Occidente, sei terrorista anche tu...
di ADONIS*
Non identifico gli ebrei con il sistema politico israeliano, cosi’ come non identifico gli arabi con i loro sistemi politici. Parlo pertanto del sistema israeliano, non degli ebrei, e del sistema arabo e non degli arabi.
Dico cio’ poiche’ sono consapevole del fatto che guardare ad un sistema indipendentemente dal popolo che rappresenta, richiede una discussione molto articolata.
Per il Libano questa guerra ha molti significati, e sono diversi da quelli che assumono per gli altri sistemi arabi. Questa guerra e’ stata dichiarata per la necessita’ di combattere il terrorismo, rappresentato, in questo caso da Hezbollah.
Ne e’ risultato un conflitto contro il Libano e non contro quel partito. Hanno distrutto gli aeroporti, i porti, le strade, i ponti, migliaia di palazzi e molte infrastrutture agricole, turistiche e industriali libanesi. Ha anche causato l’esodo di un milione di cittadini, la morte, la dispersione e la mutilazione di centinaia di persone.
Senonche’ questa distruzione materiale del Libano non ha prodotto, come si credeva, la dispersione nel senso letterale e politico del partito, e quindi il frazionamento e il moltiplicarsi di conflitti interni anticipatori di una nuova guerra civile. Tutto al contrario, l’unita’ e la solidarieta’ tra i libanesi e’ cresciuta come pure la consapevolezza che il sistema israeliano e’ disumano, indifferente nei confronti degli esseri umani e dei loro diritti, ed e’ anche insensibile verso tutto cio’ che e’ civilta’. Si e’ pertanto accresciuto l’odio e l’ostilita’ contro questo sistema. Un solido e forte ostacolo si e’ venuto a creare tra questo e l’idea della pace, spiace molto ma il sistema israeliano ne e’ la causa.
A cio’ si aggiunge il sentimento concreto e fiero per l’eroismo dimostrato dai libanesi nel resistere all’invasione israeliana, nel contrastarla dissipando la certezza dell’"invincibile esercito israeliano". Il senso piu’ profondo di quanto e’ successo e’ che questa invasione ha radicato nei libanesi la volonta’ di essere uniti in un esempio unico di democrazia nel Medio oriente arabo. Ha confermato questo modello fondato sulla pluralita’ culturale, sulle differenze umane, aperto verso l’altro, diversamente da cio’ che vediamo in Israele e nella maggior parte dei Paesi arabi.
A cio’ aggiungo che la violenza della distruzione e il coraggio della resistenza ha commosso gli arabi, in particolare l’ambiente culturale che e’ stato vicino e solidale con il Libano; si e’ cosi’ rivelato l’ampio distacco esistente tra questo ambiente e i sistemi politici arabi che hanno dimostrato di essere strutture vuote, prive di alcun rapporto con la vita, la cultura, la storia presente e futura della gente.
Voglio poi sottolineare l’importante risveglio culturale e politico nell’Occidente europeo, negli Stati Uniti, nell’America latina e in molti stati asiatici - che ha condannato questa guerra devastante condotta per due soldati che sarebbe stato possibile liberare attraverso trattative, come e’ avvenuto in precedenza, e come operativamente accadra’ adesso.
Se accostiamo questo risveglio critico nei confronti di Israele con quanto detto prima, ci appare chiaro l’orrore dell’operazione disumana fatta dal sistema israeliano contro il popolo libanese; allo stesso modo appare chiaro che aumenta la sua violenza e la barbarie, e che la sua politica si allontana dalla sensibilita’ dei popoli del mondo.
Quanto al significato di questa guerra per gli altri sistemi arabi, e’ palese che gli Stati Uniti ne hanno convinto alcuni a credere che era contro il terrorismo e quindi serviva ad aiutarli. In tal modo questi sistemi si sono allineati con il sistema israeliano nei contenuti. Ne risultano due questioni: la prima e’ che questi sistemi arabi e quello israeliano non sono capaci di combattere il terrorismo se non con un altro terrorismo.
L’oscurantismo non si combatte con un altro oscurantismo, la forza delle armi non puo’ dissolvere la forza della fede, indipendentemente da quello che ne e’ il contenuto o lo scopo.
Questo vuol dire che la violenza non si vince con la violenza, come fa la politica americana e dei suoi alleati. Significa anche che la lotta al terrorismo con questi mezzi americani non fa altro che potenziarlo e consolidarlo, rafforzando le condizioni per la sua diffusione e crescita. La seconda questione e’ che per combattere una malattia dobbiamo conoscerne le cause. Allora quale e’ la causa del terrorismo? Gli Stati Uniti e i loro alleati non vogliono porsi questa domanda ne’ vogliono ascoltarla.
Invero l’obiettivo diretto degli americani oggi e’ la lotta al "terrorismo arabo-islamico", ma l’arma potente ed efficace per realizzarlo e’ un’altra, anzi due: la prima e’ riconoscere di fatto e concretamente i diritti dei palestinesi e permettere loro materialmente di costruire uno Stato indipendente; la seconda e’ smettere di ostacolare la creazione di sistemi arabi veramente democratici.
Sin dalla fondazione dello Stato i leader israeliani hanno dimostrato, e continuano a dimostrare nei fatti e nelle opinioni, di non volere vivere una pace giusta e stabile ne’ con i palestinesi ne’ con gli arabi. E questo malgrado le sofferenze patite dai palestinesi da oltre mezzo secolo nella loro terra e in esilio, per difendere i loro legittimi diritti; e nonostante il riconoscimento di Israele da parte di molti regimi arabi, o in accordo con la dichiarazione delle Nazioni Unite, o per stabilire relazioni diplomatiche e commerciali, o per entrambe le ragioni. Tutto cio’ e’ sembrato un dovere degli arabi, dovuto per amore o per forza.
Cosi’ per mezzo secolo i leader israeliani non hanno guardato gli arabi in modo realistico ma attraverso la rappresentazione che ne hanno di loro, o come un patrimonio che va controllato o di cui bisogna privarli. Oppure come territorio strategico da governare poiche’ loro non ne sono capaci. O ancora come persone che in un modo o in un altro bisogna usare: operai, agenti, servi. Tutto questo perche’ il sistema israeliano non considera che gli arabi abbiano una dimensione umana ne’ civile.
Sappiamo tutti che la memoria occupa il primo posto nella vita, nella storia e nella cultura degli ebrei; la cosa strana e’ che il sistema israeliano cancella da questa memoria tutto cio’ che lo lega agli arabi. Non ricorda la storia degli avi da cui discendono che ad ogni livello sociale hanno convissuto con i fratelli arabi a Sana’, Mecca, Medina, Damasco, Bagdad, Beirut, Cairo, come nel Maghreb arabo e in Andalusia. E quando gli arabi sono stati scacciati via dall’Andalusia anche gli ebrei sono stati mandati via, come se fossero un solo popolo. E’ vero che hanno avuto dei contrasti, che si sono battuti e si sono sfidati, ma cio’ e’ accaduto cosi’ come capita all’interno di una stessa famiglia o di un unico clan, o tra diversi clan arabi. Conducevano la vita in comune. Nessuno chiedeva l’espulsione o la soppressione dell’altro, cosi’ come, ad esempio, oggi il sistema israeliano fa con i suoi vicini arabi in Palestina.
