Un rinnovato appello alla gerarchia cattolica
Escludere la pena di morte dalla dottrina cattolica
di diacono Giuseppe Cavallaro
Si può in automatico inviare una email a Papa Benedetto XVI [in fondo, cliccare sulla zona rossa] *
Chiedi anche tu al papa di escludere dalla Dottrina Cattolica il principio di liceità morale della pena di morte, inflitta alle persone giudicate colpevoli dalla legge umana.
Essa è una pratica di “Tortura fisica e mentale”, e, in quanto tale, condannata dal Concilio Vaticano II (Gaudium et spes n° 27).
Se, l’art. 2261 del Nuovo Catechismo afferma che: “ La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: “ Non far morire l’innocente e il giusto “ (Es 23,7), è conseguenziale che: “Il comandamento : Non uccidere ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente” ( Evangelium vitae. n° 57) e valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole. Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone colpevoli, perché “la Scrittura”, e più, precisamente, il versetto 7 del capitolo 23 dell’Esodo: “ non far morire l’innocente e il giusto “, preciserebbe che il comandamento: “Non uccidere” è stato formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma, non le colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa dottrina, così inumana, sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto, frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più, tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive, e proprio le cattive, per le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, “La Scrittura”, di cui parla il Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad un versetto dell’ Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il giusto “, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per intero:“Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“(Es 23,7), rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo, ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta, categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche con il versetto precedente: “ Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo“(Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo Testamento, mentre in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente, contraria al perdono, che costituisce il D N A dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche “la tortura” è stata considerata dalla Chiesa, moralmente lecita, solo con il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e condannata.
Prima, però, che fosse rigettata, un numero di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “...le torture inflitte al corpo alla mente...ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudium et spes .n° 27) può, la Chiesa, continuare a considerare lecita la pena di morte? Non è forse la pena di morte una pratica di tortura, inflitta al corpo e alla mente?
Ecco come, a tal proposito, si esprime Suora Helen Prejean che ha seguito fino al patibolo molti condannati a morte: “Non importa se gas, sedia elettrica, iniezione. Il fatto è che esseri umani lucidi, che hanno un’immaginazione, anticipano quel momento mille volte e mille volte muoiono prima di morire davvero”.
E, il giudice William Brennam, a seguito di una condanna a morte sulla sedia elettrica, ebbe a dichiarare: “ Le mani diventano rosse, poi bianche, e i nervi del collo sporgono come corde di metallo...Gli arti, le dita delle mani e i piedi, il volto, si contorcono violentemente. La forza della corrente è tale che i bulbi oculari fuoriescono dall’orbita. Spesso il condannato defeca, urina, vomita sangue e bava. Talvolta prende fuoco, e frequentemente il corpo è orrendamente ustionato”.
Gesù, in qualità di nuovo legislatore ha ridonato al quinto comandamento la sua purezza originaria. Altro che precisazioni di sorta, Egli condanna, non solo, la violazione del quinto comandamento, citandolo esattamente come uscito dalla bocca di Dio : “ Non uccidere “, ma pone sullo stesso piano dell’omicidio anche gli impulsi e le reazioni che potrebbero favorirlo (Mt 5,21 - 22).
La pena di morte è, pertanto, anch’essa una orrenda pratica di tortura “contro la vita stessa” che lede “grandemente l’onore del creatore” (Gaudium et spes n° 27).
Aderisci, dunque, a questa iniziativa, che affidiamo all’autorità dello stesso papa.
In qualità di battezzato, esercita anche tu, non un diritto democratico, ma un carisma ecclesiale, la cui fonte teologica è il “ sensus fidei “, ossia, il soprannaturale senso della fede in tutto il popolo, con il quale tutta la Chiesa, clero e laici: “mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale” (Lumen gentium n° 12).
Indirizza, un E-MAIL al papa: “principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli” (Lumen gentium n° 23), per chiedergli, filialmente, di escludere dalla Dottrina Cattolica il principio di liceità morale della pena di morte e di proteggere la vita umana, non solo, innocente, ma anche colpevole, come fece Dio con Caino, Gesù con l’adultera e la Chiesa dei primi secoli, la quale ancor più faceva eco all’insegnamento degli Apostoli, con coloro che trasgredivano gravemente la legge umana.
A SUA SANTITA’ BENEDETTO XVI,
E-MAIL : segreteriagenerale@vicariatusurbis.org
7 ottobre 2008
diacono Giuseppe Cavallaro
e-mail : gius-cavallaro@libero.it
www.chiesacattolicaproprincipiopenalecapitale.com
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In qualità di battezzato ed esercitando non un diritto democratico, ma un carisma ecclesiale, la cui fonte teologica è il " sensus fidei ", ossia, il soprannaturale senso della fede in tutto il popolo, con il quale tutta la Chiesa, clero e laici: "mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale" (Lumen gentium n° 12)
Ritenendovi, in quanto cattolico, "principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli" (Lumen gentium n° 23),
vi scrivo per chiedervi, filialmente, di escludere dalla Dottrina Cattolica il principio di liceità morale della pena di morte, di proteggere la vita umana, non solo, innocente, ma anche colpevole, come fece Dio con Caino, Gesù con l’adultera e la Chiesa dei primi secoli, la quale ancor più faceva eco all’insegnamento degli Apostoli, con coloro che trasgredivano gravemente la legge umana.
* Il Dialogo, Domenica, 12 ottobre 2008
Testo della mia adesione:
Messaggio : *** CAMBIAMO STRADA E RETTIFICHIAMO I NOMI***
VERITA’ ("EMET") E AMORE ("CHARITAS").***
MAMMONA ("CARITAS") E MORTE ("MET").***
EV-ANGELO = BUONA NOVELLA.
DIO E’ AMORE (Charitas) non "MAMMONA" (Benedetto XVI, "Deus CARITAS est", 2006)!!!
NELL’ANNO DELA PAROLA, 2008.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CRISTIANESIMI, I DUE PAPI, E LA PENA DI MORTE.....
Lupus in pagina
Fede definita e pena capitale: insieme, ma «con moderazione»?
di Gianni Gennari (Avvenire, 07.08.2018)
"Life Site News" 3/8: «La liceità della pena di morte è una verità di fede cattolica... de fide tenenda, definita dal Magistero ordinario e universale della Chiesa... Chi afferma che la pena capitale è in se stessa un male cade nell’eresia». Così Roberto De Mattei, con testo dal latino: «Si può esercitare la pena di morte senza peccato mortale, a condizione che la vendetta sia esercitata non per odio ma per giudizio, non in maniera imprudente ma con moderazione».
Ormai contiamo anche «sette accuse» esplicite di «eresia» a papa Francesco, ma qui fa pensare quell’uccidere «con moderazione»: si prenderà esempio dai briganti che nel Vangelo lasciano al Samaritano quel poveraccio «emithanè», solo «mezzo morto»? Quindi, in rete, esemplare chiarezza non solo evangelica ma anche storica con rimando al «Concilio di Trento» parte III, al «Catechismo maggiore di San Pio X», sempre «parte III» e, oltre queste "modernità" esibite, anche alla «lettera del 18 dicembre 1208» di Innocenzo III contro i Valdesi. Se la fede cattolica continua a sopravvivere, insomma, lo dobbiamo a questi professori integerrimi, infrangibili, che sfidano Chiesa e mondo senza tema del ridicolo.
Altri tempi, se avessero incontrato un Galileo Galilei lo avrebbero condannato, e in coerenza con tanto passato, anche "bruciato" - cosa che quei "lassisti" e "modernisti" del 1600 non hanno fatto! - ma con moderazione, accendendo il fuoco a poco a poco, magari con una sigaretta elettronica, perché la loro vera modernità è aperta e immediata.
