Laleh che legge il Corano
Una nuova traduzione del libro di Allah nega che Maometto predicasse di picchiare le mogli. La firma una studiosa iraniana. E negli Usa è diventata un caso
di Francesca Caferri *
Laleh Bakhtiar lavorava già da due anni alla sua traduzione del Corano quando ha pensato di smettere. A bloccarla una sola parola. Anzi, un verbo: daraba. "Non sapevo davvero cosa fare", racconta oggi, "erano anni che inserivo ogni singola parola del Corano in un database, da cui poi programmavo di ripescarle a una a una e arrivare a una traduzione "scientifica" del libro sacro. Ma di fronte a daraba mi sono arenata e ho pensato di buttare via tutto". Daraba in arabo significa principalmente "picchiare", "battere": è solo la terza persona di un passato, l’equivalente di un infinito per l’italiano, ma per secoli è stata, a seconda dei punti di vista, una parola d’ordine, un precetto sacro, uno spauracchio da temere. Nella Sura (capitoli, a loro volta suddivisi in versetti) 4 del Corano, "daraba" è quello che Allah, tramite Maometto, dice agli uomini di fare alle mogli che non ubbidiscono, dopo aver provato ad ammonirle e a farle dormire in luoghi separati: "Battetele".
Per secoli, questo versetto è stato l’appiglio usato da molti musulmani per usare violenza alle mogli. "Ma io ci ho pensato. Secondo la tradizione, Maometto non ha mai picchiato nessuna delle sue mogli: quando ha avuto diverbi con loro le ha allontanate, ma mai le ha battute. E poi l’Islam è compassione: non potevo credere che Allah imponesse di usare la violenza sulle donne", spiega ancora Bakhtiar. Così, rovistando con cura tra le pagine del dizionario, ha cercato altri significati e ha trovato "mandare via". Da questa sottigliezza linguistica è nata la sua personale rivoluzione cartesiana: una nuova edizione del Corano in lingua inglese che nega agli uomini la possibilità di picchiare le donne.
Arrivata in libreria negli Stati Uniti in aprile, la traduzione del Corano di Laleh Bakhtiar ha creato non poche discussioni in America, riaprendo il dibattito su un tema molto sentito nell’Islam: è possibile "rileggere" il Corano dopo tanti secoli? C’è ancora spazio per nuove interpretazioni della parola di Allah? Secondo i tradizionalisti no: "chiusura delle porte dell’ijthiad" è l’espressione con cui gli esperti spiegano la fine della possibilità di dire qualcosa di nuovo - letteralmente, di interpretare - sul testo sacro dei musulmani. Per tradizione, questa chiusura si situa intorno al XII secolo: da allora, ripetono i sostenitori di questa idea, qualunque cosa sul Corano è già stata detta, e non è lecito discostarsi dalle interpretazioni classiche.
Negli ultimi anni molti hanno provato a riaprire le porte. Il caso più clamoroso è quello di Nasr Abu Zayd, uno dei massimi intellettuali musulmani contemporanei, costretto nel 1995 a lasciare il suo Paese dopo essere stato condannato per apostasia: la sua colpa era quella di voler inquadrare il Corano nell’epoca in cui fu scritto, per distinguere le verità assolute, quelle della fede, dalle norme relative ai tempi di Maometto e oggi non più attuali. Due casi diversi, ma che si possono inserire nella stessa tendenza: "Si tratta di applicare al Corano le norme dell’ermeneutica, per arrivare ad attualizzarne il messaggio", spiega Maria Luisa Albano, docente di lingua e letteratura araba all’università di Macerata ed esperta di letteratura islamica femminile. "È parte di un movimento riformista che sta acquistando forza fra gli intellettuali, ma non funziona in un mondo islamico ancora molto chiuso". Per Albano, così come per altri esperti, "picchiare" è il senso primario di daraba in arabo, ma questo non esclude che non ci sia spazio per altre interpretazioni.
"Più di uno studioso in America ha già detto che tradurre daraba con "mandare via", invece che "picchiare" è ammissibile", dice Margot Badran, membro del Center for Muslim-Christian Understanding alla Georgetown University, specializzata in studi di genere nelle società musulmane, "ma per me il senso più importante di questo nuovo Corano non è tanto nella singola parola, quanto nel dibattito che ha suscitato".
Per Badran il fatto che sull’opera della Bakhtiar si sia accesa una discussione tanto forte è il segno che è forte l’esigenza di ridiscutere verità per lungo tempo date per scontate. "La maggior parte delle traduzioni del Corano in inglese non rispecchiano la lingua dei nostri giorni", prosegue la docente, "molte parlano di "uomo" quando il concetto che il testo vuole esprimere è "essere umano". Ben venga dunque una traduzione attenta alle donne. È un bene, e non solo per le fedeli: questo nuovo testo spinge tutti a interrogarsi e a provare a tornare alle origini del messaggio coranico".
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Perché Maometto non ha mai battuto le sue mogli
Lo scopo iniziale era fare una versione del Corano accessibile a tutti: musulmani e non, rendendo il messaggio del Profeta in un inglese il più possibile vicino a quello contemporaneo. Una volta completata, l’opera è diventata però oggetto di discussione, e non solo fra gli specialisti di scienze islamiche. E Laleh Bakhtiar, 68 anni, origini iraniane e passaporto americano, autrice e traduttrice di una ventina di volumi sull’Islam, si è trovata al centro di una discussione sempre più accesa, quella sulle donne e il loro rapporto con la religione del Profeta. Al telefono dal suo ufficio di Chicago spiega perché il caso attorno al suo libro fosse inatteso e come però sia ben lieta del dibattito che si è scatenato.
Come mai ha sentito l’esigenza di tradurre di nuovo il Corano? In fondo ne esistono già decine di versioni in inglese: è partita con l’idea di un approccio "femminile"?
"No, affatto. Volevo solo fare una versione accessibile a tutti. Tutte quelle che avevo letto, ed erano decine, mi erano sembrate "respingenti" nei confronti dei non musulmani, difficili, troppo letterarie: io ho voluto dare vita a una traduzione che fosse apprezzabile per tutti, non solo per chi conosce già l’Islam. Ci ho lavorato per sette anni: al secondo, quando mi sono scontrata con daraba, ho pensato di smettere. Oggi sono felice di aver proseguito".
Parliamo appunto di questa parola: come è arrivata a tradurla con "mandar via", quando invece per secoli è stata letta come "picchiare"?
"Ho guardato nelle tremila pagine del vocabolario di Edward William Lane. E ho trovato che daraba vuol dire sì picchiare, ma anche "mandare via". Ho pensato che fosse proprio questo quello che Maometto voleva dire: "mandate vie" le mogli con cui non andate d’accordo, non certo "picchiatele". Del resto, Maometto non ha mai picchiato le sue mogli".
Come di certo saprà, a marzo un giudice tedesco ha assolto un tedesco-marocchino che aveva picchiato la moglie motivando la scelta proprio con il versetto della Sura 4 del Corano. E se davvero invece di "picchiate" Maometto avesse voluto dire "allontanate"? Il giudice, e tanti prima di lui, avrebbe fatto un grosso errore...
"Niente se. Io sono certa che il Profeta non volesse dire di picchiare le donne. C’è un altro verso del Corano, nella Sura 2, di cui nessuno contesta il significato, che dice che se un marito vuole divorziare lo deve fare in modo equo e umano, e che la donna non deve subire abusi né essere trattata con la forza anche se è lei a voler divorziare. Basta leggere questo per capire il resto: se una donna che divorzia non può essere maltrattata, perché dovrebbe esserlo una moglie che disubbidisce? Se così fosse, il Corano promuoverebbe il divorzio invece del matrimonio. Quando ho riflettuto su questo, mi è stato chiaro che l’interpretazione corrente di daraba era sbagliata".
La sua interpretazione è piuttosto contestata, lo sa?