La cosa piu’ strana e’ che i Paesi occidentali che sostengono Israele non si interrogano per niente sul comportamento del sistema israeliano verso gli arabi. Non si chiedono, di conseguenza, quale ruolo abbia il sistema israeliano, con i suoi atti barbari prevaricatori e persecutori, nel provocare le reazioni che si generano tra gli arabi a cominciare dalla delusione e dal distacco per arrivare all’odio, al rifiuto di fare la pace con un sistema che li umilia, e infine alla violenza e alla rigidita’ fondamentalista, con tutte le sue varianti ideologiche e violente, terroristiche.
Ed ecco che questi Paesi guardano al terrorismo come se si fosse autogenerato, o come se fosse un punto casuale, o come se si trattasse di uno degli aspetti dell’esistenza metafisica senza causa ne’ origine. Oppure tutte queste motivazioni insieme nella volonta’ gratuita di distruggere l’Occidente e l’alleato sistema israeliano. Quanto a come sia nata questa "volonta’" e quali ragioni nasconda lo sanno soltanto gli Stati Uniti, Israele e forse Dio! Questo approccio continua in modo folle, stupido e ingiusto a mettere insieme il terrorismo con la liberazione e il desiderio di indipendenza della Palestina. La verita’ e’ che noi oggi abbiamo paura che una critica, ad esempio alla cultura israeliana o allí’spetto religioso o sociale, sia considerata come una forma di terrorismo o di antisemitismo.
No, il sistema israeliano non potra’ vincere gli arabi, ne’ convincerli con la sua capacita’ di seminare cadaveri per le strade della Palestina e del Libano (o altrove - chi sa?) e neanche con la sua forza di distruggere esseri umani, aeroporti, porti, strade eccetera.
No, l’uomo non puo’ cambiare ne’ cambia il suo nemico, a meno che non trasformi il proprio se’ a partire da se stesso. E il sistema israeliano e quello arabo non possono stabilire un dialogo sincero e costruttivo se entrambi non si liberano dalla distruzione interiore che ne colma la mente e il corpo; e allo stesso modo non si liberano dei cadaveri e delle mine seminati nel loro profondo dalla memoria, dalla storia e dagli eventi.
In questo clima creato dal sistema israeliano, ogni cosa da’ agli arabi l’occasione di interrogarsi sul loro destino umano e civile. Un clima di guerra - disumano e incivile, di cui abbiamo visto (fino adesso) l’esempio piu’ palese in Libano. E non parliamo di Palestina, ne’ dell’orribile muro di separazione, ne’ della continua distruzione della vita in Palestina.
Come si puo’ parlare della convivenza arabo-israeliana in questo clima? E’ la stessa realta’ a dare la risposta: i sostenitori di questa convivenza - la pace tra gli ebrei e gli arabi - sono soltanto una piccola minoranza che va riducendosi. Ed e’ una minoranza prevalentemente emarginata e talvolta rifiutata.
Forse Israele puo’ vincere, temporaneamente, ma non puo’ convincere nessuno della sincerita’ della sua pretesa. E la sua incapacita’ di convincere aumenta con la sua capacita’ di vincere. Solo che la vittoria, come ho detto, e’ temporanea: essa e’ da una parte ostile e da un’altra parte e’tecnica. Israele e i suoi sostenitori devono ricordarsi che anche lo schiavo si ribella e che la vittoria finale non e’ della tecnica ma dell’uomo.
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RIFLESSIONE. ADONIS: LA SCELTA DELLA CONVIVENZA, LA SCELTA DELL’UMANITA’
[Dal quotidiano "Liberazione" del 17-18 agosto 2006. La traduzione e’ di Francesca Corrao. Adonis (nome d’arte di Ali Ahmad Sa’id Isbir), nato a Qassabin in Siria nel 1930, studi a Damasco e a Beirut, lunghi soggiorni a Parigi, testimone della guerra civile libanese, e’ uno dei maggiori poeti viventi. Vari suoi volumi di liriche e di saggi sono stati tradotti in italiano, tra essi: Libro delle metamorfosi, Fondazione Piazzolla, Roma 1987; Introduzione alla poetica araba, Marietti, Genova 1996; Un desiderio che avanza sulle mappe della materia, S. Marco dei Giustiniani, Genova 1997; Memoria del vento, Guanda, Parma 1998; Siggil, Interlinea, Lugano 2000; Scritti sulla poesia araba, Guanda, Parma 2001; Cento poesie d’amore, Guanda, Parma 2002; La preghiera e la spada, Guanda, Parma 2002. Su Adonis cfr. lo studio di Francesca M. Corrao, Adonis. Nella pietra e nel vento, Mesogea, Messina 1999]
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO
Numero 1396 del 23 agosto 2006
PRIMAVERA DEI POETI. INTERVISTA AD ADONIS.
AFGHANISTA: CHE FARE?! RICORDAR-SI SEMPLICEMENTE CHE SIAMO ITALIANI E ITALIANE!!!
Adonis è il nome letterario del poeta siriano Ali Ahmad Said Esber (86 anni)
Il poeta siriano: “Nella società islamica la riscossa arriverà dalle donne”
di Emanuela Minucci (La Stampa, 15.05.2016)
«Se l’uomo non verrà liberato dalla donna non sarà mai libero. Secondo il misticismo il fondamento dell’universo, la base dell’esistenza è la femminilità. Nella cultura pre-islamica le prime, tre grandi divinità erano donne: per cui io credo che la libertà arriverà dalla donna o non arriverà affatto».
Sono applausi di speranza e ammirazione quelli che hanno ripetutamente scosso la Sala Azzurra del Salone del Libro di Torino mentre parlava Adonis, poeta siriano considerato l’autore più significativo della lirica araba.
A intervistarlo sul suo ultimo libro Violenza e Islam edito da Guanda, è il direttore de La Stampa Maurizio Molinari che ha parlato del messaggio del Corano, del fallimento delle primavere arabe, delle derive dell’Islam radicale. Partendo dal fatto che «attualmente c’è una profonda differenza fra ciò che è sciita e ciò che è wahabita», Adonis ha raccontato la terza via: la rivoluzione silenziosa del misticismo respinta con sdegno dai rigoristi.
Quindi Molinari ha chiesto ad Adonis «quale ruolo possono avere i musulmani che vivono in Occidente per fermare la violenza e il terrorismo». Il poeta ha risposto che forse si deve «ripensare la situazione dei musulmani in Europa: vanno integrati , bisogna che la moschea non diventi un centro culturale, ma assuma solo un ruolo religioso, quello che è culturale esiste già nella società». E ancora: «Poi bisogna che l’Europa riveda la politica dell’accoglienza. I colonizzatori dovrebbero avere un debito etico».
Come sarà l’Islam fra vent’anni? Secondo Adonis, «l’Islam è un potere e una legge». Ma spiega: «Personalmente non credo né al potere né alla legge che sostiene il potere». «L’Islam come creazione è finita: è solo una forza economica e dispone di uno spazio di potere».
Tutte le guerre arabo-arabe
In un libro-intervista in uscita da Guanda il poeta siriano sottolinea la continuità della violenza nella storia musulmana fin dalla nascita del primo califfato
di ADONIS (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.11.2015)
Houria Abdelouahed: Si parla sempre più spesso di radicalizzazione.
Adonis: Non si può comprendere questo fenomeno se non si fa lo sforzo di ripensare la nascita dell’islam. La violenza è intrinsecamente legata alla nascita dell’islam, che sorge appunto come potere. Questa violenza ha accompagnato la fondazione del primo califfato e attinge a certi versetti coranici e ai primi commenti al Testo.
