“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro (prezzo), così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, (L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai ! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
DEUS CHARITAS EST
[I Ioannes 4]: Biblia Sacra: Epistola Joannis Prima - Vulgatae Editionis
Sixti V et Clementis VIII.
4:1 Charissimi, nolite omni spiritui credere, sed probate spiritus si ex Deo sint: quoniam multi pseudoprophetæ exierunt in mundum.
4:2 in hoc cognoscitur spiritus Dei: omnis spiritus qui confitetur Iesum Christum in carne venisse, ex Deo est:
4:3 et omnis spiritus, qui solvit Iesum, ex Deo non est, et hic est Antichristus, de quo audistis quoniam venit, et nunc iam in mundo est.
4:4 Vos ex Deo estis filioli, et vicistis eum, quoniam maior est qui in vobis est, quam qui in mundo.
4:5 Ipsi de mundo sunt: ideo de mundo loquuntur, et mundus eos audit.
4:6 Nos ex Deo sumus. Qui novit Deum, audit nos: qui non est ex Deo, non audit nos: in hoc cognoscimus Spiritum veritatis, et spiritum erroris.
4:7 Charissimi, diligamus nos invicem: quia charitas ex Deo est. Et omnis, qui diligit, ex Deo natus est, et cognoscit Deum.
4:8 Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus charitas est.
4:9 In hoc apparuit charitas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum.
4:10 In hoc est charitas: non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris.
4:11 Charissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere.
4:12 Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et charitas eius in nobis perfecta est.
4:13 In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis: quoniam de Spiritu suo dedit nobis.
4:14 Et vos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi.
4:15 Quisquis confessus fuerit quoniam Iesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo.
4:16 Et nos cognovimus, et credidimus charitati, quam habet Deus in nobis. Deus charitas est: et qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo.
4:17 In hoc perfecta est charitas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die iudicii: quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo.
4:18 Timor non est in charitate: sed perfecta charitas foras mittit timorem, quoniam timor pœnam habet. qui autem timet, non est perfectus in charitate.
4:19 Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos.
4:20 Si quis dixerit quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere?
4:21 Et hoc mandatum habemus a Deo: ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.
DIO E’ AMORE *
1 Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo.
2 Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio;
3 ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo.
4 Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo.
5 Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta.
6 Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.
7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
9 In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
11 Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
12 Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
13 Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito.
14 E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo.
15 Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio.
16 Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.
17 Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo.
18 Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore.
19 Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo.
20 Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.
21 Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
* PRIMA LETTERA DI GIOVANNI. - SACRA BIBBIA (Liber Liber).
Il simbolo Chi-rho con Alfa e Omega, Catacombe di Domitilla, Roma:
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Una teologia della storia molto "evangelica" e "francescana".La Chiesa gerarchica controlla le "azioni" dello Spirito santo e garantisce, amministra e distribuisce a "caro prezzo" ("Deus caritas est", 2006) la Grazia ("charitas") di Dio!?!
Avanti tutta!!! Verso il III millennio avanti Cristo!!!
SINODO DEI VESCOVI [5-26 ottobre 2008]
XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
LA PAROLA DI DIO NELLA VITA E NELLA MISSIONE
DELLA CHIESA
INSTRUMENTUM LABORIS
Città del Vaticano
2008
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
FLS
OLTRE IL PLATONISMO E IL PAOLINISMO, UNA "CONCORDANZA" PER UNA "ALLEANZA TERAPEUTICA" TRA CRISTIANESIMO E PSICOANALISI. Appunti sul tema:
A) EUROPA: LA "INUTILE STRAGE" DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE, UN OSPEDALE DA CAMPO MILITARE E LA PROPOSTA DI UN "SATANARIUM": "[...] In occasione della prima guerra mondiale [ #Groddeck] fu richiamato in servizio nella sua qualità di medico militare. Poiché aveva cercato di dirigere anche l’ospedale da campo come fosse stato quello che spesso chiamava il suo #Satanarium (invece di #sanatorium) si attirò le antipatie di tutti, fino ad essere allontanato dal servizio nonostante l’intervento di autorevoli pazienti di un tempo, quali la stessa sorella del #Kaiser e il marito. Fu nel maggio 1917 che Groddeck scrisse la sua prima #lettera a #Freud [...]" (cfr. #MartinGrotjahn, "#GeorgGroddeck (1866-1934). L’analista indomito", in AA. VV., "#Pionieri della Psicoanalisi", #Feltrinelli, Milano 1971).
B) PSICOANALISI E RELIGIONE: IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO. "Frammento inedito" (1931) di Sigmund Freud.
C) PAPA FRANCESCO E LA CHIESA COME "UN OSPEDALE DA CAMPO": «Io vedo con chiarezza - prosegue - che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna cominciare dal basso». (cfr. INTERVISTA A PAPA FRANCESCO di Antonio Spadaro, Santa Marta, lunedì 19 agosto 2013).
D) OLTRE LA CECITÀ DELL’AMORE DI PLATONE, L’INDICAZIONE DI PAPA FRANCESCO RELATIVA ALLA IMPORTANZA E ALLA NECESSITÀ DI UNA "RAFFINERIA" ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA (cfr. la "Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli", 2019).
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, "#SÀPERE #AUDE (#ORAZIO - #KANT), E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. #FREUD, 1937): UNA QUESTIONE DI TESTIMONIANZA.
LE #PERSONE, LE #PAROLE E LE #COSE. Parole di #PapaFrancesco all’Arcidiocesi di Benevento (20 febbraio 2019): "[...] È questo che gli uomini e le donne anche nel nostro tempo attendono dai discepoli del Signore. Testimonianza. Pensate a san #Francesco - che il vostro Vescovo conosce bene - cosa ha detto ai suoi discepoli? “Andate, fate testimonianza, non sono necessarie le parole”. Alle volte si deve parlare ma incominciate con la testimonianza, vivete come cristiani, testimoniando che l’#amore è più bello dell’#odio, che l’#amicizia è più bella dell’#inimicizia, che la #fratellanza fra tutti noi è più bella della #guerra." ("PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’ARCIDIOCESI DI BENEVENTO. Basilica Vaticana - Mercoledì, 20 febbraio 2019" ).
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA): GIUDA E GESU’, E, IL FILO DEL "SERPENTE", LA VIA PER USCIRE DALL’INFERNO DELLA #DIALETTICA TRAGICA (PLATONICO-PAOLINA ED HEGELIANA).
ALLA #LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA PROPOSTO IN "Cain and Jesus in Gertrude’s Closet, Hamlet 3.4" (Paul Adrian Fried)), forse, è ora di decidersi ad accogliere coraggiosamente che per #Shakespeare, come per #DanteAlighieri, nel cammino verso la #sorgente stessa della Legge, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), l’unica possibilità di raggiungere la meta sta proprio nel pensare insieme (dialogicamente e amorosamente) la identità e la differenza tra i #due "fratelli" (al di là "del "bene e del male") e, così, capire che nel "cuore" di "entrambi" si annida (anagrammatica-mente) un "serpent-e" di #speranza, la modalità stessa del "#Trasumanar" (Par. I.70), di andare oltre l’#androcentrismo (e il "#cristocentrismo") della #cosmoteandria della "tragedia" e della "caduta". Rileggere la #Commedia: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent_in_te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole." (Dante Alighieri, Par. XXV, 97-99).
STORIA, FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO". Per fare "#mente locale" sulla #hamletica #question (#Shakespeare), forse, è bene ricordare - in memoria di #Dante Alighieri e di #Lorenzo Valla - due contributi sul tema:
STORIA E STORIOGRAFIA (NICEA, 325-2025):
QUALE ANTROPOLOGIA PER QUALE CRISTOLOGIA, PER QUELLA DI PAOLO E DI COSTANTINO)?! Una sollecitazione a riflettere su
"[...] Se si ha un po’ di familiarità con gli scritti del #NuovoTestamento, anche senza essere addetti ai lavori si può percepire qualcosa che lascia perplessi e fa nascere interrogativi. Per esempio: c’è un legame tra #resurrezione di #Cristo, #donne e #follia? [...]
Il confronto tra i racconti delle apparizioni pasquali dei #quattro vangeli e un testo particolarmente conosciuto di una lettera di Paolo è illuminante. I tre vangeli sinottici concordano nel dire che, oltre a essere state testimoni oculari della morte e della sepoltura, le discepole [...], sono anche le prime testimoni dell’apparizione pasquale dell’Angelo che consegna loro l’annuncio dell’avvenuta resurrezione [...]
Invece Paolo, nella sua prima Lettera ai cristiani di Corinto, correda la dichiarazione di fede [...] con un elenco di diverse apparizioni del Risorto suffragate da una lista di nomi [...]. Tutti sono rigorosamente maschi. [...]" (cfr. L’Osservatore Romano, 05 aprile 2025 ).
COSMOLOGIA, FILOLOGIA E TEOLOGIA TEOCRITEA ("CHARITAS), E MEMORIA DEL CORAGGIO DI ASSAGGIARE ("SÀPERE AUDE") (ORAZIO - KANT):
Una lezione di "recupero" di antropologia filosofica di Armando Massarenti ("Il Sole 24 Ore", 24 aprile 2011):
Sicuri che nessun pasto è gratis?
«Nessun pasto è gratis», fu la risposta che un re ebbe dai suoi consiglieri dopo aver a lungo insistito per sapere, in un sola frase, quale fosse il senso della scienza economica. #Michael #Brooks, già autore del best seller "13 cose che non hanno senso", nel volume sulla #Fisica nella collana "Le grandi domande", diretta da #Simon #Blackburn (Edizioni Dedalo) esordisce con queste parole: «La bellezza della fisica si riassume in un fatto semplicissimo: un #bambino può fare domande cui nessun professore può rispondere».
Una di queste è «Perché non esistono pranzi gratis?». Che, in fisica, ci spinge a dare risposte in termini di «energia, entropia e ricerca del moto perpetuo». #LeonardodaVinci fece un’analisi dettagliata di una famosa macchina che pretendeva di generare il moto perpetuo, e spiegò perché non poteva funzionare. «O ricercatori del moto perpetuo», concludeva, «quante idee sconclusionate avete concepito nel corso di questa ricerca. Sareste pronti per andare a fare gli alchimisti». Cioè a sognare altri pranzi gratis. Eppure un pasto gratis sembrerebbe esistere, ed sarebbe niente meno che il nostro stesso Universo.
Per il fisico Alan Guth è «il più grande dei pranzi gratis», e ciò è dovuto al concetto cosmologico di «inflazione»: «l’Universo e tutta l’energia che contiene si sarebbero sviluppati a partire da un grammo di materiale. Una frazione di secondo dopo il #BigBang, l’Universo era cento miliardi di volte più piccolo di un protone, ma nel giro di 10-34 secondi aveva già raggiunto una dimensione pari a 1025 volte quella di partenza - qualcosa di simile a una biglia» e da lì sì è espanso sempre più fino alle immensità attuali. Nel corso di questo processo l’energia interna dell’Universo è cresciuta di un fattore 1075, il che sembrerebbe violare il principio che impedisce di avere qualcosa in cambio di nulla.
Invece c’è un dettaglio che permette di restare nell’ambito delle leggi fisiche conosciute: una parte dell’energia è negativa, come mostra la teoria della relatività generale. «L’energia associata alla materia è positiva - riassume Brooks -, e la creazione continua di materia fece aumentare l’energia positiva in modo tale da compensare l’aumento dell’energia negativa. In questo modo l’energia totale può rimanere costante. Gli antichi Greci affermavano che nulla può essere creato dal nulla, ma l’inflazione si permette di non essere d’accordo». E di affermare dunque la totale #gratuità dell’Universo.
Sarà proprio così? Di certo, nella nostra vita, ahinoi, continua a vigere la dura legge degli #economisti.
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E FILOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5).
Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal "sottosuolo" ("underworld"): «#Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#Dante Alighieri, Par. I, 70-71).
“Primerear - prendere l’iniziativa”
“Teologia degli estremi confini”
Una riflessione di Scarafoni e Rizzo sul tema Ufo*
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (La Stampa,08 Giugno 2021)
Il Pentagono renderà pubblico un rapporto sui fenomeni aerei non identificati, commissionato lo scorso anno dalla amministrazione Trump, e confermato da quella attuale. Tanta attesa tra chi aspetta la conferma dell’esistenza di extraterrestri, e chi invece pensa che si tratti di avanzate tecnologie di altre potenze mondiali, rivali degli Stati Uniti.
Lo scorso anno l’Agenzia per l’innovazione della difesa francese ha creato un “red team” per reclutare autori e sceneggiatori di fantascienza impegnandoli nella «progettazione e restituzione di scenari di disruption operativi, tecnologici o organizzativi» per immaginare i conflitti del futuro in un periodo ben definito: 2030-2060.
Negli Stati Uniti, dopo decenni di negazionismo, il Pentagono ha creato lo scorso anno la divisione Unidentified Aerial Phenomenon (UAP), per “individuare, analizzare e catalogare i fenomeni aerei non identificati che potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. UAP è la nuova sigla che sostituisce UFO, e comprende una categoria più ampia di fenomeni.
In Giappone esistono specifiche linee guida per i piloti militari in caso d’incontri con UAP; in Argentina, Israele e in altri paesi ci sono state ammissioni ufficiali di contatti. In Cina nella seconda metà dello scorso anno, in piena pandemia, il NAOC, osservatorio astronomico nazionale cinese, ha aperto agli astronomi e fisici del resto del mondo, il FAST, Five hundred meter Aperture Spherical Telescope, un gigantesco radiotelescopio costruito tra le montagne nel sud-ovest del paese dal 2011 al 2016, per esplorare l’universo e per studiare mondi alieni e segnali di vita extraterrestri.
A queste notizie si aggiunge anche lo strano segnale proveniente dalla stella Proxima Centauri, che conferma il rilevamento di “bisbigli” generati da intelligenze non identificate.
Non vogliamo sembrare esagerati nè complottisti, ma chi vive a contatto con i ragazzi, perennemente connessi al gioco Fortnite, capisce che stanno sviluppando una capacità reattiva inimmaginabile per noi adulti, per colpire con una velocità estrema tutti i corpi in movimento. Sono in contatto con giocatori di tutto il mondo, senza distinzioni di sesso, età, etnia, stato, lingua, condizione sociale, cultura e religione. Continui tornei mondiali selezionano i giocatori più bravi concedendo loro premi importanti. Un’applicazione messa a disposizione di tutti e perennemente aggiornata che sembra non avere mai problemi di connessione, anche quando altri importanti programmi vanno in tilt. Un costante allenamento al combattimento. Gli sviluppatori e dai dataminer hanno divulgato i dettagli circa l’imminente arrivo degli UFO in Fortnite Stagione 6, con «cerchi nel grano» e rapimenti dei giocatori da parte degli alieni. Gli extraterrestri dovrebbero essere i protagonisti indiscussi della prossima Stagione 7.
Per quanto riguarda la ricerca della possibilità di vita oltre la Terra nel 2020 è stato pubblicato il libro “Alien Oceans: the Search for Life in the Depth of Space” di Kevin Hand, astrobiologo della Nasa. Si punta l’attenzione su un satellite di Giove chiamato Europa, che anche grazie alla presenza di un oceano, presenterebbe condizioni di vita molto simili a quelle della nostra Terra. A questo progetto allude il film di George Clooney “Midnight sky”, uscito a fine anno scorso. Una coppia di astronauti scienziati, che aspettano un bambino, provenienti da una missione su una luna di Giove, non possono più tornare a casa, perché la Terra non custodita adeguatamente sta per implodere; devono invertire la rotta e rifugiarsi proprio su quell’esopianeta per proteggere la vita e dare speranza all’umanità.
Un altro obiettivo dichiarato da parte di magnati americani è il raggiungimento di Marte per poi costruirvi città abitabili dall’uomo.
Da un punto di vista teologico bisogna intervenire presto, “primerear”, sviluppando una teologia “degli estremi confini” (Rom 10,16-18).
Sarebbe opportuno riprendere gli studi di teologi come Teilhard de Chardin, che avevano messo in evidenza l’importanza del tema. Grande interesse ha suscitato alcuni anni fa, il libro di Armin Kreiner “Gesù, gli UFO e gli alieni” e gli studi del teologo e astronomo Tanzella Nitti e dei padri gesuiti della Specola vaticana, tra i quali José Gabriel Funes e Guy Consolmagno. Oggi è indispensabile confrontarsi e dialogare a lungo con gli scienziati che hanno curato gli sviluppi della ricerca sul cosmo, superando la diffidenza reciproca.
Qualora nel rapporto statunitense si confermasse la reale possibilità di relazionarsi con creature intelligenti diverse da noi, alla teologia si porrebbero difficili tematiche relative alla cristologia (incarnazione e salvezza in Cristo) e all’antropologia.
Cristo è entrato nella creazione facendosi uno di noi, ha scelto l’uomo e la Terra. Su questo mistero per molto tempo si sono basati il geocentrismo e l’antropocentrismo, che purtroppo hanno causato a volte molto dolore. Cristo ci insegna la kenosi per mostrarci la dignità di tutti gli uomini e anche delle altre creature diverse da noi.
Il Cristocentrismo, nella dimensione dell’incontro e della comunione con Lui, va oltre i confini della Terra, ed è possibile anche per creature intelligenti diverse da noi. L’essere un uomo per Cristo è la via, il servizio, non il privilegio e il dominio.
Le persone appartenenti alle potenze mondiali che forse incontreranno gli altri esseri, rappresentando l’umanità, dovranno mostrare una relazionalità e un’accoglienza senza limiti, non l’orgoglio della specie umana.
Le problematiche teologiche legate alla scoperta di nuovi pianeti dove è possibile la vita (astrobiologia), si riferiscono soprattutto all’antropologia e alla cura del creato. L’umanità deve superare definitivamente la visione “predatoria”, come purtroppo è avvenuto nel passato. Di fronte a “nuove terre”, è stata giustificata la “conquista” e la “colonizzazione”, sovente appoggiandosi su una falsa cristologia, con l’errore di benedire le “armi da guerra”. Adesso si aggiunge l’intenzione esplicita di egoismo dei potenti e dei ricchi, che invece di proteggere la Terra, la sfruttano fino al punto di non ritorno e si assicurano la possibilità di impossessarsi di altri pianeti per la loro sopravvivenza. I poveri esclusi da questi giochi predatori, senza un intervento vigoroso, anche teologico, sulle coscienze e sulle intenzioni, sono destinati a rimanere scartati.
Come relazionarci alla meravigliosa scoperta di esopianeti abitabili, dove si può sviluppare la vita, e all’arricchente incontro con creature intelligenti da ospitare e non da combattere, ci è indicato nelle Scritture: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 19,1). Cristo, Re dell’Universo insegna a tutti gli uomini e a tutte le creature ad accogliersi e ad amarsi.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA (2025): UNA QUESTIONE DI GRAZIA ("XAPIS"). DA ARIANNA E DA NASSO ("NAXOS"), UN FILO PER "RI-USCIRE" DAL LABIRINTO DEI "GIOCHI DI PAROLE", E DALLA "PLATONICA" #CAVERNA "POLIFEMICA", E ANDARE INCONTRO ALLE GRAZIE E ALLA #PRIMAVERA CHE SI AVVICINA...
RICORDANDO CHE la parola "Naxos" va letta come "Nacsos", come la parola "Xenos", "Csenos", proprio per rispetto al suo etimo perché rimanda alla parola: ξένος «straniero, ospite». è bene non confondere "Nasso" con la parola "asso", e, la "Filo-xenia", con la Xeno-fobia"!
E’ BENE CHE IL SENSO E IL SUONO DELLA "ICS"("X") NON SIA CONFUSO CON QUELLO DEL "CHI" ("X"), ALTRIMENTI LA "Χαρά (#XAPA)" DIVENTA UNA "XAPA" (cioè, "CSARA") E... SI FINISCE PER PERDERE NON SOLO LA BUSSOLA, LA "XAPA" (cioè, "CHAPA"), E, ANCORA, "LEGGENDO" IN NAPOLETANO E "NEA-POLITANO" ("CHAPIS...ce a me"), PERSINO TUTTA LA PRIMAVERA CON LE SUE GRAZIE (#CHARITES) E LA STESSA GRAZIA!
MITO E #STORIA. "Naxos (detta anche Nasso), isola del mito di Arianna, è la più grande e la più fertile delle Cicladi. [...] Naxos (detta anche Hora, Chora o Naxos #Chora), capitale e porto principale dell’isola [...] Vi siete mai chiesti da dove deriva l’espressione “piantare in asso”? È una contrattura di “piantare in Nasso” e si riferisce alle vicende mitologiche di Arianna, la fanciulla che aiutò Teseo a fuggire dal labirinto del Minotauro.[...]" (v. NAXOS).
COSMOTEANDRIA "POLIFEMICA": #ANDROCENTRISMO, #GEOCENTRISMO ED #ETNOCENTRISMO DI UNA " CHIARA ED EVIDENTE" #CAVERNA PLANETARIA...
PIANETATERRA (2025). Nell’inizio dell’anno del "#Serpente del #legno #verde", per auguri e in omaggio al lavoro di #Stefano #Mancuso e #Alessandra #Viola, "#Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale" (Giunti Editore, 2013, p. 19), riprendo (e ripropongo all’attenzione)
LA "PIRAMIDE DEI VIVENTI" DI BOVILLUS ( CHARLES DE BOVELLES), TRATTA DAL "LIBER DE #SAPIENTE" (1509-1510).
La generale "nostra considerazione" non solo del mondo della #natura e del mondo dell’#uomo (antropologico, sociologico, economico, politico, e teologico) è, a ben vedere, "ancora molto simile".
L’evento.
Donne, giovani, partecipazione: comincia la prima Assemblea sinodale
di Matteo Liut (Avvenire, venerdì 15 novembre 2024
Mille delegati a Roma per la nuova fondamentale tappa del Cammino avviato quattro anni fa. Dal ruolo delle donne all’ascolto dei giovani, tanti i temi sul tavolo
A metà del decennio la Chiesa italiana raccoglie le proprie forze migliori per gettare il cuore oltre l’ostacolo, ri-progettarsi e tracciare rotte per continuare a dare risposte agli interrogativi più profondi delle donne e degli uomini del nostro tempo. E aiutarli così a orientare la loro vita e quella del Paese. Lo fa dandosi appuntamento a Roma, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, per la prima Assemblea sinodale. Un evento che rappresenta un ulteriore concreto passo decisivo nel Cammino sinodale partito quattro anni fa con l’intento, come auspicato più volte da papa Francesco a partire dall’enciclica Evangelii gaudium, non di occupare spazi ma di avviare processi.
Testimoni di questo movimento, che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, saranno i circa mille delegati dell’Assemblea: tra loro, oltre ai vescovi, saranno presenti i componenti del Comitato del Cammino sinodale, i delegati di ciascuna Chiesa locale e alcuni membri designati dalla presidenza della Cei. Le loro voci e le loro storie s’incroceranno in un incontro, che, come spiegato dagli organizzatori, vuole prima di tutto essere «un’esperienza di Chiesa, un’occasione per costruire e curare relazioni».
Ecco perché l’intera dinamica che si è scelto di mettere al cuore del Cammino sinodale è quella della “piramide rovesciata”: non grandi documenti pensati nelle stanze di pochi responsabili, ma una raccolta di vita che parta dalla quotidianità di chiunque “viva la Chiesa” in qualsiasi modo. Questa visione ha guidato l’intero percorso, avviato nel 2021 e scandito in tre fasi: quella narrativa (2021-2023), quella sapienziale (2023-2024) e quella profetica (2024-2025).
Tutto facile, sereno e ben ordinato quindi? Per nulla: essendo il Cammino sinodale non un “evento a latere” della vita della Chiesa ma un’esperienza intensamente calata nell’ordinario svolgersi delle attività delle comunità locali, esso ne ha incrociato e assunto tutte le difficoltà e i rallentamenti. Ma in questo caso gli ostacoli hanno rappresentato una ricchezza in più, indicando con ancora maggiore chiarezza i nodi da sciogliere, le scelte da prendere con coraggio, le priorità da curare.
Ma come si è arrivati fin qui e di cosa parleranno i mille delegati a Roma, riuniti da oggi e fino a domenica? Come detto, il Cammmino è stato aperto nel 2021, ma di fatto ha le proprie radici nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, quando il Papa invitò la Chiesa italiana a fare proprio lo stile sinodale, tornando sul tema anche nel 2019. In questo modo, di fatto, l’intero percorso raccoglie il compito, che per la Chiesa italiana hanno avuto i Convegni ecclesiali di metà decennio: fermarsi a fare il punto della situazione, mettere in file le priorità cui dare risposta, cercare il modo migliore per continuare a essere una presenza efficace tra la gente, nel cuore dell’Italia. Tutto questo, per il decennio degli anni ’20, quindi ha preso la forma di un’esperienza sinodale, scandita, appunto, in tre tappe, in grado di coinvolgere attivamente fin dai primi passi mezzo milione di persone.
E ha generato uno spazio, che ha messo in luce non solo le potenzialità e le risorse ma anche le «annose questioni che affaticano il passo», come sottolineano i documenti di sintesi: «Il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie». La consapevolezza condivisa è quella legata alla necessità di superare «una visione di Chiesa costruita intorno al ministero ordinato per andare verso una Chiesa “tutta ministeriale”, che è comunione di carismi e ministeri diversi».
Si parte da qui, quindi, per dare forma a un cambiamento concreto e non solo di facciata o di intenzioni. Lo ha ricordato bene anche Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, in un’intervista ad Avvenire al termine dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi: «Per noi è questa la fase finale del Cammino sinodale, che poi sarà, speriamo, la fase iniziale di un rinnovamento. Raccogliamo i frutti di questi anni».
Questo pomeriggio, dopo i saluti del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, e di Erica Tossani, membro della presidenza del Comitato del Cammino sinodale, sarà proprio Castellucci a tenere la relazione introduttiva, mentre Pierpaolo Triani, membro della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro ai tavoli, cui sarà dedicata la giornata di domani.
A guidare il confronto saranno i Lineamenti, i cui contenuti (approfonditi in questi giorni anche da Avvenire attraverso diverse interviste) sono tutti orientati a una visione missionaria della Chiesa e riguardano numerosi temi come il rapporto con la cultura, i linguaggi della comunicazione e della liturgia, l’ascolto e la valorizzazione dei giovani, i percorsi di iniziazione cristiana, la formazione dei formatori, dei responsabili, dei sacerdoti, l’impegno nella carità, la ministerialità, gli organismi di partecipazione, la presenza, il servizio e i ruoli di responsabilità delle donne, l’organizzazione amministrativa, la riforma delle curie, la struttura sul territorio, la trasparenza nella rendicontazione. Dai tavoli di questi giorni uscirà uno “Strumento di lavoro”, che saranno offerti alle diocesi.
La loro restituzione sarà al centro del dibattito della seconda Assemblea ecclesiale (31 marzo-4 aprile 2025), che produrrà delle “proposizioni” destinate al vaglio della prossima Assemblea generale della Cei, chiamata a poi a offrire delle indicazioni pratiche concrete. Ma anche quelle non saranno un punto di arrivo, bensì il punto di partenza di un cammino di cambiamento ormai non più rinviabile.
STORIA E LETTERATURA TEATRO, METATEATRO E FILOLOGIA:
"RE-SHAKESPEARE" CHIARA-MENTE, CON VICTOR HUGO, LUIGI PIRANDELLO ED EDUARDO DE FILIPPO.
In onore e memoria di Victor Hugo e Charles Baudelaire...
LA «#CHARITE’» DEL VESCOVO #MYRIEL DEI "#MISERABILI", LA #CRITICA (#KANT) DELLA #ECONOMIAPOLITICA (#MARX), E IL #CATTOLICESIMO DELL’#AGAPE COSTANTINIANO. Se è vero cje «Il romanzo “I miserabili” si apre con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine straordinarie (...)», e, ancora, che «Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e "I miserabili", abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, siamo diventati noi i nuovi miserabili e non vediamo più l’innocenza di Jean Valjean, prima e dopo il furto dell’argenteria.», non è altrettanto storicamente e #parresia-stica-mente preciso sostenere - come fa lo storico e l’economista Luigino Bruni nell’articolo «”I miserabili”: la grammatica del dono. Il rischio dell’ospitalità”, il capitolo che egli dedica al capolavoro di Victor Hugo nel suo recente “Viaggio economico nei capolavori della letteratura” ) - che «Myriel ci sta allora insegnando cosa è veramente l’#agape, cioè la forma dell’amore tipica dei cristiani.».
DA #COSTANTINO IL GRANDE, A #NAPOLEONE BONAPARTE, E ALLA FINE DEL "#SOGNO"DEL "SACRO ROMANO IMPERO": RICOMINCIARE DA "#AMLETO"! Da quel poco che conosco dell’opera di Victor Hugo so che conosceva la lingua greca e ne era "parigina-mente" fiero: il famoso #pane (quello "eu-#charis-tico"), la "#Grazia di Dio", richiama sì il #messaggioevangelico, appunto la "#Charitas" (la "Charité", la "Carità") dello "Spirito santo" (1 Gv.), senza il quale l’ #amore (l’#agape), rinvia solo alla "economia" e a #Mammona (alla "#caritas")! Nella prospettiva di una #antropologia (#cristologia) del #dono (e del "per-dono"), se non sbaglio, avevano già lavorato alla grande non solo filosofi ed economisti come #GiambattistaVico e la "Scuola del #Genovesi", ma anche, continuando e ricordando, letterati e poeti come Luigi #Pirandello e #Eduardo #DeFilippo (e Shakespeare, ovviamente): a loro, il #Presepe della "#Danimarca" non è mai piaciuto ("#Natale in Casa Cupiello", 1931).
#NICEA (325-2025). A #EDUARDO E PIRANDELLO, INFATTI, PIACE #PARLARE E #RESPIRARE LIBERAMENTE, LOCALMENTE E GLOBALMENTE. SUL TEMA, PIRANDELLO L’AVEVA GIA’ DETTO E SCRITTO LA "SUA", CON DETERMINAZIONE NELLE "NOVELLE" (NEL 1918 ALLA FINE DELLA PRIMA #GUERRAMONDIALE); ED #EDUARDODEFILIPPO (DUE ANNI DOPO I #PATTILATERANENSI E IL #CONCORDATO TRA CHIESA CATTOLICA E FASCISMO, NEL 1929) LO SCRIVE E LO DICE CON UNA "BATTUTA" DIVENUTA "EPOCALE", NEI CONFRONTI DEL COSIDDETTO "#DONO" DI COSTANTINO, IN "#NATALE IN CASA CUPIELLO", NEL 1931.
PIANETA TERRA: ASTRONOMIA ANTROPOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PREISTORIA.
Memoria di Francesco di Assisi (#4ottobre 2024): dopo ottocento anni (#Greccio, 1223), nonostante l’arrivo nel #cielo della #Terra, non di una sola #cometa ma di #due comete, ancora non si sa come si fa il #presepe e "come nascono i bambini". Incredibile, ma vero!
INVERTIRE IL PRESENTE. CON FERNANDO PESSOA, SEGUENDO OMERO VIRGILIO E DANTE, RITORNO AL FUTURO: "NON BASTA APRIRE LA #FINESTRA".
CAMBIARE ROTTA E SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT): INVERTIRE LA DIREZIONE (Carlo Rovelli) E USCIRE DALLA TRAGICA E "LUCIFERINA" #CAVERNA DI #PLATONE (E DI TUTTI I #PLATONISMI PER IL #POPOLO), DALLA #FILOSOFIA "COSMOTEANDRICA" DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" DI OGNI #UOMOSUPREMO:
"Non basta aprire la finestra *
Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo là fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che ai è quello che si vede quando la finestra si apre.
PIANETA TERRA E COSMOTEANDRIA:
TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA (KANT, 1724- 2024).
STORIA DELLA #CIVILTA’ E #FILOLOGIA: COME IL #PRINCIPIO ANTROPOLOGICO (TEOLOGICO E COSMOLOGICO) E’ STATO DECLINATO DALL’ANDROCENTRISMO (PLATONICO-PAOLINO ED HEGELIANO), NEI SECOLI DEI SECOLI, FINO A DIVENTARE PRINCIPIO "ANTROPICO", IN UNA SINTETICA "#PIRAMIDE" PROPOSTA DAL "#SAPIENTE" (1510) DI #BOVILLUS (v. allegato).
STORIA #ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA E #TEOLOGIA DELLA CHIESA: ALBINO #LUCIANI, PAPA #GIOVANNI PAOLO I , E IL PRIMATO DELLA CARITA’ ("CHARITAS") SUL GIURIDISMO. In memoria di #Simone Weil ...
"ANNIVERSARIO. Beato Giovanni Paolo I, oggi prima #memoria liturgica:
NOTE:
VITA E FILOSOFIA, STORIOGRAFIA, #FILOLOGIA, E "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO): IN #PRINCIPIO ERA LA VITA, NON LA MORTE.
FISICA E #METAFISICA. CON #KANT (#DANTE #MARX E #HUSSERL), RICORDANDO LA LEZIONE DI #EPICURO:
"[...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, / ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”. [...]" (Epicuro, "Opere", "Epistola a Meneceo", Einaudi, Torino, 1970, pp. 62-63).
NOTE:
FILOLOGIA E TEOLOGIA E STORIA DEL CRISTIANESIMO.
UNA DOMANDA SULLA "PAROLA D’ORO":
DEUS "CHARITAS" (AMORE) O DEUS "CARITAS" (MAMMONA)!?
La "charitas" è diventata la"#caritas", una parola della lingua latina (anzi del "#latinorum"), e ha assunto un significato equivoco, che rinvia alla ricchezza economica e a un #caro, nel senso di "#tesoro", e dell’oro, economicamente e affettivamente).
RICORDO DI SAN PIETRO CRISOLOGO (30 LUGLIO 2024): "[...] Fu grande oratore, per questo fu detto «Crisologo» che vuol dire «Parola d’oro». Ma fu ancora più grande come scrittore tanto da essere proclamato Dottore della Chiesa. Lasciò moltissimi discorsi ed omelie di cui ben 176 sono pervenuti fino a noi. I più celebri sono quelli contro le calende di gennaio in cui non si stanca di ripetere che
«non potrà godere con Cristo in cielo chi vuol godere col diavolo in terra ».
Verso la fine della sua feconda vita, lavorò alla difesa del dogma cattolico contro Eutiche. Questo eretico confondeva in una sola le due distinte nature, umana e divina, esistenti nella persona di Gesù Cristo [...]". (ripresa parziale).
Federico La Sala
Teologia.
Imparare a lasciarsi amare da Dio: il segreto perduto della grazia
Il teologo domenicano Adrien Candiard torna su un tema antico ma dibattuto a suo avviso in modo fuorviante: la grazia è un incontro d’amore. Ma l’essenziale può essere abbagliante...
di Roberto Italo Zanini (Avvenire, martedì 9 aprile 2024)
«Maestro cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». Un libro che comincia con la domanda del “giovane ricco” (Mt19,16) e finisce con una limpida considerazione sull’essenzialità della grazia di Dio che «è un incontro ed è un incontro d’amore» è certamente provocatorio. Lo stesso autore, il teologo domenicano Adrien Candiard, sottolinea che «tutti i discorsi teologici sulla grazia sviluppati nel corso dei secoli... sono andati fuori strada quando hanno mancato l’essenziale». La lista è lunga e attraversa i millenni fra dotti dibattiti teologici (domenicani-gesuiti), scismi, controriforma, concili, contrapposizioni pastorali e via dicendo. Eppure, quell’essenziale «abbaglia come il sole estivo di Galilea che si avvicina allo zenit», dice l’autore ricordando un recente pellegrinaggio al Monte delle beatitudini. È l’ineguagliabile e spesso misconosciuta originalità della vita cristiana, oggi sperduta nella nebbia di senso e di verità che avvolge le sempre più esigue Chiese d’Occidente.
L’essenziale «abbaglia», ma evidentemente non è facile da cogliere. Il giovane ricco va cercando proprio quello: la vita vera, fatta delle cose che contano, che danno piena soddisfazione, che ci fanno felici e restano per l’eternità. Lui, che è un’anima bella e osserva tutti i comandamenti, lo va a chiedere proprio alla “luce che brilla come il sole”, che prontamente lo ama, ma lui non riesce a restarne illuminato. Come noi e come i discepoli nel racconto evangelico, viene travolto dalla cruda risposta di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, vai, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
Candiard si dice travolto anch’egli dall’enormità delle parole di Gesù e nel libro pone il quesito che interroga i cristiani fin da san Paolo: ma se, come dice l’Apostolo, è la fiducia nella grazia a donare la vita eterna, perché Gesù, che è sempre accogliente con tutti, domanda al giovane come se la cava coi comandamenti e poi formula una proposta di perfezione così esigente che gli stessi discepoli, sgomenti, si chiedono, ma allora chi può essere salvato? In quest’ottica la replica di Gesù, «impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile», risulta un chiarimento efficace, ma non risponde al quesito sul valore della grazia e su quello delle opere.
Dilemma millenario e scismatico che riemerge ciclicamente e con prepotenza condizionante, al punto che papa Francesco ha più volte sottolineato il pericolo per la Chiesa di oggi di restare ingabbiata in un nuovo pelagianesimo. Perché puntando tutto sulla prassi, sulla dottrina sociale, sulle opere assistenziali, sulle cose da fare, sulla liturgia ridotta a routine, sulle preghiere senz’anima si finisce per perdere il carisma profetico e autenticamente cristiano, che viene dall’apertura totale all’amore di Dio, all’azione dello Spirito.
Ecco allora la provocazione di questo libro, che nell’edizione italiana, (Lev, pagine 109, euro 13) ha un titolo esplicativo e pratico: La grazia è un incontro. E nel sottotitolo specifica: Se Dio ama gratis, perché i comandamenti? Nell’originale francese, invece, il titolo, più simbolico, indica il percorso teologico-spirituale seguito da Candiard per fondare evangelicamente le ragioni della Grazia. Percorso che pone le sue radici nel Discorso della montagna: Sur la Montagne. L’aspérité et la grâce. E sulla Montagna Gesù comincia con le Beatitudini (Mt5, 3-12) che certamente costituiscono un programma esigente, e prosegue con altre “asperità” come: amate i nemici, porgete l’altra guancia, date a chi chiede, non preoccupatevi di quello che mangerete, non potete servire Dio e cercare la ricchezza... Raccomandazioni che a metterle in pratica, specifica il Vangelo, si fa come chi costruisce la propria casa sulla roccia (Mt7,24-27).
Se la parola “beati”, dice Candiard, può agevolmente essere resa con “felici”, le Beatitudini sono il percorso della vera felicità e restarne spiazzati è la prima conseguenza per il lettore attento. Cosa c’entra la felicità con la fame di giustizia, con la persecuzione, col pianto, con la povertà? Tanto più, possiamo aggiungere, che la gioia della risurrezione è pura felicità? Per uscire da questa rischiosa incomprensione, il padre domenicano ci ricorda che per Gesù la felicità non è nel non avere nulla, ma nel possedere il Regno di Dio, nell’abitarlo. Pertanto, «Quello che conviene cercare non è essere poveri, tristi o affamati di giustizia, ma è: essere consolati, saziati, perdonati, essere chiamati figli di Dio, è vedere Dio». Insomma, ciò che genera e dona la vera felicità, la vita vera; ciò che cercava il giovane ricco e che probabilmente cerca nel proprio intimo ognuno di noi, è tutto questo insieme, è il Regno di Dio, la perla preziosa da desiderare più di ogni altro bene al mondo. E il Regno di Dio non è l’Onnipotente che viene a prendere il controllo del mondo, ma è il suo amore incondizionato che si rivela in una povera mangiatoia e si offre sulla croce rigenerando la vita, la felicità eterna. Il Regno di Dio è amore, ed è amore donato, offerto a tutti, gratis, per sempre. Amore capace di renderci figli: divini come lui è divino. Questa è la buona novella. Questa è la grazia, sottolinea Candiard. E per cambiare le nostre vite, secondo il desiderio del giovane ricco, dobbiamo semplicemente desiderare di essere sanati e lasciarci sanare, desiderare di essere amati e lasciarci amare.
Facile? Evidentemente no se Pietro rifiuta, in prima battuta, che il Maestro lavi i suoi piedi (Gv 13,8); se tanta gente si indigna nel vedere Gesù che accetta di farsi profumare i piedi da una prostituta (Lc 7,38); se c’è chi si presenta alla festa di nozze senza essersi lasciato vestire con l’abito nuziale (Mt 22,12); se dopo secoli di dibattito teologico ancora adesso corriamo il rischio di restare irretiti dall’inganno pelagiano di conquistarci il Regno con le nostre forze, pur essendo stati avvertiti da Gesù in persona che non ne abbiamo a sufficienza.
«Nella Chiesa - aggiunge Candiard, che si chiede come mai ci sia tanta difficoltà per i cristiani a parlare di grazia - spendiamo un sacco di energie, di omelie e conferenze a lamentarci di quanto sia difficile obbedire al comandamento di Cristo e quindi amare il prossimo come noi stessi. Ci sforziamo di aggirare la difficoltà a forza di abilità esegetica e di retorica, spiegando che amare non è necessariamente quello che pensiamo, che è già tanto fare del proprio meglio, volere il bene o non fare del male. E non mi spiego come mai, nel frattempo, ci occupiamo molto meno del nostro vero campo di attenzione, cioè lasciarci rivestire dell’abito nuziale, lasciarci amare, accogliere il Regno che ci è dato».
Qui, Candiard affronta con efficace semplicità il tema della preghiera. Perché la preghiera è semplicità; è volgere l’attenzione a Dio che è nel nostro cuore «più intimo a me di me stesso», come dice Agostino (più volte citato da Candiard quale campione della teologia della grazia), lasciandosi aiutare dallo Spirito, anzi, lasciando che lui preghi per noi, come scrive san Paolo nella Lettera ai romani, perché «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (8,26) e «per mezzo dello Spirito gridiamo “Abbà! Padre!”» (8,15). Estremo paradosso, per noi cristiani così poco avvezzi ad aprirci all’amore donato e alle cose autenticamente spirituali, scoprire, come anche Candiard, che Dio prega in noi. Perché, non solo lo Spirito è in noi, ma in noi «prega per farci pregare». Dio è nel nostro cuore che ci aspetta e cosa fa? Prega! E giunge incessantemente col suo Spirito a suscitare la nostra preghiera. Per il teologo domenicano è la Trinità che in noi mostra il suo volto: l’amore che si svela nell’amore. E allora: perché non lasciarsi amare?
Nota:
FLS
EPOCALISSE: "APRIRE GLI OCCHI" (S. #FREUD, 1899), PER #CARITÀ! #FILOLOGIA E #ARCHITETTURA FILOSOFICA E ANTROPOLOGICA (#KANT2024).
#DANTEDI’, 25 MARZO 2024: UNA NOTA SULLA TRASVALUTAZIONE STORICA DELLA "VIOLENTA CARITÀ" ("VIOLENTAE CHARITATIS") DI RICCARDO DI SAN VITTORE.
STORIA E LETTERATURA. Nel bimillenario percorso planetario del #cattolicesimo romano (#Nicea 325-2025), la "#diritta via" (#Dante Alighieri) del filologico legame significante e significato tra il luogo dell’#amore e il luogo dell’#occhio ("Ubi amor, ibi oculus") è stata smarrita insieme con l’#acca ("h").
Incredibilmente, e inauditamente, l’amore, la #charitas dello stesso #Riccardo di San Vittore ("Riccardo /che a considerar fu più che #viro", più che uomo, come scrive Dante nel X del "Paradiso") è diventata la parola-chiave della teologia della ricchezza materiale e spirituale: la "caritas", senza più "h", senza più l’acca, è diventata semplicemente #Mammona, il dio ("#Deus #caritas est") dell’#economia mondiale, garante del "buon-andamento" del #carro delle borse e del #caro-prezzo del #mercato: la religione del #capitalismo, vecchio e nuovo (come aveva capito Karl #Marx, #WalterBenjamin, e, ovviamente, #DanteAlighieri).
L’EDITORIALE
Quando il diavolo ci mette lo zampino
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 02/03/2024)
Perché la ‘ndrangheta dovrebbe avvelenare il mite parroco di San Nicola di Pannaconi, popolato da mille anime appena o minacciare quello giovanissimo nella vicina Cessaniti? E perché a distanza di qualche giorno, nonostante, il clamore suscitato dagli episodi criminali (deprecabili e da condannare senza riserve), alzare il tiro e senza indugi, puntare dritto al vescovo della diocesi, quasi a voler svelare il vero obiettivo del clima intimidatorio?
Come nei gialli di Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». La risposta è da ricercare, evidentemente, all’interno della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, messa a dura prova dalla rinuncia al governo pastorale, (dopo 14anni) di mons. Luigi Renzo, il vescovo che “cancella” la Fondazione di Natuzza Evolo, finita nel gennaio 2023, al centro dell’operazione Olimpo. E tra i motivi dell’abbandono e del trasferimento dell’arcivescovo di Catanzaro Squillace, Vincenzo Bertolone.
Da qui (non mi pare poco) la nomina e l’ingresso del vescovo palmese Attilio Nostro con il compito di ricordare che «la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome» e di ricondurre alla fede, una comunità scossa dagli avvicendamenti. E c’è chi è pronto a giurare, che sono proprio i trasferimenti di tutti i parroci «mai visti da nord a sud della provincia», messi in atto dall’alto prelato, il male all’origine di tutti i mali.
E forse non è un caso se Papa Francesco, recentemente a Roma, nella Sala del Concistoro dove incontra la Conferenza Episcopale Calabra, avverte:
E rivolgendosi ai Vescovi chiede:
In attesa che la giustizia faccia il suo corso, smilitarizziamo i cuori.
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": "TONDO DONI". Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
EPIFANIA (#APPARIZIONE) E #IMMAGINAZIONE ("EPINOIA"), #6 GENNAIO 2024. Per "orientarsi nel pensiero" (#Kant) e nella realtà (#Marx), e cercare di non scambiare il gioco dell’illusione (#Schein) con la realtà dell’apparenza (#Erscheinung),
Un "invito alla lettura" dello studio sulla storia del #cibo "eu- caristico" ("EU-#CHARIS-TICO) del teologo, docente di "Storia della Chiesa", Anselm #Schubert, "Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia" (Carocci editore 2019):
NOTA:
Epifania2024. #Memoria e #archeologia di un evento epocale: i #Magi erano #sapienti e sapevano #distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone "giocastolaio" (#Erode). Ma, oggi, dove sono i magi?
Kafka ancora agli inizi del secolo scorso sapeva la differenza tra la #manifestazione epifanica e il #giogo dei "giocastolai" e delle "giocastolaie", e ricordava: "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Lettera a Helli Hermann, autunno 1921).
Anselm Schubert, “Pasto divino”
di Luca Arcari (Storica_mente.Laboratorio di storia)
Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.
Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. - che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) -, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).
Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).
La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).
Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione - stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) - siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.
FLS
Documento vaticano.
Coppie “di fatto” e dello stesso sesso, sì alla benedizione
Con “Fiducia supplicans” del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvata dal Papa, possibile benedire coppie formate da persone dello stesso sesso ma al di fuori di qualsiasi ritualizzazione
di Luciano Moia (Avvenire, lunedì 18 dicembre 2023)
Sul tema delle benedizione per le coppie irregolari o dello stesso sesso «non si debbono aspettare altre risposte su eventuali modalità per normare dettagli o aspetti pratici». La Dichiarazione firmata oggi dal cardinale Fernandez va intesa insomma come la parola finale sulla questione e va considerata come sufficiente «per orientare il prudente e paterno discernimento dei ministri ordinati a tal proposito». Una sottolineatura importante, quella indicata nel documento del Dicastero per la dottrina della fede. Quanto espresso in questo testo dev’essere considerato sufficiente, sia dal punto sostanziale, sia da quello formale.
E qui le coordinate sono esplicite: nessuna forma rituale propria della liturgia, ma preghiere spontanee con benedizioni impartite in contesti “non ufficiali”, come durante un pellegrinaggio, una visita ad un santuario, un incontro con un sacerdote, cogliendo il meglio «dalle viscere della pietà popolare» che sa individuare le strade più opportune per «invocare lo Spirito Santo».
Non si tratta di una “semplice ripetizione” di quanto già detto all’inizio di ottobre, prima dell’avvio del Sinodo. La Dichiarazione sul senso pastorale delle benedizioni per le coppie irregolari e dello stesso sesso,
Dietro al nuovo testo c’è insomma una «riflessione teologica basata sulla visione pastorale di papa Francesco» che «implica un vero e proprio sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni nel Magistero e nei testi ufficiali della Chiesa». È sulla parola “sviluppo” che dobbiamo soffermarci per comprendere il senso delle nove pagine firmate dal prefetto del Dicastero, il cardinale Victor Manuel Fernandez, e «approvate con la sua firma» dal Papa.
Uno “sviluppo” che ci fa comprendere, più sul piano pastorale che su quello dottrinale, che è possibile benedire le coppie in situazioni irregolare e le coppie dello stesso sesso «senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio».
Una contraddizione? Tutt’altro. Dietro questo ragionamento c’è un percorso coerente avviato da papa Francesco già nei due Sinodi sulla famiglia e poi nell’Esortazione Amoris laetitia: «Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo. Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino» (AL 297).
Quindi, se l’obiettivo è quello di “integrare tutti”, di aiutare ciascuno «a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale», è evidente che - come si legge nel nuovo documento - vanno accolti tutti coloro che adorano «il Signore con tanti gesti di profonda fiducia nella sua misericordia e che con questo atteggiamento viene costantemente a chiedere alla madre Chiesa una benedizione».
Un punto fermo che dovrebbe apparire esplicito alla luce del magistero di papa Francesco e, soprattutto, ai principi del Vangelo ma che, ammette il cardinale Fernandez, «ha suscitato non poche e diverse reazioni» quando è stato sintetizzato nel precedente Responsum ad dubium. «Alcuni hanno accolto con plauso la chiarezza di questo documento e la sua coerenza con il costante insegnamento della Chiesa», ma altri non hanno condiviso o non l’hanno ritenuto sufficientemente chiara. Da qui la necessità di una “seconda puntata” per entrare meglio nel dettaglio della questione e illustrare con più ampiezza il pensiero del Papa.
Proprio per evitare fraintendimenti il testo mette subito in chiaro che l’obiettivo non è quello di far confusione tra il matrimonio tra uomo e donna e altri tipi di unione. Il matrimonio è un sacramento che prevede un’unione «esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperte a generare figli». E su questo punto la dottrina resta ferma.
Altra cosa è la benedizione, considerata «tra i sacramentali più diffusi» - non sacramenti - gesti cioè che ci conducono «a cogliere la presenza di Dio in tutte le vicende della vita» e hanno per destinatari «persone, oggetti di culto e di devozione, immagini sacre, luoghi di vita, di lavoro e di sofferenza, frutti della terra e della fatica umana, e tutte le realtà create che rimandano al Creatore le quali, con la loro bellezza, lo lodano e lo benedicono».
A questo punto la grande domanda. L’amore di una coppia irregolare o dello stesso sesso rimanda al Creatore? Può diventare inno di lode e di benedizione? Finora la risposta della Chiesa è sempre stata negativa, perché - ribadisce il documento - ha da sempre «considerato moralmente leciti soltanto quei rapporti sessuali che sono vissuti all’interno del matrimoni».
Il discorso si sarebbe potuto chiudere qui se l’insegnamento di papa Francesco, ripreso nella Dichiarazione del cardinale Fernandez, non ampliasse il senso della benedizione, sollecitando quello sviluppo innovativo che riflette l’impegno di una Chiesa davvero in uscita, attenta a cogliere e a sostenere la fatica di tutte le periferie esistenziali.
Quindi una benedizione subordinata a «troppi prerequisiti di carattere morale» - come quelli previsti per un sacramento - finirebbe per porre in ombra «la forza incondizionata dell’amore di Dio», quando proprio papa Francesco «ci ha esortato a “non perdere la carità pastorale che deve attraversare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti” ed evitare di “essere giudici che solo negano, respingono, escludono”».
Ecco allora la necessità - come appunto fa la Dichiarazione - di ripercorrere le benedizioni secondo la voce della Scrittura per andare a cogliere quelle numerose ed esplicite tracce di misericordia divina che ci fanno riconoscere il gesto di benedire come «dono sovrabbondante e incondizionato». E questo, secondo la ricognizione sintetizzata nel documento, è vero sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento dove la benedizione non è soltanto ascendente «in riferimento al Padre», ma anche discendente «riversata sugli altri come gesto di grazia, protezione e bontà».
Ecco perché la benedizione dev’essere intesa anche come messaggio di «inclusione, solidarietà e pacificazione», ma anche di «conforto, custodia e incoraggiamento che esprime l’abbraccio misericordioso di Dio e la maternità della Chiesa e che invita il fedele ad avere gli stessi sentimenti di Dio verso i propri fratelli e sorelle». Nessuno escluso. Opportuno ribadirlo.
Ecco perché papa Francesco sollecita a comprendere il senso della benedizione come «risorsa pastorale da valorizzare» piuttosto che come rischio e problema anche per le coppie irregolari e per quelle dello stesso sesso. L’importante è, appunto, evitare confusioni con il sacramento del matrimonio.
Ecco perché papa Francesco sollecita a comprendere il valore della benedizione come “risorsa pastorale da valorizzare” piuttosto che come rischio e problema anche per le coppie irregolari e per quelle dello stesso sesso.
L’importante è, appunto, evitare confusioni con il sacramento del matrimonio. Opportuna quindi una benedizione non ritualizzata per evitare di confonderla con un atto liturgico o semi-liturgico, che «priverebbe i ministri della libertà e della spontaneità nell’accompagnamento pastorale della vita delle persone». Per questa ragione non si deve promuovere né prevedere «un rituale per le benedizioni di coppie in una situazione irregolare, ma non si deve neppure impedire o proibire la vicinanza della Chiesa ad ogni situazione in cui si chieda l’aiuto di Dio attraverso una semplice benedizione».
Cosa chiedere quindi nella breve preghiera che precede la benedizione? «La pace, la salute, uno spirito di pazienza, dialogo e aiuto vicendevole, ma anche la luce e la forza di Dio per poter compiere pienamente la sua volontà».
E se, sempre con il proposito di evitare confusioni, vanno evitati «abiti, gesti e parole propri di un matrimonio», non bisogna mai dimenticare che «ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni» e che «ogni fratello e ogni sorella potranno sentirsi nella Chiesa sempre pellegrini, sempre mendicanti, sempre amati e, malgrado tutto, sempre benedetti».
Ad theologiam promovenda *
Lettera apostolica in forma di «motu proprio»
del sommo pontefice FRANCESCO
1. Per promuovere la teologia in avvenire non ci si può limitare a riproporre astrattamente formule e schemi del passato. Chiamata a interpretare profeticamente il presente e a scorgere nuovi itinerari per il futuro, alla luce della Rivelazione, la teologia dovrà confrontarsi con le profonde trasformazioni culturali, consapevole che: «Quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca» (Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2013).
2. La Pontificia Accademia di Teologia, sorta agli inizi del xviii secolo sotto gli auspici di Clemente xi, mio Predecessore, e da lui istituita canonicamente col breve Inscrutabili il 23 aprile 1718, nel corso della sua secolare esistenza ha costantemente incarnato l’esigenza di porre la teologia a servizio della Chiesa e del mondo, modificando quando necessario la propria struttura e ampliando le proprie finalità: da iniziale luogo di formazione teologica degli ecclesiastici in un contesto in cui altre istituzioni risultavano carenti e inadeguate a tale scopo, a gruppo di studiosi chiamati a indagare e approfondire temi teologici di particolare rilevanza. L’aggiornamento degli Statuti, voluto dai miei Predecessori, ha segnato e promosso tale processo: si pensi agli Statuti approvati da Gregorio xvi il 26 agosto 1838 e a quelli approvati da S. Giovanni Paolo ii con la Lettera Apostolica Inter munera Academiarum il 28 gennaio 1999.
3. Dopo quasi cinque lustri è giunto il momento di revisionare queste norme, per renderle più adatte alla missione che il nostro tempo impone alla teologia. A una Chiesa sinodale, missionaria ed “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”. Come ho scritto nella Lettera al Gran Cancelliere dell’Università Cattolica di Argentina, rivolgendomi a professori e studenti di teologia: «Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. [...] Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». L’apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità, non può però ridursi ad atteggiamento “tattico”, adattando estrinsecamente contenuti ormai cristallizzati a nuove situazioni, ma deve sollecitare la teologia a un ripensamento epistemologico e metodologico, come indicato nel Proemio della costituzione apostolica Veritatis gaudium.
5. Questa dimensione relazionale connota e definisce, dal punto di vista epistemico, lo statuto della teologia, che è spinta a non chiudersi nell’autoreferenzialità, che conduce all’isolamento e all’insignificanza, ma a cogliersi come inserita in una trama di rapporti, innanzitutto con le altre discipline e gli altri saperi. È l’approccio della transdisciplinarità, cioè un’interdisciplinarità in senso forte, distinta dalla multidisciplinarità, intesa come interdisciplinarità in senso debole. Quest’ultima favorisce sicuramente una migliore comprensione dell’oggetto di studio considerandolo da più punti di vista, che tuttavia rimangono complementari e separati. La transdisciplinarità va invece pensata «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio» (Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, Proemio, 4c). Ne deriva l’arduo compito per la teologia di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.
8. Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo. Perciò occorre che venga anzitutto privilegiato il sapere del senso comune della gente che è di fatto luogo teologico nel quale abitano tante immagini di Dio, spesso non corrispondenti al volto cristiano di Dio, solo e sempre amore. La teologia si pone al servizio della evangelizzazione della Chiesa e della trasmissione della fede, perché la fede diventi cultura, cioè ethos sapiente del popolo di Dio, proposta di bellezza umana e umanizzante per tutti.
9. Di fronte a questa rinnovata missione della teologia, la Pontificia Accademia di Teologia è chiamata a sviluppare, nella costante attenzione alla scientificità della riflessione teologica, il dialogo transdisciplinare con gli altri saperi scientifici, filosofici, umanistici e artistici, con credenti e non credenti, con uomini e donne di differenti confessioni cristiane e differenti religioni. Ciò potrà avvenire creando una comunità accademica di condivisione di fede e di studio, che intessa una rete di relazioni con altre istituzioni formative, educative e culturali e che sappia penetrare, con originalità e spirito d’immaginazione, nei luoghi esistenziali dell’elaborazione del sapere, delle professioni e delle comunità cristiane.
10. Grazie ai nuovi Statuti, la Pontificia Accademia di Teologia potrà così più facilmente perseguire le finalità che il tempo presente richiede. Accogliendo favorevolmente i voti che mi sono stati rivolti perché approvassi queste nuove norme, e assecondandoli, desidero che questa egregia sede di studi cresca in qualità e per questo approvo, in forza di questa Lettera Apostolica, ed in perpetuo, gli Statuti della Pontificia Accademia di Teologia, legittimamente elaborati e di nuovo revisionati e conferisco loro la forza dell’Apostolica approvazione.
Tutto ciò che ho decretato in questa Lettera Apostolica motu proprio data, ordino che abbia valore stabile e duraturo, nonostante qualsiasi cosa contraria.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1°novembre dell’anno 2023,
Solennità di Tutti i Santi, undicesimo del Pontificato
Francesco
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023 (ripresa parziale).
VATICANO
Sinodo, la "Lettera al popolo di Dio": la Chiesa ha bisogno di ascoltare tutti *
Care sorelle, cari fratelli,
mentre si avviano alla conclusione i lavori della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, vogliamo, con tutti voi, rendere grazie a Dio per la bella e ricca esperienza che abbiamo appena vissuto. Questo tempo benedetto lo abbiamo vissuto in profonda comunione con tutti voi. Siamo stati sostenuti dalle vostre preghiere, portando con noi le vostre aspettative, le vostre domande e anche le vostre paure. Sono già trascorsi due anni da quando, su richiesta di Papa Francesco, è iniziato un lungo processo di ascolto e discernimento, aperto a tutto il popolo di Dio, nessuno escluso, per “camminare insieme”, sotto la guida dello Spirito Santo, discepoli missionari alla sequela di Cristo Gesù.
La sessione che ci ha riuniti a Roma dal 30 settembre costituisce una tappa importante in questo processo. Per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti. Per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei Vescovi. Insieme, nella complementarità delle nostre vocazioni, dei nostri carismi e dei nostri ministeri, abbiamo ascoltato intensamente la Parola di Dio e l’esperienza degli altri. Utilizzando il metodo della conversazione nello Spirito, abbiamo condiviso con umiltà le ricchezze e le povertà delle nostre comunità in tutti i continenti, cercando di discernere ciò che lo Spirito Santo vuole dire alla Chiesa oggi. Abbiamo così sperimentato anche l’importanza di favorire scambi reciproci tra la tradizione latina e le tradizioni dell’Oriente cristiano. La partecipazione di delegati fraterni di altre Chiese e Comunità ecclesiali ha arricchito profondamente i nostri dibattiti.
La nostra assemblea si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria. Abbiamo pregato per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione. Abbiamo assicurato la nostra solidarietà e il nostro impegno a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace.
Su invito del Santo Padre, abbiamo dato uno spazio importante al silenzio, per favorire tra noi l’ascolto rispettoso e il desiderio di comunione nello Spirito. Durante la veglia ecumenica di apertura, abbiamo sperimentato come la sete di unità cresca nella contemplazione silenziosa di Cristo crocifisso. “La croce è, infatti, l’unica cattedra di Colui che, dando la vita per la salvezza del mondo, ha affidato i suoi discepoli al Padre, perché ‘tutti siano una sola cosa’ (Gv 17,21). Saldamente uniti nella speranza che ci dona la Sua risurrezione, Gli abbiamo affidato la nostra Casa comune dove risuonano sempre più urgenti il clamore della terra e il clamore dei poveri: ‘Laudate Deum!’ ”, ha ricordato Papa Francesco proprio all’inizio dei nostri lavori.
Giorno dopo giorno, abbiamo sentito pressante l’appello alla conversione pastorale e missionaria. Perché la vocazione della Chiesa è annunciare il Vangelo non concentrandosi su se stessa, ma ponendosi al servizio dell’amore infinito con cui Dio ama il mondo (cfr Gv 3,16). Di fronte alla domanda fatta a loro, su ciò che essi si aspettano dalla Chiesa in occasione di questo sinodo, alcune persone senzatetto che vivono nei pressi di Piazza San Pietro hanno risposto: “Amore!”. Questo amore deve rimanere sempre il cuore ardente della Chiesa, amore trinitario ed eucaristico, come ha ricordato il Papa evocando il 15 ottobre, a metà del cammino della nostra assemblea, il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino. È la “fiducia” che ci dà l’audacia e la libertà interiore che abbiamo sperimentato, non esitando a esprimere le nostre convergenze e le nostre differenze, i nostri desideri e le nostre domande, liberamente e umilmente.
E adesso? Ci auguriamo che i mesi che ci separano dalla seconda sessione, nell’ottobre 2024, permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “sinodo”. Non si tratta di un’ideologia ma di un’esperienza radicata nella Tradizione Apostolica. Come ci ha ricordato il Papa all’inizio di questo processo: «Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità (...), promuovendo il reale coinvolgimento di tutti» (9 ottobre 2021). Le sfide sono molteplici e le domande numerose: la relazione di sintesi della prima sessione chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro.
Per progredire nel suo discernimento, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Ciò richiede da parte sua un cammino di conversione, che è anche cammino di lode: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» ( Lc 10,21)! Si tratta di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa. Ascoltare le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite. Soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più.
La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale: la testimonianza dei catechisti, che in molte situazioni sono i primi ad annunciare il Vangelo; la semplicità e la vivacità dei bambini, l’entusiasmo dei giovani, le loro domande e i loro richiami; i sogni degli anziani, la loro saggezza e la loro memoria. La Chiesa ha bisogno di mettersi in ascolto delle famiglie, delle loro preoccupazioni educative, della testimonianza cristiana che offrono nel mondo di oggi. Ha bisogno di accogliere le voci di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione.
La Chiesa ha particolarmente bisogno, per progredire nel discernimento sinodale, di raccogliere ancora di più le parole e l’esperienza dei ministri ordinati: i sacerdoti, primi collaboratori dei vescovi, il cui ministero sacramentale è indispensabile alla vita di tutto il corpo; i diaconi, che attraverso il loro ministero significano la sollecitudine di tutta la Chiesa al servizio dei più vulnerabili. Deve anche lasciarsi interpellare dalla voce profetica della vita consacrata, sentinella vigile delle chiamate dello Spirito. E deve anche essere attenta a coloro che non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito, Lui che dà “a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes 22).
“Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio” (Papa Francesco, 17 ottobre 2015). Non dobbiamo avere paura di rispondere a questa chiamata. La Vergine Maria, prima nel cammino, ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Nelle gioie e nei dolori Ella ci mostra suo Figlio e ci invita alla fiducia. È Lui, Gesù, la nostra unica speranza!
Città del Vaticano, 25 ottobre 2023
*Fonte: Vatican News
Oggi alle 18. I cristiani pregano per il Sinodo, veglia ecumenica in piazza San Pietro
Sarà presieduta da papa Francesco. Insieme per dire Dio in tutte le lingue del mondo e sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 30 settembre 2023
Insieme, together, per dire Dio in tutte le lingue del mondo. Per abbracciare nella stessa preghiera i tanti carismi che arricchiscono la Chiesa cattolica. Per sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione. Soprattutto per chiedere al Padre il dono dello Spirito perché guidi i lavori della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi che inizierà mercoledì prossimo per concludersi il 29 ottobre.
Oggi in piazza San Pietro è il giorno, anzi la sera di “Together”, la grande veglia che il Papa presiederà alle 18, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Canterbury, il primate anglicano Justin Welby. In realtà però l’appuntamento inizia molto prima, anzi è già partito. La maggior parte dei giovani dai 18 ai 35 anni, provenienti da diversi Paesi europei e di tutte le denominazioni cristiani hanno raggiunto Roma già da ieri pomeriggio. Per loro è stato preparato un programma apposito, che prevede l’accoglienza presso le comunità e le famiglie romane, quindi stamani dalle 9 alle 11 dei “laboratori” in diverse zone di Roma e, a seguire, il pranzo al sacco, la preghiera di lode in San Giovanni in Laterano, il cammino-pellegrinaggio fino a piazza San Pietro e l’animazione con canti e musiche nell’attesa del Papa.
Gli appuntamenti “giovani” inoltre non si esauriranno con la Veglia ma proseguiranno domani mattina con la Messa nelle varie parrocchie di Roma, seguite dal pranzo. Oltre ottanta le comunità dell’Urbe che hanno aperto le loro porte ai graditissimi ospiti. Together, spiega padre Davide Carbonaro, parroco di Santa Maria in Portico in Campitelli è un evento «molto atteso», perché esprime «l’ecumenismo e la sinodalità, che trovano completezza in questa esperienza» in cui un evento «della Chiesa cattolica è preceduto da un momento di preghiera con fratelli delle altre confessioni cristiane» . «L’accoglienza - aggiunge don Stefano Cascio che guida la comunità di San Bonaventura da Bagnoregio a Torre Spaccata - rientra nel concetto che la Chiesa di Roma presiede nella carità, quindi nell’apertura all’altro».
La Veglia stessa del resto respira l’aria dell’universalità. Non a caso l’appuntamento è stato organizzato nel proprio stile dalla Comunità di Taizé, che si è avvalsa della collaborazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, di quello per i laici, la famiglia e la vita e del Vicariato di Roma. Giunge in questo modo a realizzarsi una proposta lanciata due anni. «All’interno della stessa Chiesa cattolica - disse nell’ottobre 2021 disse il priore di Taizé frerè Alois invitato a parlare a Roma - , il Sinodo porterà alla luce grandi diversità. Queste saranno tanto più feconde nella ricerca della comunione, non per evitare o nascondere i conflitti, ma per alimentare un dialogo che riconcilia. Per favorire questo - aggiunse Alois - , mi sembra auspicabile che nel cammino sinodale ci siano dei momenti di respiro, delle soste, per celebrare l’unità già realizzata in Cristo e renderla visibile».
E sottolineare una volta di più il carattere ecumenico della Veglia, il patriarca ortodosso Bartolomeo I guiderà la preghiera di apertura mentre l’arcivescovo Welby, introdurrà la recita del Padre Nostro. Con loro tante voci differenti legate idealmente insieme dall’impegno a superare le divisioni e a promuovere un cammino di riconciliazione. «È una gioia essere qui - sottolinea Serge Sollogoub, arciprete del Patriarcato ecumenico di Francia - perché quando succede qualcosa in una Chiesa, dobbiamo gioire con essa; il Sinodo della Chiesa cattolica è molto importante». «Questo modo di intendere i legami tra le nostre Chiese - aggiunge la pastora Anne-Laure Danet responsabile delle relazioni tra le Chiese cristiane per la Federazione protestante francese - , legami di interdipendenza, di solidarietà, è essenziale nel movimento ecumenico. E ascoltare la Parola di Dio, lasciare che lo Spirito Santo ci ispiri e ci guidi, è anche parte di questo cammino insieme».
«Taizé è un luogo di ascolto dello Spirito Santo - osserva Karin Johannesson, vescovo della Chiesa luterana di Svezia - parliamo molto nella Chiesa, ma qui vengo per ascoltare, per discernere cosa dobbiamo fare insieme. Il processo del Sinodo è anche un processo di ascolto». Roma più che mai città dialogo dunque. Ma anche scintilla di un percorso virtuoso che vedrà iniziative di preghiera collegate con l’Urbe pressoché in ogni parte del mondo. Come dire che la famiglia dei credenti in Cristo sa che l’invocazione a Dio risulta più efficace se fatta, magari in lingue differenti ma con lo stesso desiderio di unità. Se nata insieme. Together.
Anniversario.
Beato Giovanni Paolo I, oggi prima memoria liturgica
di Dario Vitali (Avvenire, sabato 26 agosto 2023)
Accostarsi a Giovanni Paolo I e alle sue carte, che la Fondazione Vaticana intitolata al suo nome ha recensito e catalogato, significa entrare in un territorio vasto e complesso, tutto da scoprire. Dalla scrittura minuta, limpida, disseminata di abbreviazioni, emerge un mondo che si potrà conoscere solo percorrendolo più volte, e non in modo distratto e scontato, cercando conferme ad altro che non sia il profilo dell’uomo, del prete, del vescovo, del papa. Papa, vescovo, prete, perché uomo, un vero uomo, tenace di volontà, forte di pensiero, ficcante nella parola, pur nel tono flebile. La figura di Giovanni Paolo I si può accostare all’«ossimoro»: l’archivio fornirà gli elementi che possono colmare la distanza tra i termini che egli ha saputo collegare e coniugare in una sintesi tutta da scoprire e da consegnare alla Chiesa. Di quell’archivio, che abbraccia l’intera vita di Albino Luciani, soprattutto il suo ministero episcopale prima a Vittorio Veneto e poi a Venezia.
Affronto qui solo piccolo momento, ma di incredibile portata: il radiomessaggio Urbi et Orbi, pronunciato nella Cappella Sistina il 27 agosto 1978. Non si può che partire da qui per studiare Giovanni Paolo I. Il pontificato così breve obbliga a fissarsi sul programma espresso nei sei volumus, scanditi davanti al Collegio dei Cardinali che lo avevano eletto, in uno dei conclavi più brevi della storia.
Si percepisce qui l’idea di riforma così ricorrente nelle agende di Albino Luciani da apparire una direttrice del suo pensiero e della sua azione pastorale, maturata ben prima del Concilio, se la figura di riferimento che egli evoca in continuazione è san Francesco di Sales. I due riferimenti, al santo vescovo di Ginevra e al Vaticano II, si incrociano e si illuminano a vicenda, come risulta con evidenza da una nota vergata durante la prima intersessione.
Nel gennaio del 1963, facendo il punto sul Concilio, il vescovo di Vittorio Veneto annotava, come sempre in modo schematico: «Concilio ecumenico: α) Riforma; β) In capite (Curia); γ) In membris: carità > giuridismo». Il primato della carità sul giuridismo, con il richiamo alla semplicità e alla povertà lascia intuire quale fosse la prospettiva ecclesiologica del giovane vescovo. Nelle pagine a seguire egli si profonde in un’ampia sintesi dell’idea di riforma - evidentemente della vita cristiana - di san Francesco di Sales, per tornare di nuovo al tema della riforma in capite e in membris come soluzione per la vita e il cammino della Chiesa.
In questo orizzonte il Papa proietta la funzione petrina, intesa come servizio alla missione universale della Chiesa; funzione alla quale dice di volersi dedicare con tutte le forze, fisiche e spirituali: «Intendiamo servire la verità, la giustizia, la pace, la concordia, la cooperazione all’interno delle nazioni e tra i popoli». La frase richiama da vicino un’espressione che si incontra nelle agende, quando il giovane vescovo di Vittorio Veneto, chiosando molti anni prima lo schema De fontibus Revelationis, erompeva in un grido: «Servi, non padroni della verità». La stessa forza si percepisce nel proposito che suggella l’assunzione del ministero petrino: «In questo solenne momento vogliamo consacrare tutto ciò che siamo, ogni nostro sforzo [quidquid possumus] a questo supremo scopo, fino all’ultimo respiro (!), consapevoli del mandato che Cristo stesso ci ha affidato: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32)».
Nel primo volumus esprime così la volontà di adempiere «il grave ufficio» che gli è stato affidato e che egli intende svolgere in continuità con i suoi predecessori, ma soprattutto Paolo VI, del quale rammenta «l’opera immane, infaticabile, senza soste» per portare a compimento il concilio Vaticano II e per conservare la pace nel mondo. È a questo punto che Giovanni Paolo I introduce i sei volumus: 1) dare prosecuzione all’eredità del Concilio; 2) conservare intatta nella vita dei sacerdoti e dei fedeli la grande disciplina della Chiesa; 3) indicare la priorità dell’evangelizzazione nella missione ecclesiale; 4) mantenere vivo l’impegno ecumenico; 5) continuare il dialogo con il mondo contemporaneo avviato da Paolo VI; 6) incoraggiare le iniziative per la pace. Questi i sei volumus del Papa; questo il programma del pontificato.
Nella volontà di «perseguire l’eredità del Concilio» cita LG 23 quando dice che «ciascuno singolarmente ripresenta la propria Chiesa e tutti insieme in unità con il papa ripresentano la Chiesa tutta nel vincolo della pace, dell’amore e dell’unità». Sulla base di tale presupposto ecclesiologico, il Papa prosegue con un’affermazione di enorme portata, non a caso espressa con un ulteriore volumus, quasi a suggello dei precedenti: «Vogliamo fermamente rafforzare la forma collegiale dell’episcopato, avvalendoci dell’opera dei vescovi nel governo della Chiesa universale, sia mediante l’istituto sinodale, sia attraverso i compiti della Curia Romana, della quale fanno parte secondo le norme stabilite».
Il riferimento alla collegialità è particolarmente significativo, in quanto si riallaccia all’unico intervento del vescovo di Vittorio Venero al concilio - una animadversio scripta mai pronunciata in aula -, che verteva proprio su questo tema. Già la formulazione del richiamo è particolarmente interessante, perché il nuovo Papa legge la possibilità di un esercizio effettivo della collegialità nella partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale, indicando anche due «luoghi» di tale possibile esercizio: il Sinodo dei vescovi e la Curia Romana, nella quale i vescovi diocesani sono già inseriti a norma del diritto.
Soprattutto sul Sinodo dei vescovi Giovanni Paolo I sembra fare un passo in avanti rispetto al suo predecessore. Si muove, infatti, piuttosto nella direzione del decreto Christus Dominus, che recepiva la decisione papale sulla partecipazione dei vescovi alla sollecitudine per tutta la Chiesa come un riconoscimento quantomeno implicito della collegialità.
Ogni passaggio meriterebbe una rilettura in contesto e uno studio approfondito alla luce del pensiero di Giovanni Paolo I, attraverso le carte di un archivio (APAL) che restituisce - a volte anche nel dettaglio - il quadro completo della vita, del ministero, ma anche delle idee del pontefice appena eletto. Sarebbero sette volumi, ricchi di prospettive per la conoscenza tanto di Giovanni Paolo I che di una stagione complessa della Chiesa e del mondo non ancora approfondita a dovere. Qui basta averli rammentati, non tanto per vagheggiare come sarebbe stata la Chiesa di Giovanni Paolo I, ma per verificare quanto quelle sfide siano tuttora attuali. La forza che emana dai sei volumus chiama la Chiesa di oggi a riscoprire l’eredità di quel brevissimo pontificato. Per quanto i trentaquattro giorni di pontificato sembrino irrilevanti, schiacciati come sono tra due grandi pontificati, è proprio la distanza tra Paolo VI e Giovanni Paolo II che obbliga a tornare su quel brevissimo pontificato.
Esistono tornanti della storia che vedono una concentrazione di eventi in grado di incidere profondamente sul suo corso. Il 1978 - l’anno dei tre papi e perciò di due conclavi - è uno di quei tornanti: sondare quel pontificato come un passaggio decisivo per l’esercizio del ministero petrino, con riflessi enormi sulla vita della Chiesa, aiuta non solo a ricostruire il profilo di Giovanni Paolo I, ma a comprendere le sfide con le quali la Chiesa era ed è chiamata a misurarsi.
*Componente del Comitato scientifico della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I e docente all’Università Gregoriana
"UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE") E ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"): "L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX". *
Riscoperte.
Marshall McLuhan tra apocalisse mediatica e pensiero cristiano
Il grande teorico della comunicazione non nascondeva la sua fede: un libro raccoglie i testi dove ne parla. «Nell’epoca della nuova oralità la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare alla gente»
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 3 agosto 2023)
Si pronuncia il nome di Marshall McLuhan (1911-1980) e il pensiero corre all’idea di villaggio globale. Come un riflesso condizionato si ripete con noncuranza anche la sua felice formula “il mezzo è il messaggio”. Eppure dell’autore canadese docente all’università di Toronto, nato come esperto di critica letteraria e letteratura inglese e diventato noto come studioso delle trasformazioni indotte dalle rivoluzioni tecnologiche, è più facile citare le sue locuzioni che addentrarsi nel suo pensiero. Non a caso, durante una sua comparsata nel film Io e Annie di Woody Allen, pronunciò la battuta «lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». E proprio da qui si deve partire.
È vero che il contenuto della trasmissione influisce di meno sulla società e sui comportamenti dei suoi membri di quanto faccia il medium che la veicola, il quale finisce con il condizionare stili di vita, visione del mondo e idee. È parimenti vero che l’introduzione della cultura alfabetica, imposta dalla diffusione della stampa a caratteri mobili ai tempi di Gutenberg, ha condizionato le forme del vivere insieme al pari di quanto faceva in precedenza la trasmissione orale, prima dell’introduzione e diffusione della scrittura. E probabilmente altrettanto imponenti trasformazioni seguiranno con i media elettronici, che porteranno le società attuali nei meandri ancora inesplorati della cultura postalfabetica, come aveva profetizzato in anticipo su altri proprio McLuhan.
Ridurre però il pensiero di McLuhan a un presunto determinismo significa davvero ignorare la portata delle sue riflessioni e soprattutto misconoscere quanto fa da sfondo a tutto il suo lavoro. Si tratta di un punto di avvio non marginale per dare un senso alla ricerca dello studioso canadese. Si eviterà così di citare degli estratti del suo pensiero decontestualizzati dall’orizzonte ideale da cui sono anche alimentati.
Per smontare l’accusa di determinismo che spesso si imputa a lui e a tutta la scuola di Toronto, di cui fa parte anche il gesuita Walter Ong, basta citare una risposta fornita da McLuhan nel corso di un’intervista rilasciata al periodico americano “Future Church” nel gennaio del 1977. A chi gli chiede da cosa dipenda il suo ottimismo, il teorico dei media risponde senza infingimenti: «Non sono mai stato un ottimista o un pessimista - precisa -. Sono solamente un apocalittico. La nostra sola speranza è l’Apocalisse». E continua: «L’Apocalisse non è l’oscurità. È la salvezza. Nessun cristiano potrà mai essere ottimista o pessimista: questo è solamente uno stato d’animo secolare».
Col rifiuto di pessimismo e ottimismo si sgretola pure ogni concezione determinista, che però non significa trascurare le ricadute che le tecnologie hanno sulla vita di tutti i giorni. Quanto emerge da queste parole è invece la sua fede spesso negletta o semplicemente ignorata dagli interpreti- Non a caso poco si sa della sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1936, all’età di venticinque anni e poco ci si è interessati a scandagliarne l’influenza sulla sua produzione intellettuale. Di conseguenza a essere lasciata in disparte da critici e seguaci è la riflessione dello studioso legata a tematiche religiose, quasi che discuterne ne minasse l’autorevolezza come teorico dei media.
Ora i suoi contributi più importanti sulla questione sono stati raccolti e curati da Gianpiero Gamaleri nel volume pubblicato dall’editore Armando, La Chiesa secondo McLuhan. Il volto sconosciuto del profeta dei media (pagine 250, euro 20). Insieme a testi e interviste dello studioso canadese, il libro contiene anche alcune lettere inviate ad autori come Walter Ong e Jacques Maritain oltre che missive spedite alla madre e alla moglie e una testimonianza del figlio Eric.
Di quanto la fede cattolica di McLuhan fosse profonda ne fornisce testimonianza il collega e amico Ong in una conversazione con il curatore del volume: «Marshall era un cattolico assai fervente, dalla fede profondissima - precisa il padre della Compagnia di Gesù -. Di tanto in tanto egli testimoniava anche pubblicamente la sua fede. Una volta stava parlando qui all’Università di Saint Louis a un vasto gruppo di studenti quattro anni prima di morire e uno studente gli disse: professor McLuhan sono scoraggiato da tutte queste cose che sta dicendo, cosa possiamo fare? Egli rispose: beh, restano sempre la preghiera e i sacramenti della Chiesa».
Per il peso che la fede ricopre nella sua vita non è lecito pensare che McLuhan non rivolga la sua attenzione ai cambiamenti che l’arrivo dei mezzi di comunicazione digitale comporteranno per la stessa Chiesa e per il cattolicesimo. «Credo che le forze poderose che ci hanno investito con l’elettricità non siano state tenute nel benché minimo conto da parte dei teologi e dei liturgisti» ammonisce. E questo, secondo lo studioso dei media per cui il mezzo conta più del messaggio, può avere ricadute enormi sulla Chiesa e sulla fede.
I nuovi media, per McLuhan, inducono a trasformazioni epocali. Porterebbero a una progressiva interiorizzazione a discapito della socialità, su cui dovrebbero giocarsi le scelte pastorali. Se la scrittura con l’introduzione dei caratteri mobili promuoveva l’aspetto visivo della lettura, secondo McLuhan, i nuovi media elettronici danno spazio all’aspetto acustico. «Lo scritto, in generale, è da parte sua determinato e immutabile, - spiega McLuhan - costituisce l’hardware; mentre il linguaggio parlato, libero e mutevole, si richiama piuttosto al software. Il visivo è hardware, l’acustico software. La liturgia, per il suo aspetto di creatività e di improvvisazione è riferibile al software».
Ecco che, per lo studioso canadese, «oggi è la parola del pontefice che conta. Nell’era elettronica la parola ridiventa se stessa, non sopporta più di essere pietrificata nei documenti».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980)."Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986). MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!
FLS
Riflessioni sul rinnovamento teologico
A colloquio con monsignor Piero Coda, segretario della Commissione teologica internazionale
di ANDREA MONDA E ROBERTO CETERA *
Potremmo intanto iniziare chiedendole un parere sullo stato attuale della teologia. C’è la sensazione che la teologia spesso stenti a tenere il passo con gli spunti innovatori proposti da Papa Francesco. Permane una certa autoreferenzialità della riflessione teologica, tanto in quella “conservatrice” che in quella “progressista”, che non sembra aver accolto quell’indicazione alla “missionarietà” della teologia richiesta da Papa Francesco in «Veritatis gaudium».
Penso che l’impressione sia vera: c’è una certa inerzia, poca creatività e l’impasse causata dal rifiuto di liberarsi dal fardello di posizioni preconcette. Osservando le cose dalla postazione della Commissione teologica internazionale, istituita da Paolo VI sulla scia del Vaticano II , direi così: nei primi decenni dopo il Concilio, l’impegno teologico si è concentrato nel declinare le grandi direttrici di marcia emerse con nettezza e profezia dall’assise conciliare. Questo fatto ha comportato un complessivo riposizionamento: la teologia ha mutato volto, rinnovandosi nei contenuti e nella metodologia. Ora ci troviamo in una fase nuova, che è propiziata dal ministero di Papa Francesco ma risponde in senso più largo a ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa e opera - non senza contrasti - nella storia. È una fase in cui la teologia sta cercando, con fatica, d’intercettare la lunghezza d’onda dello Spirito Santo. Spesso si rischia però di fare due passi avanti e uno indietro... Si tratta di accogliere e implementare con creatività le linee proposte dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium. È uno spirito che anima molti giovani teologi, che sono preparati, sinceramente ecclesiali, aperti, capaci d’istruire un dialogo su diverse frontiere. E ciò nell’ambito delle Chiese locali, in presa diretta coi diversi contesti culturali ma al contempo con sguardo alla “cosmopoli” - direbbe Bernard Lonergan - in faticosa gestazione. Così ad esempio in Italia, dove la teologia ha cominciato appunto a parlare con incisività in lingua italiana. Per questo, la prima volta che incontrai Papa Francesco gli dissi: «Lo sappia: la teologia italiana è con lei». [...]
Abbiamo la necessità di uscire da una narrazione favolistica tanto del momento creativo che di quello escatologico. Questo sicuramente darebbe nuova credibilità alla fede per l’uomo moderno.
È un impegno su cui siamo indietro e su cui dobbiamo lavorare: ma prima occorre sperimentarlo. È così che si mette in gioco la valenza missionaria della teologia che Papa Francesco chiede, per ridare orizzonte e speranza a chi è confuso e sfiduciato davanti alle sfide, davvero epocali, che c’interpellano. Occorre dischiudere - per dirla con Antonio Rosmini impiegando un lemma pregnante - l’ontologia e cioè la verità e la bellezza della realtà che è partorita dalle viscere della Rivelazione. Gesù ha inaugurato quel nuovo modo d’essere in cui siamo tutti - tutti! - inseriti per dono. Come insegna il Concilio nella Gaudium et spes al n. 22, «dobbiamo ritenere (il latino è forte: tenere debemus) che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità, nel modo che Dio conosce, di venire associati al mistero pasquale di Cristo», che è il centro della storia.
C’è un “cronotopo” cristico, pneumatico, pancosmico (come si è ingegnato a illustrarlo Theillard de Chardin) che è lo spazio/tempo in cui viviamo, crediamo, amiamo, pensiamo, agiamo. Entrare in questa dimensione di vita e di pensiero - e dimorarvi in fraternità e convivialità con l’universo creato - è oggi un imperativo per la teologia: non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia.
È un compito immane, che necessita una buona dose di coraggio. Perché occorre ricominciare il pensiero fin dal suo inizio. Per esempio la teologia del peccato originale.
Una realtà trasversale. Anni addietro la Congregazione per la Dottrina della Fede lavorò a un documento sul peccato originale. Ma non se ne fece niente. La meditazione responsabile e aperta sulla realtà della tentazione, della caduta e della redenzione è senz’altro centrale - come mostrano il racconto della Genesi e il compimento della sua promessa in Gesù - e va rimessa in circolo con un’ermeneutica adeguata, partendo dall’affermazione della Lettera ai Romani di Paolo: «dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia» (cfr. Rom 5, 20). La chiave di tutto è la grazia di Dio, che è amore ed è misericordia. Il dato - che è dono - della libertà della creatura umana, della sua vulnerabilità e della serietà del male, va decifrato in questa luce. Che è quella di Gesù crocifisso, sino a patire la notte dell’abbandono, e di lì per sempre risorto, primogenito tra i molti fratelli e sorelle, primizia di cieli nuovi e terra nuova.
E messa in relazione anche al passo sempre paolino sulle “doglie del parto”, cioè a quella fragilità dell’umano che è integrata alla creazione, all’uomo essere perfettibile. Una fragilità che l’uomo moderno vede oggi, alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, con un occhio diverso.
Non possiamo più accodarci a una lettura semplificata della questione dell’evoluzione del cosmo e della crisi ecologica che - con l’avvento dell’antropocene - assume oggi proporzioni tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e della casa comune che la ospita ed è confidata alla sua cura. Fa difetto una riflessione approfondita sulla connessione tra la coscienza della vocazione umana, e quindi dello sviluppo del cosmo in cui essa si dà, e la sfida della libertà. È il tema fondamentale della modernità. La libertà è condizionata non solo da quell’ignoranza che può essere persino invincibile, ma anche dalla cattiva coscienza: e cioè da quel peccato contro lo Spirito che - attesta Gesù - è l’unico a non essere perdonabile. Occorre pensare e gestire la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana prendendo sul serio la tentazione della cattiva coscienza: e cioè la forza tragica del male che scaturisce da una libertà esercitata contro la verità dell’uomo, del creato, di Dio. È il mistero della libertà. E il mistero della grazia.
La psicanalisi nel secolo scorso, e le scoperte delle neuroscienze in questo secolo, sembrano aver inficiato la concezione di libertà alla base del pensiero cristiano. Nel senso che l’uomo sarebbe assai meno libero di quanto siamo abituati a credere.
Ciò che consente di penetrare la relazione tra la libertà e la grazia è il tempo ed è la relazione. Abbiamo pagato un prezzo alto a una certa oggettivizzazione e cosificazione della grazia. Come se si trattasse di un contenuto o di uno stato che viene assegnato a priori, e la libertà fosse semplicemente la facoltà di accettarlo o rifiutarlo. La verità è più profonda. Si tratta di aprirsi, accogliere e lasciarsi plasmare da una relazione viva e personale: con Dio, in Cristo e, in Lui, con gli altri. La grazia si dà negli incontri che ci occorrono lungo l’esistenza. Per rispondere alla sua domanda: bisogna mettere allo scoperto il nucleo profondo della libertà che attraversa certo, nel suo esercizio, una serie di condizionamenti culturali e storici, senza però esser estinta nella sorgente da cui sprizza: che tale è perché vive del contatto vivo con la grazia, e cioè nella relazione con quel Qualcuno che la vuole, la fa essere, la libera, la introduce - per dirla con la Dei Verbum - alla comunione di vita con Sé nell’abisso della sua Vita che è Luce e Amore. Un Qualcuno (con la maiuscola) che s’esprime sempre attraverso un qualcuno (con la minuscola). Se perdiamo questo senso della libertà, perdiamo l’umano. E il creato. Psicoanalisi e neuroscienze sono benedette nel darci conto della nostra condizionatezza, ma - come insegna un maestro della filosofia come Luigi Pareyson - la condizionatezza propria dell’umano è un’antenna che permette d’interpretare nella libertà la Verità e di plasmare alla sua Luce l’esistenza. La condizione e condizionatezza storica e culturale non è mai lo schiacciamento o persino l’annichilimento della libertà. Un Dio che non consegnasse alla libertà la sua creatura produrrebbe degli automi. Egli stesso sarebbe un automa. Non il Dio vivente come lo percepiamo a tentoni ma con incoercibile sentire. E come Si è rivelato e a noi donato sino alla fine in Gesù.
Il tema dei condizionamenti ci porta inevitabilmente alle considerazioni etiche e morali. Tra queste ad esempio occorrerebbe accendere una luce sul tema dell’influenza del sociale sui comportamenti dell’individuo, in primis l’imprinting che la famiglia, come primo nucleo sociale, esercita sul nostro agire . Ma anche questo, in progressione coi cambiamenti antropologici di cui parlavamo prima, va cambiando. La famiglia (quando c’è) non è più quella che idealizziamo ancora nella nostra pastorale. Pensi per esempio alla mobilità delle famiglie di oggi. O agli enormi cambiamenti intervenuti nel rapporto uomo-donna.
Anche la sociologia induce a un ripensamento di alcuni assiomi che davamo per immutabili, e che interferiscono con la dottrina etica insegnata dalla Chiesa. Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile - e benedetta! - del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare - e imprigionare - la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o... dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel Cantico dei cantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà. La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà. Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli. Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare.
Alla luce di un ripensamento sui connotati della grazia occorrerebbe trattare anche degli strumenti principali di sua espressione: i Sacramenti. In una recente intervista al nostro giornale Elmar Salmann ha detto che più ancora dei numeri dei fedeli lo preoccupa il declino della prassi sacramentale.
Il linguaggio sacramentale, così come lo proponiamo, risulta sempre più ostico e indecifrabile per le nuove generazioni: che pure - e forse come mai - sono assetate dell’acqua viva che ne scaturisce. Anche i teologi che dichiarano di voler innovare rimangono spesso prigionieri di un’autoreferenzialità sconcertante. Occorre una rivisitazione, nello spazio di quella ri-semantizzazione dell’esperienza viva dell’avvento del Regno che si realizza in Gesù e che, appunto, si verifica grazie alla mistagogia sacramentale. Dovremmo semplicemente ripartire sperimentando con stupore e gioia che l’evento della Pasqua del Cristo si fa attuale attraverso questi gesti santi di prossimità che ne mostrano e agiscono la grazia nella nostra vita. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, dal campo di concentramento, nei suoi pensieri per il giorno del battesimo riportati postumi in Resistenza e Resa: «L’antico spirito, dopo il tempo del suo misconoscimento e della sua effettiva debolezza e dopo un periodo di ritiro, di ripensamento interiore, di prova e di guarigione, saprà creare a se stesso forme nuove ... non dobbiamo aver fretta, dobbiamo saper aspettare ... nelle parole e nei gesti della tradizione intuiamo qualcosa di totalmente nuovo e di sconvolgente, senza tuttavia riuscire ad afferrarlo e a esprimerlo».
Riarrotolando il nastro di questa conversazione: siamo partiti dal peccato originale: da ripensare; poi la grazia: da ripensare; poi la libertà: da ripensare; poi i sacramenti: da ripensare. Fossimo nei suoi panni monsignor Coda, pensando al lavoro che c’è da fare - nell’assunto che non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia -, ci tremerebbero i polsi...
In verità, il compito cui sono stato chiamato da Papa Francesco a servizio della CTI , e ora anche nella Commissione teologica del Sinodo, lo vivo con serenità e passione, e non mi sembra poi così gravoso o drammatico. Che anzi mi entusiasma. Perché - dal punto di vista personale - è in linea con la chiamata che mi è stata fatta ormai molto tempo fa: vivere e imparare insieme con gli altri a camminare nella sequela di Gesù, oggi, guardando con occhi di amore al mondo che siamo. La missionarietà della teologia invocata da Papa Francesco mi è di conferma in quanto ho cercato di vivere, nel piccolo, nell’esercizio del ministero teologico. Due gli elementi che mi hanno sempre ispirato, perché li vedevo troppo poco presenti e attivi: la relazione e il tempo, e cioè la fraternità e la storia. Amare Dio con l’intelligenza per amare con intelligenza l’uomo e il creato, che sono il suo amore. Amore che chiede oggi un surplus d’intelligenza e discernimento. Questa la sfida per la teologia.
Una ricerca senz’altro attraente e oggi, diciamo, avventurosa per il suo carico innovativo pur nel solco della tradizione. Però alla fine c’è il magistero....
La spinta innovativa di Papa Francesco è sotto gli occhi di tutti, anche se in modo non scontato. Perché chiede di vivere in uno stato di perenne conversione. Come del resto chiede il Vangelo. Ma c’è da ricordare che la Dei Verbum al n. 8 mette il magistero al terzo posto tra i fattori che dinamizzano quel cammino del Popolo di Dio che felicemente sperimentiamo oggi come cammino sinodale: il primo è lo studio della Parola di Dio, e cioè la sua intelligenza nella fede e nella pratica dell’agape; il secondo è l’esperienza della vita di fede attraverso il sensus fidei e i doni dello Spirito Santo; il terzo appunto è il magistero. Perché il magistero non fa altro che recepire, con il carisma di verità e di guida di cui è dotato per servire, i frutti portati dalla Parola vissuta nello Spirito dal Popolo di Dio. A proposito del percorso sinodale, voglio aggiungere una cosa: la teologia non si limita a studiare la sinodalità, la teologia si fa sinodalmente. Sono convinto che il Sinodo sulla sinodalità sarà fra 50 anni guardato come oggi guardiamo al Vaticano II . Un passaggio epocale nella storia della Chiesa. Nella Commissione Teologica Internazionale - fin dalla sua istituzione - si cerca di assumere questo stile di lavoro sinodale che crea condivisione e genera fecondità. Stiamo lavorando proprio sui temi del cambiamento antropologico di cui dicevamo; e poi, nella ricorrenza dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, abbiamo avviato una riflessione sul significato permanente e profetico della confessione di fede nicena; stiamo infine studiando la teologia della creazione nella chiave di un’ecologia integrale alla luce della Laudato si’.
Monsignor Coda, lei ha dedicato gran parte dei suoi studi all’Ontologia Trinitaria. Perché?
L’Ontologia Trinitaria è vivere, pensare e gestire il senso della nostra esistenza e della realtà in cui viviamo alla luce di Dio che in Gesù si dice Amore e ci dona il soffio del suo Spirito «senza misura». La preghiera di Gesù al Padre non è forse stata: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te: Io in Te e Tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21)? Dunque, camminare sotto lo sguardo di Dio Trinità e vedere ogni cosa in questa luce. Immediatamente dopo il Concilio, Jean Daniélou - in quel gioiello che è il suo La Trinità e il mistero dell’esistenza - scriveva che il fondo dell’essere è la comunione. «Una rivelazione prodigiosa - esclamava -. Pare inverosimile che i cristiani, in possesso di questo segreto ultimo delle cose, capaci di penetrare con lo sguardo di Cristo nell’abisso del mistero nascosto in cui tutto è immerso, non siano maggiormente coscienti dell’importanza fondamentale del messaggio che devono trasmettere... La pienezza dell’esistenza personale coincide, nella Trinità, con la pienezza del dono dell’uno all’altro». Di qui una spinta, penso discriminante, a leggere con occhi nuovi ciò che è in gestazione nel parto di proporzioni panumane e cosmiche che investe il nostro tempo. Un’avventura appassionante e bella, concreta e tempestiva. Basti guardare - ripeto - al processo sinodale in cui oggi è impegnata la Chiesa cattolica, ma con l’abbraccio universale, gratuito e invitante, proposto dal Vaticano II , rilanciato da Papa Francesco e intrapreso con speranza dal Popolo di Dio. C’è bisogno di un nuovo pensare perché la Chiesa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo in quanto segno e strumento di unione con Dio e di unità del genere umano (cfr. Lumen gentium, 1), diventi ciò che è per grazia. Come intuisce Papa Francesco: «La Chiesa è “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). Per questo, nella realtà che denominiamo “sinodalità” possiamo localizzare il punto in cui converge in modo misterioso ma reale la Trinità nella storia».
*Fonte: L’Osservatore Romano, 27 luglio 2023 (ripresa parziale).
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
FILOLOGIA, TEOLOGIA ED ECONOMIA.
Sulla differenza (già aristotelica) tra la Saggezza (Prudenza /Phronesis) e la Sapienza (Scienza / Sofia), forse, sarebbe opportuno (quanto prima) fare epocale chiarezza e, possibilmente, non continuare a confondere la caritatevole Giustizia o Rettitudine (ebr. Zedaqah, o Tzedakah), la CHARITAS (gr. XAPITAS) del Logos evangelico, che richiama la grazia (Charis, gr. Xapis), con la "CARITAS" del logo di Mammona (lat. "carus": "caro", affetto e prezzo; e carestia)!
Con-fondere "Deus charitas est", con "Deus caritas est", acceca sull’ "Initium sapientiae timor Domini" (Sap. 7, 7-11) e fa perdere ogni possibilità di uscita dall’inferno delle "buone" intenzioni e della "buona" elemosina (carità)!
Federico La Sala
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
ANTROPOLOGIA, STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA:
RICORDANDO che "I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il #22febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare", e, ancora, che "[...] In quanto festa dell’amore, i Caristia non erano incompatibili con le abitudini cristiane, ed alcuni studiosi hanno notato delle influenze di Parentalia e Caristia sulla festa cristiana delle agapi, come il consumo di pane e vino presso la tomba sostituito dall’Eucaristia [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Caristia) forse, è opportuno svegliarsi dal sonno dogmatico e cercare nei limiti del possibile di non confondere l’amore disinteressato (il "Deus charitas est") con l’amore di mammona (il "Deus caritas est") e di non dimenticare la differenza che corre tra la caristia e la carestia: la prima rinvia alle Grazie e alla Grazia (#Charis, gr.: Xapis), la seconda al "caro" (lat. "carus") del mercato, nel senso del "prezzo", del "costoso".
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. PARTID. 1. tit. 5. l. 42. La primera Charidád, que quiere tanto decir como amor de Dios mäs que de otra cosa, è de sí, è de su Christiano. NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II, 1729)
P. S.
CHARISTIA o CARA Cognatio ...
"I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il 22 febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare [...] Durante i Parentalia le famiglie visitavano le tombe degli antenati e condividevano dolci e vino sia come offerte che come pasto. [...] " (Wikipedia).
CHARUN: "Nella mitologia etrusca, Charun (o Charu) era uno psicopompo o necropompo del mondo sotterraneo chiamato Ade. È il nome equivalente della figura della mitologia greca Caronte. Charun [...] viene rappresentato a protezione delle porte dell’Ade [...]".
Харистии - (Charistia) или, правильнее, Каристии древнеримский праздник, относившийся к числу родительских и замыкавший так называемые dies parentales (родительские дни); он приходился на 22 февраля. Это был день радости и вознесения богам молитв за живущих ... https://latin_latin.en-academic.com/14340/CARA_Cognatio.
FLS
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
FILOLOGIA E STORIA: RITORNARE A SCUOLA DA LORENZO VALLA (1440) E RISALIRE ALLA SORGENTE DELLA DIFFERENZA DI SIGNIFICATO TRA "CHARITAS" E "CARITAS".