"Certo che lo so. Ma io non voglio fare nessuna rivoluzione, dico soltanto che quella parola ha 25 significati, che secoli fa è stato scelto quello che parla di violenza e che da allora è stata seguita questa traduzione: io non contesto il Corano, contesto una certa interpretazione che ne è stata data e che secondo me, dopo tanti secoli, va guardata con spirito critico, non accettata in maniera pedissequa". Perché nessuno lo ha fatto prima di lei? "In molti lo hanno fatto, su molte parti diverse del Corano. Io mi sono concentrata su questa e sono arrivata a questa conclusione. In linea generale posso dirle che molte autorità religiose non vogliono cambiare lo status quo che è stato loro insegnato e che insegnano: quindi contestano chiunque provi a interpretare il Corano in modo diverso dalla tradizione".
I suoi contestatori dicono anche che lei non parla davvero arabo.
"Io sono iraniana di origine e cittadina americana. Ho imparato l’arabo letterario anni fa, per il mio lavoro di traduttrice. Ho tradotto decine di libri: capisco e leggo senza nessun problema l’arabo classico". L’hanno criticata in tanti? "Sì, ma ho anche incontrato molte persone che mi hanno espresso gratitudine. La prima volta che ho parlato della mia traduzione, è stato a una conferenza del Wise, Women’s islamic initiative in spirituality and equity, lo scorso novembre a New York. C’erano 150 donne arrivate da tutto il mondo, la maggior parte aveva meno di trent’anni: erano credenti come me, e avevano, come me, entusiasmo e orgoglio per la nostra fede comune. Erano entusiaste del mio lavoro. Le donne sono una parte importante dell’Islam, ma hanno bisogno di spazio e voce. Molte mi hanno raccontato di essersi riavvicinate alla religione dopo l’11 settembre, perché si erano sentite insultate da persone che dicevano di agire in nome dell’Islam. È di credenti come loro che è fatto l’Islam oggi. Anche io sono credente: credo e accetto la parola di Dio e la metto in atto con più amore oggi che so che non ha mai detto di picchiare le donne. So che molte persone non sono d’accordo, ma spero che rispettino il punto di vista di una credente".
Cosa c’è di diverso nella sua versione del Corano rispetto alle altre, daraba a parte?
"Ho usato un metodo di traduzione diverso da quelli tradizionali. Per cinque anni ho tradotto una per una le parole del Corano, che sono 90mila, e creato un database: negli ultimi due anni di lavoro ho ricomposto il testo. In questa maniera ho dato a ogni parola il suo significato originario e non mi sono persa in sinonimi che alla lunga diventano fuorvianti: ho rispettato alla lettera lo spirito del testo. Ho scelto di usare termini non violenti, o non respingenti: kufar, che molti hanno tradotto come miscredenti o infedeli, io l’ho reso come ingrati. Sono sempre quelli che non accettano il messaggio di Dio, ma il termine è meno spiacevole. Ho tradotto i nomi dei profeti e degli uomini santi dell’ebraismo e del cristianesimo: Musa e Issa sono Mosè e Gesù. E ho scritto "Dio" invece di "Allah" perché questo è il significato della parola in arabo e penso che così tutti possano sentirla un po’ più vicina a loro. Infine sono stata molto attenta a trasmettere la moralità che c’è nel Corano. È quello che secondo me si perde in molte traduzioni: non riescono a rendere il disegno globale di compassione e amore del nostro libro sacro. E invece è proprio questo quello che c’è bisogno di sottolineare oggi, perché gli estremisti hanno invaso il campo e loro non danno certo un’immagine morale dell’Islam".
Non ha paura che possano prenderla di mira per queste sue parole e per la sua opera?
"Io sono credente: quindi non ho paura. Credo nella volontà di Dio".
* La Repubblica D, 16.06.2007
Terrorismo, guerra e pena di morte in Iran
di Mohsen Hamzehian *
Uccidere, in particolare in pubblico, è considerato un atto barbarico in tutto il mondo civile. Al contrario in Iran è una pratica quotidiana ( 207 impiccati dall’inizio dell’anno). Ufficialmente vorrebbe essere una lezione alle persone che osano disobbedire alle leggi del giureconsulto medioevale della Repubblica Islamica dell’Iran, ma in realtà vengono eseguite per creare paura e terrore in tutta la popolazione .
Gli osservatori e le organizzazioni umanitarie ( Amnesty International, Osservatorio di Human Right e “Nessuno tocchi Caino”), denunciano quotidianamente le violazioni dei diritti umani in Iran. L’ultimo gruppo di 21 persone impiccate in pubblico risale al 5.9.2007 ( in un mese 41 persone sono state impiccate - rispetto al lo stesso periodo nel 2006 l’aumento è stato del 100%). Le accuse sono basate su incerte definizioni giuridiche, appartenendo il codice religioso all’epoca dei callifati del primo millennio d.C. nella penisola arabica.
Siamo di fronte a definizioni non chiare, tipo guerriero contro Dio, degenerati sulla terra e così via. Si tratta di reati contro il regime e di spionaggio, a questi vanno aggiunti altri reati come l’adulterio, l’omosessualità, che sono definiti anche essi, reati contro Dio. La cosa più agghiacciante è che qualora si tratti di reati definiti contro i poteri dello Stato, è il giudice stesso che definisce il grado della Pena ( quasi sempre il massimo della pena, per impiccagione)
Inoltre nel codice penale islamico, sono previste alcune modalità per l’esecuzione capitale, ma il modo in cui viene attuata dipende esclusivamente dal giudice. Il giudice può decidere di fare impiccare la persona condannata in modo tradizionale oppure in modo moderno, mediante scosse elettriche, oppure davanti a un plotone di esecuzione o, addirittura, mediante lapidazione o, infine, decidere l’esecuzione capitale con una propria personale modalità. Se il giudice non dà indicazioni sulle modalità dell’ esecuzione, questa avverrà per impiccagione. www.hoqouq.com/law/article363.html
Nei Paesi ove ancora esiste la pena di morte (purtroppo ci sono ancora 68 Paesi che la praticano), si cerca di non far soffrire il condannato e l’esecuzione dovrà avere luogo lontano dalle persone, addirittura sono vietate le fotografie. In Iran, secondo i dettami del codice penale islamico, il metodo più diffuso è l’esecuzione capitale in pubblico. Esiste anche la crocefissione del condannato, il cui corpo rimarrà esposto al pubblico per tre giorni. La persona condannata, prima di essere inviata all’esecuzione, dovrà essere sottoposta alle procedure di ablazione e purificazione, indossando una tunica bianca ( Kafan). Ciò viene definito un privilegio per il condannato. http://www.ohchr.org/english/law/pdf/protection.pdf
Si possono vedere alcune differenze rispetto alla precedente legislatura di Mohammad Khatami ( decisamente sostenitore del codice penale islamico), poiché nell’ attuale regno dei Passdaran di Mahmmud Ahmadinejad, una buona parte degli impiccati appartengono alle minoranze etniche (kurdi, beluci ecc.). Regna, su questo aspetto, un silenzio da parte di tutte le fazioni islamiche al governo e non, ad esempio l’ex presidente della Repubblica ed altri uomini forti della gerarchia del giureconsulto, spacciati in occidente, come ala riformista, non hanno assunto, fino a questo momento, una posizione chiara e netta sulla pena di morte ed in particolare, contro il massacro dei giovani. Perché dei 207 uccisi, solo 7 risultano con età superiore a 37 anni
Ecco la morale religiosa al potere in Iran, la quale rivendica la libertà di oltre 65 milioni di iraniani, a colpi di Pietra e di corda. Persino nell’Afghanistan ed in Iraq, dopo anni di terrore, di guerra civile e di insicurezza sociale, le esecuzioni capitali dello Stato, non superano le 10 persone. E questo accade mentre in 130 Paesi, tra i 198 nel mondo, non esiste la pena di morte. L’Iran, insieme alla Cina, all’Arabia Saudita e agli USA, rappresenta il 90% del totale delle esecuzioni capitali di tutto il mondo e detiene la medaglia d’argento dopo la Cina.
Come possiamo chiamare il caso iraniano, se non una catastrofe umanitaria?