H: L’Isis ci riporta a un’epoca in cui la gente o si convertiva all’islam o moriva.
A: Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi.
H: Ma perché l’islam ha resistito al cambiamento?
A: Non abbiamo tenuto conto, o non abbastanza, della natura umana: il potere, il denaro e la violenza. L’islam ha risvegliato nell’essere umano l’istinto del possesso.
H: Vale a dire: aggiungere ai tentativi di risposta la dimensione psicologica e parlare del pulsionale. Il testo fondatore e i primi testi dei commentatori hanno permesso al maschio di soddisfare pienamente le proprie pulsioni, in particolare quella di possesso e quella sessuale. L’idea del paradiso come luogo di soddisfazione assoluta dove la nozione di mancanza non esiste è indice di una fantasia o di un rifiuto della castrazione. La fondazione ha colto l’essenziale nella natura della pulsione e della fantasia. Si può parlare di una malattia dell’islam, come ha fatto Abdelwahab Meddeb?
A: In La malattia dell’islam, Meddeb parla anche di un islam bello e vero.
H: Ma all’interno dell’universo musulmano ci sono la mistica, la filosofia, la letteratura...
A: Questi movimenti intellettuali non appartengono all’islam in quanto stato o istituzione. I mistici e i filosofi hanno usato l’islam come un velo o come un mezzo per sfuggire ai processi e alle condanne. Dal testo coranico non emerge alcuna filosofia.
H: Certo, la filosofia viene dalla Grecia e la mistica ha attinto a diverse fonti: il platonismo, il neoplatonismo, il cristianesimo, la lingua... Ma coloro che hanno forgiato questo pensiero vivevano all’interno della società musulmana.
A: I mistici dell’islam citavano il Testo per giustificare le loro interpretazioni, ma leggendo le loro opere ci rendiamo conto di quanto siano distanti dal testo coranico. Ibn ‘Arabi, per esempio, ha forgiato un sistema di pensiero che rompe radicalmente con la concezione religiosa e musulmana dell’uomo e dell’universo.
H: Ibn ‘Arabi era un grande filologo. Il suo interesse non era rivolto ai precetti, ma a ciò che la lingua nasconde nei suoi nuclei semantici. Era, come te, un amante della lingua. Il suo pensiero era imperniato su ciò che la lingua può esprimere e sulle realtà che non può dire.
A: Era un poeta e non aveva alcun rapporto con la dottrina, né col dogma, né col pensiero religioso. I suoi scritti, come le parole di al-Hallaj, non avevano niente a che fare con il pensiero ortodosso e con l’insegnamento religioso. Era una strategia e una forma di autodifesa. In fondo, è quello che facciamo anche noi: cerchiamo un islam vero e grande per proteggerci dalla violenza. Si può persino dire che Ibn ‘Arabi ha liberato la lingua dall’islam. I pensatori appartenenti alla società araba erano obbligati a indossare una maschera chiamata «islam» al solo scopo di aggirare l’ordine di uccidere qualunque musulmano abbandonasse la propria religione. Quelli che non l’hanno fatto hanno subito, come al-Hallaj, persecuzioni e condanne a morte, per non parlare della distruzione delle opere. Niffari, per esempio, ha scritto un libro che ha dovuto aspettare mille anni prima di essere scoperto. Ancora oggi, pochi lo conoscono.
H: Anche quando un libro viene pubblicato, il suo autore resta sconosciuto. In Egitto una fatwa si è opposta alla riedizione dei Futuhat al-makkiyya (Le rivelazioni meccane) di Ibn ‘Arabi, pubblicati per la prima volta dall’emiro ‘Abd el-Kader. Ciò detto, penso che Averroè, Abu Bakr al-Razi, Ibn al-Rawandi, Niffari ... facciano parte della società araba, in quanto dissidenti.
A: La mistica e la filosofia non fanno parte del pensiero islamico, che è composto solo di fiqh (giurisprudenza) e shar‘ (Legge).
H: Visto che abbiamo parlato di al-Hallaj, mi piacerebbe ricordare queste parole meravigliose: quando Satana si rifiuta di prostrarsi davanti ad Adamo, dicendo che non può cambiare l’oggetto del suo amore, Dio gli dice: «Ti torturerò in eterno», e Satana risponde: «Non mi guarderai?», «Sì» dice Dio. «Allora il tuo sguardo mi innalzerà al di sopra del supplizio. Fa’ di me ciò che vuoi». Al-Hallaj sarà l’anima dannata per amore. E questo scambio fra il divino e l’innamorato stimola un’intera riflessione sulla lingua del mistico, sul segreto, sull’amore, sulla trasgressione e la femminilità.
A: Ci rendiamo conto che la femminilità, come il femminino, travalica la donna e costituisce una posizione. Anche la divinità rappresenta uno stato e una posizione. La femminilità è l’universo stesso. Non è questo, però, l’immaginario dell’islam ufficiale. La mistica ha detto l’amore del femminile e della donna. Ha messo sottosopra il pensiero sulla questione dell’alterità e della soggettività. Invece, nel Testo non c’è alcuna soggettività.
H: Intervenendo a una trasmissione televisiva, hai detto che il dialogo fra Dio e Satana era molto democratico. Erano in disaccordo, ma si parlavano. Dio avrebbe potuto annientarlo seduta stante, ma ha lasciato che dicesse la sua.
A: Oggi non abbiamo neanche più questa possibilità. I musulmani non rispettano nemmeno il loro Testo e il dialogo non è più ammesso. Il credente pensa di detenere la verità assoluta. Perciò, secondo lui, ogni altra credenza è da rifiutare. Questa forma di religiosità ha trasformato la politica islamica in una techne il cui fine ultimo è il potere e la ricerca dei modi per conservarlo. Tutta la storia degli arabi lo conferma. La loro è una cultura di potere. Oggi, da un punto di vista politico ed economico, gli arabi hanno la possibilità di comprarsi il mondo grazie al gas e al petrolio. Tuttavia, non hanno né Averroè, né Ibn Khaldun, né al-Ma‘arri.
A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, c’è chi sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 27.11.2015)
«Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre. Chi ha delle visioni e scambia i sogni e le proprie fantasie per profezie, è un entusiasta. Chi scambia la propria follia per un impegno ad uccidere, è un fanatico». Lo scrive Voltaire nel 1764.
Il fanatismo ha radici antiche, profonde. E ubbidisce a una drastica e volontaria semplificazione della realtà. Chi conosce la complessità del mondo, sa che il diverso va prima di tutto conosciuto, poi avvicinato, per confrontarsi, per discutere, per contrattare. Il mondo è ampio e diversificato. Chi semplifica, non vuole conoscere l’altro, vuole solo eliminarlo. Tagliare una testa è piu semplice, piu chiaro, più decisivo che dialogare. Ma per tagliare le teste bisogna disporre di armi, libertà di movimento e potere; per questo il fanatico cercherà di procurarsi armi e denaro, senza tanti scrupoli, con l’imbroglio, il furto, la rapina se necessario. Per il semplificatore, il fine giustifica sempre i mezzi.
«Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile», continua Voltaire, «i fanatici sono persuasi che il Dio che li ispira sia al di sopra delle leggi e che il loro entusiasmo sia la sola legge che devono ascoltare... Cosa rispondete a chi dichiara che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?».