IN #MEMORIA DEL TEOLOGO BELGA CHARLES MOELLER, A 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Note a margine di un articolo di Massimo Borghesi (Insula Europea) *
A) "#Karitas (von lat. #caritas = Teuerung, Hochachtung, hingebende Liebe, uneigennütziges Wohlwollen) ist im Christentum die Bezeichnung für die tätige Nächstenliebe und Wohltätigkeit. [...]"(https://de.wikipedia.org/wiki/Karitas).
B) #CHARITAS (gr. #XAPITAS). Che la "charitas" sia partecipe dell’orizzonte #greco è chiaro, così come la "caritas" sia partecipe dell’orizzonte #latino è altrettanto chiaro, ma che si continui ad equiparare logicamente, teologicamente, antropologicamente e filologicamente, "Dio-amore" ("Deus #charitas est") e "Dio-mammona ("#Deus #caritas est") è semplicente folle e autodistruttivo!
C) "I 110 anni dalla nascita di Charles Moeller (1912-1986), teologo e critico letterario belga, ci offrono l’occasione per ricordare un autore che non può e non deve essere dimenticato. Moeller, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, ha collaborato al #ConcilioVaticanoII svolgendo un ruolo decisivo nella stesura dello schema XIII, La Chiesa nel mondo, che ha poi dato vita alla costituzione Gaudium et Spes. È stato Segretario della Segreteria per l’Unità dei Cristiani e, su incarico di Paolo VI, Rettore dell’Istituto Ecumenico di Gerusalemme. È l’autore di due grandi opere.
La prima, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, pubblicata nel 1948, è un libro splendido, che ha come interlocutore ideale la gioventù francese, disorientata e priva di certezze, quale emergeva dall’immane tragedia della guerra. A essa, poggiante su un umanesimo distrutto, ben espresso dall’esistenzialismo in auge, Moeller proponeva il “paradosso” cristiano quale umanesimo assolutamente nuovo. Il metodo seguito era, in analogia a quanto aveva fatto #RomanoGuardini nei suoi studi su Hölderlin, Dostojewski, Rilke, di far risultare la verità cristiana rapportandola alla rappresentazione dell’uomo propria dell’opera artistico-letteraria.
Omero e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide da un lato e i moderni Shakespeare, Racine, Dostojewski dall’altro erano le grandi voci di un coro chiamate a evidenziare tanto i conflitti irrisolti dell’animo greco (il tema del male, del dolore, della morte, ecc.) quanto il modo in cui l’avvenimento cristiano muta l’orizzonte della drammatica nei tragici moderni. Attraversato dall’enigma della morte lo spirito greco oscilla, secondo Moeller, tra un’adesione profonda alla vita e alla terra e un rifiuto delle medesime quale vuota apparenza. Questo dissidio tra amore della “carne” e nostalgia di una pienezza in un aldilà, viene a risolversi solo con il cristianesimo. Solo qui viene realizzato ciò che i greci sognavano: «salvare il reale visibile e trasfigurarlo». Solo la risurrezione della carne consente al cuore di riconciliarsi con la terra senza rinnegare il desiderio di infinito che lo abita. Il dissidio greco torna, non superato, in quella parte della letteratura contemporanea che si rifiuta alla speranza cristiana.
Nel primo dei sei volumi dell’altra grande sua opera, Litterature du XX siècle et christianisme, tradotta in italiano da Vita e Pensiero, dal titolo Il silenzio di Dio, la «fedeltà al mondo» viene espressa mediante le figure di Camus e di Gide mentre il rifiuto, l’ombra sulla realtà, è presente nelle tendenze “gnostiche” di Aldous Huxley e Simone Weil. Ancora una volta solo nel cristianesimo l’antitesi può essere superata. Esso afferma che il mondo è salvo in quanto è trasfigurato. Tale trasfigurazione non sopprime la materia, né la personalità. Julien Green, Graham Greene, Bernanos documentano la difficile strada della fede, speranza, carità in un mondo velato dal dolore e dalla corruzione, il sì al finito nella luce dell’infinito. Fede, speranza e amore - le tre virtù teologali - costituiscono pure il tema dei successivi volumi dell’opera in una forma per cui esse si situano in continuità e al contempo in rottura con la fede, l’attesa, l’amore puramente umani.
Il secondo volume, La fede in Gesù Cristo, vede come interlocutori Sartre, Martin du Gard, H. James, Malègue. Il terzo, La speranza degli uomini, espressa da Malraux, Kafka, Vercors, Sciolokov, Maulnier, Bombard, Sagan, Reymont, prepara, non senza una chiara discontinuità, il quarto, La speranza in Dio Padre, i cui autori: Anna Frank, Miguel de Unamuno, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Fritz Hockwälder, Charles Péguy, «hanno decifrato i segni della seconda virtù teologale in una umanità straziata dal dolore e abbrutita dalla morte». Parimenti il volume quinto, Gli amori umani, con saggi su Françoise Sagan, Brecht, Saint-Exupéry, Simone de Beauvoir, Paul Valéry, Saint-John Perse, doveva aprire il campo al sesto e ultimo volume sull’amore di Dio, l’«amore dello Spirito Santo», che uscirà postumo nel 1993 con il titolo Esilio e ritorno, dove tratta di Marguerite Duras, Ingmar Bergman, Valery Larbaud, François Mauriac, Gertrud von le Fort, Sigrid Undset.
La prospettiva dei volumi era chiara: mostrare mediante un approccio non astratto quale quello della letteratura, il soprannaturale come compimento, impossibile all’uomo, dell’umana natura. Tra cristiano e umano non v’è abisso che il mistero dell’incarnazione non abbia già superato. Fuori da questo incontro vi sono due possibili interpretazioni cristianamente riduttive: «gli umanisti, i quali elaborano un ordine umano chiuso su se stesso; e gli escatologisti, i quali trovano che la cultura, davanti alla prospettiva della fine dei tempi, non ha importanza alcuna». Entrambi, scrive Moeller, «affermano che la cultura cristiana non conta solo che gli uni preferiscono, segretamente, una storia puramente profana, gli altri invece, una storia di contenuto puramente religioso, ma tanto gli uni che gli altri sono infedeli all’incarnazione di Dio nella storia». Essere fedeli a essa significa assumere, nella fede, la totalità dell’umano. Di qui il grande amore di Moeller per Péguy, come di un testimone profetico del regno futuro, regno «carnale-spirituale», «temporale-eterno». «Nel mio Paradiso - scriveva Péguy - ci saranno le cattedrali di Chartres... ci sarà tutto». E ancora, come per puntualizzare: «Nel mio Paradiso ci saranno delle cose». Le cose, spiegava Moeller, «sono le parrocchie, i villaggi, i campi di grano, in una parola il vero regno di Dio, celeste e terrestre».
Un’affermazione che manifestava, appieno, il suo realismo, la sua passione per la realtà, il suo modo di sentire il cristianesimo: come resurrezione della carne e non già come fuga idealistica dal mondo. Nel gennaio del 1979 ho avuto l’occasione di incontrarlo. Un amico doveva intervistarlo per il settimanale “Il Sabato” e mi chiese di accompagnarlo in via della Conciliazione, a Roma, dove si trovava. Ricordo che gli rivolsi una domanda su Simone Weil alla quale rispose: «Debbo dire che il capitolo su Simone Weil del primo volume di Letteratura e cristianesimo non è un buon capitolo. La reattività, con cui l’ho pensato e scritto, mi ha impedito di comprendere il profondo significato della Weil. Ho scritto in modo reattivo, perché in certi ambienti culturali e religiosi del Belgio e della Francia di quel tempo non vi era sufficiente coscienza del pericolo gnostico e dualista di alcuni testi della Weil. Oggi non vi è più questo pericolo nel leggere la Weil e, se si confrontano la prima e la settima edizione, si scorgono i mutamenti che vi ho apportato». Si trattava di una rettifica importante che consentiva di non contrapporre la Weil all’amato Péguy.
Quando lo incontrammo, nel 1979, gli chiedemmo dei suoi progetti futuri. Ci rispose che stava lavorando al sesto volume di Letteratura e cristianesimo, che uscirà postumo, e poi ad un libro sul «metodo di lettura del passato» e, da ultimo, ad un testo su Proust. Instancabile e generoso fino alla fine ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla letteratura classica e sulla grande letteratura del ‘900.
* Cfr. Massimo Borghesi, "Dio nella letteratura del ’900", Insula Europea, 30 novembre 2022.
A colloquio con il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Maria Zuppi
La Chiesa che conversa con gli uomini del suo tempo
di ANDREA MONDA e ROBERTO CETERA *
«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.
Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.
Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, [...] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.
La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.
Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati - religiosamente e civilmente - nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto XVI parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non - per usare un termine oggi un po’ abusato - autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II . Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.
Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.
Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!
Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.
Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive - a cominciare dalla memoria - sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.
In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.
Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni XXIII sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.
Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.
Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.
Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.
Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno - e la ricerca - dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.
Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua - povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione - appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?
Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.
[...]
In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?
Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.
Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.
Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.
Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.
Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici - anche atei - che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 settembre 2022 (ripresa parziale).
La sintesi Cei. Sinodo: più ascolto e accoglienza, ecco cosa dicono le Chiese locali
Tra i nodi anche il ruolo delle donne, la capacità di inclusione, la corresponsabilità dei laici, l’attenzione alle nuove fragilità. Nel documento indicati 10 nuclei prioritari. Il testo integrale
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 18 agosto 2022)
Il distillato di circa 50.000 gruppi sinodali, che hanno coinvolto mezzo milione di persone. Un lavoro coordinato da più di 400 referenti diocesani insieme alle loro équipe. Il tutto confluito in 200 sintesi diocesane e 19 elaborate da altri gruppi, per un totale di più di 1.500 pagine pervenute alla Cei a fine giugno. C’è tutto questo nella Sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo 2021-2023 “Per una Chiesa sinodale: Comunione, partecipazione e missione” che la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha consegnato il 15 agosto alla Segreteria Generale del Sinodo (in vista della fase universale in programma nel 2023) e che da ieri è online sui siti camminosinodale.chiesacattolica.it e www.chiesacattolica.it.
Un documento frutto dunque di un ascolto capillare del popolo di Dio (parrocchie e diocesi, gruppi, movimenti e associazioni) naturalmente armonizzato con il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, che sta interessando sempre di più i diversi territori con proposte e progetti. «La Sintesi - viene perciò sottolineato - offre anche una panoramica del primo anno di quel Cammino».
Ascoltare. Va colmato il «debito di ascolto come Chiesa e nella Chiesa, verso una molteplicità di soggetti». I giovani, che non chiedono che si faccia qualcosa per loro, ma di essere ascoltati; le vittime degli abusi sessuali e di coscienza, crimini per cui la Chiesa prova vergogna e pentimento ed è determinata a promuovere relazioni e ambienti sicuri nel presente e nel futuro; le vittime di tutte le forme di ingiustizia, in particolare della criminalità organizzata; i territori, di cui imparare ad accogliere il grido, grazie all’apporto di competenze specifiche e all’impegno di “stare dentro” a un luogo e alla sua storia». L’ascolto, infatti, «chiede di far cadere i pregiudizi, di rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire, di imparare a riconoscere e accogliere la complessità e la pluralità. E perciò diventa «già annuncio della buona notizia del Vangelo». «Il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto».
Accogliere. La Sintesi chiede di «superare la distinzione “dentro-fuori”». Si parla di «ministero di prossimità». «Vivere l’accoglienza significa armonizzare il desiderio di una “Chiesa in uscita” con quello di una “Chiesa che sa far entrare”, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia». Di conseguenza «si riconosce il bisogno di toccare ferite e dare voce a questioni che spesso si evitano». Tante sono le differenze che oggi chiedono accoglienza: «generazionali (i giovani che dicono di sentirsi giudicati, poco compresi, poco accolti per le loro idee e poco liberi di poterle esprimere; gli anziani da custodire e da valorizzare); generate da storie ferite (le persone separate, divorziate, vittime di scandali, carcerate); di genere (le donne e la loro valorizzazione nei processi decisionali) e orientamento sessuale (le persone Lgbt+ con i loro genitori); culturali (ad esempio, legate ai fenomeni migratori, interni e internazionali) e sociali (disuguaglianze, acuite dalla pandemia; disabilità ed emarginazione)».
Relazioni. «Le persone vengono prima delle cose da fare e dei ruoli». È il principio risuonato più volte nella consultazione. «I sacerdoti, per primi, sono chiamati a essere “maestri di relazione”». Ma anche loro vanno accompagnati dalle comunità. E tuttavia «le relazioni hanno bisogno di tempo e di cura costante: sono un bene fragile. Vanno accettate fatiche e sconfitte». L’incontro con le persone non va vissuto come un corollario, ma come il centro dell’azione pastorale, per «riconoscere e prendersi cura delle diverse forme di solitudine e di coloro che vivono situazioni di fragilità e marginalità».
Celebrare. La celebrazione eucaristica è e rimane “fonte e culmine” della vita cristiana e, per la maggioranza delle persone, è l’unico momento di partecipazione alla comunità. Tuttavia, la Sintesi registra anche «una distanza tra la comunicazione della Parola e la vita, una scarsa cura delle celebrazioni e un basso coinvolgimento emotivo ed esistenziale». Di fronte a «“liturgie smorte” o ridotte a spettacolo», si avverte l’esigenza di ridare alla liturgia sobrietà e decoro per riscoprirne tutta la bellezza che tocca in profondità le nostre vite. Da riscoprire è anche il valore della pietà popolare, depurandola da «potenziali ambiguità».
Comunicazione. «Risulta diffusa la percezione di una Chiesa che trasmette l’immagine di un Dio giudice più che del Padre misericordioso». Per cui serve un linguaggioi «non discriminatorio, meno improntato alla rigidità, ma più aperto alle domande di senso». Specie «per rendere la Chiesa più accessibile, più comprensibile e più attraente per i giovani e i “lontani”, più capace di trasmettere la gioia del Vangelo». Si chiede di prestare attenzione agli ambienti digitali, ma «senza assumere la logica degli influencer». Inoltre è necessaria la trasparenza, la cui mancanza «ha favorito insabbiamenti e omissioni su questioni cruciali quali la gestione delle risorse economiche e gli abusi di coscienza e sessuali».
Condividere. La corresponsabilità appare come il vero antidoto alla dicotomia presbitero-laico. «La Chiesa appare troppo “pretocentrica” - riconosce la Sintesi - e questo deresponsabilizza». I laici sono «relegati spesso a un ruolo meramente esecutivo e funzionale». Attenzione poi all’emargnazione delle donne che non consente «alla voce femminile di esprimersi e di contare». Nche le religiose e le consacrate, «spesso si sentono utilizzate soltanto come “manodopera pastorale”». Da migliorare il funzionamento degli organismi di partecipazione. «Diverse comunità ne sono prive, mentre in molti casi sono ridotti a una formalità».
Dialogo. Il confronto quotidiano con il mondo del lavoro, della scuola e della formazione, gli ambienti sociali e culturali, gli aspetti cruciali della globalizzazione fa emergere la consapevolezza che «la fede non è più il punto di riferimento centrale per la vita di tante persone: per molti il Vangelo non serve a vivere». Ma «i semi del Verbo sono presenti in ogni contesto». E bisogna imparare a dialogare: «Il processo sinodale ha svelato che molte realtà sociali, amministrative e culturali nutrono il desiderio di un confronto più assiduo e di una collaborazione più sistematica con le realtà ecclesiali. Una Chiesa sinodale è consapevole di dover imparare a camminare insieme con tutti, anche con chi non si riconosce in essa».
Casa. Bisogna evitare di trasformare le parrocchie e le comunità in fan club, di cui chi è fuori fatica a percepire il senso. Più che una casa, la comunità viene pensata come un centro erogazione servizi, più o meno organizzato. «La Chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo».
Passaggi di vita «Una comunità cristiana che vuole camminare insieme è chiamata a interrogarsi sulla propria capacità di stare a fianco delle persone nel corso della loro vita, e di accompagnarle a vivere in autenticità la propria umanità e la propria fede in rapporto alle diverse età e situazioni». Perciò la sintesi chiede «di ripensare i percorsi di accompagnamento perché siano a misura di tutti: delle famiglie, dei più fragili, delle persone con disabilità e di quanti si sentono emarginati o esclusi. Anche il camminino dell’iniziazione cristiana ha bisogno di transitare alla logica dell’accompagnamento».
Metodo «Per dare forma e concretezza al processo sinodale è stato proposto un metodo di ascolto delineato secondo i principi della conversazione spirituale», con i suoi tre passi: la presa di parola da parte di ciascuno, così che nessuno resti ai margini; l’ascolto della parola di ognuno e delle risonanze che essa produce; l’identificazione dei frutti dell’ascolto e dei passi da compiere insieme». Non far spegnere l’entusiasmo suscitato da questa metodologia sarà una delle sfide per continuare il cammino. Specie nella fase in cui i dieci ambiti verranno raggruppati lungo tre assi, definiti “cantieri sinodali”: quello della strada e del villaggio (l’ascolto dei mondi vitali), quello dell’ospitalità e della casa (la qualità delle relazioni e le strutture ecclesiali) e quello delle diaconie e della formazione spirituale.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, QUESTIONE CRISTOLOGICA, E FILOLOGIA: DIO E’ CARITÀ (CHARITAS) O MAMMONA (CARITAS)?!
Un intervento di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo su ’L’OSSERVATORE ROMANO, in occasione della "festa liturgica di santa Maria Maddalena", degno di attenzione e riflessione...
Oggi celebriamo la festa liturgica di Maria Maddalena, icona di una Chiesa “Maddalena”, dal cuore giovane, capace di accogliere la Pentecoste del Concilio Vaticano II . Questa santa «illumina il cammino che la Chiesa vuole compiere con e per i giovani [...] un cammino di risurrezione che conduce all’annuncio e alla missione. Abitata da un profondo desiderio del Signore, sfidando il buio della notte, la Maddalena corre da Pietro e dall’altro discepolo. Il suo movimento innesca il loro, la sua dedizione femminile anticipa il cammino degli apostoli e apre loro la strada. [...] La sorpresa dell’incontro: Maria ha cercato perché amava, ma trova perché è amata. [...] Il Risorto [...] non è un tesoro da imprigionare, ma un Mistero da condividere. Così ella diventa la prima discepola missionaria, l’apostola degli apostoli. Guarita dalle sue ferite è testimone della risurrezione, è l’immagine della Chiesa giovane che sogniamo» (Sinodo dei giovani, documento finale, 115).
In Oriente Maria Maddalena è definita «portatrice di unguento», «mirofora», in riferimento al corpo di Cristo sepolto. In quella tradizione non ci sono state difficoltà a definirla discepola e apostola, «isoapostola», come gli altri dodici. Gregorio Antiocheno vescovo ( VI secolo) attribuisce a Cristo queste parole per Maria Maddalena: «Proclamate ai miei discepoli i misteri che avete visto. Diventate le prime maestre dei maestri. Pietro, che mi ha negato, deve imparare che io posso anche scegliere donne come apostoli» (Oratio in mulieres unguentiferas, Patrologia Graeca, 88, 11, pag. 1863).
Nella tradizione occidentale san Gregorio Magno nel 591 nella basilica di San Clemente a Roma, durante un sermone, identifica erroneamente Maria Maddalena con altre due donne, la peccatrice di Luca, 7, 36-50 e Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta: «Crediamo che questa donna che Luca chiama peccatrice e Giovanni chiama Maria sia quella Maria dalla quale - afferma Marco - furono cacciati sette demoni» (Homiliarum in Evangelia, 33, 1, Patrologia Latina, 76, pag. 1239, n. 1592-1593). Non voleva disprezzarla: dobbiamo tenere presente la situazione storica in cui le omelie di Gregorio furono pronunciate e i fedeli ai quali si rivolgeva; più che della storicizzazione era preoccupato per l’attualizzazione del messaggio biblico. Lo stesso san Gregorio in un sermone precedente aveva messo in evidenza la bellezza del primo annuncio che nasce dall’amore: ella mossa dall’amore conobbe il Risorto; fu il suo amore a provocare il Risorto a mostrarsi (Homiliarum in Evangelia, 25, 1-10, Patrologia Latina, 76, pagg. 1188-1196, n. 1544-1553).
L’errore esegetico partito dal pulpito di San Clemente trovò l’humus del pregiudizio maschilista e patriarcale. Sarebbero bastate nozioni elementari di geografia per evitare la sovrapposizione di tre figure diverse: Betania si trova in Giudea e Magdala è una cittadina della Galilea. Inoltre la provenienza della terza donna, la peccatrice, non è chiarita. L’elemento antropologico che caratterizza Maria di Magdala e le altre donne che seguono Gesù mette a dura prova il preconcetto della superiorità e forza maschile di fronte alla debolezza femminile. Davanti alla morte e resurrezione di Cristo i maschi tradiscono, scappano e spergiurano. Le donne sono fedeli, amano e annunciano il Salvatore.
Sarebbe bastato ricordare le parole di san Girolamo sul termine magdal che non designava tanto il paese di provenienza ma il soprannome di questa Maria: in aramaico significa «torre», a indicare l’altezza e la robustezza della fede della donna che vide per prima Gesù risorto, risaltando le qualità di fortezza e grandezza. Egli sottolinea come i cristiani valutano le virtù non dal sesso ma dall’animo: «Posso ridere, lettore forse incredulo, per soffermarmi sulla lode delle donne, e ricordare le sante donne, compagne del Divin Salvatore, che lo assistevano con le loro sostanze, e le tre Marie che stanno davanti alla croce, e Maria Maddalena, la quale per la sua operosità e ardore di fede, ricevette il nome di “turrita” e prima degli apostoli meritò di vedere Cristo risorgere; ci condannerà alla superbia e alla stoltezza, noi che giudichiamo per virtù, non per sesso, ma per l’animo; consideriamo una gloria maggiore della nobiltà e della ricchezza» (Epistola Marcellae viduae epitaphium, 127, 5, Patrologia Latina, 22, pag. 1090, n. 954-955).
Così non fu: si stravolse la figura della santa, che passò da «apostola prima degli apostoli» a «grande peccatrice», modello cristiano della penitenza. Anche nell’arte la sua rappresentazione seguiva uno schema iconografico preciso di stampo maschilista che tanta presa fece nella pietà popolare: la nudità spudorata e seducente, il pianto di espiazione e l’atteggiamento di supplica. Ancora oggi Maria Maddalena rappresenta prevalentemente la peccatrice “penitente”, nonostante l’opera di riforma liturgica del Concilio Vaticano II . In coerenza con i principi teologici e pastorali dell’ecclesiologia le figure dei santi furono sottoposte a esame critico. Paolo VI riscattò questa figura nella revisione del Calendario Romano generale del 1969 rigettando ufficialmente l’identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice e con Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta.
Il Calendarium Romanum generale 1969, nella sezione Commentarius historicus calendarii instaurati, pagg. 97-98, dice: «22 luglio. S. Maria Maddalena. Il Martirologio di Beda fa menzione, il 22 luglio, di Maria Maddalena. Nello stesso giorno la sua festa è celebrata presso i Siriani, i Bizantini e i Copti. Ma il culto di Santa Maria Maddalena in Occidente non è diffuso prima del secolo dodicesimo. Nella liturgia romana riformata non ci sarà più la memoria di Maria di Betania né della donna peccatrice di cui tratta Lc, 7, 36-50, ma soltanto di Maria Maddalena alla quale per prima Cristo apparve dopo la sua risurrezione». Nella sezione Variationes in Calendarium Romanum Inductae ribadisce a pagina 131: «22 luglio. S. Maria Maddalena: nulla cambia per il titolo della memoria di questo giorno, ma si tratta soltanto di S. Maria Maddalena alla quale Cristo apparve dopo la sua resurrezione, ma non della sorella di Santa Marta, né della peccatrice alla quale il Signore ha rimesso i peccati (Lc 7, 36-50)».
Santa Maria Maddalena è come un simbolo. Come è tuttora difficile farla passare da prostituta penitente ad apostola, così sembra ancora difficile che il concilio si faccia strada nella Chiesa. Le donne sono il segno di questo passaggio ecclesiale, per mettere fine, come dice Papa Francesco, alla «perversione della Chiesa oggi [che] è il clericalismo» (La Civiltà Cattolica, 4040 [2018] 105-113). Non a caso il 22 luglio 2016 per volontà dello stesso Pontefice la memoria obbligatoria di Maria Maddalena è stata elevata al grado di festa, al pari degli apostoli.
Questa santa ci può aiutare a sviluppare una spiritualità sinodale. Ecco perché è importante che venga conosciuta nella sua identità di «apostola» nelle Chiese locali. In lei si concretizzano i tre elementi-chiave della comunione, della partecipazione e della missione. Ella è unita a Cristo con le altre donne e con i discepoli, superando ogni pregiudizio e separazione sociale; prende l’iniziativa mossa dall’amore intenso; annuncia la resurrezione del Signore con entusiasmo e parresia, invitando alla speranza del paradiso. La sua figura è pienamente ecumenica, legittimata dai Vangeli, attenzionata sia nelle Chiese orientali sia in quelle riformate. La guerra in Ucraina ha messo a nudo tante ipocrisie nelle comunità cristiane che siamo chiamati a superare per essere credibili: dobbiamo essere coraggiosi, e mostrare al mondo una Chiesa “Maddalena”, una Chiesa sinodale che non dubita e non calcola ma è testimone del bene e della pace e non teme.
di PAOLO SCARAFONI e FILOMENA RIZZO (L’OSSERVATORE ROMANO, 22 LUGLIO 2022).
I vescovi nel cammino sinodale: da geografi ad esploratori.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 25 giugno 2022)
Il cammino sinodale «al quale siamo tutti chiamati per essere entusiasmati dal fuoco dello Spirito» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022) deve essere conosciuto. Accompagnarlo con le nostre preghiere quotidiane è importante. A livello comunitario siamo invitati a creare la «consuetudine d’amore» di pregare nel primo lunedì di ogni mese in tutte le famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose, negli ospedali, nei luoghi di lavoro e dovunque sia possibile.
C’è bisogno di un cambio antropologico profondo che i pastori devono favorire con bontà e perseveranza: «pregare per il Sinodo significa richiedere il dono del discernimento, la pazienza di accettare la lentezza di chi cammina con più fatica, la conversione del cuore che apre al vero ascolto, il coraggio di fare il primo passo verso chi ci sta più lontano, l’umiltà di chiedere perdono per le ferite che abbiamo inferto nel nostro cammino» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022).
Il ministero episcopale, che si declina nelle tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo (Lumen gentium 25-27), come espressione della missione del Signore nel suo popolo, oggi è chiamato a discernere ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ascoltando il Popolo di Dio.
Vorremmo che tutti i nostri vescovi avessero già maturato una chiara identità sinodale, senza concedere l’attenuante che questo è un cammino reale che si scopre passo dopo passo, «si fa la strada nell’andare» come direbbe il poeta Antonio Machado («se hace camino al andar»). È un viaggio che si racconta intrecciando le storie quotidiane di tutti nella dimensione locale. Come direbbe il Piccolo Principe, i nostri vescovi non possono essere più soltanto dei geografi statici, immersi nei loro grandi registri, che ascoltano i resoconti dei viaggiatori, e segnano sulle carte le montagne, i fiumi e gli oceani delle loro diocesi. Insieme al popolo di Dio loro affidato, sono esploratori, scopritori di nuove esperienze e di sentieri aperti nella vita quotidiana per poter seguire con umiltà più da vicino Gesù, essere capaci di uscire dagli schemi con creatività per aiutare e guidare all’incontro con il Signore.
In questa fase di cambiamento non ci dobbiamo meravigliare delle numerose osservazioni che da parte dei vescovi giungono alla Segreteria generale del Sinodo, nel timore che la Chiesa sinodale possa sostituire quella gerarchica e che il Popolo di Dio rimpiazzi il magistero, nella contrapposizione ideologica tra «carisma» e «potere». Non un cammino dall’alto, né esclusivamente dal basso. Un cammino insieme nel rispetto dei ruoli. Perciò abbiamo bisogno di pregare molto affinché lo Spirito Santo realizzi l’apertura all’ascolto: «Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Per una Chiesa sinodale. Comunione, preparazione, missione, 15) ... tutti in cammino.
Il secondo momento sinodale è quello della collegialità: il discernimento dei pastori riuniti in assemblea, «ai quali si chiede di ascoltare ciò che lo Spirito ha suscitato nelle Chiese loro affidate». Nel primo lunedì mensile sia ora più forte la preghiera per i vescovi affinché, come spesso ha sottolineato Papa Francesco, siano pastori con l’odore delle pecore.
Sono molto belle le suggestioni che mostrano e spiegano attraverso l’immagine del telaio gli intrecci del percorso sinodale. Le parole usate sono: riallacciare, ricucire, ritessere le relazioni. Papa Francesco in un bel libro, curato da Andrea Monda, intitolato «La tessitura del mondo», usa questa immagine per indicare che il mondo è una tessitura a mano messa a dura prova, e che ha bisogno di essere rammendata con un lavoro artigianale con i fili «della speranza, della gioia, della misericordia». La tessitura a mano è un lavoro della comunità, che stimola la relazione fra le persone e la creatività, dove è necessaria la collaborazione degli altri e favorisce l’inclusione.
Oggi nel cambio epocale, nelle città e nelle periferie esistenziali, le Chiese locali stanno sperimentando di non avere un filato, ma grovigli fatti da fili spinati di sofferenze, scarto, violenza, pandemia e guerra; e anche di un benessere vissuto con egoismo, nell’apatia e nell’indifferenza agli altri. Se c’è stata vera esperienza sinodale con il popolo di Dio, i nostri vescovi andranno al momento collegiale con le mani ferite, consapevoli che prima di mettere mano al telaio c’è bisogno di faticare all’arcolaio, per dipanare quei garbugli di dolore e trasformarli in gomitoli di fili molto forti, di «funi indistruttibili» che realizzano il tessuto che collega tutto e tutti: riscoprire le alleanze volute da Dio, l’anima delle narrazioni del rapporto fra Dio e noi uomini, e degli uomini fra loro e con il creato.
Nel tessere c’è un «nodo d’oro» da non trascurare: «la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il “nodo d’oro”, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo. Proprio la famiglia è all’inizio, alla base di questa cultura mondiale che ci salva; ci salva da tanti, tanti attacchi, tante distruzioni, da tante colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano tanto il mondo» (FRANCESCO, Udienza generale, 16 settembre 2015).
Sul tema, in rete, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Exousia e cristologia femminista al seminario del Cti
Il rilancio delle teologhe
di VITTORIA PRISCIANDARO (L’Osservatore Romano, 04 giugno 2022)
Ci sono anche loro tra le firmatarie della articolata riflessione proposta ai “Fratelli vescovi” come contributo al cammino sinodale. Del documento “Ma lei gli replicò”, che fa riferimento «alla conversione di Gesù dopo lo straordinario dialogo con la donna siro-fenicia», il Coordinamento delle teologhe italiane (Cti) ha parlato anche durante il seminario del 7 maggio scorso, presso l’Antonianum di Roma. Perché partecipazione e autorità, discernere e decidere - i punti su cui è incentrata la riflessione proposta dalla rete sinodale delle donne - sono termini ampiamente risuonati all’incontro su “L’autorità teologica della donne. Pratiche di exousia”, che ha visto la presenza delle fondatrici del Cti, ma anche di giovanissime appassionate di teologia.
«L’autorità delle donne è un tema che viene dal femminismo storico, che si è domandato cosa significa avere una voce autorevole e come tramandarsi la forza di prendere la parola», spiega la presidente del Cti, Lucia Vantini. « La parola exousia esprime il fatto che l’esistenza delle cose e degli esseri viventi viene da fuori. Per i femminismi, questo riconoscimento di dipendenza da altro non è affatto una sottrazione, ma una forza che rende capaci di libertà. Sono i legami, infatti, a dare consistenza ed espressività a un soggetto. In questa prospettiva il potere si trova riconfigurato come potere-di-autorizzare altre e altri in una trama di parole, simboli, gesti e pratiche che mira alla condivisione anche quando inevitabilmente si aprono conflitti». Inoltre, aggiunge Vantini, «nel termine autorità c’è idea di far aumentare, di spingere, di sostenersi tra generazioni. La presenza di giovani teologhe al seminario è stato il segno della grande fecondità della vita teologica della donne. Il futuro passa per questo».
«Ai fratelli vescovi scriviamo che autorizzare deve significare difendere e non abusare del potere, perché nelle Chiese c’è un movimento di esclusione, di chiusure di spazi, casi di epurazione e di licenziamento», dice Cristina Simonelli, che ha tenuto la relazione di apertura del seminario “La teologia delle donne come pratica di autorità”, citando il documento della rete sinodale. «Noi donne abbiamo una memoria, un presente e una consegna di autorità che se esercitata crea stima, empowerment». Il cammino del Cti, nato nel 2003 dall’intuizione di Marinella Perroni - fare un’associazione in prospettiva di genere, ecumenica, pluri e multidisciplinare -, ha percorso strade che hanno portato a numerose pubblicazioni e, negli ultimi anni, alla serie Exousia, con la San Paolo, dove «ciascun volume ri-visita in prospettiva di genere gli ambiti teologici e si propone di attestare possibili circolarità ermeneutiche: tra discipline e temi, tra appartenenze confessionali, tra interessi e posizionamenti».
La serie, spiega Simonelli citando la presentazione che accompagna ogni volume, risponde a una necessità: «La teologia non va semplicemente aggiornata ma completamente riscritta. L’accesso delle donne alla Teologia non ha comportato un semplice aggiornamento degli schedari, ha piuttosto reso evidente l’urgenza di un ripensamento generale dei modelli». Condizione imprescindibile per questa svolta «è quella di accogliere la differenza, vagliando criticamente le prospettive acquisite, introducendo l’esplorazione di campi di indagine inediti, formulando categorie e paradigmi nuovi».
Al centro del seminario, dunque, l’ultimo volume della Collana, Percorsi di cristologia femminista, scritto da Milena Mariani e da Mercedes Navarro Puerto. «I quasi cinquant’anni di decostruzioni e ricostruzioni femministe dimostrano quanto nel discorso cristologico il cambiamento del punto di vista, grazie all’immissione della prospettiva di genere e femminista», ha spiegato nella sua relazione Milena Mariani, «consenta ripensamenti critici e approcci nuovi, illumini aspetti rimossi o prima ignorati dell’identità di Gesù, contribuisca a scongiurare le derive non solo sessiste e misogine, ma anche antigiudaiche, razziste, imperialiste, colonialiste che non appartengono soltanto al passato della tradizione cristologica». Le critiche femministe si sono soffermate, in particolare, su «l’uso strumentale della maschilità di Gesù per ribadire la superiorità del maschio e per rafforzare l’immaginario esclusivamente maschile di Dio». Un secondo nodo è stato indicato, fin dall’inizio, nelle teologie della croce accusate non solo di «veicolare l’immagine di un Dio sadico e indifferente, ma anche di esaltare le idee di sofferenza salvifica, di sacrificio vicario, di obbedienza passiva alla volontà divina, che hanno avuto ricadute storicamente rovinose sulla condizione delle donne e dei più umili nella scala sociale e sulle relazioni intessute dai paesi occidentali, di storia cristiana, con il resto del mondo».
Dalle conclusioni di Mariani viene fuori la centralità della testimonianza e dell’esperienza di fede delle donne, che «richiederebbe il riconoscimento di un’autorità che si trova legittimata sin dal principio dalla traccia pasquale alla base delle narrazioni evangeliche, impensabile senza la loro testimonianza». Un’esperienza che, allora come oggi, «si esprime con parole, idee, sensibilità e gesti propri, la cui piena fecondità e novità nel linguaggio e nella vita delle Chiese cristiane richiederebbe un “discepolato di uguali” che ancora attende di essere davvero realizzato».
di VITTORIA PRISCIANDARO
Sturm und drang: quando a lasciare la Chiesa è un vicario generale
di Ludovica Eugenio (21/05/2022) *
41088 SPEYER-ADISTA. Che un vescovo si dimetta non fa molta notizia. Ma che un vicario generale dia le dimissioni per lasciare la Chiesa cattolica ed entrare in un’altra confessione religiosa è invece alquanto singolare. È accaduto in Germania, nella diocesi di Speyer, dove il vicario generale mons. Andreas Sturm, 47 anni, ha rinunciato al suo incarico, dopo un tormento durato un anno e mezzo, secondo quanto ha dichiarato al Mannheimer Morgen (10/5), per aderire alla Chiesa vetero-cattolica come pastore. Il vescovo di Speyer mons. Karl-Heinz Wiesemann ha accettato le dimissioni e ha liberato Sturm da tutti i doveri sacerdotali, e ha nominato al suo posto Markus Magin, rettore del seminario, con effetto immediato.
Sturm, vicario dal 2018 e in questa veste responsabile di migliaia di dipendenti e di un budget di milioni, è stato sempre più il volto di una Chiesa capace di riformarsi, prendendo coraggiosamente posizione su questioni come la benedizione delle relazioni omosessuali e il celibato. Ha rilasciato una dichiarazione personale sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere questo passo, pubblicata sul sito della diocesi: «Ho perso la speranza e la fiducia nel corso degli anni che la Chiesa cattolica romana possa davvero cambiare», ha affermato in una lettera. «Allo stesso tempo, vedo quanta speranza è riposta nei processi in corso come il Cammino sinodale», ma non si sente più di «annunciare questa speranza e di sostenerla onestamente e sinceramente perché semplicemente non ce l’ho più».
In una lettera alla diocesi, il vescovo Wiesemann afferma di aver accettato «con grande rammarico» le dimissioni del vicario, perché con lui aveva lavorato in «profonda fiducia». «Andreas Sturm ha portato molte cose positive nella nostra diocesi con i suoi modi pragmatici ed entusiasti e il suo impegno appassionato per una Chiesa rinnovata che è stata toccata da Dio ed è vicino alle persone». Il vicario ha guidato la diocesi di Speyer per diversi mesi, durante l’assenza del vescovo per motivi di salute. Nella sua dichiarazione personale, Sturm ha sottolineato di non andarsene con rabbia, «ma con grande speranza per me e per la mia stessa vocazione»; chiede perdono a tutti: «Semplicemente non ne avevo più le forze».
Il 15 giugno uscirà il suo libro, per le edizioni Herder, intitolato Ich muss raus aus dieser Kirche (“Devo uscire da questa Chiesa”), nel quale mette a nudo se stesso e gli abusi nella Chiesa, facendo un bilancio spietato ma anche un’ammissione di fallimento personale. Il sottotitolo del libro è ancora più espressivo del titolo: Weil ich Mensch bleiben will, “Perché voglio rimanere umano”.
Sturm è stato parroco nella diocesi per 20 anni e, oltre alla pastorale comunitaria, ha lavorato come guida spirituale della Comunità dei Giovani Cattolici (KjG) e come presidente diocesano della Associazione della Gioventù Cattolica Tedesca (BDKJ).
Perché la scelta di unirsi alla Chiesa veterocattolica? Nata negli anni ‘70 dell’Ottocento in contrasto con le risoluzioni del Concilio Vaticano I (1869-1870) sull’infallibilità e il primato del papa, la diocesi tedesca veterocattolica conta ben 16.000 membri in 60 parrocchie. Negli ultimi anni, ha visto un grande afflusso di membri in precedenza cattolici per la sua apertura rispetto a diversi temi: celibato opzionale e preti sposati, sacerdozio femminile, accoglienza delle persone Lgbtq e matrimonio religioso per le coppie omosessuali.
Motivi profondi
«Gli abusi sono stati un grosso problema», ha affermato Sturm; Il rapporto dello studio MHG nel settembre 2018 «ha infranto» la sua visione del mondo. «Ho sempre pensato che ci fossero abusi nella Chiesa, ma il fatto che la percentuale di casi sia così alta rispetto alla società nel suo insieme, e vedere quanto sia difficile affrontare il problema nella Chiesa è stato determinante». Anche il ruolo delle donne nella Chiesa è stato per lui un punto dolente: «Gesù non ha chiamato solo gli uomini. Noi neghiamo le vocazioni femminili». C’è molta ricerca teologica in questo campo, «noi, invece, continuiamo a ingrandire le parrocchie solo perché pensiamo che possano esserci, come preti, solo uomini non sposati». Questa considerazione porta al terzo tema, il celibato obbligatorio per i preti. «Non possono essere ammessi anche uomini sposati o che vivono con un uomo?», ha chiesto. Lui stesso ha ammesso di aver violato il celibato: «Ma soprattutto ho ferito delle persone, cosa di cui mi dispiace molto». Sturm ha attirato l’attenzione a livello nazionale quando si è opposto al divieto del Vaticano, nel 2021, di celebrare benedizioni delle coppie omosessuali e ha annunciato che avrebbe continuato a benedirle.
Quando, all’inizio di quest’anno, 125 persone queer al servizio nella Chiesa - preti, ex preti, insegnanti, funzionari della Chiesa a vario titolo, volontari - hanno fatto coming out con la campagna #OutInChurch chiedendo di eliminare le «dichiarazioni obsolete della dottrina della Chiesa» sui temi di genere, una benedizione in chiesa per le coppie dello stesso sesso, un cambiamento nella legge sul lavoro della Chiesa, che considera l’omosessualità dei propri dipendenti una violazione della lealtà, e la fine della discriminazione nei confronti dei credenti omosessuali, bisessuali e transgender, Sturm è stato tra coloro che hanno garantito l’assenza di conseguenze sul diritto del lavoro per i dipendenti della Chiesa queer (v. Adista News, 28/1/22).
Sturm ebbe parole di forte critica anche quando il Vaticano, nel 2020, emanò l’Istruzione sulla vita parrocchiale dal titolo “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, che poneva l’accento sulla centralità della figura sacerdotale (v. Adista Notizie n. 30/20), dicendosi deluso del fatto «che i tentativi delle diocesi di affrontare in modo costruttivo la mancanza di sacerdoti e di trovare nuovi modi di cura pastorale stiano ricevendo così poco supporto da parte della Congregazione per il Clero». Per lui, la corresponsabilità tra clero e laici nelle parrocchie - una possibilità che il Vaticano escludeva chiaramente nella istruzione - non costituiva «una minaccia, ma un’opportunità per le parrocchie e anche per i sacerdoti», e la condivisione degli incarichi tra preti, diaconi, religiosi e laici «rafforzano l’unità in una comunità e arricchiscono la parrocchia di punti di vista differenti».
I commenti
Le dimissioni e l’uscita dalla Chiesa di mons. Sturm hanno suscitato molto scalpore, ma non eccessivo stupore: «La crisi della Chiesa scuote profondamente il popolo di Dio in questo Paese e nel frattempo ha raggiunto anche il livello di leadership» commenta su katholisch.de Christoph Brüwer (17/5). «Eppure questa reazione non sorprende». Di certo, continua, è palpabile «la disillusione e la delusione tra coloro che sperano in riforme nella Chiesa. Per molti Sturm è stato un pioniere che, ad esempio, ha chiesto l’ordinazione delle donne diacono». Le sue dimissioni - questo è il suo timore maggiore - «significano anche una battuta d’arresto per processi di riforma come il percorso sinodale: a quanto pare anche i rappresentanti di alto rango della Chiesa non credono più che le riforme in discussione saranno effettivamente decise e attuate in modo tempestivo, e non possono più annunciare in modo credibile questa speranza. Alla prossima assemblea sinodale di settembre, i sinodali avranno l’opportunità di contrastare questa sensazione e di prendere decisioni concrete. Resta da vedere quante persone trarranno coraggio e speranza da questo».
* Tratto da: Adista Notizie n° 19 del 28/05/2022
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED ECOLOGIA: SCIENZA E FEDE...
Scenari.
Antropocene: che cosa chiede Dio all’uomo?
Siamo in una nuova era dove l’uomo può giocare il ruolo decisivo nel futuro del Pianeta. Però dal punto di vista cristiano è una sfida a unire il genere umano nella solidarietà e nella carità
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
Durante la seconda metà del XIX secolo, il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), portò l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto un’influenza globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” l’epoca geologica nella quale ormai ci si trovava. Dopo oltre un secolo, Paul Crutzen e Eugene Stormer si ricollegarono proprio a Stoppani intitolando Anthropocene il loro articolo apparso nell’anno 2000 sulla “Global Science News Letter”, nel quale si chiedevano a partire da quale data, e a motivo di quali fenomeni antropici, si potesse definire l’inizio di questa nuova “era geologica”. Il termine è tornato alla ribalta in questi ultimi anni a causa della questione ecologica, dei cambiamenti climatici e degli altri possibili effetti della presenza umana, diffusa e pervasiva.
Dal punto di vista scientifico, la definizione dell’inizio formale di una nuova era spetta ai geologi della International Commission on Stratigraphy (che non ha ancora preso una decisione); tuttavia, nei suoi aspetti mediatici, sociali e politici, nell’Antropocene ci siamo già da un pezzo.
L’essere umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi », per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin, sembra poter adesso influenzare in maniera decisiva e globale molte delle dinamiche terrestri a livello chimico, biologico, geologico e ambientale, tanto da poter, appunto, essere considerato un fattore determinante per lo stato complessivo del pianeta. Il tema, però, è filosoficamente più profondo di quanto sembri, se pensiamo che espressioni come “influenza sul pianeta” e “influsso globale” possono riguardare anche la comunicazione, la condivisione e la solidarietà.
Dal documento programmatico Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato (1990) di Giovanni Paolo II, fino alla Laudato si’ (2015) e alla Fratelli tutti (2020) di Francesco, il magistero della Chiesa cattolica ha da tempo guidato una riflessione di primo piano sulla responsabilità ecologica e sullo sviluppo sostenibile, guadagnando sul campo un’autorità ormai riconosciutale a livello internazionale. Sono insegnamenti ben noti che non è necessario qui richiamare. La teologia viene però sollecitata dalla nozione di antropocene a un’ulteriore riflessione, specie se questo termine viene compreso come «epoca in cui l’essere umano giunge a una visione unitaria e globale della sua attività sulla terra». Dio ha infatti affidato agli uomini un creato in via e l’attività umana nel cosmo - ormai operiamo ben oltre i confini della terra - contribuisce al progetto del Creatore mediante la costruzione di un futuro aperto sulla storia.
La teologia potrebbe allora porsi una domanda, forse inconsueta ma significativa: qual è l’Antropocene voluto da Dio? Teilhard de Chardin si era già chiesto un secolo fa qualcosa del genere, sebbene impiegando termini diversi. Partendo dai suoi studi di paleontologia, il pensatore gesuita consegnava la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, che pervade l’intero pianeta. Grazie alla sua vita spirituale, l’uomo avrebbe le risorse per unificare tutto il genere umano nella solidarietà e nella carità. Compito dell’umanità, sosteneva, è allora adoperarsi per realizzare tale condivisione e convergenza, lasciando che Cristo, centro del cosmo e della storia, possa attrarre tutti a sé, affinché Dio sia tutto in tutti.
Se osserviamo gli effetti che cristianesimo ha determinato sulla storia, in modo particolare quella dell’Occidente, non è difficile trovare opere e prospettive di carattere globale e unificante. Si pensi agli ospedali e alla cura dell’umano, alle università e alle economie di condivisione generate dai primi istituti di credito. Si tratta di iniziative nate dal lavoro responsabile dei cristiani, ispirate a ideali di solidarietà, di condivisione e di promozione. E si stratta di attività che hanno caratterizzato in modo globale, esteso, la nostra vita sul pianeta.
Ma possiamo andare più in là e chiederci, appunto: quali manifestazioni dovrebbe avere la presenza influente dell’essere umano sul pianeta perché egli cooperi, secondo il piano di Dio, a portare il creato verso un suo compimento? La prima di esse è fare del genere umano un’unica famiglia. Tutti gli esseri umani sono ordinati a divenire membra dello stesso corpo, il corpo di Cristo: la Chiesa, sacramento universale di salvezza, è figura e segno di questa unione, ci ha ricordato il Concilio Vaticano II. L’influenza e la presenza del genere umano sul pianeta, poi, dovrebbero essere tali da aiutare, in ogni luogo e in ogni circostanza, chi rimane indietro, facendosi carico di tutti, perché «tutti siamo responsabili di tutti», espressione cara a Giovanni Paolo II e a Francesco. «Quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale - scrive Francesco nella Laudato si’ - niente e nessuno è escluso da tale fraternità. [...] Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi». (n. 92).
Nell’antropocene voluto da Dio, la rete di comunicazione con la quale l’essere umano ha interamente avvolto il pianeta, e la globalizzazione che ne deriva, verrebbero impiegate per distribuire le risorse laddove è più necessario. Si investirebbe per accrescere in tutti la qualità della vita, ma anche per condividere il pane della cultura, dell’istruzione e della conoscenza, perché comprendere la nostra storia e il ruolo dell’uomo nel cosmo è espressione di una dignità alla quale tutti abbiamo diritto. In sostanza, nell’antropocene che Dio si attende dall’uomo, la scienza sarebbe al servizio dello sviluppo di tutti e l’uomo di scienza, perché sa di più, dovrebbe servire di più...
Il mondo in cui viviamo è un mondo in costruzione, un mondo nel quale gli uni influiranno sempre più sugli altri, un mondo in cui saremo sempre più consapevoli di essere tutti in relazione, fra noi e con la natura. È però indispensabile restare tutti aperti alla relazione più importante, quella con Colui che custodisce in Sé il progetto del mondo e il senso della storia. Solo così le relazioni potranno essere costruite su un fondamento solido, nella carità, nella solidarietà e nel rispetto. «Il presente e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio», scrive san Paolo ai Corinzi (1Cor 3, 21-23). La teologia cristiana è persuasa che in queste poche parole siano contenute tutte le istruzioni per gestire saggiamente la nuova era geologica, se così proprio fosse, che l’essere umano ha ormai inaugurato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE. DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!! IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.
FLS
Per un’unica storia di salvezza.
«Gerarchia delle verità» e principio di Lund.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 2 aprile 2022).
Lo scorso anno molti si chiedevano il senso di proseguire la preparazione della prima Assemblea ecclesiale per l’America Latina e i Caraibi, mentre il mondo affrontava la crisi del Covid-19. L’impegno profuso per realizzarla è stato un esempio di chiesa viva e vicina al suo popolo in un tempo di grande dolore. In questi giorni tragici segnati dalla guerra in Ucraina, i riflettori sul sinodo sembrano perdere luminosità.
Quelli che vorrebbero in Europa declassarlo a causa della guerra, sono gli stessi che lo subiscono e lo concepiscono come un evento passeggero e non come processo calato nella realtà.
Il lavoro sinodale che si sta portando avanti nelle parrocchie e nelle diocesi, per non rimanere astratto, e troppo concentrato su se stesso, si deve aprire all’impegno assunto: comunione, partecipazione e missione. La comunione e la missione hanno bisogno della partecipazione per diventare concrete.
La gente comune è immediatamente disponibile a gesti di solidarietà nei confronti dei profughi e delle vittime. Tante persone influenti nell’ambito della cultura, arte, economia, finanza, sport, politica, prendono posizioni chiare ed inequivocabili contro l’invasione russa. Diviene importante per i cristiani una riflessione teologica su quanto accade.
Il processo sinodale iniziato da poco è una risorsa in tal senso, se intercetta, soprattutto in Europa, le istanze di ascolto del popolo di Dio, di fronte al dolore della guerra, e per riuscire a comprendere meglio la nostra identità cristiana, una Chiesa che non separa dalla vita.
C’è un’unica storia. «Unico diventa il destino della umana società e senza diversificarsi più in tante storie separate» (Gaudium et spes 5). Oggi non è più possibile pensare a una «storia sacra» della Chiesa, «una storia di salvezza» che riguardi soltanto le Chiese, ma esiste un’unica storia dell’umanità, nella quale il cammino dei cristiani si intreccia con tanti altri cammini. La «storia della salvezza» si realizza nella «storia universale».
Teilhard de Chardin metteva in evidenza per noi cattolici nel secolo scorso: «il sospetto che la nostra religione renda i propri fedeli inumani. [...] Li isola, invece di fonderli con la massa. Li disinteressa, invece di legarli al compito comune. [...] Il mondo dice del cristiano: “a causa della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori”» (L’ambiente divino). «Disertori e traditori» della umanità in Cristo, dell’amore e della libertà nella pace.
Il cammino tormentato per comprenderci seguaci di Cristo contro ogni guerra e violenza, è stato anche il nostro. Tuttora abbiamo il compito di confermare queste decisioni per offrire una testimonianza sempre più chiara. Anche negli atteggiamenti di vita dobbiamo esprimere l’essenziale del cristianesimo.
Il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio afferma un principio teologico fondamentale per il dialogo ecumenico, di rilevanza tale da diventare un cardine per la teologia in generale: la «gerarchia delle verità». Ordine e gerarchia non significano diversa importanza fra le verità di fede, non una piramide, ma semplicemente il legame più o meno prossimo con il fulcro della fede, costituito dalla Trinità e dal mistero di Cristo, incarnazione, morte, risurrezione, redenzione, chiesa e giudizio finale, cioè dalle verità centrali o kerygma.
Le altre Chiese avevano colto in modo diverso la «gerarchia delle verità», formulando nel 1952 il principio di Lund che è un principio operativo.
Esso si può riassumere in questa espressione, per offrire al mondo una testimonianza comune: il desiderio di unione è maggiore delle divisioni, e pertanto si è «convinti che dovremmo fare insieme tutto ciò che può essere fatto insieme e fare separatamente solo ciò che deve essere fatto separatamente». Manifestare insieme i valori del Regno: pace, solidarietà e giustizia, senza lasciarsi prendere da lentezza, incertezza ed indifferenza. Così si mette in evidenza che quando il popolo di Dio agisce insieme affiora l’autenticità dell’essere cristiani.
Se tutto questo ha valore nell’urgenza della guerra, deve però diventare un modo di vivere abituale di tutti i cristiani. Il principio di Lund è importante perché traduce in criterio operativo la comunanza di fede esistente fra le chiese, e invita fattivamente ad esprimere i caratteri di koinonia reale; inoltre, l’esperienza mostra che spesso alcune difficoltà, che alle menti sembrano insormontabili, si appianano nella comune azione, come afferma l’ecumenista Geoffrey Wainwright: «Solvitur ambulando», ossia talvolta procedendo insieme si trova la via di soluzione.
La sinodalità è anche questo: camminare insieme ed «essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza» (Gaudete et exultate 89).
Papa Francesco sostiene che «l’unità è superiore al conflitto». «E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, “cerchiamo ciò che porta alla pace” (Rm 14,19)» (Gaudete et exultate 88).
Il discernimento sinodale sta dando prova che non è «dall’alto», si muove liberamente, e mostra che «lo Spirito soffia dove vuole», e in poche settimane ha preso una nuova via dall’ascolto della gente che pone al centro la pace e la solidarietà.
«Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di “un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice”, né di un progetto “di pochi indirizzato a pochi”. Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”. Seminare pace intorno a noi, questo è santità». (Gaudete et exultate 89).
Offerti all’attenzione del popolo di Dio e letti nella loro completezza, il principio della gerarchia delle verità e quello di Lund possono richiamare, in chiave contemporanea, la sentenza patristica: «lex orandi - lex credendi - lex agendi o lex vivendi». L’antichissima provenienza di questo apoftegma ci aiuta a valorizzare la bontà del processo sinodale. Pregare insieme, credere insieme e vivere insieme: operatori di pace sempre, nella vita di tutti i giorni da oriente ad occidente.
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA: IL SORGERE DELLA TERRA...
IL RIBALTAMENTO DEL CUORE, LA NASCITA, E LA SCOPERTA DELL’AMORE ("AGAPE", "CHARITAS"). Al di là della reciprocità ("do ut des") della "carità ("caritas")! *
Il segno e la carne /12. La rinuncia alla reciprocità
La rinuncia alla reciprocità
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 19 febbraio 2022)
I profeti sono la porta che mette in comunicazione Dio con gli esseri umani e gli uomini e le donne con Dio: a noi donano parole divine, a Dio donano le nostre parole migliori che poi egli usa per parlare con noi, in un dialogo continuo dove noi impariamo la lingua di Dio e diventiamo più umani e Dio diventa più Dio.
Il capitolo undici del rotolo di Osea contiene alcuni dei versi più belli e amati di tutta la Bibbia, è una vetta della profezia. Ma non li comprendiamo se arriviamo a questo capitolo senza aver prima attraversato i moltissimi versi di condanna, di maledizione, di delusione, di tradimento dei capitoli precedenti, senza aver incontrato tutte le parole che Osea ha speso per dirci che l’Alleanza tra YHWH e il suo popolo è spezzata per sempre, che la promessa è svanita per l’infedeltà di Israele. Quei capitoli (4-11) sono veri come è vero il capitolo undici. Come è vero il sepolcro vuoto ed è vero il Golgota, perché la verità del primo giorno dopo il sabato non sarebbe tale senza la verità della croce. La grandezza teologica e antropologica di questo capitolo si svela solo a chi ha percorso la via crucis fino alla fine, è arrivato sul monte e non ha trovato tre tende, ma tre croci. Lì ha voluto stare sotto il patibolo, ha visto morire veramente quel profeta diverso, e ha pensato, veramente, che era finito tutto, che quella speranza stupenda si era infranta contro il no degli uomini che non hanno accolto la luce. E poi ha seguito il cadavere nel terreno di Giuseppe d’Arimatea, ha visto porre la pietra sull’entrata della tomba, e ha sentito che quella pietra chiudeva per sempre anche quella breve stagione straordinaria di salvezza. E solo dopo, soltanto dopo questa verità verissima, ha sentito che il suo nome era chiamato da una voce viva: “Maria”. Non un secondo prima.
Quando invece saltiamo i capitoli difficili e duri della Bibbia, quando schiviamo il Golgota e dalla Domenica delle Palme andiamo subito in Galilea, le risurrezioni diventano finte e non salvano nessuno. Solo chi muore veramente può conoscere una risurrezione vera: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con lacci d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Osea 11,1-4).
YHWH aveva trasformato il giogo degli idoli che opprimevano tutti gli altri popoli in legami d’amore, curando il popolo come un figlio; ma il popolo non aveva voluto sentire nulla, e ha continuato le sue prostituzioni: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). La libertà guadagnata, grazie all’allentamento del morso del giogo, era diventata occasione per fuggire in cerca di nuovi amanti, era stata usata per allontanarsi da casa. Perché, lo abbiamo imparato anche noi: i legami d’amore restano lacci, e i figli crescono se riescono a spezzare i loro lacci, persino quelli che avevamo creato solo per amarli. Chiamato a guardare in alto: siamo chiamati a guardare le stelle, solo i sapiens lo sanno fare, gli animali non possono guardare il cielo - forse non c’è definizione più bella della vocazione umana.
Ma mentre Osea ripercorre questa tristissima storia di dolore e di fallimento, ecco che accade l’inatteso, e ci ritroviamo in una delle grandi risurrezioni della Bibbia: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si capovolge dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Senza soluzione di continuità, senza nessun preavviso, Osea fa rotolare la pietra del sepolcro e ci accorgiamo, noi e lui, che è vuoto. Quel non-spazio tra quei due versetti contigui crea un tempo infinito che inverte il senso del libro di Osea. Eravamo davvero convinti che YHWH non potesse fare altro che prendere atto della libertà di Efraim e quindi abbandonarlo alla stessa sorte di Adma e Seboìm (città sul Mar Morto, come Sodoma e Gomorra). E invece no: su quella non-speranza irrompe l’impensato, il verso delle cose viene piegato e inizia per Dio il tempo della fedeltà senza reciprocità - la nostra, la sua reciprocità. Non siamo di fronte soltanto a un pentimento di YHWH (come dopo il Diluvio o dopo la punizione per il vitello d’oro); qui c’è una conversione di Dio, come suggerisce il verbo ebraico che parla di un ribaltamento del cuore. YHWH cambia sguardo, inverte la strada, cambia la direzione della sua azione: dunque si converte. E fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare, l’opposto di quanto detto finora.
È una vetta della teologia biblica e delle religioni. Qui davvero Osea è maestro di tutti i profeti, di Isaia e di Geremia. Il Dio del capitolo undici di Osea lotta e vince il Dio dei suoi capitoli precedenti. Deus contra Deum: dentro la stessa Bibbia, dentro lo stesso libro, dentro lo stesso profeta. Da questa lotta emerge un Dio inedito. Questa rinuncia alla reciprocità, non ancora conosciuta dagli uomini, ora diventa possibile per Dio: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo» (11,9).
Perché sono Dio e non un uomo: è splendido che la diversità tra Dio e l’uomo stia proprio nel suo essere capace di amare anche senza reciprocità. Come a dirci: “Voi non siete capaci di amare se non siete riamati, io invece non riesco a non amarvi, è per questa incapacità di non amarvi anche se siete ingrati che Io sono Dio”.
La divinità emerge dallo scarto tra l’amore e la reciprocità, un amore che un giorno chiameremo agape, perché questo amore non era la reciprocità della philìa (amicizia) né il desiderio dell’eros. Quasi a dirci: solo un Dio può amare senza reciprocità: voi, che siete cattivi, non vivete la reciprocità con me, neanche io la vivo con voi e vi amo rinunciando alla reciprocità.
Ma poi ci dice anche qualcos’altro. Il Dio di Osea, infatti, da una parte prende le distanze da noi e ci dice parole che non sono ancora le nostre, ma mentre ce le dice ci fa diventare quelle parole diverse, ci sta creando più grandi di come eravamo ieri. Ci mostra una forma di amore che noi non abbiamo ancora, e nel mostrarcela ci rende capaci dell’amore del non-ancora. Meraviglioso.
È così che la parola continua a creare il mondo dicendolo, dicendoci a noi stessi. Noi non siamo il Padre misericordioso che perdona il figliol prodigo prima ancora che gli abbia chiesto perdono, ma ogni volta che ascoltiamo quella parabola di Luca ci nasce il desiderio di somigliarli, vogliamo diventare come lui, diventiamo realmente giorno dopo giorno come lui, finché almeno una volta nella vita ci ritroviamo capaci di accogliere e perdonare un figlio o un amico esattamente come quel padre misericordioso della parabola.
Gli uomini credendo nell’esistenza di Dio hanno detto e dicono molte cose. Una di queste è molto importante: se esiste Dio allora l’uomo non è Dio, quindi non è onnipotente, è limitato e mortale. La Bibbia ha fatto di tutto per tenere viva e operante questa distanza tra il Creatore e noi creature. Ma poi ci ha detto anche un’altra cosa: che siamo stati creati a “immagine di Dio”, e questa parola ha scombinato tutto il rotolo del mondo. Perché se noi siamo immagine di Dio allora ogni volta che Dio ci svela qualcosa di sé ci sta svelando anche qualcosa di noi, qualcosa di diverso, ma anche qualcosa di uguale. Parlandoci della sua giustizia ci parla della nostra giustizia, parlandoci del suo amore ci parla del nostro amore, diverso e simile, e svelandocelo aumenta la somiglianza tra i due amori.
Se guardiamo bene tra le pieghe del mondo, scopriamo ancora qualcosa di entusiasmante. Ci possiamo accorgere che anche le grandi parole umane condividono alcune dimensioni di questa capacità della parola biblica. Scriviamo in una Costituzione, la nostra, che la «Repubblica è fondata sul lavoro» ben sapendo che mentre lo scriviamo la Repubblica non è ancora fondata veramente sul lavoro, perché a fondare la vita sociale c’erano ancora troppi privilegi e ingiustizie. Ma scrivendolo stiamo dicendo, implorando, pregando che la Repubblica possa diventare davvero fondata sul lavoro, vogliamo che quelle parole più grandi di noi abbiano la capacità performativa di cambiare il nostro mondo. Poi scriviamo nei tribunali «La legge è uguale per tutti» ben sapendo che la legge non è ancora davvero uguale per ricchi e poveri, per italiani e stranieri. Ma ogni volta che inauguriamo una nuova aula di tribunale e vi riscriviamo al centro quella frase stupenda stiamo facendo avvicinare il mondo reale a quella parola profetica. Si trova qui una dimensione profetica della terra, quella profezia civile, popolare, cittadina di comunità intere che affidano a poche parole i propri desideri più grandi e i sogni collettivi, che sono autentiche parole-preghiera.
Non sappiamo, infine, come Osea scrisse quel versetto otto del capitalo undici. Forse fu lui il primo a essere tramortito e sconvolto da quanto capì e scrisse. Forse non se lo immaginava, non se lo aspettava, gli arrivò come dono, tutta gratuità, fu risorto da quelle sue parole. O, forse, guardando un giorno un uomo o una donna che era stata capace di amare e di perdonare oltre le infedeltà dell’altro, o ritrovandosi lui stesso capace di amore fedele per sua moglie infedele, Osea intuì che se gli uomini e le donne sono capaci di essere più grandi della loro reciprocità la fonte di questa capacità doveva trovarsi in Dio stesso. O, forse, queste due esperienze sono state una sola, quando Osea nel ricevere quella nuova parola dalla bocca di YHWH, al termine del verso sette gli fiorì un verso differente, vi riconobbe la vita attorno a sé, e finalmente la capì. Una certezza però l’abbiamo: Osea ha incontrato e annunciato una risurrezione perché è arrivato fino in fondo alla crisi sua e della sua comunità. Neanche un centimetro di meno: da dentro la certezza della fine è nata la certezza di un futuro. Troppe volte non risorgiamo perché ci fermiamo alla prima o alla seconda stazione della via crucis, non chiamiamo le crisi col loro nome tremendo, ci consoliamo con piccole risurrezioni e non tocchiamo il fondo degli abissi, dove il piede può tentare un nuovo volo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cammino sinodale e discernimento comunitario
Parola, alleanze e pietà popolare
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo *
Una delle priorità del cammino sinodale della Chiesa italiana, nella chiamata al discernimento comunitario, è riportare al centro la Parola nelle comunità reali, le parrocchie e le famiglie. Non c’è autentico discernimento cristiano senza la luce della Parola di Dio. Per il timore dell’eresia della libera interpretazione, la Bibbia di fatto scomparve dalle case dei cattolici. Il concilio Vaticano ii con la costituzione dogmatica Dei Verbum ha riproposto l’ascolto e la proclamazione della Parola nel cammino della Chiesa.
Come farla tornare al centro della vita cristiana affinché si realizzi la Chiesa comunità? Indichiamo le «alleanze» come chiave di lettura antropologica e teologica della Parola. Mostrano il rapporto vivo di Dio con il popolo. Lungo la storia, Dio ha stabilito alleanze con l’umanità, legami d’amore e promesse per concedere i suoi doni e ricevere la risposta dell’uomo. Sono reali, non ideologiche, e ne sono prova i tanti fallimenti.
L’alleanza della creazione, di Adamo ed Eva: è il Paradiso. Fallita per il peccato e per l’orgoglio, è vigente perché Dio continua a volerci tutti in Paradiso. È l’alleanza della felicità.
L’alleanza di Noè, con tutta l’umanità. Dio si impegna a non distruggere mai più ciò che ha creato. Il simbolo è l’arcobaleno fra il cielo e la terra. È fallita per l’orgoglio umano e la dispersione dei popoli, e sempre fedele nella regolarità delle stagioni. È l’alleanza della pace.
L’alleanza di Abramo, la scelta del popolo ebraico, come primogenito. Un vincolo segnato nella carne con la circoncisione. È fallita perché il popolo eletto, invece di essere «un pedagogo che conduce a Dio» tutti i popoli, ha interpretato la sua elezione come privilegio. Essa permane perché il popolo ebraico non è maledetto, conserva la primogenitura. È l’alleanza della vocazione.
L’alleanza di Mosè: Dio rivela il suo nome, libera dalla schiavitù, dona la terra e la legge, che è luce e cammino sicuro per tutta l’umanità, e istituisce il rito come elemento di relazione. Fallisce per la sfiducia in Dio e si trasforma in legalismo e ritualismo. È mantenuta viva dai profeti che invitavano alla speranza. È l’alleanza della legge, dell’attaccamento e della memoria.
C’è poi la sorpresa della nuova ed eterna alleanza di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, che compie le profezie. Da parte di Dio è un’alleanza definitiva, universale e irreversibile, che non abolisce le precedenti, ma «aggiunge», «porta a compimento» dando nuova vita a tutte le altre alleanze.
Il nuovo Adamo riapre il Paradiso e ci chiama “fratelli tutti”. L’alleanza di Gesù Cristo svela che Dio vuole una comunione di amore e di pace e non di dominio e di violenza. È l’alleanza dell’amore nonostante i fallimenti da superare e gli sbagli da correggere.
Il popolo nella Chiesa cattolica si relaziona con Dio nella liturgia, nella carità, nel rapporto con il creato e nella pietà popolare. Anche se solo una minoranza vi partecipa, la liturgia è il luogo teologico privilegiato per la Parola. I testi del lezionario delle domeniche e dei “tempi forti” sono stati selezionati alla luce delle alleanze, in modo che nel rapporto fra Antico e Nuovo testamento appaia chiaro il cammino di relazione fra Dio e umanità che apre al futuro di salvezza: promessa, compimento e pienezza. È importante, specialmente in parrocchia, preparare comunitariamente, alcune volte durante l’anno, la celebrazione domenicale e la predicazione, come suggerito in Evangelii gaudium, 135-151.
Negli ambiti della carità, specialmente con la scelta preferenziale per i poveri, e del rapporto con il creato, verso i quali molti si sentono oggi spontaneamente attratti, la Parola non è stata ancora sufficientemente valorizzata e talvolta è stata usata in modo riduttivo e ideologico; ma la teologia delle alleanze potrebbe apportare luce anche sulle grandi tragedie umanitarie di oggi.
Fin da subito invece si può ridare valore alla Parola di Dio nella pietà popolare. Una bella definizione di pietà popolare è di don Giuseppe De Luca: «La pietà è presenza amata di Dio; non è pietà una fiammata momentanea, per essere pietà deve essere come una vita. Si è pii come si è vivi». La pietà è consuetudine d’amore, tradizione assimilata, dal cuore del popolo. Non è mai solitaria e manifesta la vigenza delle alleanze. La comprensione teologica si trova in Evangelii nuntiandi, 48, dove si abbandona l’espressione “religiosità popolare” perché di sapore sociologico, e si chiede di prediligere l’espressione “pietà popolare”. Essa è naturalmente mistagogica, evangelizzatrice, perché contamina le generazioni in modo orizzontale e verticale, cioè sincronico e diacronico (Evangelii gaudium, 122). È universale come fenomeno che si riferisce a Dio, ma è particolare e locale come realtà vissuta, con testimoni conosciuti e amati e in rapporto con il creato in quel luogo specifico attraverso elementi simbolici.
Non sono bastati la lectio divina, i predicatori esperti, i gruppi selezionati, le élite, i movimenti, le scuole, perché sono cammini dall’alto. Per il popolo cattolico la pietà popolare è il luogo teologico per eccellenza “dal basso”, e in quel terreno fecondo da dissodare da ogni superstizione è importante che rifiorisca la Parola letta alla luce delle alleanze.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 24 agosto 2021
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
Documento.
I vescovi Usa: il politico cattolico dà scandalo se non segue la Chiesa
Nel testo approvato ieri chi svolge ruoli di autorità ha una responsabilità speciale verso la dottrina. Ma nessun esplicito riferimento al presidente Biden
di Elena Molinari, Baltimora (Avvenire, giovedì 18 novembre 2021)
Dopo mesi di discussione e due giorni di acceso dibattito, i vescovi americani hanno approvato ieri un atteso documento sulla coerenza eucaristica. Il testo era stato proposto dopo le elezioni 2020 da alcuni presuli Usa che vedevano la necessità di prendere una posizione chiara rispetto a un «presidente cattolico che si oppone agli insegnamenti della Chiesa». Il riferimento era all’accettazione della legalità dell’aborto da parte di Joe Biden, il secondo capo della Casa Bianca cattolico nella storia.
Ma il testo che è passato con 222 sì, otto no e tre astensioni non contiene riferimenti espliciti ad alcun politico, nè esamina l’opportunità di negare la comunione a personaggi pubblici che difendono posizioni non in linea con l’insegnamento morale della Chiesa. Il documento sostiene però che i cattolici che rivestono ruoli di autorità «hanno una responsabilità speciale» nel seguire la legge della Chiesa.
E sottolinea che coloro che ricevono la comunione pur avendo ripudiato nella loro vita pubblica gli insegnamenti della Chiesa «creano scandalo e indeboliscono la determinazione degli altri cattolici di essere fedeli alle esigenze del Vangelo».
In definitiva, durante la prima assemblea plenaria in persona in due anni, la Conferenza episcopale americana ha accolto gli inviti del Vaticano ad evitare condanne che potessero «diventare una fonte di discordia», come il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva ammonito in una lettera i vescovi Usa. Prevalso anche il timore, espresso da alcuni vescovi come Robert McElroy di San Diego, che l’Eucaristia possa essere usata come «un’arma in battaglie politiche».
La terza giornata di lavori della plenaria a Baltimora, aperti alla stampa, ha però rivelato che opinioni diverse sul tema permangono all’interno della Conferenza. Il testo, infatti, affida ai singoli vescovi il «compito speciale di porre rimedio a situazioni che comportano azioni pubbliche in contrasto con la comunione visibile della Chiesa e la legge morale». E se alcuni vescovi hanno interpretato il passaggio come un invito al dialogo, altri vi hanno visto una possibile apertura a negare l’eucaristia ai politici cattolici che ammettono l’aborto.
L’arcivescovo Joseph Naumann di Kansas City, ad esempio, ha evidenziato la responsabilità dei vertici ecclesiastici di parlare con i cattolici che agiscono in modo contrario agli insegnamenti morali della Chiesa, senza «aver paura di dire quanto è grave non difendere questi insegnamenti nella sfera pubblica».
Il comitato dottrinale che ha steso le 30 pagine sul «Mistero dell’Eucaristia nella vita della Chiesa», inoltre, ha accettato all’ultimo momento la richiesta dell’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, di includere la responsabilità delle persone in posizione di autorità di promuovere la vita dei non nati. «Non riconoscere la categoria di esseri umani vittima della più grande distruzione della vita umana nel nostro tempo sarebbe un’evidente omissione che, per alcuni di noi, trasformerebbe questo documento in un problema piuttosto che in un aiuto», ha detto l’arcivescovo.
I presuli sono stati però unanimi nell’evidenziare che il documento va ben oltre la questione dei politici cattolici e mette soprattutto in evidenza il ruolo del sacramento nella vita della Chiesa.
Le 30 pagine pongono infatti una rinnovata enfasi sulla catechesi sul significato dell’Eucaristia, in risposta a un calo, negli Usa, della fede nella presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo nella comunione.
Come ha spiegato l’arcivescovo di Denver Samuel Aquila è importante «portare una maggiore consapevolezza tra i fedeli di come l’Eucaristia può trasformare le nostre vite». I vescovi hanno infatti lanciato ieri da Baltimora una campagna triennale di «risveglio eucaristico», che prevede lo sviluppo di nuovi materiali didattici, la formazione di leader diocesani e parrocchiali, un nuovo sito web e l’invio di un’équipe di 50 sacerdoti nei 50 Stati per predicare l’Eucaristia. La campagna culminerà con un Congresso eucaristico nazionale nel giugno 2024 a Indianapolis.
L’intervento del nunzio apostolico Pierre all’assemblea generale dei vescovi degli Stati Uniti
L’unità è il futuro di una Chiesa sinodale
di Amedeo Lomonaco (L’Osservatore Romano, 17 novembre 2021)
«Il cammino verso il futuro implica necessariamente l’unità. Una Chiesa divisa non sarà mai in grado di condurre gli altri all’unità più profonda voluta da Cristo». È quanto ha affermato, martedì 16 novembre, l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nella giornata di apertura dell’assemblea generale della Conferenza dei vescovi cattolici del Paese (Usccb). L’appuntamento si svolge a Baltimora, nel Maryland, fino al 18 novembre, con la partecipazione di quasi 300 vescovi chiamati a riflettere sul tema dell’Eucaristia.
Il presule ha centrato il suo intervento sul tema della sinodalità, sulla scia del processo avviato da Papa Francesco in tutta la Chiesa. La sinodalità, ha detto, «non è un concetto astratto», ma aiuta ad affrontare «la realtà della nostra situazione attuale» come «una risposta alle sfide del nostro tempo e al confronto che minaccia di dividere questo Paese e che ha anche i suoi echi nella Chiesa. Sembra che molti non si rendano conto di essere impegnati in questo confronto, prendendo posizioni radicate in certe verità, ma isolate nel mondo delle idee e non applicate alla realtà dell’esperienza di fede, vissuta dal popolo di Dio nelle situazioni concrete».
Il nunzio ha ricordato «diverse questioni urgenti che la Chiesa deve affrontare oggi». Una di queste è la vita: «Non possiamo abbandonare la nostra difesa della vita umana innocente o della persona vulnerabile». Tuttavia, ha aggiunto, un approccio sinodale «sarebbe quello di capire meglio perché le persone cercano di interrompere le gravidanze», quali sono «le cause profonde delle scelte contro la vita» e quali sono i fattori che rendono queste scelte «così complicate per alcuni».
Sul tema dell’Eucaristia ha affermato che «le realtà sono più importanti delle idee. Possiamo avere tutte le idee teologiche sull’Eucaristia - e, naturalmente, ne abbiamo bisogno - ma nessuna di queste idee è paragonabile alla realtà del Mistero eucaristico, che ha bisogno di essere scoperto e riscoperto attraverso l’esperienza pratica della Chiesa, vivendo in comunione, particolarmente in questo tempo di pandemia. Possiamo diventare così concentrati sulla sacralità delle forme della liturgia che perdiamo il vero incontro con la Sua presenza reale. C’è la tentazione di trattare l’Eucaristia come qualcosa da offrire a pochi privilegiati piuttosto che cercare di camminare con coloro la cui teologia o discepolato è carente, aiutandoli a comprendere e apprezzare il dono dell’Eucaristia e aiutandoli a superare le loro difficoltà. Piuttosto che rimanere intrappolati in una “ideologia del sacro”, la sinodalità è un metodo che ci aiuta a scoprire insieme una via da seguire».
Dopo l’intervento del nunzio, ha preso la parola monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che ha ricordato come la missione della Chiesa sia «la stessa in ogni tempo e in ogni luogo»: è quella di «proclamare Gesù Cristo e aiutare ogni persona a trovarlo e a camminare con Lui». Dio, ha sottolineato, ci chiama «a costruire il suo Regno» e a infondere nella società «i valori del Vangelo». «La sfida che abbiamo è quella di capire come la Chiesa dovrebbe svolgere la propria missione in un’America che ora è altamente secolarizzata».
Citando l’appello costante di Papa Francesco per una Chiesa missionaria, monsignor Gómez ha ricordato che ogni cattolico condivide la responsabilità per la missione:
sacerdoti,
diaconi,
seminaristi,
religiosi e consacrati,
uomini e donne laici:
siamo tutti battezzati per essere missionari».
Nonostante uno scenario difficile, reso ancora più critico dall’attuale pandemia, l’arcivescovo di Los Angeles afferma che ci sono segni di speranza: c’è «un risveglio spirituale» nel Paese e molti «sono alla ricerca» in un momento in cui «la società americana sembra perdere la sua storia, radicata in una visione biblica del mondo». «Stanno cercando una nuova storia che dia senso alla loro vita». Ma «non hanno bisogno - ha affermato monsignor Gómez - di una nuova storia». «Ciò di cui hanno bisogno è ascoltare la vera storia, la bellissima storia dell’amore di Cristo per noi, il suo morire e risorgere dalla morte per noi, e la speranza che egli porta alle nostre vite». Infine, ha parlato del piano pastorale per «una rinascita eucaristica». Si tratta di un progetto missionario che mira a portare le persone nel cuore del mistero della fede: l’Eucaristia - ha concluso - è «la chiave di accesso alla civiltà dell’amore che desideriamo creare».
Anticipazione.
Lo spirito autentico dei Sinodi è nel sapersi mettere in gioco
di Antonio Spadaro (Avvenire, giovedì 4 novembre 2021)
L’avvio del Sinodo sulla sinodalità, avvenuto il 9 ottobre scorso, c’invita a porre la domanda su che cosa significa oggi essere Chiesa e quale sia il suo senso nella storia. E tale domanda è pure alla base del Cammino sinodale che la Chiesa italiana sta avviando, e di quello in corso o in fase di avvio in Germania, Australia e Irlanda. Chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi - i quali, tra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano -, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo fratturato come il nostro, è una profezia.
Non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto. Sarebbe questa un’immagine meccanica della comunione. Potremmo meglio pensarla come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Se dovessimo proseguire usando questa immagine, direi che non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Chi ha fatto l’esperienza dei recenti Sinodi dei vescovi avrà percepito le tensioni che emergevano all’interno dell’Assemblea, ma anche il clima spirituale nel quale erano - per lo più - immerse. Il Pontefice ha sempre molto insistito sul fatto che il Sinodo non è un’assemblea parlamentare dove si discute e si vota per maggioranza e minoranza. Il protagonista, in realtà, è lo Spirito Santo, che «muove e attira», come scrive sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Il Sinodo è un’esperienza di discernimento spirituale alla ricerca della volontà di Dio sulla Chiesa.
Che questa visione del Sinodo sia anche una visione della Chiesa, non è da mettere in discussione. C’è una ecclesiologia - maturata negli anni grazie al Concilio Vaticano II - che oggi si dispiega. Per questo c’è bisogno di grande ascolto. Ascolto di Dio, nella preghiera, nella liturgia, nell’esercizio spirituale; ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze (perché è sulle esperienze che si può far discernimento e non sulle idee); ascolto del mondo, perché Dio vi è sempre presente, ispirando, muovendo, agitando: abbiamo l’opportunità di diventare «una Chiesa che non si separa dalla vita», ha detto Francesco salutando i partecipanti intervenuti all’inizio del percorso sinodale (9 ottobre). Il Pontefice ha quindi sintetizzato così: «Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità». Mettere la Chiesa in stato sinodale significa renderla inquieta, scomoda, tesa perché agitata dal soffio divino, che certo non ama safe zones, aree protette: soffia dove vuole.
Il modo peggiore per fare sinodo allora sarebbe quello di prendere il modello delle conferenze, dei congressi, delle “settimane” di riflessione, e immaginare che così tutto possa procedere in modo ordinato, anche cosmeticamente. Altra tentazione è l’eccessiva premura per la «macchina sinodale», perché tutto funzioni come previsto. Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico - non quello scettico -, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è sinodo. Se lo Spirito Santo è in azione - una volta ha affermato Francesco -, allora «dà un calcio al tavolo». L’immagine è riuscita, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.
Per fare sinodo occorre cacciare i mercanti e rovesciare i loro tavoli. Non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? Ma chi sono oggi i «mercanti del tempio»? Solo una riflessione intrisa di preghiera potrà aiutarci a identificarli. Perché non sono i peccatori, non sono i «lontani», i non credenti, e neanche chi si professa anticlericale. Anzi, a volte essi ci aiutano a capire meglio il tesoro prezioso che conteniamo nei nostri poveri vasi di argilla. I mercanti sono sempre prossimi al tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti ispirano l’immobilismo delle soluzioni vecchie per problemi nuovi, cioè l’usato sicuro che è sempre un «rattoppo », come lo definisce il Pontefice. I mercanti si vantano di essere «al servizio » del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio che è «qui» e non «lì».
Fare sinodo allora implica essere umili, azzerare i pensieri, passare dall’«io» al «noi», aprirsi. Colpisce in questo senso, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale del Sinodo, cardinale Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto il 9 ottobre durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del Sinodo. Roland Barthes - da esimio linguista e semiologo - aveva capito che gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola servono a creare un linguaggio di interlocuzione con Dio fatto di ascolto e parola. Occorre comprendere che il Sinodo, a suo modo, condivide questa natura linguistica, di creatore di linguaggio. Ed è per questo che è importante il metodo, cioè il modo e le regole del cammino, soprattutto in funzione del pieno coinvolgimento.
In definitiva, la dinamica che si sviluppa nel Sinodo può essere descritta come un «giocarsi», un «mettersi in gioco». E, ad esempio, giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, «essere giocati» dalle situazioni che si verificano in campo. Infatti, «il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso», come scrive Gadamer nel suo celebre saggio “Verità e metodo”. Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore, ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. E questo è, in fondo, lo spirito del Sinodo: mettersi finalmente davvero in gioco seguendo la dinamica animata dallo Spirito.
Direttore “La Civiltà Cattolica”
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
"ECCE HOMO": MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
A SCUOLA DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E AUTOANALISI ISTITUZIONALE.
PER L’APERTURA DEL SINODO SULLA SINODALITÀ,
UN INVITO E UNA SOLLECITAZIONE
DI PAPA FRANCESCO
A TUTTA LA CHIESA CATTOLICA (E NON SOLO):
"[...] Chiediamoci, con sincerità, in questo itinerario sinodale: come stiamo con l’ascolto? Come va “l’udito” del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate?
Fare Sinodo è porsi sulla stessa via del Verbo fatto uomo: è seguire le sue tracce, ascoltando la sua Parola insieme alle parole degli altri. È scoprire con stupore che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi. È un #esercizio lento, forse faticoso, per imparare ad ascoltarci a vicenda - vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati - evitando risposte artificiali e superficiali, risposte prêt-à-porter, no.
Lo Spirito ci chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni Chiesa, di ogni popolo e nazione. E anche in ascolto del mondo, delle sfide e dei cambiamenti che ci mette davanti. Non insonorizziamo il cuore, non blindiamoci dentro le nostre certezze. Le certezze tante volte ci chiudono [...]"
(cfr. IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA DELLA MESSA DI APERTURA DEL SINODO)
Religioni.
Cosa accade se Gesù torna a parlare ebraico?
Esce il primo volume della traduzione del Nuovo Testamento dal greco nella lingua della Torà. Un lavoro lessicale e teologico imponente che apre un dibattito
di Massimo Giuliani (Avvenire, venerdì 1 ottobre 2021)
In cosa è diverso questo commento da tutti gli altri commenti ai Vangeli? In effetti, l’aggettivo diverso è l’unico che coglie la novità quasi assoluta di questa impresa, che oltre ad avere un chiaro valore religioso e teologico ha pure un enorme valore culturale. Mai nessuno in Italia si era azzardato a tradurre, ma potremmo anche dire ri-tradurre, i quattro testi evangelici e poi l’intero Nuovo Testamento lasciando i nomi propri e i terminichiave nella loro lingua davvero originale: l’ebraico.
Certo che abbiamo ricevuto questi testi in greco! Ma ciò non significa che siano nati o siano stati elaborati in greco. È un’ovvietà, forse, per alcuni (ma si tende a ignorarla o rimuoverla), che il rabbi Gesù e i suoi discepoli e quanti ne diffusero gli insegnamenti all’origine parlassero, in quanto ebrei, non greco ma ebraico (oltre che aramaico). Farne il perno per una nuova versione produce un effetto al contempo straniante e stupefacente, che sveglia all’improvviso i riflessi e sfalda l’assuefazione mentale.
Edita da Castelvecchi, l’opera in tre volumi si intitola Nuovo Testamento. Una lettura ebraica. Il primo volume appena uscito copre Vangeli e Atti degli Apostoli (con glossario e bibliografia; pagine 494, euro 25,00); il secondo è dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (uscirà tra poche settimane); il terzo contiene gli altri scritti neotestamentari, Lettere e Apocalisse, cui è stata aggiunta la Didachè (apparirà a novembre).
Quest’impresa, opera dell’ebraista Marco Cassuto Morselli e della grecista Gabriella Maestri, con le sue brevi introduzioni, i commenti e le note sembra rivelare qualcosa che, da sempre sotto gli occhi di tutti - come la famosa “lettera rubata” di Edgar Allan Poe - nessuno di solito riesce a vedere.
Il risultato è quello di ritrovare un Gesù che non si chiama più, italianizzato, Gesù ma Yeshua e che parla la sua lingua usando termini attinti alle Scritture ebraiche, non goffe traduzioni o addirittura traduzioni di traduzioni. Sin dalle prime righe i curatori ammettono onestamente le loro precomprensioni, da cui derivano i criteri del lavoro traduttorio:
«L’ebraicità di Yeshua e dei Vangeli è stata a lungo rimossa. Per iniziare a recuperarla nel nostro lavoro abbiamo scelto di non tradurre i nomi propri, sia di persone che di luoghi. (...) La nostra attenzione si è rivolta soprattutto all’esame di quei punti problematici i quali hanno offerto materia per la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. E al fine di restituire, per quanto possibile, i testi alla loro matrice ebraica abbiamo scelto di riportare in ebraico alcune parole di particolare rilevanza semantica».
Ad esempio, termini come teshuvà per conversione, malkhut per regno, mashalper parabola, tevillà per battesimo, ruach (al femminile) per spirito, Mashiah per Cristo... e soprattutto i nomi biblici per indicare Dio, che sono pregni di una teologia ebraica che né il greco né le traduzioni moderne riescono ad esprimere prestando il fianco a ogni genere di riempimento allotrio.
Ci hanno messo tredici anni di studio e di lavoro congiunti, l’ebraista e la grecista, per completare questa riscrittura delle Scritture cristiane, tenendo fisso ma ben calibrato il criterio ultimo: cercare di riportare i testi neotestamentari alla loro matrice linguistica e lessicale ebraica, e dunque alla sua complessa tessitura concettuale, e tale che impedisca di pensare quello che, invece, per secoli molta cristianità ha pensato e teorizzato: che Yeshua abbia predicato un Dio diverso da quello della rivelazione mosaica; una legge altra rispetto alla Torà sinaitica o che l’abbia dichiarata superata; un’etica avversa a quella, che invece Gesù condivideva e praticava, delle scuole farisaiche del suo tempo. Concludendone che il cristianesimo ha “portato a compimento” l’ebraismo sì che la Chiesa sia il sostituto di Israele.
Se tutta questa quantità di pensieri ha davvero origine dai Vangeli, dicono Cassuto Morselli e Maestri, andiamo a verificarlo nei testi, scaviamo nel greco neotestamentario e cerchiamo di ricostruire i termini e i concetti che nessuna scuola ellenistica poteva aver inventato, perché sono la specifica eredità spirituale e letteraria del popolo ebraico. Del resto è impossibile capire i racconti evangelici se non ricostruiamo la vita e la predicazione gesuane a partire dal loro contesto sociale, dalle due lingue da lui usate ossia l’ebraico e l’aramaico (e non solo l’aramaico) e da milieu concettuale e geopolitico in cui Yeshua ha vissuto.
Fino a oggi non esisteva un’opera simile in Italia; è disponibile in inglese, made in Usa, un Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Bretter ed edita a Oxford, ma si “limita” a una ricca messe di note da parte di una estesa équipe di studiosi ebrei, ma non è un tentativo di restituire a Yeshua la sua lingua, i concetti che usava e i nomi a lui familiari. Forse esiste un lavoro simile in Israele, ma con altre premesse. In tre volumi, quest’opera è un unicum: si pensi ai modi in cui le traduzioni ufficiali del Nuovo Testamento nominano Dio. Dio è termine greco, generico e valido anche per gli idoli; il Dio di Israele, in ebraico, non si dice, perché è l’Innominabile e l’Impronunciabile.
Solo quel geniale traduttore moderno, in francese, che fu André Chouraqui si pose il problema: quale Nome sta dietro il termine Kyrios? Il Tetragramma? Elohim? Inoltre, mai uno di questi nomi sarebbe stato usato da ebrei per un essere umano. Come si distingue, nel greco della koinè, la signoria teologica da quella cristo-logica? In questa riscrittura e lettura ebraica del Nuovo Testamento viene fatto lo sforzo di rispettare queste basilari distinzioni, che solo chi traduce «a partire dalla fede ebraica» e nella conoscenza e nel rispetto di essa può cogliere (gli altri neppure si accorgono del problema).
Maestri e Cassuto Morselli scrivono ancora: «La Parola del Santo, benedetto sia, è infinita, e il fiume della Rivelazione si riversa nelle limitate parole dell’uomo. La sua infinita polisemia ha bisogno di un continuo lavoro di ascolto e di interpretazione, la Scrittura cresce con il suo lettore, e i lettori di oggi sono donne e uomini che vivono il tempo del dialogo tra ebrei e cristiani. Da secoli i cristiani leggono e commentano le Scritture ebraiche, in tempi recenti anche gli ebrei hanno iniziato a leggere le Scritture cristiane».
I tempi a cui qui si fa riferimento ebbero inizio in Europa nel XVII secolo con Orobio de Castro e Spinoza e arrivano ad Abraham Geiger, Jules Isaac e Susannah Heschel; in Italia si parte da Leone Modena e si giunge, più vicino a noi, al rabbino livornese Elia Benamozegh. Ma il solco più recente è quello tracciato da pionieri come Lea Sestieri, Paolo De Benedetti ed Elia Boccara. L’impresa del duo Maestri-Cassuto Morselli è un azzardo? I critici (sia ebrei sia cristiani) non mancheranno; anzi, speriamo che non manchino: ciò significherà che questo lavoro è stato preso sul serio e che il dialogo ebraico-cristiano ha ancora qualcosa da dire.
Il tema.
Una domanda, dieci tracce: ecco come le diocesi saranno coinvolte nel Sinodo
Nel Documento preparatorio per il Sinodo dei vescovi il "questionario" per la consultazione dal basso che vedrà protagoniste tutte le Chiese locali del mondo
di Giacomo Gambassi (Avvenire, martedì 7 settembre 2021)
Un’unica, impegnativa domanda. E poi dieci tracce per declinarla nel concreto e capire come ciascuna diocesi sia capace di “camminare insieme”. Ha i tratti di un esame di coscienza la grande consultazione “dal basso” di tutta la Chiesa che aprirà il processo sinodale voluto da papa Francesco e che sarà il primo tassello per giungere a celebrare il Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” in programma nell’ottobre 2023 a Roma.
L’ascolto delle diocesi del mondo è ai nastri di partenza e coinvolgerà ogni angolo del pianeta da ottobre ad aprile. Un’avventura inedita «con obiettivi di grande rilevanza per la qualità della vita ecclesiale», spiega il Documento preparatorio diffuso ieri che intende «mettere in moto le idee, le energie e la creatività di tutti coloro che parteciperanno all’itinerario».
Il testo è soprattutto una bussola per ogni territorio e per avviare la consultazione. A partire dall’interrogativo «fondamentale», come viene definito, a cui tutte le diocesi sono chiamate a rispondere: «Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?». L’intento è «raccogliere le esperienze di sinodalità vissuta, coinvolgendo i pastori e i fedeli a tutti i livelli». In particolare, specifica il Documento, verrà «richiesto il contributo degli organismi di partecipazione delle Chiese particolari, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale». E ogni diocesi dovrà fare una sintesi del «lavoro di ascolto e discernimento» in dieci pagine al massimo.
Per favorire il confronto, vengono proposte alcune serie di domande “pratiche” racchiuse all’interno di dieci ambiti tematici. Così, ad esempio, ogni diocesi dovrà riflettere su «chi cammina insieme» o chi sono i suoi «compagni di viaggio anche al di fuori del perimetro ecclesiale». Oppure valutare come «vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne»; in che modo si recepisce «il contributo di consacrati o consacrate»; come si accoglie «la voce delle minoranze, degli scartati, degli esclusi». Ancora. Le Chiese locali sono invitate a capire se il proprio «stile comunicativo» è «libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi», a promuovere «la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia», ad analizzare «come la preghiera e la celebrazione orientino il “camminare insieme”» ma anche «le decisioni più importanti».
Poi c’è la sfida della missione che chiama chiunque. Da qui i quesiti su come ogni battezzato sia «protagonista» o in quale maniera i credenti impegnati nel sociale siano sostenuti dalla comunità. Quindi la necessità del dialogo nella Chiesa e con l’ambito civile: come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti? come promuoviamo la collaborazione con le diocesi vicine? come la Chiesa impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, i poveri?, sono alcune domande. Non manca il richiamo alla vicinanza ecumenica con le altre confessioni cristiane o alla formazione.
E fra gli interrogativi ci sono anche quelli sui “vertici” nella Chiesa: come viene esercitata l’autorità? come si promuove la partecipazione alle decisioni in seno a comunità gerarchicamente strutturate?
Ciò che al Papa sta a cuore è «una conversione sinodale» che consenta di «immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta». Del resto, dice il Documento citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi».
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 settembre 2021 *
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 8. Siamo figli di Dio
Fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo il nostro itinerario di approfondimento della fede - della nostra fede - alla luce della Lettera di San Paolo ai Galati. L’Apostolo insiste con quei cristiani perché non dimentichino la novità della rivelazione di Dio che è stata loro annunciata. In pieno accordo con l’evangelista Giovanni (cfr 1 Gv 3,1-2), Paolo sottolinea che la fede in Gesù Cristo ci ha permesso di diventare realmente figli di Dio e anche suoi eredi. Noi cristiani diamo spesso per scontato questa realtà di essere figli di Dio. È bene invece fare sempre memoria grata del momento in cui lo siamo diventati, quello del nostro battesimo, per vivere con più consapevolezza il grande dono ricevuto.
Se io oggi domandassi: chi di voi sa la data del proprio battesimo?, credo che le mani alzate non sarebbero tante. E invece è la data nella quale siamo stati salvati, è la data nella quale siamo diventati figli di Dio. Adesso, coloro che non la conoscono domandino al padrino, alla madrina, al papà, alla mamma, allo zio, alla zia: “Quando sono stato battezzato? Quando sono stata battezzata?”; e ricordare ogni anno quella data: è la data nella quale siamo stati fatti figli di Dio. D’accordo? Farete questo? [rispondono: sì!] È un “sì” così, eh? [ridono] Andiamo avanti...
Infatti, una volta che è «sopraggiunta la fede» in Gesù Cristo (v. 25), si crea la condizione radicalmente nuova che immette nella figliolanza divina. La figliolanza di cui parla Paolo non è più quella generale che coinvolge tutti gli uomini e le donne in quanto figli e figlie dell’unico Creatore. Nel brano che abbiamo ascoltato egli afferma che la fede permette di essere figli di Dio «in Cristo» (v. 26): questa è la novità. È questo “in Cristo” che fa la differenza. Non soltanto figli di Dio, come tutti: tutti gli uomini e donne siamo figli di Dio, tutti, qualsiasi sia la religione che abbiamo. No. Ma “in Cristo” è quello che fa la differenza nei cristiani, e questo soltanto avviene nella partecipazione alla redenzione di Cristo e in noi nel sacramento del battesimo, così incomincia. Gesù è diventato nostro fratello, e con la sua morte e risurrezione ci ha riconciliati con il Padre. Chi accoglie Cristo nella fede, per il battesimo viene “rivestito” di Lui e della dignità filiale (cfr v. 27).
San Paolo nelle sue Lettere fa riferimento più volte al battesimo. Per lui, essere battezzati equivale a prendere parte in maniera effettiva e reale al mistero di Gesù. Per esempio, nella Lettera ai Romani giungerà perfino a dire che, nel battesimo, siamo morti con Cristo e sepolti con Lui per poter vivere con Lui (cfr 6,3-14). Morti con Cristo, sepolti con Lui per poter vivere con Lui. E questa è la grazia del battesimo: partecipare della morte e resurrezione di Gesù. Il battesimo, quindi, non è un mero rito esteriore. Quanti lo ricevono vengono trasformati nel profondo, nell’essere più intimo, e possiedono una vita nuova, appunto quella che permette di rivolgersi a Dio e invocarlo con il nome di “Abbà”, cioè “papà”. “Padre”? No, “papà” (cfr Gal 4,6).
L’Apostolo afferma con grande audacia che quella ricevuta con il battesimo è un’identità totalmente nuova, tale da prevalere rispetto alle differenze che ci sono sul piano etnico-religioso. Cioè, lo spiega così: «non c’è Giudeo né Greco»; e anche su quello sociale: «non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28). Si leggono spesso con troppa fretta queste espressioni, senza cogliere il valore rivoluzionario che possiedono. Per Paolo, scrivere ai Galati che in Cristo “non c’è Giudeo né Greco” equivaleva a un’autentica sovversione in ambito etnico-religioso. Il Giudeo, per il fatto di appartenere al popolo eletto, era privilegiato rispetto al pagano (cfr Rm 2,17-20), e Paolo stesso lo afferma (cfr Rm 9,4-5). Non stupisce, dunque, che questo nuovo insegnamento dell’Apostolo potesse suonare come eretico. “Ma come, uguali tutti? Siamo differenti!”. Suona un po’ eretico, no? Anche la seconda uguaglianza, tra “liberi” e “schiavi”, apre prospettive sconvolgenti. Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo succede anche oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù. Pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana, sono schiavi. Così infine, l’uguaglianza in Cristo supera la differenza sociale tra i due sessi, stabilendo un’uguaglianza tra uomo e donna allora rivoluzionaria e che c’è bisogno di riaffermare anche oggi. C’è bisogno di riaffermarla anche oggi. Quante volte noi sentiamo espressioni che disprezzano le donne! Quante volte abbiamo sentito: “Ma no, non fare nulla, [sono] cose di donne”. Ma guarda che uomo e donna hanno la stessa dignità, e c’è nella storia, anche oggi, una schiavitù delle donne: le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini. Dobbiamo leggere quello che dice Paolo: siamo uguali in Cristo Gesù.
Come si può vedere, Paolo afferma la profonda unità che esiste tra tutti i battezzati, a qualsiasi condizione appartengano, siano uomini o donne, uguali, perché ciascuno di loro, in Cristo, è una creatura nuova. Ogni distinzione diventa secondaria rispetto alla dignità di essere figli di Dio, il quale con il suo amore realizza una vera e sostanziale uguaglianza. Tutti, tramite la redenzione di Cristo e il battesimo che abbiamo ricevuto, siamo uguali: figli e figlie di Dio. Uguali.