A proposito, in questi giorni si parla del 50° della Humanae vitae di un Papa che loro non hanno mai gradito del tutto, ma stavolta lo hanno approvato in pieno, con una sola condizione, esplicita e firmata dallo stesso di cui sopra: non va letta alla luce del Concilio e del Vangelo, ma «alla luce della Casti connubii» di Pio XI, del 1930! Sempre in anticipo: la classe non si smentisce mai!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
Papa: pena morte inammissibile, cambia Catechismo Chiesa
Disposta la revisione della dottrina: ’No a pena capitale’. Il testo verrà pubblicato oggi sull’Osservatore Romano
di Redazione ANSA *
Papa Francesco, con un ’rescritto’ a firma del cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ha disposto la revisione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, stabilendo che "la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che ’la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona’, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo". Una lettera dell’ex Sant’Uffizio è stata inviata ai vescovi con la nuova versione.
Il rescritto, che verrà pubblicato oggi sull’Osservatore Romano dopo l’udienza del Papa al card. Ladaria dell’11 maggio scorso, stabilisce che il nuovo n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica reciti come segue: "Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che ’la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona’, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo".
Il testo recepisce, tra l’altro, tra virgolette, un passo del discorso di papa Francesco dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione, in occasione del 25/mo anniversario della pubblicazione della Costituzione Apostolica Fidei depositum (11 ottobre 1992), con la quale Giovanni Paolo II promulgava il Catechismo della Chiesa cattolica. In quell’occasione Bergoglio aveva chiesto che fosse riformulato l’insegnamento sulla pena di morte, in modo da raccogliere meglio lo sviluppo della dottrina avvenuto su questo punto negli ultimi tempi.
La precedente versione del n. 2267, risalente al Catechismo approvato da papa Wojtyla negli anni ’90, aveva invece la seguente stesura:
"L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo "sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti".
Se lo Stato uccide siamo tutti Socrate
Nelle sue lezioni inedite su “La pena di morte” Jacques Derrida smaschera la natura teocratica nascosta in ogni potere politico. In pace come in guerra
di Jacques Derrida (la Repubblica, 03.04.2014)
Che dire a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: «Sapete, la pena di morte è il proprio dell’uomo?». (Lungo silenzio) Io sarei subito tentato di rispondergli - troppo velocemente: sì, lei ha ragione. Almeno che non sia il proprio di Dio - o che non sia la stessa cosa. Poi, resistendo alla tentazione in virtù di un’altra tentazione - o in virtù di una contro tentazione, sarei allora tentato, riflettendoci, di non rispondere troppo velocemente e di farlo attendere - giorni e notti. Fino all’alba. [...]
E supponendo che la decisione di cui ci apprestiamo a parlare, la pena di morte, non sia l’archetipo stesso della decisione. Supponendo dunque che chiunque possa mai prendere una decisione che sia la sua, per sé, la sua propria.
A questo riguardo ho manifestato spesso i miei dubbi. La pena di morte come decisione sovrana di un potere forse ci ricorda innanzitutto che una decisione sovrana è sempre dell’altro. Venuta dall’altro. [...] Con la crudeltà che conoscete, e una crudeltà, sempre la stessa, della quale sapete anche che può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile, più sottilmente macchinalizzato, dal momento che l’invisibilità o la denegazione non sono altro mai, e in alcun caso, che un pezzo di marchingegno teatrale, spettacolare, perfino voyeuristico.
Per definizione, per essenza, per vocazione, non ci sarà mai stata invisibilità per una messa a morte legale, per una pena di morte applicata, per principio, per questo verdetto non c’è mai stata una esecuzione segreta o invisibile.
Sono richiesti lo spettacolo e lo spettatore. La città, la polis, la politica tutta intera, la concittadinanza - di persona o mediata attraverso la sua rappresentazione - deve assistere e attestare, deve testimoniare pubblicamente che è stata data o inflitta la morte, deve veder morire il condannato. Lo Stato deve e vuole veder morire il condannato. [...]
Ogni volta uno Stato, associato a un potere clericale o religioso, in forme da studiare, avrà pronunciato verdetti e giustiziato grandi condannati a morte che furono dunque inanzitutto Socrate.
Socrate, voi lo sapete ma ci ritorneremo, a cui fu imputato di aver corrotto i giovani non credendo agli dei della città e sostituendo a essi nuovi dei, come se avesse avuto il progetto di fondare un’altra religione e di pensare un uomo nuovo.
Rileggete l’ Apologia di Socrate e il Critone, vi troverete che un’accusa essenzialmente religiosa è presa in carico da un potere di Stato, un potere della polis, una politica, una istanza giuridico-politica, ciò che si potrebbe chiamare, con un terribile equivoco, un potere sovrano come potere esecutivo.
L’ Apologia lo dice espressamente (24bc): la kategoria, l’accusa lanciata contro Socrate, è di aver avuto il torto, di essere stato colpevole, di aver commesso l’ingiustizia (adikein) di corrompere i giovani e di (o per) aver smesso di onorare (nomizein) gli dei (theous) della città o gli dei onorati dalla città - e soprattutto di averli sostituiti non semplicemente con nuovi dei, come spesso dicono le traduzioni, ma con dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina); e daimonia, sono senza dubbio degli dei, delle divinità, ma anche a volte dei fantasmi [revenants], come in Omero, degli dei inferiori o dei fantasmi [revenants], le anime dei morti; e il testo distingue bene gli dei e i demoni: Socrate non ha onorato gli dei (theous) della città, e ha introdotto dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina).
L’accusa dunque, nel contenuto, è religiosa, propriamente teologica, addirittura esegetica. Socrate è accusato di eresia o di blasfemia, di sacrilegio o di eterodossia: si sbaglia sugli dei, si inganna o inganna gli altri, soprattutto i giovani, riguardo agli dei; ha confuso gli dei o ha generato confusione e disprezzo sugli dei della città.
Ma questa accusa, questo capo di accusa, questa kategoria essenzialmente religiosa, è presa in carico, come sempre, e noi ci interessiamo regolarmente a questa ricorrente articolazione, sempre ricorrente, da un potere di Stato, in quanto sovrano, un potere di Stato la cui sovranità è essa stessa essenzialmente fantasmatico teologica e, come ogni sovranità, si marca nel diritto di vita e di morte sul cittadino, nel potere di decidere, di fare la legge, di giudicare e di eseguire/giustiziare l’ordine operando l’esecuzione del condannato.
Anche negli stati-nazione che hanno abolito la pena di morte, abolizione della pena di morte che non equivale affatto all’abolizione del diritto di uccidere, ad esempio in guerra, ebbene, i pochi stati della modernità democratica che hanno abolito la pena di morte, conservano un diritto sovrano sulla vita dei cittadini che possono mandare in guerra per uccidere o per farsi uccidere in uno spazio radicalmente estraneo allo spazio della legalità interna del diritto civile in cui la pena di morte può essere mantenuta o abolita. [...]
È sempre legale uccidere un nemico straniero in situazione di guerra dichiarata, anche per un paese che ha abolito la pena di morte (e a questo proposito dovremo domandarci cosa definisce un nemico, uno straniero, uno stato di guerra - civile o meno; è sempre stato difficile determinarne i criteri e lo diventa sempre di più).