Riconosciamo questa logica, che oggi praticano i ragazzi dell’Isis, altrimenti detto Daesh. È una logica perversa, ma seducente nella sua radicale brutalità. Ci vuole intelligenza, sensibilità, rispetto, pazienza, per stabilire dei rapporti reali col mondo. Il Dio semplificatore, come la regina folle del Paese delle Meraviglie, non conosce né rispetto, né pazienza, ma solo un bisogno sbrigativo e spietato di imporre la propria funebre volontà: via quella testa, via quell’altra! Presto, presto, tagliate, tagliate! «Sono di solito i furfanti a guidare i fanatici e a mettere il pugnale nelle loro mani», continua Voltaire nella sua lucida analisi che sembra scritta oggi : «Le leggi, la religione, non valgono contro questa peste degli animi. La religione, lungi dall’essere per loro un cibo salutare, si trasforma in veleno... essi attingono i loro furori dalla stessa religione che li condanna».
Si ricordano due avvenimenti che sono rimasti incisi a fuoco nella memoria storica, per la loro atrocità. Il caso dei protestanti fatti a pezzi dai cattolici al tempo della Regina Elisabetta: «I borghesi di Parigi corsero la notte di san Bartolomeo ad assassinare, scannare, fare a pezzi e gettare dalle finestre i loro concittadini che non andavano a messa». E quello della setta di eretici ismaeliti che, guidati da un famoso «Vecchio della montagna», diffusero, nel secolo XI, il terrore in tutto il Medio Oriente con i loro assassini a freddo, contro chiunque giudicassero non in linea con il loro Dio. Si chiamavano Hashishiyyin (uomini dediti all’hashish), da cui deriva la parola «assassino». Il Vecchio della montagna, Hasan i-Sabbah, prometteva loro un paradiso di freschi ruscelli e di vergini disponibili e innamorate, se si fossero lasciati uccidere; ma solo dopo avere pugnalato e sgozzato un buon numero di miscredenti. Il Vecchio aveva un carisma straordinario e i ragazzi andavano a morire pieni di entusiasmo, sicuri della meravigliosa ricompensa. Ora ci chiediamo: erano solo criminali o ragazzi bisognosi di assoluto in un mondo che aveva perso ogni rapporto con l’utopia? Ragazzi che scambiavano il coltello per la chiave che avrebbe aperto loro le porte del paradiso?
La cronaca non parla mai del genere femminile. Non era pertinenza delle donne tagliare le gole. Le donne vinte diventavano schiave, proprietà del vincitore assieme alle pecore, ai cavalli, alle mucche. Merce pregiata che si poteva comprare, vendere, utilizzare a proprio piacimento. Solo quando si ribellavano all’orribile destino, venivano sgozzate pure loro.
Il fanatismo non appartiene a una cultura piuttosto che a un’altra, non ha niente a che vedere con l’osservanza di una fede. Forse non è neppure una espressione dell’odio che anima gli esseri umani. Chi odia è anche capace di amore. Il fanatico respinge sia l’uno che l’altro. Piuttosto si direbbe un bisogno profondo e non ascoltato di trascendenza. Un bisogno che, non soddisfatto con umanità, si trasforma in un mostruoso innamoramento della morte e del nulla.
Il continuo battersi il petto gridando che siamo noi i responsabili, siamo noi i colpevoli, suona un poco ridicolo a dire la verità e anche presuntuoso: come se fossimo noi a determinare le svolte nelle coscienze degli esseri umani. Perché dovremmo togliere a questi ragazzi la libertà di scelta e di azione? Anche se loro non riconoscono il libero arbitrio, anche se sostengono che è tutta colpa di chi ha cominciato per primo ad aggredire, che sia il crociato o il colonialista, è presuntuoso ritenere che siamo responsabili di quello che fanno. Certamente l’Europa ha compiuto dei grandi errori, ma ciò non toglie che ogni generazione, ogni persona, risponde delle proprie scelte e delle proprie azioni. Le giustificazioni suonano paternalistiche e grottesche.
Le religioni si sono sempre divise, anche con ferocia, su questo problema di fede: Dio esiste in quanto essere pensante, con un corpo riconoscibile, o è una entità soprannaturale, una mente che comprende tutto e tutto capisce, ma non può intervenire perché è piu simile al cosmo infinito che all’uomo finito? Le piu feroci guerre esplose all’interno delle fedi monoteiste si basano su questo punto: se Dio è onnipotente, perché permette il male? Se invece Dio può solo il bene, poiché il male spetta al demonio, allora Dio non è onnipotente, ma solo una parte che combatte contro un’altra. E come distinguere il bene dal male? Ed esiste un male universale, riconosciuto da tutti? Quel bene e quel male stanno in un Libro Sacro o nella coscienza degli uomini?
I Sunniti e gli Sciiti si sono combattuti per secoli su questi interrogativi. Fagocitando e distruggendo altri gruppi religiosi come i Mutaziliti (nel IX secolo) e le varie tendenze mistiche dei Sufi. Chi crede che la volontà divina sia simbolica e ideale, è più disposto ad accogliere e adattarsi alle trasformazioni storiche. Chi invece concepisce Dio come un Padre assolutista, tirannico e geloso, è portato a ritenere che la realtà sia immobile, che la storia non conti, e la ragione non abbia alcun valore. Di solito le grandi Chiese hanno scelto l’interpretazione simbolica e idealistica, (spesso paradossalmente unita a una precettistica rigorosa), perché ha permesso loro di adeguarsi ai cambiamenti, di mutare visione del mondo, di diventare più umane e di durare nel tempo.
Ogni tanto però, non si sa come, esplode un corto circuito. A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, qualcuno sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo. Pretendendo di applicare i precetti del VII secolo dopo Cristo. Come se da noi a qualcuno venisse in mente di applicare le regole della Bibbia, quando la schiavitù era legale, la vendetta era l’unica forma di giustizia e gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati.
Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza? Per questo è stato crocefisso, ma alla fine il cristianesimo ha trionfato sui cultori della Bibbia. E come fingere di non sapere quanto è costato raggiungere il concetto della divisione fra Stato e Chiesa? Quanto è stato doloroso stabilire i valori dei diritti civili?
L’accettazione della immanenza o meno di un Libro Sacro sta alla base della saggezza di una religione. E certamente papa Francesco questo l’ha capito bene e sta dando un esempio straordinario. Ma la logica, la tolleranza, il rispetto, suonano come parole blasfeme per chi ha messo al posto del cuore una spada appuntita, per cui ogni abbraccio diventa una ferita mortale.
Voglio finire queste brevi riflessioni, da una parte con le parole di Voltaire, che ci raccomanda, nei momenti di crisi, di affidarci alla filosofia, perché i filosofi non fanno la guerra ma ragionano e il ragionamento è «il solo bene che abbiamo da contrapporre alle furie degli invasati». E, dall’altra parte, con le parole del poeta Ibn Arabi, uno dei piu grandi poeti del XIII secolo, deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie: «Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede».
Incredibile Adonis: “Assad un democratico
I milioni di profughi sono semplici migranti”
In Germania all’anziano poeta siriano verrà consegnato il prestigioso premio Remarque.