La maggior parte dei condannati a morte non ha commesso reati come omicidio, tutte le statistiche evidenziano nonostante il numero imprecisato di prigionieri e l’aumento esponenziale di persone uccise, che la società iraniana continua ad essere sempre meno sicura ( oltre 5 milioni all’estero), con narcotrafficanti sempre più potenti (una parte del traffico gestito dai poteri oscuri legati allo Stato). Questo è anche il contributo delle sanzioni economiche prodotte dalle risoluzione dell’Onu (come avevamo già visto nell’Irak di Saddam: le restrizioni non colpiscono chi è nei gangli degli apparati ma la gente che sta alla base della piramide sociale). Chi può guadagnare lo fa di più e meglio, mentre la popolazione continua a soffrire per soddisfare i bisogni primari e la povertà è molto evidente.
Ogni gruppo che viene ucciso (da sempre in Iran le persone condannate vengono uccise in gruppo e in pubblico), viene presentato dai media governativi come costituito da elementi legati alla malavita e al traffico di droga. Si scopre puntualmente che all’interno del gruppo ci sono anche gli oppositori al regime ( studenti, giornalisti, insegnanti, operai, ecc), che sono stati uccisi per aver cercato di rivendicare elementari rivendicazioni democratiche.
Tutto ciò succede in un Paese ove viene alimentato il terrore di un attacco da parte degli Usa e dei suoi alleati. Da alcuni giorni la stampa occidentale, ed in particolare quelle statunitense e britannica, evidenziano la preparazione militare per un attacco rapido e mirato. Continua la singolare convergenza tra le azioni dell’amministrazione Bush, che vorrebbe realizzare il suo progetto del 2002 di un grande Medio Oriente ridotto a marionetta filo-occidentale, ed il governo messianico di Mahmmud Ahmadinejad che puntella il suo apparato di potere proprio sfidando la comunità internazionale, accelerando le sue azioni propagandistiche (come la negazione dello sterminio degli Ebrei e la vicenda del nucleare) per prepararsi all’attacco militare con un paese compattato e controllato.
Certo gli USA, non possono non avere nel mirino l’Iran, per la sua ambizione nella regione (di cui il nucleare è uno dei simboli), per le sue risorse petrolifere e di gas naturale, per bilanciare la perdita di egemonia americana nella zona. Sicuramente la probabilità dell’attacco militare in Iran esiste, ma il momento dell’attacco non è prevedibile, ciò potrebbe succedere anche alcuni giorni prima che Bush junior lasci la presidenza degli Stati Uniti. E’ certo che tutte le premesse per riportare, con l’uso delle armi, l’equilibrio in Medio Oriente è ampiamente fallito e la politica americana (ed israeliana) pare aver posto le condizioni per un conflitto ancora più ampio.
Quali possono essere i movimenti e la diplomazia, che potranno intervenire contro l’attacco militare? Innanzitutto la diplomazia dei Paesi che contano (Russia Cina e UE), e poi il popolo americano che si batte contro la guerra può avere un peso rilevante ed infine tutti i popoli del mondo contro la guerra ed in particolare quello iraniano che dovrà essere compatto contro il regime barbaro della Repubblica islamica e contro l’intervento militare degli Usa e degli Alleati..
Italia, lì 15 Settembre 2007
Mohsen Hamzehian
*
Unione per la Democrazia in Iran(www.updi.org. - updi@libero.it)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CHIESA CATTOLICA. PENA DI MORTE NEL CATECHISMO
La ragazza del hijab bianco
Capelli al vento contro i religiosi a decine come Vida in piazza in Iran
di Francesca Caferri (la Repubblica, 02.02.2018)
Dopo il fermo della donna simbolo delle proteste altre imitano il suo gesto: via il velo obbligatorio
E le immagini viaggiano sulla Rete. Già 29 arresti
C’è la ragazza dai capelli verdi che sale su un muretto e resta lì, immobile, forse protetta da un gruppo di ragazzi. Le amiche che si tengono per mano e si sfilano il velo davanti alla porta chiusa di una moschea. La donna con il chador, coperta da capo a piedi, che sale su una cassetta dell’elettricità e fa ondeggiare nell’aria un fazzoletto: simbolo di una battaglia che non è la sua, ma che sente comunque di difendere. E poi ci sono gli uomini: nelle strade, così come nelle campagne o sulla cima di una montagna. Era iniziata quasi sotto traccia, solo sui social network, più di un anno fa: ma la campagna delle donne iraniane che protestano contro l’obbligo di indossare il velo sui capelli in pubblico negli ultimi giorni è dilagata, diventando il paradigma di un Paese - o di una parte di esso - che nonostante le tante repressioni non ci sta a farsi indicare la strada dai religiosi in ogni aspetto della vita.
Ventinove donne, secondo il calcolo dei social media, sono state arrestate da quando, il 27 dicembre, la 31nne Vida Mohaved è stata fermata nel cuore di Teheran dopo essere salita su una cassetta dell’elettricità ed aver sventolato il suo velo bianco su un bastone. La donna è rimasta per settimane in detenzione ed è stata liberata pochi giorni fa: ma il suo gesto ha acceso un movimento che sta iniziando a infastidire i vertici della Repubblica islamica.
Prova ne è il fatto che la cauzione fissata per la liberazione di alcune delle donne arrestate è altissima per gli standard iraniani. E che due giorni fa anche il procuratore generale della Repubblica, Moahammad Jafar Montazeri è intervenuto per promettere il pugno duro contro le ragazze: «Azioni nate dall’ignoranza», ha detto. « Se credono nell’Islam sanno che per la sharia il velo è obbligatorio».
Ma le minacce non sono servite a fermare le donne: lunedì ne sono state arrestate sei, mercoledì - giorno inizialmente dedicato alla protesta - più di 20.
« Credo che queste proteste proseguiranno: è ovvio che alcune donne vogliono decidere da sole » , dice Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata per i diritti umani in Iran, lei stessa a lungo imprigionata per le sue battaglie. « Siamo stanche che a decidere per noi siano i religiosi: sulla nostra vita così come sul nostro abbigliamento » , commenta da New York Masih Alinejad, 32nne giornalista iraniana in esilio, fondatrice del movimento My Stealthy Freedom che per prima ha lanciato la protesta.
È troppo presto per dire se questo gesto ha la forza di diventare una spina nel fianco reale per il regime iraniano o l’onda è destinata ad esaurirsi presto. Ma il fatto che tante donne abbiano scelto di tornare in piazza sapendo bene di rischiare l’arresto a poche settimane dalle proteste represse di dicembre scorso, che hanno portato in carcere 4mila persone e ne hanno viste 25 morire, è molto significativo.
Il velo che copre i capelli è obbligatorio per le donne in Iran dalla rivoluzione del 1979: fino a qualche mese fa la polizia poteva fermare le donne che non coprivano abbastanza i capelli, ma da poco questi poteri sono stati sensibilmente ridotti, almeno nelle grandi città. A molte iraniane tuttavia questo non basta, come la campagna di questi giorni dimostra.
La scrittrice e docente italo-tunisina
’Ecco perché quel titolo istiga a odio e razzismo’, la lettera della scrittrice tunisina a Belpietro *
Houda Sboui (* ADNKRONOS, Pubblicato il: 16/11/2015
"Caro Maurizio, io e te non ci conosciamo. Tu sei italiano di nascita, io ho ottenuto la cittadinanza italiana più di quindici anni fa. Infatti, sono tunisina, musulmana e mi sono trasferita in Italia all’età di 23 anni per sposare mio marito, cattolico, dal quale abbiamo una figlia nata e cresciuta in Italia". Inizia così la lettera aperta scritta da Houda Sboui, studiosa e scrittrice tunisina di cittadinanza italiana, dopo il titolo ’Bastardi islamici’ pubblicato dal quotidiano Libero all’indomani dell’attentato di Parigi.
