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MEDIO ORIENTE: SOVRANI E MARIONETTE. L’analisi di BARBARA SPINELLI

domenica 23 luglio 2006.
 
[...] La situazione è precisamente quella descritta da Hannah Arendt in un profetico saggio del 1948. La dipendenza da forze esterne (mandatari inglesi ieri, Usa oggi) ha «mutato pochissimo l’iniziale sensazione di completa estraneità tra arabi ed ebrei». Essa ha fatto sì che gli ebrei divenissero «fantasmi» per i palestinesi, e i palestinesi fantasmi per gli ebrei. Ognuno ha visto nell’altro marionette di vaste cospirazioni. E il risultato è stato: «L’incapacità degli ebrei e degli arabi di vedere i loro vicini come concreti esseri umani» [...]

SOVRANI E MARIONETTE

di Barbara Spinelli

(La Stampa, 23.07.2006)

LA maniera in cui è stata condotta la guerra al terrorismo, tra il 2001 e i giorni d’oggi, ha finito col produrre il peggiore degli incubi: lo Stato d’Israele, che è un frammento di storia europea trapiantato nelle terre arabo-musulmane, è veramente in pericolo di vita, isolato nella regione e dipendente da una potenza - gli Stati Uniti - che non può permettersi l’abbandono dell’alleato ma non possiede una politica per garantirlo completamente. Che rischia anzi di usarlo alla stregua di una marionetta: gettandolo in una guerra con Hezbollah che riproduce, in piccolo, il più grande confronto Usa-Iran. Lo status quo nella regione è stato rotto in questi anni, come arditamente si proponeva Bush prima e dopo l’11 settembre, ma si è rotto a vantaggio delle potenze integraliste che cercano di conquistare l’egemonia sul mondo musulmano e si propongono di distruggere Israele usando come una tenaglia il terrorismo di Stato e il terrorismo nato fuori dagli Stati: Iran e Siria da una parte, Hamas e Hezbollah dall’altra.

L’incubo è sempre un passato che si vendica, e non a caso la storia del Novecento si risveglia con le sue parole più maledette, trascinando tutti coloro, in Europa e Occidente, che di quella storia sono stati artefici e di essa restano responsabili. Accade così che il presidente Ahmadinejad scriva a Angela Merkel senza parlare del Libano ma evocando la Shoah, e ricordando che Germania e Iran hanno un interesse comune: ricominciare a pesare nel mondo, ritrovare una coscienza nazionale di cui sono stati ingiustamente privati, sbarazzarsi insomma del fardello dell’olocausto. Dell’olocausto si parla dunque normalmente ormai, non solo in comizi integralisti ma nelle corrispondenze tra Iran e Occidente. Si dà per scontato che nessun ritiro israeliano risolve la crisi, considerata l’ingiustizia che fu la nascita stessa d’Israele.