E gli intellettuali islamici insorgono: “Insulto al concetto di pace, offende le vittime del regime”
di Tonia Mastrobuoni (La Stampa, 28.10.2015)
Bashar al-Assad non è il dittatore sanguinario della Siria: è un presidente democraticamente eletto. E milioni di siriani che scappano dal Paese sono semplici migranti, non profughi che scappano da una feroce guerra civile. Quindi, i ribelli che stanno cercando di cacciare Assad non guidano affatto un’insurrezione giustificata da un regime. E in ogni caso sono troppo estremisti. Il guaio della Siria è che è minacciata da un complotto internazionale di forze oscure che vogliono distruggerla. Idee sconcertanti. Espresse pubblicamente da uno dei più grandi poeti viventi, Ali Ahmad Said, in arte Adonis. In varie occasioni, tra cui una lettera pubblica e un’intervista al quotidiano di Beirut As-Safir, l’intellettuale siriano-libanese, noto nel mondo arabo anche per le sue battaglie a favore della laicità e della parità tra i sessi, ha difeso Assad.
Quando la città di Osnabrück ha fatto sapere di volergli assegnare, il 20 novembre, un importante premio, l’Erich-Maria-Remarque-Friedenspreis, in Germania è scoppiata una polemica infinita. Peraltro il premio andrà anche a Giusy Nicolini, la coraggiosa sindaca di Lampedusa. Raggiunto al telefono, anche il traduttore e massimo studioso di Adonis in Germania, Stefan Weidner, prende le distanze: «Adonis merita ogni premio letterario del mondo, ma non un riconoscimento politico come questo, dedicato all’impegno per la pace».
Weidner rivela di aver suggerito anche alla giuria del premio di evitare una decisione del genere, ma è rimasto inascoltato. L’orientalista fa notare che il poeta 85enne, che vive a molti anni a Parigi, potrebbe «non avere più le idee molto chiare» sul Paese di origine, ma non esclude che la sua difesa del regime possa essere legata al fatto di essere alawita come Assad, di appartenere alla stessa minoranza sciita del dittatore siriano. In ogni caso per Weidner il premio diventa in questo modo «una provocazione. E sarebbe interessante sapere cosa ne pensano gli intellettuali siriani».
In Germania la notizia del riconoscimento intitolato a Remarque, lo scrittore che dedicò il suo romanzo più celebre agli orrori della Grande guerra, è deflagrata come una bomba. Il dissidente siriano in esilio Ahmad Hissou, giornalista e scrittore che lavora per la Deutsche Welle, lo ha definito «un insulto al concetto di pace, che offende i siriani che sono stati vittime del regime di Assad».
Il fatto che Adonis abbia definito «eletto» un dittatore, in un Paese che non conosce libere elezioni dal 1963, ha scandalizzato anche altri intellettuali. In una lettera alla Frankfurter Allgemeine Zeitung il filosofo siriano e oppositore del regime Sadik Al Azm ha addirittura messo in discussione la laicità del poeta, dimostrando che il suo sostegno all’ayatollah iraniano Khomeini durò molto oltre la rivoluzione del 1979, quando la gran parte degli intellettuali che avevano appoggiato la rivoluzione ne aveva già preso le distanze: continuò a sostenere il regime degli ayatollah «ciecamente fino agli Anni Novanta».
Il Comitato centrale dei musulmani in Germania ha chiesto che il premio a Adonis venga cancellato: «Adonis è un buon letterato ma un pessimo attivista per la pace» che «non merita il premio». E Navid Kermani, lo scrittore tedesco-iraniano che ha appena ricevuto il prestigioso Friedenspreis, il «premio per la pace» degli editori tedeschi, e che avrebbe dovuto tenere la laudatio di Adonis, si è rifiutato di farlo.
La mia Siria ostaggio dell’oscurantismo religioso
di Adonis (la Repubblica, 19 luglio 2012)
La tragedia che si consuma in Siria è quella di un Paese dalla storia e dalla civiltà plurimillenaria, che aveva saputo dotarsi del tessuto sociale e culturale più avanzato del mondo arabo. La domanda è questa: che fine faranno i passi essenziali compiuti verso la modernità, il superamento degli arcaici linguaggi delle “minoranze”, delle “religioni”, dell’assoggettamento della donna alle “leggi” di una pretesa fede? Infatti, se si parla di Siria è imperativo distinguere fra i regimi, passeggeri, e la società.
Il regime è indifendibile come tutti i regimi arabi, che vanno cambiati. Ma non è più questo l’essenziale. La catastrofe delle vittime servirebbe a niente se non si affrontasse la questione centrale: il rinnovamento della società.
La rivoluzione è muta al riguardo. Non dice cosa, né tanto meno come, vuole cambiare; non chiarisce come sarà il “dopo regime”. Il discorso unificante oggi è divenuto piuttosto un discorso regressivo.
Affiora un linguaggio medievale, che insiste sulle cosiddette “minoranze”, propone divisioni di sunniti-sciiti, alawiti-cristiani, anziché promuovere “la cittadinanza”, il concetto del “cittadino”, ad esempio cristiano, dotato degli stessi doveri dei sunniti ma anche degli stessi diritti.
A cosa serve una rivoluzione in un Paese arabo se non si realizzano due cose essenziali? Primo, i diritti della donna, a cominciare dalla sua liberazione dalla legge religiosa; secondo, la separazione della religione da tutto ciò che è politica, società, cultura, affinché la religione sia un’esperienza individuale, slegata dalle istituzioni.
Un vero rivoluzionario non può parlare questo linguaggio, tanto più in un Paese, come la Siria, dove da millenni si contano oltre 20 confessioni religiose. Non può accodarsi alla straordinaria regressione cui oggi assistiamo nel mondo arabo. Dopo 200 anni d’impegno e di lotta per la modernità, per il progresso, la liberazione, da quando Muhammad Ali in Egitto, fra Settecento e Ottocento, aprì le porte della modernità, ora quelle porte sembrano chiudersi.
Sarebbe davvero tragico se ci liberassimo di un fascismo militare per insediare al suo posto un altro fascismo di stampo religioso; se la rivoluzione in Siria fosse confiscata dagli interessi strategici internazionali, dove la guerra ora oppone due fronti contrapposti: da un lato l’Occidente, dall’altro Russia e Cina. A cosa servirebbe la nostra rivoluzione? E che tipo di rivoluzione diventerebbe, se guidata da forze esterne? Assoggettarsi alle ingerenze esterne, semmai, è anti-rivoluzionario.
È la prescrizione per una guerra civile, forse dettata da altri, con progetti disegnati altrove. E se è guerra civile, nessuno sa come andrà a finire: cosa succederà ai cristiani, alle minoranze, alle donne. Per tutto questo, l’opposizione deve parlare con estrema chiarezza, esprimersi sul futuro di questo grande Paese.
La Siria ha il diritto di avere un regime degno del proprio popolo. Il crimine oggi è la distruzione di quel popolo. Una parte di colpa è dell’Occidente, che va associandosi alle forze pro-religiose o apertamente religiose nel mondo arabo. Non mostra interesse per l’uomo, per i suoi diritti: sembra farsi guidare piuttosto dai propri interessi. Sembra che voglia operare affinché il mondo arabo resti, e la Siria piombi, nell’oscurantismo medioevale.
È un infinito bagno di sangue del quale siamo tutti responsabili
di Luigi Bonante (l’Unità, 19.07.2012)
CI SONO MOMENTI NELLA STORIA IN CUI NON SI PUÒ TENTENNARE, E DIVENTA MORALMENTE OBBLIGATORIO PRENDERE POSIZIONE. Questo, della battaglia di Damasco è uno di quelli: dopo più di 17 mila morti siamo alla stretta finale. Che sarà un bagno di sangue, del quale diciamolo chiaro siamo tutti responsabili. Le ragioni sono tantissime. Alcune vengono da lontano, e stanno racchiuse nell’isteria con cui gli Usa impostarono il dopo 11 settembre fatto di violenza cieca e assoluta incapacità politica.