D’altra parte, in secondo luogo, fino a certi fenomeni recenti e ristretti di abolizione legale della pena di morte in senso stretto in un numero ancora limitato di paesi, cioè negli stati-nazione di cultura abramitica, gli stati-nazione in cui una religione abramitica (ebraica, cristiana o islamica) era dominante, sia che fosse religione di Stato, religione ufficiale e costituzionale, sia che fosse semplicemente religione dominante nella società civile, ebbene, questi stati-nazione, fino a certi fenomeni recenti e limitati di abolizionismo, non hanno trovato alcuna contraddizione tra la pena di morte e il sesto comandamento «Tu non ucciderai».
Tra gioco filosofico e fantasmi personali
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 03.04.2014)
I SEMINARI di Derrida sulla pena di morte, tra gli ultimi che ha tenuto all’ École des Hautes Études en Sciences Sociales, sono un esempio impressionante dell’intreccio fra dimensione politica e riflessione privata nel pensiero di un grande filosofo.
Da una parte, c’è la presa di posizione pubblica, il fatto che in moltissimi stati sia assunto come normale che una decisione legale interrompa la vita di un essere umano. Una posizione politica inaccettabile, ma che trova sostegno in una tradizione filosofica che ha esponenti insospettabili (in questo seminario Derrida dedica pagine memorabili alla giustificazione razionale della pena di morte in Kant).
D’altra parte, c’è la posizione esistenziale: la pena di morte non pesa soltanto sui prigionieri nei bracci della morte, ma su chiunque, ognuno di noi è, per il solo fatto di vivere, condannato a morte.
Sono temi che rivelano la prossimità di Derrida con gli autori letti da ragazzo in Algeria: Rousseau, Nietzsche, Gide, Camus, Sartre, Kierkegaard, una prossimità che diviene più esplicita nel momento in cui, con l’avanzare dell’età, Derrida sente che la pena di morte si sta avvicinando.
Come evitare l’inevitabile? Attraverso la sua lunghissima e fecondissima riflessione sulla scrittura, si può dire che nella sua intera opera Derrida abbia messo in atto una strategia di sopravvivenza o di resurrezione: che resti almeno la scrittura, nel momento in cui non c’è più lo scrittore.
Ma, ovviamente, è illusorio pensare che questo sopravvivere spettrale (quello dello spettro è un altro tema centrale della riflessione derridiana) sia un rimedio all’inevitabile. È un farmaco, un rimedio provvisorio, una specie di anestesia. Derrida tiene questo seminario dell’anno accademico 1999-2000.
Morirà quattro anni dopo, il 9 ottobre 2004, e tutti i suoi ultimi scritti sono impegnati in una specie di lavoro del lutto anticipato, in una preparazione o rassegnazione all’inevitabile, facendo ricorso a tutte le consolazioni della filosofia.
In occasione della 35a “Giornata della vita” (3 febbraio 2013) , l’Associazione di Volontariato “La Vita”, chiede al papa di escludere la liceità morale della pena di morte dal “Catechismo” (art. 2267) e da tutta la Dottrina cattolica. *
Con la venuta di Cristo, fatto uomo mortale, la persona umana ha riacquistato l’immortalità fisica e spirituale. Con la sua incarnazione, morte e resurrezione Gesù ha unito a sè, in maniera indissolubile ed eterna, la natura umana dell’uomo, perciò, giustamente, il Vangelo afferma : “Colui che ha resuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi” (Rm 8,11) e “Questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità (1 Cor 15,54).
Il fatto che, questa Parola di Dio avrà pieno compimento solo alla fine dei tempi, come affermiamo anche nel “Credo” : “Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, non toglie che, già adesso, qui ed ora, la persona umana è stata da Cristo ricostituita immortale, infatti, “ciò che sarà già è” (Qoèlet 3,15). E allora, se Cristo, con il suo sacrificio ha distrutto per sempre la morte e ha trasformato il suo veleno mortifero, che la provoca, in un sonnifero temporaneo, perché “La Chiesa non esclude...il ricorso alla pena di morte” (Nuovo Cat. n° 2267) e richiama in vita, con la sua dottrina, la nemica di Dio (1 Cor 15,26)?
Con la liceità morale della pena di morte essa, rema contro la volontà di Dio, riedifica ciò che Cristo ha distrutto con il suo sacrificio e lede la dignità dei sacramenti, in particolare del Battesimo, per mezzo del quale la persona umana rinasce alla vita eterna per i meriti di Cristo.
Il “senso” che Cristo ha conferito con la sua incarnazione alla vita umana, non va considerato dal concepimento alla morte naturale, ma dal concepimento all’eternità, e la vita umana, che sfocia nell’eternità, non ha valore relativo, come insegna la Chiesa, ma assoluto. La liceità morale della pena di morte, che consente al potere pubblico di distruggere vite umane anche innocenti, discredita la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.
“La Chiesa è l’universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo” (Gaudium et spes n°45), ma come lo svela e lo realizza? “Rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto l’azione dello Spirito Santo” (Gaudium et spes n°21e).
Il futuro dell’umanità, la pace, la giustizia, la verità, prima ancora che dalla politica, dall’economia, dalle religioni o dalla scienza, dipende dalla Chiesa, dalla sua capacità di rinnovarsi e di conformarsi sempre più a Cristo “autore della vita” (At 3,15) e suscitare nelle coscienze umane il riconoscimento del vero senso e valore della vita umana.
diac. Giuseppe Cavallaro
www.associazionelavita.it
gius-cavallaro@libero.it
Papa benedice promotrice legge che prevede pena di morte per gay in Uganda
di Redazione *
Una legge contro l’omosessualità - da approvare - che tra le ipotesi prevede la pena di morte. Succede in Uganda, uno dei 37 paesi nel mondo che considerano nel loro codice penale l’essere gay un reato. Il presidente del parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che questa norma sarebbe stata un ”regalo di Natale” per tutti gli ugandesi anti gay. La signora, come si legge sul sito del parlamento del paese africano, è stata ricevuta e benedetta ieri dal Papa che oggi, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, ha definito i tentativi di accomunare i matrimoni gay a quelli fra uomo e donna “un’offesa contro la verità della persona umana” e “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”. Nella foto si vede Benedetto XVI accanto alla speaker.
La legge anti-gay, “The Kill gay bill” duramente contestata, potrebbe essere approvata nei prossimi giorni e per questo sta crescendo la pressione del popolo del web. L’ultimo dato relativo alla petizione on line è che oltre un milione di persone hanno firmato l’appello promosso dalla web community Avaaz.org; “Ultime ore per fermare l’orribile legge anti-gay in Uganda” si legge sulla home page. “Chiediamo ai leader dell’Uganda e ai suoi maggiori paesi partner di unirsi a noi nel condannare ogni persecuzione e difendere i valori della giustizia e della tolleranza”, si legge nel testo della petizione.
Il disegno di legge, presentato dal deputato David Bahati, propone pene detentive più lunghe per gli atti omosessuali rispetto a quelle attualmente in vigore, tra cui l’ergastolo, ma nella sua bozza originale era prevista anche la pena di morte nei casi di omosessualità aggravata; se a commettere il reato per esempio è un malato di Hiv o se si hanno rapporti con minorenni. Nel presentare la legge la Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che sarebbe stata un ”regalo di Natale”. Il testo, definito lo scorso anno ”odioso” dal presidente americano Barack Obama, ha già scatenato una serie di proteste da parte di alcuni leader mondiali che hanno minacciato di sospendere gli aiuti in favore di Kampala. Chi dovesse vivere con una persona del suo stesso sesso, in caso di approvazione della legge, rischierebbe 14 anni di galera.