Tanto più importante è che la coscienza di esser di fronte a un incubo di questo genere sia forte in Italia, da parte di un governo che ha iscritto nel proprio programma la volontà di prender le distanze dalla strategia inglese-americana di lotta al terrorismo. Nei loro sforzi, Prodi e D’Alema non negano che Israele combatta una guerra esistenziale, non più motivata dall’occupazione di territori, anche quando accusano Olmert di reagire sproporzionatamente e distruggere la nazione libanese con la scusa di voler neutralizzare le milizie sciite che Beirut non controlla. Questo dà forza alle posizioni del centro sinistra, e spiega come mai la prima grande conferenza internazionale sul Libano si svolgerà a Roma, il 26 luglio. Quando D’Alema dice che questo è il momento per l’Europa di divenire protagonista e di «disegnare un suo ruolo in Medio Oriente», esercitando un’«influenza moderatrice su Israele e dissuasiva verso il terrorismo islamico», quando insiste su una guerra divenuta esistenziale per Israele, fa capire che il nostro continente ha responsabilità storiche e proprio per questo deve trovare, con l’America, un’alternativa alla fallimentare strategia di Bush. Quel che è accaduto in Europa durante il nazismo ha infatti dato vita non solo allo Stato d’Israele, ma anche agli effetti che esso ha prodotto sui palestinesi. Anche del loro sciagurato destino gli europei sono responsabili - del formarsi di una vastissima diaspora di profughi nella regione - così come lo sono per quello d’Israele. E’ nelle loro mani la sopravvivenza del Libano, esattamente come lo è la sopravvivenza di Israele. Resuscitando il nucleo di Paesi (core group) che aiuta il Libano a liberarsi della Siria - il comitato include anche l’Italia - D’Alema reintroduce il nostro governo nel Grande Gioco che Washington ha in questi anni dominato e che ha visto l’Europa frantumata, non rappresentata, e tanto più dipendente da Russia o America. Ma la storia del nostro continente ha un peso ancor più vasto, che risale non solo alla prima metà del ‘900 ma al secolo che precede le guerre mondiali. Se oggi si è arrivati a questo punto in Medio Oriente, se tutto intero il popolo libanese paga le conseguenze d’una guerra che è ormai questione di vita o di morte per Israele, se la Shoah è divenuto dispositivo centrale di una potenza ascendente come l’Iran - è perché qualcosa non ha funzionato, nelle idee che Israele e gli occidentali si son fatti per cinquant’anni di uno stabile Stato israeliano incuneato in Palestina. Quel che non ha funzionato è il discorso della sovranità assoluta degli Stati nazione, grande tabù e grandissima menzogna del Medio Oriente: tabù e menzogna ereditati dalla storia dei nazionalismi d’Europa, e in particolare dalla storia di coloro che più si illusero d’esser interamente sovrani, in Europa centro-orientale. Al pari di questi ultimi, nessuno tra gli Stati medio-orientali è nei fatti sovrano, e la loro malattia consiste nel negarlo e nel comportarsi come se lo fossero, con risultati rovinosi.

Si finge assolutamente sovrano Israele, fin dalla nascita dello Stato nel ’48, quando il sionismo preconizzava l’occupazione - da parte di un «popolo senza terra» - di una «terra senza popolo»: l’hybris nazionalista si riassume ominosamente in simili slogan. In realtà Israele dipendeva dall’estero, dipendeva finanziariamente e militarmente dagli ebrei Usa e da Washington. Così, specularmente, gli arabi in cui si insediò la diaspora palestinese. Tutta la battaglia palestinese per uno Stato sovrano è stata il tentativo non di negoziare con Israele, ma di conquistarsi beneplaciti all’estero: prima dell’Urss, poi della Siria, dell’Iran, del Fronte del rifiuto. Del Novecento europeo si sono così presi in eredità tutti i vizi, e non le virtù apprese successivamente, quando si vide che i vizi avevano prodotto catastrofi. Se si parla con tanta coazione a ripetere di un secondo olocausto è perché, a monte, si tengono in vita la perversioni che all’olocausto hanno portato: i nazionalismi etnici, l’irredentismo che attorno non vede altro che «terre senza popoli», la presunzione della sovranità assoluta.