L’Iraq è lì vicino, e abbiamo visto che tragedia è stata. Poi iniziò la «primavera araba», e a tutti noi sembrò che il vento della democrazia avesse incominciato a spirare in modo inarrestabile: così in Tunisia, così (più o meno) in Egitto, e poi in Libia, più brutalmente certo, ma Gheddafi era anche peggio degli altri dittatori. L’Occidente, l’Onu, la Nato, e quant’altri, dimostrarono la loro assoluta incapacità, sia da soli sia insieme, di risolvere o pacificamente o con eventuali limitati, ma perentori e definitivi interventi anche armati, le diverse situazioni critiche.
Su questo scenario la crisi siriana si stagliò nella sua paradossalità: per molti anni abbiamo blandito Assad pensando che mostrasse il volto gentile del dispotismo arabo; era moderno, laico, pacifico, e abbastanza taciturno. Dall’inizio della crisi, a lungo, in Occidente, abbiamo creduto che Assad avrebbe concesso un po’ di democrazia, tutti saremmo stati contenti e ci saremmo occupati d’altro. Ma le due classiche e decisive clausole dei problemi internazionali erano rimaste sul tavolo inevase: sono una, la questione politica, l’altra la questione giuridica.
Dal primo punto di vista, si è scoperto che non c’è accordo nel mondo sulle condizioni di intervento degli stati negli affari interni l’uno dell’altro. Se la Russia e la Cina si oppongono a ogni ingerenza, è perché hanno imparato la lezione dalla storia del mondo occidentale che ha sempre sostenuto che ogni Stato è padrone in casa sua (il principio del riservato dominio) e nessuno può imporre alcunché dal di fuori, e poi perché temono che la giustificazione dell’intervento potrebbe un giorno o l’altro essere usata proprio contro di loro, cosicché continuano a ritenere che la soluzione alla crisi siriana debba essere trovata all’interno.
Ma quando si capisce che tale volontà è inesistente e che la situazione sta degenerando, ecco che viene sollevata la leva giuridica: in effetti, sì, dobbiamo intervenire e far cessare questo massacro. Ma a chi tocca farlo? L’Onu ha le mani doppiamente legate: da una parte, ovviamente, dal potere di veto di Russia e Cina, che difendono improbabili soluzioni pacifiche e negoziali; e dall’altra dal suo stesso Statuto che, nel sempre evocato Capitolo VII, non lascia alcuno spazio di intervento militare.
Per ottenerlo, bisognerebbe dimostrare che la crisi siriana è una minaccia alla pace internazionale, ciò che con tutta la sua gravità essa però non è. La comunità giuridica aveva elaborato e votato nel World Summit del 2005 un grandioso principio relativamente alla «Responsabilità di proteggere», che scatterebbe in capo a tutta la comunità internazionale nel momento in cui si dimostrasse che un governo è impotente di fronte a una crisi acuta: la si era evocata nel caso libico, ma poi dovettero intervenire gli stati in prima persona e non in quanto tutori dell’ordine mondiale. A questo punto, insomma, il cane si morde la coda e la responsabilità giuridica ritorna nelle mani dei politici... Assad è condannato: dalla storia e anche dalla politica. È incredibile che non si renda conto della follia di cercare di restare al potere: chi mai potrà ancora amare un dittatore che ha causato la morte di decine di migliaia di persone? E che dire dei ribelli combattenti, patrioti ed eroici? E per favore, non chiamiamoli terroristi; i loro, in questi giorni, non sono attentati ma azioni di guerra che si valgono degli strumenti spietati di cui chiunque si è sempre valso in guerra.
Ma non è finita: anche sul piano meramente strumentale l’Occidente democratico deve interrogarsi: abbiamo davvero fatto qualche di buono e utile a favore della crescita democratica del mondo, abbiamo aiutato le democrazie giovani ed emergenti, senza ambiguità, senza interessi particolari, ma solo per il loro bene?
Perché abbiamo invece sempre venduto armi e tecnologie militari a tutti i dittatori che le chiedevano? Avevamo a cuore i nostri bilanci, o la pace mondiale? L’unica cosa che possiamo ancora fare è levarci in un grande e possente movimento di opinione popolare e democratico: Assad deve sapere che tutto il mondo lo condanna. Non importa se se ne dovrà andare vivo o morto. Quel che conta è che ceda il potere. Quel che conta è che i siriani possano decidere democraticamente il loro futuro.
Dalla concezione della scienza al senso dello Stato
Arabi e Occidente gli ostacoli al dialogo
di Adonis (la Repubblica, 5.12.2008)
Nelle tre fedi Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri.
Nella prassi tutto ciò è stato mutato in ideologia
Quattro ostacoli vanificano il dialogo umano, sincero e creativo tra le sponde orientale e occidentale del Mediterraneo, o per essere più precisi tra gli Arabi e l’Occidente. Questi ostacoli rappresentano la visione religiosa dell’uomo e del mondo, la concezione della conoscenza, della scienza e in particolare dell’aspetto tecnologico, del senso dello Stato e della prassi politica, dell’antico e reiterato conflitto tra il sacro ebraico e quello islamico, che adesso si manifesta sotto forma di conflitto tra Israele e Palestina.
Se veramente volessimo realizzare questo tipo di dialogo creativo, che non si basa sulla semplice tolleranza, per essere fondato invece sulla eguaglianza degli esseri umani, allora dovremmo innanzitutto eliminare questi ostacoli o almeno dovremmo adoperarci per rimuoverli nel dialogo e negli incontri. In questa sede è difficile analizzare nei particolari ciascun ostacolo per scoprirne le origini e predisporne il superamento. Perciò mi limito a fare alcuni accenni e a porre domande specifiche per ciascuno di essi.
In primis, per quanto concerne la visione religiosa dell’uomo e del mondo, e qui si intende la visione monoteista, sappiamo tutti che il monoteismo ha un suo modo esclusivo di concepire Dio. In ogni monoteismo Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi è stato mutato in ideologia, facendo della sua interpretazione l’unica via per conoscere Dio ad esclusione delle altre. Così, per il monoteismo, la parola divina si trasforma in uno strumento per il potere. E l’interpretazione è un potere culturale che diventa mezzo per fondare il potere politico-sociale.
Allora, prima di affrontare qualsiasi dialogo tra le religioni monoteiste, è necessario porre delle domande fondamentali: la rivelazione specifica di ogni monoteismo, la parola di Dio nella sua totalità, è da ora sino alla fine del mondo, o è parte del discorso di Dio capace di arrivare sino all’infinito? Si può circoscrivere la parola di Dio alla sola rivelazione, mentre si può affermare che Dio non parlerà né farà rivelazioni dopo quella ebraica, o quella cristiana o quella islamica, e ciò che ha detto - a ciascuna di loro - è l’ultima rivelazione e quindi il sigillo delle verità? È possibile che Dio doni una rivelazione migliore di quelle svelate alle religioni monoteiste, o no? Se la risposta fosse affermativa allora i testi monoteistici non sarebbero più assoluti. Se la risposta fosse negativa, allora noi limiteremmo la libertà di Dio: allo stesso Dio non resterebbe che quel che ha detto.