“Quello che oggi papa Benedetto XVI ha anticipato quale messaggio per la Giornata Mondiale della Pace che si celebrerà l’1 gennaio 2013 è probabilmente il peggiore di sempre: arma infatti gli omofobi di tutti i paesi con un invito ad una crociata senza quartiere contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso” commenta Flavio Romani, presidente nazionale Arcigay, secondo il quale “leggere pero’ nelle altisonanti parole del pontefice che il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una minaccia per la giustizia e per la pace, oltre a qualificare da sé il messaggio, testimonia l’assenza di argomentazioni realistiche e sensate da parte della Chiesa Cattolica sull’argomento”.
Per Romani “il matrimonio anche per gay e lesbiche ha vinto e si sta affermando in tutto il mondo, in paesi governati sia da conservatori che da progressisti, e arriverà anche in Italia, al di la’ di questo canto del cigno. Certo, dopo il laico pronunciamento di ieri del Parlamento europeo a favore di unioni civili e matrimonio per persone dello stesso sesso votato democraticamente a maggioranza, non ci attendevamo di meglio da una teocrazia che rincorre su questi temi il peggior integralismo.
Il messaggio anticipato oggi è tristemente coerente con la benedizione data ieri in Vaticano alla delegazione parlamentare ugandese guidata dalla portavoce Rebecca Kadaga, una delle più forti promotrici della ‘Kill the Gay Bill’, la legge che il parlamento ugandese si appresta ad approvare e che prevede la pena di morte per ‘omosessualità aggravata’. Con queste due azioni - conclude - Benedetto XVI continua a rappresentarsi come un apostolo di ingiustizia, divisione e discriminazione ai danni delle persone omosessuali, lesbiche e transessuali. E’ necessario che la società civile e i rappresentanti politici, a tutti i livelli, facciano sentire le loro parole di condanna di fronte ad atti e parole così gravi”.
Lettera aperta a Benedetto XVI: perché sbaglia? Santità!
di Giovanni Geraci (portavoce Gruppo del Guado, cristiani omosessuali di Milano)
in “http://gruppodelguado.blogspot.it” del 15 dicembre 2012
Mi permetto di scriverLe, Santità, dopo aver letto il Suo messaggio per la Giornata Mondiale della pace 2013 che cade il prossimo primo Gennaio.
Le dico innanzi tutto di essermi commosso davanti alle parole con cui ha ricordato l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII: io all’epoca ero ancora un bambino, ma quando, diversi anni dopo, ho avuto modo di leggerla, ho vissuto un’esperienza davvero profonda che ha segnato in maniera definitiva la mia Fede
In particolare La ringrazio per aver citato il brano in cui papa Giovanni ricorda che «la realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana, in cui le relazioni interpersonali e le istituzioni sono sorrette ed animate da un “noi” comunitario implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri».
La ringrazio per aver ricordato che la pace c’è solo quando si sentono come propri i bisogni e le esigenze altrui e si rendono partecipi gli altri dei propri beni.
Ed è partendo da queste osservazioni, che fanno senz’altro parte del Magistero che la chiesa esercita quando parla del rapporto tra l’uomo e Dio, che mi permetto di farLe notare quella che, a mio avviso, è una stridente contraddizione presente nel Suo messaggio.
Lei infatti, continuando a sviluppare il discorso intorno alla pace, a un certo punto, afferma che: «La struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale».
Mi permetto di farLe notare, in nome di quel realismo che san Tommaso d’Aquino raccomandava ai suoi allievi (quello stesso realismo che ci impone di riconoscere la realtà per quello che è, senza guardarla con gli occhiali del pregiudizio e senza strumentalizzarla con inutili sofismi) che i paesi che più si adoperano per costruire la pace a livello internazionale sono quelli che, per primi, hanno adottato delle leggi che rendono il matrimonio «giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione».
E in nome dello stesso realismo mi permetto di farLe notare che sono gli stati in cui i diritti delle persone omosessuali sono calpestati quelli che, più di frequente, intraprendono azioni violente nei confronti dei paesi confinanti o nei confronti delle popolazioni su cui hanno giurisdizione. Come la mettiamo con questo dato di fatto che contraddice in maniera palese quello che Lei afferma?
La risposta, saggiamente, la suggerisce Lei stesso, quando scrive che «questi principi non sono verità di Fede» e ci fa quindi capire che, anche se pensa di fare riferimento a una specifica visione della natura umana «riconoscibile con la ragione», quando critica le leggi che riconoscono le unioni omosessuali non fa riferimento al Vangelo, ma fa riferimento a quella che Lei considera una retta ragione che, però, più per ignoranza che per malanimo, in questo caso tanto retta magari non è. Ho l’impressione che Lei parta da una visione parziale e distorta dell’omosessualità, che la porta a valutare in maniera sbagliata il reale rapporto che c’è tra pace e diritti delle persone omosessuali. Una visione distorta che Le impedisce di vedere quanto il mancato riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali sia in palese contraddizione con l’atteggiamento di chi, come Lei scrive nel brano che ho ricordato all’inizio di questa lettera, riconosce «come propri i bisogni e le esigenze altrui» e rende gli altri partecipi del propri beni».
Perché non riconoscere come proprio il bisogno che le persone omosessuali hanno di costruire delle relazioni di coppia fedeli e responsabili?
Perché non renderle partecipi di quei diritti e di quei doveri che, regolando la vita famigliare, aiutano la società nel suo complesso a strutturarsi meglio? E come la mettiamo con i tanti fanatici che nel Suo articolato messaggio leggono solo una dura condanna delle leggi che riconoscono le unioni omosessuali e che, spinti dal loro fanatismo fanno poi di tutto per perseguitare le persone omosessuali?
Certe affermazioni, già gravi quando vengono pronunciate dal primo parroco che parte per la tangente durante un’omelia, diventano gravissime quando compaiono all’interno di un messaggio firmato dal Papa.
Ed è per questo che La invito a domandarsi in cosa sta sbagliando se è arrivato addirittura a stabilire tra pace e rispetto dei diritti delle persone omosessuali una relazione che è l’esatto contrario di quella che tutti possono osservare e se è arrivato a contraddire una raccomandazione morale importante come quella, da Lei ricordata, che ci invita a fare nostri i bisogni degli altri. Si tratta di un invito che Le viene da un cattolico che Le vuole bene e che non vuole che, tra qualche anno, quando Lei si troverà di fronte a nostro Signore, venga interpellato per le conseguenze gravissime (in termini di discriminazioni, di sopraffazioni e di violenze) che possono avere le parole che ha scritto nel suo messaggio di quest’anno.
Inizi finalmente ad incontrare delle coppie di persone omosessuali, a parlare con loro, ad ascoltarle, a guardarle negli occhi e vedrà che il Suo atteggiamento nei confronti della loro situazione cambierà radicalmente. Glielo dice uno che ha fatto questa esperienza e che, forte di questa esperienza osa dirle con chiarezza che, quando parla di diritti delle coppie omosessuali non solo non segue una retta ragione, ma rischia di non seguire nemmeno il Vangelo.
PENA DI MORTE
Kristeva: 2050, obiettivo abolizione * Quale è il senso di un progetto di abolizione universale della pena di morte? Non sono né giurista né specialista dell’abolizionismo. Non ho mai assistito ad un’esecuzione e nessuno dei miei parenti è stato vittima di un omicidio, di abusi sessuali, di torture o di violenze. Non vi leggerò i rapporti medici che elencano in dettaglio i supplizi della ghigliottina, quei testi che Albert Camus ricopiava per comunicarci il suo disgusto. Non ho rivissuto quell’empatia romantica che Victor Hugo percepiva quando paragonava il suo dolore di esiliato a quello del condannato a morte.
