire la circolazione dei veicoli (i rotabili) tra diverse linee ferroviarie o tra paesi diversi, tale distanza deve essere standardizzata. La larghezza dei binari non è comunque identica per tutte le ferrovie del mondo: diverse esigenze tecniche ed economiche, ragioni storiche e - anche se sembra incredibile - politiche hanno determinato determinato una grande varietà di scartamenti più o meno diffusi. Tuttavia uno di questi ha nettamente prevalso sugli altri, tanto da essersi affermato come scartamento standard o scartamento normale: quello corrispondente a 4 piedi ed 8 pollici e 1⁄2 ovvero 1435 mm, oggi utilizzato da circa il 60% delle strade ferrate di tutto il mondo. Perché fu scelta proprio questa misura, che sembra essere tutt’altro che casuale, per creare uno degli standard più longevi e consolidati al mondo?
Una leggenda vorrebbe tale misura derivata dai solchi lasciati sulle strade dai carri romani, i quali avendo tutti la stessa distanza tra le ruote avrebbero costituito uno standard de facto che si sarebbe poi diffuso in tutto il mondo. Suggestivo, ma falso: l’origine dello scartamento normale non ha nulla a che vedere con i carri. È piuttosto frutto di una lunga serie di casualità, convenzioni, occorrenze pratiche ed eventi storici, che ha inizio nelle miniere [...]" (Laputa).
Federico La Sala