Sembra quindi che il cosiddetto dialogo tra le religioni monoteiste si fondi su una differenza radicale, che consiste nel fatto che ciascuna di esse esclude l’altro nella propria visione di Dio. Come è possibile che vi sia dialogo tra parti che si negano a vicenda? Vi è dunque una egemonia teologica sul pensiero e sulla vita a un tempo. Il monoteismo non è semplicemente una conoscenza religiosa che domina la mente e il pensiero ma è anche un modo per controllare lo stesso corpo dell’uomo e possederne la vita in quanto ne possiede il pensiero. Esso è un potere biologico oltre che un potere culturale-mitologico. Il pensiero mediterraneo si muove quindi in una prigione teologica. Ad esempio, i fondamentalisti ebrei definiscono la terra palestinese occupata come i «territori biblici liberati». I musulmani rispondono contestando questa definizione.
Se lo stesso Dio è prigioniero della rivelazione dei suoi libri all’uomo, a maggior ragione lo stesso uomo, in tutto il suo essere pensiero, azione, ragione e cuore, è prigioniero di questa rivelazione scritta. E ciò che complica la questione oggi, si cela nel divario crescente tra ciò che la terra umana chiede sia scritto da una parte, e dall’altra quello che ha scritto Dio, ossia tra il reale e il trascendente.
Sembra che la liberazione da questa prigione sia una condizione necessaria affinché emerga un dialogo sufficientemente razionale. In particolare noi osserviamo, storicamente e fattivamente, che ogni cosa nell’interpretazione dominante dell’egemonia teologica monoteista e nella sua prassi, non fa che confutare l’incertezza e il dubbio della ragione, il suo contraddirsi e interrogarsi, il fare ipotesi, rischiare e vincere. La negazione della natura stessa dell’uomo, del corpo, del sesso maschile e femminile e dei loro oceani di piacere, desiderio e passione. Oceani di vita nella sua essenza di festa ed unione, e nella sua essenza di supremo valore umano.
Le sponde del Mediterraneo sono state testimoni di fasi storiche in cui questa interpretazione e questa prassi hanno trasformato il monoteismo in un esercitazione di forza, di invasione e di egemonia, di cui le crociate non sono che una manifestazione. In questi momenti l’essere umano ha distrutto in nome della verità rivelata, e ha trasformato Dio in un semplice capo militare, e la teologia in una formula linguistica. E il monoteismo non è stato considerato una preghiera ma è diventato una spada.
La questione dunque non è semplicemente il declino della religione, come crede Steiner, o del declino del ruolo dell’istituzione religiosa nella vita, nel pensiero e nei rapporti umani, la questione è piuttosto correggere il difetto nella visione monoteista dell’uomo e del mondo. Ed esso è un difetto le cui cause si celano nella natura stessa di questa visione, molto di più che nei fattori esterni, come credono molti sociologi - e questo sia che i fattori si ricolleghino al movimento razionalista della rinascita (araba), o alla vocazione al dubbio e alla laicità dell’illuminismo, o al darwinismo e alla moderna tecnologia della rivoluzione industriale. In momenti come questi abbiamo assistito all’istituzione dei tribunali dell’inquisizione e al trattamento disumano dell’uomo accusato di avere violato il testo.
(traduzione Francesca M. Corrao)
L’INTERVISTA Parla Adonis, grande voce della cultura araba: «Beirut, per me, incarna la speranza. Mi fido dei giovani, che avvertono il bisogno di uno scambio culturale, al di là di politica e conflitti»
Poesia oltre le macerie
«Il mondo arabo è come un cantiere con grandi problemi da risolvere. Manca un’unità economica e politica»
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 30.08.2006)
«Se leggo Rimbaud, non so se debbo definirlo occidentale o orientale. Lo stesso per Goethe. Tutti i grandi creatori hanno forse superato i limiti dei cosiddetti Oriente e Occidente». A pensarlo è il poeta di origine siriana Ali Ahmad Sai’id Esber, più noto come Adonis. Voce fra le più alte della poesia araba degli ultimi decenni - ha fra l’altro vinto nel 1984 il premio internazionale Hikmet -, Adonis ha vissuto a lungo a Beirut prima di stabilirsi definitivamente a Parigi, dove ha anche insegnato alla Sorbona. Ampiamente tradotto in italiano, sarà sabato prossimo al «Festival della mente» di Sarzana, dove parlerà di «creatività e poesia, un ponte tra due culture». Per Guanda, esce proprio oggi in libreria, invece, Oceano nero, raccolta di interventi polemici su temi di attualità.
La sua opera è considerata come un ponte fra Occidente e Oriente. Cosa vuol dire oggi l’Oriente per lei?
«Certamente, esistono sguardi e punti di vista diversi. Ma ho sempre pensato che abbiamo tutti un’unica esistenza e che l’Oriente, così come l’Occidente, sono nozioni concepite dalla sfera politica ed economica. Non credo si possa parlare fino in fondo di civiltà diverse. La poesia e la creatività, in particolare, sono vie che ci mostrano come si possano superare queste nozioni. La ricerca di un cammino per conoscere meglio l’essere umano e per vivere meglio è comune al genere umano».
Artisti e intellettuali del Mediterraneo, di cui lei conosce le due rive, le sembrano oggi pronti a impegnarsi in questo sforzo di superamento?
«Sfortunatamente, ho l’impressione che non siano la creatività, l’esistenza umana, il desiderio di unità a dominare oggi la maggioranza degli spiriti. Sulla scia dei conflitti internazionali, una visione esclusivamente politica rischia di prendere il sopravvento. Si ragiona sempre più per antinomie che supportano la pulsione di schiacciare l’altro. Mi pare un grande segnale di decadenza e di debolezza. Qualcosa di cata strofico e antiumano».
Lei scrive in arabo ed è anche traduttore verso il francese. L’infedeltà delle traduzioni fra lingue lontane è una barriera all’arte?
«Traduttori traditori, si dice da sempre. È vero, ogni traduzione è un tradimento. Non si può mai tradurre esattamente e totalmente un’immagine poetica in un’altra lingua. I rapporti fra i nomi e i rapporti fra i nomi e le cose sono sempre radicalmente diversi. Tradurre è deformare, ma per poi cercare di modellare un’altra forma nella nuova lingua. Se il traduttore è un grande creatore, può tradire per meglio essere fedele».
Quali sono le qualità che distinguono di più la lingua araba da quelle europee?
«In arabo, il modo di esprimere le cose è più soggettivo. Fra la lingua e la cosa non vi è una grande separazione. La soggettività, dunque, fa parte della lingua. La lingua araba mi sembra più vicina all’italiano e allo spagnolo che al francese. Nel senso che è più lirica, naturale, personale, immaginativa, sensuale e meno razionale».
L’arabo unisce di fatto Paesi molto diversi e talora, come in Libano, multireligiosi. Cosa vuol dire, per lei, l’espressione «mondo arabo»?
«La situazione del mondo arabo è molto complicata. Esiste una sola lingua letteraria, quella tradizionale e coranica. È la lingua ufficiale praticata in tutti i Paesi al livello delle istituzioni e della scrittura. Le lingue parlate dal popolo sono invece abbastanza diverse da quella ufficiale, soprattutto nel Maghreb e in Iraq. Un po’ come avviene in Italia con le lingue regionali. Sfortunatamente, la lingua corrente si allontana sempre più da quella ufficiale, piuttosto che il contrario. È un grande problema culturale e per superarlo, prima di tutto, occorrerebbe ammetterlo. Il mondo arabo è per me un cantiere in cui occorre innanzitutto risolvere grandi problemi. A differenza di quanto sta accadendo in Europa, ad esempio, il mondo arabo non riesce a trovare un’unità economica e politica».