Abolire la pena di morte: perché? Farlo significa porre a fondamento del XXI secolo quello che Hugo chiamava più di 150 anni fa (1854) «l’inviolabilità della vita umana». Da sempre gli uomini hanno paura della morte, eppure la danno ad altri per meglio salvaguardare la propria vita e tentano di salvare il bene infliggendo il male supremo. Mentre tutto sembra peggiorare, proprio quando le guerre, la minaccia del disastro ecologico, l’avvitamento della finanza virtuale e della società dei consumi ci richiamano costantemente alla nostra fragilità e alla nostra vanità, l’inviolabilità della vita umana ci invita a pensare il senso della nostra esistenza: essa è la pietra angolare dell’umanesimo.
Di quale VITA parliamo? L’abolizionismo risponde: OGNI VITA, quale che essa sia, fino a "farsi carico della vita di quelli che ci fanno paura", i pazzi, i criminali, secondo quanto Robert Badinter affermava quando nel 1981 presentava nel Parlamento francese un progetto di abolizione della pena di morte. L’umanità attuale può fare la prova, e mettersi alla prova, fino al punto di "farsi carico della vita di quanti ci fanno paura"? Noi abolizionisti diciamo: sì. Benché 141 Paesi su 192 membri delle Nazioni unite abbiano abolito la pena capitale, il 60% della popolazione mondiale vive in un Paese in cui essa viene ancora applicata (resta in vigore nei 4 Stati più popolati del mondo: Cina, India, Stati Uniti e Indonesia).
Forte della sua eredità plurale - greca, ebraica e cristiana - l’Europa ha fatto la scelta della secolarizzazione, operando così un cambiamento anticipatore unico al mondo; ma la sua storia è stata anche segnata da una serie troppo lunga di orrori: guerre, stermini, colonialismo, totalitarismi.
Questa filosofia e questa storia ci impongono una convinzione politica e morale secondo la quale nessuno Stato, nessun potere, nessun uomo può disporre di un altro essere umano né ha il potere di togliergli la vita. Quale che sia l’uomo o la donna che noi condanniamo, nessuna giustizia deve essere una giustizia che uccide. Augurarsi l’abolizione della pena di morte in nome del principio dell’inviolabilità della vita umana non è qualcosa che rivela ingenuità né un idealismo beato e irresponsabile; non si tratta di dimenticare il dolore dei propri vicini. NO.
Io non credo né alla perfezione umana né alla perfettibilità assoluta mediante la grazia della compassione o dell’educazione. Io scommetto solo sulla nostra capacità di conoscere meglio le passioni umane e di accompagnarle fino ai loro limiti, perché l’esperienza ci insegna che è impossibile (cioè impensabile) rispondere al crimine con il crimine.
Lo ribadisco: l’umanità non possiede una paura più grande di quella di vedersi privata della vita, e questa paura fonda il patto sociale. I più antichi trattati di giurisprudenza che noi possediamo lo testimoniano.
Prendete il codice babilonese di Hammurabi (1792-1750 a. C.), o ancora la filosofia greca di Platone e Aristotele, ma anche quella dei romani, e pure i libri sacri ebrei e cristiani: tutte le società hanno ammesso e praticato la messa a morte del criminale con lo scopo di difendere, proteggere e dissuadere.
Due voci però si sono levate contro la messa a morte: gli abolizionisti attuali le ritrovano e le ascoltano per rilanciare la battaglia. Mi riferisco al profeta Ezechiele: «Io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (33,11). Ma soprattutto San Paolo. «La morte è stata ingoiata per la vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo pungiglione?».(1Cor 15, 54-55). O ancora, in seguito, Maimonide: «Dà più soddisfazione rilasciare migliaia di colpevoli che mettere a morte un solo vivente».
Da bambina in Bulgaria, mio Paese natio, sentivo i miei genitori evocare le condanne capitali che il regime comunista aveva inflitto ai membri del parlamento, ma anche qualcosa sui processi e le purghe staliniani. Avevo già imparato il francese quando mio padre, un uomo di fede, mi spiegava che se il Terrore rivoluzionario era stato inevitabile, la lingua come la cultura francese avevano in sé i Lumi. Ero già in Francia quando venne ricoverato per un’operazione e quindi assassinato in corsia nel 1989, qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino: nel suo ospedale in quel periodo venivano condotti alcuni esperimenti sugli anziani. La pena di morte in Bulgaria è stata abolita nel 1998 benchè oggi ancora il 52% delle persone si dicono favorevoli alla sua applicazione.
Il nuovo umanesimo deve essere capace di difendere il principio dell’inviolabilità della vita umana e di applicarla a tutti, senza eccezioni; anche in altre situazioni estreme dell’esperienza della vita: l’eugenetica, l’eutanasia. Lungi da me l’idea di idealizzare l’essere umano o di negare il male di cui egli è capace. Noi possiamo sempre curarlo e, abolendo la pena di morte - che è un crimine, ricordiamocelo - noi ci battiamo contro la morte e contro il crimine. In tal senso, l’abolizione della pena di morte è una rivolta lucida, la sola che vale contro la pulsione di morte e in definitiva contro la morte: è la versione secolarizzata della resurrezione.
È noto che in Italia viene illuminato il Colosseo, sanguinosa memoria di innumerevoli gladiatori e di martiri cristiani messi a morte, ogni volta che un Paese abolisce la morte di morte o emette una moratoria sulle esecuzioni. Propongo che ogni notte quando un Paese rinuncia alla pena di morte, il suo nome venga scritto su un megaschermo illuminato installato per la circostanza su place de la Concorde (un tempo piazza della Rivoluzione) e sull’Hotel de Ville di Parigi. Questo gesto può aggravare le nostre finanze pubbliche? Gli ottimisti prevedono che il mondo nella sua quasi totalità avrà abolito la pena di morte entro il 2050. Tocca a noi fare in modo che questa processo abolizionista diventi maggioranza.
(Traduzione di Lorenzo Fazzini)
* Avvenire, 26 novembre 2012
Guerra e pace
di Aldo Maria Valli (Europa, 10 agosto 2012)
Titolo a tutta pagina: “Eroi per la pace”. La pagina è quella dedicata alle inchieste più importanti e il giornale è Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Si parla «missioni di pace» dei militari italiani nel mondo e di un’associazione che sta per nascere, per raccogliere i reduci e le famiglie dei caduti, dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia. C’è anche un’intervista a monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo e ordinario militare, in pratica la guida dei cappellani militari. Il paginone è corredato da una grande foto di soldati italiani con il mitragliatore in pugno, sullo sfondo un mezzo blindato.
Poi c’è anche la foto di un soldato che agita un tricolore. Il tono generale pagina è dato da due frasi dell’arcivescovo: «Chi avvicina i reduci avverte la serenità di chi ha seminato giustizia». E poi quella ripresa nel titolo: «Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti, perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità».
Passano ventiquattro ore e il paginone di Avvenire provoca una dura reazione di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale alla cui presidenza c’è l’attuale vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici. «Eroi per la pace o vittime della guerra?» si chiede l’associazione in un documento, firmato per ora da trenta parroci di tutta Italia, che stigmatizza «l’insopportabile retorica» del servizio e giudica inaccettabile l’idea circa la convergenza dell’essere cristiano e soldato. «Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della missione e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre, chiamate appunto missioni di pace ma in realtà avventure senza ritorno».
La sola «missione» in Afghanistan, nota Pax Christi, costa due milioni di euro al giorno. Non sarebbe stato meglio investirli in ospedali, scuole e acquedotti? Parliamo tanto delle vittime italiane, ma dei morti afghani o iracheni chi si occupa? «Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare e della presenza dei cappellani tra i militari». Di questo, dicono i firmatari, dovrebbe occuparsi il giornale cattolico. Magari ricordando quei cattolici (come il tedesco Franz Jägerstätter, ucciso dai nazisti) che sacrificarono la propria vita pur di ribadire il no all’uso delle armi.