Fratelli e sorelle, siamo dunque chiamati in modo più positivo a vivere una nuova vita che trova nella figliolanza con Dio la sua espressione fondante. Uguali perché figli di Dio, e figli di Dio perché ci ha redento Gesù Cristo e siamo entrati in questa dignità tramite il battesimo. È decisivo anche per tutti noi oggi riscoprire la bellezza di essere figli di Dio, di essere fratelli e sorelle tra di noi perché inseriti in Cristo che ci ha redenti. Le differenze e i contrasti che creano separazione non dovrebbero avere dimora presso i credenti in Cristo. E uno degli apostoli, nella Lettera di Giacomo, dice così: “State attenti con le differenze, perché voi non siete giusti quando nell’assemblea (cioè nella Messa) entra uno che porta un anello d’oro, è ben vestito: ‘Ah, avanti, avanti!’, e lo fanno sedere al primo posto. Poi, se entra un altro che, poveretto, appena si può coprire e si vede che è povero, povero, povero: ‘sì, sì, accomodati lì, in fondo’”. Queste differenze le facciamo noi, tante volte, in modo inconscio. No, siamo uguali. La nostra vocazione è piuttosto quella di rendere concreta ed evidente la chiamata all’unità di tutto il genere umano (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1). Tutto quello che esaspera le differenze tra le persone, causando spesso discriminazioni, tutto questo, davanti a Dio, non ha più consistenza, grazie alla salvezza realizzata in Cristo. Ciò che conta è la fede che opera seguendo il cammino dell’unità indicato dallo Spirito Santo. E la nostra responsabilità è camminare decisamente su questa strada dell’uguaglianza, ma l’uguaglianza che è sostenuta, che è stata fatta dalla redenzione di Gesù.
Grazie. E non dimenticatevi, quando tornerete a casa: “Quando sono stata battezzata? Quando sono stato battezzato?”. Domandare, per avere sempre in mente quella data. E anche festeggiare quando arriverà la data. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 08.09.2021
“La sinodalità è segno di cattolicità"
Un commento sulla Chiesa sinodale
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo* (La Stampa/Vatican Insider, 24 Ottobre 2019)
ROMA. Siamo alle ultime battute del Sinodo sull’Amazzonia e già si leva un soffio di vento sinodale per la Chiesa italiana. Papa Francesco il 17 ottobre 2015 ricordava i tre livelli della sinodalità nella Chiesa: quello Diocesano o delle chiese particolari; quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali; e quello Universale. Abbiamo avuto modo di seguire da vicino il cammino del Sinodo sull’Amazzonia, coinvolgendoci nella bella esperienza di Amazzonia Casa comune, che accompagna i lavori in aula con numerose iniziative di preghiera, ascolto e sensibilizzazione sulle tematiche del Sinodo. Possiamo dire che abbiamo vissuto “il popolo di Dio” nella sua realtà attuale, nelle sue differenze e particolarità che diventano “sinfonia” alle orecchie di chi è pronto all’ascolto senza pregiudizi.
La sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa e lo sforzo, dopo il Concilio Vaticano II, di presentare al mondo l’umanità rinnovata e salvata in Cristo nella libertà e nell’amore. Raccogliendo una tradizione molto antica e viva soprattutto nelle Chiese orientali, si vuole oggi mostrare un modello di vita nella fratellanza, superando i vincoli mondani basati sull’autoritarismo e sulla forza.
La prima osservazione molto positiva che lascia ben sperare per il futuro, è la conferma che la Chiesa cattolica è veramente universale in modo concreto e visibile: le problematiche che si affrontano in un luogo specifico hanno risonanza e conseguenze positive di rinnovamento in tutto il popolo di Dio, nel mondo intero. La sinodalità è segno di cattolicità. Non c’è bisogno di fare ogni volta decreti pontifici per sperimentarla. Si supera una concezione troppo astratta di “universale” o “cattolica”, come se la Chiesa fosse tale in modo invisibile e impalpabile, come una idealità. Abbiamo incontrato tante persone che hanno questa visione concreta. La cattolicità spinge a sfamare, curare e guarire in modo reale tutta l’umanità. I tre «verbi» più utilizzati da Gesù portano a respingere posizioni parziali, avendo il senso della pienezza e della completezza.
Una seconda osservazione riguarda direttamente coloro che appoggiano la sinodalità, si dichiarano sinodali, ma in realtà vorrebbero che il Papa e la Santa Sede risolvessero le loro problematiche intervenendo nel Sinodo con documenti risolutivi. Sono quelli del “sì! ... Però”. Sono quelli della così detta “sinodalità affettiva”, del “fare”, angosciati per risolvere i problemi, ma senza analizzarli a fondo ed ascoltare lo Spirito Santo che parla anche attraverso il suo popolo. Non di rado si tratta di religiosi abituati ad organizzare l’apostolato attraverso una struttura centralizzata. Vivono legati al concetto di “sudditanza”, come se nella Chiesa le relazioni vere fossero fra autorità e sudditi, e la sinodalità soltanto una forma moderna di conservare questi equilibri. La mancanza di questo intervento dall’alto li spaventa e disorienta. Ci sono anche laici abituati ad aspettare e a credere che le vere soluzioni vengano dalla gerarchia e dal clero.
Nella loro mente non è ancora scomparsa l’immagine della piramide per rappresentare la Chiesa. C’è chi la vorrebbe capovolgere, chi la vorrebbe scomporre. Ma non riescono a distaccarsene con il rischio che prima o poi qualcuno la rimetta in sesto, di fronte agli insuccessi dei cambiamenti. Non pochi seminaristi ancora oggi accarezzano la visione di una gerarchia di potere e di prestigio a cui appartenere.
Possibile che non si riescano a trovare altre immagini da proporre che aiutino a realizzare una maggiore condivisione nella Chiesa? Anche tra i teologi manca il coraggio. A noi piace quella illustrata l’anno scorso a Milano dall’ecclesiologo della Gregoriana Don Dario Vitali. Parlando del sensus fidei presentava come “immagine adeguata della Chiesa” la figura dell’ellisse: essa esiste in ragione dei due fuochi. Rappresentano il popolo di Dio con il sacerdozio comune e la gerarchia con il sacerdozio ordinato. Non devono essere né troppo lontani né troppo vicini, perché se sono troppo vicini uno “soffoca l’altro” e “finisce il campo magnetico”, se sono troppo lontani “non si crea il campo magnetico”. Si tratta di una figura familiare nella Chiesa, utilizzata anche nell’architettura barocca, con l’esempio più famoso della piazza san Pietro, dove sono segnati i due fuochi dell’ellisse. Evidente il legame con le teorie di Keplero che descrivono come ellittiche le orbite dei pianeti.
Una terza osservazione riguarda gli aperti oppositori alla sinodalità, con i loro cavalli di battaglia: Papa Francesco come il nemico da combattere perché introduce il disordine; la Chiesa è gerarchica e non esiste alcuna forma di partecipazione oltre l’obbedienza; il timore per l’integrità della fede e l’alterazione del Credo; la condanna della diversità nella liturgia e la diminuzione dei fedeli cattolici attribuita a questo fatto; la presunta falsa individuazione di nuovi “luoghi teologici”; tutte le problematiche relative all’ordinazione sacerdotale e all’eucaristia, che amplierebbero in modo inappropriato l’ambito dell’autorità e del governo; il celibato come unica forma di verifica della vocazione sacerdotale.
Davanti ai nostri occhi si presenta un quadro preoccupante come avvenne all’epoca del Concilio Vaticano II: ai meno attenti sembrava che ci fossero solo due schieramenti, quello dei progressisti e quello dei tradizionalisti. Confortati dai risultati delle votazioni, si sottovalutò il grande pericolo del terzo schieramento, formato dalla grande maggioranza degli attendisti, che hanno congelato il Concilio nella sua applicazione. A noi sembra che anche oggi questo terzo partito costituisca la grande maggioranza e il pericolo reale.
Auspichiamo una più ampia diffusione dell’esperienza sinodale, sia nelle chiese giovani, sia in quelle di antica tradizione. L’evangelizzazione non può più aspettare. Vorremmo vedere presto la nascita di una umanità rinnovata in Cristo nell’amore e nella libertà. C’è ancora tanto lavoro da fare. La sinodalità muove i primi passi.
Ma la fiducia nello Spirito Santo prevale e saremo stupiti da quanto accadrà: per vie inaspettate e impreviste il popolo di Dio si aprirà al cammino sinodale e sarà per il mondo una luce. Preghiamo per questo. Raccontiamo ai nostri studenti come segno di speranza che il 25 gennaio 1959, in ritardo rispetto al programma a causa del prolungarsi della cerimonia nella basilica ostiense, Giovanni XXIII alle 13,10 annunciava nella sala capitolare del monastero di San Paolo, “trepidando un poco di commozione”, ai 17 principi della Chiesa presenti, la convocazione del Concilio Vaticano II. Tutti ignari della circostanza che il mondo già lo sapesse. Il “popolo di Dio” era stato informato in anteprima. Infatti, il responsabile del servizio stampa vaticano aveva trasmesso come indicatogli, con un laconico comunicato alle 12,20, la celebrazione del Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale (1). I mezzi di comunicazione ancor prima del Papa avevano annunciato la nuova primavera della Chiesa, realizzando il loro servizio. Nei fatti c’era stato il superamento della piramide, in un mondo connesso in tempo reale con la gente.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia Nota
1) Giovanni Caprile (a cura), Il Concilio Vaticano II. L’annuncio e la preparazione 1959-1962, La Civiltà Cattolica, Roma 1966, p. 50-51
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Chiesa e covid /1. De Rita: la Chiesa ha smarrito il gregge durante la pandemia
Parla il sociologo, presidente di «Essere qui», l’associazione che ha pubblicato una ricerca sul rapporto tra i fedeli e vertici ecclesiastici in questo periodo
Il sociologo Giuseppe De Rita
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 14 agosto 2021)
L’immagine usata è quella del gregge smarrito. Richiamo evidente alla parabola evangelica, con la differenza che qui a essersi persa non è un’unica pecora che il buon pastore ora cerca lasciando sul monte le altre novantanove. Si tratta invece di rispondere a un disagio più diffuso, al malessere di quella parte di mondo cattolico per niente soddisfatto dalla posizione assunta nell’anno della pandemia dalla Chiesa italiana, di cui sottolinea l’irrilevanza, l’eccessiva sottomissione, l’autoreferenzialità.
Una "denuncia" fotografata e interpretata dall’associazione "Essere qui", nata da un gruppo di amici guidati dal sociologo Giuseppe De Rita con Liliana Cavani vicepresidente e, tra i soci, Gennaro Acquaviva, Ferruccio De Bortoli, Mario Marazziti, Romano Prodi e Andrea Riccardi.
Il risultato è una ricerca confluita nel volume appena pubblicato da Rubettino: "Il gregge smarrito". Chiesa e società nell’anno della pandemia (164 pagine, 15 euro, ebook 8,99). Non un semplice atto d’accusa, spiegano gli autori, semmai uno stress test o, per dirla in termini più consueti, un esame di coscienza, un "discernimento" sia interno alla Chiesa istituzione sia dal punto di vista dei fedeli, necessario per poi poter ripartire con maggiore vigore e consapevolezza del tanto che i cattolici possono offrire nella costruzione del bene comune.
In proposito, secondo la ricerca, la crisi legata al Covid ha fatto emergere alcune criticità latenti nella Chiesa da tempo, come «lo scollamento con la società reale, la distanza tra fedeli e pastori, l’irrilevanza nel pensiero socio-politico».
È risultato evidente, spiega il professor De Rita, «il distacco crescente, forte, che già c’era, tra evangelizzazione e promozione umana. Una separazione che riconduce alla lezione ruiniana, a suo tempo fatta propria da tutta la comunità ecclesiale italiana, secondo cui la Chiesa c’è per evangelizzare, per praticare il Vangelo e non per trasformare la società. Una condizione che durante la pandemia si è rivelata ancora più controproducente, nel senso che il sociale nella realtà ecclesiale non esisteva e quindi non poteva reagire. Si doveva fatalmente ritornare soltanto all’evangelizzazione, per la quale però non c’era più energia pastorale».
Quindi evangelizzazione e promozione umana devono procedere insieme.
Traggono forza l’una dall’altra. Se ne privilegi solo una uno salta tutto. Con la pandemia ce ne siamo accorti. In campo sociale la Chiesa ha manifestato la sua irrilevanza, l’incapacità di discutere con il potere mentre l’evangelizzazione, con le chiese vuote e senza Sacramenti, non è riuscita ad affermarsi.
In qualche modo secondo voi si è creato un fossato tra Chiesa e società.
Durante la discussione del Comitato preparatorio sul titolo da dare al Convegno ecclesiale nazionale del 1976, il segretario generale della Cei, monsignor Enrico Bartoletti impose quello che lui chiamava "l’et et", nel senso che la Chiesa non vive di contrapposizioni, di "aut aut". Non l’una o l’altra ma insieme, "et et" appunto. Una cultura ecclesiale, quella di Bartoletti, che abbiamo dimenticato.
Tra i dati evidenziati dalla vostra ricerca uno colpisce in particolare: per il 39% degli italiani e per il 50% dei praticanti, durante la pandemia la Chiesa ha accettato troppo acriticamente le decisioni del governo.
A molti cattolici è sembrato quasi stravagante che la Chiesa accettasse ogni cosa, non discutesse su nulla, che il Papa chiedesse di obbedire all’ordine delle autorità. Che può anche essere giusto nel rapporto con lo Stato ma non dal punto di vista della dimensione partecipante della Chiesa, che anziché esplodere in campo pubblico si è rannicchiata nel privato. C’è tanta gente che in pieno lockdown ha continuato ad andare a Messa magari in chiese periferiche, da amici preti, e molti fedeli erano arrabbiati perché non si celebravano funerali. Ma questa rabbia, questo disagio, li abbiamo tenuti dentro perché in fondo pensavamo che anche se ci fossimo esposti pubblicamente nessuno ci avrebbe dato retta.
E questo vale per la Chiesa a tutti i livelli?
Anche noi laici non siamo stati capaci di uno scatto d’orgoglio, per dire ad esempio che non si può rinunciare all’Eucaristia. Siamo stati irrilevanti non in termini di potere ma di cultura del sociale, del significato sociale di essere cattolici, di essere Chiesa..
Da questa situazione come si esce, quali soluzioni possono essere praticate?
Il nostro gruppo non avanza proposte, non vuole fare politica ecclesiale, non intende mettersi dentro discussioni e assumersi responsabilità che sono della gerarchia. Noi facciamo delle riflessioni a latere, diciamo quello che vediamo, ci limitiamo a fornire un input, perché dare un output sulla base di poche conoscenze e verifiche sarebbe un’avventura idiota.
Un’indicazione però la date, quella di "cercare la Chiesa fuori dalla Chiesa".
Oggi è il problema più importante. Le faccio l’esempio di due amici morti in casa e che non potendosi celebrare i funerali sono stati messi su un furgone per essere portati al luogo dove sarebbero stati cremati. Il parroco però ha voluto che passassero davanti alla parrocchia ed è uscito per un segno di benedizione. Ma quanti hanno fatto come lui? Credo pochissimi. La pandemia ha dimostrato che gli uomini di Chiesa non hanno saputo fare un passo oltre la soglia.
Vogliamo spiegare cos’è l’associazione Essere qui che ha realizzato la ricerca?
Nasce da un mio testo furibondo scritto durante la pandemia, quando ci è stato comunicato l’interdetto ad andare in chiesa, Una dozzina di pagine che mandai ad alcuni amici suscitando reazioni diverse. Qualcuno ha detto "lasciamo perdere", "stiamo buoni", altri invece hanno pensato che fosse bene andare avanti, realizzare un documento più lungo ed articolato. Ne è venuto fuori un secondo testo, meno fiammeggiante, dopodiché si è pensato di fare un passo ulteriore. E abbiamo realizzato una ricerca basata su mille interviste tra i fedeli italiani, poi accompagnata da un testo di commento. Anche la formazione del gruppo è avvenuta progressivamente, alcuni di quelli che all’inizio erano più arrabbiati li abbiamo persi, mentre è arrivato chi era interessato a un’attività quasi scientifica di analisi e di ricerca demoscopica. Devo dire che ripensandoci mi sorprendo di come tutto sia stato all’insegna della spontaneità totale. È la prima volta che nella Chiesa italiana si forma un gruppo organizzato senza assistenza ecclesiastica, senza timbri, senza decreto del parroco o del vescovo.
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Chiesa e covid /2.
Castellucci: prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza (Riccardo Maccioni, Avvenire, sabato 14 agosto 2021
Chiesa e covid /3.
Pagnoncelli: ora i credenti possono fare la differenza nella società (Enrico Lenzi, Avvenire, sabato 14 agosto 2021).
Chiesa.
Via al cammino sinodale, si parte dal popolo delle parrocchie e dalle diocesi
Durerà cinque anni il percorso nazionale che avrà come orizzonte il Giubileo del 2025. In agenda annuncio, famiglia, giovani, impegno sociale. La rivoluzione della Cei: basta input dall’alto
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 17 luglio 2021)
Il nome ufficiale è «Carta d’intenti». E rappresenta la prima roadmap del cammino sinodale della Chiesa italiana sollecitato da papa Francesco. Un percorso che è cominciato in modo formale con l’Assemblea generale dello scorso maggio e che è riassunto nel testo approvato dai vescovi della Penisola e consegnato al Papa. Il movimento “diffuso” che avrà come protagonisti le diocesi, le parrocchie e le multiformi espressioni del mondo ecclesiale italiano durerà cinque anni e avrà come orizzonte il Giubileo del 2025.
Il 2021 segna già il debutto del percorso in «sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale» dei vescovi. Il 2022 è l’anno della «prima tappa» italiana che sarà dal «basso verso l’alto»: in particolare avrà come snodo il «coinvolgimento» del “popolo delle parrocchie”. Il 2023 costituisce la «seconda tappa» che andrà «dalla periferia al centro»: in primo piano un grande «momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo» del Paese, specifica il testo-guida. La «terza tappa» prevista per il 2024 sarà «dall’alto verso il basso» e ruoterà attorno alla «sintesi delle istanze» emerse fra la gente e alla «consegna, a livello regionale e diocesano» delle proposte di azione pastorale. La conclusione durante il prossimo Anno Santo con la «verifica nazionale per fare il punto» dell’itinerario compiuto.
Il cronoprogramma recepisce le indicazioni di Francesco che lo scorso gennaio aveva sollecitato di varare un «Sinodo nazionale» tornando al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del 2015 e che, a fine aprile, incontrando l’Azione cattolica, aveva suggerito che fosse «dal basso fino all’alto» e poi «dall’alto al basso», come lo stesso Bergoglio aveva già detto durante l’Assemblea generale del 2019. Nessun itinerario «precostituito», spiega la Cei. Anzi. -«L’incoraggiamento di papa Francesco - si legge nella Carta - richiede di dare una risposta sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni». Il riferimento è anche ai Sinodi che la diocesi della Penisola hanno celebrato o stanno celebrando.
Mai nel testo si ricorre alla parola “Sinodo”: si preferisce utilizzare sempre l’espressione “cammino sinodale”, come del resto accade in Germania o in Irlanda dove sono in corso esperienze analoghe. A fare da filo conduttore la sfida di «annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita», evidenzia il titolo dell’itinerario italiano annunciato al termine del Consiglio straordinario permanente della scorsa settimana. Perché alla base della scelta sinodale c’è anche il «travaglio del tempo presente» marcato dalla pandemia che «sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali». Allora la crisi diventa occasione per «stimolare e accompagnare la rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale».
Un «ripensamento» che non ha bisogno di ricercare «affannosamente soluzioni immediate», ma necessita di mettere a fuoco «i “punti cruciali” per il prossimo futuro». La Carta ne indica alcuni: l’«abbondante semina della Parola»; la «proposta della lectio e della meditazione personale»; la «complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare»; la «catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico»; l’«azione educativa verso ragazzi»; l’urgenza di «un’alleanza familiare», di «una nuova stagione di solidarietà e carità», di un rinnovato «impegno civile» anche attraverso «un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata». L’agenda sarà scandita dal rapporto fra «Vangelo, fraternità, mondo». Con alcune priorità: la “forma di Chiesa” per il futuro; l’Eucaristia domenicale come sorgente ecclesiale; l’accompagnamento delle famiglie; il ruolo dei giovani; l’attenzione ai poveri; la presenza sociale e culturale.
È ancora da definire la cassetta degli attrezzi di lavoro: può contenere un’«agenda di temi di ricerca», l’Instrumentum laboris, le schede per l’ascolto e la verifica, una piattaforma digitale per il confronto. Comunque la Conferenza episcopale prospetta già una rivoluzione nell’impostazione che ha segnato gli ultimi decenni. Con il cammino sinodale si passerà «dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni». Basta quindi limitarsi all’opzione «applicativa»: serve imboccare la via «di ricerca e di sperimentazione» a partire dai territori.
Da qui le tre parole-chiave per coinvolgere le comunità: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Il che significa «ascoltare la situazione», «cercare quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili», «proporre scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire». L’intento è «smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società». Ecco perché serve uno «stile ecclesiale» che guardi «al primato delle persone sulle strutture», alla «corresponsabilità», alla capacità di «tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/accorpato».
Il cammino italiano si armonizzerà con quello del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” che, secondo la riforma approvata da papa Francesco, non si ridurre a un’adunanza in Vaticano ma coinvolgerà in prima battuta diocesi, Paesi e continenti. E questo va visto come «il primo momento» dell’itinerario nazionale, sottolinea la Carta d’intenti. Allora in Italia assumerà un valore particolare la data che segnerà in ogni diocesi del mondo (comprese quelle della Penisola) l’inizio del Sinodo dei vescovi: è domenica 17 ottobre quando ogni presule darà avvio al percorso universale nella propria Chiesa locale, preambolo del cammino italiano.
Che cosa è la libertà se non ci sono i doveri
Che la libertà sia un tema molto caro alla cultura contemporanea è cosa nota
di Mons. Vito Angiuli (La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 Luglio 2021)
Che la libertà sia un tema molto caro alla cultura contemporanea è cosa nota. Così come è evidente che, nelle società occidentali, il clima di esaltazione della libertà ha generato una stagione di rivendicazione dei «diritti individuali» che avanza come una valanga inarrestabile. Una passione incontenibile e un’irrefrenabile pulsione spingono alla ricerca di nuovi spazi di libertà.
La discussione che si è scatenata sulla proposta di legge Zan è una prova ulteriore di questo fenomeno sociale e culturale. Non entro nel merito del dibattito. Ciò che mi interessa sottolineare è la «visione» che è alla base di questa continua e pressante rivendicazione di nuove espressioni di libertà. Ragionando filosoficamente, si può dire che l’«Io voglio» nietzschiano ha soppiantato il «Tu devi» kantiano. I diritti hanno prevalso sui doveri. Siamo così lontani anni luce da quando Giuseppe Mazzini scriveva il libro «I doveri dell’uomo» (1860).
Parlando di libertà, ci muoviamo tra la nota espressione della canzone di Giorgio Gaber secondo il quale la libertà non è star sopra un albero, né il volo di un moscone né la ricerca di uno spazio libero, ma è «partecipazione» e le parole di Massimo Gramellini per il quale «la libertà non si può spiegare. Si può soltanto respirare senza pensarci, come l’aria, e come l’aria rimpiangerla quando non c’è più. A differenza dei dogmi, non reclama certezze e non ne offre. I suoi mattoni sono i dubbi e gli errori, gli slanci e gli abusi. I suoi confini sono labili, mobili. E la sua rovina è l’assenza di confini, che le toglie il piacere sottile della trasgressione».
In altri termini, per il cantante la libertà si esprime nel prendere parte a determinare non solo il proprio destino, ma anche quello della società in cui si vive, mentre per il giornalista la difficoltà a spiegare cosa sia la libertà, si scioglie nella facilità di avvertire la sua mancanza. In entrambi i casi, il punto di partenza è sempre l’io personale che, nella prospettiva di Gaber, trova la sua consistenza nell’impegno per l’edificazione del vivere sociale e, nella visione di Gramellini, si compiace del suo volteggiare tra dubbi, incertezze e trasgressioni.
In questo secondo caso, il compiacersi dell’assenza di qualsiasi dogma, assurge paradossalmente a diventare un «nuovo dogma» più invasivo di quelli precedenti perché più accattivante nella sua astratta declinazione di una libertà senza confini o con confini tanto labili da essere facilmente oltrepassati. A nulla serve poi lamentare la pericolosa assenza di confini se essi sono «così liquidi» da sciogliersi come neve al sole fino al punto da «togliere il sottile piacere della trasgressione».
Il riferimento al confine indica la necessità di una linea di demarcazione. Nella sua sapienza teorica e pratica, Archimede sapeva che per sollevare il mondo occorreva avere un punto fermo su cui poter far leva! Oggi, invece, pretendiamo di sollevare il mondo senza alcun punto fermo, ma con sostegni così labili da risultare del tutto inadatti allo scopo. Il punto fermo della libertà per librarsi liberamente va cercato nella dimensione relazionale della persona. La libertà sorge dalla relazione. In quanto dimensione costitutiva della persona, la relazione rende possibile il legame e il rapporto con l’altro e quindi l’esercizio della libertà. Senza la relazione viene meno anche l’idea stessa di libertà.
A questo proposito vale la pena di citare quanto scriveva Hegel per il quale l’idea di libertà trova il suo fondamento nella visione ebraico-cristiana. «Quest’idea ─ scriveva il grande filosofo tedesco ─ è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, l’uomo è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà» (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze, Laterza, Roma-Bari 2009, § 482, p. 474). In altri termini, l’assolutezza della libertà è data dall’assolutezza della relazione.
Su questa linea di pensiero si pone anche H. Arendt quando scrive che «con la creazione dell’uomo il principio della libertà ha fatto la sua comparsa sulla terra» (H. Arendt, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Ombre corte, Verona 2004, p. 68). L’idea della creazione e il mistero della nascita costituiscono il fondamento e il luogo originario dove la libertà sorge e si manifesta.
Il punto decisivo di questa visione, per certi versi ovvio e scontato, - ma nel nostro tempo anche l’ovvio sembra fare problema - è che nessuno si è originato da stesso, ma trova la sua origine da qualcuno che ha reso possibile la sua esistenza. La libertà è sempre situata e la sua possibilità di librarsi in uno slancio infinito è possibile per aver ricevuto ciò che liberamente persegue.
Nella sua dimensione essenziale, la persona umana è dono che, a sua volta, è capace di farsi dono. Ricevere, accogliere e offrire il dono che si è, è la sostanza stessa della libertà. Lo spazio che altri hanno creato per rendere possibile la mia esistenza è il compito offerto all’esercizio della mia libertà. Da qui nasce l’esigenza di fare spazio ad altri, la disponibilità a ritirarsi, a fare un passo indietro, a consentire ad altri di avanzare sulla scena. La scelta di diminuire rende possibile all’altro di crescere e prendere il proprio posto nel mondo senza ledere ad altri la possibilità di agire, anzi sollecitando e motivando a farlo in una catena ininterrotta di dono ricevuto e condiviso che, espandendosi sempre più, genera una libertà personale e partecipata. In questo quadro, lo Stato ha il compito di fare leggi che bilancino i diritti e i doveri e di promuovere i diritti di tutti senza ledere quelli di alcuno, in modo particolare il diritto alla libera espressione della propria visione del mondo.
Il criterio di riferimento dell’uomo moderno, invece, è espresso con efficacia dall’immagine del «rizoma» richiamata dai due filosofi francesi G. Deleuze e F. Guattari. Si tratta dell’agire senza radici, senza legami, senza finalità, senza alcun condizionamento interno ed esterno e, per questo, in piena libertà. In questa prospettiva, risultano illuminanti le parole di Osho quando afferma che «l’uomo libero è come una nuvola bianca. Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa. Tutte le dimensioni e tutte le direzioni le appartengono. Le nuvole bianche non hanno una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo momento è perfezione».
Per certi versi, questa affermazione sembra riecheggiare le parole di Gesù a Nicodemo: «Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3, 7-8). L’immagine della nuvola bianca e del vento sembrano delineare la stessa idea di libertà. In realtà, per Gesù, l’essere e il diventare liberi come il vento, presuppone una nascita, anzi una rinascita, cosa che non è contemplata dall’immagine della nuvola bianca. Essa ama solo volteggiare liberamente nel cielo, come un aquilone che, spezzato il filo che lo teneva agganciato alle mani del guidatore, vola sempre più in alto fino a dileguarsi in cielo e a scomparire definitivamente alla vista. Così l’assenza di fondamento e di confine rende la libertà una realtà sfuggente e inafferrabile, assoggetta alle sensibilità e ai desideri sempre cangianti dello «spirito del tempo».
*Vescovo Ugento - Santa Maria di Leuca
Pinocchio ridotto a lavoratore e consumatore?
Una rilettura del personaggio di Collodi da parte del brasiliano Rubem Alves: un ragazzino si trasforma in burattino. Un duro attacco alle odierne strutture educative, che tendono a fabbricare bambini su misura
di Roberto Carnero (Avvenire, 16.06.2021).
Molti sono convinti di conoscere"Pinocchio" perché hanno visto il cartone animato di Walt Disney o se va bene, da bambini hanno letto una versione scorciata del romanzo in edizione illustrata. Eppure Le avventure di Pinocchio e un grande classico della letteratura italiana, che andrebbe letto ascuola, come si fa con I promessi sposi e la Divina Commedia. Perché a riprova del suo valore - il romanzo di Collodi è una delle opere italiane più tradotte nel mondo ed è un testo dai significati complessi e stratificati. Collodi, infatti, è stato capace, grazie alla sua vena fantastica, di evocare atmosfere diverse, sperimentando soluzioni narrative assai ricche, con molti episodi che ben figurerebbero in un romanzo picaresco, altri in uno d’avventura, altri ancora in una narrazione "nera", e non è cosa da poco per un libro scritto per i ragazzi. Tra le disavventure del burattino, le sue cadute e risalite, Collodi non rinuncia mai alla dimensione irrazionale e magica del racconto e alla perfetta fusione di fiabesco e quotidiano: quello di Pinocchio è una sorta di viaggio dantesco tra umano e soprannaturale, in cui la fantasia e l’immaginazione si compenetrano alla perfezione con la realtà di un’umanità concreta, perfino dolorosa. Non stupisce perciò che fin dal suo primo apparire sul "Giornale per i bambini" (a puntate, dal 1881 al 1883) questo romanzo sia stato oggetto di numerose interpretazioni e anche di "riscritture": il destino, quest’ultimo, tipico dei grandi classici.
L’ultima in ordine di tempo è un Pinocchio alla rovescia (a cura di Paolo Vittoria, Marletti 1820, pp. 56, curo 7,00) di Rubem Alves (1933-2014), uno dei maggiori scrittori brasiliani del Novecento. Filosofo, storico, poeta, pedagogista, psicanalista e autore di racconti per bambini, con il suo saggio Teologia della speranza umana (in Italia pubblicatonel 1971 da Queríniana) era stato uno degli ispiratori della teologia della liberazione.
Nel 2010,invece, ha riscritto il capolavoro di Collodi "al contrario". Il suo Pinocchio non è più un burattino che diventa bambino, bensì un bambino, di nome Felipe, che si trasforma in burattino. In che modo? Adeguandosi ai meccanismi e agli ingranaggi sociali che, sin dalla scuola, richiedono al singolo di uniformarsi e omologarsi.
Attraverso questa vicenda metaforica e simbolica, Alves lancia un duro atto d’accusa nei confronti delle odierne strutture educative, tutte tese alla standardizzazione dei percorsi formativi, alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità, e, se serve, persino alla medicalizzazione, di fronte al disagio di quei ragazzi che, per le loro caratteristiche personali, non riescono a integrarsi in itinerari prestabiliti e uguali e per tutti. Ecco la risposta della maestra al piccolo protagonista: «La scuola non serve a imparare quello che vuoi, ma a imparare quello che devi imparare. Quello che devi imparare è ciò che hanno detto gli uomini intelligenti del Governo. Tutto nel giusto ordine. Una cosa alla volta. Tutti i bambini allo stesso tempo e con la stessa velocità...». E l’idolatria dei programmi,ammanniti ogni anno uguali a sé stessi,senza che siano mai suscettibili di una vera disamina critica.
Così Alves definisce il "disturbo dell’attenzione": «Disturbo dell’attenzione è quando l’attenzione sta nel luogo dove il cuore desidera e non nel luogo dove il maestro comanda». Ma una scuola simile sembra esistere solo «per trasformare i bambini che giocano in adulti che lavorano». Questo di Alves è un breve libretto che dovrebbe essere letto dai docenti, dagli educatori, dagli psicologi, dai genitori. Innanzitutto per una riflessione su che cosa dovrebbe essere la scuola: una macchina burocratica da far funzionare alla perfezione oppure un luogo, unico e straordinario, in cui scoprire i talenti e liberare le energie? E insecondo luogo per comprendere che in ogni vicenda educativa al centro deve essere posto sempre il ragazzo: solo così possiamo evitare di trasformarlo in un burattino.
L’Italia in cammino sinodale. Processo che parte dal basso
Su La Civiltà Cattolica il direttore si sofferma sull’avvio del percorso nazionale. «Chiaro il contesto: un incontro organizzato dai vescovi italiani». Il ruolo del laicato e l’unità della coscienza
di Antonio Spadaro *
Dal 24 al 27 maggio scorsi si è svolta la 74ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Essa è stata aperta dalla preghiera, presieduta da papa Francesco, e dal suo dialogo con i vescovi presenti. I lavori dell’Assemblea, sotto la guida del cardinale presidente Gualtiero Bassetti, hanno riguardato il tema: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Tra l’altro, nella sua Introduzione, il cardinale Bassetti ha definito questo cammino come «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
Il Pontefice ha esortato i pastori a riprendere le linee tracciate dal Convegno ecclesiale di Firenze, e a valorizzare un percorso che parta dal basso e metta al centro il popolo di Dio. Egli ha sempre lamentato una certa «amnesia» riguardo alle indicazioni che diede nel capoluogo toscano il 10 novembre 2015. Chiaro che la concomitanza tra l’indizione del Sinodo della Chiesa universale - del quale parleremo successivamente - e l’avvio del percorso sinodale della Chiesa italiana sarà un’occasione unica per sintonizzare i cammini.
L’Assemblea generale ha quindi votato la seguente mozione: «I vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre». Il Consiglio permanente della Cei costituirà un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme.
Le misurate parole della mozione riassumono e rilanciano un dibattito durato sei anni. Ad aprirlo fu il Papa a Firenze, suggerendo il metodo sinodale: «La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose», disse Francesco. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta - aggiunse - sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Tutto rimase sottotraccia. All’inizio del 2019, “La Civiltà Cattolica” rilanciò la proposta di un Sinodo nazionale (cfr. A. Spadaro, “I cristiani che fanno l’Italia”, in Civ. Catt. 2019 I 250-252): ci parve la via più sicura da indicare a tutti, quella in grado di aiutarci a leggere a fondo la storia di oggi. Un luogo privilegiato di discernimento è infatti il processo sinodale, dove, se lo Spirito Santo è in azione, - come ha affermato Francesco - «dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». E allora ecco la domanda: non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore...
Alla nostra proposta fecero seguito interventi autorevoli di vescovi su “L’Osservatore Romano”, “Avvenire”, “Corriere della Sera”, e di teologi e studiosi su “Famiglia Cristiana”, “il Regno” e altra stampa cattolica e laica che, in generale, alimentarono il dibattito. Su “La Civiltà Cattolica” intervennero successivamente anche padre Bartolomeo Sorge e il sociologo Giuseppe De Rita.
«La sinodalità è una proposta che sentiamo di poter e dover fare a una società slabbrata come la nostra», puntualizzò il cardinale Bassetti il 1° aprile 2019. Il Pontefice ha poi effettivamente indicato il cammino sinodale alla Chiesa italiana, parlando ai vescovi del nostro Paese il successivo 20 maggio 2019, aprendo la 73ª Assemblea generale della Cei.
Il 21 gennaio scorso, la rotta è stata aggiornata. Andando «oltre le emergenze», ha detto il cardinale Bassetti, l’Italia deve ricomporre le quattro «fratture» (sanitaria, sociale, educativa, delle nuove povertà) che l’hanno piegata, con una capillare «opera di riconciliazione».
Il 30 gennaio Francesco, in un discorso in cui non a caso ha anche difeso con fermezza il Concilio Vaticano II («Chi non lo segue è fuori dalla Chiesa»), ha rilanciato la proposta in maniera decisa, affermando: «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi». Il contesto è chiaro: un incontro organizzato dai vescovi italiani. Chiaro il messaggio: la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale. Chiaro, infine, il metodo: camminare a partire dal basso verso l’alto; comunità per comunità, diocesi per diocesi. «Il momento è adesso», ha scandito Francesco.
* * *
È necessaria un’«opera di riconciliazione» con la realtà e la storia - anche recente - del nostro Paese, ripensando uno «stile di presenza» della Chiesa italiana nella storia e nella vita del Paese, consapevoli del fatto che «la Chiesa è il cuore di Dio che batte nella storia» (monsignor Aldo Del Monte).
Le parole di Francesco alla Curia romana del 21 dicembre 2019 devono guidare il discernimento: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale». Quindi occorre anche fare un discernimento sulle dinamiche interne della stessa Chiesa italiana, in particolare quella del «clericalismo».
Il Sinodo è un mare aperto, e noi - ha detto Francesco in piena pandemia - «siamo tutti sulla stessa barca». Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera «sfida» culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità «alternative» dei social network e da tanti altri cambiamenti.
I processi ecclesiali di rinnovamento sono un fatto sinodale, il cui protagonista è il popolo di Dio. La Chiesa italiana ha bisogno di ritrovarsi in condizione sinodale. La richiesta di un «Sinodo dal basso» ha già messo in moto la riflessione, le discussioni, il coinvolgimento delle comunità e di alcune diocesi. Il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo di esistere della Chiesa.
In questo senso pensiamo sia da riprendere il «voto finale» che padre Bartolomeo Sorge espresse al Convegno ecclesiale del 1976 e registrato negli Atti. Egli, dopo aver affermato che «la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento», postulava la necessità di «dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia».
Padre Sorge intendeva indicare quel modo di procedere che oggi Francesco definisce come «popolo e pastori insieme» (cfr. Documento di Aparecida n. 371). Infatti - proseguiva padre Sorge - «è urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che [...] superi in radice l’impossibile divisione tra "Chiesa istituzionale" e "Chiesa reale"», e che è anche il rischio dell’oggi. Allora la proposta rimase senza esito. Oggi le condizioni per riprendere quel voto ci sono. E sappiamo che i frutti del cammino sinodale verranno per la grazia dello Spirito Santo. Il Sinodo, finalmente!
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Antonio Spadaro è direttore de "La Civiltà Cattolica"
* Avvenire, giovedì 17 giugno 2021 (ripresa parziale).
Corpus Domini. Il Papa: l’Eucaristia è il "farmaco" e la forza per amare chi sbaglia
All’Angelus in Piazza San Pietro, Francesco ricorda la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e sottolinea che l’Eucaristia guarisce perché la misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 7 giugno 2021) *
L’Eucaristia è il "farmaco" efficace contro le nostre chiusure. Fragilità e forza, amore e tradimento, peccato e misericordia. Papa Francesco, nella catechesi all’Angelus in Piazza San Pietro - come riporta Vatican News -, si sofferma su questi aspetti parlando della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, e del racconto dell’Ultima Cena di Gesù con l’istituzione dell’Eucaristia, “il sacramento più grande”, il Pane di vita.
Richiamando le parole di don Primo Mazzolari, Papa Francesco, già al mattino nella sua omelia per la solennità del Corpus Domini, aveva prefigurato l’immagine di una Chiesa che è “una sala grande”, dalle "porte aperte", “dove tutti possono entrare”. Non "un circolo piccolo e chiuso", ma "una Comunità con le braccia spalancate, accogliente verso tutti”.
Una comunità dove si guarda all’Eucarestia con "stupore e adorazione": se manca quello, avverte il Papa, "non c’è strada che ci porti al Signore. Neppure ci sarà il Sinodo". L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi. “La Chiesa dev’essere una sala grande”, ha affermato a più riprese Francesco nella Messa per il Corpus Domini celebrata anche quest’anno all’Altare della Cattedra di San Pietro e non - a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia - nel tradizionale scenario del sagrato di San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore, oppure in luoghi di periferia come avvenuto nel 2018, con la celebrazione a Ostia, e nel 2019, nel quartiere romano di Casal Bertone. Contingentato anche il numero dei fedeli presenti in Basilica. A loro, e alle centinaia di persone collegate alla celebrazione via streaming, il Pontefice pone una domanda: “Quando si avvicina qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso, la Chiesa è una sala grande per accoglierlo e condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo?”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino, non dimentichiamolo!”, afferma Francesco. “La Chiesa dei perfetti e dei puri è una stanza in cui non c’è posto per nessuno; la Chiesa dalle porte aperte, che festeggia attorno a Cristo, è invece una sala grande dove tutti possono entrare”.
L’umanità assetata
Quella della sala grande è una delle tre immagini proposte dal Vangelo della Solennità, che il Pontefice usa come spunti di riflessione per la sua omelia. L’altra immagine è l’uomo che porta una brocca d’acqua. “Seguitelo”, dice Gesù ai due discepoli inviati in città, perché dove li avrebbe condotti quell’uomo, là si sarebbe celebrata la Cena della Pasqua. Un uomo “anonimo” diventa dunque “guida per i discepoli”, mentre la brocca d’acqua è “segno di riconoscimento” che, dice il Papa, fa pensare all’“umanità assetata”, sempre alla ricerca di una sorgente d’acqua che la disseti e la rigeneri”.
Non possiamo farcela da soli
Bisogna riconoscerla, però, questa “sete di Dio” per celebrare l’Eucaristia. Bisogna essere, cioè, “consapevoli che non possiamo farcela da soli ma abbiamo bisogno di un Cibo e di una Bevanda di vita eterna che ci sostengono nel cammino”. “Il dramma di oggi - osserva il Pontefice - è che spesso la sete si è estinta. Si sono spente le domande su Dio, si è affievolito il desiderio di Lui, si fanno sempre più rari i cercatori di Dio. Dio non attira più perché non avvertiamo più la nostra sete profonda”. La sete di Dio, rimarca il Papa, “ci porta all’altare”; se manca “le nostre celebrazioni diventano aride”.
Una Chiesa con la brocca in mano
“Diventiamo una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, è dunque l’esortazione conclusiva del Papa per questa festa del Corpus Domini. “Spalanchiamo il cuore nell’amore, per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore. Spezziamo la nostra vita nella compassione e nella solidarietà, perché il mondo veda attraverso di noi la grandezza dell’amore di Dio”.
IL TESTO DELL’OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI
L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi
L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità.
Una logica nuova che Francesco ritrova in quel “gesto umile di dono, di condivisione” che porta Gesù a non dare pane in abbondanza per sfamare le folle ma ad offrire se stesso. “In questo modo Gesù - afferma il Papa - ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore e condivisione”.
Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunirci tutti noi in unità.
Il Pane dei peccatori
Un amore che si rafforza se è donato a chi ha sbagliato. Nel tradimento del discepolo, “il dolore più grande per chi ama”, in quell’ “abisso più profondo” Gesù non punisce ma dona misericordia.
Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori e sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, ma il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non avete paura! Prendete e mangiate”.
In quel Pane c’è un “senso nuovo alle nostre fragilità”, Gesù ci dice che siamo preziosi, “ci ripete - afferma il Papa - che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie”.
E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male - da questo da soli non possiamo guarire -; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi - da quella da soli non possiamo guarire -; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace; anche da questa, noi soli non possiamo guarire. È Lui che di guarisce con la sua presenza, con il suo pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure.
Infine Francesco ricorda che nei quattro versetti della Liturgia delle ore c’è "il riassunto di tutta la vita di Gesù". "E ci dicono così che Gesù nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita. Poi, nella cena si è dato come cibo. Poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto prezzo: ha pagato per noi. E adesso, regnando nei Cieli è il nostro premio, che noi andiamo a cercare quello che ci aspetta".
Al termine dell’Angelus, il Pontefice ha ricordato l’iniziativa dell’Azione Cattolica che si terrà martedì: "Dopodomani, martedì 8 giugno, alle ore 13.00, l’Azione Cattolica Internazionale invita a dedicare un minuto per la pace, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa. Preghiamo in particolare per la Terra Santa e per il Myanmar".
Poi ha rivolto il suo saluto ai "ragazzi del Progetto Contatto di Torino e il Gruppo Devoti della Madonna dei Miracoli di Corbetta, le famiglie di Cerignola e l’Associazione Nazionale Ambulanti, con numerosi lavoratori delle fiere e artisti di strada", ringraziandoli per i doni ricevuti. Infine un pensiero e un incoraggiamento ai salentini del sud della Puglia che in Piazza San Pietro hanno ballato "la pizzica".
IL TESTO DELL’ANGELUS DEL PAPA
Il video dell’Angelus
* Fonte: Avvenire, lunedì 7 giugno 2021 (ripresa parziale).
Vaticano. Il Papa riforma il Sinodo dei vescovi: partirà dal basso, dalle diocesi
Non solo l’incontro dei vescovi in Vaticano. Il Sinodo diventa un processo che coinvolge tutte le Chiese particolari del mondo e i cinque continenti. L’iter dal 2021 al 2023
di Giacomo Gambassi *
Non più «un evento» ma un «processo», come lo definisce il cardinale Mario Grech. Cambiano le modalità di celebrare il Sinodo dei vescovi. Non si limiterà soltanto al momento assembleare che raccoglie i pastori intorno al Papa, come avvenuto in passato. La grande novità è la consultazione prima in tutte le diocesi, poi nei continenti attraverso le conferenze episcopali che precederà l’incontro in Vaticano. Al centro c’è l’«ascolto del sensus fidei del popolo di Dio», richiamato più volte da papa Francesco. «Non si tratta di democrazia, di populismo o qualcosa del genere; è la Chiesa ad essere popolo di Dio, e questo popolo, in ragione del battesimo, è soggetto attivo della vita e della missione della Chiesa», sottolinea il cardinale Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi in un’intervista ad Andrea Tornielli per Vatican News.
La trasformazione è declinata nel documento sul prossimo Sinodo dei vescovi che avrà per tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Lo scorso 24 aprile il Pontefice «ha approvato un nuovo itinerario sinodale» per l’appuntamento che inizialmente era previsto nell’ottobre 2022 e che invece viene rivisto anche nei tempi. Le «inedite modalità per il cammino verso l’assise» sono state proposte a Francesco dalla segreteria generale del Sinodo dei vescovi, con l’assenso del Consiglio ordinario. Si tratta quindi di un itinerario sinodale “diffuso” nel mondo intero, che coinvolgerà tutti i Paesi e tutte le Chiese particolari, e che durerà dall’ottobre 2021 all’ottobre 2023 quando si terrà la vera e propria riunione dei vescovi in Vaticano.
L’apertura del Sinodo. Viene rivista l’apertura del Sinodo che avverrà sia in Vaticano sia in ciascuna diocesi. Il cammino sarà inaugurato dal Papa in Vaticano il 9 e il 10 ottobre, mentre domenica 17 ottobre ogni vescovo lo aprirà nella propria diocesi.
La fase nelle diocesi. Quindi è in programma la fase diocesana (dall’ottobre 2021 all’aprile 2022) che sarà una «consultazione del popolo di Dio», come indicato dalla costituzione apostolica Episcopalis communio di papa Francesco pubblicata il 15 settembre 2018 che “trasforma” il Sinodo dei vescovi. La Segreteria generale invierà un Documento preparatorio, accompagnato da un questionario e da un vademecum. Lo stesso testo sarà inviato anche ai dicasteri della Curia Romana, alle Unioni di superiori e superiore maggiori, alle federazioni della vita consacrata, ai movimenti internazionali dei laici e alle università e facoltà di teologia.
Ogni vescovo nominerà un responsabile (eventualmente un’équipe) diocesano della consultazione sinodale, che farà da punto di riferimento e di collegamento con la Conferenza episcopale e che accompagnerà la consultazione nella Chiesa particolare in tutti i suoi passi. La consultazione nelle diocesi si svolgerà attraverso gli organi di partecipazione senza escludere le altre modalità che «si giudichino opportune perché la consultazione stessa sia reale ed efficace». La consultazione in ciascuna diocesi si concluderà con una riunione pre-sinodale, che sarà il momento culminante del discernimento diocesano. Dopo la chiusura della fase diocesana, ogni diocesi invierà i suoi contributi alla Conferenza episcopale.
Quindi nelle Conferenze episcopali inizierà un periodo di discernimento dei vescovi riuniti in assemblea. È questo il momento per la redazione della sintesi che sarà inviata alla Segreteria generale del Sinodo insieme ai contributi diocesani. Quindi la Segreteria generale metterà a punto il primo Instrumentum Laboris entro settembre 2022.
La fase continentale. Si aprirà allora la fase continentale (da settembre 2022 a marzo 2023) che ha al centro il dialogo sul primo Instrumentum Laboris, realizzando un ulteriore atto di discernimento alla luce delle particolarità culturali di ogni continente. Si terranno quindi vere e proprie assemblee continentali: si stabiliranno i criteri di partecipazione dei vescovi e degli altri membri del popolo di Dio. Al termine la Segreteria generale del Sinodo procederà alla redazione del secondo Instrumentum Laboris.
L’assemblea. Nell’ottobre 2023 si terrà l’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi in Vaticano.
In Italia il percorso del Sinodo dei vescovi è destinato a intrecciarsi con il cammino sinodale della Chiesa italiana che è ai nastri di partenza.
Di fatto viene riformato il Sinodo dei vescovi nella configurazione voluta da Paolo VI nel 1965. Nel motu proprio Apostolica sollicitudo, del 15 settembre 1965, il Papa di Concesio istituiva un organismo di vescovi «sottomesso direttamente ed immediatamente all’autorità del Romano Pontefice» che partecipasse - alla funzione petrina di «sollecitudine per tutta la Chiesa». Il fine del Sinodo era quello di «favorire una stretta unione e collaborazione fra il Sommo Pontefice ed i Vescovi di tutto il mondo»; di «procurare una informazione diretta ed esatta circa i problemi e le situazioni che riguardano la vita interna della Chiesa e l’azione che essa deve condurre nel mondo attuale»; di «rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo d’agire nella vita della Chiesa».
Adesso accanto al momento di discernimento da parte dei vescovi che ha il suo punto culminante nell’Assemblea, si aggiunge la consultazione dal basso. «La storia del Sinodo illustra quanto bene queste Assemblee hanno arrecato alla Chiesa - afferma il cardinale Grech - ma anche come fossero maturi i tempi per una più larga partecipazione del popolo di Dio a un processo decisionale che riguarda tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa». È uno dei temi più forti del pontificato attuale. «Molti interpreti - aggiunge il porporato - sottolineano giustamente il tema della Chiesa come popolo di Dio; ma quello che maggiormente caratterizza questo popolo per il Papa è il sensus fidei, che lo rende infallibile in credendo. Si tratta di un dato tradizionale in dottrina, che attraversa tutta la vita della Chiesa. Il Concilio Vaticano II dice che il popolo di Dio partecipa alla funzione profetica di Cristo. Per questo bisogna ascoltarlo, e per ascoltarlo bisogna andare là dove vive, nelle Chiese particolari. Il principio che regola questa consultazione del popolo di Dio, è l’antico principio che «da tutti deve essere discusso ciò che interessa tutti».
Grech cita il discorso tenuto nel 2015 da papa Francesco per il 50 anni dell’istituzione del Sinodo quando il Pontefice parlava di «Chiesa costitutivamente sinodale», evidenziava l’urgenza di essere «Chiesa dell’ascolto» in cui ciascuno ha da imparare dall’altro e chiariva che «il Sinodo dei vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della Chiesa». Il cardinale aggiunge che l’impostazione di Paolo VI era «perfettibile» e che il rafforzamento dell’autorità dei pastori non poteva «essere la modalità ordinaria di vivere la comunione ecclesiale, che domanda circolarità, reciprocità, cammino insieme nel rispetto delle rispettive funzioni nel popolo di Dio. La comunione dunque non può che tradursi in partecipazione di tutti alla vita della Chiesa, ciascuno secondo la sua specifica condizione e funzione. Il processo sinodale mostra bene tutto questo».
* Fonte: Avvenire, venerdì 21 maggio 2021 (ripresa parziale).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO» DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
"ANTIQUUM MINISTERIUM" CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL MINISTERO DI CATECHISTA *
1. Il ministero di Catechista nella Chiesa è molto antico. È pensiero comune tra i teologi che i primi esempi si ritrovino già negli scritti del Nuovo Testamento. Il servizio dell’insegnamento trova la sua prima forma germinale nei “maestri” a cui l’Apostolo fa menzione scrivendo alla comunità di Corinto: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime» (1 Cor 12,28-31).
Lo stesso Luca apre il suo Vangelo attestando: «Ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,3-4). L’evangelista sembra essere ben consapevole che con i suoi scritti sta fornendo una forma specifica di insegnamento che permette di dare solidità e forza a quanti hanno già ricevuto il Battesimo. L’apostolo Paolo ritorna di nuovo sull’argomento quando raccomanda ai Galati: «Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce» (Gal 6,6). Come si nota, il testo aggiunge una peculiarità fondamentale: la comunione di vita come caratteristica della fecondità della vera catechesi ricevuta.
2. Fin dai suoi inizi la comunità cristiana ha sperimentato una diffusa forma di ministerialità che si è resa concreta nel servizio di uomini e donne i quali, obbedienti all’azione dello Spirito Santo, hanno dedicato la loro vita per l’edificazione della Chiesa. I carismi che lo Spirito non ha mai cessato di effondere sui battezzati, trovarono in alcuni momenti una forma visibile e tangibile di servizio diretto alla comunità cristiana nelle sue molteplici espressioni, tanto da essere riconosciuto come una diaconia indispensabile per la comunità. L’apostolo Paolo se ne fa interprete autorevole quando attesta: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,4-11).
All’interno della grande tradizione carismatica del Nuovo Testamento, dunque, è possibile riconoscere la fattiva presenza di battezzati che hanno esercitato il ministero di trasmettere in forma più organica, permanente e legato alle diverse circostanze della vita, l’insegnamento degli apostoli e degli evangelisti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 8). La Chiesa ha voluto riconoscere questo servizio come espressione concreta del carisma personale che ha favorito non poco l’esercizio della sua missione evangelizzatrice. Lo sguardo alla vita delle prime comunità cristiane che si sono impegnate nella diffusione e sviluppo del Vangelo, sollecita anche oggi la Chiesa a comprendere quali possano essere le nuove espressioni con cui continuare a rimanere fedeli alla Parola del Signore per far giungere il suo Vangelo a ogni creatura.
3. L’intera storia dell’evangelizzazione di questi due millenni mostra con grande evidenza quanto sia stata efficace la missione dei catechisti. Vescovi, sacerdoti e diaconi, insieme a tanti uomini e donne di vita consacrata, hanno dedicato la loro vita all’istruzione catechistica perché la fede fosse un valido sostegno per l’esistenza personale di ogni essere umano. Alcuni inoltre hanno raccolto intorno a sé altri fratelli e sorelle che nella condivisione dello stesso carisma hanno costituito degli Ordini religiosi a totale servizio della catechesi.
Non si può dimenticare, l’innumerevole moltitudine di laici e laiche che hanno preso parte direttamente alla diffusione del Vangelo attraverso l’insegnamento catechistico. Uomini e donne animati da una grande fede e autentici testimoni di santità che, in alcuni casi, sono stati anche fondatori di Chiese, giungendo perfino a donare la loro vita. Anche ai nostri giorni, tanti catechisti capaci e tenaci sono a capo di comunità in diverse regioni e svolgono una missione insostituibile nella trasmissione e nell’approfondimento della fede. La lunga schiera di beati, santi e martiri catechisti ha segnato la missione della Chiesa che merita di essere conosciuta perché costituisce una feconda sorgente non solo per la catechesi, ma per l’intera storia della spiritualità cristiana.
4. A partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa ha sentito con rinnovata coscienza l’importanza dell’impegno del laicato nell’opera di evangelizzazione. I Padri conciliari hanno ribadito più volte quanto sia necessario per la “plantatio Ecclesiae” e lo sviluppo della comunità cristiana il coinvolgimento diretto dei fedeli laici nelle varie forme in cui può esprimersi il loro carisma. «Degna di lode è anche quella schiera, tanto benemerita dell’opera missionaria tra i pagani, che è costituita dai catechisti, sia uomini che donne. Essi, animati da spirito apostolico e facendo grandi sacrifici, danno un contributo singolare ed insostituibile alla propagazione della fede e della Chiesa...Nel nostro tempo poi, in cui il clero è insufficiente per l’evangelizzazione di tante moltitudini e per l’esercizio del ministero pastorale, il compito del Catechista è della massima importanza» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 17).
Insieme al ricco insegnamento conciliare è necessario far riferimento al costante interesse dei Sommi Pontefici, del Sinodo dei Vescovi, delle Conferenze Episcopali e dei singoli Pastori che nel corso di questi decenni hanno impresso un notevole rinnovamento alla catechesi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, l’Esortazione apostolica Catechesi tradendae, il Direttorio catechistico generale, il Direttorio generale per la catechesi, il recente Direttorio per la catechesi, unitamente a tanti Catechismi nazionali, regionali e diocesani sono un’espressione del valore centrale dell’opera catechistica che mette in primo piano l’istruzione e la formazione permanente dei credenti.
5. Senza nulla togliere alla missione propria del Vescovo di essere il primo Catechista nella sua Diocesi insieme al presbiterio che con lui condivide la stessa cura pastorale, e alla responsabilità peculiare dei genitori riguardo la formazione cristiana dei loro figli (cfr CIC can. 774 §2; CCEO can. 618), è necessario riconoscere la presenza di laici e laiche che in forza del proprio battesimo si sentono chiamati a collaborare nel servizio della catechesi (cfr CIC can. 225; CCEO cann. 401 e 406). Questa presenza si rende ancora più urgente ai nostri giorni per la rinnovata consapevolezza dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (cfr Esort. Ap. Evangelii gaudium, 163-168), e per l’imporsi di una cultura globalizzata (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 100.138), che richiede un incontro autentico con le giovani generazioni, senza dimenticare l’esigenza di metodologie e strumenti creativi che rendano l’annuncio del Vangelo coerente con la trasformazione missionaria che la Chiesa ha intrapreso. Fedeltà al passato e responsabilità per il presente sono le condizioni indispensabili perché la Chiesa possa svolgere la sua missione nel mondo.
Risvegliare l’entusiasmo personale di ogni battezzato e ravvivare la consapevolezza di essere chiamato a svolgere la propria missione nella comunità, richiede l’ascolto alla voce dello Spirito che non fa mai mancare la sua presenza feconda (cfr CIC can. 774 §1; CCEO can. 617). Lo Spirito chiama anche oggi uomini e donne perché si mettano in cammino per andare incontro ai tanti che attendono di conoscere la bellezza, la bontà e la verità della fede cristiana. È compito dei Pastori sostenere questo percorso e arricchire la vita della comunità cristiana con il riconoscimento di ministeri laicali capaci di contribuire alla trasformazione della società attraverso la «penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico» (Evangelii gaudium, 102).
6. L’apostolato laicale possiede una indiscussa valenza secolare. Essa chiede di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen Gentium, 31). La loro vita quotidiana è intessuta di rapporti e relazioni familiari e sociali che permette di verificare quanto «sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo» (Lumen Gentium, 33). È bene ricordare, comunque, che oltre a questo apostolato «i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l’apostolato della Gerarchia a somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l’apostolo Paolo nell’evangelizzazione, faticando molto per il Signore» (Lumen Gentium, 33).
La funzione peculiare svolta dal Catechista, comunque, si specifica all’interno di altri servizi presenti nella comunità cristiana. Il Catechista, infatti, è chiamato in primo luogo a esprimere la sua competenza nel servizio pastorale della trasmissione della fede che si sviluppa nelle sue diverse tappe: dal primo annuncio che introduce al kerygma, all’istruzione che rende consapevoli della vita nuova in Cristo e prepara in particolare ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, fino alla formazione permanente che consente ad ogni battezzato di essere sempre pronto «a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» (1 Pt 3,15). Il Catechista è nello stesso tempo testimone della fede, maestro e mistagogo, accompagnatore e pedagogo che istruisce a nome della Chiesa. Un’identità che solo mediante la preghiera, lo studio e la partecipazione diretta alla vita della comunità può svilupparsi con coerenza e responsabilità (cfr Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, 113).
7. Con lungimiranza, San Paolo VI emanò la Lettera apostolica Ministeria quaedam con l’intento non solo di adattare al cambiato momento storico il ministero del Lettore e dell’Accolito (cfr Lett. ap. Spiritus Domini), ma anche di sollecitare le Conferenze Episcopali perché si facessero promotrici per altri ministeri tra cui quello di Catechista: “Oltre questi uffici comuni della Chiesa Latina, nulla impedisce che le Conferenze Episcopali ne chiedano altri alla Sede Apostolica, se ne giudicheranno, per particolari motivi, la istituzione necessaria o molto utile nella propria regione. Di questo genere sono, ad esempio, gli uffici di Ostiario, di Esorcista e di Catechista”. Lo stesso invito pressante ritornò nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi quando, chiedendo di saper leggere le esigenze attuali della comunità cristiana in fedele continuità con le origini, esortava a trovare nuove forme ministeriali per una rinnovata pastorale: «Tali ministeri, nuovi in apparenza ma molto legati ad esperienze vissute dalla Chiesa nel corso della sua esistenza, - per esempio quelli di Catechista... sono preziosi per la «plantatio», la vita e la crescita della Chiesa e per una capacità di irradiazione intorno a se stessa e verso coloro che sono lontani» (San Paolo VI, Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 73).
Non si può negare, dunque, che «è cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede» (Evangelii gaudium, 102). Ne consegue che ricevere un ministero laicale come quello di Catechista imprime un’accentuazione maggiore all’impegno missionario tipico di ciascun battezzato che si deve svolgere comunque in forma pienamente secolare senza cadere in alcuna espressione di clericalizzazione.
8. Questo ministero possiede una forte valenza vocazionale che richiede il dovuto discernimento da parte del Vescovo e si evidenzia con il Rito di istituzione. Esso, infatti, è un servizio stabile reso alla Chiesa locale secondo le esigenze pastorali individuate dall’Ordinario del luogo, ma svolto in maniera laicale come richiesto dalla natura stessa del ministero. È bene che al ministero istituito di Catechista siano chiamati uomini e donne di profonda fede e maturità umana, che abbiano un’attiva partecipazione alla vita della comunità cristiana, che siano capaci di accoglienza, generosità e vita di comunione fraterna, che ricevano la dovuta formazione biblica, teologica, pastorale e pedagogica per essere comunicatori attenti della verità della fede, e che abbiano già maturato una previa esperienza di catechesi (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, 14; CIC can. 231 §1; CCEO can. 409 §1). È richiesto che siano fedeli collaboratori dei presbiteri e dei diaconi, disponibili a esercitare il ministero dove fosse necessario, e animati da vero entusiasmo apostolico.
Pertanto, dopo aver ponderato ogni aspetto, in forza dell’autorità apostolica
il ministero laicale di Catechista
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti provvederà entro breve tempo a pubblicare il Rito di Istituzione del ministero laicale di Catechista.
9. Invito, dunque, le Conferenze Episcopali a rendere fattivo il ministero di Catechista, stabilendo l’iter formativo necessario e i criteri normativi per potervi accedere, trovando le forme più coerenti per il servizio che costoro saranno chiamati a svolgere conformemente a quanto espresso da questa Lettera apostolica.
10. I Sinodi delle Chiese Orientali o le Assemblee dei Gerarchi potranno recepire quanto qui stabilito per le rispettive Chiese sui juris, in base al proprio diritto particolare.
11. I Pastori non cessino di fare propria l’esortazione dei Padri conciliari quando ricordavano: «Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune» (Lumen Gentium, 30). Il discernimento dei doni che lo Spirito Santo non fa mai mancare alla sua Chiesa sia per loro il sostegno dovuto per rendere fattivo il ministero di Catechista per la crescita della propria comunità.
Quanto stabilito con questa Lettera apostolica in forma di “Motu proprio”, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore nello stesso giorno, e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il giorno 10 maggio dell’anno 2021, Memoria liturgica di San Giovanni d’Avila, presbitero e dottore della Chiesa, nono del mio pontificato.
Francesco
Liturgia.
La Pasqua porta il nuovo Messale nelle parrocchie italiane
Dal giorno della Risurrezione diventa obbligatorio il libro liturgico curato dalla Cei. Il vescovo Maniago: segno di speranza e di ripartenza. Le revisioni? Già accolte senza difficoltà
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 2 aprile 2021)
Tutti lo chiamano il nuovo Messale Romano. Ufficialmente è la traduzione in italiano della terza edizione tipica latina del libro per celebrare l’Eucaristia che la Santa Sede ha varato nel 2002. Da domenica 4 aprile il testo si aprirà sugli altari di tutte le parrocchie della Penisola. Perché, come ha stabilito la Cei che ha guidato un percorso durato quasi diciotto anni, il volume diventerà obbligatorio nell’intero Paese dal giorno di Pasqua. E non solo scandirà le celebrazioni in Italia, ma anche quelle presiedute in italiano da Francesco in Vaticano. Messale per la Penisola ma anche “del Papa”. E poi esempio per le traduzioni nelle diverse lingue nazionali dell’edizione tipica latina.
Certo, il rinnovato libro liturgico è già utilizzato da alcuni mesi in numerose diocesi o parrocchie. Molte regioni ecclesiastiche avevano indicato nell’Avvento il periodo per il “debutto” locale. E anche il Pontefice celebra con il nuovo Messale. Resta il fatto che con la solennità della Risurrezione finisce definitivamente in archivio la precedente edizione datata 1983 che, quindi, per quasi quarant’anni ha segnato la vita liturgica nel Paese.
«La scelta della Pasqua ha un preciso significato», spiega il vescovo di Castellaneta, Claudio Maniago, che da presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia ha curato l’ultima e più complessa fase della realizzazione del Messale. «Nella vita della Chiesa - prosegue - il giorno della Risurrezione rimanda all’inizio di un tempo rinnovato. Ecco, con il volume pubblicato lo scorso settembre la Chiesa italiana è chiamata a scrivere un nuovo capitolo del suo cammino».
L’esordio solenne avviene in un frangente ancora marcato dalla pandemia, con le limitazioni e i “ritocchi” ai riti imposti dalle misure anti-Covid. Non è sicuramente la Pasqua di un anno fa, senza le Messe a porte aperte. Però le liturgie risentono dell’effetto coronavirus.
«Potrebbe apparire penalizzante l’uscita di un nuovo libro liturgico in un tempo come l’attuale - afferma Maniago -. Tuttavia la pubblicazione del Messale è stata giustamente interpretata come un segno di speranza che può aiutare le comunità a concentrarsi su quanto è davvero essenziale. E l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana, è celebrare in ogni istante della storia la Pasqua del Signore. Direi che il nuovo volume è uno sprone per tornare a gustare con maggiore intensità e partecipazione ciò che nei mesi scorsi ci era stato tolto nella sua pienezza o ciò che ancora oggi è condizionato da vincoli che per motivi sanitari siamo doverosamente tenuti a rispettare».
Un test sul nuovo Messale - con le illustrazioni dell’artista Mimmo Paladino - c’è già stato nelle comunità che lo stanno impiegando dall’autunno. «Si è trattato di un tempo congruo per far sì che dopo la pubblicazione del volume si potesse avere una fase di sperimentazione e di prova necessarie», sottolinea il vescovo. E il primo bilancio che la Cei ha stilato è più che positivo.
«L’accoglienza è stata buona - racconta Maniago -. Da una parte, è stata accompagnata da una sana dose di curiosità, consapevoli comunque che le novità non stavano in una diversa struttura della celebrazione ma piuttosto in miglioramenti e revisioni dei testi con anche significative variazioni che intendono rendere più vicino alla sensibilità contemporanea quanto viene pronunciato. D’altro canto, le novità sono state recepite senza particolari fatiche: penso a quelle che toccano l’assemblea, come le modifiche del “Padre Nostro” o del “Gloria”. Inoltre i sacerdoti, che sono i primi utilizzatori del Messale, hanno potuto confrontarsi con formule ed espressioni nuove, come quelle nelle Preghiere eucaristiche: il linguaggio adoperato ha richiesto un adattamento di fronte a passaggi divenuti così familiari che potevano quasi essere recitati a memoria. L’unica difficoltà riscontrata è stata quella relativa alla veste editoriale: il carattere del libro ha creato in qualche prete più avanti con l’età un disagio alla prima lettura ma poi non è stato problematico abituarsi al diverso formato».
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
La Lettera. Papa Francesco e l’eredità di san Girolamo: amate le Sacre Scritture
Nel 16esimo centenario della morte, la Lettera apostolica rilancia la figura del grande Dottore della Chiesa, esempio anche per i giovani: partite alla ricerca del vostro patrimonio culturale
di Redazione (Avvenire, mercoledì 30 settembre 2020)
"Oggi ho firmato la Lettera apostolica Sacrae Scripturae affectus nel 16mo centenario della morte di San Girolamo. L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio".
Lo ha annunciato oggi papa Francesco, al termine dell’udienza generale.
La Lettera (QUI IL TESTO) ripercorre la figura di San Girolamo, "di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo”. Proprio l’affetto, l’amore per la Sacra Scrittura è l’eredità che Girolamo “ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere”.
Nella Lettera Francesco ne ripercorre la vita ricordando la sua solida educazione cristiana e la sua dedizione agli studi, i suoi viaggi, le sue amicizie e le sue esperienze. Tra queste il deserto, "luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime”.
Ed è nel deserto che il giovane di Stridone “avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con Lui, la sua consolazione misericordiosa”. Girolamo ha consacrato “la sua esistenza a rendere sempre più accessibili le lettere divine agli altri, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore”.
Viene ordinato sacerdote ad Antiochia intorno al 379 e si sposta poi a Costantinopoli, dedicandosi alla traduzione in latino di importanti opere dal greco. “È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca” scrive papa Francesco, che riporta le stesse parole di Girolamo:
A Roma nel 382 diviene stretto collaboratore di papa Damaso, e partecipa ai cenacoli di lettura della Sacra Scrittura. In quegli anni Girolamo “intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento”. “Per Girolamo, la Chiesa di Roma è il terreno fecondo dove il seme di Cristo porta frutto abbondante - osserva il Papa -. In un’epoca convulsa, in cui la tunica inconsutile della Chiesa è spesso lacerata dalle divisioni tra i cristiani, Girolamo guarda alla cattedra di Pietro come punto di riferimento sicuro: ‘Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla Cattedra di Pietro. So che su quella roccia è edificata la Chiesa’”.
Quando papa Damaso muore, Girolamo lascerà Roma e dopo vari viaggi e vari studi sceglierà di vivere a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività, dove fonda due monasteri, uno maschile e uno femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini.
Proprio a Betlemme, dove muore nel 420, Girolamo vive “il periodo più fecondo e intenso della sua vita, completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia”, chiedendo “continuo sostegno nella preghiera di intercessione per la riuscita della sua traduzione dei testi sacri ‘nello stesso Spirito con cui furono scritti’”. Un lavoro prezioso che ancora è possibile apprezzare nelle sue opere.
Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che “lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa". Il Papa ricorda l’attività epistolare di Girolamo, in particolare le missive in cui affronta le polemiche dottrinali, “sempre nella difesa della retta fede, rivelandosi uomo di relazioni, vissute con forza e con dolcezza".
Ed ecco le due dimensioni caratteristiche di Girolamo che bisogna considerare per una piena comprensione della sua personalità: "Da un lato, l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione", dall’altro, "l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore”. Per queste due caratteristiche lo rendono modello “per i monaci, innanzitutto, perché chi vive di ascesi e di preghiera venga sollecitato a dedicarsi all’assiduo travaglio della ricerca e del pensiero; per gli studiosi, poi, che devono ricordare che il sapere è valido religiosamente solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, sulla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione”.
“Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo - rimarca Francesco - rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio”. Un altro tratto è l’obbedienza di cui è intriso il suo amore per le divine Scritture, nei confronti di Dio e, di conseguenza, "obbedienza anche a coloro che nella Chiesa rappresentano la vivente tradizione interpretativa del messaggio rivelato”. Un’obbedienza, tuttavia, che non è “mera recezione passiva di ciò che è noto”, ma che “esige, al contrario, l’impegno attivo della personale ricerca”.
“Possiamo considerare San Girolamo un servitore della Parola, fedele e laborioso, consacrato interamente a favorire nei suoi fratelli di fede una più adeguata comprensione del ‘deposito’ sacro loro affidato”.
Ma Girolamo è una guida per gli studiosi di oggi, "perché (...) conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture”.
Per questo il Papa addita l’attività di San Girolamo quanto mai importante anche nella Chiesa di oggi ed evidenzia quanto sia “indispensabile che l’atto interpretativo della Bibbia sia sorretto da specifiche competenze”, citando poi i centri di eccellenza della ricerca biblica: il Pontificio Istituto Biblico e l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, e a Gerusalemme l’École Biblique e lo Studium Biblicum Franciscanum ed esortando ogni Facoltà di Teologia ad “impegnarsi affinché l’insegnamento della Sacra Scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa, sia nell’esegesi dei testi, sia nelle sintesi di teologia biblica”.
Per Francesco va anche promossa “una formazione estesa a tutti i cristiani, perché ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita”, per questo ricorda il motivo che l’ha spinto ad istituire la Domenica della Parola di Dio, iniziativa che deve “incoraggiare la lettura orante della Bibbia e la familiarità con la Parola di Dio”.
Il lavoro più noto di Girolamo è senza dubbio la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico, la cosiddetta Vulgata. Ai tempi di Girolamo, spiega il Papa, “i cristiani dell’impero romano potevano leggere integralmente la Bibbia solo in greco”, per i lettori di lingua latina non vi era una versione completa della Bibbia bensì solo alcune traduzioni, parziali e incomplete, a partire dal greco. “A Girolamo, e dopo di lui ai suoi continuatori, spetta il merito di aver intrapreso una revisione e una nuova traduzione di tutta la Scrittura - si legge nella Lettera Apostolica -. Iniziata a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di Papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni”.
“Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico” ed è possibile affermare che “l’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo”.
Con la Vulgata, scrive ancora il Papa “Girolamo è riuscito a ‘inculturare’ la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa”. Per il Papa “la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo”.
Quindi Francesco avverte “senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità”. E invece “il traduttore è un costruttore di ponti”.
La celebrazione del centenario della morte di San Girolamo porta a guardare “alla straordinaria vitalità missionaria espressa dalla traduzione della Parola di Dio in più di tremila lingue”, e ai tanti “missionari ai quali si deve la preziosa opera di pubblicazione di grammatiche, dizionari e altri strumenti linguistici che offrono i fondamenti alla comunicazione umana e sono un veicolo per il ‘sogno missionario di arrivare a tutti’. Da qui l’invito a “valorizzare tutto questo lavoro e investire su di esso, contribuendo al superamento delle frontiere della incomunicabilità e del mancato incontro”.
Infine, un invito ai giovani: “Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida - conclude Francesco - partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare ‘la perla di grande valore’”.
“Girolamo è la ‘Biblioteca di Cristo’ - nota il Papa - una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione”. E con le parole di Girolamo Francesco raccomanda: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”.
L’anima e la cetra /21.
I fragili movimenti della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 22 agosto 2020)
La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. Sta in questa esposizione di colui che dà fiducia la radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero, anche quando passa attraverso semplici cose materiali. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel "qualcosa" che si deposita nelle mani dell’altro, nel "palmo della sua mano". Una vulnerabilità che ha anche un suo valore, ha delle proprietà tipiche che cambiano e in genere migliorano la natura di un rapporto. Mostrare all’altro la mia vulnerabilità, rendergliela intenzionalmente evidente, mentre ci rende più deboli ci rende anche più forti, grazie alla dimensione trasformativa della fiducia vulnerabile. La prima e più importante garanzia che chi ha ricevuto fiducia la onori sta nel suo sentirsi onorato dallo stesso atto di fiducia - troppi debiti non vengono onorati perché la nostra finanza invece di onorare il debitore lo umilia.
Se allora chi compie un atto di affidamento fa di tutto per ridurre e possibilmente annullare il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Se, ad esempio, nello scrivere un contratto ne definisco i dettagli fino a includere tutte le possibili situazioni future al fine di prevenirmi da ogni possibile uso scorretto di quella relazione fiduciaria, sto dando alla controparte un messaggio di sfiducia che cambia la natura del rapporto che stiamo costruendo. Molti rapporti si bloccano sul nascere perché la volontà di escludere futuri abusi crea un clima di diffidenza che impedisce al rapporto di incominciare. La fiducia invulnerabile non è un bene. Lo vediamo nei confronti di mogli e mariti, dei figli e delle figlie, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro (e loro di noi) senza avere garanzie perfette sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è reciproca, è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. Quando poi la fiducia riguarda alcuni rapporti decisivi della nostra vita, la relazione di fiducia assume una forma ternaria: ci sono io che ho fiducia in te, ci sei tu di cui mi fido, e c’è un terzo che si pone tra noi due come garante o testimone.
È soprattutto la dimensione ternaria o trinitaria della fede e della fiducia che colpisce nel celebre Salmo 91, una preghiera cara a molte tradizioni religiose: «Tu che abiti negli atri dell’Altissimo, che passi la notte all’ombra dell’Onnipotente. Dì al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido"» (Salmo 91,1-2). È molto bello questo "trialogo" tra il protagonista del Salmo (che forse stava passando la notte in un tempio in attesa di un oracolo in sogno), il suo Dio e un terzo che gli insegna la fiducia-fede.
La fede biblica ha essenzialmente una natura ternaria. Tra il fedele e il suo Dio c’è qualcuno che gli dice che si può fidare. Questo qualcuno è un profeta, è Abramo o Mosè, è la Torah, ma è anche il fratello o la sorella nella fede.
Il Salmo 91 non ci dice chi sia questo terzo personaggio che insegna la fede all’orante, e questo anonimato è molto bello perché quel "qualcuno" può essere qualsiasi persona, posso essere io, puoi essere tu. Non tutti abbiamo un profeta accanto a insegnarci la fede, ma tutti abbiamo una persona che ci può insegnare a credere e a fidarci. Una persona che ci dice: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno» (91,3-6). E noi rispondiamo: «Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!» (91,9): è il secondo movimento della fede, quando dopo aver creduto a chi gli ha insegnato la fede-fiducia, il credente fa la sua dichiarazione di fede. Questo movimento è secondo, perché prima c’è qualcuno che mi dona la fede - la fede finirà sulla terra quando l’ultimo credente smetterà di donarla a qualcuno.
Sta anche qui il senso e il valore della Tradizione: è la catena di persone che si sono insegnate la fede a vicenda, quella corda solidale spiegata nei secoli fatta di persone e di comunità che hanno imparato a credere in Dio credendo alle parole di persone, un dialogo continuo tra chi ci dice di fidarci, noi che rispondiamo con il nostro sì e poi diciamo ad altri di fidarsi delle parole nostre perché non-nostre. La fede biblica è credere in Dio credendo alle persone che ci parlano in suo nome mettendoci la faccia. È sempre esperienza comunitaria, un evento che accade in mezzo al popolo, è un rapporto di fiducia. A volte non siamo capaci di credere perché non siamo capaci di fidarci, e l’allenamento alla fiducia inter-umana è un’ottima preparazione alla fede. Chi non si fida di nessuno non crede neanche in Dio, chi si fida poco degli uomini si fida poco anche di Dio, e la fede diventa un atto cognitivo che non cambia la vita.
Infine il terzo movimento. Entra in scena Dio: «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza» (91,13-16). Nel formulare la sua promessa, Dio si espone alla possibilità del non avveramento di queste parole, perché la storia è un continuo spettacolo di persone fedeli e giuste che invocano e non hanno risposta, che non sono resi gloriosi, che conoscono il fallimento. E questo perché la fede biblica condivide la stessa vulnerabilità inscritta in ogni rapporto di fiducia vera, che è vera perché vulnerabile. Perché non abbiamo conoscenza diretta di colui di cui ci fidiamo, lo conosciamo solo "per sentito dire" (Giobbe), lo conosciamo perché lo abbiamo "sentito dire" da chi ci siamo fidati. Perché sia noi sia Dio cambiamo in continuazione, ogni mattina dobbiamo ricredere a quello che avevamo creduto fino a ieri notte - la fede è un atto di fiducia coniugato al presente. Una tappa decisiva della fede matura consiste nel prendere un giorno coscienza che quando pronunciamo la parola "Dio", la parola più bella, famigliare e intima, non sappiamo cosa stiamo dicendo - ma continuiamo a dirla, perché queste parole possono solo essere amate. Ecco perché all’inizio di alcune grandi vocazioni bibliche c’è un affidamento complicato: Mosè non vuole tornare in Egitto, Geremia recalcitra, Giona fugge, Samuele ha bisogno di quattro chiamate per dire "eccomi", Elia per rialzarsi e continuare il cammino dovette imparare a udire il silenzio e YHWH dovette imparare a sussurrare.
Se l’affidamento della fede non fosse rischioso e vulnerabile la fede non sarebbe un’esperienza autenticamente umana, e diventando credenti diventeremmo meno umani. E chi nella vita ha incontrato una voce che lo/la chiamava e ha risposto, sa che quel rischio è reale ed effettivo, perché sa che qualche volta anche le vocazioni autentiche vanno a male, si smarriscono, si perdono nell’immenso dolore (loro e di Dio). Non sappiamo perché anche le vocazione vere finiscono male. Il fallimento fa parte della condizione umana, e una vocazione infallibile sarebbe semplicemente disumana. Ed è questa possibilità che la fede-fiducia riposta in un mistero possa andar male che la rende esperienza umanissima, simile in dignità alla maternità, al nascere e al morire. La nostra fede è esperienza interamente umana per la sua dimensione tragica. Si può essere pienamente umani senza stimare la fede e chi crede, ma non si può credere senza stimare l’umanità, tutta, senza lasciare fuori nulla nel tragitto che porta dall’inferno al paradiso, e ritorno.
Questo Salmo fu citato da Satana, nell’episodio delle tentazioni di Cristo: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"» (Mt 4,5-6). Satana qui cita il versetto 12 del Salmo 91. E Gesù risponde a Satana ribadendo la natura di affidamento della fede biblica: «Sta scritto anche: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"» (Mt 4,7).
Un messaggio importante di questo splendido versetto che finisce sulla bocca di Satana è l’eccedenza della Bibbia rispetto ai suoi soli usi buoni. Anche il diavolo conosce bene e usa la stessa scrittura conosciuta e usata dagli evangelisti, a dirci che conoscere e citare la Bibbia non offre nessuna garanzia di vita, né di autenticità di dottrina. C’è un uso diabolico della scrittura, persino dei Salmi e della preghiera, al punto che Satana prende una delle preghiere più sublimi e alte del Salterio per tentare Gesù. L’uso della Bibbia di Gesù e quello di Satana coesistono dentro di noi - ne fossimo almeno coscienti!
Sta anche qui la vulnerabilità della Bibbia: le sue parole sono lì, esposte nella pubblica piazza del mondo, e chiunque le può usare per pregare, per amare meglio, per imparare a vivere; ma tutti le possiamo usare anche per maledire, per condannare, per tentare, per manipolare gli uomini e Dio, per bestemmiare. Anche Dio si fida di noi, ripone nel nostro cuore le sue parole, e noi possiamo tradirle.
Nell’inferno non c’è soltanto "pape satàn pape satàn aleppe", ci saranno forse anche parole bibliche abusate e violentate. Dio, scegliendo di farsi parola, di parlarci in parole umane, ha scelto di condividere la nostra fragilità. Anche in questo ci somiglia. È il quarto movimento della fede.
L’annuncio.
Il Papa indice per il 2022 un Sinodo dei vescovi su Chiesa e sinodalità
Tra due anni si terrà la prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema della sinodalità. Lo ha annunciato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri
di Mimmo Muolo (Avvenire, sabato 7 marzo 2020)
Papa Francesco ha sempre posto l’accento, negli ormai quasi sette anni del suo pontificato, sullo stile sinodale della Chiesa. Appare dunque perfettamente in linea con questa convinzione la scelta del tema del prossimo Sinodo dei vescovi, comunicata ieri dal segretario generale dell’organismo voluto subito dopo il Concilio da Paolo VI. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, come riporta una nota della Sala Stampa della Santa Sede, ha infatti annunciato che «Papa Francesco indice la XVI assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà nel mese di ottobre del 2022 sul tema: "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione"».
La Chiesa sinodale, al centro del cammino di preparazione, dunque, e poi dei lavori in aula, in programma tra due anni e mezzo. Ma proprio a motivo dell’abbondante magistero di Francesco sull’argomento non si partirà certamente da zero.
Un importante punto di riferimento appare fin d’ora il discorso che il Papa tenne il 17 ottobre 2015 (proprio mentre era in corso l’assemblea ordinaria dedicata alla famiglia) per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo. «Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma - affermava in quella occasione papa Bergoglio - ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI - aggiungeva -, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».
A lui faceva eco, vent’anni più tardi, san Giovanni Paolo II, allorché affermava che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente».
Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo».
Il cammino - è proprio il caso di usare questa parola - del Sinodo ha dunque attraversato tutti i pontificati dal Concilio a oggi. Francesco ha dato nuovo impulso alla sinodalità nella Chiesa. E infatti in quel discorso affermava: «Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Sempre nello stesso discorso, il Papa enunciava poi alcune caratteristiche della Chiesa sinodale. Ad esempio la consultazione del popolo di Dio nella preparazione delle assemblee del Sinodo: «Come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce?» (la stessa cosa cosa si è fatta poi con i giovani in occasione dell’assemblea incentrata proprio su di loro).
Inoltre «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». Per il Pontefice questo deve essere «un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità», per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese».
Il Sinodo dei Vescovi è dunque «il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa». Infine «il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub
Petro - dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro - non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità».
In sostanza, proseguiva in quella occasione papa Francesco citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi». E questo ci offre anche la possibilità di comprendere meglio «lo stesso ministero gerarchico», che è soprattutto «servizio». «È servendo il Popolo di Dio - affermava il Pontefice - che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli. E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei».
Francesco richiamava poi anche le dimensioni "locali" della sinodalità, come ad esempio il sinodo diocesano e gli «organismi di comunione» della Chiesa particolare come il consiglio presbiterale, il collegio dei consultori, il capitolo dei canonici e il consiglio pastorale. E in conclusione sottolineava che «l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche».
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
1. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49).
La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. Giustamente San Girolamo poteva scrivere: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Is., Prologo: PL 24,17).
2. A conclusione del Giubileo straordinario della misericordia avevo chiesto che si pensasse a «una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo» (Lett. ap. Misericordia et misera, 7). Dedicare in modo particolare una domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio consente, anzitutto, di far rivivere alla Chiesa il gesto del Risorto che apre anche per noi il tesoro della sua Parola perché possiamo essere nel mondo annunciatori di questa inesauribile ricchezza. Tornano alla mente in proposito gli insegnamenti di Sant’Efrem: «Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).
Con questa Lettera, pertanto, intendo rispondere a tante richieste che mi sono giunte da parte del popolo di Dio, perché in tutta la Chiesa si possa celebrare in unità di intenti la Domenica della Parola di Dio. È diventata ormai una prassi comune vivere dei momenti in cui la comunità cristiana si concentra sul grande valore che la Parola di Dio occupa nella sua esistenza quotidiana. Esiste nelle diverse Chiese locali una ricchezza di iniziative che rende sempre più accessibile la Sacra Scrittura ai credenti, così da farli sentire grati di un dono tanto grande, impegnati a viverlo nel quotidiano e responsabili di testimoniarlo con coerenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato un grande impulso alla riscoperta della Parola di Dio con la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Da quelle pagine, che sempre meritano di essere meditate e vissute, emerge in maniera chiara la natura della Sacra Scrittura, il suo essere tramandata di generazione in generazione (cap. II), la sua ispirazione divina (cap. III) che abbraccia Antico e Nuovo Testamento (capp. IV e V) e la sua importanza per la vita della Chiesa (cap. VI). Per incrementare quell’insegnamento, Benedetto XVI convocò nel 2008 un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, in seguito alla quale pubblicò l’Esortazione Apostolica Verbum Domini, che costituisce un insegnamento imprescindibile per le nostre comunità.[1] In questo Documento, in modo particolare, viene approfondito il carattere performativo della Parola di Dio, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale.[2]
È bene, pertanto, che non venga mai a mancare nella vita del nostro popolo questo rapporto decisivo con la Parola viva che il Signore non si stanca mai di rivolgere alla sua Sposa, perché possa crescere nell’amore e nella testimonianza di fede.
3. Stabilisco, pertanto, che la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio. Questa Domenica della Parola di Dio verrà così a collocarsi in un momento opportuno di quel periodo dell’anno, quando siamo invitati a rafforzare i legami con gli ebrei e a pregare per l’unità dei cristiani. Non si tratta di una mera coincidenza temporale: celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida.
Le comunità troveranno il modo per vivere questa Domenica come un giorno solenne. Sarà importante, comunque, che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede. In questa domenica, in modo particolare, sarà utile evidenziare la sua proclamazione e adattare l’omelia per mettere in risalto il servizio che si rende alla Parola del Signore. I Vescovi potranno in questa Domenica celebrare il rito del Lettorato o affidare un ministero simile, per richiamare l’importanza della proclamazione della Parola di Dio nella liturgia. È fondamentale, infatti, che non venga meno ogni sforzo perché si preparino alcuni fedeli ad essere veri annunciatori della Parola con una preparazione adeguata, così come avviene in maniera ormai usuale per gli accoliti o i ministri straordinari della Comunione. Alla stessa stregua, i parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina.
4. Il ritorno del popolo d’Israele in patria, dopo l’esilio babilonese, fu segnato in modo significativo dalla lettura del libro della Legge. La Bibbia ci offre una commovente descrizione di quel momento nel libro di Neemia. Il popolo è radunato a Gerusalemme nella piazza della Porta delle Acque in ascolto della Legge. Quel popolo era stato disperso con la deportazione, ma ora si ritrova radunato intorno alla Sacra Scrittura come fosse «un solo uomo» (Ne 8,1). Alla lettura del libro sacro, il popolo «tendeva l’orecchio» (Ne 8,3), sapendo di ritrovare in quella parola il senso degli eventi vissuti. La reazione alla proclamazione di quelle parole fu la commozione e il pianto: «[I leviti] leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge. [...] “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,8-10).
Queste parole contengono un grande insegnamento. La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni e tanto meno una raccolta di libri per pochi privilegiati. Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola. Spesso, si verificano tendenze che cercano di monopolizzare il testo sacro relegandolo ad alcuni circoli o a gruppi prescelti. Non può essere così. La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità. La Parola di Dio unisce i credenti e li rende un solo popolo.
5. In questa unità, generata dall’ascolto, i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l’esigenza di renderla accessibile alla propria comunità.
L’omelia, in particolare, riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 142). Far entrare in profondità nella Parola di Dio, con un linguaggio semplice e adatto a chi ascolta, permette al sacerdote di far scoprire anche la «bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (ibid.). Questa è un’opportunità pastorale da non perdere!
Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei. Quando ci si ferma a meditare e pregare sul testo sacro, allora si è capaci di parlare con il cuore per raggiungere il cuore delle persone che ascoltano, così da esprimere l’essenziale che viene colto e che produce frutto. Non stanchiamoci mai di dedicare tempo e preghiera alla Sacra Scrittura, perché venga accolta «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13).
È bene che anche i catechisti, per il ministero che rivestono di aiutare a crescere nella fede, sentano l’urgenza di rinnovarsi attraverso la familiarità e lo studio delle Sacre Scritture, che consentano loro di favorire un vero dialogo tra quanti li ascoltano e la Parola di Dio.
6. Prima di raggiungere i discepoli, chiusi in casa, e aprirli all’intelligenza della Sacra Scrittura (cfr Lc 24,44-45), il Risorto appare a due di loro lungo la via che porta da Gerusalemme a Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Il racconto dell’evangelista Luca nota che è il giorno stesso della Risurrezione, cioè la domenica. Quei due discepoli discutono sugli ultimi avvenimenti della passione e morte di Gesù. Il loro cammino è segnato dalla tristezza e dalla delusione per la tragica fine di Gesù. Avevano sperato in Lui come Messia liberatore, e si trovano di fronte allo scandalo del Crocifisso. Con discrezione, il Risorto stesso si avvicina e cammina con i discepoli, ma quelli non lo riconoscono (cfr v. 16). Lungo la strada, il Signore li interroga, rendendosi conto che non hanno compreso il senso della sua passione e morte; li chiama «stolti e lenti di cuore» (v. 25) e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento.
7. La Bibbia, pertanto, in quanto Sacra Scrittura, parla di Cristo e lo annuncia come colui che deve attraversare le sofferenze per entrare nella gloria (cfr v. 26). Non una sola parte, ma tutte le Scritture parlano di Lui. La sua morte e risurrezione sono indecifrabili senza di esse. Per questo una delle confessioni di fede più antiche sottolinea che Cristo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa» (1Cor 15,3-5). Poiché le Scritture parlano di Cristo, permettono di credere che la sua morte e risurrezione non appartengono alla mitologia, ma alla storia e si trovano al centro della fede dei suoi discepoli.
È profondo il vincolo tra la Sacra Scrittura e la fede dei credenti. Poiché la fede proviene dall’ascolto e l’ascolto è incentrato sulla parola di Cristo (cfr Rm 10,17), l’invito che ne scaturisce è l’urgenza e l’importanza che i credenti devono riservare all’ascolto della Parola del Signore sia nell’azione liturgica, sia nella preghiera e riflessione personali.
8. Il “viaggio” del Risorto con i discepoli di Emmaus si chiude con la cena. Il misterioso Viandante accetta l’insistente richiesta che gli rivolgono i due: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Si siedono a tavola, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo offre a loro. In quel momento i loro occhi si aprono e lo riconoscono (cfr v. 31).
Comprendiamo da questa scena quanto sia inscindibile il rapporto tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II insegna: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
La frequentazione costante della Sacra Scrittura e la celebrazione dell’Eucaristia rendono possibile il riconoscimento fra persone che si appartengono. Come cristiani siamo un solo popolo che cammina nella storia, forte della presenza del Signore in mezzo a noi che ci parla e ci nutre. Il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti. Per questo abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità.
Sacra Scrittura e Sacramenti tra loro sono inseparabili. Quando i Sacramenti sono introdotti e illuminati dalla Parola, si manifestano più chiaramente come la meta di un cammino dove Cristo stesso apre la mente e il cuore a riconoscere la sua azione salvifica. È necessario, in questo contesto, non dimenticare l’insegnamento che viene dal libro dell’Apocalisse. Qui viene insegnato che il Signore sta alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, Egli entra per cenare insieme (cfr 3,20). Cristo Gesù bussa alla nostra porta attraverso la Sacra Scrittura; se ascoltiamo e apriamo la porta della mente e del cuore, allora entra nella nostra vita e rimane con noi.
9. Nella Seconda Lettera a Timoteo, che costituisce in qualche modo il suo testamento spirituale, San Paolo raccomanda al suo fedele collaboratore di frequentare costantemente la Sacra Scrittura. L’Apostolo è convinto che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (3,16). Questa raccomandazione di Paolo a Timoteo costituisce una base su cui la Costituzione conciliare Dei Verbum affronta il grande tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura, una base da cui emergono in particolare la finalità salvifica, la dimensione spirituale e il principio dell’incarnazione per la Sacra Scrittura.
Richiamando anzitutto la raccomandazione di Paolo a Timoteo, la Dei Verbum sottolinea che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Poiché queste istruiscono in vista della salvezza per la fede in Cristo (cfr 2Tm 3,15), le verità contenute in esse servono per la nostra salvezza. La Bibbia non è una raccolta di libri di storia, né di cronaca, ma è interamente rivolta alla salvezza integrale della persona. L’innegabile radicamento storico dei libri contenuti nel testo sacro non deve far dimenticare questa finalità primordiale: la nostra salvezza. Tutto è indirizzato a questa finalità iscritta nella natura stessa della Bibbia, che è composta come storia di salvezza in cui Dio parla e agisce per andare incontro a tutti gli uomini e salvarli dal male e dalla morte.
Per raggiungere tale finalità salvifica, la Sacra Scrittura sotto l’azione dello Spirito Santo trasforma in Parola di Dio la parola degli uomini scritta in maniera umana (cfr Dei Verbum, 12). Il ruolo dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura è fondamentale. Senza la sua azione, il rischio di rimanere rinchiusi nel solo testo scritto sarebbe sempre all’erta, rendendo facile l’interpretazione fondamentalista, da cui bisogna rimanere lontani per non tradire il carattere ispirato, dinamico e spirituale che il testo sacro possiede. Come ricorda l’Apostolo «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»(2Cor 3,6). Lo Spirito Santo, dunque, trasforma la Sacra Scrittura in Parola vivente di Dio, vissuta e trasmessa nella fede del suo popolo santo.
10. L’azione dello Spirito Santo non riguarda soltanto la formazione della Sacra Scrittura, ma opera anche in coloro che si pongono in ascolto della Parola di Dio. È importante l’affermazione dei Padri conciliari secondo cui la Sacra Scrittura deve essere «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Con Gesù Cristo la rivelazione di Dio raggiunge il suo compimento e la sua pienezza; eppure, lo Spirito Santo continua la sua azione. Sarebbe riduttivo, infatti, limitare l’azione dello Spirito Santo solo alla natura divinamente ispirata della Sacra Scrittura e ai suoi diversi autori. È necessario, pertanto, avere fiducia nell’azione dello Spirito Santo che continua a realizzare una sua peculiare forma di ispirazione quando la Chiesa insegna la Sacra Scrittura, quando il Magistero la interpreta autenticamente (cfr ibid., 10) e quando ogni credente ne fa la propria norma spirituale. In questo senso possiamo comprendere le parole di Gesù quando, ai discepoli che confermano di aver afferrato il significato delle sue parabole, dice: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
11. La Dei Verbum, infine, precisa che «le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13). È come dire che l’Incarnazione del Verbo di Dio dà forma e senso alla relazione tra la Parola di Dio e il linguaggio umano, con le sue condizioni storiche e culturali. È in questo evento che prende forma la Tradizione, che è anch’essa Parola di Dio (cfr ibid., 9). Spesso si corre il rischio di separare tra loro la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza comprendere che insieme sono l’unica fonte della Rivelazione. Il carattere scritto della prima nulla toglie al suo essere pienamente parola viva; così come la Tradizione viva della Chiesa, che la trasmette incessantemente nel corso dei secoli di generazione in generazione, possiede quel libro sacro come la «regola suprema della fede» (ibid., 21). D’altronde, prima di diventare un testo scritto, la Sacra Scrittura è stata trasmessa oralmente e mantenuta viva dalla fede di un popolo che la riconosceva come sua storia e principio di identità in mezzo a tanti altri popoli. La fede biblica, pertanto, si fonda sulla Parola viva, non su un libro.
12. Quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. L’Antico Testamento non è mai vecchio una volta che è parte del Nuovo, perché tutto è trasformato dall’unico Spirito che lo ispira. L’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola. Gesù stesso lo afferma chiaramente all’inizio del suo ministero: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Chi si nutre ogni giorno della Parola di Dio si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro.
La Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l’ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza. Tornano alla mente le parole del profeta Ezechiele quando, invitato dal Signore a mangiare il rotolo del libro, confida: «Fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,3). Anche l’evangelista Giovanni sull’isola di Patmos rivive la stessa esperienza di Ezechiele di mangiare il libro, ma aggiunge qualcosa di più specifico: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10).
La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr 1Pt 3,15-16). L’amarezza, a sua volta, è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi doverla vivere con coerenza, o toccare con mano che essa viene rifiutata perché non ritenuta valida per dare senso alla vita. È necessario, pertanto, non assuefarsi mai alla Parola di Dio, ma nutrirsi di essa per scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli.
13. Un’ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità. Costantemente la Parola di Dio richiama all’amore misericordioso del Padre che chiede ai figli di vivere nella carità. La vita di Gesù è l’espressione piena e perfetta di questo amore divino che non trattiene nulla per sé, ma a tutti offre sé stesso senza riserve. Nella parabola del povero Lazzaro troviamo un’indicazione preziosa. Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l’amore del prossimo, per evitare che anch’essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti ascoltino loro» (Lc 16,29). Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà.
14. Uno degli episodi più significativi del rapporto tra Gesù e i discepoli è il racconto della Trasfigurazione. Gesù sale sul monte a pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli evangelisti ricordano che mentre il volto e le vesti di Gesù risplendevano, due uomini conversavano con Lui: Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè le Sacre Scritture. La reazione di Pietro, a quella vista, è piena di gioiosa meraviglia: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,33). In quel momento una nube li copre con la sua ombra e i discepoli sono colti dalla paura.
La Trasfigurazione richiama la festa delle capanne, quando Esdra e Neemia leggevano il testo sacro al popolo, dopo il ritorno dall’esilio. Nello stesso tempo, essa anticipa la gloria di Gesù in preparazione allo scandalo della passione, gloria divina che viene evocata anche dalla nube che avvolge i discepoli, simbolo della presenza del Signore. Questa Trasfigurazione è simile a quella della Sacra Scrittura, che trascende sé stessa quando nutre la vita dei credenti. Come ricorda la Verbum Domini: «Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera» (n. 38).
15. Nel cammino di accoglienza della Parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cfr Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della Parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della Sacra Scrittura, Sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3).
La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture, così come l’autore sacro insegnava già nei tempi antichi: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, 30 Settembre 2019
Memoria liturgica di San Girolamo nell’inizio del 1600° anniversario della morte
FRANCESCO
[1] Cfr AAS 102 (2010), 692-787.
[2] «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto» (Verbum Domini, 56).
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Spiritualità.