L’oriental ismo, l’attrazione e il «gusto» soprattutto europei per l’Oriente, è stato spesso attaccato come visione meramente coloniale. Esiste o è esistito, nel mondo arabo, un equivalente «occidentalismo»?
«Sì, almeno a due livelli. Innanzitutto politico, con gli intellettuali che giudicano indispensabile un legame coi valori e il progresso europei. A livello più profondo, ci sono poi artisti che rivendicano l’altro, l’occidentale, come parte integrante di sé e ricordano esperienze storiche come quella dell’Andalusia: l’altro, dunque, visto come il fuoco che spinge a superarsi all’infinito. In proposito, mi viene in mente la frase di un mistico arabo secondo cui l’uomo per approdare a Dio deve passare per la donna. È un po’ lo stesso. Analogamente, credo ci sia stato in Europa anche un orientalismo fondato sull’amore autentico dell’Oriente. Penso a Paul Klee o a Delacroix».
Oggi, secondo un recente rapporto dell’Onu, il mondo arabo resta profondamente isolato da un punto di vista culturale, come mostra ad esempio lo scarso numero di traduzioni. Che ne pensa?
«Certamente. Fra i Paesi del Mediterraneo, esistono oggi quasi solo rivalità. Ci sono scambi economici e politici, ma non si va molto al di là. Anche sul piano della creatività, c’è davvero poco. Gli scambi culturali dovrebbero potersi fare in modo libero e non sempre attraverso istituzioni, soprattutto se legate a dei regimi».
In proposito, c’è anche la censura, che del resto l’ha colpita...
«Storicamente, purtroppo, la censura faceva e fa parte della nostra politica culturale. È un fatto ed è inutile negarlo. A mio avviso, ciò è legato a due aspetti: la religione e la politica legata alla religione. Tutto ciò che è essenziale per un artista rischia di essere censurato. Per me, censurare è uccidere. Non solo la lingua, ma anche la cultura e attraverso ciò l’essere umano. È un crimine anti-umano che persisterà fin quando certe istituzioni politico-religiose avranno l’egemonia sulla nostr a vita».
Il passato di tante città mediterranee è plurale: la sua Beirut, ma anche Istanbul, Gerusalemme, Salonicco, Alessandria, Palermo, Algeri, Marsiglia. Qualcuno saprà riprendere il testimone?
«Beirut, che conosco bene, è sempre stata una città plurale, aperta sull’avvenire. È un eterno progetto e anche in questo momento continua a incarnare per me la speranza. Beirut è sempre rinata dalle sue ceneri e continuerà a farlo. In generale, ho fiducia nei giovani mediterranei che avvertono sempre il bisogno di uno scambio culturale fra loro, aldilà della politica e dei conflitti. Ma siamo solo all’inizio».
Safouan, il Corano è tollerante, siamo noi a non essere liberi
L’intellettuale franco-egiziano, psicanalista e traduttore arabo di Freud, ci racconta i legami tra politica della scrittura (sacra) e terrorismo religioso.
intervista di Alessandra D’Andria (il Riformista, 5.12.2008)
«Non è l’Islam ad essere incompatibile con la democrazia ma la strumentalizzazione di questa religione da parte delle elite al potere». Pronuncia ogni singola parola con lentezza Moustapha Safouan, come se volesse imprimerla nella mente di chi lo ascolta. Perché la sua è una convinzione profonda, che nasce da anni di studio sulla questione - sempre attuale - del rapporto tra Corano e libertà. Tema a cui lo psichiatra franco egiziano - famoso tra le altre cose per aver tradotto in arabo L’interpretazione dei sogni di Freud - ha dedicato il saggio Perché il mondo arabo non è libero, appena pubblicato da Spirali. Un titolo provocatorio. Del resto, Safouan - in Italia per un ciclo di presentazioni - non ha timore di turbare la sensibilità degli «oltranzisti del politicamente corretto«. L’anziano medico - abituato a indagare nei meandri dell’inconscio - ama demolire falsi miti e luoghi comuni. Safouan è un intellettuale "senza mezze misure". Proprio come il suo nuovo libro, dal titolo controcorrente.
Safouan, perché il mondo arabo non è libero?
Devo fare una puntualizzazione. Il titolo originario - con cui l’opera è stata pubblicata in Gran Bretagna - è Perché gli arabi non sono liberi. L’editore francese, temendo di ferire la sensibilità dei Paesi islamici, ha trovato questa forma edulcorata. La nuova traduzione araba si chiamerà Perché noi non siamo liberi - che mi sembra il nome più adatto - dato che è un arabo a parlare. Quanto alle motivazioni dell’assenza di libertà nel mondo arabo queste derivano da ragioni storiche. Ben più antiche della colonizzazione. Spesso i nostri governanti puntano il dito contro gli stranieri - che di certo hanno sfruttato le colonie per i loro interessi - ma non si assumono le loro responsabilità.
Quali sarebbero?
La religione islamica non delinea una forma di organizzazione politica. È, però, vero che il Corano lascia irrisolta una questione fondamentale: quella della successione. Maometto è l’ultimo Profeta, nessuno può sostituirlo. Tale affermazione si iscrive in un contesto politico in cui ancora esiste la "forma stato" come la conosciamo ora. I popoli della regione, dunque, si sono dovuti ispirare all’unica forma di governo che conoscevano, ovvero il modello persiano dell’Imperatore-Dio. Una modalità di organizzazione del potere importata da fuori e, dunque, estranea all’Islam come religione. Il punto è che la divinizzazione del potere s’è conservata nei secoli, ha plasmato la mentalità dei popoli musulmani. Grazie alla manipolazione dei testi sacri operata dai vertici dei regimi. In Egitto, ad esempio, da Nasser in poi, il presidente nomina i rappresentanti del potere religiosi, i responsabili della fatwa, i rettori universitari.
In che modo è stata realizzata questa mistificazione?
La lingua ha un ruolo fondamentale in questo. L’arabo è una lingua "duale". Da una parte c’è l’idioma dei testi sacri, quello letterario, fisso e immutabile, dall’altra c’è la lingua parlata dal popolo. La prima resta, però, inaccessibile per il popolo. D’altra parte, chi detiene il potere non ha interesse a diffonderne la conoscenza. «Il Corano dice questo», ripetono i governanti ma la gente ignora che cosa realmente affermino le scritture. Si realizza, così, quella che io definisco una "censura non dichiarata". Perché il Corano è molto più tollerante di come i regimi arabi ce lo fanno apparire. Perché allora, specie negli ultimi tempi, sembra prevalere l’estremismo? Il fondamentalismo è il prodotto della repressione operata dai governi islamici. L’opposizione non ha modo di esprimersi, l’unico canale che ha per affermarsi è la violenza. Una violenza assoluta e brutale quanto - o spesse volte di più - quella dei sistemi politici che si trovano a combattere. Anche questi movimenti di resistenza "manipolano" il Corano per legittimarsi. Utilizzano gli stessi meccanismi dei governi al potere. Che vengono definiti "infedeli", mentre gli estremisti si autoproclamano i detentori "dell’ortodossia". Non a caso, l’integralismo colpisce non solo l’Occidente ma anche i regimi arabi. La religione, tuttavia, non c’entra. È una lotta per il potere.