Lettera aperta al direttore di AVVENIRE *
Un minestrone di luoghi comuni, una brodaglia di affermazioni generiche, una collezione di citazioni anche autorevoli e di alto spessore, incollate tra loro, però, da una ideologia militarista, servile e di comodo. Noi, caro direttore, non siamo daltonici; e sappiamo distinguere il rosso del sangue delle vittime dal nero del sangue dei carnefici. E sappiamo distinguere, negli stessi soggetti, in questo caso i nostri soldati, ma senza indifferenziate giustapposizioni, la loro parte di oppressi e il loro ruolo inconsapevole, ma reale, di oppressori. Quando affermiamo che “il sangue degli uomini e delle donne non ha nazionalità” è per contestare e contrastare il narcisismo nazionalistico della retorica militare e non, con sembra far lei, per accomunare indistintamente carnefici e vittime, occupanti ed occupati, colonizzatori e colonizzati.
A dividerci, caro direttore, sembra esserci un “pre-giudizio” sulla guerra che per noi è sempre una sconfitta della ragione ed una sciagura per l’umanità, mentre per lei sembra rivestire i panni della dignità, morale oltre che politica, in un mondo nel quale la politica stessa è diventata il proseguimento della guerra con altri mezzi.
C’è un passaggio, nella sua lettera, in cui riporta questo lamento di Benedetto XVI: «Purtroppo talora altri interessi - economici e politici - fomentati dalle tensioni internazionali, fanno sì che questa tendenza costruttiva trovi ostacoli e ritardi». Ci farebbe piacere quando mai il suo giornale ha denunciato “questi interessi”, in maniera puntuale ed in equivoca, smascherando così il vero, triste volto di morte degli eserciti asserviti al Potere.
*
Don Aldo Antonelli
(uno dei 78 sacerdoti firmatari dell’appello “Eroi per la Pace o Vittime della Guerra?”
Il Papa ai governi
«Ora eliminate la pena di morte»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 01.12. 2011)
«Non c’è giustizia senza vita». Così papa Benedetto XVI ha salutato ieri nell’aula Paolo VI i ministri della giustizia di oltre cento paesi ricevuti in udienza. Dal ministro della Giustizia italiano Paola Severino ai rappresentanti dell’Unione Europea, ai ministri della Giustizia di numerosi paesi (Francia, Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Eritrea, Gabon, Guinea, Lesotho, Mali, Niger, Rwanda, Tanzania, Cambogia, Ecuador, Honduras, Norvegia, Kenya, Sudafrica, Sud Sudan, El Salvador) insieme ad una delegazione dell’Illinois - ultimo stato USA ad avere abolito la pena capitale, erano a Roma per partecipare al VI Congresso «Per un mondo senza pena di morte» promosso dalla Comunità di sant’Egidio.
Nel suo saluto rivolto in inglese il pontefice ha auspicato che l’incontro possa «incoraggiare le iniziative politiche e legislative promosse da un numero crescente di Paesi per eliminare la pena di morte» e - ha aggiunto - «per continuare i progressi sostanziali realizzati per conformare il diritto penale sia alla dignità umana dei carcerati che ad un efficace mantenimento dell’ordine pubblico». Il Papa, che nella sua recente Esortazione Apostolica Africae Munus ha sottolineato come «occorra fare di tutto per abolire la pena capitale», ha espresso così tutto il suo appoggio al convegno tenutosi nella «Giornata Mondiale delle città della vita».
Un appuntamento che ha coinvolto più di 1400 città nel mondo in 87 nazioni e 66 capitali. Le ragioni di questa iniziativa le ha ricordate il portavoce della Comunità di sant’Egidio, Mario Marazziti. «Va sempre rispettata la vita umana: anche quella di un eventuale colpevole. Anche quella di pubblici criminali: per non abbassare mai la società civile e gli stati al livello di chi uccide».
Cresce nel mondo la sensibilità contro la pena capitale. «Se nel 1973 su 200e rano appena una ventina i paesi che avevano abolito la pena di morte - ha ricordato Marazziti - ora si è passati a 141 paesi. Dal 2007si sono aggiunti tre Stati Americani: il New Jersey, il New Mexico, l’Illinois».
Nell’ultimo anno nei 58 paesi che mantengono la pena capitale, solo un terzo delle sentenze sono state eseguite. «Ora occorre passare dalla moratoria di fatto ad una moratoria di legge o ad un percorso di abolizione definitivo» ha aggiunto. «Siamo al numero più basso di esecuzioni da 15 anni negli Stati Uniti. Diminuisce in Cina l’uso della pena capitale. È una cultura della vita - ha concluso che si sta affermando».
Un sostegno pieno all’iniziativa è venuto anche dal presidente del Senato, Renato Schifani. «Il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato» ha affermato. Contro la pena di morte, ieri sera, Colosseo illuminato come altri monumenti in tutto il mondo.
L’anno della fede secondo Ratzinger
di Lucetta Scaraffia (Il Messaggero, 18 ottobre 2011)
BENEDETTO XVI ci ha abituati ormai a un pensiero che vola alto, al di sopra delle circostanze storiche che stiamo vivendo, un pensiero che segnala la meta più alta, quella vera, in momenti in cui tutti sembrano solo presi dai problemi del momento. Lo ha fatto anche adesso, nella lettera apostolica che introduce all’Anno della fede, da lui proclamato per il periodo che va dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Con questa proclamazione si riporta l’attenzione dei cristiani alla radice profonda del loro impegno, la fede, cioè ciò che giustifica tutta la loro vita Questo fa capire chiaramente come tante dispute a cui assistiamo oggi sul ruolo dei cattolici, ad esempio in politica, o davanti ai problemi posti dalle tecnoscienze, siano in realtà questioni secondarie, che si possono affrontare e risolvere solo ritornando al fondamento di tutto, la fede. E invece proprio della fede, spesso, i credenti sembrano dimenticarsi: «Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, scrive il Papa continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». Negato non solo come atto volontario del cuore e della mente, quando non accettano di credere, ma anche come presupposto culturale che informa le nostre vite: «Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone». All’origine di ogni crisi culturale e sociale che travaglia la post-modernità in cui viviamo, ricorda il Papa con queste parole, c’è solo la mancanza di fede. È una risposta che vale anche nei confronti della crisi economica perché, come ha detto Gesù, bisogna darsi «da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la via eterna». E tutto il resto seguirà.
La data scelta per iniziare questa riflessione sulla fede è l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, perché, dice Benedetto XVI, questo anno della fede deve essere considerato una «conseguenza ed esigenza postconciliare». In un momento in cui sembrano riaprirsi le grandi polemiche sull’interpretazione del Concilio, in cui gli opposti schieramenti rivendicano la correttezza della loro visione di ciò che è stato e delle conseguenze che ha avuto, il Papa, con questa coincidenza voluta, fa capire come l’unica interpretazione possibile sta proprio al cuore dell’essere cristiano, piuttosto che nelle tante possibili declinazioni che ne possono derivare.
In questo modo egli ci ricorda come il Concilio non sia solo opera degli uomini, ma momento in cui la rivelazione ha continuato a manifestarsi, a farsi ascoltare, come è avvenuto sempre nel corso della storia della Chiesa: «Sento più che mai il dovere di additare il Concilio come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre». Il Concilio letto alla luce della fede, che unifica i cristiani invece di dividerli.