Radcliffe: «Credere significa porsi in dialogo»
Cosa significa credere al tempo dei fondamentalismi? In un libro le riflessioni del domenicano: «Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza E prende direzioni inaspettate»
di Timothy Radcliffe (Avvenire, giovedì 26 settembre 2019)
Ascoltare la parola di Dio non significa assorbirla passivamente. Secondo la Dei Verbum, vuol dire impegnarsi nel dialogo di Dio con l’umanità. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Nella Verbum Domini, papa Benedetto ha scritto: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (n. 6). La vita di Dio è un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio nello Spirito. La Rivelazione è l’invito che Dio ci rivolge a sentirci sempre a casa, in quell’eterna e amorevole conversazione, non è ricevere messaggi dallo spazio con gli esegeti che disperatamente cercano di decifrare strani segnali come faceva il matematico Alan Turing a Bletchley Park. La Rivelazione comporta di essere assorbiti in quell’eterno dialogo che è la vita di Dio. È quindi estremamente calzante affermare che la parola di Dio si fa carne nel dialogo con l’uomo. Il Vangelo di Giovanni, per esempio, è un succedersi di conversazioni - dal dialogo di Giovanni Battista con i sacerdoti e i leviti, fino alla conversazione finale di Gesù con Pietro sulla riva del lago. La notte prima di morire, si tenne quello che siamo soliti chiamare il «discorso d’addio », ma in realtà è l’ultimo dialogo che Gesù ha con i suoi amici. È Pilato a chiudere la conversazione con un «che cos’è la verità? ». La Parola viene silenziata. Ma la conversazione riprende quando Maria di Magdala incontra Gesù nel giardino. Non è una coincidenza che i primi documenti cristiani non fossero libri o professioni di fede, ma le lettere di san Paolo: l’altra metà delle sue conversazioni con le persone.
Leggere Paolo è come ascoltare qualcuno che parla al telefono e cercare di immaginare che cosa l’interlocutore stia dicendo all’altro capo del filo.
Perciò la parola di Dio non si rivolge a noi con una purezza immacolata che precede le nostre interpretazioni. Non possiamo risalire agli autori biblici alla ricerca della cruda verità, di una parola nuda. I sostenitori della Riforma dicevano: «Lasciate perdere, abbandonate la tradizione che la corrotta Chiesa cattolica ha aggiunto, tornate alla pura parola della Bibbia!». Poi, nel XIX secolo gli studiosi iniziarono a dire: «Attenetevi alla Bibbia, al falegname di Galilea... Attenetevi a Paolo che ha inventato il cristianesimo ». State agli evangelisti: ognuno ha la propria agenda. Tornate al puro messaggio, prima che venga distorto dalle nostre risposte. Ma in questo modo ciascuno ha trovato il Gesù che amava trovare. Lo storico ebreo Geza Vermes ci ha fatto tornare a un Gesù che era un rabbino ebreo. Teologi militanti latinoamericani scoprirono che era stato un politico rivoluzionario. I professori di Oxford vi riconobbero un altro professore che, come loro, avrebbe sicuramente apprezzato un bicchiere di sherry prima dell’Ultima Cena. I californiani invece scoprirono un hippy gentile, carino con tutti, che probabilmente avrebbe preferito la marijuana allo sherry. C’è poi il Gesù gay, il Gesù infatuato della Maddalena, il Gesù simil-Gandhi nonviolento... qualsiasi Gesù ti garbi! In realtà, se ti metti a pelare i vari strati della cipolla via via fino al centro, troverai sicuramente un Gesù che assomiglia giusto a te! Allora, invece di sbucciare la cipolla, dialoghiamo. Entriamo in dialogo con la parola di Dio e lasciamocene sconvolgere. Dialoghiamo con la tradizione. Gli uni con gli altri. La conversazione porta alla conversione.
La chiave di tutto ciò che papa Francesco sta facendo è lo sforzo di riportare il dialogo nel cuore della chiesa. Ha nominato un consiglio dei cardinali, con i quali si incontra regolarmente per discutere delle questioni della chiesa. Sta cercando di trasformare il sinodo in una vera conversazione, invece di avere delle persone che s’incontrano semplicemente per leggere dei testi che avevano scritto prima di arrivare a Roma. Io sono stato a tre sinodi, e vi assicuro che possono essere lunghi momenti estremamente noiosi. Lui invece vuole che si instauri il dialogo nel cuore di ogni parrocchia, di ogni diocesi. Ma il fondamento di tutto è il nostro dialogo con Dio.
La Dei Verbum cita sant’Ambrogio (IV secolo): «Quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza. Non ha senso avere un dialogo con chi la pensa esattamente come te. È così noioso! Una buona conversazione prende direzioni inaspettate. Non può essere controllata. E la Bibbia è piena di dialoghi. Nell’Antico Testamento ci sono conversazioni litigiose tra i profeti e i re; e c’è un dialogo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento abbraccia le differenze con un entusiasmo temerario. Al suo centro sta il dialogo tra i quattro Vangeli. Come ha scritto il teologo Francis Watson: «È emerso lentamente un consenso sul fatto che i quattro Vangeli debbano essere letti l’uno accanto all’altro e che a nessun altro Vangelo debba essere permesso di condividere la loro conversazione intratestuale». Quattro Vangeli che non vanno d’accordo tra loro. Nel II secolo, la chiesa si oppose fermamente a quei timorosi che volevano ridurli a una singola e coerente narrazione. La nostra interpretazione della morte di Gesù è un dialogo senza fine, da una parte con i racconti di Marco e Matteo che parlano di un uomo che grida che Dio l’ha abbandonato, e dall’altra con le narrazioni dei più sereni Luca e Giovanni, nelle quali egli confida e si abbandona allo Spirito. È una conversazione che continuerà fino a che non avremo scoperto la verità di Dio che resta al di là di ogni parola.
Ci poniamo in ascolto di questa conversazione e troviamo il coraggio di intervenire, come bambini che osano intromettersi nelle conversazioni degli adulti. E così, lentamente, essa ci trasforma. Smonta uno per uno i nostri pregiudizi, ci cura dalla violenza. Da una generazione all’altra, come il lievito nella chiesa. Ci sono voluti migliaia di anni prima che il Dio violento dei testi più antichi diventasse il Dio misericordioso, padre del figliol prodigo. Pensate solo alla schiavitù.
Paolo scriveva che in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ma nella sua Lettera a Filemone egli sembra tollerare la schiavitù. Considera Onesimo suo figlio, e vorrebbe che fosse trattato come un diletto fratello, ma non mette mai in discussione l’istituzione della schiavitù. Questa era universale all’epoca, non si sarebbe potuto immaginare una società senza di essa.
Solo con Bartolomé de Las Casas - come visto sopra - l’idea stessa di schiavitù iniziò ad essere ripudiata. I domenicani spagnoli riuscirono a persuadere il papa a denunciarla nell’enciclica Sublimis Deus del 1537. Spesso dimentichiamo che per secoli il papato ha denunciato qualsiasi forma di schiavitù. Ma abbiamo ancora molta strada da fare. Nel XIX secolo riconoscemmo la schiavitù dei lavoratori incatenati alle loro macchine. Oggi assistiamo alla riduzione in schiavitù delle donne dovuta alla tratta sessuale. Nonostante la Parola sia stata pronunciata da Gesù una volta per tutte e per sempre, la sua eco continua ad interrogarci, a sfidarci, a incalzarci ad andare oltre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA PAROLA DI DIO, IL SINODO DEI VESCOVI, E UN OMAGGIO AI FRATELLI MAGGIORI E A SIGMUND FREUD. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, dopo due anni, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! E che confusione spirituale di lunga durata!!!
Federico La Sala
Nel laboratorio della giustizia.
Incontro con l’Africa, segno per il mondo
di Stefania Falasca (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Guardare l’Africa. Attirare l’attenzione verso questo continente nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste per uno sviluppo umano integrale, un’equa distribuzione delle risorse e una cultura di pace che inviti a prendersi cura della nostra casa comune. È quello che papa Francesco ha inteso e intende fare anche con questo suo secondo viaggio in tre Paesi dell’Africa sub-sahariana. È quello che in molti non fanno. E non intendono fare. Perché non è comodo. Preferendo sfruttarla, l’Africa. Schiavizzarla, incendiarla e depredarla. Anche se continuare a saccheggiarla ci ripresenta sempre il conto. Salato. In termini umani, politici, sociali e ambientali. Che è proprio quello che ritorna a noi, duri ancora a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca.
Proprio per questo oggi per noi vale quanto Francesco ha detto nella prima tappa del suo tour africano, rivolgendosi ieri alle autorità mozambicane: «Il perseguimento del bene comune dev’essere un obiettivo primario. È necessario seguire il percorso che porta al bene comune, favorire la cultura dell’incontro che conduce a cercare obiettivi comuni, valori condivisi, idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri». Si tratta cioè delle basi per un futuro di speranza, di dignità, di pace. Basi "urbi et orbi". E che necessariamente comprendono anche la cura della casa di tutti. «Da questo punto di vista - ha continuato quindi il Papa con un indirizzo valido non solo per il Mozambico - questa è una nazione benedetta, e voi in modo speciale siete invitati a prendervi cura di questa benedizione».
E ha aggiunto poi quanto aveva già espresso in altre latitudini all’inizio del 2018, in Perù, dando di fatto inizio al prossimo Sinodo sull’Amazzonia: «La difesa della terra è anche la difesa della vita, che richiede speciale attenzione quando si constata una tendenza a saccheggiare e depredare, spinta da una bramosia di accumulare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre, né viene motivata dal bene comune del vostro popolo». Dal Papa dunque arriva ancora una volta l’appello a una cultura di pace che implichi uno sviluppo produttivo, sostenibile e inclusivo «in cui ognuno possa sentire che questo Paese è suo, e in cui possa stabilire rapporti di fraternità ed equità con il proprio vicino e con tutto ciò che lo circonda». Del resto la visita apostolica in Mozambico, Madagascar e Mauritius si svolge, come la precedente in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, nel solco della Populorum progressio di san Paolo VI, per la quale lo sviluppo di una nazione non si riduce alla semplice crescita economica.
Perché per essere autentico lo sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Enciclica oggi più profetica che mai, quella firmata da papa Montini nel 1967. Nella convinzione, sulla scia della Laudato si’, che l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo è strettamente legata a un rinnovato rapporto con l’ambiente, che esige cambiamenti strutturali e personali rispetto a quel paradigma imperante di sviluppo votato al dio denaro che produce scarti e trasforma il mondo in una discarica. In questi Paesi dell’Africa australe la crescita economica è stata evidentemente ostacolata dalla corruzione e dallo sfruttamento rapace delle risorse naturali.
A ciò si aggiunga la piaga dell’esclusione sociale, che penalizza fortemente i ceti meno abbienti. Ma c’è da rilevare che il Mozambico, uscito da una lunga guerra civile, è - come gli altri del continente - un Paese giovanissimo: oltre il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e per questo guarda al futuro con speranza, non foss’altro perché le giovani generazioni sono quelle che invocano l’agognato cambiamento all’insegna della concordia e del bene condiviso. Il Papa perciò è attento a segnalare e promuovere tutti quei segni di speranza che pure ci sono, quegli sforzi che si stanno compiendo per la risoluzione dei conflitti, per uno sviluppo sostenibile, per il rispetto e la cura del Creato.
«Per usare un’espressione di san Paolo VI - ha fatto notare il segretario di Stato Pietro Parolin alla vigilia del viaggio -, si può dire che l’Africa è come un laboratorio di sviluppo integrale». Sottolineare proprio questa dimensione di speranza e di sguardo nuovo verso il futuro, a partire dai tanti segni positivi che ci sono all’interno del continente, ribalta così anche l’immagine oscura e reietta che tuttora resiste dell’Africa. Guardandola nelle sue possibilità, nelle sue potenzialità di sviluppo integrale che anche noi dobbiamo ancora realizzare
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO per l’Amazzonia (in Vaticano, dal 6 al 27 ottobre 2019). Il tema è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il libro.
Senza l’Amazzonia per il mondo c’è poca speranza di vita
Esce alla vigilia del Sinodo il ricco reportage di Capuzzi e Falasca lungo la “frontiera” del polmone del pianeta dalla cui cura dipende il futuro dell’umanità
di Claudio Hummes (Avvenire, giovedì 5 settembre 2019)
Oggi è evidente che la crisi socio-ambientale dell’Amazzonia riveste un’importanza planetaria. Qui è in gioco il futuro del pianeta e dell’umanità. Senza l’Amazzonia resterà poca o nessuna speranza di vita al mondo. In questi ultimi decenni il pianeta è entrato in una grave situazione di crisi climatica ed ecologica. È necessario pertanto un grande impegno per superare la crisi: agire è urgente.
Due importanti eventi hanno risvegliato la coscienza mondiale su questo grave problema: la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco nel maggio 2015 e, pochi mesi più tardi, la realizzazione della Cop21 a Parigi, che si è conclusa con la pubblicazione di un articolato Accordo sul clima firmato da oltre 190 paesi e che ha indicato le azioni da intraprendere per superare gradualmente la crisi, entro questo ventunesimo secolo.
I due documenti, di portata storica e scientificamente irrefutabili, rendono evidente quanto la nostra madre Terra non sia più in grado di sopportare simili distruzioni e l’intervento predatorio da parte di un’attività umana irresponsabile. La causa profonda della crisi è strettamente collegata con il modello dominante di sviluppo adottato che la Laudato si’ indica con l’espressione di «globalizzazione del paradigma tecnocratico». Un modello che induce a considerare il pianeta alla stregua di una merce. E come tale esso può essere sfruttato, degradato e depredato senza scrupoli per accumulare denaro (...).
Questo spirito predatorio insaziabile e prepotente ha ormai già annientato una parte importante dell’enorme ricchezza amazzonica e minaccia ciò che ancora è riuscito a sopravvivere. Non soltanto l’ambiente: tra i sopravvissuti minacciati di estinzione ci sono gli stessi popoli originari che ancora vivono in essa. Si tratta dunque ancora di un neocolonialismo feroce che invade e distrugge questo particolare patrimonio di biodiversità espellendo e massacrando interi popoli.
Nella Laudato si’ papa Francesco chiama la Terra «la nostra casa comune», della quale dobbiamo avere molta cura. L’ecologia integrale è una realtà meravigliosamente nuova che il Papa ci ha messo davanti e che ci interpella. Si tratta di un modo innovativo di intendere la relazione profonda che esiste tra tutte le creature del pianeta. C’è una canzone brasiliana che dice: Tudo está interligado, como se fóssemos um, tudo está interligado nesta casa comum («Tutto è interconnesso, come fossimo una cosa sola, tutto è interconnesso in questa casa comune»).
Perché tra noi e la natura non esiste separazione. Tutto è interconnesso. Dio stesso, per l’incarnazione del suo Figlio, è in relazione, definitivamente, con la nostra casa comune. Il grido della natura e il grido degli ultimi sono perciò il medesimo unico grido. Non esistono due crisi separate: una sociale e una ambientale, c’è una sola, unica e complessa crisi socio-ambientale. Di conseguenza non si può separare la cura dei poveri dalla cura della casa comune. Le soluzioni richiedono un approccio integrale per contrastare la povertà, per restituire dignità agli esclusi e, simultaneamente, prendersi cura della natura (...).
Il tipping point dell’Amazzonia, il punto di non ritorno fissato dagli scienziati superato il quale la sua distruzione sarà irreversibile, è il 40 per cento della deforestazione. Siamo già quasi al 20 per cento. Nel contesto della crisi socio-ambientale mondiale, il Papa ha citato più volte, in modo esplicito, l’Amazzonia come regione cruciale, perché è determinante per il processo complessivo. Ha ricordato che l’Amazzonia è polmone del mondo e dunque chiesto la massima attenzione alla sua biodiversità per la vita. La vita della foresta, delle acque, dei suoi abitanti e la missione della chiesa in questa immensa regione: ecco da dove è nata la convocazione del sinodo per l’Amazzonia.
La Laudato si’ mi ha cambiato molto l’orizzonte delle cose. Mi aperto gli occhi a una visione nuova. Anche sulle responsabilità della Chiesa per la cura della casa comune, per la salvaguardia di tutta la creazione a partire dalla fede. La chiesa ha il dovere di occuparsi dell’ambiente, come una madre il suo bambino (...).
Papa Francesco ha denunciato ogni forma di neocolonialismo e ha esortato la Chiesa a non viverne lo spirito e la pratica nella sua missione evangelizzatrice. Quello del Papa è un richiamo a non fare della Chiesa in Amazzonia una colonizzatrice, a non proporsi di colonizzare i popoli indigeni riguardo alla loro fede, alla loro spiritualità e alla loro esperienza di Dio. La Chiesa in ogni regione della terra deve inculturarsi nelle culture locali. Come ha detto il Papa: «Anche Cristo si è incarnato in una cultura, l’ebraismo, e, a partire da esso, Egli offrì sé stesso come novità a tutti i popoli». Nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale. I valori e le forme positivi che ogni cultura propone arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto. Una cultura sola non è capace di mostrarci tutta la ricchezza di Cristo e del suo messaggio.
Dopo 400 anni di evangelizzazione, non siamo riusciti a far nascere qui una Chiesa inculturata. Finora la Chiesa ha difeso i diritti umani degli indigeni, ma noi dobbiamo fare un passo avanti, dobbiamo andare verso una chiesa indigena: aiutare cioè la nascita di una Chiesa che esprima pienamente la fede nella sua cultura, nella sua propria identità (...) .
I popoli indigeni sono e devono essere interlocutori indispensabili. Essi conoscono l’Amazzonia meglio di chiunque altro. Hanno vissuto nella regione per millenni. La loro visione del mondo e la loro concezione religiosa si sono formate a partire dalla propria esistenza nella foresta amazzonica, caratterizzata dall’immensità di acque, dai fiumi incredibilmente grandi, dai mille laghi, ruscelli e igarapé, piccoli corsi d’acqua. Da sempre vivono immersi in una biodiversità incalcolabile e affascinante. Sono i sapienti guardiani e custodi di questo immenso ecosistema privilegiato. La loro saggezza non può andare perduta, né la loro cultura, né le loro molte lingue, la loro spiritualità, la loro storia, la loro identità.
Questi popoli sono stati perseguitati, cacciati (sia nel senso di essere allontanati, sia nell’atroce senso di essere considerati alla stregua di selvaggina da braccare e cacciare), ridotti in schiavitù o decimati fin dai primi anni dall’arrivo dei coloni europei in queste terre di Dio. Numerose etnie sono state totalmente sterminate. Una piccolissima percentuale è sopravvissuta e continua a lottare per riuscire a esistere. Essi sono ancora aggrediti, maltrattati, espulsi dalle loro terre, disprezzati, umiliati, sfruttati e molti uccisi. A causa della persecuzione subita e che subiscono già da cinque secoli, alcuni gruppi di indigeni si sono volontariamente isolati, nascondendosi nelle foreste (...).
La storia della colonizzazione mostra con chiarezza quante violenze inaudite sono state commesse contro i popoli indigeni, quante ingiustizie, quanti stermini. Tutte queste tragiche realtà rappresentano un immenso debito contratto dalla società moderna nei confronti dei popoli originari, sottomessi e colonizzati. E fino a quando non saranno loro restituite le condizioni reali di essere soggetti della propria storia, questo debito non sarà estinto (...).
Oggi l’industria, l’agricoltura e molte altre forme di produzione dicono sempre più spesso che la loro attività è «sostenibile». Ma che cosa significa davvero «essere sostenibile»? Significa che tutto quanto estraiamo dal suolo o restituiamo al suolo come residuo non deve impedire alla terra di rigenerarsi e di restare fertile. Se gli interessi economici e il paradigma tecnocratico avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia, dobbiamo sapere da che parte stare.
Il Sinodo per l’Amazzonia vuole diventare un faro e vuole aprire nuovi cammini per tutta la Chiesa della regione, sia nelle città, sia nella foresta, sia per la popolazione urbana, per i popoli indigeni, i ribeirinhos, i contadini, i seringueiros e altri che vivono nell’interno della regione, dispersi e fuori da agglomerati urbani, con un obiettivo principale, definito: la difesa e l’evangelizzazione incarnata nella cultura dei popoli indigeni in una prospettiva di ecologia integrale. Perché noi non dobbiamo e non possiamo arrenderci.
Vaticano.
Il Sinodo sull’Amazzonia si terrà dal 6 al 27 ottobre
Il Papa ha reso noto le date. Il tema del Sinodo è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
di A.M.B. (Avvenire, lunedì 25 febbraio 2019)
Papa Francesco l’aveva convocato con due anni di anticipo, mettendo così in modo la fase preparatoria. Ora, quando mancano sette mesi alla riunione dei vescovi, si conoscono anche le date. Il Papa Francesco ha convocato l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica, da domenica 6 a domenica 27 ottobre 2019. Lo rende noto la sala stampa della Santa Sede.
Il Sinodo avrà come tema «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale».
Perché un Sinodo sull’Amazzonia?
Il 15 ottobre 2017, papa Francesco ha convocato un Sinodo Speciale per la regione Panamazzonica, indicando che l’obiettivo principale è quello di «trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, in particolare le persone indigene, spesso dimenticate e senza la prospettiva di un futuro sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di fondamentale importanza per il nostro pianeta».
Chi vi parteciperà?
Al consiglio chiamato Sinodo dei Vescovi partecipano vescovi scelti da diverse regioni del mondo. Tale Sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale.
Com’è organizzato un Sinodo?
Ogni Sinodo è articolato in tre fasi: la fase preparatoria, in cui ha luogo la consultazione del Popolo di Dio (spesso tramite questionari) sui temi indicati dal Pontefice; la fase celebrativa, caratterizzata dal raduno assembleare dei vescovi; la fase attuativa, in cui le conclusioni del Sinodo approvate dal Pontefice devono essere accolte dalle Chiese.
Dove si terrà il Sinodo sull’Amazzonia?
In Vaticano c’è l’Aula del Sinodo dei Vescovi, dove si tiene ogni Sinodo compreso quello del prossimo ottobre sull’Amazzonia.
Quali sono i Paesi direttamente coinvolti?
La Panamazzonia è composta da nove Paesi: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana francese. È una regione, abitata da 34 milioni di persone, che è una fonte importante di ossigeno per tutto il pianeta. Vi si trova il 20% di acqua dolce non congelata di tutto il pianeta.
All’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia il Vaticano ha dedicato un sito internet, sul quale è pubblicato anche il Documento Preparatorio.
CHARIS in Vaticano. Il nostro sogno è fare comunione. Ce lo chiede il Papa
I responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico si incontrano in Vaticano da oggi fino a sabato 8 giugno per pregare insieme in attesa dell’apertura ufficiale di Charis
di Emanuela Campanile (Vatican News, 06 giugno 2019)
Città del Vaticano Si sono dati appuntamento in Vaticano - Aula Paolo VI - e arrivano da tutto il mondo. Sono più di 550 e sono i responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Vogliono pregare insieme e mettersi all’ascolto dello Spirito Santo in attesa dell’inizio ufficiale di Charis previsto proprio domenica 9 giugno: solennità di Pentecoste. Voluto espressamente da Papa Francesco, Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service) segna una nuova tappa per il Rinnovamento Carismatico Cattolico come corrente di grazia nel cuore della Chiesa.
Il Charis
Si tratta di un servizio di comunione tra tutte le realtà del Rinnovamento Carismatico Cattolico che, nel mondo, conta attualmente più di 120 milioni di cattolici che vivono l’esperienza del battesimo nello Spirito in gruppi di preghiera, comunità, scuole di evangelizzazione, reti di comunicazioni e ministeri vari. Quando nella solennità di Pentecoste prenderà ufficialmente il via, l’Iccrs e il Catholic Fraternity cesseranno di esistere.
Rinnovamento come corrente di grazia
"Il nostro sogno è fare ciò che il Papa ci ha chiesto", spiega nell’intervista Jean-Luc Moens, il professore belga nominato moderatore di Charis. "Lui parla del Rinnovamento carismatico come di una corrente di grazia nella Chiesa, riprendendo l’espressione dal cardinale Suenens, il quale voleva sottolineare che il Rinnovamento Carismatico non è un movimento, perché - prosegue il professore - in un movimento c’è un’appartenenza; le persone sono o dentro o fuori. Dunque, c’è una separazione. Una corrente di grazia è un’altra cosa. Il cardinale faceva il paragone con la corrente del Golfo nell’Atlantico che riscalda tutto l’oceano e poi sparisce. Allora, forse posso dire qualcosa di abbastanza strano, ma - conclude - il nostro sogno è quello di sparire quando tutta la Chiesa avrà scoperto il battesimo nello Spirito Santo".
Liturgia.
Via libera del Papa alla nuova traduzione italiana del Messale
Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore. Tra le novità principali quelle su Padre Nostro e Gloria
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 22 maggio 2019)
La nuova traduzione italiana del Messale è pronta ad arrivare nelle parrocchie della Penisola. Ancora non c’è una data certa ma è giunto il “via libera” del Papa. Durante la prima giornata di lavori dell’Assemblea generale della Cei, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha annunciato ai vescovi che Francesco ha autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano di Paolo VI. Il testo italiano è passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. Ancora è prematuro sapere quando cambieranno alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua. Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore.
La nuova traduzione era stata approvata lo scorso novembre dall’Assemblea generale della Cei. Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo »). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa. Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore».
Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 16 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota. Nelle intenzioni, infatti, la pubblicazione della nuova edizione non è solo un fatto “editoriale”, ma «costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica». L’utilizzo del nuovo Messale verrà accompagnato da una sorta di «riconsegna al popolo di Dio», tramite un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970; la seconda porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione del 1983 - è quella ancora in uso.
«Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Ma come un vitello d’oro di Mammona ("caritas") o come il bambino, figlio dell’Amore ("charitas") di Giuseppe e Maria?! *
Il Vangelo.
Pregare trasforma in ciò che si contempla
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 14 marzo 2019)
II Domenica di Quaresima
Anno C
Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è la terra che si fa verticale, la più vicina al cielo, dove posano i piedi di Dio, dice Amos. I monti sono indici puntati verso il mistero e la profondità del cosmo, verso l’infinito, sono la terra che penetra nel cielo. Gesù vi sale per pregare. La preghiera è appunto penetrare nel cuore di luce di Dio. E scoprire che siamo tutti mendicanti di luce.
Secondo una parabola ebraica, Adamo in principio era rivestito da una pelle di luce, era il suo confine di cielo. Poi, dopo il peccato, la tunica di luce fu ricoperta da una tunica di pelle. Quando verrà il Messia la tunica di luce affiorerà di nuovo da dentro l’uomo finalmente nato, “dato alla luce”. Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma: tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, diventi come Colui che preghi.
Parola di Salmo: «Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Guardano i tre discepoli, si emozionano, sono storditi, hanno potuto gettare uno sguardo sull’abisso di Dio. Un Dio da godere, un Dio da stupirsene, e che in ogni figlio ha seminato una grande bellezza.
Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. Sono sotto il sole di Dio e l’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita - che bello! - Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. È bello stare qui. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto; altrove non è bello, qui è apparsa la bellezza di Dio e quella del volto alto e puro dell’uomo.
Allora «dovremmo far slittare il significato di tutta la catechesi, di tutta la morale, di tutta la fede: smetterla di dire che la fede è cosa giusta, santa, doverosa (e mortalmente noiosa aggiungono molti) e cominciare a dire un’altra cosa: Dio è bellissimo» (H.U. von Balthasar).
Ma come tutte le cose belle, la visione non fu che la freccia di un attimo: viene una nube, e dalla nube una voce.
Due sole volte il Padre parla nel Vangelo: al Battesimo e sul Monte. Per dire: è il mio figlio, lo amo. Ora aggiunge un comando nuovo: ascoltatelo. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola del Figlio: ascoltate Lui. La religione giudaico-cristiana si fonda sull’ascolto e non sulla visione. Sali sul monte per vedere il Volto e sei rimandato all’ascolto della Voce. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltatelo. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù, la Voce diventata Volto, il visibile parlare del Padre; dentro Gesù: bellezza del vivere nascosta, come una goccia di luce, nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Genesi 15,5-12.17-18; Salmo 26; Filippesi 3,17- 4,1; Luca 9,28-36)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Preti pedofili, j’accuse del vescovo Marx: il Vaticano ha insabbiato
Corpus demoni. Al Sinodo l’alto prelato tedesco schierato con Bergoglio: «Dossier sulle violenze distrutti o mai creati». Scontro con i conservatori
di Luca Kocci (il manifesto, 24.02.2019)
La Chiesa ha messo in atto un’azione sistematica di copertura degli abusi sessuali commessi dal clero per proteggere i preti pedofili, «calpestando» le vittime
La severa accusa alle gerarchie ecclesiastiche è arrivata dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca, intervenuto ieri mattina in Vaticano, all’incontro mondiale sulla «Protezione dei minori nella Chiesa». Una relazione, quella di Marx, in sintonia con il grido che, fuori dall’aula del Sinodo dove sono riuniti i 190 presidenti delle conferenze episcopali e superiori generali di tutto il mondo, si è levato dalle vittime degli abusi riunite nel network internazionale Eca global (Ending clerical abuse) le quali, in una marcia da piazza del Popolo a piazza San Pietro, hanno chiesto «tolleranza zero», invocando «la fine dell’impunità e degli insabbiamenti degli abusi da parte della Chiesa». «Gli abusi sessuali nei confronti di bambini e giovani sono dovuti all’abuso di potere», ha detto Marx. L’amministrazione ecclesiastica, ha aggiunto, «non ha compiuto la missione della Chiesa, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. I procedimenti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, anzi cancellati o scavalcati.
I diritti delle vittime sono stati calpestati». Si riferiva in particolare alle diocesi tedesche, ha precisato in conferenza stampa, sottolineando però che «la Germania non è un caso isolato».
Sono indispensabili «trasparenza e tracciabilità», per chiarire «chi ha fatto cosa, quando, perché e a quale fine, e cosa è stato deciso», ha proseguito l’arcivescovo di Monaco, secondo il quale non ci sono obiezioni che tengano: né rispetto al «segreto pontificio» (non vale per «i reati riguardanti l’abusi di minori») né alla preoccupazione di «rovinare la reputazione di sacerdoti innocenti o del sacerdozio e della Chiesa»: la «presunzione di innocenza», la «tutela dei diritti» e «la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda». Anzi «non è la trasparenza a danneggiare la Chiesa, ma gli abusi commessi, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento».
È stata anche la volta delle donne.
Prima la testimonianza (venerdì sera) di una vittima che ha subito abusi da quando aveva undici anni da parte di un prete della sua parrocchia: «Da allora - ha raccontato - io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata non sono più esistita», «restano incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui lui bloccava me bambina con una forza sovrumana, io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse». «Dobbiamo trovare il coraggio di parlare e denunciare - ha concluso -, pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena», «non può e non deve essere più così».
Poi la relazione di Veronica Openibo, religiosa nigeriana, superiora della Società del santo bambino Gesù, che ha rimarcato l’esistenza di un fenomeno conosciuto già da qualche anno ma ancora in ombra: la violenza subita dalla suore da parte di preti e religiosi, soprattutto in Africa. La Chiesa sta facendo qualcosa, ma «non è ancora abbastanza», ha aggiunto suor Openibo, che ha indicato alcuni problemi da affrontare, come «l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere», e alcune prassi da abolire: nascondere «per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito sulla Chiesa»; e «la scusa che si debba rispetto ad alcuni sacerdoti in virtù della loro età avanzata e della loro posizione gerarchica».
Oggi il summit termina, con la messa e l’intervento del papa. Le posizioni sono emerse con chiarezza. I conservatori puntano il dito sull’omosessualità: sarebbe questa la causa degli abusi sessuali (però così non spiegano le violenze sulle donne). La maggioranza filo-Francesco indica invece nel clericalismo e nel potere la radice degli abusi e chiede creazione di strutture di ascolto autonome con il coinvolgimento di laici e donne, collaborazione e denuncia alle autorità civili, riforma del segreto pontificio, rimozione di preti colpevoli e vescovi collusi o complici.
Nemmeno sfiorato il tema del celibato obbligatorio - per molti osservatori il vero nodo del problema -, ma su questo punto anche Francesco è inamovibile. Proposte concrete, però, sono state avanzate. L’incontro non ha valore deliberativo, si tratterà quindi di vedere se ora diventeranno regole scritte. «Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate», ha concluso la giornata, con la celebrazione penitenziale. il vescovo ghanese Philip Naameh.
Il vertice
Il consigliere del Papa: «Distrutti i dossier sugli abusi nella Chiesa»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 24.02.2019)
CITTÀ DEL VATICANO «Ora cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo». Un giovane cileno che fu abusato da un prete racconta la sua storia, chiude gli occhi e imbraccia il violino, le note di Bach risuonano nel silenzio della Sala Regia e delle gerarchie ecclesiali di tutto il mondo riunite per la «celebrazione penitenziale» guidata da Francesco. Prima del mea culpa del Papa («dobbiamo dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato») e di cardinali e vescovi («confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e ridotto al silenzio chi ha subito del male»), il Pontefice ha invitato all’«esame di coscienza» spiegando che «si rendono necessarie azioni concrete per le chiese locali»: l’incontro mondiale sulla protezione dei minori finisce con la messa di oggi ma l’essenziale si vedrà da domani.
La questione centrale è quella che ieri il cardinale Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti del Papa, ha scandito senza perifrasi: «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare». Il cardinale, presidente dei vescovi tedeschi, ha spiegato più tardi che si riferiva in particolare a ciò che la Chiesa tedesca ha scoperto nella ricerca, durata tre anni, sugli abusi nelle sue diocesi. Ma «presumo che la Germania non sia un caso isolato», ha aggiunto.
La denuncia di Marx è la premessa di una serie di riforme, a cominciare dall’abolizione o almeno revisione del «segreto pontificio», definito dal documento «Secreta continere» del 1974.
Il cardinale Marx spiega che la «trasparenza» si deve accompagnare alla «tracciabilità» delle «procedure amministrative», in modo che chiunque possa sempre sapere «chi ha fatto che cosa, quando, perché e a quale fine, e che cosa è stato deciso, respinto o assegnato». E aggiunge: «Ogni obiezione basata sul segreto pontificio sarebbe rilevante solo se si potessero indicare motivi convincenti per cui il segreto pontificio si dovrebbe applicare al perseguimento di reati riguardanti l’abusi di minori. Allo stato attuale, io di questi motivi non ne conosco».
In questi giorni si è parlato di «nuove strutture legali» di controllo - legate ai metropoliti (le diocesi più grandi) e composte anche da laici, donne e uomini - cui i vescovi debbano «rendere conto». E di centri di ascolto per raccogliere denunce in ogni conferenza episcopale e diocesi. Ma soprattutto sono state le donne a scuotere le gerarchie. Dalla canonista Linda Ghisoni alla suora nigeriana Veronica Openibo, che ieri ha parlato di «mediocrità e ipocrisia» e avvertito: «Questa tempesta non passerà. Spero e prego che alla fine di questa conferenza sceglieremo deliberatamente di spezzare ogni cultura del silenzio». Suor Veronica, parlando accanto al Papa, ha evocato il cambio di linea nello scandalo cileno, all’inizio sottovalutato: «La ammiro, fratel Francesco, per essersi preso del tempo, da vero gesuita, per discernere e per essere abbastanza umile da cambiare idea, chiedere scusa e agire: un esempio per tutti noi».
La giornalista messicana Valentina Alazraki non l’ha mandata a dire, a cardinali e vescovi: «Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici».
Udienza generale.
Papa Francesco: dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione
Nella prima catechesi del 2019 Francesco ritorna sulla preghiera del Padre Nostro: «Pregare Dio come un figlio, non come un pappagallo che parla, parla, parla»
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 2 gennaio 2019)
"Dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieti, ci spinge: è rivoluzionario". Così si è espresso il Papa nella prima udienza generale del 2019, ricordando che il Vangelo di Matteo pone il testo del Padre nostro "in un punto strategico, al centro del discorso della montagna", Francesco ha osservato che con le Beatitudini "Gesù incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo - ma anche nel nostro! - non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore... È la rivoluzione del Vangelo".
"Il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna” è questo, ha aggiunto Francesco, nel corso dell’udienza generale, in aula Paolo VI: "Siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico".
È UNO SCANDALO ANDARE IN CHIESA MA ODIARE GLI ALTRI
Il cristiano, ha osservato il Pontefice, “non è uno che si impegna a essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome di ‘Padre’, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie". Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”: "Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: ‘Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente’. C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio: lo fanno per essere ammirati dagli uomini". "Quante volte - ha detto a braccio - noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno tutta la giornata lì e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Ma allora è meglio non andare in chiesa". "Se vai in Chiesa devi vivere come figlio e dare buona testimonianza, non una contro testimonianza".
PREGARE NON È PARLARE COME UN PAPPAGALLO, MA RIVOLGERSI A DIO COME UN FIGLIO AL PADRE
La preghiera cristiana, invece, "non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: ‘Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto’".
"I pagani pensano - ha aggiunto il Papa - che parlando, parlando parlando Dio ascolta”, ma “io penso - ha aggiunto a tanti cristiani che credono che pregare è parlare a Dio come un pappagallo, no pregare si fa dal cuore, da dentro", ha osservato a braccio. "Tu invece - dice Gesù -, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda. Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il ‘Padre nostro’: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi".
"È bello pensare - ha concluso - che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto".
Dopo i saluti ai pellegrini polacchi, una ventata di musica e colore in aula Paolo VI: si sono esibiti, infatti, davanti a un divertito papa Francesco, artisti del circo di Cuba, con danze ed esercizi acrobatici. "Con il loro spettacolo portano bellezza, una bellezza che ci vuole tanto sforzo, allenamento per farlo. La bellezza sempre eleva il cuore, ci fa più buoni a tutti, ci porta alla bontà, ci porta a Dio. Grazie tante" così li ha salutati il Pontefice.
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Angelus.
Il Papa: illusorio separare amore verso Dio e verso il prossimo
Amore di Dio e amore del prossimo, le due facce di uno stesso comandamento, quello portato da Gesù
Papa all’Angelus (Avvenire, 05.11.2018)
“Le due dimensioni dell’amore, per Dio e per il prossimo, nella loro unità caratterizzano il discepolo di Cristo”. Il pensiero di Papa Francesco all’Angelus di questa domenica è tutto incentrato sul brano del Vangelo proposto dalla liturgia.
Racconta, il Vangelo, l’episodio dello scriba che chiede a Gesù quale sia ‘il primo di tutti i comandamenti’. La risposta è la professione di fede recitata da ogni israelita e al centro del suo credo. Comincia con le parole: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore’. E il Papa commenta: «Esiste un solo Signore e quel Signore è ’nostro’ nel senso che si è legato a noi con un patto indissolubile, ci ha amato, ci ama e ci amerà per sempre. È da questa sorgente che deriva per noi il duplice comandamento: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Amerai il tuo prossimo come te stesso’».
Gesù insegna “che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili” - sono, dice Francesco, - “le due facce di un’unica medaglia”. E spiega che amare Dio è vivere “per quello che Lui è e per quello che Lui fa”. E Lui è donazione, perdono, relazione.
Amare Dio vuol dire investire ogni giorno le proprie energie per essere suoi collaboratori nel servire senza riserve il nostro prossimo, nel cercare di perdonare senza limiti e nel coltivare relazioni di comunione e di fraternità.
Il prossimo, prosegue il Papa, è la persona che incontro sul mio cammino, non si tratta di pre-selezionarlo. E aggiunge: "Questo non è cristiano. Io penso che il mio prossimo sia quello che io ho preselezionato: no, questo non è cristiano, è pagano". Si tratta di vederlo e di amarlo.
Se ci esercitiamo a vedere con lo sguardo di Gesù, ci porremo sempre in ascolto e accanto a chi ha bisogno. I bisogni del prossimo richiedono certo risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione.
E Francesco fa l’esempio di un affamato che ha bisogno sì di cibo, ma anche di un sorriso e di un ascolto. Il Vangelo invita quindi a rispondere alle necessità concrete dei poveri, ma anche a manifestare loro “vicinanza fraterna”: Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni; il rischio delle comunità ... io direi comunità “stazioni di servizio” ma di poca compagnia, nel senso pieno e cristiano di questo termine.
Sarebbe un’illusione pensare di amare il prossimo senza amare Dio e viceversa, dice Francesco che conclude: “La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere e testimoniare nella vita di ogni giorno questo luminoso insegnamento”.
Dopo la preghiera dell’Angelus, il Papa rivolge il suo pensiero alla Chiesa Copto ortodossa in Egitto colpita due giorni fa da un attentato terroristico, esprimendo il suo dolore e assicurando la sua preghiera per tutte le persone coinvolte. Insieme ai pellegrini in piazza Francesco recita una Ave Maria per tutta quella comunità. Infine ricorda Madre Clelia Merloni, fondatrice delle Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, proclamata ieri beata. "Una donna pienamente abbandonata alla volontà di Dio - ha affermato - zelante nella carità, paziente nelle avversità ed eroica nel perdono".
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Il Papa con la corona del Rosario (Ansa)
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
Santa Sede.
Lotta agli abusi, il Papa convoca i capi dei vescovi di tutto il mondo
L’annuncio al termine della riunione dei 9 Cardinali. L’incontro sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Sul tavolo il tema della protezione dei minori e della prevenzione degli abusi
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Una decisione forte, che esprime la volontà fermissima di fare verità su una piaga che va sanata al più presto. Papa Francesco sentito il Consiglio di cardinali, ha deciso di convocare una riunione con i presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa cattolica sul tema della protezione dei minori e degli adulti vulnerabili.
L’annuncio è contenuto nel comunicato che conclude la XXVI riunione del cosiddetto C9, il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Un tema quello degli abusi, rilanciato dal recente dossier sulla diocesi della Pennsylvania e dal caso McCarrick, ampiamente trattato, come recita la nota finale, nella riunione di cardinali, iniziata lunedì per concludersi stamani.
Il vertice con i tutti i leader degli episcopati rilancia una volta di più la volontà di adottare misure idonee alla prevenzione e alla tutela delle vittime e, allo stesso tempo rappresenta una presa d’atto di come il problema si ancora drammaticamente caldo. Il tutto si svolgerà nella linea della tolleranza zero, che Bergoglio ha adottato sin dall’inizio del suo pontificato, proseguendo la rotta indicata da papa Ratzinger.
Domani l’incontro con i vertici dell’Episcopato Usa
Un anticipo dell’appuntamento di febbraio si avrà comunque già domani, giovedì. quando saranno ricevuti in Vaticano i vertici della Conferenza episcopale statunitense. In particolare il Papa incontrerà il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e presidente dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, monsignor José Horacio Gomez arcivescovo di Los Angeles, vicepresidente dell’episcopato e il segretario generale monsignor Brian Bransfield.
Non imminente un ricambio nel C9
Naturalmente il C9 ha affrontato ha anche gli argomenti per cui è nato. Come ha sottolineato la vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, «gran parte dei lavori del Consiglio e stata dedicata agli ultimi aggiustamenti della bozza della nuova Costituzione Apostolica della Curia romana, il cui titolo provvisorio e “Praedicate evangelium”. Il Consiglio di cardinali ha già consegnato, in proposito, il testo provvisorio che, comunque, e destinato ad una revisione stilistica e ad una rilettura canonistica».
Inoltre come comunicato lunedì scorso, durante la prima sessione di questa XXVI riunione, il C9 «ha chiesto al Papa una riflessione sul lavoro, la struttura e la composizione dello stesso Consiglio, tenendo anche conto dell’età avanzata di alcuni membri». In proposito la vicedirettrice della Sala Stampa ha detto che «per dicembre non ci saranno nuovi membri del C9» aggiungendo che «se ci saranno cambiamenti, vedremo». Procedendo nei lavori per la riforma della Curia romana infine il Consiglio che «ancora una volta ha espresso piena solidarietà a papa Francesco per quando accaduto nelle ultime settimane», vedi dossier Viganò, «si è concluso con la rilettura dei testi già preparati facendo motivo di attenzione la cura pastorale per il personale che vi lavora». Dei 9 porporati che costituiscono il C9 mancavano il cardinale australiano George Pell, l’85 enne cardinale cileno Francisco Javier Errazuriz e il quasi 79enne cardinale africano Laurent Monsengwo Pasinya.
«Il Santo Padre, come di consueto, informa il comunicato finale del C9, ha partecipato ai lavori, anche se e stato assente in tre momenti: lunedì in fine mattinata, per l’udienza al cardinale Beniamino Stella; martedì mattina, per la visita ad limina apostolorum della Conferenza episcopale Venezuela e questa mattina per l’Udienza generale».
La Cei: non per fermarsi all’abuso
E sempre in tema di abusi, il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana cita l’incontro, annunciato nei giorni scorsi dal C9 e svoltosi ieri. «Ascolto delle vittime, impegno di educazione, formazione e comunicazione, stesura di Linee guida e di norme per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Sono questi - scrive don Ivan Maffeis - i temi approfonditi nell’incontro che ieri - martedì 11 settembre - ha visto insieme la Pontificia Commissione per la tutela dei minori con la corrispondente Commissione della Cei. Una collaborazione fattiva, che mira soprattutto all’elaborazione di proposte, iniziative e strumenti di prevenzione da offrire alle diocesi. Per non fermarsi a condannare l’abuso e promuovere una cultura della persona e della sua dignità».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
Nuova denuncia abusi scuote Chiesa Cile
Vescovo Goic, compromesso dallo scandalo, chiede perdono
di Redazione ANSA SANTIAGO DEL CILE
20 maggio 2018
(ANSA) - SANTIAGO DEL CILE, 20 MAG - Una nuova denuncia di abusi sessuali da parte di un gruppo di sacerdoti cileni - organizzati in una ’confraternita’ di abusatori - ha scosso la Chiesa cilena e compromesso uno dei suoi vescovi più autorevoli, monsignor Alejandro Goic, appena tornato dal viaggio in Vaticano in cui tutto l’episcopato del paese sudamericano ha rassegnato le dimissioni al Pontefice. Il caso è stato sollevato da un reportage tv del programma T13. Una testimone ha raccontato di aver avuto consegnato a Goic una lista di 17 sacerdoti che hanno messo su una "confraternita", con al vertice un "nonno" e "zie" e "nipoti", al femminile, al di sotto di lui, che si dedicano ad abusi sessuali. Goic, che inizialmente aveva negato ogni addebito oggi, ha invece chiesto perdono, riconoscendo che aveva "agito senza l’adeguata agilità nell’inchiesta su Luis Rubio e altri sacerdoti". Goic - già presidente della Conferenza episcopale cilena - presiede dal 2011 il Consiglio nazionale per la prevenzione degli abusi contro i minori.
"Ritornar nel chiaro mondo" (Dante, Inferno, XXXIV, v. 134). *
Pedofilia, il gesto dei vescovi cileni «necessario per un nuovo inizio»
Così la docente presso la Pontificia Università Cattolica di Santiago commenta le dimissioni collettive dei presuli: da Francesco un segnale forte per tutta la Chiesa Che sta dando frutti
di Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 19 maggio 2018)
«La Chiesa cilena ha aperto le finestre per far entrare lo Spirito. Lo sento soffiare con forza in questo momento». Sandra Arenas, teologa di spicco e docente della Pontificia Università Cattolica di Santiago, ricorre alla nota metafora di san Giovanni XXIII per analizzare la temperie attuale. Un periodo intenso, «di crisi ma anche di straordinaria opportunità di intraprendere un nuovo cammino », sottolinea. In tale ottica vanno interpretate le cosiddette “dimissioni in blocco” dell’episcopato del Paese australe.
Un atto, al contempo, individuale e collettivo. Ognuno dei 32 vescovi in carica ha rimesso l’incarico nelle mani del Pontefice. Compiendolo insieme, nel medesimo istan- te, «essi decidono di farsi carico, come corpo episcopale, di un problema trasversale e sistemico. Un gesto, forse tardivo, ma di sicuro coraggioso. Con cui i vescovi riconoscono di non essere stati all’altezza delle circostanze, al di là delle responsabilità, più o meno gravi, dei singoli. Ed esprimono la disponibilità ad avviare un processo di conversione profonda, personale e comunitaria, per rendere la Chiesa più conforme al mandato evangelico. La notizia mi ha dato molta speranza».
Il gesto dell’episcopato arriva all’indomani di tre giorni di preghiera e meditazione con papa Francesco. Che cosa significa questo metodo di “discernimento congiunto” proposto dal Pontefice?
Rappresenta un precedente per la Chiesa universale, non solo cilena. Francesco ha dato l’esempio, negli ultimi cinque mesi, di come un pastore deve affrontare una situazione difficile.
In che modo?
Egli per primo s’è lasciato “provocare” dalla realtà - incontrata nel viaggio e sottolineata dal commento del cardinale Sean O’Malley - e si è sottoposto per primo, con umiltà evangelica, a un processo di discernimento. Da qui è maturata la prima richiesta di perdono, la volontà di fare chiarezza e di accettare la realtà, in tutta la sua durezza e scomodità. Né la Chiesa né una comunità di perfetti né Francesco un superuomo. Invece di proporsi come tale, ha ammesso pubblicamente il proprio errore e ha cercato di porvi rimedio. In modo innovativo. A conclusione della missione di Scicluna e Bertomeu ha avviato una seconda fase di discernimento comunitario. Prima con le vittime, poi con i vescovi. Un’esperienza concreta di sinodalità, assunta a pieno, in una contingenza critica, in cui più forte è la tentazione di “prendere in mano le redini” da soli. In tal modo, Bergoglio ha mandato un messaggio forte all’intera Chiesa. E, nel caso particolare cileno, possiamo vedere che il ’metodo Francesco’ sta producendo frutti.
Lei ha parlato di ’problema sistemico’. Che cosa intende?
Al di là del caso Karadima e dei ’gravi errori ed omissioni’ di alcuni, la Chiesa cilena ha mostrato, negli ultimi decenni, una disfunzione di fondo. Una certa “spiritualità da sacrestia”, cioè un forte clericalismo, l’ha separata dal resto della società. Lo hanno riconosciuto gli stessi vescovi nella loro lettera quando affermano la necessità di dare nuovo impulso alla missione profetica e di rimettere Cristo al centro. Al suo posto, nel passato recente, la Chiesa ha messo se stessa e i propri interessi. O, peggio, quelli del proprio gruppo, del proprio settore, della propria comunità. L’autopreservazione e autodifesa a oltranza hanno ferito la comunione ecclesiale.
Come ripartire?
Francesco ha indicato la direzione: la sinodalità. Solo da un processo di discernimento approfondito e condiviso tra vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, possono venire quelle misure di lungo periodo affinché il «volto del Signore torni a risplendere nella nostra Chiesa».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ... *
’My mirror’, nell’era dei selfie specchiarsi nell’altro è rivoluzionario
Esperimento di ’eye contact’, 4 minuti per guardarsi negli occhi altrui
di Redazione ANSA *
Guardarsi foto bowie15 iStock. © Ansa Guarda le foto...
MILANO.
Una doppia cabina, in cui due sconosciuti si siedono uno di fronte l’altro, per 4 minuti, semplicemente per guardarsi negli occhi. Al termine di questa breve interazione, ognuno dei due, assistito da alcuni facilitatori, racconta all’altro le sensazioni che ha provato.
E’ ’My mirror’, un nuovo esperimento di eye contact, organizzato da Caritas Ambrosiana, che sarà possibile sperimentare a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili dal 23 al 25 marzo.
Le tecniche di eye contact - spiegano gli organizzatori - dimostrano che 4 minuti di contatto visivo avvicinano le persone più di tante parole.
Così, con My Mirror si proverà a favorire l’incontro tra tante persone diverse, per genere, età, nazionalità, storie. L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario e comunque non lascia nessuno indifferente
Secondo le stime, in media, ognuno di noi passa 5 anni della propria vita collegato a internet, 11 davanti alla tv. Con quante persone potremmo connetterci se ci prendessimo la briga di guardaci negli occhi gli uni con gli altri? E come cambierebbe la percezione che abbiamo del mondo?
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
My Mirror fa parte della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey” volta a promuovere la “cultura dell’incontro”.
* ANSA, 23 marzo 2018 (ripresa parziale - senza foto).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
*
Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO. ..
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’,.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" ("DEUS CARITAS EST", 2006)!!! UNA VULGATA DEI MERCANTI DEL TERZO MILLENNIO "PRIMA DELA NASCITA DI CRISTO"..... *
Corte Strasburgo: Gesù e Maria possono essere testimonial pubblicità
Bocciato stop giustizia lituana a campagna che ne usava immagini
Roma, 30 gen. (askanews) - Utilizzare i nomi e le immagini di Gesù e Maria in una campagna pubblicitaria è lecito: lo ha stabilito la Corte europea per i diritti umani, definendo “ingiustificabile” il provvedimento con cui la giustizia lituana era intervenuta a bloccare l’iniziativa in quanto contraria alla pubblica morale.
Come riporta il sito di The Baltic Course la campagna (lanciata dal designer di abbigliamento Robert Kalinkin) risale al 2012, e impiegava due modelli, un giovane dai capellim lunghi e una donna con un vestito bianco, e le legende “Gesù, che pantaloni”, “Maria cara, che vestito” e simili.
L’ente statale per la commercializzazione dei prodotti non alimentari aveva imposto una multa agli organizzatori dopo aver ricevuto delle lamentele da parte di alcuni consumatori, prima che la magistratura ordinasse la sospensione della campagna.
Per la Corte tuttavia “la campagna non appariva gratuitamente offensiva o blasfema, né incitava all’odio religioso o attaccava la religione in maniera abusiva o ingiustificata”: non era possibile “dare per certo che qualunque fedele cristiano ritenesse necessariamente offensiva la pubblicità, e il governo lituano non ha presentato alcuna prova in contrario; ma anche se la maggioranza della popolazione lituana fosse stata di questo avviso, l’esercizio dei diritti della Convenzione da parte di una minoranza non può essere condizionato al volere della maggioranza”.
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola (la Repubblica, 30.01.2018)
Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.
Marino Niola è antropologo della contemporaneità. Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
"ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS"), DALLA GRAZIA ("gr.: "XAPIS", lat.: "CHARIS") DI DIO AMORE ("CHARITAS"), NON DI DIO MAMMONA ("CARITAS") ...
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Giravolte dottrinali di Bergoglio, 45 teologici criticano “Amoris laetitia”
di Gianni Toffali (Imola Oggi, lunedì, 25, luglio, 2016)
Ai primi di Luglio un gruppo di 45 teologi, filosofi e pastori di anime ha consegnato al Cardinale Angelo Sodano, Decano del Sacro Collegio, una forte critica dell’Esortazione Apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Nelle prossime settimane il documento, in diverse lingue, sarà fatto pervenire ai 218 Cardinali e ai Patriarchi delle Chiese Orientali, chiedendo loro di intervenire presso Papa Francesco per ritirare o correggere le proposizioni erronee del documento.
Nel descrivere l’esortazione come contenente “una serie di affermazioni che possono essere comprese in un senso contrario alla fede e alla morale cattoliche“, i firmatari hanno presentato insieme all’appello una lista di censure teologiche applicabili al documento, specificando “la natura e il grado degli errori che potrebbero essere imputati ad Amoris laetitia”.
I 45 uomini di chiesa hanno chiesto al Collegio dei Cardinali che, nella loro veste di consiglieri ufficiali del Papa, rivolgano al Santo Padre la richiesta di respingere “gli errori elencati nel documento, in maniera definitiva e finale e di affermare con autorità che Amoris Lætitia non esige che alcuna di esse sia creduta o considerata come possibilmente vera“.
“Non accusiamo il papa di eresia“, ha detto il portavoce degli autori, “ma riteniamo che numerose proposizioni in Amoris lætitia possano essere interpretate come eretiche sulla base di una semplice lettura del testo. Ulteriori affermazioni ricadrebbero sotto altre censure teologiche precise, quali, fra l’altro, “scandalosa”, “erronea nella fede” e “ambigua”.
A suffragare gli errori dottrinali dell’esortazione apostolica, è arrivato il segretario di Papa Ratzinger Padre Georg Gänswein, che in un’intervista al quotidiano tedesco Schwäbische Zeitung, ha rincarato le mazziate ponendo più di un interrogativo sulle piroette dottrinali di papa Francesco”. “Quando un Papa vuole cambiare qualcosa nella dottrina, allora deve dirlo con chiarezza, in modo che sia vincolante”, ha affermato il prefetto della Casa Pontificia, “importanti concetti dottrinali non possono essere cambiati da mezze frasi o da qualche nota a piè di pagina formulata in modo generico. Dichiarazioni che aprono a diverse interpretazioni sono rischiose. Alcuni vescovi hanno davvero la preoccupazione che l’edificio della dottrina possa subire delle perdite a motivo di un linguaggio non cristallino”.
Nell’incredibile j’accuse sottovalutata dai media, l’alto prelato ha aggiunto che “La certezza che il Papa sia una roccia nei marosi, ritenuto come l’ultima ancora, ha iniziato in effetti a vacillare. La mia impressione è che Francesco goda di grande simpatia come uomo più di tutti gli altri leader del mondo. Ma riguardo alla vita e all’identità della fede questa sua simpatia non sembra avere grande influenza. I dati statistici, se non mentono, mi danno purtroppo ragione. Le presenze alle messe non sono aumentate, così come le vocazioni e il ritorno alla Chiesa di chi ha abbandonato non è in crescita. Insomma, visto da dentro, dal centro del centro del mondo l’effetto Francesco è solo mediatico“. Parole bomba che non lasciamo adito ad alcun dubbio: nonostante i reciproci apparenti salamelecchi dei giorni scorsi dei due papi (di qui uno, evidentemente non è vero papa), la resa dei conti è arrivata. Con buona pace di chi ravvisava teologiche corrispondenze amorose tra il “nonno saggio” e il papa più fotogenico dei rotocalchi mondiali.
Gianni Toffali
La “moneta falsa” del filantrocapitalismo.
Una riflessione sulla «carità dei ricchi» *
FILANTROPIA
Tra cariTà e giusTizia
Renato Piccini
La filantropia è diventata di moda nel sistema neoliberista. Per capire, quindi, cos’è, la sua vera natura, il peso che ha nei rapporti economico-sociali, quali sono i suoi meriti e demeriti, è necessario guardare dentro il sistema economico capitalista. Oggi, infatti, vi è una nuova concezione, definita filantrocapitalismo.
La filantropia vuol essere la faccia buona del capitalismo, il suo volto pulito, che giustifica le sue scelte fondamentali, anche quelle della più assurda sperequazione sociale, l’impressionante ingiustizia che genera. (...). Non per niente, infatti, il Paese in cui è più diffusa la filantropia, gli USA, è anche quello in cui la sperequazione sociale raggiunge livelli tra i più alti del mondo.
La filantropia, nella concezione capitalista, esclude ogni senso di giustizia. (...). Chi “fa” filantropia non si sente legato ad alcun obbligo né legge e la esercita in piena libertà, secondo i propri “sentimenti” ma, soprattutto, secondo calcoli economico-politici. Chi la riceve sa che non ha alcun diritto e quindi raccoglie quella “moneta” con un duplice obbligo morale: non calcolare il dono secondo le proprie necessità; accoglierlo, soprattutto, con la massima gratitudine per aver ricevuto ciò cui non aveva diritto.
La giustizia è un obbligo di coscienza (e di legge) per chi deve praticarla e, per il destinatario, è un diritto da rivendicare. (...). Linsey McGoey (...) si interroga sull’efficacia ed efficienza dell’attuale filantropia (non molto diversa da quella del passato), soprattutto nell’ottica del filantrocapitalismo, rendendo evidente che la filantropia non viene esercitata secondo i bisogni e le necessità dell’uguaglianza - un diritto che è di tutti, al di là di ogni cultura, fede, geografia... - ma solo secondo la “bontà” (leggi “interessi”) dei padroni del denaro.
È DAVVERO EFFICIENTE LA FILANTROPIA?
In uno dei suoi racconti brevi, La moneta falsa, Charles Baudelaire descrive un incontro immaginario tra due amici che incrociano per strada un mendicante. Entrambi danno l’elemosina, però la moneta che lascia cadere uno di essi è molto più preziosa. Il narratore elogia la sua generosità e il suo compagno gradisce il complimento, però poi, lontano dal mendicante, aggiunge: «Era una moneta falsa».
Il narratore rimane sbalordito. Non soltanto perché il suo amico ha ingannato il mendicante, ma per la sua soddisfazione di apparire generoso. La soddisfazione deriva dal fatto che il mendicante non si rende conto di essere stato ingannato. Il narratore considera che «aveva voluto fare, a un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; pigliarsi senza spesa la fama d’uomo caritatevole».
Baudelaire scrisse questa storia nella seconda metà del XIX secolo, quando industriali come Andrew Carnegie e John Rockefeller cominciavano a investire le loro grandi fortune nelle maggiori azioni di filantropia mai viste prima. Dalle donazioni di Carnegie a biblioteche pubbliche sino agli investimenti di Rockefeller in ricerche biomediche, entrambi cambiarono il modo di fare carità, che passò da donazioni poco sistematiche a una forma di affare in se stesso, controllato da consulenti pagati.
Molti, tuttavia, non si sentivano riconoscenti per la generosità di questi robber barons (baroni ladri). Nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Oscar Wilde criticò la tendenza dei benefattori di usare la carità come copertura dinanzi alle richieste di una giusta redistribuzione della ricchezza. «I migliori tra i poveri - scrisse Wilde - non sono mai riconoscenti [ai benefattori]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. [...]. Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero essere seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!».
Ora che la filantropia entra in una seconda epoca d’oro, con donazioni di benefattori come Bill Gates e Warren Buffett (...), gli scettici cominciano a chiedersi se le preoccupazioni di Wilde e Baudelaire siano ancora attuali. I filantropi di oggi stanno coscientemente distribuendo “monete false”? Stanno cercando di “conquistarsi senza sforzi la fama d’uomo caritatevole”?
Nella maggior parte dei casi non è così. Le donazioni vengono realizzate in buona fede, con empatia verso vicini o lontani sconosciuti. Sta però affermandosi una nuova tendenza: il filantrocapitalismo, che cerca di combinare il guadagno con la riduzione della povertà. Dietro a questa nuova filantropia c’è il tentativo di fare una buona azione e, allo stesso tempo, realizzare un buon affare. È ancora valido l’interrogativo che si pose Baudelaire: chi trae più vantaggio dagli aiuti di carità, il donatore o il destinatario?
MISURAZIONE DEI RISULTATI
Nell’avanguardia della nuova filantropia si trova il movimento dell’“altruismo efficiente”, che (...) pone l’accento sulla misurazione dei risultati. Un pioniere è Peter Singer, discusso bioetico che ha elogiato Buffett e Gates come “gli altruisti più efficienti della storia”. (...).
L’organizzatore di una recente conferenza sull’altruismo efficiente, svoltasi nel campus di Google in Mountain View, arrivò al punto di affermare che «l’altruismo efficiente potrebbe essere l’ultimo movimento sociale di cui abbiamo bisogno ». Tuttavia è evidente che l’aumento globale delle donazioni negli ultimi dieci anni non è riuscito a ridurre le disuguaglianze economiche. (...).
Carnagie pubblicò il suo primo saggio sulla ricchezza, nel quale esortava i ricchi a condividere il loro bottino, solo pochi anni prima dello sciopero di Homestead del 1892, una delle più sanguinose rivolte di lavoratori della storia degli USA. Carnagie, nel momento in cui combatteva e annientava i grandi sforzi sindacali in espansione, dispensava anche “generosi aiuti” ai suoi lavoratori.
«Paradossalmente - ha segnalato David Nasaw, biografo del filantropo - Carnagie divenne sempre più spietato nella ricerca di guadagni una volta che decise di distribuirne i benefici». «Nel sostenere che il milionario è l’unico a poter decidere dove destinare i suoi milioni e che quanto egli considera migliore è il meglio - aggiunge Nasaw - Carnagie promulgava una verità profondamente antidemocratica, quasi feudale, del suo paternalismo».
Gli altruisti efficienti insistono sul fatto che la filantropia privata è la via più adatta per migliorare la vita. «I filantrocapitalisti di oggi vedono un mondo pieno di grandi problemi che loro, e forse soltanto loro, possono e debbono risolvere », scrivono Matthew Bishop e Michael Green in Filantrocapitalismo: come i ricchi possono cambiare il mondo, la Bibbia dei nuovi filantropi. (...).
Come ai tempi di Carnegie, la filantropia in molte occasioni viene utilizzata come giustificazione per decisioni lesive per la maggioranza della popolazione. «Ho donato 5 milioni di dollari per diverse cause. E ho una grande voglia di farlo sapere», scriveva su Twitter, a metà settembre del 2015, Martin Shkreli, consigliere delegato dell’impresa farmaceutica Turing, criticata duramente per aver aumentato il prezzo del Darapi (un medicinale di prima necessità usato contro gravi malattie infettive che colpiscono il sistema immunitario, ndt) di oltre il 5.000%. Questo è un eccellente esempio di filantrocapitalismo in azione: l’uso della filantropia per sviare l’attenzione da pratiche commerciali che impediscono l’accesso a medicinali salvavita. (...).
LE CONTRADDIZIONI DELLA FILANTROPIA: OPPORTUNITÀ DI PROGRESSO O AMMORTIZZATORE SOCIALE?
La filantropia viene ritenuta in diversi settori della società essenziale nel contesto del XXI secolo. I fautori ne difendono l’importanza e la necessità come argine agli effetti dell’attuale sistema capitalista “selvaggio”. Molte, però, sono le voci contrarie. (...).
«La filantropia - scrive Slavoj Zizek - è il modo in cui il sistema conserva lo status quo. La sua funzione è nascondere l’origine del problema. Grazie alla beneficienza il capitalismo si può auto-assolvere. La beneficienza diviene parte integrante del sistema, la carità fa parte dell’ideologia generale di oggi». Invece di porsi interrogativi seri su cosa sta succedendo e cercare vie d’uscita che garantiscano il bene comune, si delegano le soluzioni al “buon cuore” di chi ha denaro. (...). «La carità - continua Slavoj Zizek - è la maschera comunitaria che si nasconde dietro lo sfruttamento
economico. Per me il modello insuperabile di ciò che io considero “carità falsa” continua a essere Carnegie. Va bene, fece di tutto, costruì anche spazi culturali, per concerti, ecc... però assunse anche centinaia di detective Pinkerton in Texas per piegare i lavoratori in sciopero e liquidare i sindacati. Questo è per me il modello: prima colpisce brutalmente i lavoratori e poi... offre loro un concerto».
Peter Buffett, figlio di Warren Buffett e, come lui, uno dei più grandi filantropi statunitensi - quindi non “sospettabile” di sentimenti antifilantropici - fa un’analisi interessante: «La carità dei ricchi ha creato una macchina di povertà eterna. [...]. Nelle riunioni dei grandi filantropi si possono vedere capi di Stato, operatori economici, direttori di grandi imprese, capi di corporation transnazionali... che con la mano destra cercano soluzioni per risolvere problemi che i presenti nella sala hanno creato con la mano sinistra. [...]. Nella misura in cui la vita di un numero sempre più alto di individui e comunità viene distrutta da un sistema che crea enormi volumi di ricchezza per poche persone, si rafforza la filantropia come sistema per lavarsi la coscienza con la donazione di qualche briciola». (...).
La carità non arriva mai al nucleo del problema, nei casi migliori lo sfiora soltanto. Non si tratta di essere contro la carità, ma è necessario riconoscere l’ipocrisia di un sistema che, con una mano, “accumula e centralizza il capitale” e, con l’altra, “fa la carità per ridistribuire qualcosa”. (...).
José Ignacio Fernández scrive: «Nel capitalismo carità e ipocrisia sono due pilastri essenziali per la sua sopravvivenza: permettono ai ricchi di nascondere l’esistenza di meccanismi sistemici che generano disuguaglianza e ingiustizia sociale. È un po’ il gioco delle maschere per nascondere il comportamento egoista e il furto sistematico».
I sostenitori della filantropia la difendono come garanzia della vera “sostenibilità” che consiste non nel limitarsi “a dare un pesce a chi ha fame, ma nell’insegnargli a pescare”. La “legge della foresta” che “regola” i mercati, affermano, continuerà a creare bolle speculative che apriranno crisi ricorrenti... e il capitalismo produrrà sempre vincitori e vinti, lasciando molta gente vulnerabile e in grandi difficoltà. Se non si corregge qualcosa di queste disuguaglianze, i “vinti”, anche grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, hanno la possibilità di “rovinare la festa” ai vincitori. La filantropia è essenziale per la sopravvivenza dell’umanità perché i grandi filantropi sono gli unici che possono “pensare in grande”. (...).
Il filantrocapitalismo non è altro che applicare alla solidarietà e alla carità i meccanismi imprenditoriali che hanno permesso di accumulare ricchezze multimilionarie. Harry Browne scrive: «L’idea è geniale: fatti ricco nello stesso tempo in cui salvi il mondo!».
Stephan Ernest Schmidheiny è un imprenditore svizzero condannato a 18 anni di carcere dalla Corte d’Appello di Torino per il disastro ambientale provocato dall’amianto negli stabilimenti Eternit in Italia e nei territori limitrofi, poi prosciolto in via definitiva per intervenuta prescrizione di reato e rimasto unico imputato nel processo Eternit-bis per l’ipotesi di reato di omicidio volontario di 258 persone.
In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo, un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia l’hanno giudicato colpevole di disastro ambientale.
Slavoj Zizek (e molti altri) afferma che l’economia capitalistica attuale ingloba l’etica filantropica assumendola come proprio fondamento, un fondamento contraddetto dalle stesse logiche del capitale. Questo meccanismo perverso fa sì che, di fatto, si verifichi «una sovrapposizione tra etica e consumo: chi consuma può comprare, allo stesso tempo, un’azione etica. La redenzione del consumismo è nel consumo stesso».
La pubblicità che si fa delle grandi donazioni filantropiche aiuta a migliorare l’immagine della marca del donatore, associandola a una percezione di impegno sociale. (...). La filantropia diventa così un’ottima arma di concorrenza, un ottimo strumento di pubblicità e marketing.
La filantropia serve al cambiamento sociale? (...). Il giornalista Pere Rusiñol scrive: «L’età d’oro della filantropia è indiscutibile, però le maggiori quote storiche di fondi della filantropia coincidono con le maggiori quote di disuguaglianza della storia contemporanea. L’aumento delle elargizioni della filantropia e della disuguaglianza percorrono strade parallele». Le donazioni filantropiche negli USA si sono triplicate nello stesso periodo in cui gli ultraricchi hanno triplicato anche la loro parte di torta.
Naturalmente ci sono ragioni precise ed evidenti (...). Secondo i calcoli dell’economista francese Thomas Piketty, negli ultimi trent’anni il tasso effettivo delle imposte del 99% dei cittadini statunitensi è stato, praticamente, costante, mentre per i super-ricchi, in seguito alle detrazioni per “opere benefiche”, è passato dal 72 al 35%.
Lo stesso avviene per le grandi corporazioni con la diminuzione delle imposte per l’aumento della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR - Corporate Social Responsability). (...). L’economista francese Gabriel Zucman mette in guardia sul fatto che questa nuova età d’oro della filantropia, basata sulla riduzione delle imposte pagate dai ricchi e dalle imprese, «mina le fondamenta stesse del controllo sociale. Una società nella quale i ricchi decidono per proprio conto quante imposte pagare e a quali servizi pubblici sono disposti a contribuire non è una società civile. Questo è ciò che succedeva nella società vittoriana del XIX secolo e non dovrebbe succedere nel XXI. Se i multimilionari sono liberi di contribuire alla società, perché debbono pagare imposte? L’atteggiamento di molti, in particolare in Silicon Valley, si riassume in: smetti di farmi pagare imposte e darò la mia ricchezza alle cause che ritengo valgano la pena».
Molte “cause che valgono la pena” hanno quasi sempre a che vedere con la fede assoluta nella tecnologia in grado di risolvere, per se stessa, i problemi dell’umanità. Le fondazioni dei filantrocapitalisti sono lo strumento più importante usato dal capitale per penetrare in settori strategici dove fare affari (salute, educazione, ambiente, comunicazione...).
Ricercatori inglesi e tedeschi sono molto critici circa il potere decisionale dei grandi filantropi in grado di imporre a entità pubbliche e organizzazioni internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, Organizzazione Mondiale del Commercio, ONU, ecc...) sia l’agenda - i problemi che debbono essere presi in considerazione - sia la metodologia per affrontarli e gli obiettivi che ci si pongono, privilegiando le “soluzioni” idonee e congeniali alle transnazionali. Questi milionari rappresentano un pericolo poiché possono imporre le loro priorità nel mondo, al margine di governi e del sistema democratico: la democrazia diventa una mera facciata al servizio del potere economico-finanziario.
La Fondazione Gates, ad esempio, finanzia campagne in campo sanitario, ma, attraverso intense campagne di lobby, difende anche la validità della proprietà intellettuale per assicurare ampi benefici ai suoi brevetti di software. I brevetti, però, colpiscono anche medicinali e sementi, condizionando pesantemente il diritto alla salute e all’alimentazione di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri.
La filantropia, infatti, è anche espressione delle lobby più potenti, in grado di condizionare ogni aspetto della vita, della politica, dell’economia. (...). Per il mondo della filantropia l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa è abituale: è indispensabile poter contare sull’informazione per far passare il proprio messaggio e portare a casa grandi profitti. (...). Naturalmente, anche in questo campo c’è un uso perverso del linguaggio: cancellati termini riconducibili a diritti sociali, si parla di “necessità” a cui rispondere con azioni filantropiche. (...).
Slavoj Zizek afferma: «La filantropia ha sostituito la politica ». La politica non è più un “affare comune”, è affidata a “professionisti” e rappresentanti, mentre il semplice cittadino deve limitarsi a preoccuparsi/occuparsi dei propri “affari privati”.
Nella privatizzazione “selvaggia”, a tutto campo, del sistema neoliberale, il “cittadino” diviene “insignificante”, non ha voce né spazio, non è ritenuto in grado di decidere cosa sia bene per lui - e tanto meno per la società - per cui ha l’obbligo di “scegliere” ciò che è stato scelto da altri per lui. (...).
Rhodes Diaves, responsabile del programma Giving Thought, della Charities Aid Foundation, chiede: «Come è possibile affrontare ingiustizia e disuguaglianze, quando la filantropia è possibile proprio come risultato della mancanza di equità?». (...).
Andando al di là di ideologie ed emozioni, se analizziamo a grandi linee il ruolo storico della filantropia, le sue conseguenze sociali, economiche e culturali, sembra che questa sia stata più una nemica che un’alleata nella trasformazione dell’attuale sistema economico verso uno più giusto ed equilibrato: una società veramente sana, retta da un modello basato su giustizia ed equità, non avrebbe alcun bisogno di gesti filantropici. Oscar Wilde diceva: «Il vero obiettivo deve esser quello di ricostruire la società in modo tale che la povertà sia impossibile ».
La filantropia rientra nella logica di privatizzare gli interventi su effetti, sintomi, conseguenze che non colpiscono mai le cause, perché queste sono originate dal sistema e ne perpetuano la priorità, prima tra tutto la demolizione del Welfare.
Di certo lo Stato attuale si allontana sempre più da un reale Stato di diritto, rappresentativo dei diritti e degli interessi delle maggioranze, preso com’è tra le spire soffocanti dell’economia e del potere finanziario internazionale, però il futuro della storia non può essere affidato a chi del sistema vive e che tale sistema ha creato e perpetuato: pure questo è un campo aperto da affrontare e per cui lottare.
* Adista/Documenti, 30 LUGLIO 2016 • N. 28
Il dossier.
Palazzi, alberghi e ospedali
2 mila miliardi di patrimonio quanto vale “Vaticano spa”
Un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, e appartamenti di lusso spesso affittati a politici a prezzi di favore
di Corrado Zunino (la Repubblica, 17.05.2016)
ROMA. La chiesa cristiana e cattolica, con i rami diretti e le sue arciconfraternite, gli enti morali, le società di soccorso, gli almi collegii e le ancelle, con le fondazioni, le banche e le immobiliari che rimandano a fondi chiusi, possiede nel mondo - è la stima più credibile, racchiusa tuttavia in nessun documento ufficiale - un milione di immobili per un valore di duemila miliardi. Chiese, naturalmente, e queste non sono alienabili essendo costruite sulla Pietra evangelica. Poi sedi parrocchiali, case generalizie, istituti religiosi, conventi, missioni, case di riposo, seminari, centri di cura e bellezza, ospizi, orfanotrofi, asili, pii alberghi per turisti e pellegrini, terreni e molte abitazioni civili date in locazione. Solo tra ospedali, scuole e università la chiesa cristiana e cattolica può contare sullo stesso numero di edifici presente negli Stati Uniti.
UN QUARTO DI ROMA
Di quel milione di “cose” di proprietà, settecentomila beni materiali sono all’estero, trecentomila in Italia concentrati, questi, in Lombardia e Veneto, naturalmente a Roma. Secondo il Gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze al Vaticano sul tema, il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è tutt’oggi proprietà della chiesa: 115 mila pezzi. Lo calcolò per primo Paolo Ojetti in un’inchiesta per l’Europeo del gennaio 1977 che rivelò come un quarto della capitale fosse nelle mani della Chiesa apostolica. Solo a Roma ogni anno vengono registrati 8-10 mila testamenti a favore del clero.
I due istituti operativi vaticani sul fronte immobiliare, spesso confusi, sono Propaganda Fide e l’Apsa. Gli appartamenti di Propaganda, di lusso, valgono 9 miliardi di euro. Tra le 957 case di proprietà spesso usate come merce di scambio e cedute con larghi sconti (il palazzetto di tre piani e 42 vani di via dei Prefetti, a Roma, venduto a costo calmierato all’ex ministro Pietro Lunardi in cambio della ristrutturazione a spese pubbliche della sede di Propaganda in piazza di Spagna), 725 immobili sono nella capitale. E sono diventati affitti buoni per l’ex vicedirettore generale Rai Antonio Marano, il capo delle missioni sporche della Protezione civile Mauro Della Giovampaola, il direttore dell’Enac aeroportuale Vito Riggio, l’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino, l’ex ragioniere generale Andrea Monorchio. Di Propaganda sono l’attico abbacinante di Bruno Vespa, l’appartamento di Cesara Buonamici, lo show room dell’Oreal, il mega solarium Priscilla che al Vaticano versa solo 3.000 euro il mese. All’epoca di Angelo Balducci gentiluomo del Papa, l’ingegnere pubblico girava in auto con la mappa degli appartamenti della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli pronto a suggerire le case migliori a buoni conoscenti.
LE CASE-REGGIA DEI CARDINALI
Poi c’è l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede cattolica, con i suoi 5.050 appartamenti affittati a prezzo di mercato agli sconosciuti e a canone zero a chi ha servito la chiesa: giuristi, letterati, direttori sanitari. Sono 860 le locazioni gratuite. Innanzitutto, quelle per le case-reggia dei 41 cardinali di prima fila: tutti intorno a San Pietro. Quindici in piazza della Città Leonina dove spiccano i 368 metri quadrati del penitenziere maggiore Mauro Piacenza, otto in piazza di San Callisto con i 472 metri del francese Roger Etchegarray, sei in via Rusticucci con l’appartamento del prefetto della Congregazione per le chiese orientali, Leonardo Sandri: 522 metri di stucchi e biblioteche. Tre sono in via Pfeiffer, dove s’allargano i 525 metri da primato dello statunitense William Joseph Levada.
Nel tentativo di ricostruire e mettere a sistema i possedimenti Apsa, monsignor Lucio Vallejo Balda, a capo della commissione Cosea, ha scatenato l’ultima guerra in Vaticano, che poi è diventata il processo Vatileaks 2. Papa Francesco ha già detto molto sulle “case dei principi” della chiesa.
GLI EX CONVENTI B&B
Il turismo religioso nei più famosi luoghi di pellegrinaggio offre 200 mila posti letto e vale 4,5 miliardi. Il calo delle vocazioni ha svuotato abbazie e monasteri, più di duemila in Italia, e moltiplicato i cantieri per trasformare antichi conventi in bed and breakfast. A Roma un palazzo del Borromini nella titolarità delle suore Oblate di Santa Maria dei Sette dolori è diventato un hotel da 62 camere.
Il richiamo del Papa ai vescovi
“Siate sobri, basta proprietà”
Francesco apre l’assemblea della Cei: “Bruciate le ambizioni di carriera e di potere. Rinunciate ai beni non necessari”
Su “La Croix” parla di dialogo con l’Islam
“Eutanasia e nozze gay? Decida il parlamento”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.05.2016)
CITTÀ DEL VATICANO. Chi aspettava un intervento sulle vicende politiche italiane, dalle unioni civili all’immigrazione, è rimasto deluso. Le parole di ieri pomeriggio di Papa Francesco all’annuale assemblea generale della Cei sono entrate invece con forza nel tema principale della stessa assemblea: il rinnovamento del clero. Un tema caldo, per la Chiesa, perché tracciare l’identikit del sacerdote significa indicare un modello preciso, che per Bergoglio dista anni luce dalle tentazioni del carrierismo e del personalismo: «I preti - ha detto - brucino sul rogo le ambizioni di carriera e di potere».
Per Francesco il sacerdote ideale è colui che «non ha un’agenda da difendere» ma «si fa prossimo di ognuno», ha uno «stile di vita semplice ed essenziale» che lo rende credibile ed è «attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi». E per quanto riguarda la «gestione delle strutture e dei beni economici» Francesco dice ai vescovi riuniti le parole forse più incisive: «In una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio».
Il ritorno all’essenziale è il leitmotiv degli interventi tenuti da Francesco in questi tre anni di pontificato davanti alla Chiesa italiana. Se al convegno ecclesiale di Firenze aveva evocato la figura del don Camillo di Guareschi, ieri ha parlato dei «tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità». La loro vita, come la vita di tutti i preti, è «eloquente » se è «diversa, alternativa ». Il prete «è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto” che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco». E ancora, le parole più immaginifiche: «È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano». Messi al bando sia «il freddo rigorismo» che un «buonismo» fatto di «superficialità e accondiscendenza a buon mercato», il prete «con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza».
Non è stato un monito quello di Francesco. Né un anatema. Non ha sgridato nessuno. Piuttosto si è messo «in ascolto» dei preti, avvicinandosi «quasi in punta di piedi» ai tanti parroci, per capire da loro quale sia l’identikit del sacerdote oggi. Bergoglio, come quando era arcivescovo di Buenos Aires, impara dal clero e dal meglio di esso desume le linee utili per tutti: il sacerdote, ha detto, non è un burocrate, non mira all’efficienza, non si scandalizza per le fragilità. È uomo di pace, sempre disponibile con le persone perché «in questo tempo povero di amicizia sociale il nostro primo compito è quello di costruire comunità».
La giornata di ieri del Papa è stata caratterizzata anche da un’intervista al quotidiano cattolico La Croix. Francesco è tornato a parlare dell’immigrazione causata dalle guerre e dal sottosviluppo, dei trafficanti di armi e dell’integrazione: «La coesistenza tra cristiani e musulmani è possibile - ha detto - In Centrafrica, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e devono reimparare a farlo oggi. Il Libano mostra che ciò è possibile». E ancora: «Non credo che ci sia oggi una paura dell’islam, in quanto tale, ma di Daesh (Is, ndr) e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’Islam ». E a una domanda su eutanasia e unioni civili ha risposto che tocca al parlamento discuterne. Poi, quando una legge è approvata, lo Stato deve rispettare le coscienze, l’obiezione è un diritto umano anche per i funzionari pubblici.
Francesco non dà tregua al male oscuro della Chiesa: "Soldi e potere, tentazioni che distruggono"
Nell’omelia a Santa Marta, il Papa ricorda il passo del Vangelo in cui Gesù parla di umiltà e i discepoli preferiscono discutere su chi tra di loro sia il più grande. "Accade anche oggi in ogni istituzione della Chiesa. Tutti con la voglia di ricchezza, vanità, orgoglio. Nessuno di noi può dire: sono una persona santa e pulita" *
CITTA’ DEL VATICANO - "La via che indica Gesù è la via del servizio, ma spesso nella Chiesa si ricercano potere, soldi e vanità". Sono le parole con cui Papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta, ha messo in guardia dagli "arrampicatori" che anche nel mondo cattolico sono tentati di distruggere l’altro "per salire in alto". Tornando dunque a ribadire il messaggio lanciato lanciato ieri all’Assemblea dei vescovi italiani: i cristiani devono vincere la "tentazione mondana" che divide la Chiesa.
A Santa Marta, Francesco ha commentato il passo del Vangelo in cui "Gesù insegna ai suoi discepoli la via del servizio, ma loro si domandano chi sia il più grande tra loro. Il Maestro parla un linguaggio di umiliazione, di morte, di redenzione. Loro parlano un linguaggio da arrampicatori: chi andrà più in alto nel potere?". Esattamente, ha accusato il Papa, quanto "accade oggi in ogni istituzione della Chiesa: parrocchie, collegi, istituzioni, anche i vescovadi. Tutti con la voglia dello spirito mondano di ricchezza, vanità, orgoglio. Nessuno di noi può dire: no, io sono una persona santa e pulita. Tutti noi siamo tentati da queste cose, siamo tentati di distruggere l’altro per salire su. Questo spirito mondano, nemico di Dio, è una tentazione che divide e distrugge la Chiesa".
"Questa voglia mondana di essere con il potere - ha proseguito Bergoglio -, non di servire ma di essere servito, non si risparmia mai come arrivare: le chiacchiere, sporcare gli altri. L’invidia e le gelosie fanno questa strada e distruggono. Questo noi lo sappiamo, tutti. E tutti siamo tentati da queste cose, siamo tentati di distruggere l’altro per salire in su. E’ una tentazione mondana, ma che divide e distrugge la Chiesa, non è lo Spirito di Gesù".
Il Papa ha invitato quindi a immaginare la scena: Gesù che parla di umiltà e i discepoli che preferiscono discutere su chi di loro sarà il più grande. "Ci farà bene - ha sottolineato il Pontefice - pensare alle tante volte che noi abbiamo visto questo nella Chiesa. E alle tante volte che noi abbiamo fatto questo. E chiedere al Signore che ci illumini, per capire che l’amore per il mondo, cioè per questo spirito mondano, è nemico di Dio".
DIFENDERE LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
E tende la mano ai divorziati
Bergoglio fissa in 260 pagine la nuova “costituzione per le famiglie”
No ai matrimoni gay, ma nessuno deve sentirsi condannato o escluso
di Andrea Tornielli (La Stampa, 09.04.2016)
La Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». È la frase chiave dell’esortazione post-sinodale di Papa Francesco «Amoris laetitia», la gioia dell’amore, nove capitoli per oltre 300 paragrafi distribuiti in 260 pagine.
Testo lungo e articolato, che fa proprie le conclusioni degli ultimi due Sinodi e rappresenta quasi una nuova «carta costituzionale» per le famiglie del terzo millennio, in un tempo di grandi cambiamenti. Il tentativo, che emerge quasi in ogni pagina, è quello di un approccio positivo, che parte dalla complessità della realtà e dal superamento della logica della semplice «condanna» e della «lamentela» per ciò che non va. Non ci sono cambiamenti della normativa generale sui sacramenti per i divorziati risposati, ma Francesco, seguendo la via indicata dal Sinodo, insiste sul «discernimento» caso per caso e sull’«integrazione» degli «irregolari».
Amore tra i coniugi
Non manca l’analisi delle sfide, come quella rappresentata dalla cultura individualista che porta a non prendere impegni definitivi, o quella rappresentata dalla povertà o ancora da ritmi di lavoro così frenetici da impedire un minimo di vita familiare. Si definisce «inquietante» il tentativo di imporre ai bambini l’ideologia gender, viene ribadito il no all’aborto, si accenna alla «minaccia» dell’eutanasia, viene ripetuta a chiare lettere la contrarietà a ogni equiparazione tra matrimonio e unioni gay. Tra le pagine più interessanti e innovative quelle sulla sessualità, presentata come un «dono meraviglioso» di Dio, con una significativa autocritica per aver insistito troppo sul fine procreativo del matrimonio e non altrettanto sul suo fine unitivo. Per troppo tempo, infatti, la Chiesa ha tenuto, riconosce Francesco, un atteggiamento troppo difensivo, «con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità». Nei due capitoli dedicati all’amore tra i coniugi sono contenuti una serie di consigli importanti ma anche più spiccioli, per mantenere viva la «gioia dell’amore», imparando giorno dopo giorno ad amare l’altro uscendo da se stessi.
Nel testo, dove trovano spazio citazioni di Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Martin Luther King, Erich Fromm e si menziona il film «Il pranzo di Babette» come esempio di capacità di far godere gli altri, c’è ampio spazio dedicato all’educazione dei figli, da aiutare a crescere senza fare i «controllori», evitando la bulimia di smartphone e tablet che porta al rischio dell’«autismo tecnologico». Un intero capitolo, l’ottavo, è dedicato alle famiglie «ferite» e in particolare alla pastorale per i divorziati risposati. Francesco rilancia la necessità di «discernere» e di «integrare», deludendo sia chi chiedeva cambiamenti della norma canonica sull’accesso alla comunione, sia chi ribadiva che nulla può mai cambiare sulla disciplina dei sacramenti.
Caso per caso
Bergoglio ricorda che i divorziati in seconda unione, «possono trovarsi in situazioni molto diverse», non catalogabili in «affermazioni troppo rigide». Una cosa, ad esempio, è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, «con provata fedeltà, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe». C’è poi il caso di quanti hanno fatto «grandi sforzi» per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o il caso di chi si è sposato nuovamente «in vista dell’educazione dei figli» e magari in coscienza è certo che il precedente matrimonio, «irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido». Un caso completamente diverso, invece, è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e confusione che colpiscono i figli e le famiglie intere, o la situazione di chi ha ripetutamente «mancato ai suoi impegni familiari».
Nessuno può dunque avanzare pretese circa i sacramenti, ma «non è più possibile dire - scrive il Papa - che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale». Ecco dunque lo spazio per valutazioni caso per caso, nella discrezione del rapporto con il confessore, senza il rischio di introdurre una doppia morale, ma con la consapevolezza che scendendo nei casi particolari ci possono essere circostanze che attenuano le responsabilità personali. Nessuno deve sentirsi condannato, nessuno disprezzato, nessuno escluso.
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AGLI SPOSI CRISTIANI E A TUTTI I FEDELI LAICI SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA
NEL CAPITOLO TERZO DELL’ "AMORIS LAETIZIA", intitolato "LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA") così è scritto:
"(...) 70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune» (...)".
LA VERITA’ DELL’AMORE DEL "DIO MAMMONA" ("DEUS CARITAS") O LA VERITA’ DELL’AMORE DI "DIO AMORE" ("DEUS CHARITAS"?!:
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006).
Ma sulla famiglia la Chiesa è ferma
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 09.04.2016)
NEL LINGUAGGIO amorevole e compassionevole cui ci ha ormai abituati, sollecitando anche qualche ingenua aspettativa, il pontefice ha ribadito la immodificabilità delle posizioni della chiesa cattolica in merito alla famiglia. L’amore e il sesso sono dimensioni positive dell’agire umano, purché avvengano entro il matrimonio tra un uomo e una donna. Bisogna evitare di mettere al mondo figli cui non si è in grado di provvedere, ma gli unici strumenti contracettivi legittimi sono quelli naturali, ovvero l’astensione dai rapporti sessuali nei periodi in cui la donna è fertile. Le persone omosessuali vanno accolte e non discriminate, ma i loro rapporti di amore e la loro sessualità non ha nulla a che fare con il «disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Il che è perfettamente accettabile per chi crede esista un tale disegno.
Non si capisce però perché, in nome di questo, la chiesa e lo stesso pontefice ostacolino e condannino chi vuole inserire queste coppie in una configurazione della famiglia che non trovi il proprio fondamento nel disegno di Dio, ma nella legislazione civile e nel principio di uguaglianza e non discriminazione, che include anche il diritto a farsi una famiglia. Non manca, nel documento papale, neppure un accenno di condanna alla fantomatica teoria del genere, da cui dovrebbero essere protetti i bambini, ribadendo la più o meno intenzionale incomprensione degli obiettivi cui mira una educazione critica sul genere.
L’unica parziale apertura riguarda i divorziati risposati e la possibilità che possano essi accedere ai sacramenti. Facendo propria e persino andando oltre la posizione espressa dalla maggioranza dei padri sinodali, il pontefice sostiene che non tutti i casi sono uguali, che la condizione di peccato non è necessariamente per sempre, ma va valutata caso per caso. È ciò che avviene già di fatto in molte parrocchie, ma l’affermazione del papa può essere letta come una vera e propria modifica dottrinale, nella misura in cui toglie il divorzio e i divorziati dalla condizione di essere una categoria omogenea, e irreversibile, di peccato e peccatori, per tornare ad essere singoli, con le loro specifiche ragioni e circostanze, che possono o meno essere perdonate e superate.
Non è un passaggio di poco conto. Così come non lo è l’autocritica per le durezze che la chiesa ha manifestato in passato. Ma, pur senza sottovalutare l’attenzione per le difficoltà che incontrano molte famiglie in condizioni di disagio, la persistente discriminazione nei confronti delle donne e il richiamo all’importanza di politiche sociali adeguate, sono gli unici due passaggi che presentano qualche apertura, su cui può continuare a lavorare l’opera di riflessione collettiva messa in moto dai due sinodi.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Enzo Bianchi, il priore di Bose si racconta: “Tutti i governi sono inginocchiati al mercato”
"L’atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana".
di Silvia Truzzi (il Fatto, 24 dicembre 2015)
La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.
Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di una malattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.
Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all’abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c’è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s’ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all’azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.
Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico - cattolici, valdesi, battisti, ortodossi - che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l’apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l’idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.
Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all’ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c’era l’acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.
Qui cosa producete?
Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.
Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all’anno, più o meno. C’è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso - da circa cinque anni - si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall’Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l’italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?
“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.
Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.
Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta - ingiusta perché contro gli innocenti - ad altra violenza.
L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.
La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre - a qualunque costo - chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.
Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?
Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.
La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità - tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo - allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.
È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.
Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.
Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche - sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche - la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.
Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.
Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair - che non è proprio un giusto - fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.
Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.
Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza... Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!
La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.
Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.
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Da il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2015
di Silvia Truzzi | 24 dicembre 2015
Via Crucis, Gianluigi Nuzzi sui fasti dei cardinali a canone zero: "l’attico di Bertone è la regola, non l’eccezione"
di Redazione (L’Huffington Post, 04/11/2015)
Gli sperperi della Curia sostenuti utilizzando i fondi destinati ai bisognosi. I fasti dei cardinali a canone zero, con residenze immense nel centro di Roma riservate a porporati pressoché privi di incarico. Sono solo alcuni degli scandali raccontati in “Via Crucis”, il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi edito da Chiarelettere.
Oltre al rigore e alla trasparenza, povertà e carità sono le parole chiave del suo linguaggio pastorale e del pontificato. Con una sensibilità che cerca di trasmettere e accrescere soprattutto tra sorelle e sacerdoti. A iniziare dalle piccole cose, le più semplici. Come l’utilizzo dell’automobile sul quale si sofferma nell’udienza generale del 6 luglio 2013:
Bergoglio è il primo a dare il buon esempio. Quando va a Lampedusa per abbracciare i profughi che arrivano dall’Africa usa una Fiat campagnola messa a disposizione da un cattolico che vive nell’isola, mentre ad Assisi, nella terra di san Francesco, eccolo usare una piccola auto, una Fiat Panda. Perfino «quando un prete veronese gli regala una Renault4, il papa accetta ma la trasferisce al museo delle automobili papali».
I cardinali, infatti, continuano a concedersi lussi di ogni genere, senza badare a spese. L’attico di Bertone - scrive Nuzzi - è la regola, non l’eccezione.
Un’altra pattuglia di porporati si trova poco distante, al di là di piazza San Pietro, in un bel palazzo a ridosso di via Conciliazione.
I privilegi dei cardinali però non finiscono qui. I porporati, infatti, non pagano l’affitto ma solo le spese finché ricoprono incarichi all’interno della curia. Dopo viene fissato un canone calmierato di 7-10 euro al metro quadro. Spesso però gli alti porporati mantengono incarichi in qualche dicastero che consentono loro di continuare a godere del benefit “canone zero”.
Società
Sinodo, la vecchia chiesuola è finita per sempre
di Paolo Farinella (Il Fatto, 28 ottobre 2015)
Papa Francesco: Ultimo giorno di lavori del Sinodo dei VescoviDue giorni prima che si chiudesse il Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica, dedicato alla famiglia, svoltosi in Vaticano nel mese di ottobre 2015, ho pubblicato il mio “Pacchetto del Mercoledì” con le mie previsioni sulle conclusioni dell’assise che si sono puntualmente avverate, senza nemmeno un grande sforzo per prevederle. Non c’era bisogno di immaginazione per capire che non vi sarebbe stata alcuna rivoluzione perché abbiamo assistito alla solita metodologia clericale che, rimescolando un po’ le carte, un colpo al cerchio e uno alla botta, ha lasciato le cose come stavano, salvo prendere atto della realtà della vita e della storia, quando ormai è troppo tardi. Ho intitolato la mia riflessione “Un Sinodo inutile perché fuori tempo“.
Leggendo le quasi novanta pagine delle conclusioni, non posso che confermare la mia impressione che anzi si rafforza. Rendo onore a Papa Francesco che ce la sta mettendo tutta per dare una sberla all’immobilismo atavico di vecchi armamentari che non possono più stare in piedi né dal punto di vista scientifico, né -Mirabile dictu! - da quello biblico e poi teologico, psicologico e antropologico. Il Papa è figlio del suo tempo, condizionato anche lui dall’impostazione teologica in cui è vissuto per tutta la sua vita, ma è onesto, ha senso ecclesiale ed è anche gesuita, uomo cioè con personalità formata e consistenza psicologica stabile.
Non è attaccato al potere in sé, né al papato e appena si accorgerà di non essere più in grado, darà le dimissioni. Egli sta provando a recuperare il tempo perduto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due papi che hanno affossato con convinzione il concilio Vaticano II, ma lunga è la via e arduo il cammino in una realtà clericale (non ecclesiale) attaccata alla religione come controllo e quindi alleata di ogni potere (anche corrotto) che ne garantisca l’esistenza con leggi privilegiate, favori e anche intrallazzi vari.
Il clero non è pronto perché, culturalmente impreparato, confonde teologia con formule imparate a memoria nei trattati che sono ancora quelli della neoscolastica, rimasticata nel XIX, dopo il concilio Vaticano I che ha tentato di definire l’infallibilità del papa come variante del potere temporale perduto con la breccia di Porta Pia. Il marchingegno non è riuscito e oggi il Papa che vuole mettere in discussione il papato stesso come storicamente si è realizzato deve combattere contro i difensori dell’infallibilità assoluta, cioè con i papalini più papalini del Papa. L’inconsistenza dell’episcopato italiano ne è una prova.
Pare che il Sinodo abbia fatto una timida apertura alle coppie divorziate e risposate, parlando di “discernimento caso per caso”. Buono a sapersi, buongiorno e buonasera. Nella parrocchia di San Torpete, da quando ho iniziato il mio servizio in centro storico a Genova, dopo il mio rientro da Gerusalemme, cioè da almeno dieci anni, abbiamo sempre applicato il criterio del “discernimento” - e io aggiungo - “della coscienza” informata e formata. Credo che sia giunto il tempo di considerare le persone non più “suddite”, ma adulte e capaci di scelta davanti a se stessi e a Dio. È finito per sempre il tempo del prete che dice cosa bisogna fare e non fare. Egli può aiutare a capire, ad approfondire, a valutare, ma non può sostituirsi alla coscienza personale davanti alla quale anche Dio cede il passo e s’inginocchia. Nella mia chiesa separati e divorziati fanno la comunione in forza del principio del “discernimento” che il Sinodo ha inverato come criterio efficace per tutta la Chiesa. La mia colpa semmai è quella di avere anticipato i tempi di qualche decennio a San Torpete e di oltre quarant’anni ovunque sono stato, perché mi ha sempre guidato il criterio del primato della persona sulla lettera della Legge: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).
Se questo Sinodo si fosse svolto negli anni ’60 al posto dell’enciclica “Humanae vitae“, che segna l’inizio del fallimento postconciliare della Chiesa cattolica, avrebbe avuto un altro impatto, ma ora che buoi e stalle sono scappati e non tornano più, nel 2015 è fuori tempo massimo, ottimo per illudere gli eminentissimi, travestiti da donna con abiti filettati e berretti da circo, di essere custodi della “dottrina” nella quale nemmeno loro credono a vedere comportamenti e scelte. Prendiamo atto che con il Sinodo la vecchia chiesuola è finita per sempre, nonostante i complotti e le manovre. Noi restiamo in attesa che spunti l’alba di una nuova “ekklesìa” che possa annunciare la «Stella del mattino che non conosce tramonto» (Preconio pasquale).
Domani santi i genitori di Teresa di Lisieux *
Tra le canonizzazioni previste nella solenne celebrazione eucaristica di domattina in piazza San Pietro spicca indubbiamente quella dei coniugi Luigi e Zelia Martin, genitori di Teresina di Lisieux. Intanto perché è la prima volta che due coniugi vengono contemporaneamente iscritti nell’albo dei santi e perdipiù dopo che già una loro figlia ha goduto dello stesso privilegio. E poi perché la cerimonia si inserisce in modo veramente esemplare nel contesto del Sinodo della famiglia.
Senza contare che la celebrazione si svolge anche nella domenica in cui la Chiesa universale celebra la Giornata mondiale delle missioni di cui santa Teresa di Gesù Bambino è dal 1927 celeste patrona.
Proprio questa eccezionalità della canonizzazione dei coniugi Martin giustifica quindi l’insolita presentazione ufficiale che è stata fatta ieri nella Sala Stampa vaticana, con la moderazione del vice-direttore padre Ciro Benedettini, su richiesta della Conferenza episcopale francese.
Il carmelitano Romano Gambalunga, postulatore della causa di canonizzazione, ha ricordato la storia di questi due coniugi vissuti nella Normandia francese del 19° secolo, che dopo aver sentito il desiderio di entrare in monastero, furono portati dalla vita ad essere orologiaio e merlettaia. Dalla loro unione nacquero nove figli, ma solo cinque sopravvissero. Tra loro Marie-Françoise Thérèse, poi divenuta santa Teresa di Lisieux - canonizzata nel 1925 e dottore della Chiesa dal 1927 - e Léonie, il cui processo di beatificazione è stato aperto proprio nel luglio scorso. Il religioso italiano ha inoltre sottolineato come i coniugi Martin hanno saputo vivere «prima di tutto il matrimonio come vocazione», e poi vivere «anche il rapporto tra coniugi, quindi tra uomo e donna, come un’amicizia, dove c’è stima reciproca, dove si è alleati, dove si condivide un progetto comune, dove ci si aiuta anche ad educare i figli».