"Mia figlia è senza religione. Crede soltanto in un solo Dio. Un Dio che nessuno vede, che nessuno tocca eppure, ci crede e ci crediamo. In giro per il mondo, ci sono tantissime famiglie come la mia. Semplici famiglie che vivono giorno per giorno tutte le difficoltà della vita per dare il meglio ai figli", scrive Houda, autrice del libro ’Un ricordo per Jamal’, esperta in marketing, docente di lingua e civiltà araba nella scuola media di Palermo, ma anche autrice di uno studio comparato di legislazione tunisina ed europea, con particolare riguardo al diritto di famiglia islamico. "Per insegnare loro, valori come l’onestà, il rispetto, l’integrità e la tolleranza. Mi ricordo che a Tunisi, nella mia scuola elementare studiavamo Educazione Civica. Ci riempivano la testa di concetti come: rispettare il diverso, accettare le differenze, aiutare gli anziani e i malati, rispettare i genitori, la lista è lunga. Ed è esattamente quel che ho cercato di trasmettere a mia figlia", scrive la docente nella lettera affidata all’Adnkronos.
"Quel che accade oggi in nome dell’Islam mi fa riflettere molto. Poiché, persone come lei, intellettuali, intelligenti, colti e soprattutto giornalisti di professione, hanno una marcia in più rispetto a noi, semplici cittadini che viviamo lavorando e ascoltando le ’notizie’ che ci comunicate - scrive Houda - Notizie che prendiamo per ’vere’, poiché nel nostro immaginario collettivo sono ’verificate’ e ’fondate’. Eppure, mi rendo conto, che c’è sempre da parte vostra quel desiderio di colpire l’opinione pubblica con un titolo, che sai bene in fondo a te stesso, che è molto offensivo e soprattutto pericoloso. Pericoloso, quando viene percepito dal semplice lettore che non vuole approfondire l’argomento e non vuole addentrarsi in una materia così complessa come lo è l’Islam. Un titolo pericoloso che istiga all’odio e al razzismo. In fondo, con questo titolo, tu hai raggiunto il tuo obiettivo: sei in prima pagina, sui social è partita una petizione per radiarti dall’Albo dei giornalisti, hai venduto tante copie, sei sulla bocca di tutti, hai fatto simpatia a tanti che non ne possono più di avere gli immigrati sul territorio, per farla breve: hai colpito".
"Purtroppo, hai tralasciato un aspetto fondamentale che mette veramente in discussione la libertà di espressione - aggiunge Houda Sboui - Hai superato quella linea rossa necessaria, che distingue un bravo giornalista da un semplice giornalista divorato solo dalla voglia di vendere e raccogliere più denaro che può. Un giornalista che fa fatica a restare in prima linea e fa di tutto per essere in prima pagina. Capisco. È legittimo. Però, non hai pensato un attimo che hai fatto il gioco dei terroristi. Con il tuo titolo, hai dato loro la possibilità di sentirsi forti, bravi, intelligenti, perché percepiscono nell’opinione pubblica quel timore che indirettamente filtra da quel titolo. Che alcuni giornalisti, anziché andare fino in fondo e cercare la “vera verità” sul nuovo ordine mondiale, si lasciano andare a delle conclusioni superficiali, che fanno effetto sul momento e poi svaniscono nel nulla".
"Caro Maurizio, il tuo titolo come dicevo mi fa solo riflettere. Riflettere parecchio se insegni questo ai tuoi figli. Il tuo titolo mi preoccupa, perché, a mio avviso, non sei andato alla ricerca della vera notizia. Hai solo dato importanza ai terroristi - aggiunge nella lettera a Belpietro Houda Sboui - Ti invito, da musulmana molto tollerante, a rivedere la tua posizione in merito al Mondo di Oggi. T’invito a considerare il discorso del Presidente Putin all’occasione del Summit annuale di Valdai1, tenutosi dal 19 al 22 ottobre 2015. Un discorso, che l’editorialista dell’Asia Times, Pepe Escobar ritiene ’un discorso che merita di essere accolto con favore da tutto il mondo, in quanto espressione di ’politica vera”.
"Ti invito a rettificare il tiro e a chiedere scusa ai tanti musulmani che vivono in Italia e che giorno dopo giorno, insegnano ai loro figli il rispetto e la tolleranza. Ai tanti italiani che vogliono vivere in Pace e che costruiscono giorno dopo giorno un percorso di dialogo e fratellanza con i tanti stranieri che vivono in Italia - aggiunge - Ricordati che abbiamo sulla nostra coscienza, noi, i genitori di oggi, il dovere di lasciare un mondo in Pace ai ragazzi. Loro devono imparare a vivere insieme, l’uno nel rispetto dell’altro. Non puoi, solo perché hai in mano un potere straordinario, distruggere con un Titolo simile, anni e anni di integrazione e rispetto. Ancora di più se sono stati costruiti con fatica e difficoltà. Dimostra quanto sei grande facendo un piccolo passetto indietro. Sarai sicuramente apprezzato":
"’Bastardi Islamici’ mortifica i tanti italiani e i tanti musulmani per bene. ’Bastardi Islamici’ suona come “una chiamata alla guerra” e credimi, il mondo oggi, non ne ha bisogno - conclude la tunisina Houda Sboui -Cosa c’è meglio del dialogo e del confronto pacifico? Cosa c’è meglio della serenità e della fratellanza? E’ vero, sono concetti oramai seppelliti dal Dio Denaro, ma siamo esseri umani, e come tali, facciamo il nostro destino e insegniamo ai nostri figli di fare anche il loro. Quindi, la vita è nelle nostre mani, il mondo è nelle nostre mani e se vogliamo un mondo migliore, sicuramente, noi uomini lo possiamo ottenere. Tutto dipende da noi".
La primavera araba è in rosa
Organizzata via Facebook per oggi al Cairo la “marcia di un milione di donne”
di Francesca Paci (La Stampa, 08.03.2011)
Quando domenica 27 febbraio il premier tunisino Ghannouchi ha ceduto alla pressione popolare e s’è dimesso, Amal Shamel stava preparando la piccante zuppa «shorba» per i suoi quattro figli. «È stato come il giorno in cui Ben Ali se n’è andato: appena ho sentito la notizia in tv ho chiesto a Said, il maggiore, di occuparsi per poche ore dei fratelli e con un taxi ho raggiunto mio marito in avenue Bourguiba» racconta al telefono. Una settimana dopo, nella cairota piazza Tahrir, decine di casalinghe hanno affiancato le rivoluzionarie a tempo pieno come Isra Abdelfatah, in prima linea dal 25 gennaio, per inneggiare al nuovo capo del governo egiziano Isam Sharaf, subentrato a grande richiesta dei manifestanti all’inviso «mubarakiano» Ahmad Shafiq.
Chi avesse tralasciato il contributo muliebre al terremoto mediorientale e magrebino può rifarsi oggi con la «Million women march», il corteo organizzato via Facebook per archiviare con la dittatura l’annesso sistema patriarcale di potere, e che conta di portare nelle vie del Cairo un milione di mamme, mogli, figlie, studentesse disinibite e colleghe velate, la quota rosa della primavera araba.
La partecipazione femminile è la cartina di tornasole della democrazia. «Le donne sono la chiave di quanto sta accadendo nelle piazze arabe» osserva il libanese Nadim Houry, analista di Human Rights Watch. Secondo la direttrice dell’associazione egiziana Nazra for Feminist Studies, Mozn Hassan, lungi dall’unirsi alla protesta, le donne l’hanno concepita: «Prima ancora che cambiassero le cose, sono cambiate loro, noi, e siamo solo all’inizio». Si calcola che almeno tre dimostranti su dieci fossero ragazze.
Il percorso è accidentato. Nessuno lo sa meglio delle protagoniste che al Cairo come a Tunisi, ma anche a Bengasi, Manama, Algeri, Sana’a, Casablanca, sfidano da decenni, nell’indifferenza occidentale, la centralità dell’uomo, covata nel conservatorismo familiare e troppo spesso sublimata dall’opportunismo politico. «Non posso più accettare la legittimità di una storia che mi consente di restare viva solo distogliendo l’attenzione da ciò che sono» scrive la giovane giornalista tunisina Fawzia Zouari nel racconto «Sherazad ha i giorni contati». Il mondo delle Mille e una notte, con la fascinosa fanciulla che evita la morte ammaliando il sovrano, è per le donne arabe il corrispettivo del reggiseno bruciato dalle femministe nel ‘68. Prova ne sia il nuovo libro dell’autrice libanese Joumana Haddad, «Ho ucciso Shahrazad, Confessioni di una donna araba arrabbiata».