Questo anno della fede, ovviamente rivolto ai credenti nella duplice via di attenzione rinnovata alla liturgia e alla testimonianza di ciascuna vita, testimonianza che deve essere intesa anche pubblica, si rivolge anche a coloro che, pur non credendo ancora, cercano un senso nella vita, perché «questa ricerca è un autentico preambolo», alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di «ciò che vale e permane sempre».
L’attenzione di Benedetto XVI è sempre rivolta come abbiamo visto anche recentemente nel viaggio in Germania, come si legge in tutte le sue opere oltre che ai credenti, anche alle persone che cercano, a coloro che vorrebbero incontrare la verità. Ogni suo atto e decisione viene sempre declinata e spiegata anche per loro. Per i cristiani, la fede è raccolta e tramandata attraverso due strumenti indispensabili: il Credo e il Catechismo. Chi, come me, ha avuto ancora la fortuna di impararli a memoria, sa come essi diventino il cuore parlante che guida la vita di ogni cristiano.
Nella lettera apostolica, il Papa cita spesso il suo amato Agostino, ma alla fine ci ricorda che l’esempio più perfetto di fede è Maria, che con la sua semplice ma forte adesione alla fede ha cambiato le sorti del genere umano.
Hanno una rivista che si chiama "Bonus Miles Christi", il buon soldato di Cristo. Ma siamo sicuri sia proprio Cristo ad arruolare soldati "buoni" che bombardano figli, figlie e anziani di popoli che nemmeno conoscono?
I cappellani militari chiedono più soldi per fare le guerre
di don Paolo Farinella *
Un’amica mi ha passato un articolo di Manlio Dinucci con il titolo «Aggressioni “benedette”». Fin dalle parole d’incipit ci si chiede se ancora a dieci anni del terzo millennio, dobbiamo ancora subire come cristiani parole che sono il segno di una vita più indecente conclamata in nome di Cristo. Il vescovo castrense (non equivocare, dicesi castrense il vescovo insignito della carica vescovile e contemporaneamente di quella di generale di corpo di armata, con stellette incorporate ); il vescovo castrense guida diocesi dei militari (si chiama Ordinariato militare) che hanno una rivista il cui titolo è - indovinate un po’? - «Bonus Miles Christi - Il buon soldato di Cristo». Sì, proprio così: Cristo è uno che arruola soldati e per giunta buoni, anche quando vanno a sparare ai figli, figlie, bambini, bambine, anziani di popoli che non ci conoscevano nemmeno se non per avere a capo del governo un degenerato, pazzo e tronfio piccoletto dai tacchi rialzati.
Fin dove può arrivare la mistificazione! Si mescola l’acqua santa col diavolo, Dice il capo di questa diocesi di soldati di Cristo armati ed educati alla violenza con armi sofisticate per ammazzarne più che sia possibile; dice che «prova amarezza di fronte a chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’obiezione contro le spese militari» perché «il mondo militare contribuisce a edificare una cultura di responsabilità globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano». Monsignor Vincenzo Pelvi continua, e non s’accorge delle bestialità: «l’Italia, con i suoi soldati fa la sua parte per promuovere stabilità, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani». Parole messe in fila una dopo l’altra dal giornale dei vescovi «Avvenire» (2 giugno 2011), segno che la presidenza approva. Sia benedetto l’esercito e gli eserciti che tanto bene fanno all’umanità con amore e compassione: sparando, squartando, bruciando, violentando, stuprando, bestemmiando. Cosa importa! Alla rientro da queste battaglie di civiltà c’è sempre un pincopallo di cappellano, con aspersorio e stola, pronto ad assolvere e con la penitenza di andare ancora contro il nemico e «di farlo fuori prima che ti faccia fuori lui».
Manlio Dinucci, Manifesto, ricorda alcuni momenti topici che dovrebbero fare impallidire anche la Madonna nera, mentre di questi fatti, i preti di ieri e di oggi non se ne fanno un baffo:
1. Nel 1911, nella chiesa di S. Stefano dei Cavalieri in Pisa, parata con bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Maffi invitava i soldati in partenza per la guerra di Libia, a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle» e in tal modo «redimere l’Italia, la terra nostra, di novelle glorie».
2. Il 2 ottobre 1935, all’annuncio di Mussolini che iniziava la guerra di Etiopia, Mons. Cazzani, vescovo di Cremona, da perfetto fascista indirizzava al popolo una sua pastorale, dove si leggono queste perle: «Veri cristiani, preghiamo per quel povero popolo di Etiopia, perché si persuada di aprire le sue porte al progresso dell’umanità, e di concedere le terre, ch’egli non sa e non può rendere fruttifere, alle braccia esuberanti di un altro popolo più numeroso e più avanzato». 3. Il 28 ottobre 1935, ricorrendo il 13° anniversario della marcia su Roma, nel Duomo di Milano, il cardinale Alfredo Ildelfonso Schuster così celebrava: «Cooperiamo con Dio, in questa missione nazionale e cattolica di bene, nel momento in cui, sui campi di Etiopia, il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene agli schiavi. Invochiamo la benedizione e protezione del Signore sul nostro incomparabile Condottiero».
4. L’8 novembre 1935, sempre in relazione alla guerra di Etiopia Mons. Valeri, arcivescovo di Brindisi e Ostuni, scrive anch’egli una pastorale al suo popolo: «L’Italia non domandava che un po’ di spazio per i suoi figli, aumentati meravigliosamente da formare una grande Nazione di oltre 45 milioni di abitanti, e lo domandava a un popolo 5 volte meno numeroso del nostro e che detiene, non si sa perché e con quale diritto, un’estensione di territorio 4 volte più grande dell’Italia senza che sappia sfruttare i tesori di cui lo ha arricchito la Provvidenza a vantaggio dell’uomo. Per molti anni si pazientò, sopportando aggressioni e soprusi, e quando, non potendone più, ricorremmo al diritto delle armi, fummo giudicati aggressori». 5. Oggi dopo 76 anni, un altro cappellano militare, anima persa e senza Dio, tale don Vincenzo Caiazzo, che celebra messa sulla portaerei Garibaldi, che di fatto è la sua parrocchia, popolata di caccia, missili bombe con cui lui e quelli come lui bombardano la Libia - garantisce che «l’Italia sta proteggendo i diritti umani e dei popoli, per questo siamo in mezzo al mare» perché la motivazione teologica è chiara: «I valori militari vanno a braccetto con i valori cristiani». (Oggi, 29 giugno 2011).
Di fronte a questo rinnegamento del Vangelo viene solo voglia di dire «Povero Cristo!». Costoro dovrebbero essere le «guide», coloro che dovrebbero insegnare a «discernere» il grano dal loglio, la violenza dalla non-violenza, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, la pace dalla guerra. Costoro sono l’autorità nella Chiesa che si annettono Cristo a loro uso e consumo, lo militarizzano, lo circondano di armi e di morte e poi vanno nei salotti clericali a difendere la vita. Che Dio li perdoni, se può, perché costoro non hanno smarrito solo la fede, ma «c’hanno perduto il ben de l’intelletto» (Dante, Inf. III,18).
* DOMANI/ARCOIRIS. 13-10-2011
-http://domani.arcoiris.tv/i-cappellani-militari-chiedono-piu-soldi-per-fare-le-guerre/
Youcat, abbiate fede
di Aldo Maria Valli (Europa, 2 febbario 2011)
Quando i giovani di tutto il mondo si ritroveranno a Madrid, nel prossimo agosto, per la Giornata mondiale della gioventù, avranno nei loro zaini, assieme al sacco a pelo, alla lampada per leggere sotto la tenda e alla mappa della città, un dono tutto particolare, firmato Benedetto XVI. Si tratterà di Youcat, nuova versione del Catechismo della Chiesa cattolica pensato proprio per i giovani del nostro tempo, con prefazione dell’attuale papa.