E la loro canonizzazione dimostra che «la famiglia non è solo il luogo del conflitto, o dei problemi, ma il luogo dove si impara a comunicare, perché è il luogo in cui si impara a scoprire la bellezza del rapporto tra uomo e donna e tra genitori e figli». Nel corso del briefing è stato ricordato a Luigi e Zelia sono stati riconosciuti due miracoli: il primo per Pietro, bimbo italiano nato nel 2002 con una grave malformazione polmonare, e il secondo, successivo alla beatificazione, per Carmen, nata in Spagna nel 2008, prematura e con una grave emorragia cerebrale.
I due piccoli domani saranno in piazza e porteranno le reliquie in processione. E il vice-postulatore padre Antonio Sangalli ha testimoniato «la riconoscenza grande» delle famiglie di questi bimbi, che hanno potuto capire che «il miracolo più grande - oltre alla guarigione dei figli - è quello di vedere attorno a sé riprendere in mano la vita cristiana di tante persone che si erano impegnate nella preghiera, nell’accompagnare tali famiglie in questo grave, difficile momento della loro vita».
Alla conferenza stampa hanno partecipato anche padre Jean-Marie Simar, rettore del Santuario dei coniugi “Louis et Zélie Martin” di Alençon, (che ha osservato come i nuovi santi condussero «una vita molto ordinaria, una vita completamente semplice, che possiamo paragonare con la vita della Santa Famiglia di Nazareth») e padre Olivier Ruffray, rettore del Santuario di Lisieux («possiamo capire che Teresa ci ha parlato dell’amore di Dio, degli altri, quotidianamente, grazie ai suoi genitori che glielo hanno insegnato»).
Teresa d’Avila, la riformatrice assetata di Dio
Nata e cresciuta nella Spagna rinascimentale è stata una mistica capace di rimboccarsi le maniche. «Ha dimostrato che il tempo per la preghiera non è tempo perso», ha detto di lei Benedetto XVI ricordandola con affetto. Un altro Papa che l’apprezzò tanto fu Paolo VI che nel 1970 la proclamò Dottore della Chiesa
di Alberto Chiara (Famiglia Cristiana, 15.10.2015)
E’ una santa attuale. Attualissima. Anche se la sua epoca è quella - lontana, per quanto vivace - del Rinascimento. A mantenerla vicina alla sensibilità dei nostri giorni concorrono almeno tre fattori: fu una mistica dedita alla preghiera ma altresì attenta alla vita che scorreva fuori dal suo convento al punto da essere una delle artefici delle riforma della Chiesa; non ebbe una particolare formazione ma elaborò un pensiero profondo e apprezzato tanto da essere proclamata "dottore della Chiesa" (lo fece Paolo VI il 27 settembre 1970); di lei si sono occupati, scrivendo pagine appassionate, tutti i Papi degli ultimi tempi, in particolare Montini e Ratzinger.
Teresa nasce ad Avila, in Spagna, nel 1515, con il nome di Teresa de Ahumada. Nella sua autobiografia ella stessa menziona alcuni particolari della sua infanzia: la nascita da “genitori virtuosi e timorati di Dio”, all’interno di una famiglia numerosa, con nove fratelli e tre sorelle. All’età di 20 anni, entra nel monastero carmelitano dell’Incarnazione, sempre ad Avila; nella vita religiosa assume il nome di Teresa di Gesù. Tre anni dopo, si ammala gravemente, tanto da restare per quattro giorni in coma, apparentemente morta. Parallelamente alla maturazione della propria interiorità, Teresa inizia a sviluppare concretamente l’ideale di riforma dell’Ordine carmelitano: nel 1562 fonda ad Avila, con il sostegno del Vescovo della città, don Alvaro de Mendoza, il primo Carmelo riformato, e poco dopo riceve anche l’approvazione del Superiore Generale dell’Ordine, Giovanni Battista Rossi.
Negli anni successivi prosegue le fondazioni di nuovi Carmeli, in totale diciassette. Fondamentale è l’incontro con san Giovanni della Croce, col quale, nel 1568, costituisce a Duruelo, vicino ad Avila, il primo convento di Carmelitani scalzi. Nel 1580 ottiene da Roma l’erezione in Provincia autonoma per i suoi Carmeli riformati, punto di partenza dell’Ordine Religioso dei Carmelitani Scalzi. Teresa termina la sua vita terrena proprio mentre è impegnata nell’attività di fondazione. Nel 1582, infatti, dopo aver costituto il Carmelo di Burgos e mentre sta compiendo il viaggio di ritorno verso Avila, muore la notte del 15 ottobre ad Alba de Tormes, ripetendo umilmente due espressioni: “Alla fine, muoio da figlia della Chiesa” e “E’ ormai ora, mio Sposo, che ci vediamo”. Un’esistenza consumata all’interno della Spagna, ma spesa per la Chiesa intera. Beatificata dal Papa Paolo V nel 1614 e canonizzata nel 1622 da Gregorio XV, è proclamata "Dottore della Chiesa" da Paolo VI.
Il 2 febbraio 2011, in un’udienza generale del mercoledì, papa Benedetto XVI ne ricorda i tratti salienti: «In primo luogo, santa Teresa propone le virtù evangeliche come base di tutta la vita cristiana e umana: in particolare, il distacco dai beni o povertà evangelica, e questo concerne tutti noi; l’amore gli uni per gli altri come elemento essenziale della vita comunitaria e sociale; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione come frutto dell’audacia cristiana; la speranza teologale, che descrive come sete di acqua viva. Senza dimenticare le virtù umane: affabilità, veracità, modestia, cortesia, allegria, cultura».
«In secondo luogo», prosegue Joseph Ratzinger, «santa Teresa propone una profonda sintonia con i grandi personaggi biblici e l’ascolto vivo della Parola di Dio. Ella si sente in consonanza soprattutto con la sposa del Cantico dei Cantici e con l’apostolo Paolo, oltre che con il Cristo della Passione e con il Gesù Eucaristico. La Santa sottolinea poi quanto è essenziale la preghiera; pregare, dice, “significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama” . L’idea di santa Teresa coincide con la definizione che san Tommaso d’Aquino dà della carità teologale, come “amicitia quaedam hominis ad Deum”, un tipo di amicizia dell’uomo con Dio, che per primo ha offerto la sua amicizia all’uomo; l’iniziativa viene da Dio. La preghiera è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l’interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all’unione d’amore con Cristo e con la Santissima Trinità».
«Un altro tema caro alla santa è la centralità dell’umanità di Cristo», puntualizza ancora Benedetto XVI. «Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell’unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l’importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all’Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia. Santa Teresa vive un amore incondizionato alla Chiesa. Riforma l’Ordine carmelitano con l’intenzione di meglio servire e meglio difendere la “Santa Chiesa Cattolica Romana”, ed è disposta a dare la vita per essa».
«Un ultimo aspetto essenziale della dottrina teresiana, che vorrei sottolineare», conclude Benedetto XVI, « la perfezione, come aspirazione di tutta la vita cristiana e meta finale della stessa. La santa ha un’idea molto chiara della “pienezza” di Cristo, rivissuta dal cristiano. Alla fine del percorso del Castello interiore, nell’ultima “stanza” Teresa descrive tale pienezza, realizzata nell’unione a Cristo attraverso il mistero della sua umanità». La sua attualità, infine. «Nella nostra società, spesso carente di valori spirituali, santa Teresa ci insegna ad essere testimoni instancabili di Dio, della sua presenza e della sua azione, ci insegna a sentire realmente questa sete di Dio che esiste nella profondità del nostro cuore, questo desiderio di vedere Dio, di cercare Dio, di essere in colloquio con Lui e di essere suoi amici. Questa è l’amicizia che è necessaria per noi tutti e che dobbiamo cercare, giorno per giorno, di nuovo. L’esempio di questa santa, profondamente contemplativa ed efficacemente operosa, spinga anche noi a dedicare ogni giorno il giusto tempo alla preghiera, a questa apertura verso Dio, a questo cammino per cercare Dio, per vederlo, per trovare la sua amicizia e così la vera vita; perché realmente molti di noi dovrebbero dire: “non vivo, non vivo realmente, perché non vivo l’essenza della mia vita”. Per questo il tempo della preghiera non è tempo perso, è tempo nel quale si apre la strada della vita, si apre la strada per imparare da Dio un amore ardente a Lui, alla sua Chiesa, e una carità concreta per i nostri fratelli».
Donna eccezionale
· Francesco per il quinto centenario di santa Teresa di Gesù · *
«Donna eccezionale» e «modello attraente di donazione totale a Dio»: è il ritratto con cui Papa Francesco descrive Teresa di Gesù nella lettera inviata al preposito generale dei Carmelitani scalzi per i cinquecento anni della nascita della santa di Ávila.
Dopo essersi unito all’«ora di preghiera per la pace» promossa in tutte le comunità carmelitane del mondo per la ricorrenza di sabato 28 marzo, nello stesso giorno il Pontefice ha scritto a padre Saverio Cannistrà, ricordando come l’anniversario teresiano coincida con l’Anno dedicato alla vita consacrata», nella quale Teresa è stata e resta esempio tra i più attraenti.
Nel dipinto di Juan de la Miseria l’unico ritratto eseguito quando Teresa era ancora viva (1576)
Approfondendone la figura, il Papa si è soffermato in particolare sulla dimensione orante, missionaria, ecclesiale e comunitaria della sua spiritualità. Santa Teresa è anzitutto, ha affermato in proposito, «maestra di preghiera». Infatti «nella sua esperienza è stata centrale la scoperta dell’umanità di Cristo. Mossa dal desiderio di condividere questa esperienza personale con gli altri, la descrive in maniera vivace e semplice, alla portata di tutti». Al punto che la sua «non è stata una preghiera riservata unicamente ad uno spazio o ad un momento della giornata», al contrario «sorgeva spontanea nelle occasioni più diverse».
Per questo con il suo esempio «la Santa ci chiede di essere perseveranti, fedeli, anche in mezzo all’aridità, alle difficoltà personali o alle necessità pressanti che ci chiamano».
Quanto alla dimensione missionaria ed ecclesiale, che ha da sempre contraddistinto la famiglia religiosa carmelitana, «anche oggi la Santa apre nuovi orizzonti, convoca per una grande impresa, per guardare il mondo con gli occhi di Cristo, per cercare ciò che Lui cerca e amare ciò che Lui ama».
Infine, ha concluso, «santa Teresa sapeva che né la preghiera né la missione si possono sostenere senza un’autentica vita comunitaria. Perciò, il fondamento che pose nei suoi monasteri fu la fraternità».
Per la prima volta gli scout britannici hanno un capo donna
di Silvia Guzzetti (Avvenire, 13 ottobre 2015)
Per la prima volta nei loro 108 anni di storia gli scout britannici avranno una donna come leader. Ann Limb, 62 anni, ex funzionaria statale e insegnante, ha dichiarato che sarà sua missione emancipare il movimento britannico incoraggiando più ragazze a indossare l’uniforme verde e il fazzolettone.
Rimangono, invece, rigorosamente soltanto femminili le “Girl Guides” ovvero le guide. In Gran Bretagna l’associazione che Baden Powell avviò, proprio qui, nel 1908, è ancora divisa lungo linee di genere come all’inizio del secolo con le "Brownies", le bambine tra i 7 e i 10 anni, che frequentano centri diversi dai "Cubs", i lupetti. Le femmine sono state sì ammesse, nelle sezioni maschili, a partire dagli anni settanta, ma sono rarissime.
Diversi gli scout italiani che sono misti da tempo
In Italia, invece, come in altri paesi europei, nel 1974 l’Agesci ha cominciato a educare insieme maschi e femmine, con un sistema misto, affiancando ai lupetti le coccinelle già a otto anni.
Insomma la patria del femminismo ha mantenuto separato lungo linee di genere lo scautismo, come aveva voluto il suo fondatore, decidendo, soltanto negli ultimi anni, di aprire alle femmine la propria sezione maschile.
E’ solo dal 1991, infatti, che le undicenni britanniche possono diventare scout, e del mezzo milione di bambini che fanno parte di questo movimento, in Gran Bretagna, soltanto un quinto sono femmine.
Basta con gli scout figli bene delle classi medie
Figlia di un macellaio e cresciuta in una delle zone più malfamate di Manchester, Moss Side, la nuova capa scout pensa che aumentare il numero di ragazze sia la via del futuro. Né ama l’idea degli scout come hobby delle classi medie.
“L’immagine degli scout come giovani bianchi, provenienti dalle classi medie, non incoraggia le femmine a far parte del movimento”, ha dichiarato Ann Limb, “Vogliamo aumentare il numero di ragazze e giovani donne perché lo scoutismo deve riflettere la società nella quale viviamo. Sarebbe bellissimo se raggiungessimo il milione di membri”.
“Diventare una “Brownie” ha voluto dire moltissimo per me”, ha detto ancora la nuova capa scout, “Ha aumentato la mia autostima e la fiducia in me stessa. Non era come andare a scuola. Non importava se fallivi perché avevi un’altra possibilità”.
Mancano i volontari, scoppiano le liste di attesa
Il problema più grosso dello scoutismo britannico, in questo momento, è la mancanza di volontari mentre scoppiano le liste di attesa di bambini e ragazzi desiderosi di fare la promessa.
Secondo Ann Limb i genitori più giovani, con meno di 55 anni, sono troppo occupati per dare una mano nei gruppi frequentati dai figli mentre toccherebbe a chi ha più di 55 anni, i “baby boomers”, rimboccarsi le maniche e darsi da fare. “Anche le aziende dovrebbero cambiare”, ha detto Limb, “Per dare più spazio al volontariato”.
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
Il coming out di monsignor Krzysztof Charamsa, alla vigilia del Sinodo sulla famiglia, riporta l’attenzione su una pastorale possibile "per" e "con" le persone omosessuali. Ma qual è l’effettiva condizione in cui si trovano gay e lesbiche nella Chiesa cattolica?
di PASQUALE QUARANTA *
ROMA - Per una pastorale inclusiva - concepita non solo "per" ma anche "insieme" alle persone omosessuali - bisogna augurarsi che il Sinodo in corso porti a una svolta. Perché nella storia della Chiesa giudizi assoluti, e spesso infondati, hanno a lungo ferito gay e lesbiche, in particolare i credenti. Una prova è arrivata dal coming out di monsignor Charamsa che ha sollevato il tema dell’omofobia in Vaticano.
Quando si tratta delle persone omosessuali, le parole “rispetto”, “accoglienza”, “dialogo” spesso non hanno trovato spazio nella Chiesa cattolica, come riconosciuto in queste ore in un’intervista a Repubblica dallo stesso cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha parlato di "forme di discriminazione" subìte dalla persone omosessuali. Il dialogo, se vuole essere onesto, non può prescindere dall’ammissione di giudizi che tante volte hanno paralizzato le persone (si pensi alle cosiddette "terapie riparative", al tentativo di convincere gay e lesbiche a farsi “curare” le loro “ferite”).
Un noto e importante documento vaticano insegna che “l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio” (Congregazione per la dottrina della fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali). Questo giudizio deriva dall’enciclica Humanae Vitae, secondo la quale esiste una “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”.
Da alcuni decenni, com’è noto, questa dottrina tradizionale è ampiamente disattesa e apertamente contestata, perfino in alcuni ambienti della Chiesa. Il sesso solitario, l’uso degli anticoncezionali, l’atto omosessuale non vengono più considerati in se stessi un male, perché si ritiene che la dottrina tradizionale non tenga adeguatamente conto di tutti gli aspetti della natura umana, oggi conosciuti grazie anche alle scienze umane, e perché si ritiene che le ragioni addotte a sostegno della dottrina tradizionale non siano più solidamente fondate.
È vero che mai come oggi - con il Sinodo iniziato da pochi giorni - il tema è al centro della discussione nel mondo cattolico ma la condizione delle persone omosessuali nella Chiesa resta complicata.
Da una parte, i documenti e i testi vaticani insegnano che l’omosessualità ostacola gravemente un corretto relazionarsi con donne e uomini, che l’omosessualità è collegata a una immaturità psicologica, che la condizione omosessuale è disordinata, che gli atti omosessuali impediscono di realizzarsi e di essere felici, che l’amore delle persone omosessuali è contrario alla volontà di Dio, che le coppie gay e lesbiche legalmente riconosciute sono un pericolo per l’umanità.
Dall’altra, i risultati sicuri delle scienze umane mostrano che l’omosessualità non impedisce corrette e sane relazioni umane e che il riconoscimento legale delle coppie gay e lesbiche giova alla società; le coppie omosessuali e le loro famiglie sperimentano che il loro amore li rende felici e che l’omosessualità è per loro una delle opportunità della loro vita e non un problema; varie ricerche filosofiche, bibliche, teologiche mostrano che non ci sono ragioni stringenti per seguire la teoria secondo cui la condizione omosessuale è disordinata e l’amore delle coppie gay e lesbiche è contrario alla volontà di Dio.
Di fatto, le persone omosessuali non possono prendere la parola - argomentando sulla base dei risultati sicuri delle scienze umane, dell’esperienza loro e delle loro famiglie, delle ricerche filosofiche, bibliche e teologiche - per mostrare che le loro ragioni sono le ragioni della Chiesa e non un loro capriccio, per chiedere di riesaminare quei giudizi discutibili, pena l’accusa di fare del male a se stesse e alla Chiesa.
Un’accusa che, tanto più per chi occupa un posto di rilievo nella gerarchia ecclesiastica, si traduce nel silenzio obbligato o nell’espulsione (come nel caso di monsignor Charamsa). La logica che genera l’accusa è chiara: poiché tali giudizi sono verità insegnate dall’autorità garante del bene della Chiesa, mostrare che sono infondati o discutibili, addirittura il solo chiedere di riesaminarli costituisce un rifiuto della verità, una disobbedienza all’autorità, un attentato al bene della Chiesa.
Che fare dunque in questo contesto? Il 3 ottobre si è svolta a Roma una conferenza internazionale di cattolici omosessuali intitolata “Le strade dell’amore”. Ne hanno parlato in pochi. La novità emersa dalle testimonianze di persone provenienti da 13 Paesi diversi è che nelle Chiese cristiane gay e lesbiche credenti sono protagonisti di una grande novità: dicono apertamente con le parole e con i fatti che tra esperienza omosessuale e vita cristiana non esiste alcuna inconciliabilità. Si tratta di una rivoluzione d’amore e in quanto tale non violenta. Perché la comunità non può accoglierla con gioia? Perché la celebrazione di questo amore non può avere la dignità di matrimonio?
* la Repubblica, 08.10.2015 (ripresa parziale).
Prima la Costituzione poi il catechismo, vale anche per le scuole cattoliche
di MARIA MANTELLO *
Un ragazzo fuori dalla classe con tanto di sedia e di banco dove possa stanziare durante l’orario di lezione lontano dai compagni: in uno spazio di solitudine... perché gay dichiarato.
Una umiliazione nella violazione della sua dignità di essere umano che si consuma a Monza nell’ “Ente Cattolico Formazione Professionale” (E.C.Fo.P) di Via Manara 34.
La ghettizzazione inizia giovedì 24 settembre e ha termine il lunedì successivo di fronte all’intervento dei carabinieri a cui la madre del ragazzo si rivolge per denunciare quanto stava accadendo al figlio.
Il Centro di formazione professionale di Via Manara 34 è annesso alla chiesa di S. Biagio, il cui parroco, don Marco Oneta è anche il presidente dell’Ecfop, che in Lombardia ha diverse altre sedi.
I centri di formazione professionale non fanno capo al Ministero dell’Istruzione, ma alle Regioni che in base all’art. 117 della Costituzione si occupano di “istruzione artigiana e professionale”. Le Regioni riconoscono gli enti privati di formazione professionale, a cui affidano la gestione dei corsi, coprendone ogni spesa: stipendi del personale, attrezzature di servizio, materiali didattici, ecc. Insomma, nel settore della formazione professionale, le Regioni hanno esclusivamente un ruolo sussidiario, ovvero di erogatrici di pubblico denaro. Un modello - per inciso- che la “buona scuola” renziana sta esportando nei cicli ordinari del sistema scolastico (dalla scuola d’infanzia ai licei).
Ma torniamo al caso dell’ Ecfop di Monza.
A far conoscere l’umiliazione inflitta al ragazzo gay è stata la stampa locale, che ha riportato nel dettaglio l’accaduto, comprese le incredibili dichiarazioni rilasciate in interviste e comunicati dal direttore Adriano Corioni, che dice di aver separato l’alunno gay perché «influenza negativamente gli altri ragazzini». Ovviamente - quanta cura! - lo avrebbe fatto anche per il bene del ragazzo stesso. Tanto bene, che il ragazzino gay è tornato a casa in lacrime, e fermamente intenzionato a non tornare più in quella scuola. Di qui l’intervento della famiglia di cui abbiamo detto prima.
Quando la vicenda ha cominciato a rimbalzare sui media, il direttore Corioni ha cercato di tutelarsi affermando: «Vi assicuriamo che non facciamo discriminazioni sessuali né razziali. La nostra attenzione è alla formazione professionale dei giovani, seguendo il dettame della pastorale della Chiesa cattolica».
Ecco il punto. Per una scuola cattolica il faro non è la Costituzione, ma la dogmatica curiale e il suo catechismo, che stigmatizza l’omosessualità come «oggettivo disordine morale», (canone 2357) e condanna gli omosessuali all’espiazione del “peccato” vivendo nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358).
Così, il direttore del centro professionale cattolico, si deve essere sentito un novello S. Giorgio (come non pensare al corto di Fellini “Le tentazioni del dott. Antonio”!) nel perseguire in quel suo alunno adolescente una doppia “colpa”: essere gay e per giunta dichiarato.
La dirigenza dell’Ecfop di Monza si deve essere sentita come investita da spirito militante alla diffusione della dottrina curiale cattolica. Un baluardo per non incrinare la pregiudiziale omofoba.
Di qui la crociata per mettere all’indice il ragazzino gay, gettando sulle fragili spalle di quell’adolescente la croce a cui inchiodarlo: quel banco d’isolamento.
Una vergogna per ogni più elementare concezione di umana educazione, che deve porre l’attenzione sul singolo, nel diritto dovere al riconoscimento della sua dignità.
Ma la direzione Ecfop preferisce la veste del medievale inquisitore per annichilire un ragazzo coraggioso. Un ragazzo che vuole essere riconosciuto per quello che è, e che sta combattendo la battaglia per il fondamentale diritto umano ad essere proprietario della sua vita.
Allora, vale appena ricordare che “formazione integrale della persona” - di cui si parla in ogni statuto di qualsivoglia scuola cattolica - non vuol dire omologazione ai precetti cattolici.
Si dismettano i sogni medievali teocratici. La libertà e la democrazia sono state conquistate con lacrime e sangue... Oltre i roghi e le gogne di Santa Romana Chiesa!
Sopra al catechismo e alle gerarchie vaticane c’è la Costituzione con i suoi principi fondamentali: anche contro i razzismi sessisti.
Ecco allora un buon esercizio che in un banco da solo potrebbe fare quel direttore: scrivere almeno cento volte l’art. 3 della Costituzione che vincola alla rimozione degli ostacoli - discriminazioni sessuali comprese - per promuovere la formazione del Cittadino.
Del cittadino democratico, caro direttore, non del credente cattolicista!
Maria Mantello
di Gianfranco Brunelli (Il Sole-24 Ore, 09.10.2015)
Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.
Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da Papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia. Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il Papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali.
Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto.
Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire (cfr. Il Regno 7, 2015, 485). Per il Papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».
Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.
Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?
Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il Papa ha indicato qual è per lui l’unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri. L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire.
Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa. Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa.
Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio. Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni.
Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio. Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.
Il Papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.
di don Aldo Antonelli (L’Huffingtonpost,08/10/2015)
Ho appena finito di leggere il Vangelo che la liturgia propone alla nostra meditazione per domenica prossima e che di certo, noi e voi, proclameremo nelle celebrazioni con i nostri fedeli. Si tratta del Vangelo di Marco, capitolo 10, versetti 17-30, là dove si narra di quel giovane dalla condotta irreprensibile che corre dal Maestro e gli chiede cosa deve fare per avere una vita che non sia ostaggio della morte. Noi sappiamo come è andata a finire: all’invito di Gesù a lasciare tutto e a seguirlo, il giovane "si fece scuro in volto - narra il vangelo - e se ne andò rattristato; possedeva infatti molte ricchezze"!
Ecco: in un breve esame di coscienza mi è venuto di pensare a me prete, a voi Vescovi e Cardinali, alla Chiesa in generale, e mi si è posto un interrogativo: "Non è che anche noi, come quel giovane, ci si ritrova solitari e tristi, prigionieri delle nostre ricchezze e sordi e ciechi al richiamo dei poveri e dei nullatenenti?". Il discorso si è fatto poi ancor più intrigante quando mi è venuto di accostare e sostituire il termine "ricchezze" con l’altro con il quale fa rima: "certezze". Mi sono ritrovato come sull’orlo di un precipizio nel quale sprofondavano tutte quelle "verità" che invece di aprire percorsi per il cammino, sbarravano strade, chiudevano orizzonti, strozzavano speranze.
Mi è risuonato, poi, nel silenzio della notte scorsa, il grido affranto di uno vostro grande e indimenticabile confratello, il vescovo Tonino Bello: "Salvami, Signore, dall’arroganza di chi non ammette dubbi". E così, come in un profluvio di nuova primavera, mi si è aperto lo scrigno prezioso dei ricordi sulla necessità, sulla positività e sulla bontà del dubbio. Sul piano della Fede San Gregorio Magno confessava: "A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che la Fede degli Apostoli".
Sul versante magisteriale Paolo VI ebbe a dire: "Il dubbio è una strada che porta alla Fede". Sul piano teologico Hugo Asmann scrive: "In un mondo pieno di dogmatismi e di buone novelle ingannatrici, è bene accarezzare incertezze. Un’attitudine, uno spirito e una spiritualità ricca di incertezze feconde. Non intesa come disorientamento o sradicamento ma come preservazione di quell’orizzonte utopistico che si vorrebbe annientare; nell’apertura all’alternativa, alla speranza, alla sorpresa, all’imprevedibile, all’irruzione della grazia nella storia".
Sul piano culturale, infine, Norberto Bobbio afferma: "Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze"; affiancato da Jorge Luis Borges: "Duda es uno de los nombres de la inteligencia".
Il dubbio, insomma, non è opera del demonio, ma dono di un presente che interroga e pone urgenze e impone cambiamenti di rotta e sfida a ripensamenti e a nuove comprensioni. È quello che fa, per esempio, il francescano basco José Arregui, teologo di fama internazionale. Di fronte ai divorzi e ai nuovi matrimoni, si chiede se si può davvero pensare che si possa essere colpevoli "per il mero fatto di avere divorziato e di essersi risposati". E ancora, rispetto alla presunta indissolubilità del matrimonio, come si possa restare aggrappati "a questo artificio canonico in base a cui, anche nel caso in cui l’amore si dissolva, il matrimonio rimane indissolubile", a meno che non sia stato dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico.
Ponendo, infine, la domanda scottante: com’è possibile "che sia un sigillo canonico a fare il sacramento e che questo, una volta validamente contratto, persista anche in assenza dell’amore?". Cari confratelli nella fede, voi, uomini di fede e di cultura, non vogliate rattristare lo spirito che è in voi. Vi prego: uscite fuori da quelle certezze verniciate di fede che vi tengono prigionieri e da fratelli vi trasformano in maestri abusivi.
Scendete dal piedistallo delle vostre presunzioni. Fatevi compagni di strada di quanti, oggi, di qualsiasi razza o sesso o età o credenza, si interrogano e cercano e lottano per una vita più umana. Aprite gli orecchi al grido delle vittime della storia: vittime di un’economia assassina, di una politica autocrate, delle guerre di potere, dei razzismi e dei sessismi, di amori traditi e non più recuperabili. Soprattutto, parola di vangelo, non siate come i dottori della Legge contro cui Gesù imprecò senza pietà perché caricavano gli uomini di "pesi insopportabili che loro stessi non osavano smuovere neppure con un dito" (Luca, 11,46).
Possibile che non vi rendiate conto del carico di violenza di cui vi fate portatori nell’imporre a tutti i costi una vita in due là dove l’amore non c’è più, anzi c’è astio, odio, intolleranza, sopraffazione? Possibile non avvertire la dose di sadismo insita nel costringere coloro che hanno formato una nuova famiglia a interrompere i loro rapporti (quindi rovinare la nuova famiglia) per ristabilire la vecchia unione?
Di fronte ad una divisione per tradimento e/o violenza perché infierire su chi ne è vittima negandogli perfino la "Comunione"? L’assurdità, disumana ed antievangelica, è talmente evidente che il sottoscritto, ormai da tempo, ammette alla Comunione quanti, divorziati e non, conviventi e non, vi si accostano. Sono un pastore e non un censore!
Suor Chittister scrive al papa
Caro Francesco, i poveri sono anche le donne
di SUOR JOAN CHITTISTER ("Adista-Segni Nuovi", 10.10. 2015 • N. 34 )
Caro papa Francesco, la tua visita negli Stati Uniti è importante per noi tutti. Ti abbiamo visto fare del papato un modello di ascolto pastorale. Hai richiamato con forza l’immagine di Gesù che camminava tra la folla ascoltandola, amandola e guarendola.
Il tuo impegno contro la povertà e per la misericordia, per la vita dei poveri e per la sofferenza spirituale di molti - per quanto sicuri si possano sentire materialmente - ci dà una nuova speranza nell’integrità e nella santità della Chiesa stessa.
Una Chiesa che guarda più al peccato che alla sofferenza di coloro che portano i fardelli del mondo è una Chiesa fragile. Nel volto di Gesù che frequentava i più vulnerabili, i più emarginati della società, giudicando sempre e solo chi giudica, la tua coerenza è una lezione di vita per i moralisti e per chi ha fatto della religione una professione.
È con questa consapevolezza che solleviamo due questioni.
La prima riguarda la miseria su cui richiami incessantemente la nostra attenzione. Tu ci impedisci di dimenticare la disumanità delle periferie ovunque nel mondo, i senzatetto, gli sfruttati, i malpagati, gli schiavi, i migranti, i vulnerabili e coloro che sono invisibili ai potenti di oggi. Tu rendi visibile al mondo ciò che abbiamo dimenticato. Ci chiami a fare di più, a fare qualcosa, a dare lavoro, cibo, casa, educazione, voce e visibilità che conferiscono dignità e pieno sviluppo.
Ma c’è anche una seconda questione nascosta sotto la prima cui anche tu dovresti prestare rinnovata e seria attenzione. La verità è che le donne sono le più povere tra i poveri.
Gli uomini hanno lavori retribuiti; di poche donne nel mondo si può dire lo stesso. Gli uomini hanno chiari diritti civili, giuridici e religiosi nell’ambito matrimoniale; per poche donne al mondo vale lo stesso. Gli uomini danno per scontata l’educazione; poche donne nel mondo possono farlo. Gli uomini possono raggiungere posizioni di potere e autorità fuori casa; poche donne al mondo possono sperarlo. Gli uomini hanno diritto di proprietà; la maggior parte delle donne si vedono negate queste cose dalla legge, dal costume, dalle tradizioni religiose. Le donne sono regolarmente trattate come oggetti, picchiate, violentate e ridotte in schiavitù semplicemente per il fatto di essere donne.
E, forse peggio di tutto, vengono ignorate - respinte - dalle loro Chiese, compresa la nostra, come esseri umani in pienezza, come autentiche discepole.
È impossibile, Santo Padre, fare sul serio qualcosa per i poveri e allo stesso tempo fare poco o niente per le donne.
Ti prego di fare per le donne del mondo e della Chiesa ciò che Gesù fece per Maria che lo generò, per le donne di Gerusalemme che resero possibile il suo ministero, per Maria di Betania e Marta cui insegnò teologia, per la samaritana che fu la prima a riconoscere Gesù come Messia, per Maria di Magdala chiamata l’Apostola degli Apostoli, e per le diaconesse e le leader delle chiese domestiche della Chiesa primitiva.
Fino ad allora, Santo Padre, niente potrà davvero cambiare per i loro figli affamati e nelle loro disumane condizioni di vita.
Siamo felici che tu sia qui a parlare di queste cose. Confidiamo in te per cambiarle, partendo dalla Chiesa stessa.
La difficile chiarezza sull’amore naturale
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 06.10.2015)
È cominciato ieri il Sinodo sulla famiglia. Che difenderà il concetto di «famiglia naturale». Ma cosa si intende per famiglia naturale? Un uomo e una donna che si amano e fanno un figlio insieme? Ma oltre ad amarsi , i due dovranno pur firmare un contratto. Giureranno davanti a un prete o a un sindaco, impegnandosi a essere fedeli, a rispettarsi, ecc. La domanda è: cosa c’è di naturale in un contratto? Come si spiega per esempio che un popolo permetta ai suoi cittadini maschi di avere 4 mogli, mentre un altro gliene concede una sola? Eppure sono contratti riconosciuti dalla legge, addirittura sanciti dalla religione. Qual è più naturale fra i due contratti? E chi stabilisce cosa è naturale e cosa non lo è? A
bbiamo sentito un giovane prete teologo dire con fermezza che nella Chiesa esiste una «paranoia omofoba», che la disciplina riguardanti la vita sessuale dei suoi preti è «disumana». Quindi l’amore fra uomo e donna è «naturale» e fra due uomini è innaturale e perversa. Però poi scopriamo che migliaia di preti sono stati condannati in America per pedofilia. Una cosa grave, perché si tratta di violenza, anche se le grandi cifre ci suggeriscono che perfino in quel deplorevole comportamento ci sia qualcosa di «naturale». Non sto giustificando la pedofilia, ma constato che una sessualità clandestina, vissuta nella paura, nei sensi di colpa, porta direttamente alla violenza contro il corpo dell’altro.
Merito di Krzysztof Charamsa è di avere messo l’accento sulla completezza dell’amore: eros e affetto non possono essere separati. La Chiesa invece demonizza l’eros e glorifica l’affetto, ma con questo crea schizofrenia e malessere.
Ho conosciuto dei giovani preti protestanti tedeschi e inglesi, con accanto moglie e i figli.
Nessuno li considerava meno preti perché avevano una vita sentimentale e sessuale lecita, pulita.
Mi chiedo, rileggendo il Vangelo, se Cristo sarebbe oggi così indignato contro chi proclama il diritto all’amore. Dopo tutto anche la sua famiglia aveva poco di «naturale»: non era nato da una vergine e da un uomo costretto alla castità? Eppure Marco e altri raccontano di fratelli e sorelle di Cristo. Ma i Padri della Chiesa li hanno volutamente cancellati. Cosa c’è di «naturale» in un Sinodo che affronta i grandi temi della trasformazione della famiglia, senza che si possa ascoltare una sola voce femminile? Ci saranno 270 padri sinodali, da tutto il mondo, che dovranno, alla fine, scrivere una «Pastorale familiare». Qualche donna sarà ammessa, ma solo fra gli Uditori. Vi sembra logico e giusto?
IL TERZO MILLENNIO DOPO CRISTO E’ INIZIATO, MA IN VATICANO INVECE DI AVERE FEDE E CORAGGIO perseverano alla grande nell’immaginario costantiniano?!!
Nel discorso di Francesco alla veglia in Piazza San Pietro l’auspicio che i padri sinodali possano attingere dalla tradizione "orientamenti di speranza" e il riferimento a una Chiesa che "protegge senza sostituirsi" e "corregge senza umiliare"
di ANDREA GUALTIERI (la Repubblica, 03 ottobre 2015)
CITTA’ DEL VATICANO - "Se non sappiamo unire la compassione alla giustizia finiamo con essere inutilmente severi e profondamente ingiusti". Papa Francesco lo ricorda alla vigilia del sinodo che si apre con la messa solenne di domenica e che è chiamato ad affrontare le problematiche legate alle famiglie contemporanee. Bergoglio ha parlato durante la veglia organizzata in piazza San Pietro dalla Cei ed alla quale hanno partecipato migliaia di persone da tutta Italia, insieme ai padri sinodali e agli uditori che lunedì inizieranno il dibattito.
"Dal tesoro della viva tradizione - ha auspicato Francesco - i padri sappiano attingere parole di consolazione e orientamenti di speranza per famiglie chiamate in questo tempo a costruire il futuro della comunità ecclesiale e della città dell’uomo". Più che "parlare" di famiglia, ha precisato, si tratta di "mettersi alla sua scuola, nella disponibilità a riconoscerne sempre la dignità, la consistenza e il valore, nonostante le tante fatiche e contraddizioni che possono segnarla". Il sinodo, ha insistito il pontefice, "sappia ricondurre a un’immagine compiuta di uomo l’esperienza coniugale e familiare, riconosca, valorizzi e proponga quanto in essa c’è di bello, di buono e di santo, abbracci le situazioni di vulnerabilità, che la mettono alla prova: la povertà, la guerra, la malattia, il lutto, le relazioni ferite e sfilacciate da cui sgorgano disagi, risentimenti e rotture".
Un anno fa, alla veglia che ha preceduto il sinodo straordinario e preparatorio, il Papa argentino aveva chiesto ai vescovi di evitare di imporre pesi che essi stessi non avrebbero saputo sopportare. Ora l’atteggiamento auspicato dal pontefice per il confronto che proseguirà fino al 24 ottobre è quello di una Chiesa che, ha detto, "protegge senza sostituirsi, che corregge senza umiliare, che educa con l’esempio e la pazienza, a volte, semplicemente con il silenzio di un’attesa orante e aperta". Ma anche una comunità ecclesiale "lontana da grandezze esteriori, accogliente nello stile sobrio dei suoi membri e, proprio per questo, accessibile alla speranza di pace che c’è dentro ogni uomo, compresi quanti hanno il cuore ferito e sofferente".
Bergoglio ricorda alla sua Chiesa di essere misericordiosa perché essa stessa "per prima vive l’esperienza di essere incessantemente rigenerata nel cuore misericordioso del Padre". E solo con questa consapevolezza può "rischiarare davvero la notte dell’uomo, additargli con credibilità la meta e condividerne i passi".
Galantino: "Non gridiamo contro qualcuno" - Prima del Papa avevano parlato i responsabili dei grandi movimenti ecclesiali: da Matteo Truffelli dell’Azione cattolica a Maria Voce dei focolarini, da don Julian Carron di Cl a Kiko Arguello del Cammino neocatecumenale e Salvatore Martinez del Rinnovamento nello Spirito.
E’ stato il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ad accogliere il pontefice: "L’esperienza quotidiana - ha detto - ci vede coinvolti in una trasformazione epocale della cultura sociale, che interessa profondamente la famiglia". E ha aggiunto: "Non vogliamo lasciare che il lamento, la stanchezza o la paura prevalgano sullo stupore, sulla gioia e sul coraggio, né che le analisi, legate a un contesto in cui sembra vincere la dinamica del non legarsi a niente e nessuno, ci frenino sulla disponibilità ad accompagnare i giovani nella scelta coraggiosa del matrimonio".
Alla folla si era rivolto in precedenza il segretario dei vescovi italiani, Nunzio Galantino: "Vogliamo anche noi gridare, ma non contro qualcuno. Il nostro è un grido di preghiera perché Dio possa accompagnare la Chiesa, chiamata a mettere occhio ma anche cuore nell’esperienza sinodale".
In piazza i ’colori’ della Chiesa - "La famiglia è alla svolta?", chiedeva la scritta su uno striscione in piazza San Pietro. Davanti al Papa sventolavano vessilli di associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali. Tantissimi i bambini, anche sul sagrato, ai piedi del quale si è creato un inedito parcheggio di passeggini. In prima fila i drappi di diocesi del Sud, da Monreale a Cassano Jonio. Poi i forum familiari e i consultori. "Non abbiamo paura delle differenze: qui sono insieme i tanti colori della Chiesa italiana", ha sottolineato don Paolo Gentili mentre piazza San Pietro si riempiva.
Tre le testimonianza scelte dagli organizzatori: sul palco sono saliti una coppia di fidanzati - lei di Alghero, lui cubano -, due genitori con i figli e infine una coppia di nonni pisani insieme ai nipoti. Ed è stata proprio la signora toscana a raccontare in piazza lo stato d’animo con il quale grazie alla sua famiglia sta affrontando la sindrome gravissima e invalidante che la affligge: "Dire ti amo - è stato il cuore del suo intervento - significa dire che tu non morirai mai".
Al Papa poi una famiglia con 4 figli, uno dei quali affetto dalla sindrome di Down, ha portato una lampada che Bergoglio ha benedetto. Da essa, la fiamma si è propagata alle fiaccole che la folla dei fedeli aveva in tutta la piazza e il gesto si è ripetuto in contemporanea in tutte le diocesi italiane: "La luce che si è irradiata da San Pietro è il segno visibile di questa fabbrica di speranza che sono le famiglie", sottolinea don Paolo Gentili
La confessione del monsignore Krzysztof Charamsa: "Io gay felice e con un compagno".
La Santa Sede: "Lasci l’insegnamento"
"So che pagherò conseguenze, ma ora Chiesa apra gli occhi"
di Redazione ANSA *
ROMA. "Certamente mons. Charamsa non potrà continuare a svolgere i compiti precedenti presso la Congregazione per la dottrina della fede e le università pontificie, mentre gli altri aspetti della sua situazione sono di competenza del suo Ordinario diocesano". Lo ha detto padre Federico Lombardi.
"La scelta di operare una manifestazione così clamorosa alla vigilia della apertura del sinodo - dichiara padre Lombardi - appare molto grave e non responsabile, poiché mira a sottoporre l’assemblea sinodale a una indebita pressione mediatica". E questo nonostante il rispetto per le vicende personali.
La confessione del monsignore. "Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana". Lo afferma al Corriere della Sera, monsignor Krzysztof Charamsa, 43 anni, polacco, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, oltre che docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.
Molto attivo sui social network, da twitter a linkedin, monsignor Krzysztof Charamsa, il teologo gay ha anche un suo blog, attivato alla fine di questo mese agosto. Pochi ancora i post pubblicati e il monsignore si presenta al pubblico della rete con una foto in t-shirt gialla e con un saluto in diverse lingue.
Sulle ragioni del suo coming out, spiega: "Arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte , forte per le sue conseguenze, ma dovrebbe essere la più semplice per ogni omosessuale, la premessa per vivere coerentemente, perché - aggiunge - siamo già in ritardo e non è possibile aspettare altri cinquant’anni".
"Dunque dico alla Chiesa chi sono - aggiunge -. Lo faccio per me, per la mia comunità, per la Chiesa. È anche mio dovere nei confronti della comunità delle minoranze sessuali". Alla domanda su che cosa pensi di ottenere, mons. Charamsa afferma: "Nella Chiesa non conosciamo l’omosessualità perché non conosciamo gli omosessuali. Li abbiamo da tutte le parti, ma non li abbiamo mai guardati negli occhi, perché di rado essi dicono chi sono.
Vorrei con la mia storia scuotere un po’ la coscienza di questa mia Chiesa. Al Santo Padre rivelerò personalmente la mia identità con una lettera".
Il teologo spiega di parlare alla vigilia del sinodo sulla Famiglia perché "vorrei dire al Sinodo che l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno della famiglia. Ogni persona, anche i gay, le lesbiche o i transessuali, porta nel cuore un desiderio di amore e familiarità. Ogni persona ha diritto all’amore e quell’amore deve esser protetto dalla società, dalle leggi. Ma soprattutto deve essere curato dalla Chiesa".
Terza e conclusiva tappa della sua visita negli Stati Uniti
di Redazione ANSA *
Papa Francesco chiude oggi il suo storico viaggio a Cuba e negli Stati Uniti, con la giornata che conclude l’Incontro mondiale delle famiglie a Filadelfia.
Una grande ovazione delle migliaia di persone presenti ha accolto l’arrivo di papa Francesco in "papamobile" aperta nell’area del Benjamin Franklin Parkway, a Filadelfia, dove il Pontefice ha partecipato alla festa delle famiglie e alla veglia di preghiera dell’Incontro mondiale 2015.
Durante la serata esibizioni di artisti - tra gli altri Aretha Franklin e Andrea Bocelli -, letture, testimonianze, momenti di preghiera.
"Non possiamo pensare a una società sana che non dia spazio concreto alla vita familiare. Non possiamo pensare al futuro di una società che non trovi una legislazione capace di difendere e assicurare le condizioni minime e necessarie perché le famiglie, specialmente quelle che stanno incominciando, possano svilupparsi". Così papa Francesco.
Futuro Chiesa è in ruolo più attivo laici e donne
A Filadelfia Meeting mondiale famiglie. In serata parata di star
Arrivato a Filadelfia per l’Incontro mondiale delle famiglie, dopo i giorni di Washington e New York che lo hanno visto al centro delle questioni politiche globali, papa Francesco lancia subito un forte messaggio alla Chiesa per maggiori spazi e responsabilità ai laici, e in particolare alle donne. Nel suo primo appuntamento nella città-simbolo dell’Indipendenza americana - ma "oggi vorremmo cambiarci il nome in Francisville", gli dice l’arcivescovo Charles Chaput al termine della messa in cattedrale col clero della Pennsylvania - papa Francesco non esita ad affermare che "il futuro della Chiesa, in una società che cambia rapidamente, esige già fin d’ora una partecipazione dei laici molto più attiva". Per papa Bergoglio, "una delle grandi sfide della Chiesa in questo momento è far crescere in tutti i fedeli il senso di responsabilità personale nella missione della Chiesa - spiega nell’omelia -, e renderli capaci di adempiere tale responsabilità come discepoli missionari, come fermento del Vangelo nel nostro mondo".
"La nostra sfida oggi - ripete questo termine, che evidenzia anche la sua determinazione sul tema - è far crescere un senso di collaborazione e di responsabilità condivisa nella programmazione del futuro delle nostre parrocchie e istituzioni". E secondo Francesco, questo non significa affatto "rinunciare all’autorità spirituale che ci è stata conferita": piuttosto, "significa discernere e valorizzare sapientemente i molteplici doni che lo Spirito effonde sulla Chiesa". E "in modo particolare", sottolinea il Pontefice, significa "stimare l’immenso contributo che le donne, laiche e religiose hanno dato e continuano a dar alla vita delle nostre comunità". L’accento posto sul ruolo delle donne, oltre che dei laici, fa seguito anche all’omaggio reso due giorni fa dal Papa, durante i Vespri nella cattedrale di New York, alla suore americane ("che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi?"), verso le quali negli ultimi anni il Vaticano non è stato affatto tenero, con verifiche e anche con censure contro le posizioni più avanzate in tema, ad esempio, di sessualità e contraccezione. Un omaggio a cui il Papa ha comunque aggiunto una visita fuori programma anche a un convento di suore, le "Little sister of the poor", famose perché nel 2013 si sono appellate al giudice per denunciare l’Obamacare, la riforma sanitaria che tra le altre cose introduceva l’obbligo per i datori di lavoro di applicare la copertura assicurativa sui costi di contraccezione.
La spinta data oggi da Bergoglio su maggiori responsabilità a donne e laici, si inserisce anche nel processo di riforma del governo della Chiesa, che a breve terrà a battesimo una nuova Congregazione Laici-Famiglia-Vita, dove le donne potrebbero avere cariche di alto livello. Qui a Filadelfia, in ogni caso, il Papa è soprattutto per concludere il Meeting mondiale delle famiglie, che lo porta dritto anche nei temi del Sinodo di ottobre.
PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Marco 10, 2-16: Contro l’indissolubilità o a favore della donna?
[di don Aldo Antonelli] *
Ciò che è determinante nella comprensione di un qualsiasi testo o parola o fatto, non è la vista o l’udito ma il “punto di vista”, la “sitz im leben” dell’osservatore.
“Quiquid reciptur ad modum recipientis recipitur” era il detto che il mio professore di filosofia usava ripeterci, a noi alunni, per farci capire l’importanza del “punto di vista”.
Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve!
Questa premessa per significare l’utilizzo strumentale che si è fatto di questo passo del Vangelo (Marco 10, 2-16), sempre utilizzato a difesa di quella che è diventata una vera e propria ossessione nell’abito della chiesa: l’indissolubilità del Matrimonio!
E se provassimo a contestualizzare questo “dibattito” tra Gesù e i farisei?
In una società là dove le donne erano totalmente sottomesse all’uomo e ai suoi capricci?
Per meglio comprendere l’ambiente “pesante” per le donne del tempo, mi permetto di proporvi la lettura di questo passo di Molière, anche se vissuto ben sedici secoli dopo...(La scuola delle mogli):
«Solo dovere del vostro sesso è la sottomissione:
Chi porta la barba è l’onnipotente padrone.
Sebbene siamo due metà della società,
Tra queste due metà non esiste parità:
L’una è la metà suprema, e l’altra la subalterna;
L’una è sottomessa in tutto all’altra che governa;
E l’obbedienza che il soldato, addestrato al dovere,
Porta al suo capo che guidar lo deve,
Il servo al padrone, il figlio al padre,
E l’ultimo dei conversi al suo superiore,
E’ ancora nulla rispetto alla docilità,
E all’obbedienza, e all’umiltà,
E al profondo rispetto che la donna deve avere
Nei confronti del marito, sua guida, suo signore e padrone.
Quando egli la guarda con occhio severo
Il suo dovere è di abbassare subito gli occhi,
E di non osare mai guardarlo in faccia
Finché di uno sguardo benevolo egli non vorrà farle grazia».
In commento a questo brano José Antonio Pagola scrive:
«La cosa che più faceva soffrire le donne nella Galilea degli anni Trenta del secolo era la loro totale sottomissione all’uomo nella famiglia patriarcale. I loro mariti potevano perfino ripudiarle in qualsiasi momento, abbandonandole alla loro sorte. Secondo la tradizione giudaica, questo diritto si basava nientemeno che sulla legge di Dio.
I maestri discutevano sui motivi che potevano giustificare la decisione del marito. Secondo i seguaci di Shammai, si poteva ripudiare la moglie solo in caso di adulterio; secondo Hillel, bastava che la donna facesse qualcosa di “sgradevole” agli occhi del marito. Mentre gli uomini dotti discutevano, le donne non potevano levare la loro voce per difendere i loro diritti.
A un certo punto, la questione venne a Gesù: “Può un marito ripudiare la propria moglie?”. La sua risposta sconcertò tutti. Le donne non ci potevano credere. Secondo Gesù, se il ripudio è nella legge, lo è per la “durezza di cuore” degli uomini e per la loro mentalità maschilista, ma il progetto iniziale di Dio non fu quello di un matrimonio “patriarcale”, dominato dall’uomo.
Dio creò l’uomo e la donna perché fossero “una sola carne”. I due sono chiamati a condividere il loro amore, la loro intimità e la loro vita intera, con uguale dignità e in comunione totale. Di qui il grido di Gesù: con il suo atteggiamento maschilista, “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”»! (La via aperta da Gesù. Vol.2 - Borla).
Non aggiungo altro.
Le nostre ossessioni giuridiche sull’indissolubilità ci hanno imbottigliato dentro quella che Franco Ferrarotti chiamava la “cultura del paralume”.
Prigionieri delle nostre diatribe, siamo diventati incapaci di ricerca e di ascolto.
Buona domenica.
Aldo [Antonelli]
* Via mail
Papa: non contraddite con comportamento quanto predicate
A nuovi arcivescovi cui consegna il ’pallio’
Redazione ANSA *
CITTA’ DEL VATICANO.
"Non vorrei soffermarmi - ha detto il Papa all’inizio dell’omelia per la messa di consegna dei ’pallii’ ai nuovi arcivescovi metropoliti - sulle atroci, disumane, e inspiegabili persecuzioni, purtroppo ancora oggi presenti in tante parti del mondo, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti". "Vorrei invece oggi - ha detto - venerare il coraggio degli apostoli e della prima comunità cristiana, di portare avanti l’opera di evangelizzazione".
"La Chiesa non è dei papi, dei vescovi, dei preti e neppure dei fedeli, è solo e soltanto di Cristo", ha detto il Papa nella messa di san Pietro e Paolo, durante la quale consegna il "pallio" a 46 nuovi arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno. "Una Chiesa senza testimonianza è sterile", ha aggiunto papa Bergoglio, è "un morto che pensa di essere vivo, un albero secco che non dà frutto, un pozzo arido che non dà acqua".
"La testimonianza più efficace e più autentica è quella di non contraddire, con il comportamento e con la vita, quanto si predica con la parola e quanto si insegna agli altri": così il Papa concludendo l’omelia. "Insegnate la preghiera pregando; annunciate la fede credendo; date testimonianza vivendo", ha concluso. Il pallio è una stola di lana simbolo di unione tra il Papa e le chiese locali.
"Dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "La prossima settimana, dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus recitato in piazza dalla finestra dello studio su piazza San Pietro davanti ad alcune migliaia di persone - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi - ha aggiunto - di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "Esprimo alla cara popolazione dell’Ecuador, della Bolivia e del Paraguay - ha aggiunto - la mia gioia di trovarmi a casa loro, e chiedo a voi in maniera par di pregare per me e per questo viaggio, affinché la vergine Maria ci dia la grazia di accompagnarci con la sua materna protezione".
“La famiglia è in pericolo”
il manifesto per il sinodo dei cardinali conservatori
Da Ruini a Caffarra, undici prelati di peso rispondono alle aperture di Bergoglio: “No alla comunione ai divorziati e alle nozze gay. Fermiamo questa fase di disfacimento”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 27.09.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Alla «fase di disfacimento che non ha eguali nella storia» nella quale sono entrati nel mondo occidentale «il concetto di matrimonio come anche l’istituzione della famiglia», undici cardinali rispondono con un libro, le cui bozze sono state lette da Repubblica , appositamente scritto in vista dell’imminente Sinodo.
“Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali di undici cardinali” (Cantagalli) è il titolo di un lavoro che, nella sua tesi, risponde alle due relazioni con cui il cardinale Walter Kasper aprì nel 2014 alla comunione ai divorziati risposati. Non possumus è, nella sostanza, la risposta che Caffarra, Cleemis, Cordes, Duka, Eijk, Meisner, Onaiyekan, Rouco Varela, Ruini, Sarah e Urosa Savino mettono in pagina. «Ma tiene a precisare Winfried Aymans, curatore del libro il volume non è contro Francesco né contro Kasper e le posizioni di quest’ultimo più aperte. Piuttosto, in scia al Papa che ha incoraggiato la libera discussione su tali tematiche in seno alla Chiesa, ha lo scopo di offrire un contributo per un confronto che nell’aula sinodale avrà il suo momento clou. Il Sinodo, infatti, non è un Parlamento dove fazioni contrapposte combattono la propria battaglia, ma è un luogo di comunione nel quale ogni sensibilità ha diritto di esistenza».
Comunque sia gli undici, fra loro esponenti di peso della curia romana e pastori di grandi diocesi, non lasciano spazio ad aperture. E anzi, si oppongono a chi, come il presidente della commissione pastorale della conferenza episcopale tedesca, il vescovo di Osnabrück Franz-Josef Bode, ha chiesto sui divorziati risposati un «cambio di paradigma». È il cardinale Cordes a dire che Bode è ricorso «a munizioni pesanti» quando ha messo in campo, per sostenere la sua tesi, la Costituzione conciliare Gaudium et spes per spiegare come vita e dottrina non dovrebbero mai essere completamente separate. Eppure, incalza ancora Cordes, «l’appello di Bode a un cambio di prospettiva non è né originale né utile». Perché «l’ordinamento della Chiesa deve restare fedele al Vangelo e non ha il diritto di deformarlo». E ancora: «I divorziati risposati hanno infranto un inequivocabile comandamento di Gesù e vivono una situazione che contraddice in maniera oggettiva il volere di Dio. Ecco perché non possono ricevere l’eucaristia». L’unica soluzione per “risolvere” il problema è, per Cordes, la «comunione spirituale».
Al fondo delle tesi degli undici sembra esserci un approccio negativo al fenomeno della secolarizzazione. Essa, più che un’opportunità, è per loro un qualcosa da combattere. Nella società occidentale secolarizzata - scrive il cardinale Sarah -, «la dimensione della tristezza rivela la profondità della ferita inflitta alla verità e alla felicità umana. Le leggi sulle unioni omosessuali sfidano il buon senso, le statistiche sul divorzio rivelano una vera e propria “epidemia” e mostrano la fragilità di ogni impegno». A tal riguardo per Sarah «la Chiesa deve svolgere un’azione urgente di evangelizzazione».
Il “no” forse più netto alla comunione ai divorziati risposati viene dal cardinale Eijk, arcivescovo di Utrecht. La concessione della comunione è un pericolo da evitare. Perché «una volta accettata, accetteremo pure che il mutuo dono degli sposi non debba essere totale, né a livello spirituale, né a livello fisico. Conseguentemente saremmo costretti a cambiare la dottrina della Chiesa riguardante il matrimonio e la sessualità». Così «indeboliremmo i nostri argomenti intrinseci contro l’adulterio in genere. Abbandonando l’esigenza della totalità e reciprocità del dono (della paternità e della maternità, ndr ), dovremmo accettare l’uso dei contraccettivi». Così «saremmo costretti ad accettare anche atti sessuali assolutamente non diretti alla procreazione come quelli omosessuali».
Tutto questo, sostiene Eijk, discende dalla prima concessione: l’eucaristia ai divorziati. «Non è in questione - chiosa Ruini - una loro colpa personale (dei divorziati risposati, ndr ) ma lo stato in cui oggettivamente si trovano». Certo, «ciò non significa che ogni possibilità di sviluppo sia preclusa. Una strada che appare percorribile è quella della revisione dei processi di nullità del matrimonio». Strada, da pochi giorni, percorsa da Francesco.
Gender
La fabbrica del pregiudizio
Le unioni civili? “Un attentato alla famiglia”
L’educazione sessuale in classe? “Fa diventare gay i bambini”.
Tutte le bufale della destra ultracattolica che si oppone ai tentativi di superare il sessismo e l’omofobia
Dire ai piccoli che i cuori di maschi e femmine sono uguali diventa “insegnare a toccarsi”
Un fenomeno carsico fino all’inizio del 2015 e poi esploso con l’ultimo Family Day
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 01.10.2015)
I LIBRI all’indice a Venezia e la campagna contro le unioni civili. Le “scuole di Dio” di Staggia Senese e i manifesti che minacciano la “compravendita dei bambini” nelle strade di Roma. La famiglia naturale contro “l’omosessualismo”, i comuni della Lega che in Lombardia si proclamano de-genderizzati e gli appelli su WhatsApp delle mamme di Brindisi per difendersi dal “genter” pronunciato con la T al posto della D... Le delegazioni di genitori che chiedono ai dirigenti scolastici di proteggere i loro figli dalla “contaminazione” gay, i filmati dei gruppi pro-life che annunciano un’apocalisse dei costumi, l’assessore veneto alle Pari opportunità Elena Donazzan che si scaglia contro i libretti delle giustificazioni perché, ormai da anni, non c’è più la parola mamma o papà.
C’è un vento che soffia al contrario in Italia, in questo autunno, a poche settimane dall’approvazione, forse, del testo sulle unioni civili al Senato, mentre si fa sempre più urgente la legge contro l’omofobia, e nelle scuole, seppure timidamente, si inizia a parlare di parità tra i sessi e di “prevenzione della violenza di genere”. Genere appunto, e non Gender, parola, anzi bandiera, dietro alla quale in una nuova crociata, sempre più capillare e pervasiva, si affratellano ogni giorno più forti i gruppi della destra cattolica e della destra estrema.
Una vera e propria “fabbrica del pregiudizio”. Nella quale si aggrega quella galassia rinvigorita dal successo del Family Day del giugno scorso, oggi decisa ad affossare ogni apertura verso le unioni omosessuali, ma anche verso quei nuovi linguaggi, suggeriti dall’Europa e dall’Oms, che dovrebbero insegnare ai bambini il rispetto tra maschi e femmine, radice della prevenzione di omofobia e femminicidi. «Ma le unioni civili andranno in aula il 15 ottobre - assicura la relatrice Monica Cirinnà - e approveremo il testo subito dopo la legge di Bilancio. La campagna anti-Gender non ci tocca».
C’è forse una data di nascita della “fabbrica del pregiudizio”, che si può far risalire all’inizio del 2014, quando lo sparuto ma agguerritissimo gruppo cattolico Giuristi per la vita, fondato dall’avvocato Gianfranco Amato, inizia una battente campagna di boiocottaggio degli opuscoli anti-omofobia commissionati dall’Ufficio antidiscriminazioni del ministero per le Pari opportunità, all’Istituto Beck di Roma. Libretti destinati agli insegnanti, in cui per la prima volta si parla di nuove famiglie, di differenza tra genere (nascere maschi o femmine) e identità di genere (sentirsi maschi o femmine al di là della propria anatomia).
In realtà si tratta di testi accurati e scientifici, privi di ogni propaganda, ma sulla Rete inizia un vero tam-tam dove per la prima volta appare la parola Gender, attorno alla quale si coalizzano le sigle ultrà. Il messaggio è: attenti, dietro questa parola si nasconde la spinta a far diventare i vostri figli gay, cadranno le differenze tra maschi e femmine, a scuola verrà insegnata la masturbazione ai bambini.
Evidente la mistificazione, eppure la campagna appoggiata anche dal cardinal Bagnasco convince il ministro Giannini (che offre spiegazioni confuse) a ritirare i libretti. Il termine Gender inizia a circolare nel ramificato mondo dei siti pro-life: dalla Croce di Adinolfi a Tempi, dal Sussidiario a La Nuova Bussola Quotidiana, Manif pour tous, Pro-Vita. Negli stessi mesi, molte associazioni e gruppi che nelle scuole portano avanti il progetto Educare alle differenze destinato a insegnati e presidi denunciano attacchi violenti e boicottaggi. A cominciare dall’associazione Scosse, fondata da Monica Pasquino, che parla di una vera e propria campagna diffamatoria. Il movimento anti-gender in poche settimana raccoglie più di centomila firme, e le invia al Miur chiedendo di fermare “chi insegna la teoria Gender”... Ricorda Federica M, maestra di scuola primaria della capitale: «Per mesi avevamo avuto incontri tranquilli e proficui con insegnanti e genitori, poi un pomeriggio ci siamo trovati davanti alla scuola un gruppo di pazzi che ci gridavano: “ Siete froci e abortisti, viva la famiglia naturale”. Abbiamo concluso il corso, ma con paura e disagio».
Gender: la parola diventa popolare. Un ombrello sotto il quale si sommano le più diverse parole d’ordine, dalle campagne anti-aborto all’esaltazione della eterosessualità. Ma è contro l’approvazione alla Camera del disegno di legge Scalfarotto sull’omofobia che la “fabbrica del pregiudizio” si riaggrega. Ammette con amarezza Giuseppina La Delfa, presidente delle Famiglie Arcobaleno che riunisce le famiglie omogenitoriali: «Per noi e per i nostri figli la vita è diventata difficile. Soprattutto nelle regioni del Nord. Questi gruppi fanno terrorismo psicologico, e ormai presidi e insegnanti hanno paura anche di raccontare una fiaba diversa... Il ministero dell’Istruzione deve reagire: non è giusto che i nostri bambini vengano discriminati».
Se il fenomeno all’inizio del 2015 è ancora carsico in tutta Italia, è nel marzo che la questione riesplode. Il caso arriva da Trieste, dove i gruppi di genitori, subito sostenuti dal “movimento” anti Gender, contestano l’arrivo nelle scuole d’infanzia di un programma sull’educazione di genere, dal titolo “Il gioco del rispetto”. Un vero e proprio kit per i più piccoli messo a punto da un gruppo di psicologi, dove si sollecitano i bambini a fare i giochi che preferiscono, senza pensare se siano da maschi o da femmina. Il gioco prevede anche che alla fine di una corsa i bambini e le bambine mettano la mano uno sul cuoricino dell’altro e dell’altra, per sentire che nonostante si sia di sesso diverso, i cuori battono tutti allo stesso modo. L’accusa lanciata dai Pro-Life è pesantissima quanto mistificatoria: «Negli asili di Trieste si insegna ai bambini a toccarsi...».
Ma è il 20 giugno 2015 che la “fabbrica del pregiudizio” trova la sua apoteosi, con il Family Day, organizzato dal Comitato Difendiamo i nostri figli e da tutta l’ultradestra cattolica. Al grido “Il Gender sterco del demonio”, tra gli applausi dei neocatecumenali, il fantasma del Gender diventa un nemico in carne e ossa da abbattere in ogni modo, per salvare l’innocenza delle nuove generazioni. Ormai è una valanga, spesso grottesca. A luglio l’incauto sindaco di Venezia decide di ritirare da tutte le biblioteche scolastiche i famosi libri gender, delicate storie che raccontano oltre l’omogenitorialità anche adozioni e disabilità, guadagnandosi l’ironia dei giornali di mezzo mondo.
Però non basta. Il 14 settembre a Staggia Senese e a Schio è suonata la campanella delle prime “scuole di Dio”. Ossia classi parentali, create da gruppi di genitori, ospitate nei locali delle parrocchie, per fuggire da scuole contaminate dal Gender. Come Dio comanda. Il comitato del Family Day gira l’Italia con conferenze a tappeto per raccogliere firme contro la legge sulle unioni civili. L’epicentro è tra Lombardia e Nordest: a Milano la Regione ospiterà dibattiti sulla “famiglia naturale” e sull’esaltazione dell’eterosessualità.
Cuori pietrificati
·Messa a Santa Marta ·
12 marzo 2015 *
Nessun compromesso: o ci lasciamo amare «dalla misericordia di Dio» o scegliamo la via «dell’ipocrisia» e facciamo quello che vogliamo lasciando che il nostro cuore «si indurisca» sempre più. È la storia del rapporto tra Dio e l’uomo, dai tempi di Abele ai giorni nostri, al centro della riflessione proposta da Papa Francesco durante la messa a Santa Marta di giovedì 12 marzo.
Il Pontefice è partito dalla preghiera del salmo responsoriale - «Non indurite il vostro cuore» - e si è chiesto: «Perché accade questo?». Per comprenderlo ha fatto riferimento anzitutto alla prima lettura tratta dal libro del profeta Geremia (7, 23-28) dove è, per così dire, sintetizzata la «storia di Dio». Ma come, ci si potrebbe chiedere, «Dio ha una storia?». Come è possibile visto che «Dio è eterno»? È vero, ha spiegato Francesco, «ma dal momento che Dio è entrato in dialogo con il suo popolo, è entrato nella storia».
E quella di Dio con il suo popolo «è una storia triste» perché «Dio ha dato tutto» e in cambio «soltanto ha ricevuto cose brutte». Il Signore aveva detto: «Ascoltate la mia voce: io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò e così sarete felici». Quella era la «strada» per la felicità. «Ma essi non ascoltarono, né prestarono orecchio» e anzi: «procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio»: non volevano, cioè, «ascoltare la Parola di Dio».
Questa scelta, ha spiegato il Papa, ha caratterizzato tutta la storia del popolo di Dio: «pensiamo all’assassinio, alla morte di Abele, ucciso da suo fratello, cuore malvagio di invidia». Nonostante però il popolo abbia continuamente «voltato le spalle» al Signore, egli afferma: «Io non mi sono stancato». E invia «con assidua premura» i profeti. Ancora, però, gli uomini non hanno ascoltato. Anzi, si legge nella Scrittura, «hanno reso dura la loro cervice divenendo peggiori dei loro padri». E così «la situazione del popolo di Dio è peggiorata, nelle generazioni».
Il Signore dice a Geremia: «Di’ tutte queste cose, ma non ti ascolteranno, non ti risponderanno. E tu dirai: questa è la nazione che non ascolta la voce del Signore, né accetta la correzione». E poi, ha sottolineato il Papa, aggiunge una parola «terribile: “La fedeltà è sparita. Voi non siete un popolo fedele”». Qui, ha commentato Francesco, sembra che Dio pianga: «Ti ho amato tanto, ti ho dato tanto e tu... tutto contro di me». Un pianto che ricorda quello di Gesù «guardando Gerusalemme». Del resto, ha spiegato il Pontefice, «nel cuore di Gesù c’era tutta questa storia, dove la fedeltà era sparita». Una storia di infedeltà che riguarda «la nostra storia personale», perché «noi facciamo la nostra volontà. Ma facendo questo, nel cammino della vita seguiamo una strada di indurimento: il cuore si indurisce, si pietrifica. La parola del Signore non entra. Il popolo si allontana». Per questo, ha detto il Papa, «oggi, in questo giorno quaresimale, possiamo domandarci: Io ascolto la voce del Signore, o faccio quello che io voglio, quello che a me piace?».
Il consiglio del salmo responsoriale - «Non indurite il vostro cuore» - si ritrova «tante volte nella Bibbia» dove, per spiegare l’«infedeltà del popolo», si usa spesso «la figura dell’adultera». Francesco ha ricordato, ad esempio, il brano famoso di Ezechiele 16: «Tutta una storia di adulterio, è la tua. Tu, popolo, non sei stato fedele a me, sei un popolo adultero». O anche le tante volte in cui Gesù «rimprovera questo cuore indurito ai discepoli», come fece con quelli di Emmaus: «O stolti e duri di cuore!».
Il cuore malvagio - ha spiegato il Pontefice ricordando che «tutti ne abbiamo un pezzettino» - «non ci lascia capire l’amore di Dio. Noi vogliamo essere liberi», ma «con una libertà che alla fine ci fa schiavi, e non con quella libertà dell’amore che ci offre il Signore».
Questo, ha sottolineato il Papa, succede anche alle «istituzioni»: ad esempio «Gesù guarisce una persona, ma il cuore di questi dottori della legge, di questi sacerdoti, di questo sistema legale era tanto duro, sempre cercavano scuse». E così gli dicono: «Ma tu cacci i demoni in nome del demonio. Tu sei uno stregone demoniaco». Sono cioè dei legalisti «che credono che la vita della fede sia regolata soltanto dalle leggi che fanno loro». Per loro «Gesù usa quella parola: ipocriti, sepolcri imbiancati, tanto belli al di fuori ma dentro pieni di putredine e di ipocrisia».
Purtroppo, ha detto Francesco, lo stesso «è accaduto nella storia della Chiesa». Pensiamo «alla povera Giovanna d’Arco: oggi è santa! Poverina: questi dottori l’hanno bruciata viva, perché dicevano che era eretica». O ancora più vicino nel tempo, pensiamo «al beato Rosmini: tutti i suoi libri all’indice. Non si potevano leggere, era peccato leggerli. Oggi è beato». A tale riguardo il Pontefice ha sottolineato che come «nella storia di Dio con il suo popolo, il Signore mandava, per dirgli che amava il suo popolo, i profeti». E «nella Chiesa, il Signore manda i santi». Sono loro «che portano avanti la vita della Chiesa: sono i santi. Non sono i potenti, non sono gli ipocriti». Sono «l’uomo santo, la donna santa, il bambino, il ragazzo santo, il prete santo, la suora santa, il vescovo santo...»: quelli cioè «che non hanno il cuore indurito», ma «sempre aperto alla parola d’amore del Signore», quelli che «non hanno paura di lasciarsi accarezzare dalla misericordia di Dio. Per questo i santi sono uomini e donne che capiscono tante miserie, tante miserie umane, e accompagnano il popolo da vicino. Non disprezzano il popolo».
Con questo popolo che «ha perso la fedeltà» il Signore è chiaro: «Chi non è con me, è contro di me». Qualcuno potrebbe chiedere: «Ma non ci sarà una via di compromesso, un po’ di qua e un po’ di là?» No, ha detto il Pontefice, «o tu sei sulla via dell’amore, o tu sei sulla via dell’ipocrisia. O tu ti lasci amare dalla misericordia di Dio, o tu fai quello che tu vuoi, secondo il tuo cuore che si indurisce di più, ogni volta, su questa strada». Non c’è, ha ribadito, «una terza via di compromesso: o sei santo, o vai per l’altra via». E chi «non raccoglie» con il Signore, non solo «lascia le cose», ma «peggio: disperde, rovina. È un corruttore. È un corrotto, che corrompe».
Per questa infedeltà «Gesù pianse su Gerusalemme» e «su ognuno di noi». Nel capitolo 23 di Matteo, ha ricordato in conclusione il Papa, si legge una maledizione «terribile» contro i «dirigenti che hanno il cuore indurito e vogliono indurire il cuore del popolo». Dice Gesù: «Verrà su di loro il sangue di tutti gli innocenti, incominciando da quello di Abele. Saranno i colpevoli di tanto sangue innocente, versato dalla loro malvagità, dalla loro ipocrisia, dal loro cuore corrotto, indurito, pietrificato»
*
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I vescovi minacciano la famiglia
risponde Furio Colombo (il Fatto, 01.02.2015)
ASCOLTARE IL VESCOVO Bagnasco è imbarazzante, perché senti ripetere una frase insensata. Una famiglia non può minacciarne un’altra per il solo fatto che, nella vita privata, ha messo i mobili in un altro modo. È possibile che un pittore, solo o con prole, sia una minaccia per la famiglia di un ingegnere, che sta sullo stesso pianerottolo, ma con orari e momenti di vita e di esperienza molto diversi? Credereste a qualcuno che vi dice che una famiglia di sportivi è una minaccia ai coinquilini che si alzano tardi, mangiano molto e non credono nella palestra?
Se restiamo sul lato del senso comune e della quotidiana esperienza di vita, sappiamo tutti che, almeno in teoria, ognuno di noi è una minaccia per l’altro. Per esempio avere un vicino di casa che fuma sull’ascensore e non vuole sentire ragioni non sarà forse una minaccia, ma è un disturbo non da poco. Così come l’eccessivo amore per il rock a pieno volume o l’abitudine di appendere quadri a mezzanotte (succede, vi prego di credere).
Ma che per una famiglia con moglie e bambini con matrimonio in Chiesa e regolarmente trascritto in municipio, un’altra famiglia dello stesso caseggiato in cui due persone (magari due uomini o due donne) si vogliono bene, vivono insieme, stanno bene insieme, costituirebbe una minaccia (che vuol dire un pericolo) per l’altra famiglia (e guai se il loro legame venisse trascritto in municipio) non vi sembra una affermazione un po’ squilibrata?
Un conto è il credere fermamente che questa o quella cosa sia un peccato. Un conto è disprezzare e discriminare il tuo prossimo, privandolo di alcuni essenziali diritti civili, per il fatto che, nella sua vita privata, ha uno stile di vita diverso e non tiene conto della tua religione.
Né legge né diritto (salvo la Sharìa) mi permette di dire a un altro essere libero come deve vivere la sua vita personale e privata, e con chi, e secondo quali modalità. L’affermazione (le coppie di fatto e gay sono una minaccia per le altre famiglie) è bugiarda, perché non corrisponde a nulla di vero o di accaduto.
Meglio se un vescovo non dice bugie, no? Infatti, in questo modo sono i vescovi che minacciano la famiglia, e la pace, il rispetto fra le famiglie.
Papa Francesco: “La famiglia imbastardita dalle convivenze part time”
L’occasione per sintetizzare anche il dibattito dei padri sinodali sulle unioni di fatto, sulle separazioni e sui divorziati risposati, è stato il pellegrinaggio in Vaticano della "Famiglia di Schönstatt", migliaia di fedeli giunti a Roma in occasione della celebrazione del primo centenario della fondazione del movimento
di Francesco Antonio Grana (Il Fatto, 25 ottobre 2014)
“La famiglia è imbastardita dalle convivenze part time“. A una settimana dalla conclusione del Sinodo straordinario dei vescovi sulle sfide della famiglia, Papa Francesco ha tracciato un bilancio delle difficoltà che vivono in tutto il mondo le coppie.
L’occasione per sintetizzare anche il dibattito dei padri sinodali sulle unioni di fatto, sulle separazioni e sui divorziati risposati, è stato il pellegrinaggio in Vaticano della “Famiglia di Schönstatt”, migliaia di fedeli giunti a Roma in occasione della celebrazione del primo centenario della fondazione del movimento divenuto successivamente un istituto secolare di diritto pontificio.
Per Bergoglio le “convivenze part time” sono “nuove forme distruttive e limitative della grandezza della famiglia”. Una realtà che oggi si “imbastardisce” trasformando “il matrimonio in un’associazione”. L’impreparazione con la quale tanti fidanzati si sposano è “la maggior causa di separazioni e divorzi”.
Per Francesco “le famiglie cristiane e i matrimoni non sono mai stati attaccati come adesso. Forse mi sbaglierò e gli storici mi daranno addosso, ma quante famiglie ferite oggi, quanti matrimoni finiti. Esiste una sorta di relativismo nella concezione del matrimonio. E la famiglia è in crisi perché è attaccata da tutti i lati”.
Sulle unioni di fatto il Papa ha affermato che bisogna dire con chiarezza, anche se ciò fa male, che quello che viene proposto non è “un matrimonio ma è un’associazione”. Ed è necessaria una “pastorale di aiuto” che “accompagni i fidanzati e poi gli sposi facendo il cammino insieme”, perché oggi il “sacramento del matrimonio è svalutato da rito sacramentale a qualcosa di sociale, non religioso”.
Francesco si è domandato perché oggi i conviventi non si sposano. Spesso si risponde perché “c’è bisogno di denaro per la festa, ma si dimentica che la cosa principale è l’unione con Dio. Non si possono preparare i fidanzati al matrimonio solo con due incontri di catechesi. Questo è un peccato di omissione che abbiamo noi preti”.
Il Papa ha sottolineato anche che non bisogna scandalizzarsi di tutto quello che avviene nella famiglia. “Nel Sinodo ci siamo chiesti se siamo davvero consapevoli della sofferenza che vive un bambino quando i genitori si separano con il padre e la madre che spesso incitano il figlio a parlare male dell’uno o dell’altro coniuge”.
Bergoglio ha poi confidato ai fedeli presenti nell’aula Paolo VI che nel suo lavoro quotidiano “mi costa fare pianificazioni. Io prego e mi abbandono. Il Signore mi ha dato la grazia di avere una grande fede in questo momento di grande peccato. Ho fiducia che Dio non mi abbandona e vado avanti. Sono cosciente che ci sono tante cose cattive e che ho fatto io tante cose cattive quando non mi sono abbandonato al Signore, quando mi sono abbandonato alla tendenza di autosalvarmi“.
Per Francesco è necessario “rinnovare noi stessi. I telegiornali dicono che sto rinnovando la Curia, il Vaticano, tutti rinnovamenti di fuori, ma nessuno parla del rinnovamento del cuore di noi stessi”. Il rischio, infatti, è quello di essere “funzionalisti”. “A volte vedo in alcune conferenze episcopali che ognuno ha un incarico per qualsiasi cosa e non si scappa da nulla, ma spesso mancano alcune cose. Meno funzionalismo e più libertà interiore, adorazione e preghiera”.
Parole ugualmente significative sono quelle che Francesco ha voluto rivolgere in un messaggio ai partecipanti al Convegno nazionale organizzato dalla Cei a Salerno sul tema “Nella precarietà, la speranza”. Bergoglio ha ricordato che nelle numerose visite pastorali compiute in Italia “ho potuto toccare con mano la situazione di tanti giovani disoccupati, in cassa integrazione o precari. Ma questo non è solo un problema economico, è un problema di dignità. Dove non c’è lavoro, manca la dignità, l’esperienza della dignità di portare a casa il pane! E purtroppo in Italia sono tantissimi i giovani senza lavoro”.
Francesco ha ribadito che “lavorare vuol dire poter progettare il proprio futuro, decidere di formare una famiglia! Davvero si ha la sensazione che il momento che stiamo vivendo rappresenti ‘la passione dei giovani’. È forte la ‘cultura dello scarto’: tutto ciò che non serve al profitto viene scartato. Si scartano i giovani, perché senza lavoro. Ma così si scarta il futuro di un popolo, perché i giovani rappresentano il futuro di un popolo. E noi dobbiamo dire ‘no’ a questa ‘cultura dello scarto’. Questa è la ‘precarietà’”.
La relazione conclusiva del Sinodo è un netto arretramento rispetto a quella che ha concluso la prima settimana
di “Noi Siamo Chiesa” (20 ottobre 2014) *
Un Sinodo importante. La Relatio conclusiva arretra rispetto a quella della prima settimana. “Noi Siamo Chiesa” si impegnerà nei prossimi mesi con tutta l’area “conciliare” perché tutto non resti come prima.
Questa prima fase del Sinodo sulla famiglia resterà nella storia della Chiesa. Questioni che erano state sollevate da tempo dalla “base” del Popolo di Dio sono state discusse da un’istituzione ecclesiastica che non ha mai avuto in passato un ruolo significativo, sia per la sua composizione che per il suo ruolo solo consultivo. Questi limiti di partenza non gli hanno impedito, per merito principale di papa Francesco, di affrontare la realtà della famiglia senza lasciarsi paralizzare dai modelli del Catechismo, da normative canonistiche, da “verità” definite per sempre. Così le gioie, le sofferenze, le contraddizioni e le differenti culture e prassi con cui nell’universo cattolico si vive la famiglia sono state fotografate in modo sufficiente, particolarmente nel Messaggio e nella prima parte della Relatio conclusiva . Meglio tardi che mai. Il questionario, proposto un anno fa dalla segreteria del Sinodo, ha infatti avviato un ascolto che, per troppi anni, dal vertice fino alla base della struttura ecclesiastica, era stato impedito perché si pretendeva che tutto fosse già stato detto nella dottrina e nella prassi.
Al Sinodo le relazioni famigliari si sono confermate-e non poteva non esserlo- nel vissuto di ogni credente la sede principale degli affetti, della solidarietà, della educazione ma anche delle tensioni, delle contraddizioni, delle difficoltà. La comunità cristiana, più di qualsiasi altra struttura di vita associativa, partecipa ed è condizionata da questo vissuto. Di questo ha parlato il Sinodo. Mi pare che la discussione sia stata vivace ma è un peccato che, per una decisione immotivata, non siano stati resi noti i singoli interventi, come avveniva in passato; comunque sulla stampa e nei media le principali questioni sono state molto discusse con vivaci contrapposizioni che vengono da lontano.
Premessa questa condivisione dell’itinerario che è stato avviato e che si concluderà nel prossimo ottobre, faccio alcune prime sintetiche osservazioni sulla Relatio Synodi che ha concluso sabato i lavori, con l’impegno di “Noi Siamo Chiesa nei prossimi mesi a fare altre analisi e proposte:
mi sembra ottimo che il Sinodo abbia rovesciato la precedente demonizzazione del matrimonio civile e delle convivenza e che ne abbia colto invece “gli elementi positivi”;
mi sembra buona cosa che si sia rotto il tabù assoluto della proibizione della partecipazione dei divorziati risposati all’eucaristia. Le soluzioni prospettate, soprattutto nella Relatio post disceptationem, appartengono ancora alla logica della procedura tesa alla dichiarazione di nullità del matrimonio (che però si vuole semplificare e sveltire). Ci sembra una strada insufficiente. Si abbia il coraggio di prendere atto anche dei casi di matrimoni del tutto validi che si sono conclusi per i motivi più diversi, in cui i coniugi, se del caso dopo un percorso penitenziale, siano liberi di stringere un secondo vincolo di tipo sacramentale che sia pienamente accettato nella comunità ecclesiale;
non capisco cosa significhi, al punto 53, parlare di possibile “comunione spirituale” dei divorziati risposati. Di che si tratta? Perché allora non potrebbero accedere a quella sacramentale? Chi dice queste cose non pecca di un po’ di furbizia o di ipocrisia ?;
la lettura del n.55 sulle persone con orientamento omosessuale mi lascia sbigottito. Si fa una citazione (senza indicarne le fonte, è mai possibile una cosa del genere?) secondo cui “non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Poi si cita un documento dell’ex-S.Ufficio. Punto e a capo. La marcia indietro rispetto ai punti 50, 51 e 52 della Relatio post disceptationem è completa e lascia amareggiati. Allora durante le prima settimana si è scherzato! La problematica vi era stata ampiamente trattata con un atteggiamento aperto all’accoglienza nella linea di un orientamento generale che si sta lentamente diffondendo nella Chiesa e a cui ha contribuito il movimento degli omosessuali credenti. Suppongo che la faziosa controffensiva dei conservatori sia stata efficace e che i tanti 62 voti contrari a questo paragrafo siano di vescovi che non accettano che nulla cambi e che si continui quindi negli errori di demonizzazione e di esclusione del passato;
Sulla Humanae Vitae si dice che “va riscoperto il suo messaggio che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità”. Questa frase non si capisce bene cosa voglia per rilanciare la HV. Ma il Sinodo ha discusso della Humanae Vitae? Non sembra. Allora questa citazione sembra fatta di passaggio per dovere di rispetto nei confronti dell’autorità pontificia (e il giorno prima della beatificazione di Paolo VI), dando per scontato che questa enciclica è di fatto decaduta perché, dall’inizio e ininterrottamente, non recepita nel sentire diffuso del Popolo di Dio. Non sarebbe stato meglio usare la parresia richiesta da papa Francesco e dire le cose come stanno ?;
il dibattito al Sinodo sembra aver preso strade diverse da quelle che ha seguito fino ad ora la Conferenza episcopale italiana sulle questioni della famiglia. Niente toni da crociata, niente “campagne”, niente “valori non negoziabili”, niente “legge naturale”. Spero, come tanti, che il decennale incontro della Chiesa italiana del prossimo anno a Firenze segni una svolta.
I dodici mesi che ci separano dal Sinodo ordinario del prossimo ottobre dovrebbero fare emergere meglio nella Chiesa - questo è almeno quanto aspettiamo- la consapevolezza che ogni cristiano e la Chiesa tutta devono essere sempre in cammino. Chi si ferma rimane solo a fare il testimone del passato.
* Roma, 20 ottobre 2014 Vittorio Bellavite, portavoce nazionale di “Noi Siamo Chiesa”
Synod14 -
Messaggio della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, 18.10.2014 *
[B0768]
Nel corso della 14ª Congregazione Generale di questa mattina, i Padri sinodali hanno approvato il Messaggio della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema: Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione (5-19 ottobre 2014).
Ne pubblichiamo di seguito il testo in lingua italiana, mentre le traduzioni in lingua inglese, spagnola e francese sono disponibili online nel Bollettino della Sala Stampa ai rispettivi indirizzi linguistici:
Messaggio
Noi Padri Sinodali riuniti a Roma intorno a Papa Francesco nell’Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, ci rivolgiamo a tutte le famiglie dei diversi continenti e in particolare a quelle che seguono Cristo Via, Verità e Vita. Manifestiamo la nostra ammirazione e gratitudine per la testimonianza quotidiana che offrite a noi e al mondo con la vostra fedeltà, la vostra fede, speranza, e amore.
Anche noi, pastori della Chiesa, siamo nati e cresciuti in una famiglia con le più diverse storie e vicende. Da sacerdoti e vescovi abbiamo incontrato e siamo vissuti accanto a famiglie che ci hanno narrato a parole e ci hanno mostrato in atti una lunga serie di splendori ma anche di fatiche.
La stessa preparazione di questa assemblea sinodale, a partire dalle risposte al questionario inviato alle Chiese di tutto il mondo, ci ha consentito di ascoltare la voce di tante esperienze familiari. Il nostro dialogo nei giorni del Sinodo ci ha poi reciprocamente arricchito, aiutandoci a guardare tutta la realtà viva e complessa in cui le famiglie vivono.
A voi presentiamo le parole di Cristo: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Come usava fare durante i suoi percorsi lungo le strade della Terra Santa, entrando nelle case dei villaggi, Gesù continua a passare anche oggi per le vie delle nostre città. Nelle vostre case si sperimentano luci ed ombre, sfide esaltanti, ma talora anche prove drammatiche. L’oscurità si fa ancora più fitta fino a diventare tenebra, quando si insinua nel cuore stesso della famiglia il male e il peccato.
C’è, innanzitutto, la grande sfida della fedeltà nell’amore coniugale. Indebolimento della fede e dei valori, individualismo, impoverimento delle relazioni, stress di una frenesia che ignora la riflessione segnano anche la vita familiare. Si assiste, così, a non poche crisi matrimoniali, affrontate spesso in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio. I fallimenti danno, così, origine a nuove relazioni, nuove coppie, nuove unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana.
Tra queste sfide vogliamo evocare anche la fatica della stessa esistenza. Pensiamo alla sofferenza che può apparire in un figlio diversamente abile, in una malattia grave, nel degrado neurologico della vecchiaia, nella morte di una persona cara. È ammirevole la fedeltà generosa di molte famiglie che vivono queste prove con coraggio, fede e amore, considerandole non come qualcosa che viene strappato o inflitto, ma come qualcosa che è a loro donato e che esse donano, vedendo Cristo sofferente in quelle carni malate.
Pensiamo alle difficoltà economiche causate da sistemi perversi, dal «feticismo del denaro e dalla dittatura di un’economia senza volto e senza scopo veramente umano» (Evangelii gaudium, 55), che umilia la dignità delle persone. Pensiamo al padre o alla madre disoccupati, impotenti di fronte alle necessità anche primarie della loro famiglia, e ai giovani che si trovano davanti a giornate vuote e senza attesa, e che possono diventare preda delle deviazioni nella droga o nella criminalità.
Pensiamo, pure, alla folla delle famiglie povere, a quelle che s’aggrappano a una barca per raggiungere una meta di sopravvivenza, alle famiglie profughe che senza speranza migrano nei deserti, a quelle perseguitate semplicemente per la loro fede e per i loro valori spirituali e umani, a quelle colpite dalla brutalità delle guerre e delle oppressioni. Pensiamo anche alle donne che subiscono violenza e vengono sottoposte allo sfruttamento, alla tratta delle persone, ai bambini e ragazzi vittime di abusi persino da parte di coloro che dovevano custodirli e farli crescere nella fiducia e ai membri di tante famiglie umiliate e in difficoltà. «La cultura del benessere ci anestetizza e [...] tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (Evangelii gaudium, 54). Facciamo appello ai governi e alle organizzazioni internazionali di promuovere i diritti della famiglia per il bene comune.
Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta nell’accoglienza, senza escludere nessuno. Siamo perciò grati ai pastori, fedeli e comunità pronti ad accompagnare e a farsi carico delle lacerazioni interiori e sociali delle coppie e delle famiglie.
* * *
C’è, però, anche la luce che a sera splende dietro le finestre nelle case delle città, nelle modeste residenze di periferia o nei villaggi e persino nelle capanne: essa brilla e riscalda corpi e anime. Questa luce, nella vicenda nuziale dei coniugi, si accende con l’incontro: è un dono, una grazia che si esprime - come dice la Genesi (2,18) - quando i due volti sono l’uno "di fronte" all’altro, in un "aiuto corrispondente", cioè pari e reciproco. L’amore dell’uomo e della donna ci insegna che ognuno dei due ha bisogno dell’altro per essere se stesso, pur rimanendo diverso dall’altro nella sua identità, che si apre e si rivela nel dono vicendevole. È ciò che esprime in modo suggestivo la donna del Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua... io sono del mio amato e mio amato e mio», (Ct 2,16; 6,3).
L’itinerario, perché questo incontro sia autentico, inizia col fidanzamento, tempo dell’attesa e della preparazione. Si attua in pienezza nel sacramento ove Dio pone il suo suggello, la sua presenza e la sua grazia. Questo cammino conosce anche la sessualità, la tenerezza, la bellezza, che perdurano anche oltre la vigoria e la freschezza giovanile. L’amore tende per sua natura ad essere per sempre, fino a dare la vita per la persona che si ama (cf. Gv 15,13). In questa luce l’amore coniugale, unico e indissolubile, persiste nonostante le tante difficoltà del limite umano; è uno dei miracoli più belli, benché sia anche il più comune.
Questo amore si diffonde attraverso la fecondità e la generatività, che non è solo procreazione, ma anche dono della vita divina nel battesimo, educazione e catechesi dei figli. È pure capacità di offrire vita, affetto, valori, un’esperienza possibile anche a chi non ha potuto generare. Le famiglie che vivono questa avventura luminosa diventano una testimonianza per tutti, in particolare per i giovani.
Durante questo cammino, che è talora un sentiero d’altura, con fatiche e cadute, si ha sempre la presenza e l’accompagnamento di Dio. La famiglia lo sperimenta nell’affetto e nel dialogo tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle. Poi lo vive nell’ascoltare insieme la Parola di Dio e nella preghiera comune, una piccola oasi dello spirito da creare per qualche momento ogni giorno. C’è quindi l’impegno quotidiano dell’educazione alla fede e alla vita buona e bella del Vangelo, alla santità. Questo compito è spesso condiviso ed esercitato con grande affetto e dedizione anche dai nonni e dalle nonne. Così la famiglia si presenta quale autentica Chiesa domestica, che si allarga alla famiglia delle famiglie che è la comunità ecclesiale. I coniugi cristiani sono poi chiamati a diventare maestri nella fede e nell’amore anche per le giovani coppie.
C’è, poi, un’altra espressione della comunione fraterna ed è quella della carità, del dono, della vicinanza agli ultimi, agli emarginati, ai poveri, alle persone sole, malate, straniere, alle altre famiglie in crisi, consapevoli della parola del Signore: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). È un dono di beni, di compagnia, di amore e di misericordia, e anche una testimonianza di verità, di luce, di senso della vita.
Il vertice che raccoglie e riassume tutti i fili della comunione con Dio e col prossimo è l’Eucaristia domenicale, quando con tutta la Chiesa la famiglia si siede alla mensa col Signore. Egli si dona a tutti noi, pellegrini nella storia verso la meta dell’incontro ultimo quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Col 3,11). Per questo, nella prima tappa del nostro cammino sinodale, abbiamo riflettuto sull’accompagnamento pastorale e sull’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati.
Noi Padri Sinodali vi chiediamo di camminare con noi verso il prossimo sinodo. Su di voi aleggia la presenza della famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe nella loro modesta casa. Anche noi, unendoci alla Famiglia di Nazaret, eleviamo al Padre di tutti la nostra invocazione per le famiglie della terra:
Padre, dona a tutte le famiglie la presenza di sposi forti e saggi, che siano sorgente di una famiglia libera e unita.
Padre, dona ai genitori di avere una casa dove vivere in pace con la loro famiglia.
Padre, dona ai figli di essere segno di fiducia e di speranza e ai giovani il coraggio dell’impegno stabile e fedele.
Padre, dona a tutti di poter guadagnare il pane con le loro mani, di gustare la serenità dello spirito e di tener viva la fiaccola della fede anche nel tempo dell’oscurità.
Padre, dona a noi tutti di veder fiorire una Chiesa sempre più fedele e credibile, una città giusta e umana, un mondo che ami la verità, la giustizia e la misericordia.
[03043-01.01] [Testo originale: Italiano]
* http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2014/10/18/0768/03043.html
Sinodo dei vescovi 2014: per Francesco è comunque una vittoria
di Massimo Faggioli
(The Huffingtonpost, 18/10/2014
Il Sinodo dei vescovi rinasce a 50 anni. Il Sinodo dei vescovi del 2014 rappresenta una novità assoluta nella storia della chiesa recente: vescovi che ragionano, di fronte al papa, su questioni nuove per la chiesa (divorziati risposati, convivenze, omosessuali) e si confrontano tra di loro senza timore di non essere d’accordo.
Paolo VI aveva pensato qualcosa del genere quando lo creò nel 1965, ma non era mai accaduto, specialmente coi suoi successori. Papa Francesco ha invitato i membri del Sinodo a parlare con "parresia" (la sincerità cristiana) e i vescovi lo hanno fatto. Alcuni non hanno trovato di meglio che accusare la dirigenza del Sinodo, cioè il papa, di manipolazione dell’assemblea: ma è stato un momento straordinariamente trasparente e aperto nella vita della chiesa, come non succedeva dai tempi del concilio Vaticano II 50 anni fa.
Una chiesa per linee geo-culturali. La relazione finale è stata approvata, ma tre paragrafi della relazione finale del Sinodo non hanno raggiunto la maggioranza dei due terzi, e quindi non sono stati approvati: sono i paragrafi 52 (sui divorziati), 53 (sulla comunione spirituale ai divorziati) e 55 (sugli omosessuali).
Se sono confermate le tendenze emerse durante le due settimane di Sinodo, c’è la teologia dei vescovi dell’Europa da una parte e il Nordamerica e l’Africa dall’altra: il vecchio nord del mondo contro il "global south" del cristianesimo mondiale più vicino ad una visione tradizionale della sessualità e dei valori della famiglia.
Questi tre paragrafi non hanno avuto una maggioranza assoluta (solo relativa), ma il resto del testo sì. E anche quei tre paragrafi (su 62) senza maggioranza assoluta, questo è la base del "work in progress" su questioni che la chiesa dovrà affrontare comunque nel prossimo anno. È anche da tenere presente che la mancanza della maggioranza dei due terzi al paragrafo sugli omosessuali non può essere facilmente interpretato come un "no" alle aperture verso gli omosessuali, ma potrebbe essere anche il rifiuto di accettare un testo che riflette una teologia precedente e diversa da quelle offerte da papa Francesco nei primi venti mesi di pontificato.
Una chiesa che ricomincia a discutere. Nonostante le critiche dei conservatori, il Sinodo è stato celebrato con riservatezza per tutelare la libertà di espressione dei membri, ma comunicato con grande trasparenza nei suoi passaggi fondamentali. Il papa ha voluto la pubblicazione anche del testo finale con il numero dei voti, paragrafo per paragrafo. È stato un dibattito vero: il primo nella storia dei Sinodi della chiesa cattolica, e il papa esce vincitore come colui che aveva creduto nel processo sinodale.
Francesco ha vinto perché è un papa interessato a "dare inizio a processi" e non a controllare gli esiti - come dice nell’esortazione Evangelii Gaudium pubblicata dal papa nel novembre 2013. Il grande discorso del papa di fronte ad un Sinodo privo di un’unanimità (finta) rafforza la sua posizione: un Sinodo di questo tipo era un’operazione ad alto rischio ed è riuscita.
Ora inizia un lungo viaggio, lungo dodici mesi, fino al Sinodo dell’ottobre 2015. Dopo molti anni di paralisi, la chiesa ricomincia a guardare avanti e a ragionare su questioni che il concilio Vaticano II non aveva potuto affrontare, e il magistero ufficiale degli ultimi anni aveva fatto finta che non esistessero.
San Pietro e dintorni
Sinodo, altra censura, proteste
La Segreteria Generale del Sinodo ha annunciato la decisione di non pubblicare le relazioni dei Circuli Minores. L’annuncio ha provocato la protesta del card. Erdo, e di numerosi altri Padri sinodali. Il Papa muto e serissimo. Infine padre Lombardi ha annunciato che le relazioni delle Commissioni saranno rese pubbliche.
di Marco TosattI (La Stampa, 16/10/2014) *
Un’altra censura, e i Padri Sinodali si ribellano.
La Segreteria Generale del Sinodo ha annunciato la decisione di non pubblicare le relazioni dei Circuli Minores.
Erdo ha preso la parola, prendendo implicitamente le distanze dalla relazione che portava la sua firma, e dicendo che se era stata pubblicata quella “disceptatio” si dovevano pubblicare anche quelle dei Circuli Minores, le Commissioni.
Il suo intervento è stato seguito a pioggia da numerosi altri sullo stesso tono, sottolineati da applausi fragorosi.
Il Segretario del Sinodo, il card. Baldisseri, guardava il Papa, come in cerca di consiglio e lumi, e il Papa stava muto e serissimo.
Muti anche il sottosegretario al Sinodo, Fabene, Forte, Schoenborn e Maradiaga.
Kasper non c’era.
Infine padre Lombardi ha annunciato che le relazioni delle Commissioni saranno rese pubbliche.
Gotterdammerung di teologi al Sinodo *
Sbaglierebbe chi volesse leggere ciò che è accaduto ieri al Sinodo come una fronda di cardinali conservatori di Curia contro i progressisti vicini al popolo portatori di tesi innovative. A farne le spese sono stati soprattutto i teologi in auge
di Marco Tosatti (La Stampa, 17/10/2014)
Sbaglierebbe chi volesse leggere ciò che è accaduto ieri al Sinodo come una fronda di cardinali conservatori di Curia contro i progressisti vicini al popolo portatori di tesi innovative. Sono stati i vescovi presenti al Sinodo, quelli che hanno la cura delle diocesi, e lavorano con e sulla gente, quelli che devono tradurre in opere pastorali concrete e lavoro quotidiano Disceptationes e Relationes a sconvolgere i giochi previsti.
A farne le spese sono stati soprattutto i teologi in auge; in primo luogo l’arcivescovo Bruno Forte, autore di larga parte della famosa relazione di mezzo cammino, finita nel trinciapolli degli emendamenti e dei commenti dei Circuli Minores, le Commissioni. E soprattutto autore - identificato come tale, in pubblico dal card. Erdo delle discusse frasi sull’omosessualità. Che fra l’altro se non sbaglio, non hanno trovato appoggio in nessuna delle Commissioni.
E poi, naturalmente, il card. Kasper. Che purtroppo per lui è incorso in una duplice disavventura. Ha rilasciato un’intervista al collega Edward Pentin, in cui si è lasciato sfuggire espressioni non riguardose verso i vescovi africani (se le avesse pronunciate qualcun altro di sicuro le accuse di razzismo si sarebbero sprecate).
L’intervista pubblicata sull’agenzia Zenit, è stata prontamente ritirata. Ma il collega Edward Pentin, di cui conosciamo la professionalità, l’ha confermata, e soprattutto ha messo a disposizione la registrazione dell’intervista stessa, procurando al teologo preferito di papa Francesco una seconda brutta figura.
Fra l’altro, Pentin, come dichiara, non era solo a parlare con Kasper, ma era accompagnato da due altri colleghi, uno francese e uno inglese che hanno fatto loro domande, incorporate nell’intervista. Come si fa a smentire in un caso del genere?
In Piemonte, se non mi ricordo male, si dice: restiamo ai primi danni....
“La Chiesa rispetta le coppie omosessuali sì alle leggi sui diritti”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 16.10.2014)
CITTÀ DEL VATICANO «Gli omosessuali sono persone come le altre e vanno rispettate. Sono uomini come tutti noi. La Chiesa cattolica non accetta il matrimonio fra omosessuali, lo sappiamo, ma se ci sono dei contratti che gli Stati intendono riconoscere senza però che si arrivi a parlare di vero matrimonio, contratti insomma per far sì che gli omosessuali vivano insieme e abbiano certi diritti, è giusto rispettarli. Si tratta di leggi che permettono agli omosessuali di essere nella società ciò che desiderano. Ogni omosessuale, infatti, ha il diritto ad avere un suo proprio status nella società».