Certo ci sono Paesi più emancipati come la Tunisia, in cui la poligamia è vietata dal 1957 e la direttrice della Biblioteca Nazionale Olfa Youssef discetta regolarmente di teologia islamica in saggi a dir poco polemici con l’ortodossia, o il Marocco, che si è dotato di un codice di famiglia all’insegna della parità dei sessi. Ma, sebbene in misura minore, le cittadine del Bahrein avvolte nell’abaya, quelle yemenite pudicamente a distanza dai cortei degli uomini e le libiche nelle trincee sotto il tiro di Gheddafi, hanno partecipato e partecipano alle proteste per la democrazia mostrando voglia di vivere anziché di morireda martiri.
In Egitto, dove il 42% delle donne è quasi analfabeta e nel parlamento del 2010 ce n’erano appena 8 su 454 deputati, piazza Tahrir ha annullato le differenze di genere. «Le casalinghe c’erano e ci sono, eccome, paradossalmente hanno più tempo delle altre» insiste Dalia, blogger attivissima come Asma Mahfouz, Leil Zahra Mortada, Sanaa el Seif, le firme rosa della controcultura digitale. Da tempo, più o meno platealmente, hanno riscoperto il nome di Huda Shaarawi, la celebre femminista egiziana del primo Novecento: oggi una su quattro lavora fuori casa. Una nuova centralità sociale di cui si sono accorti i Fratelli Musulmani che, seppur mantenendo nel proprio statuto il divieto per copti e donne di accedere alla presidenza dello Stato, accettano volentieri il contributo femminile negli ospedali, nei centri di assistenza, nei gruppi di base su cui fondano la formidabile penetrazione nella comunità.
La rivoluzione politica della primavera araba sovvertirà anche l’ordine sociale, spazzando via con l’autoritarismo il sessismo che sovente l’accompagna? «È presto per parlare di un movimento femminista separato» nota l’accademica del Bahrein Munira Fakhro, candidata alle elezioni del 2006. Vorrà però dire qualcosa se la monarchia saudita, terrorizzata dall’effetto domino e dalla giornata della rabbia indetta per venerdì, si è affrettata a promettere il voto alle donne. Ed è un segno dei tempi che il più agguerrito blog di Gaza, fustigatore della triplice occupazione dei palestinesi da parte di Hamas, Fatah e Israele, sia firmato da una ragazza, Asmaa Aghoul, irriducibile nonostante l’arresto di un mese fa, al punto da aver convocato via Facebook una nuova manifestazione per il 15 marzo.
Le donne arabe stanche del paternalismo patrio quanto della compassione occidentale per la condizione impari imposta dall’islam chiedono rispetto. A tutti, a cominciare dai propri mariti, dai genitori, dai figli. Nella Cairo che, infaticabile, si accinge a scendere di nuovo in piazza nel nome della rivoluzione incompiuta la gallerista Loulia sorseggia un cappuccino nel cuore del quartiere Zamalek e distribuisce agli altri avventori i volantini con i quindici comandamenti della rivoluzione del 25 gennaio: mi impegno a non gettare cartacce in terra,a rispettare il semaforo rosso, a non molestare le donne...
Piazza Tahrir umilia l’8 marzo la rivoluzione caccia le donne
di Francesca Caferri (la Repubblica, 9 marzo 2011)
Il tradimento, quello vero, c’era stato nelle settimane scorse, quando nel consiglio incaricato di riscrivere la Costituzione e delineare il futuro del nuovo Egitto non era stata chiamata nessuna donna. Lo schiaffo in faccia è arrivato proprio nel giorno della festa della donna: un migliaio di egiziane hanno tentato ieri di marciare verso Tahrir square, la piazza simbolo della rivoluzione, quella dove per settimane avevano protestato, gridato, combattuto, dormito, pianto, mandato tweet. Lo scopo era rivendicare il loro ruolo nella protesta e nel futuro del Paese. Ma hanno fallito.
La marcia è stata fermata da gruppi di uomini, che hanno bloccato le manifestanti, strappando loro i cartelli, spintonandole e costringendole a tornare indietro: «Non è il momento giusto per le vostre manifestazioni», avrebbero detto alle donne.
E così la marcia che doveva portare in piazza un milione di egiziane è fallita. Due volte: perché in strada si sono ritrovate in un migliaio e perché alcuni di quelli con cui avevano lottato fianco a fianco per settimane hanno volute relegarle a quel ruolo secondario da cui pensavano di essere riuscite ad emergere.
«Il nuovo Egitto lascia indietro le donne» titolava ieri Al Jazeera. Parecchie, dal Cairo ad Alessandria, condividono questa opinione: «Il sangue delle donne che sono state uccise nella protesta è ancora fresco: e già ci stanno tradendo», ha detto al New Yorker Nawal Al Saadawi, la più famosa femminista egiziana, la madrina della rivoluzione, 71 anni di cui parecchi passati in carcere ma in prima fila, con i suoi capelli bianchi, a Tahrir dal primo giorno. Ieri al Saadawi non era al Cairo: ma nel futuro le egiziane avranno ancora bisogno di lei, come questo 8 marzo ha dimostrato.
Sempre ieri al Cairo è morto un cristiano copto, ferito nei giorni scorsi negli scontri con i musulmani seguiti all’incendio di una chiesa: un altro segnale preoccupante per il nuovo Egitto.
RAFIA ZAKARIA: DISTINGUERE LA FEDE DALLA PROPAGANDA *
Il nome di Sakineh Ashtiani e’ ora ben conosciuto nel mondo. La quarantaduenne, madre di due figli, e’ stata imprigionata per omicidio ed adulterio in Iran. E’ stata nel braccio della morte fin dal 2006. Quest’anno i suoi figli hanno dato inizio ad una campagna internazionale per prevenire la sua esecuzione. Alcuni rapporti assicuravano che, a causa dell’accusa di adulterio, Sakineh sarebbe stata lapidata a morte. Appelli sono stati lanciati da organizzazioni per i diritti umani in tutto il mondo e la petizione "Free Sakineh" conta celebrita’ internazionali tra i suoi firmatari.
L’8 settembre 2010, Ramin Mehmanparast, un portavoce del governo iraniano, ha confermato che la sentenza della lapidazione era stata sospesa dal governo stesso, ma ha espresso l’opinone che la pena capitale sarebbe stata eseguita con altri metodi. In un blitz mediatico che ha accompagnato la sua presenza all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha spostato l’attenzione sul caso di una donna condannata a morte negli Usa. Una sua frase recita: "Una donna sta per essere giustiziata negli Stati Uniti per omicidio, ma nessuno protesta".
La strategia di Ahmadinejad, il giustificare la condanna a morte di una donna puntando il dito su un’altra, e’ assai vecchia. I leader mondiali, di routine, usano la condanna delle ingiustizie in altri paesi come argomento per imporre sfacciatamente ed impunemente una varieta’ di abusi ai loro popoli. Soprattutto nei paesi musulmani, l’esistenza dell’ingiustizia nei paesi occidentali sembra funzionare come scusa conveniente per gli eccessi locali.
Tuttavia, sul fronte internazionale, il caso di Sakineh Ashtiani e l’uso della lapidazione hanno generato palese disapprovazione. La barbarie della lapidazione, di recente descritta nel film "Stoning of Soraya", ha indotto molte persone a concludere che l’Islam e’ univoco nel perpetrare tali tipi di castigo. Questa percezione, basata non solo sul caso di Sakineh, pone una sfida urgente e pressante alla teologia ed ai musulmani impegnati nel prevenire il furto della loro fede, che viene usata per obiettivi politici da svariati governanti. Molti musulmani hanno firmato la petizione per liberare Sakineh Ashtiani. Le loro argomentazioni sono pero’ tutte basate sui principi dei diritti umani invece che su argomenti teologici islamici.