L’internazionalizzazione sistematica del conflitto medio orientale ha forse scongiurato sciagure ma ha anche coperto queste malattie, occultandole e acutizzandole. L’attaccamento d’Israele all’America, l’attaccamento dei palestinesi prima all’Urss poi agli arabo-islamisti, sono i due volti di una comune infermità politica. Internazionalizzare il conflitto resta certo una via obbligata nelle presenti circostanze, e la conferenza di mercoledì a Roma è un passo avanti che fa sperare. Ma è un passo avanti a condizione di sapere che c’è un lato molto oscuro, dell’internazionalizzazione praticata lungo i decenni. Israele non può condurre offensive per procura, in rappresentanza di una potenza Usa drasticamente indebolita in Iraq, senza precipitare in guerre esistenziali potenzialmente suicide. Gli integralisti di Hamas e Hezbollah non possono puntare tutto sui grandi protettori (Iran, Siria) senza mai guardare la realtà d’Israele. La situazione è precisamente quella descritta da Hannah Arendt in un profetico saggio del 1948. La dipendenza da forze esterne (mandatari inglesi ieri, Usa oggi) ha «mutato pochissimo l’iniziale sensazione di completa estraneità tra arabi ed ebrei». Essa ha fatto sì che gli ebrei divenissero «fantasmi» per i palestinesi, e i palestinesi fantasmi per gli ebrei. Ognuno ha visto nell’altro marionette di vaste cospirazioni. E il risultato è stato: «L’incapacità degli ebrei e degli arabi di vedere i loro vicini come concreti esseri umani» (Hannah Arendt, Pace o Armistizio nel Vicino Oriente, in: Ebraismo e Modernità, Feltrinelli ‘93). Nessun serio riconoscimento reciproco era a questo punto possibile, nessuna coscienza di quanto necessaria fosse la «mutua dipendenza» arabo-israeliana. Chi in Israele proponeva una via alternativa alla sovranità totale, partendo da questa mutua dipendenza e proponendo una federazione anziché un classico Stato nazione ebraico - fu il caso di politici come Judah Magnes, presidente dell’università ebraica e del gruppo palestinese Ihud (Unità); ma anche di Azzam Bey segretario della Lega araba nel ‘45, del libanese Charles Malik nel ‘48, del filosofo Martin Buber - fu emarginato nei decenni di fondazione d’Israele.

Internazionalizzare il conflitto, anche quando è una via che s’impone, racchiude questi pericoli. Il pericolo, innanzitutto, che ciascuno - Europei, Russi, America, Iran - usi il Medio Oriente per ritagliarsi un profilo non tanto regionale quanto mondiale, non tanto politico quanto ideologico. Il pericolo di usare parole inadatte ai rapporti tra Stati come l’amore per Israele o Palestina, o come sovranità e la stessa parola internazionalizzazione, che è vocabolo facilitatore ma anche corruttore, deresponsabilizzante. Perché l’internazionalizzazione facilita paradossalmente la grande bugia delle sovranità assolute, i nazionalismi d’Israele e degli arabi-musulmani. I dirigenti israeliani hanno cominciato a capire il dramma della finta sovranità, decidendo prima il ritiro dal Libano poi la parziale rinuncia a Gaza. Ma lo hanno fatto in modo unilaterale, senza scegliersi interlocutori con cui negoziare, e anche quest’unilateralismo (criticato prima ancora che da D’Alema da tanti pensatori israeliani) è figlio di illusioni di sovranità. Gli arabi estremisti ancora non si muovono, invece. La cosa da loro tuttora incompresa è che le lettere di Ahmadinejad all’Europa sono completamente fuori tempo. Gli europei hanno preso congedo dal nazionalismo: è perché hanno visto i suoi disastri che hanno creato un’Unione sovrannazionale, non molto diversa dalla Federazione sognata per la Palestina da Magnes e dai suoi rari eredi.

Prima o poi anche il Medio Oriente dovrà seguire quell’esempio, accorgendosi che la sovranità classica è mortifera, anche quando si scioglie nell’universalismo pseudoreligioso. Potranno farlo se vedranno persone e uomini, nelle terre circostanti. Se capiranno che né Europa né America possono sacrificare gli ebrei, per la seconda volta nella storia. Se capiranno che una marionetta costretta a guerre esistenziali non è più neppure una marionetta, ma un capro espiatorio. Se capiranno che dalle esperienze d’Europa potrà venire un giorno una garanzia meno precaria: una garanzia fondata sulla limitazione delle sovranità medio orientali, e non su una posticcia sovranità che permette a Washington di proteggere sporadicamente Israele, ma anche di usarlo a propri fini.


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