Il cardinale Godfried Danneels, 81 anni, grande elettore di Jorge Mario Bergoglio allo scorso conclave, viene sovente incasellato con superficialità dai media fra i porporati cosiddetti progressisti. Ma, in realtà, l’arcivescovo emerito di Mechelen-Bruxelles ed ex primate del Belgio, altro non è che un sacerdote in costante ricerca di Dio, del Suo perpetuo manifestarsi nella povertà dell’uomo: «Apparuit humanitas Dei nostri (È apparsa l’umanità del nostro Dio)» è, non a caso, il suo motto episcopale. A pochi passi dal Vaticano, nel Pontificio Collegio Belga, Danneels ci accoglie col sorriso per parlare apertamente di un Sinodo che sta facendo propria l’idea di una Chiesa che non ha paura di avere misericordia verso tutti, non ha paura di accogliere e di assumere su di sé le molteplici ferite degli uomini.
Eminenza, c’è nella “Relatio post disceptationem” proclamata dal cardinale Péter Erdõ la volontà concreta di andare incontro alle ferite dell’uomo?
«Ci sono passaggi che davvero sono espressione di una grande misericordia per le difficoltà di tante coppie. Non si dice in nessuna parte del testo che il matrimonio non sia indissolubile, piuttosto si ricorda la necessità di avere uno sguardo di amore e bontà per tante coppie che sono nella difficoltà e nella necessità».
Cosa pensa circa la possibilità di dare, almeno in certi casi, l’eucaristia ai divorziati e rinecessità sposati?
«Il punto è come conciliare la dottrina della Chiesa, perché Gesù dice chiaramente che il matrimonio è indissolubile, con la misericordia che occorre necessariamente avere con tutti i separati. Non so dove arriverà il Sinodo, dove la Chiesa in comunione con tutti vorrà arrivare. Le posizioni sono diverse. Io ritengo che la strada della concessione dei sacramenti in certi casi e dopo un percorso penitenziale sia quello più giusto. Vorrei che ci sia una seconda possibilità per queste persone, senza ovviamente ledere l’indissolubilità del matrimonio».
Lei più volte ha parlato della di una Chiesa che sappia ascoltare tutti senza imporsi a nessuno, di una Chiesa che sappia ascoltare l’uomo senza lederne la libertà.
«La Chiesa può dire ciò che pensa nella società, può esprimere il proprio pensieri, ma non deve imporsi. Possiamo e dobbiamo dire la nostra su molte decisioni che lo Stato prende e sulle quali come Chiesa non siamo d’accordo, ma poi dobbiamo accettare ogni decisione. Siamo un piccolo gregge. Non dobbiamo mai imporci. Come dissi una volta a 3-0Giorni , è un dato di fatto che non c’è più una Civitas cristiana, che il modello medievale di Civitas cristiana non vale per il momento attuale. Forse qualcuno non se n’è ancora accorto, ma i cristiani vivono nel mondo “tamquam scintillae in arundineto”, come scintille sparse in un campo. Viviamo nella diaspora. Ma la diaspora è la condizione normale del cristianesimo nel mondo. L’eccezione è l’altra, la società completamente cristianizzata. Il modo ordinario di essere nel mondo dei cristiani è quello descritto già nella Lettera a Diogneto, del secondo secolo. I cristiani “non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia”. Vivono “nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”. È così che siamo cittadini della nuova società secolarizzata».
Qual è la caratteristica di novità più importante di papa Francesco?
«Francesco ha portato una grande umanità nella Chiesa. Egli si mostra come è. Non fa teatro. È un uomo profondamente umano. Lo conobbi al conclave del 2005. Sapevo com’era quindi prima dell’elezione, anche se tutti i giorni mi sorprende. Ogni mattina mi sveglio e mi chiedo: che cosa farà oggi? E fa sempre bene».
Si aspettava l’elezione?
«Tutti lo volevamo. Nel 2005 era chiaro che la maggioranza era per Joseph Ratzinger. Nel 2013 era chiaro che si era per Bergoglio».
Il sogno della Chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.10.2014)
LE DIRETTIVE di Papa Francesco ai padri sinodali aprendo i lavori il 5 ottobre scorso erano state chiare: mettersi in ascolto della realtà effettiva delle persone concrete.
E ANCORA : confrontarsi senza diplomazie e schemi ideologici aprioristici, parlare in modo trasparente e chiaro, e soprattutto coltivare interiormente lo sguardo che Gesù nella sua vita terrena posava sugli uomini e le donne che incontrava: lo sguardo del perdono, dell’accoglienza, della misericordia. Dopo la prima parte dei lavori sinodali penso si possa sostenere che i cardinali e i vescovi riuniti a Roma da tutto il mondo stanno prendendo in parola il volere del Papa.
Se si legge la “Relatio post disceptationem» del Cardinale Péter Erdõ, arcivescovo di Budapest e Relatore generale del Sinodo, ci si trova di fronte a delle autentiche sorprese, ad affermazioni inimmaginabili in un documento ufficiale della Santa Sede fino a ieri.
Nuovo è anzitutto il metodo, non più dogmaticamente deduttivo (c’è una dottrina elaborata dal vertice che va applicata dalla base) ma pastoralmente induttivo: “I Padri sinodali hanno avvertito l’urgenza di cammini pastorali nuovi, che partano dall’effettiva realtà delle fragilità familiari”.
Grazie a questa rinnovata prospettiva che parte dal basso sono almeno tre gli ambiti in cui le parole della Relatio risuonano molto innovative. Il primo riguarda i matrimoni civili e le convivenze, al cui proposito si invita a “cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, delle convivenze”.
Persino la convivenza more uxorio, fino a ieri bollata come del tutto improponibile per una vita eticamente formata, oggi viene indicata come portatrice di realtà positive.
Quanta differenza con i toni di crociata e di allarme per gli attentati alla sacralità della famiglia messi in campo dalla Chiesa italiana guidata dal cardinal Ruini all’epoca in cui il governo Prodi nel 2006 aveva in progetto di introdurre i cosiddetti Dico, naufragati principalmente per l’intransigente opposizione della Chiesa di Benedetto XVI e dei suoi “valori non negoziabili”!
Il secondo ambito riguarda le situazioni di quelle famiglie definite “ferite”, cioè che presentano casi di separati, divorziati non risposati, e divorziati risposati. È noto che è soprattutto su questa terza categoria che da tempo fervono le discussioni, concentrate in particolare sulla questione se proseguire nella linea dura che vieta loro l’accesso ai sacramenti oppure no, come vorrebbe la proposta del cardinal Kasper tanto gradita a papa Francesco.
La “Relatio post disceptationem” non nasconde la divisione dell’aula sinodale (“alcuni hanno argomentato a favore della disciplina attuale in forza del suo fondamento teologico, altri si sono espressi per una maggiore apertura”) ma leggendo l’intero paragrafo è evidente che essa intende aprire la strada a un cambiamento della prassi consolidata: “L’eventuale accesso ai sacramenti occorrerebbe fosse preceduto da un cammino penitenziale - sotto la responsabilità dal vescovo diocesano - , e con un impegno chiaro in favore dei figli”. Non c’è più la durezza dottrinaria del non possumus , c’è lo sforzo di cercare sentieri di accoglienza e di speranza.
Ma i toni e le parole più innovativi riguardano il terzo ambito su cui la Relatio ha preso posizione, cioè le persone omosessuali. Riassumendo il senso della maggioranza degli interventi in aula, il cardinale Erdõ ha affermato che “le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Non sono quindi un problema, un soggetto malato, dei poverini che vanno accolti per spirito di carità; al contrario, sono una risorsa con doti e qualità! E in questa prospettiva il presule interpella la sua Chiesa: “Siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?”.
Certo l’apertura non è tale da equiparare le coppie gay al matrimonio (un passo, io penso, che obiettivamente non si può chiedere alla Chiesa cattolica), ma tuttavia si giunge ad affermare che “vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners”. Si riconosce cioè la presenza dell’amore, della dedizione sincera.
E al di là delle etichette, che cosa è in gioco nel matrimonio se non l’amore fedele e duraturo “fino al sacrificio”? Monsignor Bruno Forte, il segretario particolare del Sinodo, è andato oltre, arrivando ad affermazioni che aprono esplicitamente agli interventi legislativi di riconoscimento delle coppie gay, quando ha definito “la ricerca di una codificazione di diritti che possano essere garantiti a persone che vivono in unioni omosessuali” come “un discorso di civiltà e di rispetto della dignità delle persone».
Questo non significa che tutte le pagine della Relatio sono intrise dalla medesima volontà innovativa. Le chiusure intransigenti sulla morale sessuale rimangono intatte, essendo stata ribadita la bontà e l’attualità dell’enciclica Humanae vitae , il deleterio documento di Paolo VI del 1968 che condanna ogni forma di contraccezione e qualifica come eticamente disonesto il rapporto sessuale che voglia esplicitamente evitare la procreazione.
Ma probabilmente a questo Sinodo e a questa Chiesa oggi non si può chiedere di più. L’anno prossimo vi sarà un altro Sinodo e se questa volontà della Chiesa di papa Francesco di pensare concretamente al bene delle persone continuerà, anche la morale sessuale dovrà conoscere una profonda trasformazione.
Nel 2008 sotto Benedetto XVI il cardinale Carlo Maria Martini dichiarava con tono sconsolato nelle sue Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Sognavo una Chiesa giovane, oggi non ho più di questi sogni”. Oggi con papa Francesco è tornata la possibilità di sognare.
Sinodo straordinario sulla famiglia, Papa Francesco: “No a cupidigia dei cattivi pastori”
Bergoglio apre le due settimane dedicate alla famiglia e sferza la Chiesa dopo le divisioni tra conservatori e progressisti su temi come i divorziati risposati: "Sinodo non è una gara di intelligenza"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 5 ottobre 2014)
“Anche per noi ci può essere la tentazione di ‘impadronirci’ della vigna, a causa della cupidigia che non manca mai in noi essere umani”, “cupidigia di denaro e di potere. E per saziare questa cupidigia i cattivi pastori caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito”. Papa Francesco è andato subito dritto al cuore del problema aprendo, nella Basilica Vaticana, il Sinodo straordinario dei vescovi sulle sfide della famiglia, che vedrà per due settimane 253 partecipanti discutere anche dei matrimoni gay e della riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati.
Un sinodo a tappe con una prima sessione che si concluderà il 19 ottobre prossimo con la beatificazione, in piazza San Pietro, di Paolo VI, e con una seconda assise che si terrà nell’ottobre del 2015 e dalla quale dovranno uscire le risposte ai tanti interrogativi dei fedeli di tutto il mondo sempre più lontani nella pratica dalla dottrina sul matrimonio e sulla sessualità della Chiesa cattolica. Un metodo collegiale, quello scelto da Bergoglio, che richiama moltissimo quello del Concilio Ecumenico Vaticano II che, in quattro tappe, per la prima volta non si occupò di dogmi ma aggiornò la pastorale e la liturgia della Chiesa di Roma. Pubblicità
La posizione aperturista verso i divorziati risposati di Papa Francesco è chiara e nota da tempo ed è stata da lui nuovamente espressa nella veglia per l’apertura del Sinodo organizzata dalla Conferenza episcopale italiana. “Dobbiamo prestare orecchio ai battiti di questo tempo e percepire ‘l’odore’ degli uomini d’oggi” perché altrimenti “il nostro edificio resterebbe solo un castello di carte e i pastori si ridurrebbero a chierici di stato”. Bergoglio non ha voluto nemmeno nascondere il confronto aspro della vigilia tra cardinali “conservatori” e “progressisti” sull’apertura ai divorziati risposati.
“Le assemblee sinodali - ha spiegato il Papa - non servono per discutere idee belle e originali, o per vedere chi è più intelligente. Servono per coltivare e custodire meglio la vigna del Signore, per cooperare al suo sogno, al suo progetto d’amore sul suo popolo. In questo caso, il Signore ci chiede di prenderci cura della famiglia, che fin dalle origini è parte integrante del suo disegno d’amore per l’umanità. Ma sia nell’antica profezia, sia nella parabola di Gesù, - ha aggiunto Francesco - il sogno di Dio viene frustrato. Isaia dice che la vigna, tanto amata e curata, ha prodotto acini acerbi, mentre Dio si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. Nel vangelo, invece, sono i contadini a rovinare il progetto del Signore: essi non fanno il loro lavoro, ma pensano ai loro interessi”.
Per il Papa il compito dei “saggi”, della “classe dirigente” della Chiesa di Roma è coltivare il “sogno di Dio”, cioè avere cura del popolo e custodirlo “dagli animali selvatici”. “Questo è il compito dei capi del popolo: coltivare la vigna con libertà, creatività e operosità. Dice Gesù che però quei contadini si sono impadroniti della vigna; per la loro cupidigia e superbia vogliono fare di essa quello che vogliono, e così tolgono a Dio la possibilità di realizzare il suo sogno sul popolo che si è scelto. La tentazione della cupidigia è sempre presente”. Ma “il sogno di Dio si scontra sempre con l’ipocrisia di alcuni suoi servitori. Noi possiamo - ha concluso Francesco - ‘frustrare’ il sogno di Dio se non ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo. Lo Spirito ci dona la saggezza che va oltre la scienza, per lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività”.
Francesco apre il Sinodo: “La Chiesa si rinnovi di fronte alla famiglia”
Il messaggio davanti a ottantamila fedeli: "non temo il dibattito“
Il filosofo Cacciari: “Il vero nodo è il fine vita, mi auguro che decida la misericordia”
intervista di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 05.10.2014)
«Al Sinodo arrivano al pettine i nodi del Concilio». Per il filosofo Massimo Cacciari la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia rappresenta «un passaggio fondamentale per il pontificato di Francesco».
Sui sacramenti ai divorziati risposati si spaccherà il Sinodo?
«Al punto in cui si è arrivati sarà impossibile ridurre la discussione a una dimensione esclusivamente interna alle gerarchie ecclesiastiche. Dopo aver riorganizzato la Chiesa in modo radicale, Francesco non poteva non affrontare questioni di grande impatto non solo sulla vita dei credenti ma anche sull’intera etica pubblica».
Sarà muro contro muro?
«Attraverso il cardinale Kasper, favorevole alla comunione ai divorziati risposati, il Papa ha posto la questione in termini di apertura. I cardinali che gli si oppongono non rappresentano semplicemente un’ala anti-conciliarista, lefebvriana: ritengono che sia in ballo la fedeltà a Cristo. Il confronto sarà serrato e il Sinodo dovrà decidere assumendo posizioni tutt’altro che indolori. Da parte sua Francesco non cercherà facili compromessi».
Quali difficoltà si troverà davanti Francesco?
«Con Wojtyla e Ratzinger non sono stati sviscerati i temi posti dall’età contemporanea. Le esigenze e le priorità negli ultimi decenni sono state altre. E cioè la posizione geopolitica della Chiesa nel mondo e l’evangelizzazione. Dopo il Concilio sono rimaste tra parentesi le risposte da dare. Finora la Chiesa si è sostanzialmente limitata all’indicazione di principi generali. Ora si tratta di scegliere tra diverse posizioni in merito a grandi questioni: etica sessuale, famiglia, matrimonio. E, senza dubbio in prospettiva anche il fine vita».
A cosa è dovuta questa accelerazione?
«Adesso gli effetti della secolarizzazione esigono parole che non sarà facile pronunciare. Tutto si giocherà sul fatto che la tradizione possa essere modificata oppure no. E’ molto di più della consueta contrapposizione tra conservatori e progressisti. Il dato di fondo è ridefinire il comunque assai labile confine tra ciò che è tradizione e cio che è principio. I cardinali che come il prefetto per la Dottrina della fede Müller si oppongono a qualunque cambiamento su famiglia e matrimonio sostengono che non si discute puramente di tradizione».
Di cosa si tratta?
«Per Müller e gli altri cardinali del no alla revisione della dottrina sono in ballo aspetti che la tradizione ha sviluppato sulla base della parola di Cristo. In pratica bisognerà stabilire se si rimane fedeli a Cristo modificando la tradizione su famiglia e matrimonio. È di questo che si dovrà discutere al Sinodo. Qui sarà il dibattito autentico. E anche la principale difficoltà. Personalmente auspico che emerga la posizione teologica del cardinale Walter Kasper. Ossia: ciò che decide è la misericordia. È una speranza per tutti. Fuori e dentro la Chiesa».
USCIRE DA INTERI MILLENNI DI SONNAMBULISMO...
LA GERARCHIA DEL "LATINORUM" E LA CHIESA DEL SILENZIO. OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI AL "DIO" DELLA TRADIZIONE E DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). DIO E’ VALORE, DIO E’ MAMMONA ....
C’E’ DIO E "DIO", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA": IL DIO DI GESU’ GIUSEPPE E MARIA (NON E’ QUELLO DI COSTANTINO E DELLA REGINA MADRE ELENA E DELL’INTERO ORDINE GERARCHICO DEL "REGNO DI DIO" VATICANO).
Federico La Sala
di don Aldo Antonelli (L’Huffinton Post, 11/07/2014
Guardo la foto e leggo il contesto. Una madonna, intronizzata come regina, incorniciata in una raggiera dorata, portata a spalle da una masnada di giovanotti biancovestiti, nel caos festante di una folla accalcata che non si capisce bene se prega, canta o chicchiericcia. Osservo la foto e mi chiedo quale rapporto può esserci tra questa "Madonna Regnante" e la semplice, umile ragazza di Nazareth di cui narrano i Vangeli. Mi domando come possa essere accaduto che colei che nel Magnificat inneggia al Dio che "depone i potenti dai troni", possa a sua volta sedere su un trono ed essere chiamata "Regina"! Come possa essere beffardamente ricoperta di ori e di argento la Madre di Colui che comandò ai suoi discepoli di non portare con sé né oro, né argento.
Siamo di fronte ad una metamorfosi depravata e deformante, funzionale ad una società auto-referente e lontana anni luce da quell’espressione di fede, coscienza critica della società, che la teologia più attenta vorrebbe evidenziare.
Secondo l’analisi funzionalistica di Emile Durkheim, la religione non è altro che un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. Secondo il sociologo francese, la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse.
Naturalmente, in una società mafiosa la religione diventa la legittimazione morale del sistema-mafia! In una società capitalistica, la religione consacra, facendone degli assoluti, i principi di "proprietà" e di "libertà"! In ambito politico, la religione si fa veicolo di consenso verso pratiche che pur contraddicendo i valori ne sposano la difesa. L’espressione più evidente di questo diabolico potere è offerta dal fenomeno di quelle persone che si definiscono come «atei devoti».
In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile. Scrive Marco Gallizioli sul numero 8 dal 2011 della rivista cattolica "Rocca", della Cittadella di Assisi: «Alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne ri-conoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica... Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale».
Analisi precisa, puntuale e senza sconti di parte. A mio avviso, tanta strumentalità e, diciamolo pure, tanto abbrutimento è stato possibile anche grazie agli interessi di bottega e/o alle pigrizie di comodo di una chiesa e di un clero più inclini a tradurre la fede nella comoda e compensativa religiosità popolare che impegnati alla difficile e scomoda testimonianza. In questo, grande supporto è dato dalla teologia di palazzo, tutta ideologia e affatto evangelica. Ma qui si apre un altro discorso.
Per ora dobbiamo dire grazie al richiamo forte di papa Francesco e allo scandalo salutare di Oppido Mamertina.
La Chiesa in analisi: “I fedeli non ci capiscono”
Un’indagine dei vescovi elenca i ritardi della dottrina ecclesiastica su matrimoni, omosessualità, controllo delle nascite
di Mar. Mar. (il Fatto, 27.06.2014)
La dottrina ecclesiastica è lontana dalla famiglia nelle forme in cui oggi è conosciuta”. È la stessa Chiesa ad ammettere questa distanza definita “preoccupante” all’interno dell’ Instrumentum Laboris, documento preparatorio in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia voluto da Papa Francesco, in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre. Il testo, basato su un questionario diffuso in parrocchie, diocesi e associazioni ecclesiali, mostra apertura e ascolto alle nuove esigenze del mondo laico. Sono gli stessi fedeli, si legge, a “manifestare difficoltà ad accettare integralmente l’insegnamento della Chiesa intorno a matrimonio e famiglia”.
Gli argomenti sensibili, secondo il documento, sono controllo delle nascite, divorzio, omosessualità, convivenza, fedeltà, relazioni prematrimoniali, fecondazione in vitro. Se da un lato le unioni gay sono lontane dall’essere accettate, l’Instrumentum laboris apre al battesimo per i figli di genitori omosessuali. “Il figlio di due genitori dello stesso sesso - si legge nel testo del documento - va accolto con la stessa cura, tenerezza che ricevono gli altri bambini”. Chiusura netta invece alla teoria del ‘gender’, secondo la quale il genere sessuale di ciascun individuo risulta essere solo “il prodotto di condizionamenti e di bisogni sociali, cessando, così, di avere piena corrispondenza con la sessualità biologica”. Ma il documento sostiene anche che “ gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione".
A PROPOSITO di matrimonio, il documento sottolinea che la Chiesa non deve essere “giudice che condanna”, riferendosi in particolar modo alla questione della comunione per i coniugi divorziati, formalmente non ammessa, ma ampiamente praticata in maniera non ufficiale. “La sofferenza causata dal non ricevere i sacramenti è presente con chiarezza nei battezzati che sono consapevoli della propria situazione. C’è chi si domanda perché gli altri peccati si perdonano e questo no, oppure perché i religiosi e sacerdoti che hanno ricevuto la dispensa dai loro voti e dagli oneri sacerdotali possono celebrare il matrimonio, ricevere la comunione e i divorziati risposati no. In questo caso molti fedeli hanno la percezione che sia colpa della Chiesa che non ammette tali circostanze”, si legge ancora.
Non meno importante la ferma condanna contenuta nel documento alla violenza, sia fisica che psicologica , nei confronti di donne e bambini, considerata la prima causa di “frammentazione e disgregazione” delle famiglie. “Si tratta - si legge nel documento - di un fenomeno purtroppo non occasionale”. Ne è testimonianza “il terribile fenomeno del femminicidio, spesso legato a profondi disturbi relazionali e affettivi, e conseguenza di una falsa cultura del possesso”, conclude. Per questi motivi quello che emerge dalla redazione di questo documento è la necessità da parte della Chiesa di “uno sguardo compassionevole e comprensivo” nella lettura di queste situazioni. “La Chiesa deve accompagnare la famiglia durante tutta la sua esistenza, deve aiutarla a guarire le ferite e a riprendere il cammino all’interno e non all’esterno della Chiesa”.
«C’è bisogno di un’altra visione politica e culturale»
di Petros Markaris (il manifesto, 18 aprile 2014)
Grecia. Lo scrittore greco Petros Markaris: «Piangere sulla ricchezza passata è inutile, bisogna riabituarsi a lottare». «A pensarci bene, quello che ci ha rovinati è un ascensore troppo rapido». È così che la traiettoria sociale della Grecia è riassunta dal protagonista della fortunata serie noir di Petros Markaris, in Resa dei conti. La nuova indagine del commissario Charitos (Bompiani, 2012), l’ultimo libro uscito in Italia. Le vite segnate dalla crisi e le piccole strategie di resistenza sono molto più che lo sfondo per il mistero del delitto raccontato da Markaris. Sono al centro di una narrazione corale che riscopre legami familiari e solidarietà sociali, fa i conti con l’etica e con gli effetti del suo smarrimento da parte della politica.
Un’intervista telefonica con lo scrittore greco ha aperto il corso “Narratori d’Europa: volti e luoghi dalla crisi”, organizzato dall’Istituto regionale studi europei (Irse) del Friuli Venezia Giulia. Ne riprendiamo qualche estratto.*
Katerina e Adriana, le protagoniste femminili del suo ultimo romanzo, sono simboli della relazione complessa tra giovani e adulti e dei loro differenti modi di agire. In questo particolare momento della nostra vita, come si struttura questa relazione complessa?
Cominciamo a parlare del passato. Uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare con la crisi è quello di come abbiamo cresciuto i nostri figli, i giovani. Uno dei modi in cui lo abbiamo fatto è stato quello di lasciargli credere che la madre Europa avrebbe guarito tutto, e ora che ci rendiamo conto che non è così i giovani si sentono perduti. Oggi i giovani non sono preparati ad affrontare i tempi duri, e il problema è simile in Spagna, Grecia, Italia. La nostra generazione, la mia, è cresciuta lottando per tutto quello che poteva ottenere, quindi i giovani hanno bisogno di tempo per capire che devono lottare e ci sono tre condizioni basilari per questo: leggere, pensare e discutere la realtà. Questo è l’unico modo per affrontare la realtà.
È possibile trasformare la crisi in opportunità di cambiamento?
Penso di sì. È quello che è successo ai due protagonisti del mio libro, Zisis e Charitos, due persone provenienti da mondi molto distanti ma che trovano il modo di connettere le loro differenti personalità. Anche io sono cresciuto in una famiglia con difficoltà economiche, io stesso ne ho avute molte. Mia madre era una casalinga, è stata lei a tenere la famiglia unita, ha sempre trovato una soluzione, un po’ come, nel libro, la figura di Adriana. Tutte queste persone trovano alla fine il modo per sopravvivere, ma trovare il modo di sopravvivere più che una questione economica è un fatto soprattutto culturale, di valori. Piangere sulla passata ricchezza, che per la Grecia è stata più che altro virtuale, non è una soluzione. La soluzione possibile è trovare una ridefinizione del nostro punto di vista sulla vita. Solo in questo modo potremo uscire dalla crisi più forti.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee e nessuno in Italia ne parla seriamente. Noi pensiamo che possano essere un’opportunità per chiedere a noi stessi quale Europa vogliamo, quale vita, quale welfare. Lei cosa ne pensa?
Questa è una domanda che mi rende molto triste e le spiego il perché. Credo che le prossime elezioni europee saranno un esperienza molto negativa per gli europei. Siamo convinti che il Sud Europa sia la parte che ha problemi ma se osserviamo bene vediamo che i problemi riguardano gli estremi, l’estrema destra in particolare. È questo il prezzo che stiamo pagando per avere ridotto l’Europa a economia. Voi avete citato Spinelli e Dahrendorf, io voglio citare Jean Monnet che prima di morire disse: «Ho fatto un errore, se dovessi rifare l’Europa dall’inizio punterei su politica e cultura». È vero, ma purtroppo è arrivato tardi. L’Europa ha bisogno di un’altra visione, noi ne abbiamo bisogno, non possiamo sempre dire sarà peggio. Abbiamo bisogno di una visione politica e culturale diversa altrimenti diventeremo dei mostri.
*
Pedofilia, la Cei contro il Papa: “I vescovi non denuncino”
La Conferenza episcopale rivede le linee anti-abusi emanata nel 2012
di Marco Politi (il Fatto, 29.03.2014)
Costretta a rielaborare le Linee guida anti-abusi, perché quelle del 2012 erano insufficienti, la Cei presenta la versione 2014 e si attesta su una linea di assoluta retroguardia rispetto ad altri episcopati d’Europa o degli Stati Uniti. Alla luce del passo compiuto da papa Francesco, istituendo una commissione internazionale, a maggioranza di laici, composta per metà da donne e per metà da uomini e comprendente una vittima di violenze, il nuovo documento della Cei risulta imbarazzante.
LA CEI RIFIUTA di assumersi ogni responsabilità nel contrastare il fenomeno - lo proclama ad alta voce in conclusione del testo: “Nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Conferenza episcopale italiana” - e fugge da un impegno nazionale nel monitorare il fenomeno, nell’istituire strutture di ascolto e di denuncia, nel verificare se i singoli vescovi si attengono alle istruzioni vaticane. Zero di zero. Facendosi scudo di codice e concordato, la Cei inculca ai vescovi che “nell’ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”.
In realtà codice di procedura penale e concordato non c’entrano niente con il silenzio sulle violenze: qui la questione era - ed è - se autonomamente la Cei ritiene obbligo di un vescovo denunciare un criminale. La risposta delle Linee guida è no: la Cei non invita i vescovi a denunciare chi violenta minori. E’ esattamente l’opposto di ciò che pensa Marie Collins, la credente cattolica abusata, chiamata a far parte della commissione voluta da papa Francesco. “Che si arrivi, se i casi di abuso sono accertati e la vittima consente, alla denuncia alle autorità civili. Questo passo è decisivo”, ha dichiarato a “Repubblica” appena nominata.
IL PICCOLO PASSO in avanti, rispetto alle Linee guida del 2014, è costituito da un inciso dove si specifica che il vescovo non ha l’obbligo di denuncia “salvo il dovere morale di contribuire al bene comune”. Frase talmente generica che ogni vescovo la interpreterà a modo suo. Negli ambienti ecclesiastici si considera comunque positivo questo invito a una buona collaborazione con le autorità civili. Ma un conto è collaborare a un’indagine statale già avviata, un conto è non dare l’indicazione di portare in tribunale il sospetto di un crimine.
La Cei si premura anche - attivissima nel creare pregiudiziali - di avvertire i vescovi d’Italia che, in base al concordato e al codice di procedura penale, “sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragioni del proprio ministero”. In altre parole, si vuole impedire che, come negli Stati Uniti, l’autorità giudiziaria possa scoprire (grazie all’acquisizione della documentazione interna di una diocesi) le manovre di insabbiamento o colpevole disattenzione di un vescovo. Non c’è niente da immaginare, è tutto già successo e la documentazione è vastissima.
A ROMA , sotto gli occhi di due papi, il vescovo Gino Reali (diocesi suburbicaria Porto-Santa Rufina, pochi chilometri dal Vaticano) non ha mosso un dito nemmeno per avviare l’indagine canonica - raccomandata dalla Santa Sede - in merito al prete Ruggero Conti, accusato di avere abusato di sette minori. Conti è stato condannato in appello nel maggio scorso a quattordici anni. Per tre casi è scattata la prescrizione, ora l’attesa indecente è che il ricorso in Cassazione prescriva il resto. La Cei se ne lava le mani. Non è sua competenza - ribadiscono le Linee guida - se un vescovo non osserva nemmeno le leggi della Chiesa, che intimano rapide indagini e sanzioni tranne in caso di “manifesta infondatezza” delle accuse. Notazione finale. Se si prende il testo della Cei e si clicca la parola “risarcimento”, il risultato è nullo.
PREOCCUPATA di una tendenza auto assolutoria nella gerarchia cattolica - all’ombra di Francesco - la redazione del National Catholic Reporter (il periodico americano che dal 1985 ha riportato gli scandali negli Usa) ha invitato il papa a lavare i piedi il prossimo Giovedì Santo alle vittime di abusi. Per decenni - ricorda il NCR - dei vescovi hanno “negato, mentito, impedito la rivelazione” del dramma. “Nessuno di loro è stato mai chiamato a rendere conto”.
Il vescovo Mogavero “È giusto che lo Stato riconosca le coppie di fatto”
intervista a Domenico Mogavero
a cura di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 05 gennaio 2014)
«La legge non può ignorare centinaia di migliaia di conviventi. Senza creare omologazione tra coppie di fatto e famiglie, è giusto che anche in Italia vengano riconosciute le unioni di fatto». A condividere la proposta del leader Pd Renzi è il vescovo canonista di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, ex sottosegretario Cei e attuale commissario per le migrazioni.
Sì può trovare un’intesa?
«Sì. Lo Stato può e deve rispettare e tutelare il patto che due conviventi hanno stretto tra loro. Contrasta con la misericordia cristiana e con i diritti universali il fatto che i conviventi per la legge non esistano. Oggi se uno dei due viene ricoverato in ospedale, all’altro viene negato persino di prestare assistenza o di ricevere informazioni mediche come se fosse una persona estranea. Mi pare legittimo riconoscere diritti come la reversibilità della pensione o il subentro nell’affitto in virtù della centralità della persona».
Su quali basi la Chiesa è disposta a trattare?
«Su tutto ciò che riguarda la sfera civile e umanitaria si può arrivare ad un accordo. E’ insostenibile che per la legge il convivente sia un signor nessuno. Le unioni civili riguardano i diritti di persone che nella relazione di coppia e sociale chiedono garanzie per il loro vivere quotidiano. Ciò non significa creare una forma giuridica di “famiglia di serie b” scimmiottando l’istituto matrimoniale. Senza equipararle alle coppie sposate, non ci sono ostacoli alle unioni civili. Nel documento in vista del Sinodo sulla famiglia, papa Francesco ci invita proprio a riflettere su queste “sfide” a tutto campo».
Quali sono i limiti?
«La legge deve riconoscere e garantire il patto stilato tra conviventi in quanto non si oppone all’ordine pubblico che rappresenta il limite giuridico oggettivo. Il rapporto di familiarità va al di là del vincolo matrimoniale. Non è qualcosa di più o di meno. E’ qualcosa di diverso. Consentire di prestare vicinanza o avere diritti nella vita quotidiana in comune non significa che lo Stato conferisca la patente di marito e moglie. Va tutelata la scelta di due persone che si sono consegnate reciprocamente la loro vita. Non è questione di dichiarare coniugi i conviventi. E’ giusto che una legge riconosca una situazione di fatto, senza così fabbricare surrogati giuridici all’unione coniugale. Serve una norma che testimoni vicinanza e umanità, cioè valori universali. Sono situazioni largamente diffuse che non si può più fingere di non vedere».
E per i figli delle coppie di fatto?
«In chiesa non possono esserci preclusioni in nulla per i figli di genitori non sposati. Le colpe dei padri (se di colpe si tratta) non possono mai ricadere sui figli. Perciò non si può negare il battesimo a un bambino. E non si possono indicare le coppie di fatto come persone che vivono nel peccato».
Svolta democratica tra i vescovi italiani. Mogavero: a novembre eleggiamo il presidente
intervista a Domenico Mogavero
a cura di Giovanni Panettiere
in “Qn” (Il Giorno, il Resto del Carlino, La Nazione) del 2 gennaio 2013
«NON
me l’aspettavo, la nomina del nuovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana
è stata una sorpresa. Graditissima, perché monsignor Nunzio Galantino è la persona adatta a far
compiere ai vescovi un passo coraggioso e innovativo. Se tutto andrà per il verso giusto, a
novembre per la prima volta eleggeremo i vertici dell’episcopato». Azzarda una data monsignor
Domenico Mogavero fra i pastori più influenti del Belpaese, un mese che, a sentire l’ordinario di
Mazara del Vallo, potrebbe passare alla storia.
In oltre sessant’anni di vita della Cei il presidente e il
segretario sono sempre stati designati dal Papa in qualità di primate d’Italia. È l’unico caso al
mondo. Ora, per volontà dello stesso Francesco, anche nell’episcopato italiano è stato aperto il
cantiere delle riforme istituzionali, nonostante non manchino le resistenze. Mogavero, un passato
prossimo da sottosegretario ai tempi del cardinale Camillo Ruini, vero
deus ex machina
della
Chiesa tricolore e non solo, lo sa bene e non nasconde la testa sotto la sabbia.
All’interno delle conferenze episcopali regionali è in corso una consultazione per sondare l’opinione dei vescovi sulla riforma. Quale è l’orientamento dei suoi confratelli?
«Direi che siamo cinquanta a cinquanta. C’è ancora una buona fetta di pastori contraria alle elezioni. Teme che si ridimensioni il ruolo primaziale del santo padre. Questo mi dispiace dal momento che votare non significa sminuirlo».
Che cosa cambierebbe, invece?
«Aumenterebbero la partecipazione e la corresponsabilità episcopale. Certo, eleggendo presidente e segretario, potremmo avere delle spaccature interne all’assemblea. Ma sono rischi da correre. Come vescovi non abbiamo solo degli onori, abbiamo anche degli oneri».
Il papa comunque spinge per la riforma altrimenti non avrebbe nominato Galantino ad interim.
«Prima del voto bisognerà cambiare lo statuto della Cei. L’assemblea generale di maggio sarà l’occasione giusta, poi, una volta avuto il placet della Santa sede alle modifiche, nella sessione straordinaria di novembre si potranno eleggere le cariche».
Il cardinale Angelo Bagnasco, confermato fino al 2018, dovrebbe dimettersi?
«Deciderà lui. Se passa la linea elettiva, è chiaro che il passo indietro sarebbe una soluzione politica-diplomatica condivisibile».
Nel frattempo l’ex numero due dei vescovi, monsignor Mariano Crociata, è stato ‘promosso’ alla sede di Latina: promoveatur ut amoveatur?
«Sarebbe meschino pensare che sia stato spostato, perché, come qualcuno ha ipotizzato, avrebbe rifiutato il ruolo di ordinario militare. Può avere espresso delle preferenze, niente di più. Ovviamente Latina non è Firenze, l’arcidiocesi in cui venne inviato il predecessore di Crociata, Giuseppe Betori. Tuttavia con Francesco questa logica non ha molto senso. Anche la mia piccola Mazara ha la stessa dignità episcopale delle grandi diocesi».
Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne
di Rita Torti (www.teologhe.org, 8 novembre 2013)
Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”.
1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo - dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate -; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati - questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee).
Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica...) all’interno delle famiglie.
La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare?
E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne - spose, ma anche figlie - di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa.
2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza - certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici - di mentalità e prassi maschiliste.
Anche in questo caso, in molte donne - e auspicabilmente in altrettanti uomini - può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?.
3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia.
Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”.
Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?.
Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?!
Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo - e che gli estensori del Documento certo non ignorano - sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.
PREMESSA
LA PREGHIERA AL "PADRE NOSTRO" E IL "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE". MA CHI E’ IL "PADRE NOSTRO": DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
“Padre Nostro”: ci sono voluti 50 anni perché il Vaticano non bestemmiasse più Dio
di Henri Tincq
in “www.slate.fr” del 30 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Rivoluzione nelle fila cattoliche. Ad una scadenza ancora incerta - 2014? 2015? - i fedeli francofoni non reciteranno più la loro preghiera quotidiana favorita, il Padre Nostro, secondo la formulazione in uso da subito dopo il Concilio Vaticano II, quasi cinquanta anni fa (1966). La sesta “domanda” di questa celebre preghiera in forma di suppliche successive fatte a Dio - “Et ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione) - sarà soppressa e sostituita da “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Non si tratta di un dettaglio o di una disputa bizantina. È l’epilogo di una battaglia di esperti che dura da mezzo secolo.
La Chiesa pensa di avere l’eternità davanti a sé. Le sono stati necessari 17 anni di lavoro e la collaborazione di 70 traduttori - esegeti, biblisti, innografi - per giungere a questo risultato. 17 anni, è il tempo che è stato necessario per la nuova traduzione integrale della Bibbia liturgica, che, per la Francia, sarà adottata l’8 novembre dai vescovi e che sarà in vendita nelle librerie a partire dal 22 novembre.
Quegli eminenti traduttori sono partiti dai testi originali in aramaico, in greco, in ebraico, e non più dalle traduzioni già esistenti. Ed è questo aggiornamento radicale che ha permesso a questi studiosi, con l’accordo del Vaticano, di giungere alla redazione di un nuovo Padre Nostro, più soddisfacente e più corretto teologicamente.
Il Padre Nostro è la preghiera di base di tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, cattolica, protestante, ortodossa o anglicana. Essa è tanto più sacra in quanto, secondo i vangeli di Luca e di Matteo, è stata insegnata direttamente da Cristo stesso. “Signore, insegnaci a pregare”, gli chiedevano gli apostoli. La risposta di Gesù si trova nelle parole del Padre Nostro, preziosamente riprodotte - “Padre Nostro che sei nei cieli...” - che risalgono così a due millenni fa. Ritrascritta dal greco al latino, è stata poi tradotta nelle lingue parlate del mondo intero.
Questa preghiera, la più comune dei cristiani, può essere recitata o cantata in qualsiasi momento della giornata. Non è codificata come la preghiera dell’islam (cinque volte al giorno e ad ore fisse). Compare in ogni celebrazione della messa dopo la preghiera eucaristica. È anche recitata in tutte le assemblee ecumeniche. È il segno di una volontà di riconciliazione e di unità di tutte le confessioni cristiane, nate dallo stesso vangelo, ma separate dalle loro istituzioni.
Ma perché cambiare oggi un simile monumento della spiritualità cristiana, sul punto preciso della tentazione? Un punto centrale nell’antropologia cristiana. Secondo i vangeli, Cristo ha trascorso quaranta giorni nel deserto ed è stato tentato da Satana: tentazione dell’orgoglio, del potere, del possesso (Matteo 4,11). Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli nel giardino del Getzemani, la sera della sua passione, proprio prima del suo processo e della sua morte in croce: “Pregate per non entrare in tentazione”.
Precisamente, cinquant’anni fa, un errore di traduzione è stato commesso a partire dal verbo greco eisphérô che significa letteralmente “portar dentro”, “far entrare”.Questo verbo avrebbe dovuto essere tradotto con: “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o con “Ne nous fais pas entrer en tentation” (non farci entrare in tentazione). I traduttori del 1966 hanno preferito la formula “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione).
Formula contestata. Controsenso, se non addirittura bestemmia, si protesta in seguito. Come è possibile che Dio, che nell’immaginario cristiano è “infinitamente buono”, possa “sottoporre” l’uomo alla tentazione del peccato e del male? È insostenibile.
Tale forma equivoca è stata tuttavia letta dal pulpito in tutte le chiese del mondo francofono, pregata pubblicamente o intimamente da milioni e milioni di cristiani, inducendo, in menti non competenti, l’idea di una sorta di perversità di Dio, che chiede ai suoi sudditi di supplicarlo per sfuggire al male che lui stesso susciterebbe!
Oggi si torna quindi ad una formulazione più corretta: “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Così il ruolo di Dio è compreso meglio, riabilitato. Dio non può tentare l’uomo. La tentazione è opera del diavolo. È Dio, invece, che può impedire all’uomo di soccombere alla tentazione.
Ora occorre che i protestanti, gli ortodossi, gli anglicani si allineino su questa nuova formulazione cattolica. Nel 1966, i teologi cattolici, protestanti, ortodossi si erano alleati per riflettere su una traduzione veramente ecumenica (con gli stessi termini) del Padre Nostro, che non esisteva prima della rivoluzione del Concilio Vaticano II. Avevano proposto un testo comune alle loro Chiese, che lo avevano adottato. Senza dubbio oggi si metteranno nuovamente d’accordo per ratificare la nuova preghiera nei termini già definiti dai cattolici. Anche solo per smentire coloro che si lamentano dello stato di avvicinamento ecumenico che avrebbe perso vigore e si preoccupano del risveglio di riflessi comunitari.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA LETTERA DI GIACOMO, DA *
[...] Agapan è il verso dell’amore gratuito, oblativo e fedele capace di porre l’amato al di sopra di tutto, anche di se stessi e di ogni proprio interesse. È la prima indicazione dello shema’ Israel: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4-5; Mt 22,34-40).
1,13-15: Riprendendo una riflessione del Siracide (Sir 15,11-17: «Non dire: Mi sono sviato per colpa del Signore, perché Egli non fa ciò che detesta»), Giacomo ribadisce che la tentazione non viene da Dio, che detesta il male e non spinge nessuno al male. Essa viene piuttosto dal cuore dell’uomo, da cui si producono pensieri desideri e azioni cattive, che contaminano l’uomo (Mt 15,15-20).
Si descrive poi la genesi del peccato a partire dal cuore: la concupiscenza (epithymia), desiderio smodato e possessivo, che pretende l’afferrare immediato dell’oggetto del proprio godimento, trascina (exelkomenos) e seduce (deleazomenos), portando a concepire (syllabousa) il peccato già nell’intimo del cuore, sino a partorirlo (tiktei amartian). Una volta portato a compimento (apotelestheisa), il peccato procura la morte (apokyei thanaton). La seduzione da parte della concupiscenza è descritta al pari del fascino perverso della donna sfacciata, della maritata in veste di prostituta che compare nei Proverbi (Pr 7,6-27): essa si fa strada con dolce lusinga, sino a far cadere in trappola. Analoga descrizione quasi psicologica del generarsi del peccato dal desiderio la si trova nei Salmi: «Ecco, l’empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna» (Sal 7,15).
Il processo verso il peccato, sotto il pungolo lusinghiero della tentazione è descritto in Gen 3: la donna fa spazio nel suo cuore alla parola del tentatore che fa concepire al suo cuore il desiderio, sino alla consumazione dell’atto trasgressivo, che tende a propagarsi, procurando divisione e morte. Giacomo descrive in modo paradossale un processo generativo interno al cuore, pari a quello che accade nel grembo di una donna, il quale, tuttavia, anziché produrre vita genera morte.
Non si tratta qui con buona probabilità della morte in senso escatologico, quale pena eterna dei dannati; si tratta piuttosto di una situazione esistenziale e spirituale ormai incapace di produrre frutti di opere buone. Più avanti, nella terza parte, l’apostolo riprende la riflessione sui desideri smodati del soggetto che procurano guerre e divisioni, diventando peccati sociali, generatori di una cultura di morte (4,1-2).
b) 1,16-17: Il secondo passo, descrive un movimento contrapposto al primo: l’uomo, cogliendo la sua fragilità apre il suo cuore verso l’alto, implorando il dono buono e perfetto (pasa dosis agathe kai pan dorema teleion) della Sapienza, che proviene dal Padre della luce. Questi è descritto ancora nei suoi tratti essenziali di chi non ha alterazione (parallaghe), né ombra di mutazione (tropes aposkiasma), tratti che rafforzano l’idea già sopra espressa di una generosità tutta luminosa, senza ombre né pentimento [...]
*
http://www.diocesilucca.it/documenti/sussidio_lettera_giacomo.pdf
Papa Francesco ai vescovi: "Non cadete nel carrierismo"
"Non cercate promozioni e viaggi in aereo", ha detto Bergoglio ai 120 vescovi ricevuti in Vaticano. E ancora: "Vi invito a saper accogliere tutti gli uomini e le donne che incontrate e lasciate aperta la porta della vostra casa" *
CITTA’ DEL VATICANO - Saper accogliere tutti gli uomini e le donne, lasciare aperta la porta della propria casa e non usare le diocesi per fare carriera. E’ il messaggio rivolto da Papa Francesco nell’incontro con 120 vescovi di recente nomina, ricevuti in udienza oggi nella sala Clementina del Palazzo apostolico.
Non siate carrieristi - Il papa torna poi a fustigare il carrierismo ecclesiastico: "Noi pastori - ha detto - non siamo uomini con la ’psicologia da principi’, uomini ambiziosi, che sono sposi di una chiesa, nell’attesa di un’altra più bella, più importante o più ricca. State bene attenti di non cadere nello spirito del carrierismo!". Francesco ha anche invitato i vescovi alla "stabilità", cioè a "rimanere nella diocesi", "senza cercare cambi o promozioni". "Evitate lo scandalo di essere ’Vescovi di aeroporto’! Siate Pastori accoglienti, in cammino con il vostro popolo". "Il nostro - ha detto - è un tempo in cui si può viaggiare, muoversi da un punto all’altro con facilità, un tempo in cui i rapporti sono veloci, l’epoca di internet. Ma l’antica legge della residenza non è passata di moda!".
La metafora del vescovo - Il papa è partito dalla metafora del vescovo come pastore che, secondo costituzione apostolica conciliare Lumen gentium, ha "abituale e quotidiana cura del gregge". Per Francesco, il vescovo "è in cammino con e nel suo gregge", il che vuole dire "mettersi in cammino con i propri fedeli e con tutti coloro che si rivolgeranno a voi, condividendone gioie e speranze, difficoltà e sofferenze, come fratelli e amici, ma ancora di più come padri, che sono capaci di ascoltare, comprendere, aiutare, orientare". Un vescovo che vive in mezzo ai suoi fedeli "ha le orecchie aperte per ascoltare ’ciò che lo spirito dice alle chiesè e la ’voce delle pecore’, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo. Questa presenza pastorale vi consentirà di conoscere a fondo anche la cultura, le usanze, i costumi del territorio, la ricchezza di santità che vi è presente. Immergersi nel proprio gregge!".
I pastori - I pastori devono avere "l’odore delle pecore", ha peraltro ricordato Bergoglio, ricordando ciò che aveva detto più volte in Argentina e nell’omelia della messa crismale e poi: "siate pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come gesù buon pastore". Per il Papa, infine, "non è mai tempo perso quello passato con i sacerdoti! riceverli quando lo chiedono; non lasciare senza risposta una chiamata telefonica; essere in continua vicinanza, in contatto continuo con loro".
Affetto per i sacerdoti - Francesco richiama anche i nuovi vescovi alla necessità di avere "affetto per i vostri sacerdoti: sono il primo prossimo del vescovo, indispensabili collaboratori di cui ricercare il consiglio e l’aiuto e di cui prendersi cura come padri, fratelli e amici". Esorta il Papa: "Non dimenticate le necessità umane di ciascun sacerdote, soprattutto nei momenti più delicati e importanti del loro ministero e della loro vita".
Scendete in mezzo ai fedeli - Da qui, l’appello del Papa: "Non chiudetevi! Scendete in mezzo ai vostri fedeli, anche nelle periferie delle vostre diocesi e in tutte quelle periferie esistenziali dove c’è sofferenza, solitudine, degrado umano. Presenza pastorale - spiega ancora Francesco - significa camminare con il popolo di Dio: davanti per indicare la via, in mezzo per rafforzarlo nell’unità, dietro perché nessuno rimanga indietro ma soprattutto per seguire il fiuto che ha il popolo di Dio per trovare nuove strade".
* la Repubblica, 19 settembre 2013
SALVEZZA PER TUTTI. O PER NESSUNO. IN GERMANIA, 500 PARROCI CONTESTANO IL NUOVO MESSALE *
37212. BERLINO-ADISTA. La nuova traduzione in lingua tedesca del Messale voluta dal Vaticano non piace, da un punto di vista sia formale che sostanziale e teologico. Lo affermano, in un appello ai membri della Conferenza episcopale tedesca, circa 500 parroci tedeschi aderenti alla Pfarrer-Initiative, timorosi che questa traduzione venga approvata e definitivamente adottata in occasione della prossima assemblea generale dei vescovi, in programma a Fulda per settembre.
A costituire il maggiore problema, per i parroci, sono le parole che il prete pronuncia al momento della consacrazione eucaristica: «Questo è il mio sangue, versato per voi e per molti». La modifica al testo era stata annunciata ai vescovi germanofoni da Benedetto XVI nell’aprile 2012: l’espressione latina pro multis avrebbe dovuto essere tradotta con “per molti”, e non più “per tutti” modificando così sostanzialmente l’uso in vigore.
La richiesta è contenuta in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Monaco, card. Reinhard Marx, ai vescovi ausiliari della stessa diocesi, mons. Bernhard Hasslberger e mons. Woflgang Bischof, e al vicario episcopale mons. Rupert Graf zu Stolberg, e porta la firma dei portavoce del movimento dei parroci Albert Bauernfeind, Walter Hofmeister, Hans-Jörg Steichele, Christoph Nobs, Karl Feser e Klaus Kempter.
Il documento esprime anche la speranza che nel corso della celebrazione eucaristica sia utilizzata una lingua che «aiuti gli uomini e le donne di oggi ad avere un dialogo con Dio e a partecipare, dunque, attivamente alla liturgia». La nuova traduzione, si legge nel testo della lettera, «è ben poco poetica e suggestiva» e non fa che amplificare i problemi già esistenti, tanto da rischiare di spingere molti preti a rifiutarne il ricorso per motivi di coscienza.
Il documento fa anche riferimento alle prime fasi del pontificato di papa Francesco, il quale ha mostrato segnali che fanno presagire la volontà di instaurare un più intenso rapporto collegiale con i vescovi e di adottare misure che riducano il ruolo di Roma e il centralismo vaticano; i parroci auspicano, infatti, che il nuovo papa «riconosca nuovamente ai vescovi il diritto di esercitare le funzioni di loro competenza senza la tutela della Curia romana». Alla luce di queste considerazioni, chiedono dunque fermamente ai vescovi dell’arcidiocesi di Monaco di non dare la loro approvazione al nuovo testo e di continuare, invece, ad utilizzare la traduzione usata fino a questo momento.
Nella loro lettera i parroci riportano le parole del papa sul concetto di armonia nella diversità, contenute in un’intervista rilasciata da Bergoglio al mensile 30Giorni nel 2007 (n. 11/07), quando era arcivescovo di Buenos Aires: «Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo “ipse harmonia est”, lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo». E ancora: «Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica».
Già nel 2007, il Consiglio presbiterale di Rottenburg-Stuttgart aveva votato a favore del mantenimento della traduzione inclusiva per tutti, giudicando quella del Vaticano, per molti, ambigua. «La promessa di salvezza di Dio - recitava un comunicato stampa diffuso dal Consiglio presbiterale - vale per tutte le persone. Verità di fede espressa in modo più chiaro nella formula “per tutti”».
Un mese e mezzo prima, era stato il Consiglio presbiterale di Augsburg a dire lo stesso chiedendo al vescovo, mons. Walter Mixa, di «promuovere presso il Vaticano e presso la Conferenza episcopale tedesca» la possibilità di continuare a tradurre l’espressione del Messale romano pro multis con per tutti. Subito prima del voto, era intervenuto alla riunione del Consiglio presbiterale il preside dell’Accademia Cattolica della Baviera, p. Florian Schuller, sottolineando che la storia dei testi centrali della liturgia è «profondamente iscritta nelle coscienze» e che un cambiamento come quello prescritto da Roma rischia di provocare polarizzazioni e proteste a livello di parrocchie. (ludovica eugenio)
* Adista Notizie n. 23 del 22/06/2013
MEDITAZIONE
Ai vescovi italiani: «Essere Pastori vuol dire camminare in mezzo e dietro al gregge»
di Papa Francesco (Avvenire, 23 maggio 2013)
Cari Fratelli nell’episcopato,
è significativo - e ne sono particolarmente contento - che il nostro primo incontro avvenga proprio qui, sul luogo che custodisce non solo la tomba di Pietro, ma la memoria viva della sua testimonianza di fede, del suo servizio alla verità, del suo donarsi fino al martirio per il Vangelo e per la Chiesa.
Questa sera l’altare della Confessione diventa così il nostro lago di Tiberiade, sulle cui rive riascoltiamo lo stupendo dialogo tra Gesù e Pietro, con l’interrogativo indirizzato all’Apostolo, ma che deve risuonare anche nel nostro cuore.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?» (cfr Gv 21,15ss).
La domanda è rivolta a un uomo che, nonostante solenni dichiarazioni, si era lasciato prendere dalla paura e aveva rinnegato.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?».
La domanda è rivolta a ciascuno di noi: se evitiamo di rispondere in maniera troppo affrettata e superficiale, essa ci spinge a guardarci dentro, a rientrare in noi stessi.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?».
Colui che scruta i cuori (cfr Rm 8,27) si fa mendicante d’amore e ci interroga sull’unica questione veramente essenziale, premessa e condizione per pascere le sue pecore, i suoi agnelli, la sua Chiesa. Ogni ministero si fonda su questa intimità con il Signore; vivere di Lui è la misura del nostro servizio ecclesiale, che si esprime nella disponibilità all’obbedienza, all’abbassamento e alla donazione totale (cfr Fil 2,6-11).
Del resto, la conseguenza dell’amare il Signore è dare tutto - proprio tutto, fino alla stessa vita - per Lui: questo è ciò che deve distinguere il nostro ministero pastorale; è la cartina di tornasole che dice con quale profondità abbiamo abbracciato il dono ricevuto rispondendo alla chiamata di Gesù e quanto ci siamo legati alle persone e alle comunità che ci sono state affidate. Non siamo espressione di una struttura o di una necessità organizzativa: anche con il servizio della nostra autorità siamo chiamati a essere segno della presenza e dell’azione del Signore risorto, a edificare, quindi, la comunità nella carità fraterna.
Non che questo sia scontato: anche l’amore più grande, infatti, quando non è continuamente alimentato, si affievolisce e si spegne. Non per nulla l’Apostolo Paolo ammonisce: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28).
La mancata vigilanza - lo sappiamo - rende tiepido il Pastore; lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’Apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda.
Chi siamo, Fratelli, davanti a Dio? Quali sono le nostre prove? Che cosa ci sta dicendo Dio attraverso di esse? Su che cosa ci stiamo appoggiando per superarle?
Come per Pietro, la domanda insistente e accorata di Gesù può lasciarci addolorati e maggiormente consapevoli della debolezza della nostra libertà, insidiata com’è da mille condizionamenti interni ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità.
Non sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare; piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell’amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento.
Gesù, buon Pastore, non umilia né abbandona al rimorso: in Lui parla la tenerezza del Padre, che consola e rilancia; fa passare dalla disgregazione della vergogna al tessuto della fiducia; ridona coraggio, riaffida responsabilità, consegna alla missione.
Pietro, che purificato al fuoco del perdono può dire umilmente «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17), nella sua prima Lettera ci esorta a pascere «il gregge di Dio [...], sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri [...], non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a noi affidate, ma facendoci modelli del gregge» (1Pt 5,2-3).
Sì, essere Pastori significa credere ogni giorno nella grazia e nella forza che ci viene dal Signore, nonostante la nostra debolezza, e assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge, sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato la fede, sia da coloro che ancora «non sono di questo ovile» (Gv 10,16): siamo chiamati a far nostro il sogno di Dio, la cui casa non conosce esclusione di persone o di popoli, come annunciava profeticamente Isaia (cfr Is 2,2-5).
Per questo, essere Pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge: capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine. Fra questi, un posto particolare riserviamolo ai nostri sacerdoti: soprattutto per loro, il nostro cuore, la nostra mano e la nostra porta restino aperte in ogni circostanza.
Cari fratelli, la professione di fede che ora rinnoviamo insieme non è un atto formale, ma è rinnovare la nostra risposta al “Seguimi” con cui si conclude il Vangelo di Giovanni (21,19): porta a dispiegare la propria vita secondo il progetto di Dio, impegnando tutto di sé per il Signore Gesù. Da qui sgorga quel discernimento che conosce e si fa carico dei pensieri, delle attese e delle necessità degli uomini del nostro tempo.
Con questo spirito, mentre ringrazio di cuore ciascuno di voi per il vostro servizio, vi pongo sotto il manto di Maria, Nostra Signora.
Madre del silenzio, che custodisce il mistero di Dio, liberaci dall’idolatria del presente, a cui si condanna chi dimentica. Purifica gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria: torneremo alla freschezza delle origini, per una Chiesa orante e penitente.
Madre della bellezza, che fiorisce dalla fedeltà al lavoro quotidiano, destaci dal torpore della pigrizia, della meschinità e del disfattismo. Rivesti i Pastori di quella compassione che unifica e integra: scopriremo la gioia di una Chiesa serva, umile e fraterna.
Madre della tenerezza, che avvolge di pazienza e di misericordia, aiutaci a bruciare tristezze, impazienze e rigidità di chi non conosce appartenenza. Intercedi presso tuo Figlio perché siano agili le nostre mani, i nostri piedi e i nostri cuori: edificheremo la Chiesa con la verità nella carità.
E saremo il Popolo di Dio, pellegrinante verso il Regno. Amen.
I vescovi in attesa della svolta
di Andrea Tornielli (La Stampa, 21 maggio 2013)
Il nuovo pontificato, per il momento, non ha prodotto cambiamenti particolarmente evidenti nei contenuti del discorso che Angelo Bagnasco ha tenuto davanti ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale.
La prolusione del presidente della Cei è stata un po’ più corta rispetto ad altre volte (10 cartelle invece che 14-15) ma ha comunque spaziato sui temi politico-sociali con particolare attenzione all’emergenza disoccupazione.
Ed è stata come sempre focalizzata anche sulle cosiddette «questioni antropologiche»: non solo sulla difesa della famiglia e della vita, ma anche sul no al riconoscimento delle coppie gay e alla denuncia dei progetti in favore dell’eutanasia. Cioè quei temi che hanno caratterizzato particolarmente i pontificati dei Papi Wojtyla e Ratzinger e le presidenze Cei del cardinale Ruini e ora dello stesso Bagnasco.
Ieri il presidente dei vescovi è entrato meno direttamente nel merito della politica italiana rispetto ad altre volte, e si è limitato a elogiare i «gesti di disponibilità esemplari ad alti livelli» (un riferimento all’accettazione della ricandidatura da parte di Napolitano) e a mettere in guardia dai «populismi inconcludenti», indicando come «l’unica cosa seria» il «pensare alla gente».
È anche vero, però, che dopo l’elezione del Presidente della Repubblica e la formazione del governo di larghe intese che vede nella sua compagine molti ministri cattolici, si sta vivendo un momento di attesa: sono ormai lontane le fibrillazioni della lunga campagna elettorale e il dibattito sugli endorsement ecclesiastici al progetto centrista di Mario Monti. Sarebbe stato difficile prevedere accenni più espliciti da parte del presidente dei vescovi.
Bagnasco nelle pagine più innovative della prolusione, quelle incentrate sui contenuti ecclesiali, ha dedicato molto spazio a citazioni di Papa Francesco, sia attingendo al magistero dei primi due mesi di pontificato, sia da discorsi e libri dell’allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires. E non ha dimenticato le parole dedicate all’eccesso di strutture e di burocrazia: «Quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza».
Frasi che potrebbero applicarsi anche alle non piccole strutture della stessa Conferenza episcopale italiana. Nell’udienza concessa le scorse settimane a Bagnasco, Francesco aveva chiesto attenzione proprio su questo. «Sua Santità ha condiviso la necessità di avere strutture agili aveva detto il presidente della Cei dopo l’incontro con il Pontefice - evitando sprechi e dispendi di risorse; mi ha raccomandato esplicitamente di non moltiplicare organismi, che alla fine appesantiscono inutilmente».
In realtà però la «spending review», motivata anche dal timore di minori introiti dall’otto per mille negli anni a venire, era già iniziata prima dell’elezione del nuovo Papa, con tagli consistenti, ad esempio, alle spese per convegni.
Più in generale, sull’approccio pastorale di Bergoglio e sull’esempio che sta dando - con la sua predicazione semplice e immediata, la sobrietà, il tempo da lui dedicato all’incontro personale con le persone, il suo stile così poco «ingessato», i suoi continui richiami perché si esca dalla malattia dell’autoreferenzialità - i vescovi avranno tempo di discutere e di interrogarsi. E dopo la sorpresa per l’inaspettata elezione del Papa giunto «dalla fine del mondo», la Chiesa italiana potrà riflettere più in profondità su quale cambio di passo le sia eventualmente richiesto dall’esempio di Francesco, vescovo di Roma e primate d’Italia.
Santa Marta
«Pregate per i vescovi e i preti perché siano pastori e non lupi» *
Pregate per i preti e i vescovi perché non cedano alla tentazione dei soldi e della vanità ma siano al servizio del popolo di Dio: è l’esortazione di Papa Francesco, stamani, nella Messa presieduta a Santa Marta. Era presente un gruppo di dipendenti della Radio Vaticana.
L’omelia del Papa parte dal brano degli Atti degli Apostoli in cui Paolo esorta gli “anziani” della Chiesa di Efeso a vegliare su se stessi e su tutto il gregge, ad essere pastori attenti ai “lupi rapaci”. E’ una delle “più belle pagine del Nuovo Testamento” - ha sottolineato il Papa - “piena di tenerezza, di amore pastorale” in cui emerge il “bel rapporto del vescovo col suo popolo”. I vescovi e i preti - spiega - sono al servizio degli altri, per custodire, edificare e difendere il popolo. E’ “un rapporto di protezione, di amore fra Dio e il pastore e il pastore e il popolo”:
“Alla fine un vescovo non è vescovo per se stesso, è per il popolo; e un prete non è prete per se stesso, è per il popolo: al servizio di, per far crescere, per pascolare il popolo, il gregge proprio, no? Per difenderlo dai lupi. E’ bello pensare questo! Quando in questa strada il vescovo fa quello è un bel rapporto col popolo, come il vescovo Paolo lo ha fatto col suo popolo, no? E quando il prete fa quel bel rapporto col popolo, ci dà un amore: viene un amore fra di loro, un vero amore, e la Chiesa diventa unita”.
Il rapporto del vescovo e del prete col popolo - ha proseguito il Papa - è un rapporto “esistenziale, sacramentale”. “Noi - ha aggiunto - abbiamo bisogno delle vostre preghiere” perché “anche il vescovo e il prete possono essere tentati”. I vescovi e i preti devono pregare tanto, annunciare Gesù Cristo Risorto e “predicare con coraggio quel messaggio di salvezza”. “Ma anche noi siamo uomini e siamo peccatori” e "siamo tentati". E quali sono le tentazioni del vescovo e del prete?:
“Sant’Agostino, commentando il profeta Ezechiele, parla di due: la ricchezza, che può diventare avarizia, e la vanità. E dice: ‘Quando il vescovo, il prete si approfitta delle pecore per se stesso, il movimento cambia: non è il prete, il vescovo per il popolo, ma il prete e il vescovo che prende dal popolo’. Sant’Agostino dice: ‘Prende la carne per mangiarla alla pecorella, si approfitta; fa negozi ed è attaccato ai soldi; diventa avaro e anche tante volte simoniaco. O se ne approfitta della lana per la vanità, per vantarsi’”.
Così - osserva il Papa - “quando un prete, un vescovo va dietro ai soldi, il popolo non lo ama e quello è un segno. Ma lui stesso finisce male”. San Paolo ricorda di aver lavorato con le sue mani, “non aveva un conto in banca, lavorava. E quando un vescovo, un prete va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo - e fa tanto male alla Chiesa - fa il ridicolo alla fine, si vanta, gli piace farsi vedere, tutto potente... E il popolo non ama quello!”. Pregate per noi - ripete il Papa - “perché siamo poveri, perché siamo umili, miti, al servizio del popolo”. Infine, suggerisce di leggere il capitolo 20 versetti 28-30 degli Atti degli Apostoli dove Paolo dice: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé”:
“Leggete questa bella pagina e leggendola pregate, pregate per noi vescovi e per i preti. Ne abbiamo tanto bisogno per rimanere fedeli, per essere uomini che vegliano sul gregge e anche su noi stessi, che fanno la veglia proprio, che il loro cuore sia sempre rivolto al suo gregge. Anche che il Signore ci difenda dalle tentazioni, perché se noi andiamo sulla strada delle ricchezze, se andiamo sulla strada della vanità, diventiamo lupi e non pastori, pastori. Pregate per questo, leggete questo e pregate. Così sia”.
Sergio Centofanti - Radio Vaticana
* Avvenire, 15 maggio 2013
HABEMUS PAPAM
Le prime parole di Papa Francesco
"Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui... Vi ringrazio dell’accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca".
Quindi ha recitato il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria.
"E adesso - ha proseguito - incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perchè ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo - mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente - sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città... Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perchè mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me".
"Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà", ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l’indulgenza plenaria. "Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perchè custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo".
* L’Avvenire, 14 marzo 2013
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
di Giordano Frosini
in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013
Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.
Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.
Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.
Le tre fasi post-conciliari
Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.
Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».
Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).
Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.
La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.
Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?
Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.
Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.
La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.
La rivolta dei teologi
I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.
Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.
Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».
Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.
Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.
Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.
Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.
Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».
Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.
La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.
«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».
Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.
Il pensiero di Pino Colombo
È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.
Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.
Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.
Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.
Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.
È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.
Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.
Un necessario recupero
Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.
A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
Ancora il solito ritornello sulle donne, in diretta dal pianeta Marte
di Estelle R.
in “www.comitedelajupe.fr” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono giorni in cui mi chiedo davvero se certi prelati della Chiesa cattolica siano uomini che vivono su questo pianeta, tanto il loro sguardo sul mondo è fuori dalla realtà. L’ultimo esempio ci viene dai vescovi riuniti nel sinodo dal 7 al 28 ottobre scorso sul tema “nuova evangelizzazione.
Hanno votato una lista di 58 proposte presentate alla fine a Benedetto XVI. La proposta 46 riguarda la “Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa”.
Proposta 46: Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa
La chiesa apprezza l’eguale dignità, nella società, fra uomini e donne fatti ad immagine di Dio, e nella Chiesa, per la loro vocazione comune di battezzati in Cristo. Il pastori della Chiesa hanno riconosciuto le capacità specifiche delle donne, come la loro attenzione agli altri e i loro doni per l’educazione (nutrimento) e la compassione, particolarmente nella loro vocazione di madre. Le donne sono testimoni con gli uomini del Vangelo della vita per la loro dedizione nella trasmissione della vita nella famiglia. Insieme aiutano a mantenere viva la fede. Il sinodo riconosce che oggi le donne (laiche e religiose) contribuiscono con gli uomini alla riflessione teologica a tutti i livelli e partecipano delle responsabilità pastorali con loro in nuove modi portando avanti così la nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede.
Possiamo apprezzare il primo paragrafo che ricorda (e per fortuna!) l’eguale dignità tra uomini e donne nella Chiesa, ma il secondo e il terzo paragrafo sono semplicemente nauseabondi. Non è nauseante leggere che questi signori credono ancora alle “capacità specifiche delle donne”!!! Apparentemente, hanno perso tutto il periodo (di almeno un secolo, tra l’altro!) in cui le donne non sono più limitate a posti di lavoro di infermiera o insegnante, mestieri in cui possono dispiegare tutta la panoplia dei loro talenti innati in materia di amore del prossimo, di compassione e di maternità. Non si devono neppure esser accorti che Margaret Thatcher era una donna.
Scrivere e votare tali enormità è sicuramente rivoltante per le donne, ma talmente degradante per gli uomini! Significa che qualsiasi uomo, qualunque cosa faccia, non sarà mai all’altezza della sua compagna nell’educazione dei figli e in generale nell’amore per il prossimo, perché, non essendo geneticamente programmato per dare la vita, in fondo è solo un grande handicappato nell’altruismo e nella compassione.
Ma sono cose che non stanno né in cielo né in terra!!! Questi signori non guardano mai attorno a sé? Ad esempio, non hanno fratelli, cugini, nipoti che hanno quell’istinto paterno, forte quanto quello della madre, che ad esempio fa sì che siano presenti e tengano la mano della moglie mentre lei partorisce? E che dire degli uomini e delle donne che non possono dare la vita ma sono disposti, con l’adozione, ad accogliere un bambino? Sono meno atti alla vocazione della famiglia?
Riparliamone, della vocazione! Il massimo dell’assurdità e della stupidaggine torna ancora con la menzione di “vocazione di madre”. Ah, la sacrosanta vocazione di madre! Ah, il modello della Santa Vergine Maria! Oltre al peso (e agli stereotipi che questo mette sulle spalle delle donne), ancora una volta, questo è degradante per gli uomini. E la loro specifica vocazione di padre? È unicamente materiale? Grazie di portare a casa i soldi per nutrire la famiglia ed eventualmente di dare un bacio ai bambini prima di metterli a letto, e basta?
E, andando oltre, questo rinvia una volta ancora al problema globale delle “vocazioni”: ciascuno nella sua casella, e non facciamo confusione. Perché, insomma, le donne sono pregate di fare figli... con chi, ce lo domandiamo, dato che gli uomini hanno la vocazione al presbiterato, come ci ricorda ogni anno la giornata delle vocazioni.
Ma come può la Chiesa cattolica, ancora ai nostri giorni, votare testi che rinchiudono in questo modo gli esseri umani? Come ci si può applicare coscientemente e coscienziosamente ad innalzare muri tra le persone, a determinare così la loro vita e le loro azioni apostoliche? Come si possono convalidare tali sciocchezze e dirsi eredi di un Cristo che ha fatto cadere tante e tante barriere? Quindi no, cento volte no, come uomini e come donne non possiamo accettare in pace questa proposizione del sinodo.
(Se non sono amareggiata al cento per cento, è perché apprezzo molto il fatto che il sinodo riconosca che le donne partecipano alla riflessione teologica e possono avere responsabilità pastorali.)
intervista a Gianfranco Ravasi,
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 11 novembre 2012)
«I giovani preti? Se è per questo pure diversi vescovi fanno fatica, anche all’ultimo sinodo un po’ si rideva, molti hanno una difficoltà quasi strutturale a leggere e comprendere il latino, anche fra gli europei, e dico quello ecclesiastico che è molto più semplice della lingua di Cicerone...». Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride con una punta di mestizia, come presidente del Consiglio della Cultura vaticano sarà lui a controllare la nuova «Pontificia Accademia di Latinità» (Pontificia Academia Latinitatis) che Benedetto XVI ha istituito ieri con un motu proprio nel quale scrive (in latino, ovvio) quanto sia «urgente» contrastare «il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale». La Chiesa, aggiunge il Papa, è da duemila anni «custode e promotrice» del latino nel mondo.
Eminenza, il Papa parla dei seminari ma in generale dei giovani e del «vasto mondo della cultura». Quale sarà il ruolo dell’Accademia?
«Esistevano già delle istituzioni vaticane come la Latinitas, da ora estinta, però adesso si vuole rivedere tutta la questione in modo diverso. Anzitutto c’è un valore che si considera permanente dell’umanità: il latino - con il greco, naturalmente - è una delle matrici assolute della cultura europea e occidentale. Per questo il Santo Padre ha nominato presidente dell’Accademia un grande latinista come il professor Ivano Dionigi, rettore dell’università di Bologna. Non è solo un problema ecclesiale».
Quindi, come si muoverà?
«Prima di tutto ci si impegnerà nella diffusione della cultura latina alta e dei suoi contenuti, che sono inscindibili dalla conoscenza della lingua. Ogni traduzione è sempre una belle infidèle, come diceva Gilles Ménage, anche se è bella è infedele. Io, per dire, penso che Agostino perda la metà. Pensi alle Confessioni, «Nondum amabam, et amare amabam... quaerebam quid amarem, amans amare...», ma come si fa?, è come tradurre Dante, Agostino sta dicendo che ancora non amava davvero perché non sapeva quale fosse l’oggetto del suo amore e c’è una bellezza musicale nella lingua, lui ne è un cultore raffinato, ci gioca. Così vogliamo recuperare tutto il grande patrimonio culturale latino, classico, patristico e medievale: per il mondo. L’Accademia si amplierà a livello internazionale, con diverse personalità laiche».
Benedetto XVI parla anche dei seminari...
«Certo, il secondo elemento è ad intra. Il latino è stato ed è la lingua ufficiale della Chiesa, in latino sono gli scritti dei Padri, i documenti della tradizione, i testi dei Concili, del magistero dei Papi, i libri liturgici... Ci vuole un impegno maggiore nei seminari, bisogna fare in modo che riescano a capirli!».
Come si è arrivati a questa situazione?
«Non è solo colpa della Chiesa, c’è un problema generale degli studi umanistici. Del resto una volta per studiare teologia nei seminari si doveva venire dal liceo classico e poi non è stato più così, i corsi integrativi non sono bastati, bisogna fare di più. Ma c’è un terzo livello...».
Quale?
«Il recupero del latino nella modernità. Oggi c’è il gusto di ritornare alla lingua, lo sa che in Finlandia esiste un quindicinale per ragazzi in latino? Perché il latino ha una funzione formativa. L’inglese parlato - non dico quello alto - è una semplificazione, quasi un "twitteraggio" del pensiero. Mentre il latino ha una forte impronta razionale, la costruzione dei casi, i verbi, la consecutio temporum... Per questo lo si vuole riproporre ai giovani».
C’è chi farà l’equazione latino-Chiesa preconciliare...
«Lo so, purtroppo. Se si vuole c’è un recupero del passato e del suo patrimonio, ma non reazionario né sterile. La bellezza del latino non è alternativa o contrapposta alla Chiesa postconciliare. E poi mi piacerebbe sapere se quelli che partecipano ai riti latini sarebbero in grado di tradurmi gli inni di Sant’Ambrogio, così raffinati e complessi... Anche loro ne hanno bisogno!».
Una voce dal Sinodo: “La Chiesa si penta”
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2012)
Sotto la pelle del pontificato ratzingeriano c’è una gran voglia di nuova Chiesa. Il Sinodo degli oltre 250 vescovi, venuti da tutto il mondo a Roma a ottobre per discutere della “nuova evangelizzazione”, ha aperto una finestra sul cattolicesimo del XXI secolo e ha indicato temi, che saranno al centro del futuro conclave. I mass media se ne sono occupati poco. Non c’è da meravigliarsi: il Sinodo non ha poteri decisionali e i suoi documenti sono generici e annacquati. Ma è come durante le gravidanze.
Le contrazioni rivelano che il nascituro è già in cammino, anche se il parto non è imminente. Al Sinodo le “contrazioni” si sono manifestate sotto forma di richieste insistenti per una Chiesa umile, credibile, che dia finalmente un ruolo alle donne, che stia dalla parte dei poveri e combatta le ingiustizie. “La Chiesa deve farsi in tutta onestà un esame di coscienza sul modo di vivere la fede”, ha dichiarato monsignor Carlos Aguiar Retes, presidente dell’episcopato latino-americano. Deve saper condurre un “dialogo senza arroganza” con la scienza, ha sottolineato il cardinale Ravasi, responsabile vaticano per la Cultura. Deve attrezzarsi al confronto di idee “non in termini di aggressione ideologica”, ha raccomandato il vescovo di Dublino Martin. Abbia il coraggio di indagare su “quali sono le ombre o i fallimenti ai quali bisogna porre fine”, ha incalzato il filippino Palma.
Un altro filippino, Villegas, è stato ancora più esplicito: “La gerarchia deve evitare l’arroganza, l’ipocrisia, il settarismo”. Nei gruppi di lavoro di lingua spagnola si è chiesto che tutta la Chiesa “faccia un esame di coscienza, riconoscendo i suoi errori e peccati”. “Dov’è la nostra umiltà?”, ha rilanciato il vescovo iracheno Wardouni.
Se la relazione introduttiva del vescovo statunitense Wuerl aveva toni allarmisti, evocando lo “tsunami della secolarizzazione” abbattutosi sulla Chiesa, molti vescovi hanno rovesciato l’impostazione. Forse sarebbe meglio concentrarsi sulla “nostra mediocrità di cristiani”, hanno suggerito alcuni presuli di lingua inglese. Non ha senso lamentarsi o abbandonarsi al vittimismo, hanno detto in molti. Fondamentale è rivolgersi al mondo con amicizia. “Non si tratta di imporre, ma di attrarre”.
Il futuro cardinale Tagle, arcivescovo di Manila, ha ammonito che il volto di Gesù nel mondo contemporaneo si testimonia con l’“umiltà, il rispetto e il silenzio della Chiesa”. Il keniota Njue ha rammentato che l’annuncio del vangelo si basa sulla “credibilità dei credenti”. Il croato Bozanic si è rivolto all’assemblea scandendo: “C’è una domanda ineludibile: dov’è che la nostra non-credibilità diventa non-testimonianza per gli altri?”. Gli ha fatto eco il francese Rey, rammentando che preti e vescovi devono adottare un nuovo stile di vita pastorale. Il nigeriano Badejo ha rimarcato che la società contemporanea - specie i giovani - vuole un rapporto di comunicazione reciproca e perciò la Chiesa deve capire che non funziona più l’“antiquato modello docente-discente oppure oratoreascoltatore”.
Nel chiuso della grande assemblea di vescovi, che si riunisce in genere ogni tre anni, non si vota su proposte operative e perciò è difficile dire quanta sia la forza finale del fronte riformatore. Ma di sicuro è diffusa la voglia di uscire dalla stagnazione dell’attuale pontificato. Se non ora, al prossimo conclave. Benedetto XVI, debole come uomo di governo, ma lucido come intellettuale, ha esortato spesso i cristiani ad essere nell’epoca contemporanea una “minoranza attiva”.
Dagli interventi di molti padri sinodali è emersa la disponibilità a rimodellare la Chiesa per renderla in grado di svolgere il suo ruolo nel terzo millennio. Sono emerse piste di lavoro precise. Sul piano sociale l’imperativo è stare dalla parte dei poveri. Lo si è sentito da ogni angolo del mondo cattolico. Per l’indiano Thottunkal la missione della Chiesa è battersi per la dignità umana e la giustizia. Per il messicano Rabago è “trasformare le strutture di peccato”, contrastando “disuguaglianze sociali, violenza, ingiustizie”. Per il canadese Lapierre, favorire una cultura della solidarietà.
Sul piano interno emerge la domanda di una declericalizzazione. La Chiesa di domani, si avverte, si reggerà soprattutto sulla vitalità di “piccole comunità”. La parrocchia non basta più (e non ci sono nemmeno preti abbastanza). Il futuro - come agli inizi del cristianesimo - è affidato a gruppi di fedeli convinti e dinamici. Il nuovo protagonista sarà il “catechista” o l’evangelizzatore: un laico, una laica capaci di portare la parola di Dio nella società globalizzata. Molti vescovi chiedono che sia un ruolo, un “ministero ecclesiale” preciso. Punto culminante del processo riformatore indicato da molti è la reale valorizzazione della donna nella missione ecclesiale. Per dirla con il vescovo canadese Dunn: il “deliberato e sistematico coinvolgimento delle donne in posizioni di guida ad ogni livello di vita ecclesiale”. Conferendo loro i cosiddetti “ordini minori” come il lettorato e l’accolitato, ma anche - ha proposto il tedesco Bode - il diaconato. Dietro le quinte, nella Chiesa, si agitano molti fermenti.
La speranza che arriva dal Sinodo
di Enzo Bianchi (La Stampa, 28 ottobre 2012)
Si conclude oggi il sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica per una evangelizzazione rinnovata nel mondo contemporaneo, un mondo che muta rapidamente e che richiede ai cristiani un «aggiornamento», per usare l’espressione coniata dal Papa del Concilio, Giovanni XXIII.
Sono passati ormai cinquant’anni da quell’evento atteso, preparato e vissuto come una nuova pentecoste: da allora, più volte la Chiesa cattolica ha fatto ricorso allo strumento del sinodo per mettere a fuoco nuove problematiche e delineare scelte concrete per la vita dei cattolici.
Così, per tre settimane, circa duecentocinquanta vescovi, provenienti dalle diverse terre in cui vivono i cristiani, si sono ascoltati, hanno ricercato insieme, hanno discusso e dialogato. Chiamato da Benedetto XVI a partecipare al sinodo in qualità di «esperto», ho potuto essere testimone di questa assemblea di respiro mondiale e imparare ad assumere uno sguardo più informato e più attento sulle situazioni diverse e sui differenti problemi che attraversano la Chiesa.
Sì, per la Chiesa cattolica e per le chiese cristiane questo tempo sta sotto il segno della crisi: nelle terre di antica cristianità la trasmissione della fede conosce fatiche e intoppi, la Chiesa registra una diminuzione di membri e di vocazioni al suo interno e, in una società segnata dalla secolarizzazione, appare a volte minoritaria, periferica, marginale. Inoltre, la cultura instauratasi come dominante è sì per molti versi ancora ispirata al cristianesimo, ma sovente i valori che appaiono emergenti e performativi - valori che privilegiano l’individualismo e la negazione di ogni forma di solidarietà e di vincolo comunitario - non sono certo di supporto alla vita cristiana.
In Occidente il cristianesimo è ormai una via religiosa tra le altre e l’indifferentismo della società consumistica mette in affanno i cristiani che vorrebbero aiutare il cammino di umanizzazione attraverso l’annuncio stesso del Vangelo. D’altro canto, in continenti come il Sud America, l’Africa e l’Asia, la Chiesa cattolica, oltre al confronto con le altre religioni «storiche», conosce anche la concorrenza di sette cristiane, di spiritualità esoteriche e di fenomeni legati alla magia. Così, se il mondo è ancora «incantato», potremmo dire «religioso», tuttavia le chiese tradizionali sembrano incapaci di eloquenza.
È indubbio che oggi in Africa, in Medioriente, in Asia e ora anche nei Paesi dell’Occidente a causa dell’immigrazione, l’Islam con le sue diverse componenti costituisce una presenza che interroga: i padri sinodali provenienti dalle Chiese più direttamente implicate in questa non facile convivenza, hanno cercato di far conoscere con molto rispetto i loro problemi, le difficoltà che la dimensione missionaria incontra a causa della mancanza di libertà religiosa, il rischio che i cristiani - pur abitando da secoli, prima che l’Islam apparisse, le terre ora a maggioranza musulmana - siano percepiti come «Occidente», quasi degli intrusi nel loro stesso Paese, e siano spinti a emigrare.
Proprio per questo ho trovato straordinario poter ascoltare le voci di questi vescovi, tutte testimoni di un impegno nel dialogo, prive di accenti aggressivi o toni da crociata. La Chiesa è veramente mutata in questi ultimi cinquant’anni: non più ostilità verso gli «infedeli», ma dialogo, comune responsabilità per il bene della società, ricerca di pace tra le religioni, libertà di coscienza, affermazione della necessaria «ragione umana» in ogni dottrina religiosa...
La Chiesa non vuole promuovere un proselitismo che imponga il Vangelo o seduca gli uomini, ma vuole che la Buona Notizia possa essere ascoltata da tutti, perché ogni essere umano ne ha il diritto. Per questo si impegna a evangelizzare innanzitutto se stessa e quindi a offrire una vita che abbia senso, un messaggio che affermi che l’amore vissuto può vincere la morte.
Ma la Chiesa nella sua opera evangelizzatrice è consapevole che il mondo non è un deserto, un vuoto senza bene e senza valori, bensì un mondo in attesa di risposte adeguate, un mondo ogni giorno abitato e plasmato dall’uomo che è sempre un figlio di Dio, una creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, dunque capace del bene, anche se a volte il male la ferisce e la rende disumana.
Per annunciare il Vangelo, i cristiani devono allora ascoltare il mondo, conoscerlo, leggerne le gioie e le sofferenze e, soprattutto, discernere in esso i «poveri», gli ultimi, le vittime del potere e di quanti dispongono della ricchezza e non si curano degli altri. Se Gesù ha dichiarato di essere venuto a portare la buona notizia del Vangelo ai poveri, la Chiesa non può fare altrimenti perché, al seguito del suo Signore, è chiamata a essere innanzitutto Chiesa povera e di poveri.
Se qualcuno si attendeva dal sinodo parole di speranza e di bontà per le quotidiane storie di amore che oggi appaiono faticose, contraddette e non sempre adeguate all’ideale di fedeltà e di unione proposto dal Vangelo, queste parole sono state dette e ascoltate: si è ribadito a più riprese che l’amore del Signore resta fedele anche quando ci sono situazioni di infedeltà, perché la Chiesa è casa di tutti i battezzati, anche di quelli che vivono situazioni di contraddizione al Vangelo. Sì, l’evento del sinodo, ormai «ordinario» nella vita della Chiesa cattolica, ha dato un messaggio di speranza ai fedeli, ma ha anche indicato a quanti non appartengono alla Chiesa e se ne proclamano estranei che i cristiani che vivono in mezzo a loro partecipano senza esenzioni alla costruzione di una convivenza più umanizzata e sanno di dover essere portatori di fiducia e di speranza.
La Chiesa è impegnata più che mai nel dialogo con la post-modernità, nella consapevolezza che ciò che le risulta faticoso - ma che costituisce la sua opera più propria - è vivere il Vangelo: questo il mandato ricevuto da Gesù. Realizzare il Vangelo è compito sempre arduo, a volte appare persino impossibile, eppure ai cristiani questo solo è richiesto se vogliono assolvere l’unico vero debito che hanno verso tutti.
Il Santo Padre nomina fr. Enzo Bianchi come esperto al Sinodo dei Vescovi *
Il Santo Padre Papa Benedetto XVI ha nominato quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (ottobre 2012) il priore fr. Enzo Bianchi. Il Papa Benedetto XVI aveva già nominato il priore quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (ottobre 2008).
Il priore e la comunità ringraziano il Papa per questo suo gesto di fiducia e di affetto.
* http://www.monasterodibose.it/content/view/4619/135/lang,it/
La Chiesa oggi dialogo possibile tra fede e modernità
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 25 ottobre 2012)
È stato molto importante il Sinodo che ha radunato duecentocinquanta Vescovi venuti dai cinque continenti insieme a numerosi teologi e collaboratori. Importante per il tema che dovrà avere concreti seguiti da parte di tutte le Diocesi cattoliche e riguarda una nuova evangelizzazione della fede di cui la Chiesa sente estremo bisogno; ma è importante anche perché ha coinciso con il cinquantenario del Concilio Vaticano II.
I Vescovi riuniti nel Sinodo hanno rievocato il Concilio, ma il Papa stesso lo ha ricordato e insieme a lui i relatori del Sinodo. Sono state formulate molte domande e date molte risposte; domande in alcuni casi volutamente provocatorie e risposte in larga misura discordanti tra loro così come discordanti sono state le interpretazioni sull’essenza del Vaticano II. Alcuni interventi sono stati fatti non solo dai Vescovi e dai teologi del Sinodo ma anche da teologi e Vescovi che ne hanno scritto su giornali cattolici e sulla stampa di informazione e da laici interessati ai temi in discussione.
Insomma sull’attuale stato della Chiesa cattolica l’attenzione del “popolo di Dio”, della gerarchia che lo guida o pretende di guidarlo e di quanti - credenti o non credenti o credenti in altre religioni - sono interessati al dibattito sui valori della religione, è stata intensa. Vogliamo anche noi cogliere l’occasione che l’attualità ci offre ed esprimere una nostra valutazione.
Benedetto XVI diffonderà prossimamente un suo nuovo libro sulla figura di Gesù e si è pubblicamente già posto due domande: «Chi siamo noi? Che cos’è la Chiesa?». Nell’attuale crisi di valori queste domande interessano tutti molto al di là dei recinti delle Chiese cristiane che del resto rappresentano la religione storicamente più radicata nel nostro continente, anche se è proprio in Occidente che la sua crisi imperversa ed è l’Occidente l’obiettivo territoriale e culturale della nuova evangelizzazione che il Sinodo ha lanciato. Ce n’è dunque abbastanza per risvegliare il nostro interesse.
* * *
Il Vaticano II durò tre anni. Il Concilio precedente si era svolto novant’anni prima e aveva avuto come risultato più visibile la proclamazione dell’infallibilità del Papa nonché il recepimento delle indicazioni fornite pochi anni prima dal “Sillabo”. L’essenza di quell’imponente raduno di Vescovi e di teologi fu il rafforzamento del centralismo curiale e cioè d’una gerarchia verticistica, depositaria della politica della Santa Sede, e dell’insegnamento cattolico, dell’interpretazione delle Scritture, della formazione del clero e del suo reclutamento, dei tribunali ecclesiastici. Tutto ciò avveniva mentre i Bersaglieri di La Marmora entravano nella città del Papa dalla breccia di Porta Pia abbattendo definitivamente il potere temporale della Chiesa.
Novant’anni dopo il nuovo Concilio indetto da Giovanni XXIII con un obiettivo che non è eccessivo definire opposto al precedente: rilanciare il tema della pastoralità e insieme ad esso quello del confronto e del dialogo con il pensiero moderno: un capovolgimento spettacolare arricchito da molti altri temi affidati allo studio di altrettante commissioni di Vescovi, di teologi, di storici del pensiero religioso. Riguardavano il contributo del laicato cattolico, la posizione della donna nella Chiesa, il celibato dei sacerdoti, la modifica della liturgia, lo sfoltimento e il risanamento della Curia, la diffusione delle Scritture tra i fedeli e quindi il rapporto diretto dei fedeli con Dio senza più il monopolio dell’interpretazione sacerdotale.
Insomma una spinta al rinnovamento che suscitò fughe in avanti e fughe all’indietro dentro il Concilio e fuori di esso. Nel frattempo Papa Roncalli era morto. Paolo VI che gli succedette cercò di impedire e comunque di gestire sia il radicalismo degli innovatori sia quello dei tradizionalisti ad oltranza. In parte ci riuscì anche se si verificò nel frattempo il piccolo scisma dei lefebvriani concentrato sulla liturgia, sulla messa celebrata non più in latino ma nelle lingue parlate nei vari paesi e sul celebrante rivolto verso la platea dei fedeli e non più verso il tabernacolo con i fedeli alle sue spalle.
Non era soltanto una questione di forma, ma di sostanza: la liturgia aveva rappresentato infatti per molti secoli la custodia ben sigillata della ritualità tradizionale. La sua innovazione aveva aperto quella custodia e liberato una creatività che in qualche modo riscopriva il ruolo essenziale del “popolo di Dio” rispetto ai sacerdoti e alla gerarchia. La pastoralità diventava l’elemento essenziale e dunque la predicazione del Cristo e degli apostoli così come le Scritture l’avevano trasmesse, nelle diverse letture che di esse potevano farsi.
Per gli innovatori più radicali quest’apertura della liturgia alla creatività significava qualche cosa di più: il rito diventava subordinato alla pastoralità, cioè al dialogo tra le anime. E Dio perdeva alcuni dei suoi connotati acquistandone altri. Dio perdeva i connotati della nazionalità, perdeva soprattutto l’appartenenza a questa o a quella Chiesa cristiana e perfino a questa o quella religione monoteista.
Il Dio trascendente non poteva esser rivendicato come cattolico o luterano o mormone o battista, ma neppure come ebreo, neppure come musulmano. Dio era ecumenico, il Vaticano II aveva proclamato l’ecumenismo e il dialogo tra le diverse religioni come un obiettivo fondamentale; aveva anche aperto al dialogo con i non credenti. Da un lato con finalità di proselitismo, dall’altro come confronto di anime nel rispetto delle loro credenze o non credenze.
Restava ferma la fede nel Cristo incarnato in Gesù di Nazareth, nel suo sacrificio e nella sua resurrezione. Restava il mistero trinitario, sconosciuto alle altre due religioni monoteiste. Ma attorno a questo pilastro c’era e c’è un amplissimo spazio per il dialogo, il confronto e l’incontro.
* * *
La rievocazione del Vaticano II ha reso attuale un altro tema tutt’altro che secondario: l’apostolicità della Chiesa cattolica. Se quella parola ha un senso - e certamente ce l’ha - significa che la parola dei Vescovi riuniti in apposite sedi è sicuramente consultiva ma può dar luogo anche a deliberazioni che la gerarchia dovrà rendere operative.
Papa Ratzinger che all’epoca del Vaticano II fu uno dei più fervidi sostenitori dei suoi contenuti innovativi, ha colto l’occasione del Sinodo degli scorsi giorni per sottolineare che quella cattolica non è e non dev’essere una Chiesa conciliare; i Concili nella visione del Papa, sono soltanto organi consultivi e così pure i Sinodi e i singoli Vescovi titolari di Diocesi. Il Papa sarà sempre molto sensibile ai loro suggerimenti, ma non si tratta in nessun modo di organi “costituenti”. Quand’anche proclamassero nuovi dogmi, quei dogmi saranno già stati deliberati dal Vicario di Cristo e il Concilio funzionerà soltanto come “amplificatore” di quanto è già stato elaborato e deliberato da chi siede sul trono di Pietro.
Su questo punto tuttavia il dibattito è aperto e chi lo ha posto al centro delle sue riflessioni è stato Carlo Maria Martini, da poco scomparso.
Martini partiva da un dato sorprendente: in duemila anni di storia del Cristianesimo cattolico i Concili sono stati 21, con una media di uno ogni cento anni. Ma la media, come sempre avviene nella statistica, nasconde una realtà storica abbastanza sorprendente: i 21 Concili si sono addensati in certi periodi e in altri non si sono tenuti affatto. Se ne tennero tre o quattro a cavallo del terzo e quarto secolo; altri a cavallo del decimo e undicesimo, altri ancora due secoli dopo. Infine ci fu il Concilio di Trento e poi un salto di quasi trecent’anni, fino al Vaticano I con in mezzo un Conciliofarsa voluto da Napoleone.
Una Chiesa così organizzata si può definire apostolica? I Vescovi sono i discendenti degli apostoli allo stesso titolo per cui il successore di Pietro è il vicario di Cristo in terra. Senza entrare nel controverso tema se si tratti di organi consultivi o deliberanti, resta il fatto che andrebbero convocati (ma possono anche autoconvocarsi) con maggiore frequenza e regolarità. Una delle proposte martiniane fu un Concilio in occasione d’ogni Giubileo e nell’intervallo molteplici Sinodi.
Una Chiesa del genere avrebbe capacità di ecumenismo molto maggiore di quella attuale e vedrebbe aumentare il peso del laicato cattolico, degli oratori rispetto alle parrocchie, della libertà religiosa resa più fertile dalla ravvicinata convivenza tra le varie Chiese cristiane nonché con le altre due religioni monoteistiche. Se il Papa, in quanto Vescovo di Roma, ricevesse la sua preminenza da questo titolo e non soltanto dal Conclave cardinalizio e se anche i Concistori assumessero un più ampio spazio consultivo, ecco che la Curia verrebbe a configurarsi come una sorta d’Intendenza e non come la sede effettiva del potere cattolico.
Sono questioni molto delicate. Non c’è dubbio alcuno che la Chiesa non sarebbe durata duemila anni senza un’architettura centralistica, ma non c’è egualmente dubbio che quell’architettura l’ha coinvolta in un “temporalismo” che spesso ne ha distorto le funzioni ed ha tradito proprio quella predicazione evangelica e quella pastoralità che avrebbero dovuto rappresentare la sostanza del Cristianesimo. La Chiesa delle Crociate, la Chiesa corrotta e simoniaca che dette indegno spettacolo tra il Quattrocento e il Seicento, la Chiesa-Stato che ha rappresentato l’ostacolo principale alla mancata nascita della nazione italiana, la sua partecipazione alle guerre in Europa in subordine a volte alla Spagna a volte alla Francia e infine i roghi dell’Inquisizione e delle streghe, non sono brevi episodi dei quali pentirsi. L’istituzione-Chiesa ha preservato la predicazione e la pastoralità per duemila anni, l’abbiamo già detto, ma il suo costo è stato altissimo e continua in forme per fortuna molto più attenuate ma comunque responsabili della secolarizzazione e dell’allontanamento dell’Europa dall’icona del Cristo crocifisso e poi risorto.
Se proprio l’Europa è diventata terra di missione e di nuova evangelizzazione, un motivo ci sarà. L’architettura distorta della religione non ne è il solo ma certamente ne è uno dei principali.
* * *
Infine il dialogo con la modernità. Non è e non sarà un dialogo facile. La modernità è un’epoca che ha combattuto l’assoluto mettendo al suo posto il relativismo. Ha detronizzato la metafisica, ha sottolineato l’autonomia della coscienza e il desiderio della conoscenza. Ha affidato l’etica all’autonoma responsabilità dell’individuo.
Un dialogo è auspicabile ma difficilmente potrà portare ad esiti positivi se la Chiesa terrà ferma i paletti dei principi non negoziabili.
Il solo principio non negoziabile dal punto di vista della Chiesa è il Cristo figlio di Dio. A me è accaduto da vecchio laico non credente d’incontrare un sacerdote come Carlo Maria Martini con la sua incrollabile fede in un Cristo risorto, da lui definito “sempre risorgente”, quindi non un’icona immobile ma una presenza dinamica da riconquistare quotidianamente.
A quel Cristo sempre risorgente non ho contrapposto ma ho affiancato Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, predicatore e profeta dei deboli, degli oppressi e degli esclusi, figlio dell’uomo.
Questo e non altro è il dialogo possibile tra la modernità e la Chiesa. Il tempo delle evangelizzazioni è finito ed è cominciato invece il tempo delle fertili contaminazioni tra diversi, animati da sentimenti di carità. La carità come la intendeva Gesù quando esortava ad amare il prossimo come si ama se stessi. Per lui quello era il solo modo di adorare il Dio di tutti e di ciascuno. Per noi è la visione del mondo dei giusti, un’utopia che può realizzarsi se ciascuno di noi lo vorrà.
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 12 ottobre 2012)
L’ultimo mea culpa in ordine di tempo è venuto dal cosiddetto “papa nero”, il superiore dei gesuiti. «La nuova evangelizzazione - ha detto padre Adolfo Nicolas - deve imparare dagli aspetti buoni e meno buoni della prima evangelizzazione. Mi sembra che noi missionari non l’abbiamo fatto con la profondità richiesta. Abbiamo cercato le manifestazioni occidentali della fede, e non abbiamo scoperto in che maniera Dio ha operato presso altri popoli. E tutti ne siamo impoveriti». Il Sinodo sulla nuova evangelizzazione si è aperto domenica e in Vaticano la discussione è in pieno sviluppo.
Tra i vescovi prevalgono accenti autocritici. Monsignor Rino Fisichella, che del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione è il presidente, nel suo intervento ha detto: «Ci siamo rinchiusi in noi stessi. Mostriamo un’autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale ».
Ancora più duro è l’arcivescovo filippino Socrates Villegas: «Perché in alcune parti del mondo c’è una forte ondata di secolarizzazione, una tempesta di antipatia o pura e semplice indifferenza verso la Chiesa? La nuova evangelizzazione richiede nuova umiltà. Il Vangelo non può prosperare nell’orgoglio. L’evangelizzazione è stata ferita e continua ad essere ostacolata dall’arroganza dei suoi agenti. La gerarchia deve evitare l’arroganza, l’ipocrisia e il settarismo. Dobbiamo punire quanti tra noi sbagliano, invece di nascondere gli errori».
Un altro big come il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente della Conferenza episcopale Usa, rilancia l’importanza della confessione. «La risposta alla domanda “cosa c’è di sbagliato nel mondo?” non è la politica, l’economia, il secolarismo, l’inquinamento, il riscaldamento globale... No. Come scrisse Chesterton, “la risposta alla domanda cosa c’è di sbagliato nel mondo sono due parole: sono io».
Ieri i lavori del Sinodo si sono sospesi per la celebrazione dei 50 anni del Concilio Vaticano II. E alla sera Benedetto XVI ha sorpreso tutti, affacciandosi al balcone e pronunciando la stessa frase detta da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962 in quello che è passato alla storia come il “discorso alla luna”. «Alla fine oso fare mie - ha detto Joseph Ratzinger - le parole indimenticabili di Papa Giovanni: andate a casa e date una carezza ai bambini e dite che è del Papa».
«Anch’io sono stato in questa piazza 50 anni fa - ha poi dichiarato, anch’egli con parole suonate di critica alla Chiesa - quella sera eravamo felici, pieni di entusiasmo. In questi 50 anni abbiamo imparato che il peccato originale esiste e si traduce in peccati personali. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi, che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa. Qualche volta abbiamo pensato che il Signore dorme e ci ha dimenticato». Nella messa al mattino, all’apertura solenne dell’Anno della fede, Ratzinger aveva detto che «nei decenni che ci separano dal Concilio è avanzata una desertificazione spirituale».