Quest’ultimo paradigma e’ ora stato fatto proprio da un movimento emergente, guidato da donne musulmane, che cerca di sfidare la pretesa che pratiche come la lapidazione siano non discutibili ed immutabili, basate sulla legge islamica. Il movimento Musawah, iniziato nel 2007 da un’ong malese chiamata "Sister in Islam", cerca di sfidare le diseguaglianze e le istanze come la lapidazione all’interno della cornice concettuale dell’Islam. Il movimento, che include attiviste musulmane dell’Iran, della Nigeria, degli Usa, della Malesia, e di dozzine di altri paesi, ha il seguente principio guida: "Noi, come musulmane, dichiariamo che l’eguaglianza e la giustizia nella famiglia sono sia necessarie sia possibili. Crediamo fermamente che i principi dell’Islam siano una fonte di giustizia ed eguaglianza, opportunita’ e dignita’ per tutti gli esseri umani. Il momento per rendere concreti tali valori nelle nostre leggi e nelle nostre pratiche e’ ora".
In una conferenza tenuta nel febbraio dello scorso anno, la fondatrice di Musawah, Zainah Anwar, ha spiegato: "Molto spesso, le donne musulmane che chiedono giustizia e vogliono cambiare leggi discriminatorie si sentono rispondere: Questa e’ la legge di Dio, e come tale non soggetta a negoziazione o cambiamento". Ha aggiunto che la giustizia e’ un principio centrale ed intriseco all’Islam, e che le donne musulmane non si faranno ridurre al silenzio dalle aggressioni nella loro ricerca per ottenere giustizia ed eguaglianza.
Riguardo l’uso della lapidazione come castigo per l’adulterio, una prominente studiosa islamica femminista, Ziba Mir-Hosseini, socia di Musawah, ha pubblicato di recente una critica delle leggi che la permettono basata sulla teologia islamica. Nel suo documento, pubblicato sul sito web di Musawah ed intitolato "La criminalizzazione della sessualita’: le leggi sulla zina come violenza contro le donne nei contesti musulmani", Mir-Hosseini colloca i reati sessuali (zina) all’intersezione tra "religione, cultura e legge". Ne deduce che pratiche come la lapidazione vanno contrastate su piu’ livelli, in cui include la teologia, la diffusa percezione delle donne come oggetti di proprieta’, e la relazione con altre leggi e meccanismi legali che mettono le donne in condizioni di dipendenza da un "guardiano di sesso maschile". Un importante strumento per fare questo e’ il riconoscere che la maggioranza di tali precetti sono derivati dai fiqh, "pronunciamenti giuridici", resi legali dagli studiosi, ma assolutamente non presentabili come divini ed insuscettibili di cambiamento.
Un’argomentazione teologica contro la lapidazione e’ stata anche fornita dalla professoressa Asifa Quraishi, nel suo recente testo "Chi ha detto che la sharia chiede la lapidazione delle donne?". La professoressa Quraishi presenta una dettagliata discussione della pluralita’ interna alla legge islamica, dimostrando che i sostenitori della lapidazione come necessario elemento della sharia si stanno basando sulla scorretta presunzione che tutto quel che compone la sharia stessa provenga da ordini divini. Nel presentare le fonti plurali dei "pronunciamenti giuridici", Quraishi sottolinea che la differenza di opinioni e la diversita’ sono una parte essenziale della giurisprudenza islamica. Percio’, e’ una grossolana mistificazione dire che sostenere castighi come la lapidazione sia parte dell’essere un musulmano credente, e del credere nella sharia; cosi’ come, di conseguenza, dire che l’opporsi alla sharia sia essenziale per i diritti delle donne.
Le argomentazioni del movimento Musawah e di queste studiose sono sfaccettate: la prima distinzione dev’essere fatta fra la sharia come "via rivelata" e i fiqh, ovvero la scienza della giurisprudenza islamica. In secondo luogo, come disse Qasim bin Jawziyya, un giurista islamico del VII secolo: "I fondamenti della sharia hanno le loro radici nella saggezza e nella promozione del benessere degli esseri umani in questa vita ed oltre essa. La sharia abbraccia la giustizia, la gentilezza, il bene comune e la conoscenza". Con questi strumenti e’ certamente possibile formulare ragioni basate sui fiqh che si oppongano alla lapidazione e ad ogni altra forma di punizione barbarica, sia all’interno della cornice dell’Islam, sia all’interno di quella dei diritti umani.
La presenza della lapidazione, inflitta come castigo per crimini sessuali, nei codici penali dei paesi musulmani e la mancanza di opposizione ad essa dall’interno dell’Islam devono essere causa di pressante preoccupazione per tutti i musulmani. Non si stanno propagandando mistificazioni sulla legge religiosa solo per ingannare gli ignoranti, ma anche per usare la legge religiosa nell’arena politica, invece che come un attrezzo per la giustizia. Movimenti come Musawah ed il lavoro di studiosi emergenti possono provvedere ai musulmani i modi per distinguere la fede dalla propaganda.
*
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Rafia Zakaria per Awid - Associazione donne per lo sviluppo, dal titolo "Sakineh’s case & beyond" del 29 settembre 2010.
Rafia Zakaria, giurista, docente, saggista, e’ direttrice di Amnesty International Usa, direttrice del Muslim Women’s Legal Defense Fund for the Muslim Alliance of Indiana / The Julian Center Shelter; e’ editorialista del "Daily Times" in Pakistan e negli Stati Uniti scrive sul "New York Times", su "Arts and Letters Daily", su "The Nation" e sull’"American Prospect"]
COI PIEDI PER TERRA Numero 405 del 4 novembre 2010
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Il libro sacro che inventa la parola di Dio
Il Corano che nessuno in Italia conosce
Secondo la tradizione, la rivelazione avvenne nel corso di una sola notte, detta "la notte del destino" e poi comunicata in ventitré anni
Esce una nuova traduzione con commento del testo che è alla base dell’Islam e che contiene il messaggio rivelato da Allah a Maometto. Molte le sorprese di questa edizione
Non obbedisce a una struttura logica, non segna un percorso continuo e rettilineo. È vagabondo, errabondo, labirintico. Procede ad onde
La scrittura è chiarissima e, stando al Profeta, essa porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife
di Pietro Citati (la Repubblica, 18.10.2010)
Gli italiani non leggono Il Corano. Le traduzioni italiane sono poche e cattive: i commenti non sono migliori. La traduzione di Ida Zilio-Grandi, che esce in questi giorni, è bellissima (Il Corano, a cura di Alberto Ventura, Mondadori, collezione Islamica, pagg. LXXII-912, euro 20,00): dal principio alla fine mantiene il tono giusto, quella semplicità sublime, con cui Maometto ha evocato la voce di Dio. Tutto il libro è eccellente: l’introduzione di Alberto Ventura, di squisita intelligenza, e i commenti di Mohammad Ali Amir-Moezzi, Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi sono ampli e scrupolosi. Tra i commentatori, due appartengono alla tradizione islamica, sebbene vivano ed insegnino a Parigi; e questo conferisce al loro testo una qualità di maggiore vicinanza al libro sacro, senza offendere mai il rispetto per la verità scientifica. A partire da ora, dunque, gli italiani potranno leggere Il Corano, abbandonandosi a quell’onda solenne e tumultuosa. Credo che le sorprese saranno moltissime.
Il Corano è un singolarissimo libro sacro. Discorre di sé, si interpreta, si analizza, si descrive, dubita di sé, si esalta, con una eloquenza che non viene mai meno. Parla delle proprie origini. Il Corano non è soltanto il volume che oggi teniamo nelle mani, e nemmeno le fibre e le foglie d’albero sulle quali Maometto e i suoi amici incisero la rivelazione, ma è innanzi tutto il proprio archetipo celeste. Prima che il tempo avesse inizio, Dio incise le proprie parole, in caratteri di luce, su una materia incorruttibile.