Ma perché il pontefice vuole che i giovani possiedano e, possibilmente, leggano il catechismo? È lui stesso a spiegarlo nelle pagine iniziali, anticipate nel fascicolo di febbraio del mensile Il messaggero di sant’Antonio: questo libro, dice il papa, è straordinario sia per il suo contenuto, sia per il modo in cui è nato.
Youcat nasce infatti, per così dire, da una costola del nuovo catechismo voluto da Giovanni Paolo II negli anni Ottanta del secolo scorso, quando papa Wojtyla si rese conto della necessità di alfabetizzare di nuovo i credenti, troppo spesso ignari delle principali verità della fede e della dottrina cattolica.
Il compito di coordinare il gruppo di lavoro (un lavoro immane) fu assegnato all’allora cardinale Joseph Ratzinger, che oggi confessa tutto il suo spavento di fronte a un simile incarico. I dubbi sulla riuscita dell’impresa erano forti, anche perché i vescovi chiamati a collaborare provenivano da tutto il mondo e c’erano grossi problemi di coordinamento. «Anche oggi - scrive il papa - mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito». Gli incontri si fecero via via più frequenti e piano piano, nonostante le difficoltà, il nuovo testo prese forma e sostanza. Ne uscì un documento semplice nella struttura ma sostanzioso nei contenuti, elaborato a partire dalle domande alle quali tutti i credenti dovrebbero saper rispondere: che cosa crediamo, in che modo celebriamo, in che modo dobbiamo pregare?
Il papa non nasconde che durante la lavorazione ci furono anche scontri, inevitabili in simili casi, perché «tutto ciò che gli uomini fanno può essere migliorato», ma l’obiettivo era chiaro a tutti: riuscire a parlare davvero a ogni persona, all’operaio come al professionista, all’europeo come all’americano, all’africano o all’asiatico, al colto come all’incolto, al giovane come all’anziano. Ne venne fuori un testo che, per forza di cose, mediava tra le diverse esigenze.
Nel frattempo papa Wojtyla aveva inventato le giornate mondiali della gioventù, e subito ci si pose il problema di come trasmettere i contenuti del nuovo catechismo, in modo efficace, ai milioni di giovani coinvolti in quelle iniziative. Ecco, Youcat vuole essere la risposta a quella domanda. Un catechismo per i giovani, pensato appositamente per loro che vivono nel mondo globalizzato e connesso dalle nuove tecnologie.
Lo “stile Ratzinger” tuttavia non viene meno. «Questo sussidio al catechismo - spiega - non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra». Nessuna concessione al giovanilismo. Piuttosto un nuovo modo di presentare le verità di sempre, con una raccomandazione molto diretta da parte del papa: «Studiate il catechismo con passione e perseveranza! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici. Formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet. Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede! Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer».
Papa Benedetto sa bene che i casi di pedofilia nella Chiesa possono aver causato l’allontanamento di tanti giovani, e dice: «Non prendete questo a pretesto per fuggire al cospetto di Dio! Portate il fuoco intatto del vostro amore in questa Chiesa ogni volta che gli uomini ne oscurano il volto!».
Youcat, stampato in tedesco, inglese, francese, italiano, spagnolo, portoghese e polacco, farà dunque compagnia ai giovani che si riuniranno a Madrid ma, nelle intenzioni del papa, dovrà essere anche il principale strumento di quella nuova evangelizzazione da lui tanto auspicata nei paesi di anticatradizione cristiana che hanno perso progressivamente coscienza dei fondamenti della religione cattolica spostandosi sempre di più verso una fede fai da te.
Errore shock, ritirato il nuovo catechismo
di Marco Ansaldo (a Repubblica, 13 aprile 2011)
Domande brevi, e risposte concise, seguite da un commento ugualmente sintetico sulla fede spiegata ai ragazzi. Ma forse la fretta ha giocato un brutto scherzo durante la revisione di YouCat, acronimo di Youth Catechism, il libro sul catechismo fatto per i giovani e impreziosito dalla Premessa di Benedetto XVI, anticipato ieri da Repubblica. E un errore sulla delicatissima questione della contraccezione farà ora mandare al macero le decine di migliaia di copie già stampate e presenti nelle librerie.
Il punto controverso ruota attorno alla domanda numero 420 delle 527 riunite nel volume. Dove ci si chiede: «Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?». E la risposta tranciante è: «Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita». Come si evince da un’affermazione così assertiva, oltretutto non conseguente alla logica della domanda, l’errore risiede nella traduzione della stessa domanda. Tanto è vero che al punto successivo si legge: «Perché non tutti i mezzi per evitare il concepimento di un figlio sono ugualmente buoni?». E la risposta fa chiarezza sulla «regolazione consapevole del concepimento» e quindi sulla «pianificazione naturale della famiglia», cioè la prassi prescritta dalla dottrina.
Già ieri mattina alcuni acuti osservatori di cose religiose avevano notato la contraddizione. Nel pomeriggio poi il Catholic News Service (Cns), l’agenzia dei vescovi americani, dava la notizia della sospensione temporanea del libro, spiegando la decisione con il fatto che la traduzione italiana dava «erroneamente l’impressione che le coppie cattoliche possano usare "metodi contraccettivi"».
L’edizione italiana è stata così sospesa in modo che, spiega una portavoce della casa di pubblicazione Città Nuova, Elena Cardinali, «l’editore italiano possa rivedere il testo». Il testo, che si trovava in libreria già nei giorni scorsi, ben visibile in particolare a Roma nei negozi lungo via della Conciliazione che sfociano su piazza San Pietro, ha venduto 14 mila copie.
L’errore presente in italiano non si rileva né nell’edizione originale tedesca, della nota casa cattolica Pattloch, né in quella americana in inglese. Nel volume vengono trattati in modo soft temi controversi come la contraccezione, l’eutanasia passiva, il celibato, l’omosessualità e il divorzio. Il testo italiano ha avuto la supervisione del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia.
Questa mattina in Vaticano è prevista in ogni caso un’annunciata conferenza stampa, alla quale parteciperanno il cardinale Stanyslaw Rylko, capo dicastero per i Laici, l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn (l’edizione originale è a cura della Conferenza episcopale austriaca), e monsignor Rino Fisichella, capo dicastero per la Nuova evangelizzazione. YouCat doveva essere un’operazione di largo respiro, lanciata in vista della visita del Papa fra il 16 e il 21 agosto prossimo a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù. Rischia invece di essere un caso per un deprecabile errore di traduzione.
Dal 1976 negli Usa mandati a morte 1226 condannati *
Dal 1976, anno in cui la Corte Suprema reintrodusse in America la pena capitale, sono state messe a morte negli Stati Uniti 1.226 persone: 1.215 uomini e 11 donne. Nessuna in Virginia. Teresa Lewis, la disabile mentale di 41 anni, è la prima donna ad essere messa a morte in Virginia nell’arco di quasi cento anni. Nello Stato l’ultima esecuzione di una donna avvenne nel 1912, quando venne eseguita la sentenza nei confronti di Virginia Christian, una ragazza di 17 anni uccisa sulla sedia elettrica. Sempre in Virginia, la prima esecuzione documentata risale invece al 1632 con l’impiccagione di Jane Champion. Da quel giorno sono state 123 le donne messe a morte. Ma dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte, negli Stati Uniti sono state in tutto 11.
* l’Unità, 24.09.2010