RINUNCIARE AI FASTI, RICOMINCIARE A PARLARE AL TEMPO PRESENTE. MONS. CASALE DÀ LA SCOSSA AL SINODO
36838. ROMA-ADISTA. La sonnacchiosa vigilia che precede la celebrazione, in Vaticano, dal 7 al 28 ottobre prossimi, della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi è rotta dalla accorata lettera aperta che un anziano vescovo, mons. Giuseppe Casale, ha voluto indirizzare ai padri sinodali per esortarli a mettere mano ad alcune urgenti questioni che premono alle porte di una Chiesa ancora ciecamente arroccata a difesa della propria gerarchia e di assetti legati ad un anacronistico passato. Si tratta, scrive Casale, di riforme ancora inevase, appuntamenti mancati con i bisogni spirituali profondi di questo tempo: povertà, collegialità, ministero ordinato, parrocchie, nuova evangelizzazione, comunità di base. Ma Casale, arcivescovo emerito di Foggia, tra i pochi esponenti dell’episcopato italiano ancora saldamente legati alla Chiesa conciliare, richiama anche alla sempre più urgente necessità di dare testimonianza al popolo di Dio della propria radicale sequela del Vangelo: «Dobbiamo cominciare noi vescovi insieme al papa a dare l’esempio. Al termine del Concilio, molti vescovi chiesero che la Chiesa riscoprisse la gioia della povertà evangelica. La rinuncia al fasto esteriore e ai titoli onorifici, la scelta della vita semplice e senza lusso, la condivisione della povertà di tanta gente sono ancora un traguardo lontano».
Dei temi di questa lettera, appena pubblicata dalla casa editrice la Meridiana con il titolo Guai a me se non annuncio il Vangelo. Riformare la Chiesa. Lettera aperta al Sinodo dei Vescovi (euro 12: il libro può essere richiesto ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it), abbiamo parlato con l’autore, il vescovo Casale. (valerio gigante)
La collegialità fu uno degli argomenti più dibattuti al Concilio. Alla fine della Lumen Gentium, la Costituzione che trattava della funzione e dell’organizzazione della Chiesa, il papa decise di inserire la celebre “nota esplicativa previa” che riduceva di molto la portata della deliberazioni dell’assemblea in tema di collegialità. Poi venne il Sinodo, che per molti costituisce una risposta non adeguata alle richieste che venivano dall’assemblea conciliare. Lei ai partecipanti al prossimo Sinodo scrive oggi una lettera aperta: crede che il Sinodo possa ancora rispondere all’esigenza di una maggiore partecipazione dell’episcopato al governo della Chiesa?
Il limite fondamentale dell’istituto del Sinodo è il suo valore esclusivamente consultivo. Le sue conclusioni sono infatti sottoposte all’approvazione del papa, che arriva di solito parecchi mesi dopo la conclusione del Sinodo, quando ormai i temi portati alla sua attenzione dall’episcopato hanno perso gran parte della loro “urgenza” pastorale.
Grazie anche alla sua composizione, il Sinodo, che vede la presenza di delegati scelti direttamente dal papa oppure di delegati episcopali, che sono però spesso espressione del ceto dominante all’interno delle conferenze episcopali, non sempre esprime esigenze realmente avvertite dal popolo di Dio. Non riesce così, al di là delle sue intenzioni, a fotografare la vera realtà delle Chiese locali, le istanze che da esse vengono, le difficoltà pastorali che esse vivono. L’assemblea sinodale finisce quindi per ridursi ad una lunga maratona oratoria che tiene i delegati impegnati per giorni, dalla mattina alla sera, in discussioni articolate e complesse, con interventi che si susseguono in modo praticamente ininterrotto, nella lingua ufficiale della Chiesa, cioè il latino. Dibattiti che alla fine si stemperano nel riesame che viene fatto a livello di Curia di ciò che è emerso dal confronto tra i padri sinodali e che rende ancora più inefficaci i tentativi di sintesi fatti in assemblea. Per questo, anche se di Sinodi se ne sono tenuti tanti, generali e continentali, non si sono mai visti risultati apprezzabili. Del resto, se non è possibile una risposta immediata ad un problema teologico o pastorale urgente, i documenti prodotti, che dovrebbero incarnarsi nelle realtà diocesane, in realtà restano quasi sempre nient’altro che sulla carta.
La sua, quindi, più che una lettera al Sinodo, per i problemi scottanti che tocca, è piuttosto una lettera ad gentes...
È una lettera aperta al papa, ai partecipanti al Sinodo e, certo, soprattutto al popolo di Dio, perché si risvegli tra i credenti la coscienza della necessità di una partecipazione corale alla vita della Chiesa, attraverso i rappresentanti delle comunità ecclesiali locali, che vivono giorno per giorno i problemi che riguardano i fedeli. Per questo pongo sul tavolo, sin dall’apertura della mia lettera, le questioni cui mi sembra più urgente dare risposta oggi nella Chiesa. Anzitutto il tema della Chiesa povera, cioè come effettivamente rinunciare ai fasti, ai titoli ed ai privilegi che caratterizzano tanti uomini e strutture della Chiesa ed interrompere relazioni, talvolta anche discutibili, con potenze economiche che gravitano attorno alla Chiesa e che riescono talvolta a condizionarne l’azione ed il governo. Poi chiedo una effettiva collegialità: il papa deve esercitare il suo primato in maniera sinodale. Ritengo che con un coinvolgimento maggiore delle Chiese locali il primato del papa non venga intaccato; semmai arricchito. Oggi invece il papa condivide le sue scelte con i soli membri della Curia romana, composta da persone magari ottime, ma oggettivamente lontane dalla concreta realtà delle comunità locali, dalle ansie e dalle attese del popolo di Dio. C’è poi la questione della ricerca della “verità” che la Chiesa deve pensare in una prospettiva storica, non in quella di cui spesso parla e discetta, che è astratta, metafisica. La verità per la Chiesa deve diventare sempre più quella dei popoli sofferenti che attendono da lei risposte concrete ed immediate. Ancora, nella mia lettera chiedo di dare un assetto nuovo alle parrocchie: piccole chiese “di condominio”, costituite da gruppi di famiglie, strettamente legate al territorio in cui sono inserite, in maniera da divenire segni effettivi ed efficaci strumenti di azione pastorale. Infine, chiedo con urgenza la riapertura del dialogo con le comunità ecclesiali di base. Mi stupisce tanta premura nei confronti dei seguaci di Lefebvre e tanta disattenzionese, quando non rifiuto e diniego, per chi vive un impegno quotidiano ed incarnato nelle contraddizioni della Chiesa e della società come fanno le comunità di base, pur tra alcune esagerazioni e posizioni radicali che vanno attentamente vagliate.
Una parte importante della sua lettera è dedicata ai viri probati...
Io credo che sia maturo il tempo di introdurre questa novità nella Chiesa, e che ne sia forte l’esigenza; ma nella gerarchia resta la paura che i viri probati portino con sé la fine del celibato. Non è così! Il celibato rimane come dono, come carisma. Quella dei viri probati è invece una risposta alle attuali contraddizioni delle unità pastorali, che sono solo un espediente amministrativo per far fronte alla carenza di preti, ma che non assicurano una reale ed assidua cura pastorale delle comunità, specie di quelle più piccole, con le loro ricchezze e tradizioni. A loro serve una guida che non sia un prete di passaggio, un “pendolare” dei sacramenti, talmente impegnato nella cura di tante parrocchie e di tante anime da riuscire solo a consacrare o a confessare, a celebrare funerali o matrimoni. Serve qualcuno che venga dall’interno delle comunità di fede, uomini sposati che per autorevolezza umana e spirituale siano ritenuti idonei ad assumere il compito di “anziano” e che alimentino la vitalità spirituale dei loro fratelli e delle loro sorelle.
I diversi temi che abbiamo toccato richiamano alla mente le parole dell’ultima intervista del card. Martini sulla povertà nella Chiesa e sulla Chiesa povera, come anche quelle sulla Chiesa in ritardo di 200 anni. La sua visione sembra però più fiduciosa rispetto a quella dell’ex arcivescovo di Milano...
Ho voluto molto bene a Martini, mi sono ritrovato con lui su tante delle posizioni che ha espresso durante gli anni del suo ministero episcopale. Lui ha concluso la sua esperienza terrena con molta sofferenza e con un po’ di pessimismo nei confronti della Chiesa. Nel suo libro Colloqui notturni a Gerusalemme diceva di aver fatto molti sogni di una Chiesa che «procede per la sua strada in povertà e umiltà», «che non dipende dai poteri di questo mondo», «che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto», «che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori». «Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni», concludeva. E anche la sua ultima intervista è piena di una amarezza che ci deve profondamente interrogare. Ma io, nonostante tutto, resto fiducioso: credo che lo Spirito irromperà in questa nostra Chiesa e ci mostrerà una realtà diversa. Certo, ci vorrà tempo. E pazienza. E in questa attesa succederà che qualcuno sarà forse costretto a pagare per il coraggio delle sue posizioni. È successo a Martini, capiterà ad altri vescovi. Bisogna essere pronti. Io lo sono e ho cercato - vendendo quel poco che avevo e tornando a vivere nella mia prima diocesi, a Vallo della Lucania - di dare attuazione alla testimonianza di una Chiesa che riscopre Gesù povero tra i poveri e i semplici.
A cinquanta anni di distanza dalla sua indizione, quale delle istanze conciliari le pare più disattesa, se non tradita?
La povertà è senz’altro l’aspetto più disatteso. Oggi, invece che di una Chiesa povera tra i poveri facciamo piuttosto quotidianamente esperienza di una Chiesa che ha bisogno dei paramenti di Armani per celebrare le proprie pompose liturgie. Stiamo tornando indietro, altro che riscoprire la semplicità evangelica! Ma se non facciamo presto a liberarci dalla schiavitù del denaro e dalla collusione con il capitalismo finanziario globalizzato, il demonio, invece che limitarsi a diffondere il suo fumo, darà zampate laceranti sul tessuto “griffato” di questa Chiesa. Noi vescovi denunciamo spesso gli assalti che giungerebbero da fuori della Chiesa, dal laicismo e dalla secolarizzazione. Ma i pericoli veri vengono dall’interno, da una Chiesa che continua a perdere la lucentezza e la genuinità del messaggio evangelico. (v. g.)
* FONTE: Adista Notizie, n. 33, 22/09/2012
MEDICO, CURA TE STESSO. Note sul tema:
La riforma elettorale guardi all’uomo
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2012)
Si parla molto di legge elettorale. Lo fa con autorevolezza il Capo dello Stato, pungolando
parlamentari e partiti a procedere con sollecitudine alla riforma della legge che dalla fine del 2005
ha modificato il sistema elettorale italiano. L’accordo sulla necessità e l’urgenza di questa riforma è
a parole - quasi generale. Eppure, finora non si è ottenuto nulla. L’impressione che molti hanno è
che le forze politiche stiano considerando più i vantaggi e gli svantaggi che a esse verrebbero dalle
possibili modifiche del l’attuale normativa che non l’interesse del Paese e quello della gente comune.
Ecco perché, senza entrare in merito a proposte tecniche per le quali non ho competenza, vorrei
provare a considerare la questione sotto il profilo etico, partendo da ciò che mi pare di cogliere fra
la gente, accanto alla quale il mio impegno quotidiano di pastore continuamente mi pone. Visto dal
basso, il difetto principale che si avverte nel sistema in vigore è che l’elettore può votare solo per
liste bloccate, senza possibilità di scegliere fra i candidati. L’elezione dei parlamentari dipende
quindi completamente dalle decisioni e dalle graduatorie stabilite dai partiti, con il risultato che
spesso gli eletti non hanno e non avranno alcun rapporto vero con il territorio di cui sarebbero
espressione.
Con una certa durezza, qualcuno osserva che così la "casta" semplicemente clona se stessa. E poiché non è detto che i cloni siano migliori dell’originale, si profilerebbe lo scenario imbarazzante di un inevitabile, progressivo peggioramento della qualità della classe politica. C’è perfino chi osserva maliziosamente che, su questa strada, la sola speranza per il Paese potrebbe essere quella di arrivare a una qualità dei suoi rappresentanti talmente scadente, da impedire ad essi stessi di rendersi conto di un’eventuale miglioramento che li metterebbe da parte così da non saper attuare strategie per difendersi da esso!
Al di là di questi scenari preoccupanti, non mi pare difficile constatare che l’attuale rappresentanza politica non gode di quella rappresentatività dei problemi reali della gente e del territorio, che aveva caratterizzato la grande stagione della nascita della Repubblica e l’esercizio ritrovato della democrazia parlamentare nel dopo guerra. Il Paese ufficiale sembra essersi insomma scollato dal Paese reale. Se prima l’uomo della strada generalmente sapeva più o meno chi fosse il referente politico da cui sentirsi rappresentato e a cui rivolgersi per avere attenzione, direttamente o attraverso i canali dei partiti e delle organizzazioni socio-politiche, oggi la gente si sente priva di riferimenti affidabili, come se non ci fosse a livello politico chi possa dar voce a quanti non hanno voce.
I più deboli sono ovviamente i più svantaggiati da una tale situazione: chi potrà rappresentare i loro interessi? Chi potrà provvedere ai loro bisogni? Chi sarà in grado di dare loro speranza e di lavorare al loro fianco perché questa speranza prenda corpo nella vita reale? Il parlamentare imposto dai partiti, spesso scelto in base a meriti che non paiono andare oltre a quello dell’ossequio ai capi, potrà mai essere voce dei poveri e operatore di giustizia per essi?
Se si considera poi il processo di personalizzazione della politica, che ha portato sempre più a sostituire i bagagli ideali delle forze politiche con la figura del leader di turno, fino a legare il nome stesso delle parti in gioco a quello del personaggio carismatico più o meno forte, si comprende fino a che punto sia giunta la spoliazione di reale rappresentatività dei rappresentanti del popolo. L’"eletto" carismatico prende voti da tutte le parti del Paese per la sua sola faccia o per il fascino del suo nome, senza di fatto rappresentare i mondi reali da cui gli sono stati espressi i consensi. In termini morali, questo processo rischia di essere una sorta di furto perpetrato ai danni della democrazia reale, con il conseguente drammatico slittamento del compito del politico dal rappresentare i bisogni della gente al tutelare e promuovere interessi personali o di gruppo più o meno influenti.
Che cosa allora chiedere ai nostri parlamentari impegnati a riformare la legge elettorale? Alcuni punti mi sembrano chiari: che si faccia di tutto perché i poveri abbiano voce. Che l’eletto sia uno vicino alla gente, in ascolto della vita reale, delle sofferenze e delle inadeguatezze del mondo del lavoro e della scuola, della vita familiare e delle forme di servizio proprie dello stato sociale. Che come fu per molti dei rappresentanti dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, il parlamentare si getti in politica per servire il popolo e non per servirsi del potere acquisito a vantaggio proprio o della casta.
Tutto questo richiede che agli elettori venga restituita la possibilità di scegliere non solo fra bandiere diverse, ma anche fra donne e uomini differenti, fra programmi legati a impegni personali e di gruppo che siano affidabili e verificabili attraverso il rapporto costante e diretto fra la base e gli eletti. Se da una parte ciò esige la presenza di candidati competenti, generosi, onesti, animati da forti tensioni ideali e da virtù non comuni, dall’altra domanda che il legislatore dia fiducia alla maturità del nostro popolo di saper discernere fra possibilità diverse e di sapersi affidare a chi è sentito più vicino alla gente per storia, passione, vocazione e missione.
Andrebbe poi garantito un effettivo e costante rapporto fra il parlamentare e il territorio di cui è espressione. Solo così la politica, restituita al Paese reale, potrà assumere connotati nuovi: certamente non quelli di un affare su cui investire, quanto piuttosto quelli di una vocazione cui rispondere e di una missione da svolgere. Scriveva una delle voci più autorevoli del personalismo d’ispirazione cristiana, Emmanuel Mounier: «L’essere personale è generosità; per questo esso fonda un ordine che è opposto a quello dell’adattamento e della sicurezza... La persona rischia e si prodiga senza badare al prezzo... Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro» (Il personalismo, 97 e 68).
Politici per vocazione, non per affari, per missione, non per guadagno: riusciremo a trovare una legge elettorale che dia spazio a persone del genere, vicine alla gente, capaci di farsi voce dei più deboli e dei più poveri e di servire la causa del bene comune al di sopra di tutto?
*Arcivescovo di Chieti-Vasto
PER GIOACCHINO DA GIORE, PER L’ABBAZIA FLORENSE, PER SAN GIOVANNI IN FIORE .....
Un invito al vescovo Nunnari e al vescovo Bonanno.
CHIARISSIMI VESCOVI
Accogliete in spirito di evangelica carità ("charitas") le sollecitazioni di Emiliano Morrone a fare chiarezza. Altro che minacce: uscite dalla confusione e dalla "minorità" gerarchica!
ISTANZE EVANGELICHE O "RAGIONI DI STATO"?! COSA AVETE SCELTO IERI, E COSA SCEGLIETE OGGI, ORA?!:
La vita e la verità stanno sulla via di Gesù ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8) non su quella di Benedetto XVI ("Deus caritas est", 2006). Riconsiderate non solo la lezione di Gioacchino da Fiore, ma anche di Francesco da Paola !!! Pensate con la vostra testa e con il vostro cuore e ... uscite dal gregge "mammonico"!
Siate all’altezza di voi stessi, e del vostro compito ....
O VOLETE ANCHE VOI SPEGNERE IL LUMEN GENTIUM ... PER "RAGIONI DI STATO"?!
PER LA CHIESA, PER L’ITALIA, E PER L’ABBAZIA DI GIOACCHINO DA FIORE!
QUESTO IL MIO INVITO, E IL MIO AUGURIO ....
In fede, speranza, e carità
Federico La Sala
TEOLOGIA: "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). E STORIA: ""TERTIUS IN CHARITATE" (Gioacchino da Fiore).
«L’intenzione primaria di Gioacchino - spiega lo studioso americano - è dimostrare che esiste un’intellegibilità dell’intero processo storico, che tale intelligibilità è contenuta nelle Scritture, e che tale comprensione non può essere separata da quella propria della dottrina della Trinità».
La guerra che verrà. L’ultima offensiva di Roma contro il Vaticano II
di John Sivalon
da Adista Documenti n. 24 del 23/06/2012
DOC-2451. SCRANTON-ADISTA. Qual è la relazione tra il recente commissariamento, da parte del Vaticano, del massimo organismo di rappresentanza delle religiose statunitensi (Lcwr, v. Adista Notizie n. 16/2012) e la “barricata” che papa Ratzinger sembra ergere da tempo, nella Chiesa, contro il Concilio Vaticano II?
A collegare i vari punti del disegno è p. John C. Sivalon, ex superiore generale della Congregazione religiosa di Maryknoll ed attualmente docente di teologia presso l’Università di Scranton (Pennsylvania), in un articolo pubblicato il 27 maggio sul sito di sostegno alle religiose www.istandwiththesisters.org. Per Sivalon, in realtà, il peggio deve ancora venire: l’attacco più forte allo spirito del Vaticano II arriverà il prossimo ottobre, con l’apertura del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Riportiamo l’articolo, intitolato «Il Vaticano dichiara l’Anno dell’attacco» in una nostra traduzione dall’inglese. (l. e.)
L’ANNO DELL’ATTACCO
di John Sivalon
Sotto il pretesto di un “Anno della Fede”, il Vaticano ha lanciato un attacco frontale contro qualunque teologia o interpretazione del Vaticano II basata su quella che viene definita come “ermeneutica della rottura”. Tale attacco teologico viene articolato nel documento di Benedetto XVI noto come Porta Fidei (la lettera apostolica con cui è indetto l’Anno della Fede, ndt) e si precisa ulteriormente nella “Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della Fede” elaborata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Entrambi i documenti sono citati dal card. Levada nella sua Valutazione dottrinale della Leadership Conference of Women Religious (Lcwr). La logica di questa valutazione come di altre misure punitive messe a punto negli ultimi mesi (Caritas Internationalis, istituti educativi, ragazze scout) va intesa nel contesto più ampio di questo speciale “Anno dell’Attacco”.
Il vero nodo della questione, secondo la Nota, è quello di una «corretta assimilazione» del Vaticano II contro «interpretazioni erronee». Secondo Benedetto XVI tali interpretazioni sarebbero basate su un’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con l’“ermeneutica del rinnovamento” su cui si basa invece la sua interpretazione. In realtà, tali ermeneutiche andrebbero meglio definite, rispettivamente, come “ermeneutica della missione” e come “ermeneutica del trinceramento”.
L’ermeneutica della missione individua nei documenti del Vaticano II un tentativo da parte della Chiesa di riscoprire nel suo passato nuclei di nuove comprensioni e di nuove strutture ecclesiali che rispondano in maniera più autentica e rilevante a quello che il Concilio ha chiamato mondo moderno. A tale ermeneutica appartiene l’affermazione, da parte dei Padri Conciliari, della tradizione come fondamento sul quale la fede può costruire e crescere continuamente in un contesto che cambia. E la visione della presenza continua di Dio nella storia e nella cultura, che generosamente offre nuove percezioni per comprendere e interpretare la pienezza della rivelazione.
L’ermeneutica del trinceramento, al contrario, vede nei documenti del Vaticano II la riaffermazione di dottrine fossilizzate in un linguaggio che possa essere inteso dal mondo moderno. L’ermeneutica del trinceramento si riferisce alla tradizione come un baluardo contro comprensioni erronee. E tende anche a leggere negativamente la modernità, definendola in termini di secolarismo, relativismo o pluralismo. Come afferma Benedetto XVI, «mentre, nel passato, era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, ampiamente condiviso nel suo appellarsi ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi pare che non sia più così in grandi settori della società...». L’ermeneutica del trinceramento, pertanto, rimpiange il passato, un’epoca idealizzata della cristianità.
Così, il provvedimento contro la Lcwr e le altre misure nei confronti di voci leali di cristiani fedeli, aperti al discernimento della saggezza di Dio nella cultura moderna, devono essere considerate delle incursioni iniziali per spaventare e ammorbidire le aree più forti di resistenza, prima che il vero attacco abbia inizio. Questa grande offensiva è prevista per ottobre del 2012, in occasione dell’apertura del Sinodo dei vescovi sulla “Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. I Lineamenta di questo sinodo stabiliscono chiaramente il bersaglio della “Nuova Evangelizzazione”, che è chiaramente la cultura moderna. Secondo il documento, il mondo moderno è espresso da una cultura del relativismo, che si è infiltrato fin nella stessa vita cristiana e nelle comunità ecclesiali. Gli autori affermano che le sue «gravi implicazioni antropologiche (...) mettono in discussione la stessa esperienza elementare umana, come la relazione uomo-donna, il senso della generazione e della morte». Associato a questo fenomeno, afferma il documento, vi è l’enorme mescolanza di culture, che si traduce in «forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita». Benedetto XVI ha definito tutto questo, in altre occasioni, come pluralismo, completando così la sua trilogia del demoniaco: secolarismo, relativismo e pluralismo, a fronte del sogno di una cultura dell’Europa medioevale recuperata e romanticizzata.
Gli istituti religiosi femminili, invece, esemplificano in maniera forte l’ermeneutica della missione: le suore hanno superato lo stile di separazione dal mondo; affrontano la sfida di abbracciare la presenza di Dio nella cultura moderna; lottano fedelmente per essere un segno autentico e chiaro dell’amore di Dio per il mondo. La Valutazione dottrinale è oltraggiosa per l’arroganza paternalista e patriarcale che esprime. Ma è chiaro che ha a che vedere con molto di più: la crepa drammatica all’interno della Chiesa Cattolica Romana in relazione all’interpretazione del Vaticano II e alla presenza o meno di Dio nella cultura moderna.
Quello che è più pernicioso in questo attacco, al di là degli effetti sulle vite delle persone che ne sono immediatamente e drammaticamente vittime, è l’appropriazione di concetti sviluppati da quanti operano a partire da un’ermeneutica della missione da parte di coloro che difendono un’ermeneutica del trinceramento, i quali ridefiniscono e utilizzano tali concetti in funzione della loro offensiva. Tre rapidi esempi si incontrano nella Valutazione dottrinale della Lcwr del card. Levada.
Per prima cosa, Levada afferma che l’obiettivo principale della Valutazione è quello di contribuire a realizzare un’“ecclesiologia di comunione”. I teologi che hanno sviluppato tale ecclesiologia hanno basato le proprie riflessioni sull’enfasi posta dal Vaticano II sulla Chiesa come Popolo di Dio, come Corpo di Cristo o come Popolo Pellegrino. Tutte queste immagini sono state utilizzate dal Vaticano II per ampliare la comprensione della Chiesa al di là della gerarchia. E nessuna immagina l’unità come qualcosa di costruito per mezzo della forza o dell’obbedienza alla dottrina. Al contrario, l’unità è vista come frutto del dialogo e del discernimento comune laddove il Popolo di Dio lotta unito per essere testimone fedele e autentico dell’Amore che spoglia se stesso. Chi più di questi istituti religiosi femminili riassume la comunione fondata sulla fede e vissuta come autospoliazione?
In secondo luogo, la Valutazione dottrinale sulla Lcwr definisce il carattere sacramentale della Chiesa quasi esclusivamente come gerarchia patriarcale. Di nuovo, il documento usurpa una comprensione della Chiesa del Vaticano II come sacramento e la riformula. Il Vaticano II, al contrario, postula la Chiesa nella sua interezza come sacramento del Regno di Dio.
Nel post-Vaticano II, molti teologi di varie parti del mondo hanno elaborato l’immagine della Chiesa come Profeta, fondando tale visione sull’opzione preferenziale per i poveri, sulla fede nella salvezza come liberazione e sulla necessità di denuncia nei confronti non solo delle strutture del mondo ma anche di quelle della Chiesa stessa e del suo ruolo di supporto a situazioni di oppressione e di negazione dei diritti. Al contrario, la Valutazione nega qualunque possibilità di profezia nei confronti della gerarchia della Chiesa o qualunque presenza profetica separata da tale gerarchia. Questa aberrante mancanza di considerazione per i profeti biblici e per la loro forte presa di posizione contro sacerdoti, re e rituali di fede svuotati non è colta come una rottura con il passato o con la tradizione da parte di coloro che operano a partire da questa ermeneutica del trinceramento.
Nel momento in cui si celebra il 50º anniversario dell’apertura del Vaticano II, entriamo in un nuovo capitolo della storia della Chiesa. Il Concilio convocato per aprire le finestre è ora reinterpretato con le persiane chiuse, per proteggere la Chiesa dai venti di tempesta di un mondo in cerca di autenticità spirituale. Per quanto lo si presenti come un momento di rinnovamento, l’Anno della Fede è realmente dedicato all’idolatria della dottrina, del potere e della gerarchia. Le suore che, nel loro servizio alla Chiesa e al mondo, non si limitato al voto di povertà, ma lo vivono realmente senza privilegi, status o accumulazione di ricchezze, sono in forte e profetico contrasto con l’inautenticità di un trinceramento mascherato da rigenerazione.
Il Vaticano analizza realisticamente l’“apostasia silenziosa” dei cattolici
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 22 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Come accade spesso in questo genere di documenti pubblicati dal Vaticano, la diagnosi emessa sulla situazione della Chiesa cattolica nel mondo non è edulcorata. La si potrebbe definire severa, se non venisse dall’interno dell’istituzione.
Reso pubblico martedì 19 giugno, il documento di lavoro preparatorio al sinodo che si terrà dal 7 al 28 ottobre, dedicato alla “nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”, che coinciderà con l’inizio di un “Anno della fede” e delle commemorazioni del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, non sfugge alla regola.
I redattori, che hanno sintetizzato le analisi ricevute dai vescovi in carica nelle varie parti del mondo, si preoccupano per l’“apostasia silenziosa” da parte dei fedeli che si allontanano dalla pratica religiosa. Elencano le ragioni, interne ed esterne, di tale disaffezione e si interrogano sui mezzi da mettere in atto per la “nuova evangelizzazione” che dovrebbe porvi rimedio.
Dall’“insufficienza della fede” all’“allontanamento dei fedeli” dalla “credibilità delle istituzioni ecclesiali” alle “spiritualità individualiste”, o al “neopaganesimo”, il clima in cui è immersa la Chiesa - tanto nei paesi del Nord come in quelli del Sud, precisano i vescovi -, vi è lungamente descritto.
La situazione non è nuova. Prima di Benedetto XVI, Paolo VI fin dal 1975, e Giovanni Paolo II nel 1983, in particolare, avevano preso atto delle trasformazioni sociali e culturali “che modificano profondamente la percezione che l’uomo ha di sé e del mondo, e che comportano delle conseguenze sul suo modo di credere in Dio”, come riassume il papa attuale. Sulla scia del Concilio Vaticano II, tutti hanno sottolineato la necessità di rilanciare la “missione evangelizzatrice della Chiesa”, in particolare nei paesi di antica evangelizzazione.
Tra gli elementi che rendono difficilmente ascoltabile il messaggio della Chiesa, i vescovi distinguono quelli che derivano dal contesto esteriore: “consumismo, edonismo, nichilismo culturale, chiusura alla trascendenza”, “i nuovi idoli” (secondo la Chiesa “la scienza e la tecnologia”), e quelli che sono propri dell’istituzione.
Si parla, ad esempio, di “una burocratizzazione eccessiva delle strutture ecclesiastiche”, delle “celebrazioni liturgiche formali”, dei riti ripetitivi. Più globalmente, al centro delle riflessioni dei vescovi, dovrebbe esserci il fallimento, sentito da alcuni, da parte della Chiesa “a dare una risposta adeguata e convincente alle sfide” economiche, politiche o religiose del momento.
Molti, in varie parti del mondo, deplorano anche “l’insufficienza numerica del clero” per lo svolgimento delle missioni della Chiesa e fanno notare il rischio di restare invischiati in problemi di gestione. Pare loro quindi necessaria una migliore integrazione dei laici. Secondo il Vaticano, “la fede passiva” o “tiepida” di certi credenti spiega anche la difficile trasmissione del messaggio evangelico.
Il testo vuole tuttavia sottolineare i vantaggi che la Chiesa può trarre dal contesto attuale. La globalizzazione, la secolarizzazione, il confronto con altre credenze, in particolare con l’islam, obbligano i cristiani “a purificare la loro fede e a farla maturare”, ritengono i vescovi. Sono comunque contenti dell’emergere di nuove comunità cristiane e carismatiche, specificamente rivolte all’evangelizzazione.
Quanto alle risposte, sono per lo più di ordine spirituale. Per il Vaticano, l’ecumenismo deve permettere ai cristiani di manifestare un messaggio evangelico comune, mentre il dialogo interreligioso deve spingerli ad una migliore comprensione della loro fede. I cattolici devono anche interrogare “la qualità della loro vita di fede” e avere “il coraggio di denunciare le infedeltà e gli scandali che esistono nelle comunità cristiane”.
Perché, in fondo, la nuova evangelizzazione passa innanzitutto attraverso la testimonianza di una vita cristiana che per certe persone e in certi luoghi può arrivare fino alla “santità” o addirittura al “martirio”. “È il martirio che dà ai testimoni la loro credibilità”, assicura il testo, che ricorda tuttavia che lo sforzo dei credenti deve riguardare “la carità, una vita sobria, l’aiuto ai poveri, l’attuazione della dottrina sociale della Chiesa o il servizio della Chiesa a favore della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
Per quanto riguarda la forma, i responsabili cattolici ammettono che occorre rinnovare le modalità dell’annuncio del Vangelo: “L’Europa oggi non deve puramente e semplicemente fare riferimento alla sua eredità cristiana anteriore.”
Le nuove tecnologie devono essere sfruttate evitando le derive; si parla anche dei pellegrinaggi, della valorizzazione dei santuari, della promozione delle Giornate mondiali della gioventù. Ma “l’urgenza” sta proprio nell’attuazione di “uno stile più missionario” di comunità cristiane, sicure della loro fede e chiamate ad andare incontro a non credenti e a credenti “tiepidi”. Evitando ogni “proselitismo aggressivo”.
Nuova evangelizzazione, un Sinodo e una grande riflessione sulla
Chiesa
di Frédéric Mounier
in “La Croix” del 20 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Né irenismo, né catastrofismo: la prossima assemblea del Sinodo dei vescovi a proposito della nuova evangelizzazione, che si terrà a Roma dal 7 al 28 ottobre prossimo, potrebbe svolgersi in un’atmosfera quasi conciliare. A giudicare dalle 80 pagine, suddivise in 169 paragrafi dell’Instrumentum laboris pubblicato ieri, sintesi delle numerose risposte ai Lineamenta, pubblicati il 2 febbraio 2011, venute dal mondo intero e da tutti i protagonisti della Chiesa (hanno risposto il 70% degli episcopati, i superiori dei religiosi e delle religiose, laici, movimenti e servizi), l’esercizio sinodale potrebbe consistere in un ritorno all’essenziale della fede e della Chiesa.
Tenuto conto della diversità delle situazioni culturali, politiche o ecclesiali vissute dalla Chiesa nel mondo, i redattori romani del testo hanno cercato di ricavarne una visione realistica, ma fiduciosa, delle difficoltà incontrate sul campo, non solo per la cosiddetta “nuova” evangelizzazione, ma per l’evangelizzazione tout court. Insomma, dispiegano senza tabù il tema del Sinodo: “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. E lo fanno sulla linea, riaffermata, del Vaticano II, di cui si celebrerà simultaneamente il cinquantenario, dei magisteri dei papi successivi, senza dimenticare il Catechismo della Chiesa cattolica, di cui si festeggiano anche i 20 anni.
A priori, questo Sinodo dovrebbe superare le frontiere delle vecchie e stanche cristianità del Nord. Perché le giovani Chiese del Sud sono anch’esse confrontate ai mali evocati dal testo: regressione della fede, burocratizzazione dei soggetti, importanti difficoltà nel trasmettere la fede. “Siamo stati sorpresi nel constatare che la nuova evangelizzazione interessa evidentemente tutte le Chiese, e non solo quelle del Nord”, ha sottolineato Mons. Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo.
Questo Sinodo non dovrebbe accontentarsi di cantare le lodi dei nuovi movimenti, a proposito dei quali i redattori ritengono utile approfondire i legami con la Chiesa. Andando oltre queste apparenze, la Chiesa prende atto del crollo delle vocazioni e quindi della necessaria “analisi dell’evoluzione dell’identità del prete”. Nel Sinodo, la Chiesa si interrogherà sul posto centrale delle parrocchie e della loro indispensabile evoluzione, forse come “comunità di comunità”, “sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro bisogni”. Rifletterà anche, durante queste settimane sinodali, sulla “credibilità e sull’udibilità del messaggio evangelico”, in una “autocritica che il cristianesimo è invitato a fare su di sé”.
Soprattutto i partecipanti al Sinodo sono invitati a riflettere a partire dalle “modificazioni profonde della percezione che l’uomo ha di se stesso e del mondo”, sapendo che la nuova evangelizzazione non potrebbe ridursi “ad una strategia di comunicazione o all’individuazione di determinati destinatari”, o a una “messa in luce delle pratiche pastorali”. Perché la Chiesa “non è un’azienda”, ma “un corpo”. Sono prese in considerazione le evoluzioni culturali, migratorie, politiche e anche religiose, del mondo. Prendendo atto di una “rinascita religiosa”, i redattori mettono in guardia da un rinnovamento “ingenuo ed emotivo”, dal tono “aggressivo e proselitistico”.
In fondo, gli organizzatori del Sinodo invitano ad un ritorno al nucleo centrale della fede: “L’incontro con Gesù Cristo, insieme intimo, personale, pubblico e comunitario.”
Tre punti salienti si colgono nel testo: l’identità del prete, il ruolo dei catechisti e l’iniziazione cristiana. Perché “tutti i testi denunciano l’insufficienza numerica del clero che, di conseguenza, non riesce ad assumere in maniera serena ed efficace la gestione della trasformazione del modo di essere della Chiesa”, gli autori affermano infatti “la necessità di immaginare un’organizzazione locale della Chiesa in cui nell’animazione delle comunità siano sempre più integrate delle figure di laici accanto a quelle dei preti.”
Per quanto riguarda i catechisti, “si richiede che assumendo la riflessione già intrapresa, l’assemblea sinodale si interroghi sulla possibilità di configurare per il catechista un ministero stabile ed istituito all’interno della Chiesa.”
Infine, il testo riafferma, seguendo i Lineamenta, che “è dal modo in cui la Chiesa saprà gestire la revisione in corso delle sue pratiche battesimali che dipenderanno il futuro volto del cristianesimo nel mondo, soprattutto in Occidente, e la capacità della fede cristiana di parlare alla cultura attuale.” Ed insiste, dal battesimo dei neonati fino ai catecumeni, passando per il “primo annuncio”, su una felice “differenziazione delle pratiche”.
Nel complesso, si tratta di reagire alla “apostasia silenziosa” di molti, che nasce da tante concause: “l’indebolimento della fede”, una “burocratizzazione eccessiva delle strutture ecclesiastiche”, “celebrazioni liturgiche formali e riti ripetuti quasi per abitudine, privi di esperienza spirituale profonda”, senza dimenticare “la contro-testimonianza di certi membri della Chiesa: infedeltà alla vocazione, minima sensibilità per i problemi dell’uomo d’oggi”.
A priori, come per le precedenti assemblee sinodali, il papa dovrebbe essere presente durante i dibattiti. Ma questa attenzione sottolineata non dovrebbe dispensare la Chiesa dal necessario lavoro di proseguimento e di valutazione. Quest’ultimo, in particolare secondo diversi superiori generali di ordini e congregazioni religiose, abituati ai Sinodi, non è infatti sempre all’altezza delle attese.
Comunque, da quando Giovanni Paolo II, il 3 marzo 1983, a Port-au-Prince (Haiti), ha usato per la prima volta il termine “nuova evangelizzazione”, il cantiere non ha mai smesso di svilupparsi. Fino alla creazione da parte di Benedetto XVI di un nuovo dicastero dedicato a questo tema, il 28 giugno 2010, e all’apertura dell’Anno della fede, prevista dal papa l’11 ottobre, proprio all’inizio del Sinodo
Pedofilia, il clero non denuncia
I vescovi non vogliono indagare
di Marco Politi (il Fatto, 23.05.2012)
Molte parole, ottime intenzioni, nessun meccanismo concreto per portare alla luce i crimini di pedofilia commessi dal clero attraverso i decenni. Le Linee-guida “per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, emesse ieri dalla Conferenza episcopale italiana, deludono quanti dentro e fuori la Chiesa cattolica si aspettavano che anche in Italia l’istituzione ecclesiastica si attrezzasse per rendere efficacemente giustizia alle vittime e scoprire i criminali nascosti al proprio interno. Si fa prima a elencare quello che non c’è nel documento che indicare le novità. Positivo è certamente l’incitamento ai vescovi a essere sollecitamente disponibili ad ascoltare le vittime e i familiari, ad offrire sostegno spirituale e psicologico, a proteggere i minori e a procedere immediatamente ad una “accurata ponderazione” della notizia del crimine per aprire altrettanto rapidamente un’indagine ecclesiastica. Poi, se del caso, si passa al processo diocesano, allontanando nel frattempo il prete da ogni contatto con minori per evitare il “rischio che i fatti delittuosi si ripetano”.
DOPO DUE anni di riflessione e un anno di elaborazione del testo, la Conferenza episcopale si ferma qui. Chiudendo ostinatamente gli occhi di fronte alle esperienze più avanzate realizzate in altri paesi come gli Stati Uniti, la Germania, l’Austria, il Belgio, l’Inghilterra. In Belgio e in Austria hanno formato commissioni di inchiesta nazionali, guidate da personalità laiche indipendenti? Pollice verso dei vescovi italiani. In Germania esiste un vescovo incaricato a livello federale di monitorare il dossier pedofilia e di intervenire nelle diocesi - diciamo così - poco attente? In Italia non se ne parla nemmeno. In Inghilterra operano gruppi di vigilanza nelle parrocchie? La Cei si guarda bene dal suggerirlo. Nella diocesi di Bressanone era stato istituito un indirizzo mail e un referente per le vittime? La Cei non istituisce neanche questo piccolo strumento operativo.
Don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato nel contrasto alla pedofilia, aveva proposto che in tutte le diocesi venisse istituito un “vicario per i bambini”, una sorte di angelo custode per prevenire e vigilare. Proposta cestinata. Spira in tutto il documento un vento difensivo, concentrato nel respingere interventi energici delle autorità giudiziarie. “Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria dello Stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro”. È la paura che - come è accaduto in America - i tribunali possano ottenere la documentazione delle manovre che hanno portato a insabbiamenti. Impedito anche l’accesso agli archivi vescovili.
Altrove nel mondo gli episcopati si preoccupano di approntare anche un equo risarcimento per le vittime. Le Linee-guida si preoccupano di proclamare che “nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Santa Sede o alla Conferenza episcopale italiana”. Il culmine del documento si raggiunge nell’affermazione lapidaria che nell’ordinamento italiano il vescovo non riveste la qualifica di pubblico ufficiale e perciò “non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”.
È vero, in Italia l’obbligo non c’è. (Lo potrebbe introdurre il Parlamento!) Ma come dimenticare le migliaia di vittime soffocate dal silenzio. Sarebbe stato un gesto di responsabilità se la Cei, liberamente, avesse impegnato tutti i vescovi a denunciare i criminali. Non accadrà. Nonostante episodi vergognosi di inrzia verificatisi in passato. Si chiama - lo si legge nelle Linee - “rispetto della libertà della vittima di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più opportune”. Dice mons. Crociata, segretario della Cei, che non va dimenticato che gli abusi del clero sono un “delitto”. Aggiunge che la pedofilia è un fenomeno che “purtroppo ha un’estensione enorme e richiede uno sforzo collettivo per combatterlo” e che la cooperazione tra autorità ecclesiastiche e civili è prassi.
MA QUANDO gli si chiede perché i vescovi non sentono il dovere della denuncia, risponde: “Non possiamo chiedere al vescovo di diventare un pubblico ufficiale”. Una spiegazione razionale, giuridica o evangelica non c’è. C’è solo la grande paura dell’episcopato italiano di affrontare un bagno di verità. Dopo due anni (due anni!) la Cei ha fornito qualche cifra: 135 casi di abusi di chierici avvenuti tra il 2000 e il 2011 e portati alla Congregazione per la Dottrina della fede. “53 condanne, 4 assolti e gli altri casi in istruttoria”, spiega Crociata. E ancora: delle settantasette denunce alla magistratura: 2 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, 5 assolti e 12 casi archiviati.
Il rapporto tra la maggioranza dei colpevoli e la piccola percentuale di innocenti è palese. La grande paura di scavare nella realtà nasce da qui.
Il Vaticano sapeva
Videla e i silenzi del Vaticano
La politica dei “desaparecidos” che il dittatore Jorge Videla ha ammesso anche in tribunale, era nota fin dal 10 aprile 1978 alla Chiesa cattolica
Così risulta da un documento rinvenuto nell’archivio della Conferenza episcopale
Desaparecidos: documento della Santa Sede ritrovato. Scritto dopo un pranzo con i vescovi e il dittatore argentino
di Horacio Verbitsky (il Fatto, 11.05.2012)
Buenos Aires. La politica dei “desaparecidos” che il dittatore Jorge Videla ha finito per ammettere con diverse dichiarazioni e in tribunale, era nota fin dal 10 aprile 1978 alla Commissione esecutiva della Chiesa cattolica che, però, si guardò bene dall’informare l’opinione pubblica. Tutto questo risulta da un documento rinvenuto nell’archivio della Conferenza episcopale.
IL DOCUMENTO porta il numero 10.949 e già il numero dà un’idea della quantità di informazioni sulle quali la Chiesa continua a mantenere il segreto. Il documento fu redatto a cura del Vaticano al termine di un pranzo con Videla ed è conservato nel fascicolo 24-II. Sono riuscito a visionare il documento in maniera surrettizia dopo che a una formale richiesta le autorità ecclesiastiche avevano risposto con la sorprendente affermazione secondo cui l’Episcopato non avrebbe archivi.
Quando incontrava esponenti della Chiesa cattolica, Videla parlava con la franchezza in uso tra amici. L’allora presidente dell’Episcopato, il cardinale Raul Francisco Primatesta, comunicò all’Assemblea Plenaria che lui e i suoi due vicepresidenti, l’arcivescovo Vicente Zazpe e il cardinale Juan Aramburu, avevano parlato a Videla dei casi di prigionieri apparentemente rimessi in libertà, ma in realtà assassinati, si erano interessati dei sacerdoti desaparecidos, quali Pablo Gazzarri, Carlos Bustos e Mauricio Silva, e di altre persone scomparse nei giorni precedenti all’incontro con Videla.
Secondo il documento episcopale “il presidente ha risposto che apparentemente sarebbe ovvio affermare che sono già morti; si tratterebbe di varcare una linea di demarcazione: questi sono scomparsi, non ci sono più. Questo sarebbe il più chiaro, comunque ci porta a una serie di considerazioni in ordine a dove sono stati sepolti: in una fossa comune? E in tal caso chi li avrebbe sepolti in questa fossa? Una serie di domande alle quali le autorità di governo non possono rispondere sinceramente in quanto la cosa coinvolge diverse persone”, un eufemismo per alludere a coloro che avevano svolto il lavoro sporco di sequestrarli, torturarli, ucciderli e fare sparire le spoglie. L’atteggiamento del clero aveva sfumature sottili. Zazpe chiese: “Cosa rispondiamo alla gente visto che c’è un fondamento di verità in quanto sospettano? ”. E Videla “ammise che era vero”. Aramburu spiegò che “il problema è di rispondere in modo che la gente non continui a chiedere spiegazioni”.
PRIMATESTA spiegò che “la Chiesa vuole capire, collaborare, è consapevole che il Paese versava in uno stato di caos” e che ha misurato le parole perché sapeva benissimo “il danno che poteva arrecare al governo”. Anche Primatesta ha insistito sulla necessità di arrivare a una qualche soluzione in quanto prevedeva che alla lunga il metodo consistente nel far sparire le persone avrebbe prodotto “effetti negativi” considerata “l’amarezza che affligge molte famiglie”. Questo dialogo di straordinaria franchezza mostra che sia Videla sia la Chiesa conoscevano benissimo i fatti e sottolinea la complicità con cui valutavano e decidevano in che modo rispondere alle denunce della gente avvertite da entrambe le parti come una minaccia comune.
Nello scegliere questa politica di omicidi clandestini, che Videla ora definisce “comoda” perché sollevava dal fornire spiegazioni, la giunta militare gettò un’ombra di sospetto su tutti i quadri delle Forze armate e delle forze di sicurezza, ombra che cominciò a dissiparsi con la riapertura dei processi che hanno consentito di accertare le responsabilità individuali che la giunta aveva coperto. Fino ad oggi ci sono state 253 sentenze di condanna e 20 di assoluzione, la qual cosa dimostra che in democrazia nessuno viene condannato pregiudizialmente e senza poter esercitare il suo diritto alla difesa. Fino ad oggi solo un cappellano militare, Christian von Wernich, è stato condannato per complicità in casi di tortura e omicidio.
ZAZPE è morto nel 1984, Aramburu nel 2004 e Primatesta nel 2006. Nel 2011 ha rinunciato per sopraggiunti limiti di età, Jorge Casaretto, l’ultimo vescovo di quei tempi ancora in attività. Tuttavia la Chiesa continua a mantenere un ostinato silenzio che talvolta sottolinea la sua crescente irrilevanza nel panorama della società argentina. La scarsa influenza della Chiesa si è vista con chiarezza l’anno scorso quando, malgrado la sua mobilitazione, il Congresso ha modificato il codice civile per consentire il matrimonio a tutte le persone indipendentemente dal sesso dei contraenti.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Videla confessa i crimini della Chiesa
di Horacio Verbitsky (il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2012)
La valanga di dichiarazioni dell’ex dittatore Jorge Videla ha messo fine a un lungo dibattito sui modelli di transizione. Quanti criticavano la riapertura dei processi per crimini contro l’umanità sostenevano che l’obiettivo di giungere a una condanna penale rischiava di ostacolare il raggiungimento della verità ed esaltavano, invece, il modello sudafricano consistente nell’ottenere informazioni in cambio dell’impunità. Durante una visita in Sudafrica nel 2005, i familiari delle vittime della violenza razzista mi parlarono del senso di frustrazione provato nel vedere i loro aguzzini raccontare con particolari sadici come avevano massacrato i loro figli o coniugi per poi andarsene liberi.
In Argentina, al contrario, sono già state pronunciate oltre 250 sentenze di condanna al termine di processi che hanno garantito tutti i diritti alla difesa tanto che vi sono state anche due dozzine di sentenze di assoluzione. E il flusso di informazioni non solo non si è arrestato, ma è aumentato. Il presunto contrasto insanabile tra Verità e Giustizia si è rivelato falso. Le successive confessioni del condannato Videla a diversi giornalisti che lo hanno intervistato in carcere hanno fatto luce sulla complicità con il regime dei grandi imprenditori, dei principali partiti politici e della Chiesa cattolica. Nell’ultima intervista ha detto che il nunzio apostolico Pio Laghi, l’ex presidente della Conferenza episcopale Raul Primatesta e altri vescovi hanno fornito al suo governo consigli su come gestire la situazione dei detenuti-desaparecidos.
SECONDO VIDELA la Chiesa si spinse addirittura a “offrire i suoi buoni uffici” affinché il governo informasse della morte dei figli tutte le famiglie che si fossero impegnate a non rendere pubblica la notizia e a smettere di protestare. È la prova che la Chiesa era a conoscenza dei crimini della dittatura militare, come risulta dai documenti segreti pubblicati in libri e articoli e la cui autenticità l’Episcopato è stato costretto a riconoscere dinanzi alla giustizia.
Ma è altresì la prova di un coinvolgimento attivo dell’Episcopato per garantire il silenzio dei familiari delle vittime, silenzio di cui la Chiesa era garante. Videla ha detto che non fornirono informazioni sui desaparecidos affinché nessuna madre chiedesse “dove è sepolto mio figlio per portargli un fiore? Chi l’ha ucciso? Perché? Come l’hanno ucciso? A nessuna di queste domande fu data risposta”. Il ragionamento è il medesimo che Videla fece il 10 aprile 1978 nel corso di un cordiale pranzo alla presenza della commissione esecutiva dell’Episcopato.
Secondo la nota informativa inviata dai vescovi al Vaticano, Videla aveva detto loro che “sarebbe ovvio” affermare che nessuno è desaparecido, che “sono morti”, ma che una tale affermazione avrebbe “alimentato una serie di domande sul luogo della sepoltura. Era forse una fossa comune? E in tal caso: chi li ha messi in questa fossa? Insomma una serie di domande alle quali il governo non poteva rispondere sinceramente per le conseguenze a carico di alcune persone”, vale a dire per proteggere i sequestratori e gli assassini.
I CONSIGLI delle autorità ecclesiastiche ammessi da Videla confermano altresì i dati frammentati che già erano noti. Il primo ufficiale che ha confessato la partecipazione personale al massacro, il capitano della Marina Adolfo Scilingo, mi raccontò che quando il comandante delle Operazioni Navali lo aveva informato che i prigionieri sarebbero stati gettati in mare dagli aerei, gli aveva anche detto che si erano consultati con le autorità ecclesiastiche per trovare la soluzione “più cristiana e meno violenta”. Quando tornò turbato dal primo volo e si rivolse al cappellano della sua unità militare, il sacerdote lo tranquillizzò raccontandogli alcune parabole bibliche.
Disse che era una morte cristiana perché non avevano sofferto. Nel corso del primo processo contro esponenti della giunta militare, il giornalista Jacobo Timerman raccontò che quando aveva chiesto per quale ragione non avevano applicato apertamente la pena di morte, uno degli ufficiali più alti in grado della Marina gli aveva risposto: “In questo caso sarebbe intervenuto il Papa e sarebbe stato difficile fucilare i detenuti se il Pontefice avesse fatto pressione”.
Il generale Ramon Diaz Bessone diede la medesima spiegazione alla giornalista francese Marie-Monique Robin: “Pensate alle pesanti critiche rivolte dal Papa a Franco nel 1975 per la fucilazione di appena tre persone. A noi ci sarebbe saltato addosso tutto il mondo. Non sarebbe stato possibile fucilare 7000 persone”. Questo spiega perché, fino a oggi, la Chiesa non ha scomunicato Videla e nessuno degli altri condannati, tra i quali il sacerdote cattolico Christian von Wernich. Ha deciso invece di essere complice, da qui all’eternità.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
FERRARA
Comunione negata? Non è vero, accolto quel bimbo disabile *
Una carezza del sacerdote nel giorno della Prima Comunione doveva essere il gesto dell’accoglienza e dell’attenzione speciale di un’intera comunità a un bambino di dieci anni con gravi disabilità psichiche. Invece su molti canali mediatici è diventato l’emblema dell’esclusione della «vita debole» dal banchetto eucaristico. Una barriera che sarebbe stata alzata dal parroco di Porto Garibaldi, nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, durante la Messa del Giovedì Santo quando venti ragazzi si sono accostati per la prima volta al sacramento. «Siamo amareggiati, non ce lo aspettavamo», racconta la mamma alle agenzie di stampa.
La Curia, invece, non parla di sorprese: il percorso era stato concordato con la famiglia che aveva avuto anche un lungo incontro con un sacerdote nel palazzo vescovile. E l’arcidiocesi tiene a sottolineare che non c’è stato alcun rifiuto dell’Eucaristia, che nessuna discriminazione è stata compiuta dal parroco e che il cammino di preparazione continuerà in modo che il ragazzo possa accedere al Sacramento nei tempi opportuni.
E i tempi contano per capire ciò che è accaduto. Spiega la Curia che a fine febbraio i genitori del disabile - una coppia di conviventi - si presentano dal parroco di Porto Garibaldi (che non è quello del paese dove vivono) per chiedere che il figlio possa ricevere la Comunione. Come faranno i compagni di classe, riferiscono. Il sacerdote prende a cuore fin da subito la situazione. Coinvolge i catechisti, sente le insegnanti di sostegno del bambino, acquista dvd e sussidi per una preparazione a misura di portatore di handicap.La Curia segue con attenzione il caso, mentre si constata che il ragazzo interagisce quando viene sollecitato dalle carezze. La «teologia dell’affetto» viene adottata dalla parrocchia che mette a punto una proposta con un approccio molto graduale e senza scadenze prefissate. Ai genitori viene chiesto di portare il figlio negli ambienti parrocchiali: cosa che avviene, seppur con l’intermezzo di un ricovero ospedaliero. L’intento è farlo sentire parte della comunità.
All’inizio di aprile avviene l’incontro in Curia. Durante il colloquio il sacerdote offre al ragazzo un’ostia non consacrata che lui respinge bruscamente. Ecco allora il suggerimento ai genitori: alla Messa della Prima Comunione il bambino sarà nelle panche insieme con i coetanei; però non riceverà il Santissimo Sacramento ma una carezza del parroco e la benedizione. Secondo l’arcidiocesi, è la via per mostrare che la disabilità interpella la Chiesa, che ciascun portatore di handicap è «persona prediletta» e partecipa come tutti i credenti alla celebrazione, che la parrocchia lo sostiene nella promozione integrale. In attesa che il percorso possa proseguire e compiersi.
Il Giovedì Santo il bambino è in mezzo ai compagni. Vicino ha la madre. E la carezza con la benedizione c’è. A distanza di qualche giorno, quanto accaduto in quella chiesa sui lidi ferraresi si trasforma in un caso mediatico con tanto di presunto esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa» (poi rivelatosi una patacca) mentre la madre nega di aver dato mandato a un legale. L’arcidiocesi intanto continua a tendere la mano: nel rispetto della natura del Sacramento, il bambino sarà accompagnato per condividere il «tesoro offerto da Dio» sulla mensa eucaristica.
Giacomo Gambassi
* Avvenire, 12 aprile 2012
Siamo tutti ritardati
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 aprile 2012
Dopo aver letto la smentita di Avvenire alla penosa vicenda, riportata da molti media, della comunione rifiutata a un bambino disabile a Ferrara, ci si accorge di quanto sia difficile, oggi, farsi un’opinione. Visto che anche l’informazione diviene un oggetto di fede. Quali che siano i fatti, però, rimangono le parole attribuite al parroco, don Piergiorgio Zaghi; il quale pare abbia detto (il condizionale è d’obbligo) che il bambino, portatore anche di ritardo mentale, “non è in grado di capire”.
Ma, mi chiedo io, di fronte all’Eucarestia, chi lo è?
La Chiesa, consapevole che anche la ragione vuole la sua parte, ha escogitato una “dimostrazione” logica che pretende esaurisca ogni domanda: la particola, tramite la cosiddetta “transustanziazione” che avviene al momento della consacrazione, perde la sua specifica “forma”, che viene sostituita dal corpo di Cristo, mentre la materia rimane intatta. Solo che per “capire” questo in modo razionale, secondo la dottrina ufficiale, bisognerebbe anche aver studiato Aristotele e san Tommaso. E, secondo me, non basta comunque. Anzi, detta così sembrerebbe quasi una magia.
Forse è meglio ricorrere a qualche altra via. E se i sinottici non ci aiutano molto, ci può invece illuminare Giovanni, che a sua volta compie una sua “transustanziazione evangelica”, ponendo nell’ultima cena, al posto della distribuzione del pane, la lavanda dei piedi.
A Pietro che gli diceva: “Tu non mi laverai i piedi!” Gesù ha risposto: “Quello che io faccio, tu ora non lo comprendi. Lo capirai dopo”. Non capire è normale, credo. Dopo tutto è un mistero. E’ far finta di avere capito che è molto pericoloso.
Dho ’scomunica’ la Lega: "Non sono cattolici"
intervista a mons. Sebastiano Dho a cura di Giovanni Panettiere
in “Quotidiano.net” del 15 febbraio 2012
Alba, 15 febbraio 2012 - Connivenza tra Santa Sede e Berlusconi? "L’impressione è diffusa e sofferta". Sottovalutazione del fenomeno Lega? "I vertici della Chiesa non hanno vigilato a dovere". Uno-due e palla al centro.
Non si mordeva la lingua, quando era in servizio, figurarsi ora che è in pensione. Per diciassette anni monsignor Sebastiano Dho, classe 1935, come vescovo di Alba, ha preso posizione sui fatti più importanti della politica italiana, diventando una bandiera del cattolicesimo a difesa dei diritti dei migranti.
Celebre il suo intervento di fuoco contro l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina: "Dobbiamo contrastare la marea montante, il linguaggio, la cultura di autentico e violento egoismo, volto a difendere la nostra identità civile, fomentando la barbarie che alcuni manovratori dello Stato hanno voluto introdurre con il reato di clandestinità per chi viene da Paesi diversi, trasformando i centri di identificazione in vere e proprie carceri".
Era il 2009 e Dho alzava la voce contro la Lega, il partito più intransigente sul fronte migratorio. Tre anni più tardi, il vescovo ha lasciato la cattedra di Alba, il Carroccio traballa per le lotte intestine. E il Cavaliere è stato disarcionato da Palazzo Chigi, nonostante le voci insistenti su una ’sacra alleanza’ con la segreteria di Stato vaticana.
Ma davvero la Santa Sede ha favorito il governo Berlusconi?
"Nell’opinione pubblica, anche quella ecclesiale, almeno a livello di base e compreso il clero in diretto contatto con le comunità, l’impressione è diffusa e spesso sofferta".
Perché?
"Non si riesce a comprendere o trovare le ragioni positive di un tale comportamento ai fini di una vera evangelizzazione".
Non pensa che i mass-media abbiano contribuito a montare questa sensazione?
"Alcuni sostengono che l’impressione sia il frutto dei giornali, colpevoli di enfatizzare certi aspetti dei rapporti politici-ecclesiali. In ogni caso, è auspicabile maggiore chiarezza e coerenza nello stile, peraltro indicato autorevolmente dal Concilio Vaticano II".
Sulla Lega, invece, ha cambiato opinione in questi ultimi anni?
"Il mio giudizio negativo sulle politiche migratorie e quindi sulle forze politiche, che le hanno pervicacemente volute, non solo non è cambiato, ma al contrario ha trovato larga conferma in questi ultimi anni".
Che cosa la disturba maggiormente?
"Ogni impostazione di norme inspirate a principi di pregiudiziale discriminazione, con punte di razzismo e xenofobia. Sono in contraddizione diretta con i diritti umani e tanto più con i grandi valori cristiani".
Eppure la Lega, fino a qualche mese fa, è stata partito di governo e in più amministra regioni importanti del calibro di Veneto e Piemonte. Come spiega il successo di Umberto Bossi e compagni?
"É stata ed è preoccupante la cultura dell’egoismo localista, del sospetto, della paura, dell’incitamento all’odio verso il diverso, con esiti esiziali come l’aggressione ai campi rom. Così pure fa paura l’assurdo etico-giuridico del reato di clandestinità, basato sulla falsa ed inique equiparazione ’clandestino uguale criminale’".
E che cosa pensa dei cattolici che votano Carroccio?
"Che dei cattolici, almeno così si definiscono, aderiscano a tali teorie, sostenendone le concrete applicazioni politiche-legislative, certamente non può che allarmare tutti, ma in modo speciale chi nella Chiesa ha la responsabilità della guida pastorale".
Secondo lei i vertici ecclesiali hanno vigilato a dovere sull’ascesa padana?
"Senz’altro vi è stata una grave sottovalutazione, sia a livello di base che, e questo è ancora più preoccupante, da parte di chi sta in alto nell’istituzione cattolica. D’altronde, negli anni ’20-30 è avvenuto lo stesso, salvo pentirsene amaramente, quando era ormai troppo tardi".
Resta il fatto che i leghisti si definiscono cattolici e difendono i ’valori non negoziabili’ (la vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia eterosessuale, la libertà di educazione cattolica) promossi dal magistero. Non basta?
"Sui ’valori non negoziabili’, se non si sta attenti, si incorre facilmente, a volte in buona, ma più spesso in cattiva fede, in pericolosi equivoci. Questo elenco lo si cita sovente in modo parziale, e ciò che è più grave, strumentale ai propri interessi politici; se in effetti si va a verificare nei documenti ufficiali del magistero, ma ancora prima nella Parola di Dio, il primo e ineludibile ’valore non negoziabile’ è l’amore di Dio e del prossimo, senza alcuna discriminazione, anzi con la precedenza assoluta del bisognoso e dello straniero".
Tradotto?
"É giustissimo difendere la vita nascente e morente, ma non si può dimenticare che in mezzo ai due estremi ci sta la vita tutta, con i suoi problemi quotidiani. È una contraddizione difendere il crocifisso appeso al muro, cosa buona e lodevole, e poi calpestare letteralmente i crocifissi vivi, i fratelli sofferenti. Quelli che sono la vera immagine di Cristo a detta di Lui stesso (Mt 25)".
Per chiudere sui ’valori non negoziabili’, non trova martellante la loro promozione ad opera dei vescovi?
"Il richiamo non è martellante, ma è necessario che l’elenco sia sempre completo. Tra i principi va compresa anche la promozione della solidarietà, della giustizia e della pace".
Questi sono mesi segnati dalla crisi economica, con la mannaia delle imposte a decapitare i risparmi degli italiani. E intanto si torna a discutere di Ici e Chiesa cattolica: giusto parlare di privilegi per gli immobili ecclesiastici?
"L’attuale legislazione, se applicata correttamente, è equilibrata: i beni esclusivamente finalizzati al culto, ad opere di carità o comunque sociali, e senza lucro sono esenti in analogia con gli enti laici similari; i beni invece con uso commerciale sono tassati come è giusto che sia".
Non avverte un’indignazione crescente ai danni della Chiesa?
"In materia va denunciato il comportamento, a dir poco scorretto, tenuto dai mass-media. Sono state diffuse informazioni parziali, tendenziose, al limite anche false, inerenti al problema Ici e non solo. Questo atteggiamento può spiegare, almeno in parte, l’indignazione a cui si fa riferimento".
Lei da oltre un anno è vescovo emerito di Alba. Come trascorre le sue giornate?
"É naturale e logico che i giorni da ’emerito’, intesi come tempo e spazi d’impegni, siano, almeno in parte, cambiati. Ad esempio, non vi sono più le udienze d’ufficio con relativo orario. Ma ciò non significa che siano giornate vuote. Semplicemente hanno un’altra impostazione, con maggiore possibilità di preghiera, lettura, studio, ascolto di persone e, perché no?, camminate in montagna o nei boschi. Ovviamente con la precedenza data al ministero pastorale, ancora ampiamente esercitato".
Al raggiungimento dei 75 anni, ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età, in ottemperanza al Codice di diritto canonico. Pochi mesi dopo il papa ha accolto la sua rinuncia: le sarebbe piaciuto restare in servizio ancora un po’?
"Sono sempre stato convinto e lo sono tuttora che la norma dei 75 anni sia saggia e non siano opportuni prolungamenti vari. Non si tratta, infatti, di rinunciare a lavorare nella vigna del Signore. Si è solo sollevati dalla responsabilità delle persone, sacerdoti, in particolare, che rappresenta innegabilmente il peso maggiore. D’altronde, anche nell’ambito laico chi ha responsabilità importanti, a parte alcuni politici, va ’in pensione’ a 75 anni".
Quindi, non si sente in panchina.
"Assolutamente no. Fin da subito ho trovato nella mia diocesi di origine, Mondovì, dove oggi risiedo, e così in molte altre, ampio spazio di impegni pastorali. Il sacramento dell’ordine permane in pienezza e le possibilità, anzi le esigenze, di esercitare il ministero sono innumerevoli: oltre la celebrazione di cresime, l’aiuto, la collaborazione nelle parrocchie, la sostituzione di parroci malati o assenti, la predicazione di esercizi e ritiri spirituali, conferenze varie. In una battuta: la carenza seria non è di vescovi, ma di presbiteri!".
Nel corso del suo episcopato lei ha spesso sottolineato la preminenza del sacerdozio universale rispetto a quello ministeriale. Paolo nelle sue lettere non parla mai di sacerdoti, ma di presbiteri.
"Questa preminenza o meglio precedenza non è frutto di una mia personale opinione, ma piuttosto deriva dalla chiara affermazione del Vaticano II nel documento sulla Chiesa, Lumen Gentium".
Che cosa dice la costituzione conciliare?
"Al numero 10 si passa espressamente e direttamente dal sacerdozio di Cristo a quello di tutti i battezzati per poi precisare che quello ministeriale è posto a servizio dell’universale, il quale ovviamente perdura anche nei pastori".
Ma si può rivedere l’ordine sacro?
"Non penso sia il caso di ripensare il sacramento dell’ordine quanto piuttosto di essere fedeli alla retta impostazione conciliare".
In Austria l’Iniziativa dei parroci punta, tra le altre richieste, a nominare come presbiteri uomini e donne, anche sposati per far fronte alla carenza di preti. Quale è la sua opinione?
"Le proposte avanzate sono quanto mai varie e differenti. Necessitano, perciò, di un serio discernimento, come è stato affermato autorevolmente dai responsabili della Chiesa austriaca".
Nello specifico?
"Occorre distinguere: per le donne l’ordinazione è ritenuta esclusa a quanto risulta da un documento di Giovanni Paolo II. Per gli uomini sposati, di provata fede e vita (i cosiddetti viri probati), invece, la possibilità esiste, come d’altronde da sempre è in atto nella Chiesa orientale non solo ortodossa, ma pure cattolica".
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2012)
Il card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo emerito di Milano, ha scritto un breve testo, appena pubblicato, intitolato Il Vescovo (Rosenberg & Sellier, Torino 2011, 94 pagine). Penso possa servire a tutti - credenti e non credenti - fermarsi a riflettere su di esso: vi traspare un’intelligenza vivissima e umile e una fede profonda, amica di Dio e degli uomini.
A cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, le riflessioni di Martini - autobiografiche e non solo - costituiscono una splendida testimonianza di quello che l’assise voluta da Giovanni XXIII e portata a compimento da Paolo VI ha detto alla Chiesa e al mondo. Si sa che la riforma avviata dal Concilio riguardò in gran parte l’autocomprensione della Chiesa stessa e il suo modo di stare fra gli uomini: emblematico in tal senso fu il cambiamento di titolo - avvenuto in corso d’opera - della Costituzione Gaudium et Spes, quando alla semplice congiunzione della formulazione «La Chiesa e il mondo contemporaneo» si sostituì una molto più significativa preposizione "in".
«La Chiesa nel mondo contemporaneo» non intendeva presentarsi come dirimpettaia della comunità degli uomini, ma come lievito nella pasta, mescolata alle gioie e ai dolori di tutti. Questo cambiamento di prospettiva è testimoniato in maniera delicata e intensa da un "flash-back" del Cardinale: «Ricordo che nella mia fanciullezza consideravo il vescovo qualcuno che stava come in una nicchia nella chiesa per ricevere l’omaggio dei fedeli. In questo scritto vorrei tirarlo giù da quella nicchia e vederlo a contatto con la gente, così come realmente avviene. Intendo esprimere qualcosa che dia un’immagine di lui meno vaporosa e ieratica, più viva e senza false pretese. Naturalmente... attingo alla mia esperienza di vescovo per oltre ventidue anni in una grande diocesi» (4-15).
Uomo tra gli uomini, fratello e amico di tutti, padre nella fede per chi ha occhi per riconoscerlo tale,
il vescovo del Vaticano II è proprio per questo anzitutto un uomo in ascolto, e proprio così «un
servitore della Parola di Dio. Durante la consacrazione gli viene messo sul capo il libro dei Vangeli.
Questo è un segno molto bello: significa che egli deve avere il Vangelo dentro se stesso e quindi
essere un Vangelo vivente. Egli è sottoposto a esso in ogni senso: la sua parola deve fare risuonare il
Vangelo e ogni gesto deve essere una realizzazione del Vangelo» (38). Perché questo avvenga, il
vescovo deve essere uomo di preghiera, soprattutto d’intercessione: «Se si vuole un vescovo profeta
afferma Martini - bisogna dargli molto tempo per pregare» (41).
Non si tratta di cercare evasione dalle sfide con cui confrontarsi. Al contrario, si tratta di nutrire l’amore per la propria gente alla fonte che non si esaurisce: «Di certo per chi è nominato vescovo scatta un sentimento molto forte di responsabilità e di amore per la sua nuova diocesi. Sente in cuore di trovarsi vincolato a questa nuova realtà e desidera servirla con tutte le proprie forze» (25).
All’ascolto di Dio, il vescovo - e con lui la Chiesa- del Vaticano II unisce l’ascolto umile, intelligente e partecipe della vita degli uomini: «Compito della Chiesa è anzitutto predicare il Vangelo. E il Vangelo è per tutti, senza esclusioni. È la proclamazione di un Dio che sempre perdona nel nome del Figlio Gesù crocifisso e risorto. Per questo Gesù ha accolto tutti, si è posto in dialogo con tutti. Non v’è traccia di rifiuto pregiudiziale per alcuna persona nei Vangeli» (42-43).
Questa volontà di dialogo si nutre di attenzione alla persona: «L’attenzione alla singolarità della persona, alla sua irripetibilità e incomparabilità e alla sua debolezza, hanno effetti molto più duraturi anche davanti a richieste esigenti. Molti hanno bisogno di essere capiti e amati prima di essere guidati con comandi e precetti» (49).
L’autorità si offre nella credibilità di un impegno d’amore accogliente e generoso: plasmata dalla carità, essa diventa autorevolezza, convinzione e pertinenza.Il rapporto della Chiesa con l’altro va allora vissuto nel segno dell’amicizia che non esclude nessuno, né vuole imporsi ad alcuno: «Gesù ha una concezione ben precisa dell’autorità come servizio e del modo di esprimerla: lavando i piedi ai fratelli. Ma non vuole imporre questo modo se non partendo dal suo stesso esempio» (47-48).
In questo spirito Martini ricorda alcune scelte forti del suo servizio pastorale: «A Milano avevo istituito la Cattedra dei non credenti, con cui intendevo mettere in cattedra anche i non credenti e imparare ad ascoltarli, sia pure con un ascolto critico» (54). Ma l’ascolto va rivolto anche e in maniera privilegiata a chi non ha voce: «È molto importante che un vescovo abbia incontri diretti con i poveri, con i carcerati e altri esclusi dalla nostra società. Sentirà la loro sofferenza e ne sarà come contagiato. Avrà anche modo di comprendere la fatica che fa molta gente per arrivare alla fine del mese» (57).
La conclusione è significativa per tutta la Chiesa, ma anche per ogni persona cui stia a cuore il bene comune: «Quanto più un vescovo si trova in stato di ascolto, tanto più potrà aiutare la sua Chiesa e anche quelli che non credono (59). Sul ponte dell’amicizia si fa strada la verità liberante per tutti: «Quando si è costruita una reciproca fiducia nella veridicità di ciò che si dice, anche nelle cose un po’ difficili o in quelle che possono dare dispiacere, il mondo mediatico sa aiutare, collaborando con il vescovo per la sua missione» (78).
Di qui i caratteri che questa bellissima "retractatio" martiniana assegna al pastore, e che potremmo estendere a ogni uomo o donna che voglia porsi responsabilmente al servizio degli altri: ciò che soprattutto occorre è essere "una persona integra e onesta", tale che chi la incontra «deve scorgervi con facilità e chiarezza un’obbedienza volenterosa alle leggi dello Stato... Ci vogliono uomini capaci di dire il vero, capaci di non mentire mai e per nessun motivo» (90).
Certo, per cambiare le cose sarà indispensabile dotarsi di «pazienza, virtù antichissima eppure sempre necessaria», e di misericordia: «La tanta sofferenza di questo mondo, l’immenso dolore e la tanta disperazione, chiedono che la Chiesa eserciti tutta la sua funzione di madre amorevole attenta e premurosa. Che sia capace di offrire motivi di speranza a tutti» (91).
L’affermazione finale è come un mandato, che riguarda certo il pastore, ma si mostra indicazione esigente e affascinante per tutti: con l’eloquenza della vita Martini domanda a se stesso e al vescovo di essere «un uomo umile, che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità. Che sa rimettersi in discussione, che sa riconoscere i propri errori senza troppe auto-giustificazioni. Dunque anzitutto un uomo vero» (91).
Non è questa una richiesta che tocca veramente tutti, specialmente chi voglia operare con intelligenza, amore e giustizia al servizio del bene comune?
di Roberto Monteforte (l’Unità, 24 novembre 2011)
Grandi emergenze sociali. Cataclismi e disastri naturali. Ma anche le difficoltà quotidiane da fronteggiare quando si è all’estremo. Quando si è stretti nella morsa degli usurai o quando improvvisamente ci si scopre poveri. Quando si è persa la casa e gli affetti e con loro la dignità e l’umanità. Per chi vive queste situazioni drammaticamente «consuete» in questi tempi di crisi, incontrare la Caritas significa trovare un ricovero, una risposta al bisogno immediato, avere di fronte qualcuno disposto con competenza di ascoltare e prendersi cura. È un’occasione per risalire la china dell’emarginazione sociale. E stato così per tanti in questi anni. Qualcosa di più della semplice assistenza e di diverso dall’elemosina. Un presidio di umanità. Sia per chi ha usufruito dei servizi, sia per quell’esercito di volontari che hanno arricchito di senso loro vita.
LA SCELTA DEI POVERI
È un merito della Chiesa italiana. La Caritas è un suo organismo. Sono trascorsi 40 anni, era il 28 settembre 1972, da quando Papa Paolo VI, la istituì. Il mandato era preciso. «Al di sopra dell’aspetto puramente materiale della vostra attività, deve emergere la sua prevalente funzione pedagogica» chiedeva il pontefice. Era così che papa Montini dava applicazione al Concilio Vaticano II. Così la Chiesa rimodulava il suo rapporto con la società italiana per affermare anche nel campo della politica e del sociale, le ragioni del servizio all’uomo. Con un profilo preciso. La Caritas non accetta nessuna delega sulle problematiche sociali, né dalle istituzioni ecclesiali, né da quelle pubbliche. Funzione pedagogica vuole dire agire perché si faccia contagiosa la vicinanza agli ultimi.
Fino a segnare i comportamenti sociali e le scelte politiche. Compresa la sensibilità della Chiesa, anch’essa da «convertire». Un compito sicuramente scomodo in tempi come questi, segnati dall’«egoismo sociale». Lo ha ricordato nei giorni scorsi a Fiuggi al 35˚ Congresso nazionale delle Caritas diocesane nel 40˚ della fondazione il vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi, presidente di Caritas Italiana, di fronte ai 600 delegati delle 220 strutture diocesane. Tanto è oggi ramificata la Caritas sul territorio.
Una presenza spesso scomoda per il potere e per le istituzioni. Un testimone straordinario di questa fedeltà al Vangelo e all’uomo è stato nella Roma degli anni ‘80 monsignor Luigi Di Liegro. Il primo direttore della Caritas diocesana era in prima linea dove scoppiavano le emergenze: tra i senza casa che avevano occupato i locali abbandonati della Pantanella, tra i malati di Aids, tra i poveri e i barboni cui assicurava un tetto, un pasto caldo, assistenza sanitaria e accoglienza. Di Liegro invitava a guardare alle cause del disagio, alle ingiustizie che offendevano l’uomo. Senza timore ha denunciato chi speculava sulle aree e sul lavoro. Perché considerava la fedeltà al Vangelo più forte del potere economico e politico, della difesa degli interessi dei potenti.
«Non assistenza, ma giustizia» invocava con fervore. Ha pagato il prezzo dell’incomprensione e dell’isolamento, ma la sua testimonianza ha reso credibile la Chiesa di Roma e ha dato frutto. Ha consentito che maturasse una nuova consapevolezza dell’impegno sociale e politico del credente. Si è rotto con il collateralismo con la Dc. La Caritas si è ramificata nelle parrocchie. Ha operato nelle zone di frontiera più difficili. Giovani, minori, immigrati, donne in difficoltà, anziani soli ed oggi sempre più i «nuovi poveri»: «gente normale», di ceto medio, precipitata improvvisamente nel disagio.
Sono le nuove emergenze che da tempo Caritas Italia denuncia con i suoi dossier: quello sull’imigrazione realizzato con Migrantes dal 1991 e il Rapporto sulle povertà realizzato con la Fondazione Zancan.Emerge un paese sempre più povero anche di diritti. Sono materiale prezioso per affrontare i nodi del disagio sociale. È il frutto di un lavoro capillare realizzato dalle 220 Caritas diocesane con i «centri di ascolto», gli «Osservatori delle povertà» e i «laboratori» delle parrocchie e gli oltre 14 mila servizi socio-sanitari. Oltre a registrare i dati si denunciano responsabilità. Lo scontro con la politica, come con la Lega, si fa anche diretto quando sono messi in discussione i diritti fondamentali dell’individuo.
Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi (Avvenire, 19 ottobre 2011)
Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico. Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede».
Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano».
Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene. Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 113 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano».
Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti. Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.
Un papato immobile. La solitudine di Benedetto XVI
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 08.10 2011)
Le polemiche sull’affare Williamson (il vescovo lefebvriano negazionista cui Benedetto XVI toglie nel 2009 la scomunica insieme ad altri tre presuli scismatici) mette in discussione esplicitamente il modo con cui Benedetto XVI governa la Chiesa. Gli osservatori denunciano una curia allo sbando, un papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera che l’Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti.
Sono giorni in cui un veterano di curia confida off record: “Benché sia stato in Vaticano per più di un ventennio in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger non conosce affatto la curia. Ieri era chiuso nella sua stanza nel Sant’Uffizio, oggi è chiuso nel suo studio di pontefice. Lui è un teologo, non è uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e l’altra metà concentrato sulle sue ricerche su Gesù”. Certo esistono intorno a lui i fedelissimi. In testa il cardinale segretario di Stato, Bertone. Ma la fedeltà non basta.
Le avvisaglie che qualcosa non funziona sul ponte di comando in Vaticano si sono intraviste presto. Se il conflitto con il mondo islamico esploso a Regensburg poteva essere ancora considerato un incidente dai più indulgenti, le cose cambiano nel 2007: allorchè va in scena a Varsavia la nomina senza precedenti - e poi la precipitosa revoca - di un vescovo informatore dei servizi segreti comunisti, l’opinione pubblica avverte l’assenza di una leadership sicura. Commentano sull’Herald Tribune gli inviati Craig S. Smith e Ian Fisher: “Sebbene la sua grande esperienza in dottrina e teologia sia indiscussa, qualche critico afferma che (a papa Benedetto) manchi una piena padronanza dell’abilità politica necessaria ad un’organizzazione così vasta e complessa come la Chiesa cattolica... C’è chi suggerisce che il papa non sia ben coadiuvato dai suoi consiglieri oppure abbia la tendenza a prendere importanti decisioni principalmente di testa sua”.
Benedetto XVI studia attentamente i dossier, che gli vengono sottoposti, però il suo modo di lavorare è tendenzialmente solitario. I contatti con i suoi collaboratori si concentrano prevalentemente nelle cosiddette “udienze di tabella”, i regolari incontri settimanali con il segretario di Stato, il Sostituto, il ministro degli esteri, i prefetti delle Congregazioni per la dottrina della fede e dei vescovi. Solo due volte l’anno si tiene la riunione collegiale dei responsabili di tutte le congregazioni. Come se il capo di stato o di governo di una potenza internazionale riunisse il consiglio dei ministri unicamente ogni sei mesi. Giovanni Paolo II riceveva singolarmente ogni due anni gli ambasciatori papali per avere il polso della situazione internazionale. Benedetto XVI concede loro un’udienza di protocollo in occasione del trasferimento ad una nuova sede.
Nessuna guida politica
Benedetto XVI non utilizza nemmeno i pranzi di lavoro, strumento di cui approfittava largamente Giovanni Paolo II. “Wojtyla governava ascoltando”, commenta lo storico Andrea Riccardi leader della comunità di sant’Egidio, e “non mangiava mai da solo”.
Così si è creato in Vaticano un clima, la cui caratteristica dominante è di “non disturbare il manovratore”. Sostiene un cardinale del Nordeuropa che Benedetto XVI “è timido, ma si impunta nel difendere le proprie idee”. Quindi è difficile fargliele cambiare. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, non può o non riesce a ovviare a questo complesso di fattori. Sin dal momento della sua nomina è stato considerato dalla curia un outsider e tale continua ad essere percepito. In curia lo si ritiene responsabile di non avere mano politica (nel senso tecnico del termine) nella conduzione del governo della Santa Sede. Molti curiali hanno nostalgia del pugno di ferro dell’ex segretario di Stato Sodano e rimpiangono l’era wojtyliana in cui “c’era una linea, una visione, orgoglio di fare e parole d’ordine precise”.
Bertone è giudicato con perplessità per avere coinvolto eccessivamente il suo ruolo nei giochi della politica italiana. È ricordata la sua partecipazione ad una cena, organizzata l’8 luglio 2010 da Bruno Vespa. La presenza del cardinale finisce per avallare un favore del conduttore televisivo all’ospite principe della serata, il premier Silvio Berlusconi che tenta di convincere il commensale Pier Ferdinando Casini, leader dell’ Udc, ad entrare nel suo governo. Sapere che il massimo collaboratore del pontefice accetta (finisce) per fare da cornice ad un tete a tete squisitamente politico, suscita parecchi malumori in curia.
Il teologo che non ascolta
A Benedetto XVI si riconosce un’intelligenza particolarmente acuta, uno stile di vita austero, una vasta formazione teologica, un rifiuto di qualsiasi familismo di cordata. L’osservazione, che gli viene rivolta, è di affrontare i problemi esclusivamente secondo un’impostazione teologica. Un problema essenziale, che mette a nudo le difficoltà del governo centrale della Chiesa, riguarda l’insufficiente dibattito sulle decisioni da prendere. Rispetto alle dimensioni della comunità cattolica mondiale e allo scenario internazionale, in cui opera la Santa Sede, la discussione è praticamente asfittica. Più di un cardinale sostiene l’urgenza di lasciare che i “vescovi parlino liberamente, ascoltando cosa dicono”. Un’altra critica riguarda l’instaurarsi di un clima di eccessiva apologia del pontefice.
Lo storico Giovanni Miccoli rileva: “È come se non ci fosse chi tiene in mano il timone del governo. Papa Ratzinger scrive libri, documenti, discorsi, si concentra sul rapporto tra fede e ragione”. Il sociologo cattolico Franco Garelli soggiunge: “Si avverte una debolezza del governo istituzionale. Spesso più del consenso prevale l’ossequio”.
Teoricamente Ratzinger ha avuto presente fin dall’inizio l’esigenza di non vincolare la Chiesa nel terzo millennio al modello assolutistico. “Una Chiesa dalle dimensioni mondiali, ed in questa situazione del pianeta, non può essere governata in modo monarchico”, garantì cinque mesi prima di essere eletto. Non è stato così. In sei anni si sono tenute soltanto tre riunioni plenarie del collegio cardinalizio.
Una cattolicità divisa
Il papa ottantaquattrenne viaggia, pubblica documenti, fa i suoi interventi, ma al di là di queste attività molti fedeli percepiscono una situazione di immobilismo. Nel frattempo si approfondisce all’interno della comunità cattolica la frattura fra due grandi tendenze. Coloro che si arroccano nella riaffermazione dell’ “identità cattolica” e coloro che si aspettano una Chiesa capace di misurarsi con le tematiche nuove. Ai vertici ecclesiastici si finge di non vedere la realtà di una cattolicità divisa, dove si moltiplicano fedeli, che in tema di fede, morale, dottrina e rapporto con la società contemporanea hanno approcci lontani dal magistero pontificio. Dopo una prima fiammata di consensi, l’attrazione per papa Ratzinger è scesa. Il calo è iniziato al terzo anno di pontificato. L’Italia, con la sua copertura giornalistica quasi quotidiana, resta un caso a parte. Nell’arena internazionale Ratzinger continua ad essere percepito come personalità di alto profilo che colpisce le élites culturali. Però è diminuita la risonanza planetaria del papato.
È soprattutto la concezione del rapporto tra Chiesa e società ad aprire interrogativi sull’attuale pontificato. Questo mondo così multiforme nelle sue credenze, così secolarizzato, così irriducibile al vecchio schema di “una fede - un popolo - un’autorità di Chiesa”, e al tempo stesso così vitale nelle sue pulsioni religiose, appare alla Chiesa ratzingeriana sotto la maschera del nemico.
Benedetto XVI intravvede nello scenario contemporaneo una “multiforme azione tesa a scardinare le radici cristiane della civiltà occidentale”. A volte la situazione attuale gli sembra simile - e lo dice apertamente - al tramonto dell’impero romano. Un programma di governo Ratzinger non lo ha maipresentato. Con gli anni questa impostazione - l’aver spostato l’accento dalla progettualità alla predicazione - pesa. Papa Wojtyla ha creato il suo progetto strada facendo. Paolo VI si era posto la missione di portare a termine il concilio Vaticano II e completarlo con i documenti e le istituzioni necessari. Pio XII, dopo la seconda guerra mondiale, aveva il chiaro obiettivo di riorganizzare la “società cristiana”, modernizzandola nelle sue forme d’azione. Benedetto XVI, al fondo, è rimasto un pensatore più che un uomo di governo.
LA GRAMMATICA
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 30.09.2011)
Il rabbí di Gher raccontava: «Da ragazzo non volevo applicarmi allo studio della grammatica perché la consideravo una scienza come tante altre. Più tardi, invece, mi ci sono dedicato con passione perché ho visto che i segreti della Bibbia sono legati ad essa».
Sono stato per anni docente di esegesi biblica; ho passato buona parte della mia vita a studiare le Sacre Scritture e, anche se ora la mia missione è un’altra, considero sempre il santo di oggi, Girolamo, il mio ideale patrono. Non c’è bisogno di spiegare che questo personaggio dal carattere piuttosto rubesto, morto il 30 settembre del 420 nell’aspra solitudine delle grotte di Betlemme, è stato il più famoso traduttore e studioso antico della Bibbia. Io, però, sono ricorso - per commemorarlo - a uno degli apologhi che il filosofo Martin Buber ha raccolto nei suoi Racconti dei Chassidim.
Un maestro ebreo, appartenente a questa corrente mistica mitteleuropea, ammoniva il suo discepolo sulla necessità dello studio della grammatica. Apparentemente essa è arida, è un sistema di regole, è un minuzioso gioco a incastro di elementi variabili secondo le diverse lingue. Eppure, è l’ossatura senza la quale il pensiero si sfalda, la bellezza si scolora, il messaggio si estingue. Un altro scrittore cristiano del VII secolo,
Massimo il Confessore, dichiarava: «Se non conosci le parole [umane] della Scrittura, come potrai raggiungere la Parola [divina]?». Come accade in Cristo che è Verbo divino ma è anche «carne», cioè linguaggio e realtà umana, così è per la Bibbia. Per questo, l’antica tradizione ecclesiale ha sempre esaltato come fondamentale - prima di ogni senso «spirituale» - il senso «letterale», e Lutero ribadiva che il «grammaticale» è il primo dato teologico e non solo letterario. Riflettano quelli che si vantano di letture bibliche solo «spiritualistiche», senza «grammatica»!
L’uomo che non capì la parola verità
di Armando Torno (Corriere della Sera, 27 luglio 2011)
La famiglia dei Ponzi doveva essere di origine sannita ed era nota già al tempo della repubblica romana. All’epoca di Augusto il nome è diffuso nelle diverse classi sociali e si chiamavano in tal modo i consoli degli anni 17 e 37 della nostra era. Ma il cognomen Pilato è raro, con un significato non facile da definire: potrebbe voler dire «armato di pilum» , la lancia della fanteria romana, oppure «calvo», ma non va escluso nemmeno «arruffato». Ponzio Pilato non doveva avere nobili origini e il pilum ce lo fa immaginare in un accampamento, tra coloro che cominciavano la loro ascesa nei bassi ranghi dell’esercito.
La carriera? Probabilmente merito della moglie Claudia Procula, che sarebbe stata figlia illegittima di Claudia, sposa dell’imperatore Tiberio e nipote di Augusto. La troviamo in Palestina, a Gerusalemme, durante i giorni ultimi di Gesù, anche se le consorti dei procuratori risiedevano a Roma. Del resto, leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua"» (27,19).
L’ipotesi che Pilato fosse «amico di Cesare» - alcuni la fondano sul passo del Vangelo di Giovanni 19,12 - non ha valore e, per ricostruirne il profilo, sono preferibili altri riferimenti, a cominciare da quello rivelato da
un’epigrafe incisa su un masso di calcare, rinvenuta nel 1961 a Cesarea marittima, l’odierna Qaisariyyeh: si leggono il nome e la carica ricoperta, «Pontius Pilatus Praefectus Iudaeae». Sappiamo anche che governò la Giudea per un tempo insolitamente lungo, dal 26 al 36; le ragioni sono da cercarsi quasi sicuramente nel gradimento di Roma. Ma le fonti ebraiche lo giudicano ben diversamente e sia Filone di Alessandria nella Legatio ad Caium che Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche non si lasciano sfuggire occasione per metterlo in cattiva luce. Tra le cause del malumore vi fu anche l’utilizzo che il prefetto fece della cavalleria e delle truppe con armamenti pesanti per reprimere i Samaritani, costato non poche vittime. Proprio a Ponzio Pilato, uomo concreto e deciso, è capitato di incontrare Gesù e di vivere con lui uno dei momenti cruciali della sua vicenda.
A questo magistrato toccò, dopo aver tentato di salvarlo, di farlo flagellare e di consegnarlo ai soldati per l’esecuzione. Dire che fosse l’opposto è quasi un eufemismo, anche per chi non crede nella divinità del suo interlocutore: di certo sappiamo dai Vangeli che tra loro ci fu un colloquio. Anche se il romano non poteva capire in quel momento quello che Gesù gli rispondeva, va detto che secondo quanto si legge nel capitolo 18 del Vangelo di Giovanni i due arrivarono a scambiarsi una serie di considerazioni che poi verranno commentate senza requie da teologi e filosofi.
Sino alle parole cruciali: «Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos’è la verità?".
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei...» (Giovanni 18, 37-38). E quella parola, verità, con la quale si tronca la scena, ci mostra due personaggi distanti che si sono incontrati nel momento cruciale della storia dell’Occidente. Inutile tentare di interpretare ancora una volta le frasi proferite da entrambi, perché per un ebreo verità era emet (significava fermezza, stabilità quando era riferita a persone o cose) e per un romano veritas, che al tempo di Tiberio poteva significare comprendere la realtà delle cose. Pilato forse non aveva mai sentito pronunciare il termine verità in greco, ovvero alétheia, lingua nella quale ci è giunto il Vangelo di Giovanni, ma se anche l’avesse udita in un suo viaggio difficilmente l’avrebbe meditata in quel momento attraverso la filosofia greca. Peccato.
Se ci fosse stato Cicerone... ma la storia non si fa con i se. Nietzsche difenderà Pilato, per Kelsen agì con correttezza, dal IV secolo l’arte cominciò a rappresentarlo nell’atto di lavarsi le mani, anche se quel gesto cela significati ancora da scoprire.
Tuttavia in uno scritto apocrifo del II secolo, il Vangelo di Nicodemo, Gesù risponde alla domanda di Pilato: «La verità è dal cielo». Al che il magistrato romano replica: «Non c’è verità sulla terra?». Il testo va avanti, ma quel che vorremmo ricordare resta il fatto che un interlocutore capiva tutto e l’altro soltanto cose pratiche. I due erano radicalmente diversi nell’anima oltre che nel ruolo. Ha fatto bene Gesù a non rispondere. Poteva permetterselo. La sua vita, sottolineerà Kierkegaard, era la risposta.
I vescovi francesi pubblicano un “Indignatevi!” cristiano
di Amanda Breuer
n “www.lemondedesreligions.fr” del 16 marzo 2011 - traduzione: www.finesettimana.org)
Pubblicato il 10 marzo 2011, Grandir dans la crise (Crescere nella crisi) è un manifesto contro il nostro modo di consumare che, secondo la Conferenza episcopale [francese] ci illude sul vero bene comune, un manifesto contro la deregulation del mercato del lavoro che impedirebbe all’uomo di realizzarsi e contro l’indifferenza generalizzata che indebolirebbe la solidarietà e il senso di responsabilità verso i propri simili.
Ma questo libretto non si limita a constatare e a denunciare, fa anche proposte. La prima misura avanzata: un rafforzamento della corresponsabilità in particolare tra le imprese, i politici, i media e la società civile, ma anche la creazione di un organismo sovranazionale sussidiario che sia a servizio dell’interesse generale. L’autore del rapporto, l’arcivescovo di Rouen Mons. Jean-Charles Descubes, spiega: “Gli organismi internazionali del dopoguerra hanno bisogno di una “trascendenza” per permettere un certo distacco. Un’organizzazione politica gestita unicamente da politici può avere derive in senso totalitario. Allo stesso modo, un’organizzazione economica, quando è regolamentata solo dagli ambienti economici, può diventare pericolosa.”
Sul piano economico, il libro è a favore di una regolamentazione etica delle imprese e del mercato. I vescovi auspicano che i codici di comportamento corretto diventino obbligatori per non penalizzare le società che li applicano. Moralizzare le imprese consisterebbe nello spingerle a realizzare una giustizia sociale al loro interno, a contribuire allo sviluppo socio-economico locale, ad attuare delle politiche di gestione dei danni diretti e collaterali causati all’ambiente naturale e umano, a lottare contro i conflitti di interesse e la corruzione, a rifiutare di essere complici di violazioni dei diritti umani nella loro sfera d’influenza...
Ma i vescovi vorrebbero andare anche oltre per il settore bancario e quello finanziario: obbligarli al credito responsabile, a dare alle esigenze di controllo un peso proporzionale ai rischi corsi dalla collettività, ad assicurare la trasparenza dei guadagni verso il fisco e a ridurre il ricorso all’evasione fiscale: sono alcune delle esigenze espresse. Anche se Grandir dans la crise critica gli eccessi dell’alta finanza, non la tratta da capro espiatorio: “La finanza è essenziale per l’economia. Vogliamo solo mettere l’uomo tra l’una e l’altra”, riassume l’arcivescovo di Rouen.
Politicamente, un organismo sovranazionale, secondo i vescovi, dovrebbe essere in grado di impedire a certi paesi di privilegiare i loro specifici interessi rispetto a quelli di tutta l’umanità. Ma diffidano anche, e a giusto titolo, del populismo ancora molto vivo in Europa: “Non basta condannare le ideologie che speculano sulle paure suscitate dalla globalizzazione, sull’aumento delle differenze culturali o religiose sia all’interno del nostro paese, che in molti altri paesi europei.” Queste paure sono alimentate, a loro avviso, dalla disattenzione per le esigenze fondamentali proprie dell’ordine politico democratico, da un’ingiustizia sociale flagrante, dalla mancanza di equità nella ridistribuzione delle ricchezze, dall’evasione fiscale o da certe forme di discriminazione...
Di fronte a queste derive, la Conferenza se la prende anche con i media. Deplora una corsa all’indice di ascolto e alla redditività, a scapito della formazione di una coscienza civica e dell’apertura a tutti della parola. Di fronte al “trionfo del tempo reale” e del politicamente corretto, i vescovi auspicano che ci sia nei media un ritorno alla riflessione. Approvano tuttavia lo sviluppo della blogosfera, portatrice “di un pluralismo di opinioni e adatta ad uno scambio bilaterale”.
Infine, la partecipazione dei cittadini (attraverso le associazioni, le ONG o l’assunzione di responsabilità politiche) sarebbe, a loro avviso, la pietra angolare di un migliore “vivere insieme”. Ricordano la necessità di compiere i propri doveri di cittadini in particolare quello di votare poiché “se il cittadino non è vigilante, il potere sarà confiscato da interessi privati”, ma anche di pagare le imposte “che permettono allo Stato e alle collettività locali di essere al servizio del bene di tutti”. Infine l’opera difende un umanesimo cristiano tollerante di fronte alla crescita degli estremismi politici. La Conferenza episcopale francese firma un “Indignatevi!”cristiano.
Quando Martini parlò di accidia politica
di Aldo Maria Valli (Vino Nuovo: http://www.vinonuovo.it/, del 5 marzo 2011)
La vicenda Rubygate e dintorni quale sfida comporta per chi partecipa alla politica secondo un’ispirazione cristiana? Ho pensato di poter dare un contributo rifacendomi a una pagina del cardinale Carlo Maria Martini che risale al 1999. Era la vigilia della festa di sant’Ambrogio e quel giorno, nel tradizionale discorso alla città di Milano (intitolato Coraggio, sono io, non abbiate paura!) l’arcivescovo parlò dell’accidia politica, o pubblica accidia, definendola come l’esatto contrario di quella che la tradizione classica greca e il Nuovo testamento chiamano parresìa, ovvero la libertà di chiamare le cose con il loro nome. "Si tratta - disse il cardinale - di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha quale conseguenza un decadimento della sapienzialità politica".
Ecco qua spiegato, in poche righe, un fenomeno al quale abbiamo assistito con grande dolore in questi anni. Da parte di molti, di troppi, dentro la Chiesa c’è stata una mancanza di parresìa. Chierici e laici, politici e intellettuali troppo spesso, pur fregiandosi con ostentazione dell’etichetta di cattolici, sono caduti nell’accidia politica, arrivando a coprire, giustificare, relativizzare. L’espressione più clamorosa sta nello sciagurato commento di monsignor Fisichella alla bestemmia pronunciata da Berlusconi, quando l’alto esponente vaticano invitò a "contestualizzare". Su questa strada si perde tutto: credibilità, profezia, testimonianza.
"Normalmente - diceva il cardinale Martini in quel discorso di dodici anni fa - lo scadimento etico della politica, in un corpo sano, dovrebbe essere rilevato e punito da un calo di consenso". Già: normalmente. Se da noi questo non è avvenuto vuol dire che il corpo non era, e non è, sano. Aristotele diceva che il male è destinato a distruggersi da sé, ma oggi non sembra più così. Perché? E’ questo il terreno sul quale i credenti (preferisco usare questa espressione rispetto a quella, troppo abusata e strumentalizzata, di "cattolici") devono interrogarsi seriamente.
Martini già nel 1999 dava una risposta. Sosteneva che se il degrado etico della politica non viene chiamato con il suo nome e "punito consequenzialmente" (diceva proprio così: punito) ciò avviene a causa della mancanza di un’opinione pubblica degna di questo nome. Laddove questa opinione, questa capacità di elaborazione critica dei dati politici, è debole o non esiste quasi più, la politica è svincolata da ogni limite. Se al posto di una sana opinione pubblica, capace di esprimere una "resistenza condivisa e critica", la politica trova davanti a sé solo individui, ognuno mosso da interessi particolari, il gioco è fatto: il male può dilagare.
Ecco l’operazione tentata dal berlusconismo: far morire l’opinione pubblica riducendola a massa formata da individui ispirati soltanto da un tornaconto personale. Ed ecco perché il berlusconismo non può tollerare le manifestazioni come quella del 13 febbraio: quel mare di donne, ma anche di uomini, è per il berlusconismo il pericolo mortale, la dimostrazione che, per quanto ci abbia provato a lungo e tenacemente, il mondo di plastica del Silvio’s show non ha ancora soppresso e sostituito del tutto il mondo vero.
Martini diceva che il livello d’allarme lo si raggiunge quando "lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso per la polis". Diciamo che il berlusconismo è arrivato a un soffio (stavo per dire un pelo, absit iniuria verbis) da questo traguardo: riuscire a non far percepire più il male come tale. Non c’è riuscito, c’è ancora un margine di manovra, ed è su questo che occorre lavorare.
Cito ancora Martini, veramente profetico: "Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose peraprire gli occhi". Ma i credenti dove sono? Che cosa fanno? Come reagiscono? Il cardinale invitava a invocare lo Spirito (che per i credenti è l’aiuto, il difensore, l’avvocato, il rappresentante della giustizia). Bisogna invocarlo "perché guidi a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso", è perché, là dove lo scoraggiamento si fa strada "scatti un sussulto di profezia pieno di speranza, che faccia aprire gli occhi a quella visione di futuro che in linguaggio filosofico si può chiamare utopia". E’ un vero parlare da pastore che guida il suo gregge. E trovo bellissimo il riferimento all’utopia, la meta che va considerata non come irraggiungibile ma come stimolo continuo.