Questa tavola è custodita: cioè sta al riparo di ogni minaccia di alterazione; non muterà né si deformerà mai, immutabile come i veri libri. Mentre Il Corano stava lassù, fermissimo e invisibile, oltre il settimo cielo, cioè prossimo a Dio, cominciava la sua lenta ed incessante discesa, che da principio comprese la Torà e i Vangeli. La Torà e i Vangeli non sono Il Corano, ma lo contengono in potenza, e come in enigma. Il Corano comprende la Torà e i Vangeli, perché è il libro del ricordo: richiama innumerevoli luoghi della Bibbia ed esalta i profeti ebraici: ciò che là è racconto diventa qui predicazione divina; e viene interpretato, chiarito, confermato. «Il seme produce un germoglio che poi si rafforza, si irrobustisce e si alza saldo sul gambo».
Poi Il Corano si sposta verso il futuro e la fine. Comprende l’ultima ora, che verrà all’improvviso come nei Vangeli, e anzi è già avvenuta, nelle pagine di Maometto, dove echeggia il boato della tromba celeste, il cielo si spacca, rosso come cuoio lucidato, le stelle si offuscano, i monti sono rimossi, i mari ribollono, e le donne gravide abortiscono. Appaiono «i giardini alle cui ombre scorrono i fiumi», dove i fedeli resteranno in eterno: il Paradiso, che è il leitmotiv musicale del grande testo. Così Il Corano è sia il primo libro inciso nella luce prima dei tempi, sia l’ultimo libro, che noi leggiamo mentre crediamo di abitare nel presente. Niente, a rigore, potrebbe essere scritto dopo Il Corano: o infiniti commenti, chiose, analisi e interpretazioni, contenuti dentro Il Corano come il gheriglio dentro la noce. Questo archetipo celeste, questa "tavola custodita", Dio la fece discendere su Maometto: sebbene fosse un uomo, nient’altro che un uomo, capace di mancanze e di errori. Come disse Aisha, l’ultima delle sue mogli, «la natura di Maometto era intera Il Corano». Dio gli rivelò tutto il libro nel corso di un’unica notte, detta "la notte del destino". Poi, via via che gli anni passavano, ripeté la sua rivelazione nel tempo, sotto la forma di versetti comunicati - soffio dopo soffio, tocco dopo tocco - durante ventitré anni.
Se usiamo le parole dei moderni, Maometto compì un’impresa prodigiosa, alla quale si rifiutarono sempre gli ebrei e i cristiani. I Vangeli non sono la trascrizione diretta delle parole di Gesù: sono immensamente più discreti, perché si accontentano di raccogliere le tradizioni, che avevano trascritto e ricordato le sue parole. Maometto, invece, ha inventato la parola di Dio, senza alcun timore di compiere un atto empio. Ha trasformato la sua voce umana in una voce dettata dal cielo. Così ora sentiamo, attraverso di lui, la parola di Dio, letta, proclamata, predicata ad alta voce. La sentiamo mentre si rivolge in primo luogo a Maometto, il suo "servo", il suo intermediario, e poi a tutti gli uomini, fedeli o miscredenti. La sentiamo vicinissima, come risuonasse, accanto a noi, sulla terra, nel tempo presente. Ne sentiamo il suono, il ritmo, il timbro, il calore, il movimento. Questo è il primo, straordinario effetto del Corano: sopratutto su lettori non musulmani, o che non hanno sensibilità religiosa.
Il Corano non obbedisce mai ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, errabondo, labirintico. Procede ad onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula; questa struttura così discontinua è il segno, forse, del suo carattere intenzionalmente sacro. Dio, dice stupendamente, Maometto, «scaglia la verità»: non vuole farla conoscere o spiegarla, ma la scaglia come si può scagliare un fulmine, o la erutta e la fa esplodere come un vulcano. Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure Dio segue il metodo opposto: si ripete e torna a ripetersi. Quante volte ci parla dei fiumi del Paradiso. Quante volte ci dice: «Egli è colui che mi ha creato e mi guida. Egli è colui che mi nutre e mi disseta e quando mi ammalo mi guarisce. Egli è colui che mi fa morire e poi mi risuscita».
Qualche volta, Il Corano è chiarissimo e - dice Maometto - porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife. È facile e semplice. Qualche volta, al contrario, è oscuro e misterioso: Maometto parla dei «rotoli di pergamena che fate vedere e in gran parte tenete nascosti». In ogni caso, Il Corano rifiuta di spiegarsi. Quando Maometto veniva interrogato sul suo significato, rispondeva: «Dio ha detto qui ciò che ha voluto dire». Con qualche eccezione, il tono è sempre lo stesso: anche dove parla di questioni giuridiche o di eventi politici, Il Corano raggiunge un tono sublime che lo Pseudo-Longino avrebbe ammirato: «la sublime lingua di verità». Questa lingua ha un effetto fisico-ipnotico fortissimo: tanto che, come dice un passo, la pelle di chi lo ascolta «si raggrinza e poi si raddolcisce».
Il Corano che noi leggiamo e sopratutto ascoltiamo, non è il vero Corano: quello che, alle origini del mondo, è stato scritto sulla tavola custodita. La parola di Dio, che è divenuta "linguaggio e suoni articolati", è stata avvolta da un tenuissimo e oscurissimo velo. Per scoprire "lo spirito e il significato profondo", che anima quei suoni e quei segni, dobbiamo risalire al mondo celeste, verso la tavola custodita. Questa operazione è insieme necessaria e impossibile: può compierla solo Dio, perché Lui solo sa cogliere nella sua essenza la "parola puramente interiore" che costituisce il cuore del libro. Così ogni lettura, che facciamo del Corano, anche quest’ultima che compiamo aiutati da una buonissima traduzione e da un buonissimo commentario, è un fallimento. Il Corano resta incomprensibile all’occhio e all’orecchio umani.
Questo libro incomprensibile ruota attorno a un Dio egualmente incomprensibile. Dio è unico: "è colui che basta a sé stesso"; non ha eguali, né secondi, né compagni, né figli, né associati, né ministri. Non ha alcun bisogno degli uomini, delle loro opere, delle loro preghiere, e del mondo di animali e piante che ha foggiato. «Se non li avessi creati - Egli disse - non ne avrei alcun danno: ora che li ho creati, se non faranno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i miei ordini, non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne viene alcuna utilità». «Se volessi - Egli insiste - vi farei sparire, e vi sostituirei con chi voglio». Ciò che è tipico del mondo islamico è appunto questa ebbrezza, questa vertigine di unità, dalle quali sono nate meravigliose pagine teologiche e mistiche. Col suo concetto di Trinità alla quale si è aggiunta la divinità di Maria, il Cristianesimo è infinitamente più complicato. Anche il Divino e l’Uno, per noi, sono molteplici.
Siccome è unico, Dio è onnipresente, onnisciente, onnipossente. Comprende in sé tutte le opposizioni e le antitesi: il giorno e la notte, il morto e il vivo, il bene e il male. Quindi sa tutto per natura e per esperienza. «Egli conosce quel che è sulla terra e quel che è nel mare, non cade foglia senza che egli non voglia, e non c’è granello nelle tenebre della terra, nulla di umido o di secco che non si è registrato in un libro». Non c’è segreto che egli non conosca: quelli delle coscienze, del passato, dell’avvenire e dell’invisibile. Nulla, mai, gli è nascosto. Sebbene il suo linguaggio preferisca l’immenso, ha uno sguardo microscopico e molecolare: non gli sfugge il peso di una formica, né quello di un granello di polvere, o di un granello di senape, o di una tarma, o la pellicina del nocciolo di un dattero, perché nel minimo si cela il mistero. In qualsiasi momento del tempo, Egli ci spia: non è mai assente; non si distrae dall’osservare; e in qualunque situazione ci troviamo, Egli assiste a ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Se è dappertutto, vive anche nei corpi: a tratti è visibilmente antropomorfo; e noi abbiamo violenti rapporti fisici con lui, perché dobbiamo afferrarci tutti alle sue funi. Dunque Dio abita anche il male: ciò che fa Iblis, l’angelo della Tenebra, esce dalle sue mani.
Quando foggia la terra, la fantasia di Dio è immensamente creativa e feconda. È la Provvidenza. Rende stabili le terre, dispone i fiumi per irrigarle, dà loro cime montagnose, divide i mari con una barriera, manda i venti a portare le voci, fa discendere la pioggia per gli uomini, gli armenti, il frumento, l’ulivo, le palme, le viti, i melograni. Tutto è fresco, fertile e luminoso, come nei primi capitoli della Genesi. Se vuole creare una cosa, Dio pronuncia lo stesso Fiat della Bibbia. Oltre alla terra, crea altri mondi e altre città, che stanno ai piedi della smeraldina montagna di Qaf. Crea quelle cose trasparenti e stranissime che sono le ombre. E, se nella Bibbia, la creazione prende una fine, qui è continua: Dio può prolungarla e rinnovarla e moltiplicarla, perché - per Lui - nulla è difficile e definitivo.
Tutto ciò che noi vediamo è una immagine di Dio. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci, le ombre sono sembianze del suo unico volto. Dio è il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato dove brucano le gazzelle, la Ka’ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole dove è stata scritta la legge mosaica, Il Corano ispirato a Maometto. Ma il Dio islamico non si è incarnato come Gesù. Egli è soltanto entrato nelle forme create, come l’immagine entra e si riflette dentro lo specchio. Chi contempla le cose, non contempla la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo e dal rosso. Il nostro mondo è l’ombra rispetto alla persona, la figura specchiata rispetto all’immagine, il frutto rispetto all’albero. Così il credente, che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione: giacché il mondo è un velo che ci nasconde il suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare i nostri occhi. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente e noi seguiamo invano la sua rivelazione.
Il Corano comincia: «Nel nome di Dio, il Clemente». Clemente non è un aggettivo, un attributo del nome di Dio, ma un suo sinonimo. Dio e Clemente significano esattamente la stessa cosa. Così, se sfogliamo Il Corano, lo scorgiamo donare, senza badare a meriti umani (che non esistono), o a una qualsivoglia giustizia, ma obbedendo soltanto alla propria volontà e al proprio capriccio. Come sappiamo, Egli è l’Unico, che contiene in sé tutte le qualità; e quindi non dobbiamo meravigliarci se, sia pure in modo indiretto, egli compia il Male. Induce i miscredenti a farlo: "Dio ha sigillato loro il cuore e l’udito, e sui loro occhi c’è un velo", che li rende ciechi. Se qualcuno possiede "una malattia del cuore", Dio non la cura e non la mitiga, ma la accresce. Qualche volta travia, induce in errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande ingannatore della religione greca.
Travolto da questa forza divina troppo grande, l’uomo si copre di peccati, di cui è innocente. Eppure, egli ne è colpevole. Dio vuole appunto questo: un mondo tessuto di peccati e di peccatori, che gli permetta l’atto divino del Perdono. Ibrahim, un asceta, girava attorno alla Ka’ba: presso la porta del santuario si fermò e disse: «Mio Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli al tuo desiderio». Una voce che proveniva dal cuore della Ka’ba gli sussurrò: «O Ibrahim, mi chiedi di preservarti dal peccato. Tutti i miei servitori mi chiedono questo. Ma, se ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia. Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?».
Giornata fitta di appuntamenti per il leader iraniano. Incontra i giornalisti
nel suo albergo, poi in videoconferenza. Tafferugli alla Columbia University
New York, Ahmadinejad attacca "Israele razzista, non lo riconosciamo"
"Perchè non mi fanno parlare in un paese libero?". Orgoglioso perchè "in Iran non ci sono omosessuali"
Il rettore dell’università lo attacca in pubblico: "E’ un crudele dittatore. L’occidente prova repulsione" *
NEW YORK - L’Iran non riconosce Israele, perché "è un regime basato sulla discriminazione e l’occupazione": lo ha detto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, rispondendo in videoconferenza da New York ai giornalisti a Washington. Ahmadinejad ha anche ribadito i propri interrogativi sull’Olocausto, chiedendosi perché "se è davvero una realtà, non vengono permesse più ricerche". Inoltre se l’Olocausto è avvenuto in Europa, "perchè devono pagarne le conseguenze i palestinesi?".
Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in visita ufficiale negli Stati Uniti è un fiume in piena di dichiarazioni, annunci e appelli; ha un’agenda fitta di appuntamenti con i giornalisti e domani è atteso al Palazzo di Vetro sulla First avenue. Un blitz mediatico che non piace affatto alla Casa Bianca e a molti opinionisti statunitensi, anche democratici. Ahmadinejad ha già dimostrato di essere un abile comunicatore, uno che sa sfruttare tempi e modi della comunicazione. New York, poi, è un proscenio perfetto per mandare messaggi e dettare l’agenda della politica estera internazionale. Il leader iraniano aveva chiesto di poter andare a visitare Ground Zero. Una scelta che assomiglia tanto a una provocazione. Non se ne parla neppure, gli ha risposto la Casa Bianca. "Una farsa" l’ha definita il segretario di Stato Condoleezza Rice: "Abbiamo detto più volte che siamo pronti a cambiare se gli iraniani cambiano e sospendono il processo di arricchimento dell’uranio". Una condizione imprescindibile.
Prima tappa del blitz mediatico è stato l’incontro con un gruppo di ebrei ortodossi anti-sionisti che si batte per lo smantellamento pacifico dello stato di Israele. "Ahmadinejad non è contro Israele, non è contro gli ebrei. Ha fatto del bene a Israele con donazioni di beneficenza" ha detto Ysroel Dovid Weiss, portavoce del gruppo che lo ha incontrato nel suo albergo a Midtown. Poi il presidente iraniano si è diffuso nello spiegare ai giornalisti che l’Iran "ha sempre avuto una politica difensiva, non offensiva" e che non ha mai cercato di "espandere il suo territorio". Ahmadinejad non crede poi che gli Stati Uniti stiano preparandosi ad attaccare l’Iran. E’ solo propaganda e rabbia: "Molto di questo tipo di discorso nasce da rabbia. Inoltre serve a scopi elettorali interni in questo paese. Terzo, serve come copertura per il fallimento della politica in Iraq".
Dopo le esternazioni nella hall dell’albergo, il leader iraniano ha preso parte alla video-conferenza con i giornalisti del National Press Club di Washington mentre fuori c’erano cori di proteste organizzati da organizzazioni filo israeliane. "Sono sorpreso che in un paese che dice di avere la libertà di espressione, ci siano persone che vogliono prevenire altre dal parlare" ha detto. E poi, nuovo maestro di libertà: "L’Iran si oppone al modo in cui il governo americano gestisce le vicende mondiali. E’ sbagliato e punta allo spargimento di sangue". E se fosse potuto andare a Ground zero, avrebbe "sollevato domande sulle cause di fondo che hanno provocato la strage". Infine: "L’Iran è il paese più libero e più illuminato del mondo. Comprese le donne". Chi dice il contrario, come Amnesty International e Reporters sans frontieres, "non è mai stato in Iran".
Il dibattito alla Columbia University è cominciato con un attacco durissimo del presidente Lee Bollinger: "E’ un crudele dittatore. Oggi sento sulle mie spalle il peso del mondo civilizzato moderno che anela a esprimere la repulsione verso quello che lei rappresenta". Secca la replica: "Solo insulti, è stato un trattamento non amichevole". Nei pressi del campus, che ha chiuso i cancelli, ci sono tafferugli e disordini. Poi il presidente iraniano ha cercato di spiegare che il suo paese è "il più libero del mondo"; non è vero che chi protesta viene arrestato; la condizione femminile è "eccellente". E poi: "Da noi non ci sono omosessuali come qui da voi". Pegah, infatti, giovane donna omosessuale, finiva sulla forca se non avesse trovato asilo in Inghilterra. Sul nucleare, infine, "è un nostro diritto quello di avere il nucleare pacifico. I tecnici dell’Aiea non hanno trovato nulla".
Per oggi può bastare. Domani sarà il grande giorno, all’Assemblea Generale dell’Onu.
* la Repubblica, 24 settembre 2007.