Ma state a sentire che cosa aggiungeva il cardinale. I cattolici, diceva, vanno spesso incontro a un grande rischio, quello di lasciarsi adulare. Lo spiegava già sant’Ambrogio: "Dobbiamo stare attenti a non prestare ascolto a chi ci vuole adulare, perché lasciarsi snervare dall’adulazione non solo non è prova di fortezza, ma anzi di ignavia". Non è formidabile? Noi sappiamo come Dante sistemò gli ignavi. Poiché in vita non agirono mai in base al principio di bene e di male, limitandosi ad adeguarsi alle convenienze, il poeta li piazza nell’antinferno, una specie di non luogo che non è paradiso, non è purgatorio e non è nemmeno inferno, qualcosa di neutro e incolore, come neutri e incolori furono loro in vita, incapaci di parlare chiaramente e di prendere posizione. Ecco, dice Martini, quando ci viene detto che la posizione dei cattolici in politica deve essere ispirata alla moderazione, io sento puzza di ignavia. E’ vero, c’è certamente una moderazione buona, che si esprime nel rispetto dell’avversario, ma (sentite bene!) "l’elogio della moderazione cattolica, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno".
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per riflettere e discutere. Ma non prima di aver aggiunto che Martini, in quello scritto, esortava i credenti a essere non moderati, ma audaci. Rappresentanti di "una socialità avanzata che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso l’altro". Meditate gente, meditate!
Il problema italiano? È morale
di Angelo Bertani (Europa, 14 gennaio 2011)
Il momento del nostro paese è difficile e preoccupante: «Bisogna andare al fondo del problema che non è politico, ma morale». Lo scrive il cardinale Agostino Vallini, già ausiliare di Napoli ed ora vicario di Roma; insomma, il successore di Ugo Poletti e di Camillo Ruini. E spiega (nell’editoriale di Avvenire, 9 gennaio) che «la passione per il bene comune si affievolisce... dilaga la corruzione dalle forme più vistose... si evade tranquillamente il fisco...cresce la delinquenza organizzata...chi ha tutto non si contenta mai...la scaltrezza e la furbizia sembrano essere virtù...». Di più, cita il Vangelo: «Dal cuore degli uomini escono impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganni, dissolutezze, invidia, calunnie, superbia, stoltezza...” (Marco, 7).
Sembra la radiocronaca di queste settimane. E molti si domandano se l’immoralità consista nell’educazione sessuale a scuola oppure nel fatto che il capo del governo esibisca le sue escort e che un manager, mentre impone pesanti sacrifici agli operai, guadagni non il quadruplo o il centuplo...ma come migliaia di lavoratori: «Lui guadagna milioni di euro, un lavoratore poche migliaia: la differenza è questa» (Raffaele Bonanni, Asca già il 17 settembre 2010).
È da un tale disagio drammatico per le condizioni politiche e morali dell’Italia che nascono varie proposte anche dall’area cattolica. Raniero la Valle sottolinea che bisogna prendere atto di una nuovo pluralismo politico e chiede «una nuova legislatura di ricostruzione e dialogo». Sergio D’Antoni esorta all’«unità d’Italia contro la crisi» (Europa, 12 gennaio). Anche Casini auspica un «patto di pacificazione». Sono posizioni diverse, che convergono tuttavia nella esigenza di immaginare un «nuovo inizio». È sempre più necessario riscrivere regole e progetti comuni per il futuro del paese. Distinguendo la “tesi” (ognuno può immaginare e perseguire il suo ideale, la sua utopia religiosa o laica) e l’«ipotesi» (quello che appare concreto e possibile frutto di una intesa tra persone forze reali).
Perciò sarebbe necessario convenire su quel che scriveva Aldo Moro: «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo...». Al centro c’è un tema: la legge elettorale.
il documento
Presentata l’Esortazione post-sinodale Verbum Domini
Nel testo diviso in tre parti il Pontefice riprende i temi contenuti nelle proposizioni finali dell’Assemblea del Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio svoltasi nell’ottobre 2008 «Un appello a diventare sempre più familiari con le Sacre Scritture» No al fondamentalismo, «tradimento del senso autentico della Bibbia»
Ha radice nella Parola la missione della Chiesa
Dal Papa l’invito a una cura maggiore nell’utilizzo della Scrittura nella liturgia e nella predicazione Nella Bibbia l’origine del dialogo con le altre religioni, ma è necessario garantire ovunque «il diritto e la libertà di professare la propria fede» L’auspicio di Benedetto XVI: tempo di un nuovo ascolto dove il Vangelo è dimenticato Il testo sacro «come grande codice per le culture», nelle scuole e nelle università
DI GIANNI CARDINALE (Avvenire, 12.11.2010).
L’ Esortazione apostolica di Benedetto XVI «Verbum Domini», presentata ieri in Vaticano, è il frutto della XII Assemblea generale del Sinodo su «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa» che si è celebrato nell’ottobre 2008. Il documento porta la data del 30 settembre, memoria liturgica di san Girolamo, a cui la tradizione attribuisce la Volgata, il testo latino di riferimento della Bibbia. È lungo quasi 200 pagine e costituisce, come ha sottolineato la Radio Vaticana «un appassionato appello rivolto dal Papa ai pastori, ai membri della vita consacrata e ai laici a ’diventare sempre più familiari con le Sacre Scritture’, non dimenticando mai ’che a fondamento di ogni autentica e viva spiritualità cristiana sta la Parola di Dio annunciata, accolta, celebrata e meditata nella Chiesa’».
L’esortazione è articolata in tre parti, la prima titolata Verbum Dei, la seconda Verbum in Ecclesia , l’ultima Verbum mundo. E interviene su numerose questioni. Riguardo all’esegesi ribadisce i «tre criteri di base per tenere conto della dimensione divina della Bibbia» e cioè: «1) interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; 2) tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, 3) osservare l’analogia della fede». ll Papa critica invece l’interpretazione fondamentalista della Bibbia. «Il ’letteralismo’ propugnato dalla lettura fondamentalista in realtà rappresenta un tradimento sia del senso letterale che spirituale - scrive - aprendo la strada a strumentalizzazioni di varia natura, diffondendo, ad esempio, interpretazioni antiecclesiali delle Scritture stesse». E osserva che «la rivelazione dell’Antico Testamento continua a valere per noi cristiani», visto che lì si trova «la radice del cristianesimo». Da qui deriva un «legame peculiare tra cristiani ed ebrei, un legame che non dovrebbe essere mai dimenticato».
Parola e liturgia
Riguardo alla liturgia l’Esortazione auspica una «maggior cura della proclamazione della Parola di Dio», e ribadendo l’opportunità di un direttorio omiletico invita poi ad evitare «omelie generiche ed astratte come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione del predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico».
Dialogo con le altre religioni
Il documento offre anche spunti a riguardo del dialogo con le altre religioni e l’islam in particolare.
Benedetto XVI auspica poi che «i rapporti di fiducia, instaurati da diversi anni, fra cristiani e musulmani, proseguano e si sviluppino in uno spirito di dialogo sincero e rispettoso».
Ma aggiunge che «il dialogo non sarebbe fecondo se questo non includesse» la «reciprocità in tutti i campi» e il riconoscimento della «libertà di professare la propria religione in privato e in pubblico, nonché la libertà di coscienza». «Ci stringiamo - si legge poi nell’Esortazione - con profondo e solidale affetto ai fedeli di tutte quelle comunità cristiane, in Asia e in Africa in particolare, che in questo tempo rischiano la vita o l’emarginazione sociale a causa della fede». «Nel contempo - afferma ancora il documento - non cessiamo di alzare la nostra voce perché i governi della Nazioni garantiscano a tutti la libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente».
«La Chiesa - afferma Benedetto XVI - deve andare verso tutti con la forza dello Spirito e continuare profeticamente a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a rischio della persecuzione».
L’incontro con le culture
L’Esortazione auspica poi anche un «rinnovato incontro tra Bibbia e culture»: «vorrei ribadire a tutti gli operatori culturali - scrive il Pontefice - che non hanno nulla da temere dall’aprirsi alla Parola di Dio; essa non distrugge mai la vera cultura, ma costituisce un costante stimolo per la ricerca di espressioni umane sempre più appropriate e significative». Non manca a questo riguardo un appello per la promozione della conoscenza della Bibbia, «come grande codice per le culture», nelle scuole e nelle università, «vincendo antichi e nuovi pregiudizi», nonché la sollecitazione a «un impegno ancora più ampio e qualificato» nel mondo dei mass media e in particolare su internet, «che costituisce un nuovo forum in cui far risuonare il Vangelo, nella consapevolezza, però, che il mondo virtuale non potrà mai sostituire il mondo reale».
Nuova evangelizzazione
Insomma - si legge nella parte conclusiva dell’Esortazione - «il nostro dev’essere sempre più il tempo di un nuovo ascolto della Parola di Dio e di una nuova evangelizzazione... soprattutto in quelle nazioni dove il Vangelo è stato dimenticato o soffre l’indifferenza dei più a causa di un diffuso secolarismo». I NUMERI
NELLE 24 CONGREGAZIONI GENERALI GLI INTERVENTI DI 253 PADRI SINODALI
La XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi si tenne dal 5 al 26 ottobre 2008 in Vaticano, sul tema «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa». Un evento che vide convergere a Roma almeno 400 partecipanti, tra i quali 253 Padri sinodali. Di questi 51 venivano dall’Africa, 9 dall’Oceania, 62 dall’America, 90 dall’Europa e 41 dall’Asia. Inoltre 173 erano stati eletti, 38 partecipavano «ex officio», 32 erano stati nominati dal Papa e 10 erano stati eletti dall’Unione dei superiori generali. Ad affiancare i padri sinodali, inoltre, c’erano 41 esperti e 37 uditori, oltre ai delegati fraterni in rappresentanza di 10 Chiese e comunità ecclesiali. Dal punto di vista della comunicazione le tre settimane di lavori, con 24 Congregazioni generali e quattro celebrazioni assieme a Benedetto XVI, furono seguite, oltre che dai giornalisti permanentemente accreditati, anche da altri 106 corrispondenti da 21 Paesi in rappresentanza di 72 testate: per loro si tennero dieci «briefing» e quattro conferenze stampa. La divulgazione dei lavori fu possibile anche grazie alla pubblicazione di 39 numeri del «Bollettino Synodus Episcoporum». In formato elettronico furono diffusi 320 testi in cinque lingue e la sezione dedicata del sito vaticano, tra il 3 e il 23 ottobre 2008 ebbe 240.253 accessi. Per quanto riguarda, infine, le proposizioni consegnate dai padri sinodali al Papa furono 55, divise in tre parti, precedute da un’introduzione con due proposizioni e seguite da una conclusiva. (M.Liut) LE DATE
L’ANNUNCIO DEL TEMA IL 6 OTTOBRE 2006
Il lungo iter della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi su «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa» prese avvio ufficialmente il 6 ottobre 2006, quando venne reso noto il tema scelto dal Papa. Il Consiglio ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, poi, si riunì a ottobre 2006 e a gennaio 2007 per elaborare lo schema e il contenuto dei «Lineamenta». Questo documento di base, poi, ultimato il 25 marzo 2007, venne presentato il 27 aprile 2007 ed era diviso in tre capitoli: «Rivelazione, Parola di Dio, Chiesa», «La Parola di Dio nella vita della Chiesa» e «La Parola di Dio nella missione della Chiesa». Ogni capitolo riportava alcune domande, cui ognuno dei destinatari dei «Lineamenta» era chiamato a rispondere entro il novembre 2007. Da quelle riflessioni scaturì l’«Intrumentum laboris», le linee guida per il dibattito sinodale, che vennero completate l’11 maggio 2008 e presentate il successivo 12 giugno. Il 5 ottobre l’apertura dell’Assemblea ebbe luogo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, luogo scelto per sottolineare la concomitanza con l’Anno Paolino voluto da Benedetto XVI. Un momento particolare dei lavori furono i Primi Vespi della XXIX Domenica del Tempo ordinario nella Cappella Sistina presieduti dal Papa il 18 ottobre in occasione della presenza al Sinodo del patriarca ecumenico Bartolomeo I. Al termine dei lavori, il 24 ottobre fu approvato un «Messaggio al Popolo di Dio» da parte dell’Assemblea, mentre il giorno seguente i padri sinodali consegnarono le 55 proposizioni finali a Benedetto XVI. Proprio da quelle conclusioni nasce il documento che è stato presentato ieri. (M.Liut)
È ormai tempo di svegliarvi dal sonno (Rm 13,11)
di Mons. Giuseppe Casale (Adista - Segni nuovi, n. 87, 13 novembre 2010)
Per i cattolici italiani è giunto il tempo di un severo esame di coscienza. Quali responsabilità di fronte ai guasti della vita pubblica che si fanno ogni giorno più gravi? E non parlo solo dei quotidiani scandali che riempiono le pagine di cronaca. Parlo del degrado della vita politica e della tranquilla accettazione di un metodo di governo che promette illusioni e lascia affogare il Paese nella “monnezza”. Non solo a Napoli e a Palermo, ma dovunque si vive di malaffare, di illegalità, di soprusi.
Come hanno reagito i cattolici all’indegno trattamento riservato a migliaia di migranti (tra cui tanti profughi) respinti in veri campi di concentramento? Invece di reagire all’operato del governo, hanno applaudito o tacitamente acconsentito, preferendo difendere il loro risicato benessere, che si fa ogni giorno più precario. Chi ha levato la voce contro una situazione del lavoro che vede disoccupati migliaia di giovani e costringe tanti operai a sopravvivere con la cassa integrazione? Non è sufficiente tenere in regola i conti dello Stato. Questo può farlo qualunque buon ragioniere. È urgente un’azione che ponga fine agli squilibri esistenti tra chi ha molto (in alcuni casi, troppo) e chi non ha niente, tra chi sguazza nel lusso e chi stenta a mettere insieme quanto serve per le quotidiane necessità. Abbiamo detto molte belle parole. Ma non abbiamo avuto il coraggio di denunciare i mali di un capitalismo globalizzato che aumenta i dividendi delle anonime finanziarie (vere centrali di ingiustizia) e tratta gli operai come merce di scambio. Quanti cattolici che si riempiono la bocca di dottrina sociale cristiana sono pronti ad impegnarsi di persona, non per la conquista di un pezzo di potere, ma per un cambiamento che ponga al centro del dibattito i temi della pace, del disarmo, della solidarietà?
È giusto difendere la vita dall’inizio alla sua conclusione. Ma è ancora più urgente difendere la vita di milioni di bambini che muoiono di fame. È ancora più urgente impegnarsi per la pace tra i popoli, scoraggiare i risorgenti nazionalismi. Il governo, invece di far propaganda per innamorare i giovani per la vita militare, li aiuti a inserirsi nel mondo del lavoro, crei tutte le occasioni per non lasciare inoperose migliaia di braccia e di menti, per cui tanto si è speso negli anni della formazione scolastica. Ai cattolici dico: è tempo di agire. Non sognando un nuovo partito cattolico o di cattolici. Non mirando a una fetta di potere. Ma operando in tutti i settori della vita pubblica con una coraggiosa testimonianza di onestà e di competenza.
Ai cristiani di Roma Paolo lanciava un forte monito: “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno” (Rm 13,11). Abbiamo dormito troppo. Abbiamo troppo pensato al nostro interesse personale, a una sterile difesa dei diritti della Chiesa. I diritti della Chiesa sono i diritti dei poveri, degli emarginati, degli esclusi, degli oppressi da una società che riesce ad attutire o a spegnere qualunque sussulto di rivolta contro l’imperante conformismo. Di quel perbenismo che concilia il dirsi cattolico e il vivere una vita di immoralità e di menzogna.
È ormai indilazionabile l’impegno a porre a base della nostra vita non la ricerca del potere, ma il servizio, praticando la carità che è la “pienezza della legge” (Rm 13,1). Non c’è legalità se non c’è un forte sussulto di amore, di gratuità, di condivisione.
* Arcivescovo emerito di Foggia-Bovino
Il Papa, Ruini e la rivolta degli atei devoti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano” , 11 febbraio 2010)
Sulla Curia attonita è calata la parola di Benedetto XVI in difesa di Bertone e di Vian. Ma ora è la rivolta degli atei devoti. Ferrara sbeffeggia il comunicato e il Giornale irride: “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”.
Eccoli i rimasugli imprevisti e velenosi del lungo regno del cardinal Ruini, che dopo il crollo della Dc pensò di posizionare la Chiesa al centro del gioco politico. Scegliendosi alleati in campo cosiddetto “laico”, difensori improvvisati di un cristianesimo senza Cristo, araldi dell’identità cattolica d’Italia nel nome di un Vangelo agitato come libretto di Mao. Contro gli “uomini di Bertone” lancia frecciate sprezzanti Giuliano Ferrara, evangelista del pensiero ratzingeriano e infaticabile combattente a fianco delle gerarchie ecclesiastiche contro la 194 o i Dico o il testamento biologico.
La smentita vaticana, motteggia, è “squillante e molto tardiva”, di una “violenza verbale inconcludente”, stilata per “silenziare e mettere alla gogna l’informazione laica, libera, amica che denuncia il fattaccio”.
Doveva succedere prima o poi. Se la Chiesa, durante il ventennio ruiniano, è stata gestita come soggetto partitico, manovrata come un Comitato centrale per organizzare astensioni ai referendum, animare manifestazioni di piazza contro disegni di legge, intimidire governi... doveva finire che i mass media la considerassero alla stregua di un partito come gli altri, con le sue fazioni e i suoi intrighi, e che gli “alleati” di ieri si lanciassero a gettare benzina sulle divisioni interne come succede nel teatrino politico.
L’iperpoliticizzazione ruiniana ha condotto la Chiesa a perdere la sua “diversità”. Perché una cosa è combattersi nei ranghi ecclesiali su temi come il Concilio, il negazionismo, la sessualità, il rapporto con l’islam, altro è lasciare che venga proiettata l’immagine di corvi che portano pacchi maleodoranti di nido in nudo.
Un tale degrado d’immagine non si era mai visto in epoca contemporanea. E il verminaio è stato prodotto proprio da coloro che la strategia ruiniana aveva eletto come punta di diamante dell’inf luenza cattolica in partibus infidelium.
Gli elefantini allegramente neo-integralisti, “alla laica”, il cardinale Ruini, da presidente della Cei, se li era bene allevati. Facevano da pendant perfetto agli arditi ciellini. Gli ossequienti alla Ferrara tornavano utili per dare smalto al Comitato Scienza e Vita (sapiente mix di cattolici e agnostici), messo in piedi dietro le quinte dall’allora dirigenza Cei, per imporre la linea astensionista al referendum sulla fecondazione assistita.
Tornavano utili per predicare contro le “stragi” dell’aborto e buttare bombe intellettuali contro l’I l l u m i n ismo, nell’esaltazione delle perenni “radici cristiane” dell’Italia e dell’E u ro p a Nel 2006 al convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona il cardinal Ruini incoraggiò Benedetto XVI all’e l ogio degli atei devoti, portati in palmo di mano perché erano testimoni dell’“insuf ficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’e t ica troppo individualista”. Elogiati perché sensibili alla “gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”. Erano - s c a ndì Benedetto XVI - una “grande opportunità” che la Chiesa italiana doveva “cogliere”.
Si è visto. In queste settimane la “grande opportunità” ha armato la canizza assieme ai ciellini e ai falchi ruiniani contro l’Osservatore Romano per mettere al tappeto il cardinale Bertone. E adesso che il Papa (malvolentieri, peraltro) è dovuto intervenire di persona, Ferrara demolisce il comunicato, smontandone la “violenza verbale inconcludente ” e accusando nuovamente Vian di avere avvalorato la “cacciata di uno stimato giornalista cattolico” come Boffo. Mentre il G i o rnale, in passato estremamente rispettoso nei confronti della Chiesa, invita il Papa a informarsi “in tre minuti” della fondatezza della condanna per molestie di Boffo. In questo girotondo di bande il mondo dei fedeli cattolici appare ferito, disgustato e disorientato.
Alcuni punti fermi sono tuttavia acquisiti. La “velina”, che Feltri pubblicò l’agosto scorso, è nata in ambienti cattolici milanesi: avversari di Boffo per la concentrazione di potere avvenuta nelle sue mani come zar del sistema mediatico cattolico (Avvenire, la televisione della Cei, la rete delle radio cattoliche) e come portavoce politico di Ruini ormai in pensione. La “velina” è stata spedita in primavera, con buste e francobolli vaticani, all’indirizzo di circa duecento vescovi. Sarebbe morta nei cassetti se Feltri non l’avesse messa in pagina per punire Boffo, reo di avere criticato su Avvenire Berlusconi per l’affare escort. Il paradosso è che Boffo, solo premuto dalla base cattolica e con l’assenso del nuovo presidente della Cei Bagnasco, aveva attaccato il premier. Prima dello scandalo aveva sempre seguito la linea Ruini favorevole al centro-destra. Anche Bertone, il “nemico” di Ruini, è peraltro favorevole al centrodestra. Perciò fece intervenire ai primi di settembre Vian con un’intervista al Corriere della Sera per bacchettare l’Avvenire: proprio per salvaguardare i buoni rapporti istituzionali con Berlusconi. Un gioco degli specchi.
Emarginato Boffo, si sono mossi ora a gennaio gli atei devoti e manipoli ciellini e ruiniani per “ridare l’onore” all’ex direttore dell’Avvenire e mettere in difficoltà Bertone diventato troppo potente in Vaticano. Ma nel polverone del campo di battaglia si stagliano alcuni fatti precisi. Feltri dichiara chiuso il caso e annuncia che non “rivelerà” nomi. (E Berlusconi, con le elezioni incombenti, dichiara d’i mprovviso di essere tanto dispiaciuto per gli attacchi portati a Boffo a mezzo stampa).
Bagnasco continua in silenzio la sua “linea pastorale” né con Bertone né con Ruini. E lo scarno comunicato Cei testimonia la volontà di non mettere neanche un dito nel verminaio. I grandi porporati della Chiesa italiana - Scola, Sepe, Tettamanzi, futuri protagonisti del Conclave - tacciono, per mostrarsi superiori a queste miserie. E i cardinali di Curia stranieri sospirano: “Robe tutte italiane”.
Sinodo dei vescovi: nella segreteria generale tra i sette nuovi consultori, due sono italiani *
ROMA. Benedetto XVI ha nominato ieri sette prelati come consultori della segreteria generale del Sinodo dei vescovi. Tra di essi due italiani, monsignor Ermenegildo Manicardi, rettore dell’Almo Collegio Capranica, e padre Paolo Martinelli, preside dell’Istituto Francescano di Spiritualità presso la Pontificia Università Antonianum, e professore di Teologia dogmatica e di Teologia spirituale presso la Pontificia Università Gregoriana. Gli altri nuovi consultori sono monsignor Markus Graulich, promotore di giustizia sostituto presso il Supremo Tribunale della Segnatura apostolica; monsignor Godfrey Igwebuike Onah, vice rettore della Pontificia Università Urbaniana; padre Paul Béré, professore di Antico Testamento e Lingue bibliche, presso l’’Institut de Théologie de la Compagnie de Jésus’ dell’Université Catholique de l’Afrique de l’Ouest, ad Abidjan (Costa d’Avorio), e presso l’’Hekima College Jesuit School of Theology’ di Nairobi, in Kenya; padre Juan Javier Flores Arcas, rettore del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo; e infine padre Samir Khalil Samir, professore di Storia della cultura araba e di islamologia presso l’Università «St Joseph» di Beirut, in Libano
* Avvenire, 23.12.2009
IL LIBRO
Ma questi angeli come volano basso...
Il filosofo Agamben cura una ponderosa antologia su cherubini & C. nei tre grandi monoteismi. Peccato che, per la fede cristiana, la descrizione dei poveri messaggeri alati risulti quanto meno sconcertante: essi sarebbero snob, burocrati, mercenari, incapaci di pentimenti e persino tristi... Del resto, secondo l’autore sono i nunzi della secolarizzazione.
di Roberto Beretta (Avvenire, 27 Novembre 2009)
Altro che «puri spiriti»... Gli angeli sono «esseri politici». Anzi, si può sostenere che ogni governo li abbia presi a modello per la sua organizzazione: non per niente alcune schiere celesti portano nomi inequivocabilmente "governativi": «Troni», Dominazioni», «Potestà», «Principati». E poi gli angeli sono chiamati a ricoprire «uffici» e a compiere «missioni» tal quale un terrestre ambasciatore o un sottosegretario ministeriale... Insomma, dacché lo pseudo-Dionigi l’Areopagita intitolò De coelesti hierarchia l’opera che alle superne essenze volle dedicare, la scala del potere deve agli angeli un riferimento fondamentale.
Certo, l’ultima cosa a cui penseremmo davanti a un ministro moderno è che abbia delle ali di scorta nell’auto blu. All’opposto, ci sembrerebbe di far torto a cherubini e serafini paragonandoli a un pubblico amministratore. Eppure non la pensa così il filosofo Giorgio Agamben, curando insieme con Emanuele Coccia per Neri Pozza la monumentale antologia Angeli (pp. 2012, euro 70), che proclama di occuparsi di Michele e soci dal punto di vista interreligioso di «ebraismo, cristianesimo, islam».
Infatti fin dall’introduzione Agamben traccia il suggestivo legame tra angelologia e politica: «Angeli e burocrati tendono a confondersi», azzarda per esempio il teorico veneziano. E sostiene che sotto le penne dei cittadini paradisiaci si cela una duplicità funzionale e teorica basilare: azione e contemplazione, lode (di Dio) e governo (del mondo), appunto. Gli angeli sarebbero il trait-d’union tra la visione gnostica di un Onnipotente che ha orrore della materia e quella aristotelica del Padreterno motore di infiniti ingranaggi storici; persino il male - impossibile a Dio! - viene risolto con un intervento angelico: di Lucifero, il decaduto.
Teoria suggestiva e intellettualmente stimolante, in una materia spesso adagiata su un devozionalismo banale. Ma quanto davvero gli angeli di Agamben siano «cattolici», è tutt’altra faccenda. In effetti, e considerando del volumone solo la parte centrale dedicata appunto al cristianesimo (per giudicare il lavoro sulle altre due fedi manca la competenza), gli angeli che svolazzano in quei paraggi sembrano parecchio - diciamo così - «alternativi».
Anzitutto Emanuele Coccia, il docente di filosofia medievale che cura la sezione, li dipinge come esseri assolutamente non personali: «Non parlano mai in prima persona», non prendono posizioni e non hanno opinioni, «il tempo scivola su di loro», non hanno nemmeno nomi perché quelli che li definiscono sono «soprannomi» che definiscono la loro funzione...
«Non sono mai ciò che sembrano, la prima e più evidente proprietà è un’irriducibile ambiguità... Nelle loro azioni non esprimono nulla di ciò che davvero sono... Creature integralmente "senza qualità"». Così Coccia, e si capisce che siamo lontani dal catechismo. «L’angelo è incapace di dire autenticamente "io"», continua il professore: e potrebbe essere bellissimo, perché ciò indica un ente talmente immerso nella realtà che lo invia, da identificarsi con essa e "dimenticare" se stesso; trattandosi poi di un ambasciatore, si potrebbe sostenere - capovolgendo McLuhan - che qui è «il messaggio a diventare il mezzo».
Gabriele come rovesciamento della Tv, dunque? L’Annunciazione quale contraltare dell’etere? Sottigliezze intellettuali accattivanti, magari anche misticamente appetibili: ma che allontanano ancor più la realtà angelica dalla terra, la rendono più impalpabile delle piume di cui li ha rivestiti la decorazione barocca delle chiese. E che ce ne importa, a noi, di angeli così? Si capisce perché - son sempre parole di Coccia - «una nota di insopprimibile malinconia colora tutti i loro sforzi»; e poi, collegandosi ad Agamben: «L’angelo mostra la necessaria e paradossale tristezza connessa all’esercizio del potere... costretto sempre e solo a occuparsi del benessere altrui»: ma se proprio questo, nel cristianesimo, conduce alla massima felicità!
Insomma, il filosofo ha preso la scia degli esseri alati e vola sopra Berlino come si addice al più eccelso degli idealisti. Le prove non mancano davvero: anche se talvolta non si risolvono affatto in lode dei poveri cherubini... Gli angeli sono degli snob: sì, perché talvolta sembrano invidiosi degli uomini, e questo li conduce o alla ribellione o al servilismo. Gli angeli sono gregari, «a tal punto da non saper far altro che imitarsi reciprocamente». Gli angeli vivono in «una società chiusa, totalitaria, interamente composta di funzionari». Peggio: gli angeli «sono mercenari al soldo del loro stesso creatore. Ogni angelo è moralmente spaventoso» in quanto incapace «di qualsiasi forma di pentimento o rimorso». E ancora «l’angelo è ciò che impedisce all’umanità di costituirsi da sola: finché vi saranno angeli, un dio continuerà a disturbare i sogni di ogni uomo».
A questo punto ci si arresta piuttosto perplessi, pensando a certi bonari angioletti tizianeschi che guardano giù dalle nubi come puttini tutt’altro che «spaventosi». Ma è solo dopo 80 serrate pagine che Coccia assesta il colpo finale, come sempre acuto e laicissimo: «Un angelo è colui che parla al posto di Dio, opera al posto di Dio. È curioso notare come l’esistenza angelica riassuma perfettamente il progetto in cui si è compendiato lo spirito della modernità: mettere l’uomo al posto di Dio... È l’angelo l’operatore per eccellenza della secolarizzazione, nel senso letterale della parola: è lui a trascinare la divinità nel secolo, a renderla umana». Il gioco di prestigio intellettuale è compiuto: ciò che prima era fin troppo etereo, adesso è addirittura materialista. Affascinante, forse. Ma che gli angeli del cristianesimo siano proprio questi, non ci scommetteremmo affatto.
Roberto Beretta
Cei, i vescovi in assemblea ad Assisi
Bagnasco: "Basta odio, serve disarmo"
ASSISI - Basta con un clima di odio "pericoloso" per l’Italia, basta con una "conflittualità sistematica" che abbandona i cittadini a se stessi e li porta a disaffezionarsi verso la loro nazione: con un forte appello al "disarmo" nella vita pubblica il presidente dei vescovi italiani, cardinal Angelo Bagnasco, ha aperto stasera ad Assisi la sessantesima assemblea generale della Cei. A tutti gli schieramenti ha chiesto "onestà intellettuale", "buona volonta" e il superamento di "matrici ideologiche" che sembrano "rigurgitare da un passato che non vuole realmente passare".
Clima politico. "E’ necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese intero", dice il presidente Cei. "Ci piacerebbe - spiega il presidente dei vescovi italiani - che, nel riconoscimento di una sana, per quanto vivace, dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente".
Scuole cattoliche. L’auspicio che i fondi destinati al sistema dell’istruzione non statale, cioè alla scuola libera non siano tagliati nella prossima Finanziaria è stato formulato dal cardinal Bagnasco. "Ci si augura - ha detto il presidente della Cei - che le cifre inizialmente previste con decurtazioni consistenti, possano essere prontamente reintegrate in modo da consentire agli enti erogatori dei servizi di mantenere gli impegni già assunti".
Crisi economica. L’Italia "oggi come non mai" dovrebbe rivelarsi "scattante" per "cogliere al balzo i cenni di uscita dalla crisi e potenziarli, così da accorciare le sofferenze che la situazione dell’economia mondiale ha finito per scaricare sulle categorie più deboli, specialmente sul fronte del posto del lavoro", sottolinea Bagnasco. "Il Paese - osserva il porporato - deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito".
Imprenditori. Nella sua prolusione, Bagnasco incoraggia poi l’imprenditoria italiana a farsi onore anche all’estero. "Una creatività operosa, una collaudata professionalità, una generosità solidale qualificano solitamente - rileva il presidente della Cei - l’apporto italiano ovunque si esplichi nel mondo, ben oltre gli stereotipi ingenerosi".
Immigrati. "Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, quasi a ponte tra Nord e Sud del mondo, è chiamato a rinvigorire la propria tradizionale apertura ai popoli africani, aiutandoli anzitutto a promuovere il loro sviluppo interno", afferma il presidente della Cei. Bagnasco esorta a trovare "le formule più adeguate per un partenariato in grado di onorare la nostra e altrui dignità".
Africa. Dopo aver fortemente rimproverato in più occasioni le manipolazioni delle parole del Papa riguardo all’Aids e i preservativi, Bagnasco, torna a lamentare che nuovi interventi di Benedetto XVI sull’Africa, in particolare in occasione del Sinodo, "hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento". L’Italia, auspica il presidente della Cei, è chiamata a "rinvigorire la propria tradizionale apertura ai paesi africani" in un partenariato "in grado di onorare la nostra e altrui dignità":
Sudan. "Anche il nostro è tempo di martiri, per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile", afferma Bagnasco. Il presidente della Cei rileva la "risonanza" che ha avuto nelle settimane scorse, "ma assai di più ne avrebbe meritato", l’annuncio "choccante" che sette cristiani sono stati orribilmente uccisi nel Sudan meridionale "in una macabra parodia della crocifissione".
L’Aquila e Messina. Le tragedie per cause naturali che "ciclicamente colpiscono il territorio nazionale", come quelle verificatesi all’Abruzzo e a Messina, dice Bagnasco, "invocano una disponibilità da parte di tutte le forze politiche a scelte risolutive sulle annose questioni che rendono debole il sistema-Italia".
Media. Nel rapporto tra la Chiesa e i media "si annidano alcuni motivi di sofferenza". "Non di rado - denuncia il presidente della Cei - c’è, da una parte, una sottovalutazione del concreto-essenziale nella vita della Chiesa, di ciò che le consente di essere nonostante tutte le resistenze e le avversità, e - dall’altra - la tendenza a far figurare preponderante ciò che non lo è". Secondo Bagansco, "quando si trascura o si ignora il quadro delle priorità nel quale si collocano i singoli eventi o pronunciamenti del Pontefice e dell’Episcopato diventa difficile evitare rappresentazioni parziali o fuorvianti, critiche ideologiche e finanche preconcette, letture volte ad attribuire intenzioni o parole che non hanno motivo di esserci in quei termini".
"In ogni singola circostanza - spiega con le parole del Papa - alla Chiesa preme, in nome del Vangelo, partecipare alla vita del Paese, e portare il proprio contributo nel libero dibattito culturale e sociale lieta e grata di essere raccontata dai media per gli argomenti che ella attinge dalla fede come dalla ragione". Bagnasco sottolinea che "nel corso dei lavori assembleari" i vescovi parleranno dell’immagine della Chiesa "nella sua proiezione mediatica", ma nella prolusione si astiene dal "fare anticipazioni". E così i nomi dei successori di Dino Boffo alla guida di Avvenire, Sat 2000e Radio In Blu restano ancora sconosciuti.
Crocifisso. Di fronte alla ’’surreale’’ sentenza emessa dalla Corte europea di Strasburgo a proposito della presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane, ’’bene ha fatto il Governo ad annunciare ricorso’’. Dice Bagnasco che parla di una sentenza ’’sorprendente’’ e ’’alquanto surreale’’. "Un’impostura" di minoranze esigue che rischiano di far allontanare l’Europa dalla gente.
Il Muro di Berlino. A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, l’Europa, afferma il presidente della Cei "ha ripreso a respirare con entrambi i suoi polmoni". Ma mentre "cambiamenti vorticosi si sono succeduti" purtroppo "difficoltà inedite sono affiorate ad Ovest come ad Est, dove l’elemento della secolarizzazione ha finito con l’imporsi quale denominatore comune più rapidamente di quanto si sia radicato il costume democratico". "Sappiamo - spiega - che alla base del cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o strutture burocratiche, perchè le une e le altre, pur necessarie, non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile per sentirsi comunità"
Islam e ora di religione. La Cei ribadisce le proprie riserve sull’ora di religione islamica. "Non è in discussione - ha spiegato Bagnasco - la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che, in uno stato positivamente laico, sono di ordine culturale ed educativo". Il porporato, aprendo stasera ad Assisi l’assemblea generale della Cei, ha ribadito che l’insegnamento della religione cattolica "non è un’ora di catechismo" ma una occasione di conoscenza di una fede che fa parte del "patrimonio storico del popolo italiano".
Ru 486. Dopo la registrazione della Ru 486 da parte dell’Aifa "non si potrà non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità dell’obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare direttamente o indirettamente ad un atto grave", afferma il cardinale.
Cattolicesimo. "La nostra Chiesa - afferma Bagnasco - non si riconosce in una ’religione civile’ a servizio di qualche potere, ma si identifica nella missione che le è stata affidata, quella di annunciare a tutti il mistero di Cristo con le implicazioni che ne conseguono sul piano antropologico, etico, cosmologico e sociale".
Il nuovo rito delle esequie. La nuova edizione italiana del rito delle esequie, dice il presule, sarà pubblicata dai vescovi italiani "con l’intendimento di volerne esplicitare le virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù dinanzi al mistero della morte".
Morte, giudizio, Inferno. "Morte, giudizio, inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli. Rappresentano invece il traguardo da lumeggiare con la Parola risanatrice di Dio, senza fatalismi o sotterfugi scaramantici", dice Bagnasco. Il cardinale ha poi proseguito spiegando che morte, giudizio, inferno e paradiso, "sono tappe di una vita che va oltre la morte e sfocia nella vita eterna. Ciò che saremo non sappiamo descriverlo, ma esiste".
Anglicani. Il cardinale Bagnasco plaude alla decisione del Papa di aprire le porte a quegli anglicani che ne hanno fatto richiesta in quanto non si sentivano più in comunione con la loro Chiesa: è questo un gesto che non indebolisce l’ecumenismo ma anzi lo rafforza in quanto il vero problema odierno è la scomparsa di Dio dall’orizzonte degli uomini, ha spiegato.
* la Repubblica, 9 novembre 2009
I quarant’anni della Federazione biblica cattolica che ha contribuito al rinnovamento spirituale della Chiesa dopo il concilio
Lo sguardo verso l’alto e l’orecchio teso
di Vincenzo Paglia
Vescovo, presidente
della Federazione biblica cattolica
A poco più di quaranta anni dal Vaticano II si può affermare che l’auspicio a fare delle sante Scritture l’anima della vita spirituale e pastorale delle comunità ecclesiali non è stato disatteso. Da allora infatti si è avviato uno straordinario processo di riacquisizione delle Scritture da parte dell’intera comunità ecclesiale e se ne vedono gli effetti profondi nella vita del popolo cristiano. Lo stesso movimento ecumenico trova nella rinnovata attenzione alla Bibbia un terreno propizio di dialogo - vedi riquadro, Parola di Dio ed ecumenismo. Nella Chiesa cattolica possiamo dire che si è sviluppato un vero e proprio "movimento biblico" che, rispetto a quello che ha preceduto il concilio Vaticano II, ha interessato la vita della Chiesa in tutti i suoi ambiti. Anche solo un veloce sguardo ai testi del magistero sulla sacra Scrittura fa vedere lo straordinario cammino compiuto rispetto ai secoli precedenti. Giovanni Paolo II, a venti anni dalla Dei Verbum, presentando il documento della Pontificia Commissione Biblica sulla interpretazione della Bibbia, affermava: "È motivo di gioia vedere la Bibbia presa in mano da gente umile e povera, che può fornire alla sua interpretazione e attualizzazione una luce più penetrante, dal punto di vista spirituale ed esistenziale, di quella che viene da una scienza sicura di se stessa".
Il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio si è rivelato un chairòs in tale contesto, un vero e proprio momento di grazia. Le 54 proposizioni votate dai padri sinodali, e che il Papa ha voluto che fossero pubblicate immediatamente, mentre registrano la ricchezza del cammino compiuto in questi decenni del dopo-concilio, testimoniano altresì il vivace dibattito sinodale che ha aperto notevoli prospettive teologiche e pastorali. Ovviamente, siamo tutti in attesa dell’esortazione apostolica post-sinodale per poter accogliere con slancio quanto il Santo Padre vorrà dire alla Chiesa. Si deve comunque constatare che già in questi mesi passati sono state molte le iniziative in varie parti del mondo rivolte a presentare i lavori del sinodo in particolare attraverso il bel messaggio finale. C’è un’attesa diffusa di quanto il Santo Padre ci dirà perché la Parola di Dio possa ancor più ispirare la vita e la missione della Chiesa nei diversi continenti.
Una osservazione mi pare importante sottolineare a tale proposito e che potrebbe segnare qualitativamente una nuova tappa nel riappropriarsi delle sante Scritture da parte del popolo di Dio. A dire il vero, la indica già da tempo lo stesso Benedetto XVI: la Parola di Dio accolta come "fonte" della vita spirituale e pastorale.
Il Papa, particolarmente nelle sue omelie, fa della Parola di Dio la fonte e il cuore del messaggio che vuole trasmettere. È una prospettiva che dovrebbe far arretrare quell’atteggiamento, spesso diffuso, che pone al centro non la Parola e quel che essa suggerisce, ma il proprio pensiero, le proprie prospettive che semmai cercano nella Bibbia qualche "appoggio". Le Scritture non sono un "bastone" per le nostre idee, sono la fonte ispiratrice della nostra vita, dei nostri pensieri, della pastorale.
Ricordo un piccolo episodio significativo di questa tendenza che ci fa pensare. Un vescovo, terminata la stesura di una sua lettera pastorale, inviò il dattiloscritto a un esegeta dicendogli: "Vi aggiunga qualche bella frase biblica". Le sante Scritture non sono un supporto alla nostra vita spirituale e pastorale, debbono esserne le ispiratrici. Lo hanno rilevato molto bene i vescovi nel corso dei lavori sinodali. Ed è anche l’esperienza che sgorga dalla Federazione Biblica Cattolica - che in questo anno ricorda il suo quarantesimo di fondazione - che ha promosso con generosità ed efficacia la "pastorale biblica" nei diversi paesi del mondo. I frutti sono stati davvero straordinari. Ma proprio tale fruttuoso impegno spinge ad avviarsi con decisione verso un nuovo traguardo, ossia passare da quella che chiamiamo la "pastorale biblica" alla "ispirazione biblica dell’intera pastorale". Era quel che lo stesso Vaticano II in verità auspicava: le sante Scritture siano "l’anima" della vita e della missione della Chiesa, la sua fonte, la sua origine, la sua ispirazione. Lo si deduce, tra l’altro, dall’incipit della stessa Dei Verbum: "In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia".
L’allora giovane teologo, Joseph Ratzinger, commentando queste poche parole, affermava che non si sarebbe potuta esprimere meglio l’essenza della Chiesa: una comunità interamente schiusa "verso l’alto...", la cui "piena essenza è riassunta nel gesto dell’ascolto, unico gesto da cui può derivare il suo annuncio".
All’inizio di questo millennio il Sinodo dei vescovi è tornato a richiamare questa antica e sempre nuova verità dell’ascolto della Scrittura come fonte della sapienza e della forza della Chiesa. Nel primo millennio della storia cristiana questa centralità è apparsa in maniera esemplare: vescovi e monaci, pastori e semplici fedeli, hanno sentito la Scrittura come il cuore pulsante dell’intera loro vita, spirituale, teologica, pastorale, familiare, ecclesiale. Ebbene, quel che il Sinodo dei vescovi si propone è di spingere tutti a ritenere le sante Scritture la fonte che alimenta la vita. I Padri della Chiesa spesso hanno presentato la Parola di Dio come una fontana a cui tutti possono attingere acqua. Sant’Efrem il Siro, per fare un solo esempio, paragona la Bibbia a una fontana a cui ognuno può recarsi per attingere acqua senza che essa si esaurisca mai. E quel che resta nella fonte è sempre molto di più di quel che ciascuno riesce a portare via. In effetti, la Bibbia resta una fontana di sapienza per chi non crede, ma resta acqua sufficiente anche per la vita di tutti i popoli.
L’inscindibile legame circolarità tra Parola di Dio, Chiesa e Liturgia resta la condizione per avvicinarsi a questa fonte. È una responsabilità grande per la Chiesa all’inizio di questo millennio. Benedetto XVI nell’omelia di chiusura del sinodo affermava: "Il luogo privilegiato in cui risuona la Parola di Dio, che edifica la Chiesa(...) è senza dubbio la liturgia. In essa appare che la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un’eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto(...) la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua identità". Il rinnovato incontro con la Parola di Dio renderà le nostre comunità efficaci per comunicare la via della salvezza agli uomini e alle donne di questo inizio di millennio.
* ©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009
Ansa» 2009-07-01 13:09
Enciclica "Caritas in Veritate" verrà presentata il 7 luglio
CITTA’ DEL VATICANO - E’ ufficiale: il Vaticano presenterà l’enciclica del papa ’Caritas in Veritate’ il prossimo 7 luglio.
L’enciclica sarà presentata in una conferenza stampa dal card. Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, dal card. Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, da mons. Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e dall’economista Stefano Zamagni. Si tratta di tutti personaggi che hanno contribuito alla stesura del testo pontificio.
Ansa» 2009-01-13 18:32
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
GOD IS LOVE - My first Encyclical, Deus Caritas Est
DIO E’ AMORE - Mia prima Enciclica, Deus Caritas est *
[...] The Christian tradition proclaims that God is Love (cf. 1 Jn 4: 16). It was out of love that he created the whole universe, and by his love he becomes present in human history. The love of God became visible, manifested fully and definitively in Jesus Christ. He thus came down to meet man and, while remaining God, took on our nature. He gave himself in order to restore full dignity to each person and to bring us salvation. How could we ever explain the mystery of the incarnation and the redemption except by Love? This infinite and eternal love enables us to respond by giving all our love in return: love for God and love for neighbour. This truth, which we consider foundational, was what I wished to emphasize in my first Encyclical, Deus Caritas Est, since this is a central teaching of the Christian faith. Our calling and mission is to share freely with others the love which God lavishes upon us without any merit of our own. [...]
[...] La tradizione cristiana proclama che Dio è Amore (cfr. 1 Gv 4, 16). È per amore che ha creato tutto l’universo, e con il suo amore si fa presente nella storia umana. L’amore di Dio è divenuto visibile, manifestato in maniera piena e definitiva in Gesù Cristo. Così egli è disceso per incontrare l’uomo e, pur rimanendo Dio, ha assunto la nostra natura. Ha donato se stesso per restituire la piena dignità a ogni persona e per portarci la salvezza. Come potremmo spiegare il mistero dell’incarnazione e della redenzione se non con l’Amore? Questo amore infinito ed eterno ci permette di rispondere dando in cambio tutto il nostro amore: amore verso Dio e amore verso il prossimo. Questa verità, che consideriamo fondante, è ciò che ho voluto evidenziare nella mia prima Enciclica, Deus Caritas est, poiché è un insegnamento centrale della fede cristiana. La nostra chiamata e la nostra missione sono di condividere liberamente con gli altri l’amore che Dio ci prodiga senza alcun merito da parte nostra [...]
*
Si cfr.:
Il Papa incontra i partecipanti al primo seminario del forum cattolico-musulmano
Il nome di Dio può essere solo
un nome di pace e fratellanza, Osservatore Romano, 7 novembre 2008
UN SINODO PER «SOSTARE» INSIEME?
di Alberto Bruno Simoni o.p.
Una lettura del “Messaggio della XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi”
È lecito esprimere qualche impressione dopo una prima e rapida lettura del Messaggio finale della XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio? *
Un rilievo riguarda il senso stesso del “Sinodo”, che vuol dire camminare insieme e via comune: la sensazione che si ricava dalla lettura è invece che i Padri sinodali abbiamo sostato insieme ed abbiano poi offerto una immagine di chiesa incentrata su se stessa, dotata di immobilità se non proprio destinata all’immobilismo: una specie di grande “monade” senza finestre e presente nel mondo attraverso una sorta di armonia prestabilita. Quanto poi alla “via comune”, la storia insegna che non è unica o uniforme, se è vero che le vie del Signore sono infinite e che “la via della chiesa è l’uomo”.
Al centro di tutto, infatti, c’è una Chiesa casa, custode ed arbitra della Parola: “è la Chiesa che ha il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata su Pietro e sugli apostoli e che oggi, attraverso i vescovi in comunione col Successore di Pietro, continua ad essere custode, annunciatrice e interprete della Parola (cf. LG 13)”. Una chiesa che rivolge il suo messaggio “all’immenso orizzonte di tutti coloro che nelle diverse regioni del mondo seguono Cristo come discepoli e continuano ad amarlo con amore incorruttibile”, per proporre a tutti “un viaggio spirituale che si svolgerà in quattro tappe e che dall’eterno e dall’infinito di Dio ci condurrà fino nelle nostre case e lungo le strade delle nostre città”. Sembra che si abbia a che fare con una chiesa condannata al solipsismo!
Ma davvero la “comunità-madre di Gerusalemme” è l’unico modello o modo di essere della Chiesa? E Antiochia, per esempio? Se a Gerusalemme vige un principio istituzionale di autorità, ad Antiochia a dominare la Parola, che corre, che si diffonde, che si moltiplica, una Parola non vincolata ma liberante. Il Sinodo, è vero, si pone nella scia del Concilio e della Costituzione Dei Verbum, ma questa viene citata nel messaggio una o due volte e precisamente per ricordare la necessità della “viva Tradizione di tutta la Chiesa” (DV 12), su cui è incentrato poi unilateralmente tutto il discorso. Non c’è traccia di quella “conspiratio” tra pastori e fedeli, di cui si parla al n.10, “nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa”.
Un richiamo formale alla Costituzione conciliare appare in una delle “Proposizioni finali” con queste precise parole: “I Padri sinodali a oltre 40 anni dalla promulgazione della Dei Verbum riconoscono i grandi benefici apportati da questo documento. Perciò facendone tesoro la Chiesa sente oggi il bisogno di approfondire ulteriormente il mistero della Parola di Dio”. Ma questo approfondimento avviene soprattutto “ad intra”, in senso centripeta e di prassi spirituale e liturgica, mentre una proiezione “ad extra” è quasi temuta, tanto da poter parlare di una chiesa cenacolare o “pre-pentecostale”.
Se prendiamo il n.1 della Dei Verbum, abbiamo davanti una chiesa in azione, che intende sì “proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione”, ma tutto questo “in religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia... affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”. Una Chiesa in stato di servizio della Parola e di predicazione, qualcosa che è lasciato in secondo piano o dato per scontato o automatico, quando invece è proprio ciò che fa problema!
In ogni caso, un effetto forse imprevisto del messaggio è quello di riportarci alla lettura della Dei Verbum, quale contesto non superato in cui recepirlo ed interpretarlo: una cosa infatti è riconoscere e proclamare il “primato della Parola” in simbiosi con chi l’ascolta, altra cosa è partire dal “primato della Chiesa” come interprete unica ed esclusiva della Parola di Dio nel mondo. E mentre la Dei Verbum presenta la gestazione di questa Parola, il messaggio del Sinodo ne considera piuttosto la gestione, dopo averla vivisezionata e confezionata ad uso interno della Chiesa!
Chiedo scusa se ritorno su un punto altre volte indicato come criterio di discernimento in questo genere di problemi: la predicazione! È una responsabilità primaria di una Chiesa serva o ministra della Parola di fronte al mondo (“Guai a me se non evangelizzo...”), o funzione interna ad una Chiesa padrona della Parola? Per poter rispondere a questo interrogativo, ecco quel poco che viene detto su questo punto: “Ma il vertice della predicazione è nell’omelia che ancor oggi per molti cristiani è il momento capitale dell’incontro con la Parola di Dio. In questo atto il ministro dovrebbe trasformarsi anche in profeta... Nella predicazione si compie così un duplice movimento. Col primo si risale alla radice dei testi sacri, degli eventi, dei detti generatori della storia di salvezza, per comprenderli nel loro significato e nel loro messaggio. Col secondo movimento si ridiscende al presente, all’oggi vissuto da chi ascolta e legge, sempre alla luce del Cristo che è il filo luminoso destinato a unire le Scritture”.
Dove è una chiesa in ascolto della storia e attenta ai “segni dei tempi? E dove è finita, in tanta abbondanza di dottrina, la stoltezza di quella predicazione da cui soltanto dipende la fede, e quindi la salvezza per ogni uomo che crede, giudeo o greco? Mi chiedo e chiedo soltanto se queste osservazioni a caldo valga la pena esprimerle - in cinque minuti di follia - come voce di una “Chiesa dei gentili” che è nascosta e sotterranea (non è il “mistero nascosto nei secoli” e rivelato a Paolo?), ma che non può essere ignorata del tutto. Con tutto il rispetto per una Chiesa attrezzata ed organizzata e ben visibile, forse è bene ricordarsi anche della chiesa invisibile che è in mezzo a noi, quella fatta unicamente da semplici uomini e donne raccolti nell’amore di Cristo attraverso la “Parola della croce”.
Alberto Bruno Simoni o.p.
Articolo tratto da:
FORUM (113) Koinonia
http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046
Sinodo: una Bibbia in ogni casa
IL messaggio dei vescovi: "le Sacre Scritture devono entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché’ per secoli sono state il riferimento capitale dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune"
Si chiude il Sinodo dei vescovi imperniato sulla parola di Dio. E Benedetto XVI ha invitato a colazione i 253 padri sinodali, i laici e i delegati delle altre confessioni religiose che hanno partecipato ai lavori. Il pranzo si terrà’’ domani alle 13 nella Casa Santa Marta in Vaticano, la stessa residenza che ospitò i cardinali per il Conclave del 2005 e dove Papa Ratzinger festeggiò con loro l’’elezione. Il sinodo dei vescovi riunito in Vaticano, nel suo Messaggio conclusivo, ricorda la fratellanza con il popolo ebraico a partire dalla Parola di Dio: "Sulle strade del mondo, - si legge nel testo pubblicato oggi - la Parola divina genera per noi cristiani un incontro intenso con il ’’popolo giudeo’’ al quale siamo intimamente legati dalla riconoscenza e dall’’amore comune delle Scritture dell’’Antico Testamento e perché "da Israele il Cristo è nato secondo la carne’".
Il sinodo dei vescovi riunito in Vaticano riafferma che l’’esegesi biblica e la "analisi storica e letteraria" sono per la Chiesa "un compito necessario, e se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che, nei fatti, nega l’’incarnazione di Dio nella storia e non riconosce che la Parola si esprime secondo un linguaggio umano, che deve essere decifrato, studiato e compreso e ignora che l’’ispirazione divina non ha cancellato l’’identità storica e la personalità propria degli autori umani".
Lo si legge nel Messaggio conclusivo delle assise dei presuli cattolici, pubblicato oggi in francese e inglese, alla vigilia della chiusura del sinodo. Il Messaggio è stato presentato durante una conferenza nella sala stampa vaticana, da mons. Gianfranco Ravasi, presidente della commissione per il Messaggio.
Ma, ammoniscono i vescovi nel Messaggio conclusivo del sinodo, l’’esegesi non va separata dalla tradizione e dalla fede della Chiesa: "se ci si ferma alla sola lettura la Bibbia resta unicamente un documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale; se, d’’altra parte, si esclude l’’incarnazione, si può cadere nell’’equivoco fondamentalista o in un vago spiritualismo o psicologismo. la conoscenza esegetica - prosegue il testo - deve di conseguenza inserirsi in maniera indissolubile nella tradizione spirituale e teologica perché non sia spezzata l’’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle scritture".
"La Bibbia deve entrare nelle famiglie, perchè genitori e figli la leggano, con essa preghino e sia per loro una lampada per i passi nel cammino dell’’esistenza". Lo chiedono i vescovi di tutto il mondo nel Messaggio al popolo cristiano approvato questa mattina dal Sinodo. Secondo i 253 padri sinodali, "le Sacre Scritture devono entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché’’ per secoli sono state il riferimento capitale dell’’arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune".
Il Messaggio, lungo 10 pagine e articolato in quattro capitoli e una conclusione, esalta "la ricchezza simbolica, poetica e narrativa" della Bibbia, definita "vessillo di bellezza sia per la fede sia per la stessa cultura, in un mondo spesso sfregiato dalla bruttezza e dalle brutture"."La parola di Dio deve correre per le strade del mondo che oggi sono anche quelle della comunicazione informatica, televisiva e virtuale", si legge in una sintesi del messaggio redatto da mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura.
Ma, afferma il Messaggio, "se ci si ferma alla sola lettura la Bibbia resta unicamente un documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale; se, d’’altra parte, si esclude l’’incarnazione, si può cadere nell’’equivoco fondamentalista o in un vago spiritualismo o psicologismo. la conoscenza esegetica - prosegue il testo - deve di conseguenza inserirsi in maniera indissolubile nella tradizione spirituale e teologica perché non sia spezzata l’’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle scritture".
Nel Messaggio, il Sinodo riafferma che l’’esegesi biblica e la "analisi storica e letteraria" rappresentano per la Chiesa "un compito necessario, e se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che, nei fatti, nega l’’incarnazione di Dio nella storia e non riconosce che la Parola si esprime secondo un linguaggio umano, che deve essere decifrato, studiato e compreso e ignora che l’’ispirazione divina non ha cancellato l’’identità storica e la personalità propria degli autori umani"."Noi ci rivolgiamo anche verso i nostri fratelli e le nostre sorelle perseguitati o messi a morte a causa della Parola di Dio e della testimonianza che essi rendono al Signore Gesu’’: testimoni martiri che ci raccontano la forza di Dio origine della loro fede, della loro speranza e del loro amore per Dio e per gli uomini". Lo scrivono i vescovi di tutto il mondo riuniti in Vaticano nel Messaggio al popolo cristiano approvato oggi, che esprime "la più intensa e cordiale gratitudine" per il servizio prezioso e importante prestato dai catechisti e dagli altri servitori della parola di Dio.
Il Messaggio mette al contempo in guardia i fedeli cattolici dal rischio che essi stessi corrono di una lettura fondamentalista della Bibbia. "I fondamentalisti pensano di avere imprigionato la verità, anche se in realtà essi sono poi spesso fondamentalisti sulle tradizioni e non sugli originali. Sono mossi dalla paura di scoprire, al di là delle parole, la Parola di Dio".
"La Bibbia propone una fede storica e incarnata che si confronta con l’’attuale condizione umana dove si incontrano povertà, ingiustizie, corruzione e sofferenza", ha ricordato mons. Gianfranco Ravasi presentando il testo. "Colui che si avventura sulle strade del mondo - afferma il testo - scopre i bassifondi, luoghi di sofferenza e di povertà, di umiliazione e oppressione, di esclusione e di miseria, di malattie fisiche, psichiche e di solitudini. Spesso le pietre dei cammini sono insanguinate dalle guerre e dalle violenza, e nei palazzi del potere la corruzione si alterna con l’’ingiustizia". "Si eleva il grido dei perseguitati - prosegue il messaggio - per la fedeltà alla loro coscienza e alla loro fede". Questo immenso grido di dolore che viene dalla terra verso il cielo, affermano i vescovi, è senza sosta rappresentato nella Bibbia "che propone esattamente una fede storica e incarnata". Il Sinodo lancerà un appello affinché ’’’’tutti i singoli fedeli abbiano la Bibbia’’’’ o, almeno, che ’’’’il testo sia presente in ogni casa’’’’. Lo ha anticipato mons. Gianfranco Ravasi. ’’’’Il Sinodo - ha aggiunto - esorterà anche a preoccuparsi della comunicazione della Bibbia ai bambini’’’’.
Nelle 53 ’’’’propositiones’’’’ che confluiranno invece nell’’Esortazione Apostolica con la quale Benedetto XVI recepirà quanto emerso dai lavori, ha anticipato ancora Ravasi, ’’’’tornerà uno dei temi già emersi: e cioè che accanto all’’esegesi storica e scientifica sia sempre presente quella più propriamente teologica’’’’. Fra gli altri temi elencati da mons. Ravasi anche l’’ecumenismo, la liturgia, la necessità di migliorare le omelie, il rapporto del testo sacro con i battezzati da evangelizzare e i non credenti.
Nel testo finale, ci sarà poi un paragrafo sulla libertà religiosa con un chiaro riferimento alle persecuzioni dei cristiani ("ai perseguitati della Parola) e uno dedicato all’’Islam. Non mancherà un accenno alle sette cristiane fondamentaliste che usano il testo sacro in modo acritico. "Per paura - ha spiegato Ravasi - si ha bisogno di avere quasi meccanicamente la verità, senza riuscire però a confrontarsi con una realtà complessa".
"Dal punto di vista teorico poi - ha aggiunto - il fondamentalismo è la negazione della incarnazione" perché considera il testo letterale custode del messaggio. Ma, ha ammonito Ravasi, "la fiducia cieca è infedeltà". Tra le preoccupazioni emerse nel corso del Sinodo anche il rapporto dei giovani con la Bibbia. "Il linguaggio dei giovani - ha detto il noto biblista - ha una grammatica diversa e sta acquistando forme sempre più nuove rispetto al normale linguaggio della nostra comunicazione. Non parlo di forme comunicative come i messaggini, di sms, ma di un linguaggio molto connotato. Se devo dunque pensare ad una pastorale della Bibbia per giovani il primo terreno è il linguaggio". Va proprio in questa direzione la proposta di mons. Ravasi di diffondere il testo del Messaggio finale dell’’assise vaticana in dvd. "Per il prossimo Sinodo - confida - vorrei che il messaggio sia divulgato in dvd. Il messaggio, affidato a vari canali, può avere ancora più’’ incisività". La Bibbia deve essere al centro del dialogo dei cattolici con ebrei e musulmani.
Lo afferma il Messaggio dei padri sinodali al popolo cristiano invitato, "senza cadere nel sincretismo che confonde e umilia la propria identità spirituale, a dialogare rispettosamente con gli uomini e le donne delle altre religioni che ascoltano e praticano fedelmente le indicazioni dei loro libri sacri, a cominciare dall’’Islam che, nella sua tradizione, accoglie innumerevoli figure, simboli e temi biblici e che ci offre la testimonianza di una fede sincera nel Dio unico ’’compassionevole e misericordioso’’, creatore di ogni essere e giudice dell’’umanità". Anche se il documento si concentra, particolarmente, sul rapporto con "il popolo ebreo", al quale il cristianesimo è "intimamente legato" per il primo testamento in comune, e con l’’islam, "che nella sua tradizione accoglie innumerevoli figure, simboli e temi biblici", nel Messaggio del Sinodo si fa riferimento anche al dialogo "con le grandi tradizioni religiose dell’’Oriente" fra le quali vengono citate il Buddismo, l’’Induismo e il Confucianesimo. "Lungo le strade del mondo - sottolinea il testo - incontriamo spesso uomini e donne di altre religioni che ascoltano e praticano fedelmente i dettami dei loro libri sacri e che con noi possono edificare un mondo di pace e di luce, perché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità’’".
* Fonte: La Stampa/ SAN PIETRO E DINTORNI di Marco Tosatti, 24.10.2008
UN MESSAGGIO tutto VECCHIO!!! APRIRE LE PORTE... AL PASSATO!!!
Caro MARCO
Le Sacre Scritture DEVONO entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché’ per secoli SONO STATE il riferimento capitale dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune...
La solita musica: in nome del PASSATO (cosa assolutamente anti-cristiana: Io sono la Via, la Vita, la Verità) si teorizza e si giustifica l’OBBLIGO e il DOVERE di FAR ENTRARE dappertutto la LORO Bibbia (una nuova "crociata": L’ART. 7 DELLA COSTITUZIONE, il BUCO NERO per invadere le Istituzioni dell’ITALIA e distruggere il residuo di vitalità dello stesso messaggio evangelico!!!), quella della CHIESA CATTOLICO-ROMANA....
Ormai siamo veramente alla fine!!! I Vescovi hanno fatto un Sinodo per seguire pecorescamente la corrente e non chiedersi nemmeno se il loro Pastore era un Pastore del Dio AMORE ("CHARITAS") o del Dio MAMMONA ("CARITAS").
Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona!!!
L’AMORE DELLA PAROLA - LA FILOLOGIA - E PER LA PAROLA E’ ormai MORTO.... nella CHIESA CATTOLICO-ROMANA.
OGGI LO SPIRITO SOFFIA DOVE VUOLE... Ma IN VATICANO - DOPO GIOVANNI PAOLO II - HANNO SPRANGATO PORTE E FINESTRE e NON vogliono sentire più nemmeno uno spiffero d’aria!!! E nemmeno volare una "mosca" - ricorda ancora e sempre lo SPIRITO che animava Wojtyla!!!
M. cordiali saluti, Federico La Sala
La Stampa/SAN PIETRO E DINTORNI - scritto da Federico La Sala 24/10/2008 18:23
PER IL TESTO INTEGRALE, CFR. SITO DELL’OSSERVATORE ROMANO (cliccare sul rosso->):
Approvato dall’assemblea il messaggio del Sinodo dei vescovi
La Parola di Dio nella trama della storia
Il messaggio della XII assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa", è stato approvato per acclamazione nel corso della ventunesima congregazione generale di venerdì mattina, 24 ottobre. Presidente delegato di turno è stato il cardinale Levada. Hanno partecipato alla votazione 243 padri sinodali.
Perché non piacciono gli studi sul cristianesimo
Se la Chiesa ha paura
Gesù diviso tra fede e storia
Il Sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia si è aperto con una messa in guardia contro le "analisi unilaterali" cioè contro il metodo storico-critico
La parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione spirituale che evita nodi irrisolti
L’inchiesta di Corrado Augias e Remo Cacitti è stata sottoposta a feroci attacchi
di Marco Politi (la Repubblica, 22.10.2008)
Città del Vaticano. Il Sinodo dei vescovi, dedicato alla Bibbia e la missione della Chiesa, si è aperto con una messa in guardia. Va rifiutata, ha detto William Levada prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ogni interpretazione soggettiva o «frutto di un’analisi unilaterale». Un clima di tensione spesso malsano, ha incalzato il relatore ufficiale cardinale Marc Ouellet del Quebec, si è instaurato tra la teologia universitaria e il magistero ecclesiale. Le scoperte storiche, filosofiche e scientifiche, ha soggiunto, hanno attizzato polemiche. Colpa suprema degli studiosi è l’aver «aumentato il divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede». Dalle battute iniziali del Sinodo in corso si è compreso che il pontificato ratzingeriano è deciso a dare un giro di vite a oltre un secolo di ricerca teologica basata sul metodo storico-critico.
Perché, più proseguono gli studi più cresce il gap tra l’immagine di Gesù dei catechismi tradizionali e la realtà complessa degli eventi relativi alla sua predicazione e alla sua eredità. Lo stesso terremoto ha investito l’Antico Testamento. Si sa ormai che la Terra Promessa non è mai stata conquistata da Giosuè così com’è descritto nella Bibbia né gli ebrei sono stati monoteisti dall’inizio.
La Chiesa ha paura. E’ allarmata che sotto l’influsso dei mass media entrino in circolazione acquisizioni che per decenni sono rimaste limitate ai circoli accademici. Tutti gli addetti ai lavori sanno che la famosa frase, che campeggia sotto la cupola della basilica vaticana «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», è una frase tardiva e comunque non preannuncia né il papato onnipotente e teocratico come si è strutturato da Gregorio VII e Innocenzo III in poi né tantomeno prefigura la Chiesa-istituzione formatasi secoli dopo la crocifissione. Chi setaccia le opere degli specialisti tutto questo tra le pieghe lo trova, ma un conto è dirlo al riparo di volumi ponderosi un conto è portarlo in pubblico. C’è voluto Giovanni Paolo II per informare ufficialmente i fedeli che Natale non è affatto il giorno di nascita di Gesù, ma nell’antica Roma era il «giorno natale del Sole». E sempre Wojtyla ha spiegato con delicatezza che la tradizione ortodossa della Dormizione di Maria era legittima. Senza bisogno - si può aggiungere - di immaginarsi un’Assunzione come se la Madonna salisse in cielo su un immaginario ascensore. «La Chiesa si è spaventata degli studi esegetici di carattere storico - commenta il professor Mauro Pesce, che con Corrado Augias ha pubblicato nel 2006 il bestseller Inchiesta su Gesù - e teme che mettano in pericolo la fede della gente». Al Sinodo la parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione «spirituale».
Certo un approccio possibile e anche giusto dal punto di vista religioso, ma che non può rimuovere i nodi che la ricerca storica ha portato alla luce. I nodi stanno lì. Aggrovigliati. Difficili a sciogliersi. E sono almeno cinque. Il parto verginale di Maria ha un sapore mitologico: lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando era ancora un teologo senza porpora cardinalizia e scriveva nel suo libro Introduzione al cristianesimo (pubblicato in Italia dalla Queriniana nel 1969) che «la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico bensì ontologico». E se i Vangeli riferiscono dei fratelli di Gesù ed è stiracchiato voler piegare la parola a «cugini».
Gesù non ha mai predicato la sua divinità. Si è sentito umano sino in fondo come emerge dal grido disperato sulla croce «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gesù, inserito nel clima apocalittico dell’ebraismo a lui contemporaneo, ha preannunciato un suo «ritorno» imminente che non è avvenuto. La Trinità è un’elaborazione teologica del cristianesimo, inconcepibile per l’ebraismo in cui è nato Cristo. La Chiesa non era sin dall’inizio nella mente di Cristo, ma è il prodotto di trasformazioni storiche. Affascinanti, straordinarie, ma umane.
Tutto ciò che la storia ha portato alla luce, demitizzando, in realtà non incrina quell’impulso indescrivibile che è il rapporto con il Mistero-oltre-l’uomo e oltre la realtà tangibile: chiamiamola fede. Ma può mettere in crisi l’istituzione e le autorità che si ritengono infallibilmente preposte ad annunciare la Verità. Il problema alla fine è l’origine trascendente dell’istituzione ecclesiastica. «Gesù mette in crisi l’assetto della Chiesa attuale, ma succede sempre così quando si va direttamente alla Bibbia», soggiunge lo storico Pesce. Per l’istituzione ecclesiastica è difficile spiegare l’evoluzione da Gesù al cristianesimo antico fino alla Chiesa attuale. Con lo storico Remo Cacitti, Corrado Augias ha pubblicato recentemente un altro libro Inchiesta sul cristianesimo, sottotitolato provocatoriamente «Come si costruisce una religione». L’Avvenire, il giornale dei vescovi, lo ha criticato.
Ma c’è stato un risvolto curioso. Una prima volta è stata pubblicata una recensione di normale critica. Appena il libro ha avuto successo, l’Avvenire è tornato sull’argomento con una pagina di feroce attacco. Il problema, naturalmente, non è Augias che viene difeso dai lettori che comprano i suoi libri. La questione è la virulenza della reazione, appena una serie di dati storici viene portata in pubblico. «Con papa Ratzinger - ne è convinto lo storico Giovanni Filoramo - stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, lo si vede anche dal suo discorso su Pio XII. Già prima dell’elezione papale Ratzinger contestava l’esegesi storico-critica. La domanda è se, come ha fatto nel suo libro su Gesù, si limiti a proporre un’interpretazione alternativa o se la sua linea mette in discussione la libertà di coscienza e di ricerca degli studiosi cattolici». Nelle facoltà pontificie, continua Filoramo, si avverte la difficoltà degli esegeti ad esprimersi con piena libertà. Una prima risposta viene direttamente da Benedetto XVI.
Intervenendo a braccio al Sinodo, il Papa ha reso omaggio al metodo storico-critico per i suoi contributi di «altissimo livello», che aiutano a capire che il «testo sacro non è mitologia». Ma poi ha evocato i rischi di un’interpretazione positivista o secolarista, che non offre spazio all’apparizione del divino nella storia. Al Sinodo il pontefice è già stato invitato a scrivere un’enciclica sull’interpretazione biblica. Con gli esiti che si possono immaginare. «La grande preoccupazione della Chiesa - dice il professor Cacitti - è di mantenere il controllo sulla ricerca scientifica per paura che vi siano esiti difformi dal dogma».
Pesce ricorda un episodio molto istruttivo. «Paolo VI aveva chiesto alla Commissione biblica di fare uno studio per vedere se nelle Scritture c’erano ostacoli al sacerdozio delle donne». La conclusione delle ricerche? «La Commissione affermò che non c’erano argomenti di carattere biblico che facessero da impedimento al sacerdozio femminile. Il testo non fu pubblicato. Paolo VI escluse poi ufficialmente ogni possibilità».
Che vi siano stati dei veri e propri salti nella costruzione della Chiesa lo dimostra la vicenda del grande scrittore cristiano Lattanzio. Prima dell’editto di Costantino Lattanzio è violentemente anti-imperiale e totalmente contrario al servizio militare. Appena il cristianesimo diventa religione ufficiale, cambia linea e scrive che la guerra per la patria romana «bonum est».
Sepe: traduciamo la Scrittura in opere di carità concreta *
Pubblichiamo una sintesi dell’intervento tenuto dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli alla Settima Congregazione generale.
Incarnare la Parola di Dio nel tempo e nella storia che ci troviamo a vivere, poiché solo in questo modo la si rende efficace e creatrice di conversione e di carità.
Osservare la Parola significa innanzitutto, come ci ha insegnato la predicazione di Gesù, testimoniarla con la propria vita e tradurla in opere di carità. Anche i tanti approfondimenti esegetici, le molteplici iniziative catechetiche e tutti gli sforzi rivolti a una maggiore conoscenza rischiano di non portare frutto se la Parola non viene vissuta con coerenza nella vita quotidiana.
Per superare il dramma della separazione tra fede e vita e per fare in modo che dalla Parola scaturiscano gesti e opere di carità, occorre andare alle sorgenti, ossia alla carità: solo essa, se vissuta e praticata, può cementare il tessuto ecclesiale e aprire la strada alla concretezza dell’amore. I tanti malati nel corpo e nello spirito, i poveri che affollano le strade delle nostre città, i luoghi di sofferenza, come gli ospedali, le carceri rappresentano altrettante prove concrete della fedeltà alla Parola e della nostra capacità di conformare la nostra esistenza su quella del «Vangelo vivente», più eloquente di tante parole perché è diventato «carne e sangue».
«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni», ha scritto Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi (n. 41).
Questa verità elementare, ma di frequente ignorata, deve essere ribadita affinché i vescovi, ma anche i sacerdoti, i diaconi e i catechisti avvertano sempre più l’urgenza di confrontarsi seriamente con la Parola di cui sono servitori.
Immagine perfetta dell’Incarnazione è la Vergine Maria, la donna del «sì» che ha concepito il Verbo nel suo cuore, prima ancora che nel suo seno. Il Mistero dell’Incarnazione della Parola di Dio deve continuare a realizzarsi nell’oggi della Chiesa attraverso il «sì» dei suoi figli che incarnano, nella vita, la Parola salvatrice di Dio.
* Avvenire, 11.10.2008, p. 18
SINODO DEI VESCOVI
Commissione per il messaggio finale: eletti i membri *
Ieri sono stati eletti i membri della Commissione per il messaggio finale del Sinodo, guidata dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura.
Sono il cardinale Walter Kasper (presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani);
John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (Nigeria);
il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegicigalpa (Honduras);
l’arcivescovo di Guwahati (India) Thomas Menanparampil;
il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles;
l’arcivescovo di Agaña (Guam, Oceania) Anthony Sablan Apuron (Oceania);
l’arcivescovo metropolita di Pittsburg dei Bizantini Basil Myron Schott.
* Avvenire, 10.10.2008, p. 23.
La Stampa, 5/10/2008 (10:43)
Benedetto XVI: "Le nazioni cristiane stanno perdendo la propria identità"
«Senza Dio la società è confusa»
CITTA’ DEL VATICANO. Con una solenne concelebrazione nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, Benedetto XVI ha aperto questa mattina la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che da domani affronterà in Vaticano il tema «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa». Con il Papa 326 concelebranti: 52 cardinali, 14 patriarchi delle Chiese Orientali, 45 arcivescovi, 130 vescovi e 85 Presbiteri (di cui 12 Padri Sinodali, 5 Officiali della Segreteria Generale, 30 Uditori, 5 Esperti, 4 Addetti stampa, 24 Assistenti e 5 traduttori). I lavori proseguiranno in Vaticano, nell’Aula del Sinodo, fino al 26 ottobre.
È «indispensabile» che la Chiesa «conosca e viva ciò che annuncia», perché «la sua predicazione sia credibile, nonostante le debolezze e le povertà degli uomini che la compongono»: è l’ammonimento di Papa Benedetto XVI, che, aprendo questa mattina nella basilica romana di San Paolo fuori le mura un’assemblea ordinaria del sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia, non ha mancato di citare i non credenti («persone di retto sentire») che guardano alla Chiesa per trovare risposta agli interrogativi sulla vita e la morte. «Solo la Parola di Dio - ha sottolineato Benedetto XVI - può cambiare in profondità il cuore dell`uomo, ed è importante allora che con essa entrino in una intimità sempre crescente i singoli credenti e le comunità. L’assemblea sinodale volgerà la sua attenzione a questa verità fondamentale per la vita e la missione della Chiesa. Nutrirsi della Parola di Dio è per essa il compito primo e fondamentale. In effetti, se l`annuncio del Vangelo costituisce la sua ragione d`essere e la sua missione, è indispensabile - ha scandito il Papa - che la Chiesa conosca e viva ciò che annuncia, perché la sua predicazione sia credibile, nonostante le debolezze e le povertà degli uomini che la compongono».
Il Papa ha poi raccomandato ai padri sinodali di rendere «sempre più efficace l’annuncio del Vangelo in questo nostro tempo» per far sì che «la sua luce illumini ogni ambito dell’umanità: dalla famiglia alla scuola, alla cultura, al lavoro, al tempo libero e agli altri settori della società». Sottolineando la necessità della testimonianza cristiana e dell’evangelizzazione nell’epoca contemporanea, il Papa ha notato che molti possono essere i motivi di distanza da Dio: «Tanti non Lo hanno ancora incontrato e sono in attesa del primo annuncio del suo Vangelo; altri, pur avendo ricevuto una formazione cristiana, si sono affievoliti nell’entusiasmo e conservano con la Parola di Dio un contatto superficiale; altri ancora si sono allontanati dalla pratica della fede e necessitano di una nuova evangelizzazione. Non mancano poi - ha aggiunto il Papa con uno sguardo agli atei attenti al magistero della Chiesa in campo di etica e bioetica - persone di retto sentire che si pongono domande essenziali sul senso della vita e della morte, domande alle quali solo Cristo può fornire risposte appaganti».
«Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna». Lo ha rilevato Benedetto XVI nell’omelia, dai toni apocalittici, pronunciata nella Basilica di San Paolo alla celebrazione di apertura del Sinodo.
Cinque giorni di studio al cuore delle Scritture
Fabris, Pisano e Manicardi apriranno i lavori. La prima tavola rotonda con Forte e Cacciari
La XL Settimana biblica nazionale promossa dall’Associazione biblica italiana (Abi) si terrà dall’8 al 12 settembre a Roma nella sede del Pontificio Istituto biblico, luogo «simbolo» degli studi di esegesi per tutti gli studiosi cattolici. «Processo esegetico ed ermeneutica credente: una polarità intrinseca alla Bibbia» è il tema dell’incontro, che si tiene nell’anno in cui l’Abi festeggia i 60 anni di attività.
Lunedì alle 17 i lavori saranno aperti dall’intervento del presidente dell’Abi, monsignor Rinaldo Fabris, e del rettore del Pontificio istituto biblico, padre Stephen Pisano. Sarà poi monsignor Ermenegildo Manicardi, coordinatore della Settimana, docente all’Università Gregoriana di Roma e rettore dell’Almo Collegio Capranica di Roma, a introdurre il tema dell’incontro. Seguirà la tavola rotonda inaugurale su «Ragione e fede nell’interpretazione di testi biblici» con gli interventi dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, e di Massimo Cacciari.
La seconda giornata sarà dedicata al tema «Esegesi delle Scritture ed ermeneutica credente nella storia d’Israele». Dopo il primo momento alle 9 con la relazione su «Il rapporto di Geremia con i suoi predecessori», il biblista milanese don Gianantonio Borgonovo interverrà alle 11 su «L’attualizzazione sapienziale della Torah - Memoria fondatrice e (ri)scrittura delle tradizioni d’Israele», cui seguirà la «reazione» del biblista siciliano don Angelo Passaro. Alle 16 una sessione dedicata al tema «Parlare di Dio in greco» mentre alle 17,30 è prevista l’Assemblea associativa e un momento celebrativo dei 60 anni dell’Abi.
«Esegesi delle scritture ed ermeneutica credente nei gruppi cristiani» sarà il tema della giornata di mercoledì: alle 9 «Gesù di Nazaret e le Scritture: tecniche esegetiche e ’carisma’ personale» sarà il tema della relazione di monsignor Rinaldo Fabris e della «reazione» di padre Rosario Pistone (Palermo). Alle 11 «Risurrezione di Gesù e lettura cristiana dei testi d’Israele» sarà il tema del dialogo tra don Giuseppe Ghiberti (Torino) e don Maurizio Marcheselli (Bologna).
Giovedì, dopo una relazione sulla Lettera agli Ebrei, ci sarà alle 11 la seconda tavola rotonda sul tema «Ricerca esegetica e cammino della comunità credente» con gli interventi di padre Pietro Bovati (Roma) e Franco Giulio Brambilla, vescovo ausiliare di Milano. Nel pomeriggio altre due sessioni. L’incontro si chiuderà venerdì con una relazione alle 9 «Le ’pastorali paoline’: la posizione delle donne nella comunità cristiana» e, alle 10,30, la tavola rotonda conclusiva.
Matteo Liut
LE PAROLE E LA PAROLA
La polarità tra il lavoro di analisi scientifica sui testi sacri e l’impegno dell’ermeneutica al centro del convegno, che si pone nell’orizzonte della prossima Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi
Bibbia, saggezza da condividere
Si aprirà lunedì a Roma la XL Settimana biblica dedicata al legame tra esegeti e comunità dei credenti. Un evento che celebrerà i 60 anni di attività dell’Abi
DI MATTEO LIUT (Avvenire, 06.09.2008)
Esperti nel lavoro di analisi e interpretazione del testo sacro ma anche «ministri » di una sapienza cui partecipano tutti i credenti e che appartiene all’intera comunità cristiana. È nel sentiero che collega queste due dimensioni del lavoro degli esegeti che si colloca la XL Settimana biblica promossa dall’Associazione biblica italiana (Abi). Un evento consueto che quest’anno però si arricchisce di uno speciale anniversario: l’incontro che si aprirà lunedì, infatti, sarà l’occasione per festeggiare anche i 60 anni dalla nascita della stessa Abi.
Ecco perché al centro della riflessione di questa edizione sta l’approfondimento del legame tra compito degli esegeti e loro appartenenza ecclesiale. «Processo esegetico ed ermeneutica credente: una polarità intrinseca alla Bibbia» è il tema che guiderà i lavori dei partecipanti al convegno. Cinque giorni intensi che verranno aperti dal saluto del presidente dell’Abi, monsignor Rinaldo Fabris, cui spetterà riflettere, mercoledì mattina, sull’«accelerazione ermeneutica data dall’avvenimento di Gesù» con una relazione dal titolo «Gesù di Nazareth e le Scritture: tecniche esegetiche e ’carisma’ personale ». Uno spunto che si colloca al centro della questione affrontata dal convegno, come spiega anche monsignor Ermenegildo Manicardi, coordinatore della Settimana biblica 2008 e rettore dell’Almo collegio Capranica di Roma, la cui relazione, lunedì pomeriggio, introdurrà il tema dell’incontro nazionale.
«Si tratta di un tema molto ambizioso - sottolinea Manicardi -. È necessario ricordare agli studiosi che, assolutamente senza fare sconti dal punto di vista della serietà scientifica, non devono perdere il rapporto con la comunità credente e con la normalità della gente. I biblisti non devono dimenticare che se loro sono i responsabili del ’processo esegetico’ esiste anche ’un’ermeneutica credente’ che entra nel processo complessivo della comprensione concreta delle Scritture. Fare soltanto esegesi dei versetti - spiega ancora lo studioso - significherebbe al massimo preparare, ma non ancora giungere al vero dialogo che il Dio vivente cerca con l’uomo anche di oggi».
Una riflessione che si pone nell’orizzonte della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che sarà dedicata alla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa: «L’Abi - specifica Manicardi -, in un certo senso, sarà direttamente presente al Sinodo. Alcuni dei vescovi italiani, ad esempio, sono nostri associati». Attraverso di questi, quindi, ciò che emergerà dalla Settimana biblica verrà «offerto a tutta la Chiesa mondiale».
L’incontro della prossima settimana, infine, sarà l’occasione per fare il punto sul cammino di questi 60 anni dell’Abi. «L’Associazione biblica italiana oggi è formata da soci che sono ordinari o aggregati - dice Manicardi -: attualmente i primi (docenti di sacra Scrittura nelle Università pontificie o di materie attinenti alla Bibbia che operano nelle Università statali) sono circa 750, tra i quali diversi vescovi. In media ogni anno aderiscono all’Abi da quindici a venti nuovi soci ordinari. I soci aggregati sono circa 150 e operano nel campo della pastorale biblica». Positivo anche il bilancio sul ruolo dell’esegesi nella Chiesa e nella società italiana: «Nelle strutture accademiche laiche del nostro Paese - conclude Manicardi - l’apporto del biblista è richiesto molto spesso ed è rispettato ». Un segnale positivo, quindi, che spinge a custodire e far crescere anche in questo campo «l’insegnamento del Vaticano II».
COMUNICATI *
Data: 25-07-2008
Descrizione: Annuncio della visita ufficiale di Sua Santità Benedetto XVI al Quirinale il 4 ottobre 2008
C o m u n i c a t o
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accoglierà Sua Santità Benedetto XVI al Quirinale il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, in visita ufficiale di restituzione di quella compiuta dal Capo dello Stato in Vaticano il 20 novembre 2006.
Roma, 25 luglio 2008
Pompei in festa: riceverà il Pontefice
L’arcivescovo Liberati ha annunciato la visita di Ratzinger al Santuario il prossimo 19 ottobre
POMPEI. Grande gioia a Pompei per l’annuncio della prossima visita pastorale di Benedetto XVI al Santuario della Vergine del Rosario.
E l’attesa non sarà lunga: infatti il prossimo 19 ottobre, domenica, il Pontefice visiterà la «cittadella mariana» dove presiederà la Messa delle 11. La notizia è stata data dall’arcivescovo Carlo Liberati, delegato pontificio per il Santuario, che ha anche spiegato il programma, ancora suscettibile di variazioni, della giornata del Papa.
«Nel corso della celebrazione - ha detto Liberati - il Santo Padre reciterà la celebre preghiera sgorgata dall’intelligenza e dal cuore del beato Bartolo Longo, fondatore della Chiesa di Pompei, e nota in tutto il mondo cattolico sotto il nome di ’Supplica’. Il Papa desidera affidare a Maria il buon esito del Sinodo dei vescovi - che si svolgerà in Vaticano nel prossimo mese di ottobre - esortando la Chiesa intera perché il santo Rosario divenga sempre più preghiera della famiglia cristiana e chiedendo alla Madre di Dio l’unità nelle famiglie, la fedeltà tra i coniugi, il coraggio di educare i figli alla fede».
La visita del Papa è un desiderio che finalmente si avvera. Da tempo Pompei l’aspettava e ora forte è la trepidazione. Nessun successore di Pietro ha mai trascurato di portarsi a Pompei per pregare davanti alla sacra icona della Madonna del Rosario. «Nel costante tentativo del Santuario di proporsi come sorgente di rinnovamento nella fede e come luogo desiderato per la preghiera, la contemplazione, il recupero delle coscienze cristiane alla fedeltà al Signore - ha osservato ancora Liberati - questa notizia è di profondo incoraggiamento a proseguire nella missione apostolica e nel rinnovamento delle opere di carità sorte cento anni orsono per iniziativa del beato Bartolo Longo».
«L’avvenimento - ha continuato il presule - riempirà di gioia le centinaia di milioni di cattolici che ogni giorno recitano il Rosario e quanti nella Chiesa, attraverso la contemplazione dei misteri della vita di Cristo, si rivolgono a Maria Santissima perché li soccorra nel tentativo di essere fedeli al Signore nel sì quotidiano della fede». Oggi in tutte le chiese di Pompei, durante le Messe, i sacerdoti diffonderanno la notizia della visita del Papa.
Valeria Chianese
Ansa» 2008-09-24 16:05
PAPA: PER LA PRIMA VOLTA UN EBREO PARLERA’ AL SINODO DEI VESCOVI
CITTA’ DEL VATICANO - Shear-Yashuv Cohen, rabbino capo di Haifa e membro della commissione mista Israele-Vaticano, sarà il primo non cristiano a parlare davanti a un sinodo di vescovi cattolici. Il Papa lo ha infatti invitato come delegato fraterno alla assemblea dei vescovi, dedicata alla parola di Dio, che si terrà in Vaticano dal 5 al 26 ottobre. Il rabbino, che dovrebbe intervenire nella seconda giornata dei lavori e che terrà una relazione sulla centralità della Scrittura ebraica nella tradizione ebraica, ha rivelato di aver accettato l’invito "con un pizzico di trepidazione".
"L’invito - ha sottolineato - porta con sé un messaggio di amore, coesistenza e pace per le generazioni, e vedo in esso una specie di dichiarazione che la Chiesa intende continuare con la politica e la dottrina stabilite da papa Giovanni XXIII e papa Giovanni Paolo II, e apprezzo molto profondamente questa dichiarazione" "Alcuni leader rabbinici - ha riferito alla agenzia dei vescovi americani Cns che lo ha intervistato nel suo ufficio a Gerusalemme - ritengono che il dialogo interreligioso sia semplicemente un altro modo per convincere gli ebrei a diventare cristiani e così alcuni leader ebraici si sono opposti al mio intervenire al sinodo". "C’é un gruppo estremo - ha chiarito il rabbino capo di Haifa, - che teme che visto che i cristiani non sono riusciti a convertirci con la forza, stiano cercando di farlo con le parole; costoro parlano di ’bacio mortale’ da parte dei cristiani". "Se hanno ragione - ha commentato - sto commettendo un errore, ma credo che non sia questa la situazione". Parlare al sinodo per lui sarà un avvicinarsi al giorno in cui "tutti i popoli si riuniranno insieme per rendere grazie a Dio". Nonostante la storia passata di violenze dal mondo cristiano questo invito, a giudizio dell’esponente ebraico, può essere visto come una dichiarazione di "rispetto e coesistenza con il giudaismo, come fratello maggiore della cristianità".
"Non possiamo negare - ha aggiunto - che a dispetto delle differenze, le radici sono le stesse" e che ebraismo, islam e cristianesimo sono "religioni del Libro". Cohen, la cui famiglia da 18 generazioni ha prodotto rabbini e studenti di Scrittura, parlerà davanti ai padri sinodali riuniti in Vaticano sulla centralità della Scrittura ebraica nella tradizione ebraica e nella vita quotidiana, e sulla importanza della Scrittura per l’educazione di ogni bimbo ebreo, come anche della sua importanza per Israele. In Israele, racconta il rabbino, c’é anche un quiz televisivo sulla Bibbia e i vincitori ricevono le congratulazioni del presidente della Repubblica. Lui è in grado di recitare a memoria la Torah, cioé i primi cinque libri della Bibbia, da quando era un bimbo di otto anni e a Gerusalemme ospita spesso gruppi di cattolici che lo interrogano sulle scritture. Dopo il documento pubblicato dal Vaticano nel 2001 e intitolato "Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana", ha osservato il rabbino Cohen, nel mondo cattolico c’é stato un interesse crescente nei confronti di quello che i cristiani chiamano l’Antico Testamento.
"Credo - ha commentato il rabbino - che come ebrei e cristiani dobbiamo vivere ognuno nella propria tradizione e mai cercare di nascondere le differenze; parte di un vero dialogo è non solo parlare gli uni con gli altri, ma anche ascoltare l’altro e rispettare il suo diritto di essere diverso. Non possiamo aspettarci che i cristiani facciano questo nei nostri confronti se noi non lo facciamo nei loro".
Ansa» 2008-09-25 12:45
PAPA NOMINA MONS.CROCIATA SEGRETARIO CEI
CITTA’ DEL VATICANO - Monsignor Mariano Crociata, vescovo di Noto, è il nuovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Lo ha nominato il Papa al posto di mons. Giuseppe Betori, designato arcivescovo di Firenze. Oggi si conclude il Consiglio permanente della Cei che ha indicato al Papa la terna di nomi per la scelta del segretario. Secondo indiscrezioni mons. Crociata sarebbe stato il primo nome della terna. E’ la prima volta nella storia della Cei che questo incarico è attribuito a un presule del Sud.
Mons. Crociata, nato 55 anni fa a Castelvetrano in provincia di Trapani, è sacerdote dal ’79 e dal luglio 2007 e’ vescovo di Noto. Ha conseguito il dottorato in teologia alla Gregoriana e ha studiato all’Almo collegio Capranica. Nella prestigiosa Facoltà teologica di Palermo ha diretto il dipartimento di Teologia delle religioni, organizzando tra l’altro numerosi convegni sull’islam. Nella stessa facoltà ha collaborato con mons. Cataldo Naro, compianto arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, e che l’allora presidente dei vescovi, Camillo Ruini, avrebbe ben visto ai vertici della Conferenza episcopale italiana. Secondo indiscrezioni il nome di mons. Crociata per l’incarico di numero due della Cei sarebbe una scelta personale del presidente, il cardinale Angelo Bagnasco.
"Il Santo Padre - comunica il bollettino della sala stampa della Santa Sede - con riferimento a quanto previsto dall’articolo 30, comma 1 dello Statuto della conferenza episcopale italiana, ha nominato segretario generale della medesima Conferenza, per il prossimo quinquennio, S. E. Mons. Mariano Crociata, finora vescovo di Noto".
Il religioso di Haifa: "Ratzinger lo celebra? Se lo sapevo non venivo al Sinodo non siamo contenti dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo"
Il rabbino: no a Pio XII beato
non fece nulla per salvare gli ebrei
di MARCO POLITI *
CITTÀ DEL VATICANO - Parte con uno schiaffo a papa Ratzinger il Sinodo dei vescovi di tutto il mondo. Benedetto XVI ha appena respinto pochi giorni fa le accuse sul "silenzio" di papa Pacelli, proclamando la necessità di riconoscere l’impegno di Pio XII "a favore degli ebrei perseguitati", ed ecco che l’esponente ebraico invitato al Sinodo per la primissima volta, il rabbino capo di Haifa Shear Yesuv Cohen, afferma apertamente: "Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare".
Non sono parole pronunciate nell’aula sinodale, dove Cohen ha descritto la sua presenza come un segnale di speranza e di "amore, coesistenza e pace per le nostre generazioni e per quelle future". Ma benché pronunciate all’uscita, conversando con i giornalisti, costituiscono un duro attacco. "Non siamo contenti - ha detto - dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo nella vita di un grande papa, che sentiamo di non poter perdonare e che non può essere perdonato".
Proprio dopodomani papa Ratzinger celebrerà nell’ambito del Sinodo una messa solenne per celebrare il 50° anniversario della morte di Pio XII. All’agenzia Reuters Cohen ha dichiarato che se lo avesse saputo, forse avrebbe rinunciato a venire a parlare in Vaticano. "Ecco perché mi sono astenuto dal fare il suo nome durante il Sinodo". In aula il rabbino capo ha colto invece l’occasione per un appello politico. Evocando le "terribili e brutali" minacce di Ahmadinejad contro Israele, Cohen ha auspicato che non si ripeta mai più la minaccia dell’Olocausto e ha chiesto l’aiuto dei vescovi per difendere Israele.
Il Sinodo appena iniziato si preannuncia come un giro di vite nei confronti dei teologi che studiano la Bibbia, ma soprattutto i Vangeli, con il metodo storico-critico. La prima giornata è stata un crescendo di polemiche nei confronti degli studiosi cattolici che negli ultimi decenni hanno portato alla luce le contraddizioni e gli interrogativi non risolti della vita di Cristo, della sua auto-comprensione e del formarsi delle prime comunità cristiane.
Ha cominciato uno dei presidenti dell’assemblea, il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, scagliandosi contro ogni tipo di "interpretazione soggettiva o puramente esperienziale o frutto di una analisi unilaterale". Ha proseguito, alla presenza del Papa che ascoltava attentamente, il relatore generale cardinale Marc Ouellet del Quebec, denunciando un "clima di tensione, spesso malsano, tra teologia universitaria e Magistero ecclesiale". Secondo il porporato, invece di un’interpretazione spirituale della Sacra Scrittura si è affermato un modello interpretativo "spesso polemico sotto l’influenza di errori da combattere e di scoperte storiche, filosofiche e scientifiche". Putroppo, ha incalzato, non è stato bloccato l’impatto negativo dell’esegesi razionalista".
La posta in gioco - si è capito da queste prime battute - è l’interpretazione storica e scientifica della costruzione dei Vangeli. Dopo avere imposto il silenzio nel ventennio trascorso ai teologi della liberazione e ai teologi, che si occupano di questioni etiche riguardanti la sessualità e la concezione della natura nel senso più ampio, il papato vuole mettere in riga gli specialisti dell’indagine biblica. Infatti, rispetto alla tradizione apologetica, per cui era oro colato ogni rigo della Scrittura, l’ultimo secolo di studi ha demitizzato i testi biblici ed anche evangelici attraverso un lavoro scientifico, che non è annullabile.
Papa Ratzinger, pubblicando il suo libro "Gesù di Nazareth", è partito con il progetto di dimostrare definitivamente l’unità tra il Gesù storico e il Gesù dei Vangeli. E benché lui non abbia voluto presentare il libro come documento dell’autorità papale, ieri è già iniziata la manovra per farne il testo supremo di riferimento. Il Gesù, come l’ha scritto Ratzinger, ha affermato il cardinale Ouellet è un "faro che protegge dagli scogli e dai naufragi". Un potente antidoto anche per dissipare la "confusione propagata da alcuni fenomeni mediatici", ha soggiunto il porporato citando il bestseller "Codice da Vinci" dello scrittore Dan Brown. Anticipando uno degli esiti possibili del Sinodo, Ouellet ha ipotizzato un’enciclica sull’interpretazione della Bibbia. Al tempo stesso ha ammesso che fra i cattolici c’è grande ignoranza della Scrittura e una "fuga" dalle brutte prediche dei preti.
* la Repubblica, 7 ottobre 2008
Comece: Europa, la crisi è soprattutto spirituale
A Bruxelles la plenaria dei vescovi dell’Unione europea: «La domenica resti giorno di riposo». Il presidente Van Luyn: il crollo dei mercati rivela una sbagliata gerarchia dei valori
DA BRUXELLES FRANCO SERRA (Avvenire, 15.11.2008)
La crisi finanziaria del Continente letta alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Le conseguenze che le perdite dei mercati potrebbero avere nella vita delle persone, invogliandole a disegnare una scala di valori sbagliata, in cui trovano spazio solo i bisogni urgenti, materiali. Questi i temi al centro dell’Assemblea plenaria della Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea ( Comece) che per tre giorni si è riunita a Bruxelles sul tema « e sfide attuali dell’Europa » . Al centro della riflessione, oltre alla già citata crisi finanziaria, il lavoro festivo. Problema quest’ultimo su cui, il 16 dicembre, l’Europarlamento voterà un progetto di direttiva comunitaria riguardante l’orario massimo di lavoro e il mantenimento della domenica come giorno di riposo. Anche per il riposo settimanale, ha ricordato ieri nella conferenza stampa conclusiva il vescovo ausiliare di Praga, Vaclav Maly, la dottrina sociale è guida sicura in quanto «il lavoro non può essere l’attività esclusiva delle persone e il riposo domenicale è essenziale per dedicarsi alla famiglia, ai contatti sociali, allo sviluppo culturale, spirituale e religioso».
Nel suo intervento monsignor Maly ha citato studi secondo cui l’incidenza dei congedi di malattia è di 1,3 volte superiore tra chi lavora la domenica, «che deve invece essere un giorno di riposo ma altrettanto di calma e di sviluppo spirituale » . Per questo si auspica che la questione sia risolta con un voto che veda a fianco di tanti europarlamentari anche i sindacati. La Comece, si legge nel comunicato finale della plenaria d’autunno « chiede il rispetto del riposo domenicale come base del modello sociale europeo e fattore di riconciliazione del lavoro con la vita familiare » . « Negli ultimi anni, in una visione politica di liberismo consumistico il riposo domenicale è stato danneggiato in numerosi Stati » , prosegue il testo e nel contesto della crisi economica attuale i vescovi esortano gli eurodeputati ad « assumere le proprie responsabilità e a indicare la domenica come giorno di riposo » .
Quanto alla crisi finanziaria i vescovi osservano che essa «rivela più in profondità una crisi spirituale e una errata gerarchia di valori » mentre «il senso e il valore del lavoro umano sono stati posti in secondo piano rispetto alla ricerca assoluta del profitto». «Chi vede la causa della crisi finanziaria solo in una mancanza di trasparenza e di responsabilità giuridica evidentemente non vede che è ancor più in discussione proprio il nostro modello di società » , ha sottolineato il presidente della Comece, Adrianus Van Luyn, vescovo di Rotterdam, che parlando di regole morali per l’economia di mercato ha ricordato che la dottrina sociale della Chiesa indica chiaramente « due grandi principi: il rispetto della dignità di ogni persona umana nella sua totalità, non solo economica ma spirituale e religiosa, e il bene comune ». « Se confrontiamo con questi princìpi, il capitalismo, - ha proseguito Van Luyn - vediamo che esso pone il capitale come unico principio, mentre il resto è un gran vuoto: ma a cosa può mai servire questo capitale, quale contributo darà mai alla dignità umana in ogni parte del mondo, che cosa dà al bene comune? » . « Non tocca a noi parlare di regolamenti per le banche e per l’economia dell’Ue - ha concluso il presidente della Comece - ma cerchiamo di coinvolgere i nostri fedeli con tutti gli altri europei nel richiamo ai veri valori della vita umana, che non sono il denaro bensì i valori spirituali e della fede » . Al termine della sessione il nuovo segretario generale della Comece, padre Piotr Mazurkiewicz, ha annunciato le date delle prossime Giornate sociali europee che si terranno a Danzica in Polonia dall’ 8 all’ 11 ottobre 2009, sul tema « Europa e solidarietà » .