“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro (prezzo), così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, (L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai ! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
DEUS CHARITAS EST
[I Ioannes 4]: Biblia Sacra: Epistola Joannis Prima - Vulgatae Editionis Sixti V et Clementis VIII.
4:1 Charissimi, nolite omni spiritui credere, sed probate spiritus si ex Deo sint: quoniam multi pseudoprophetæ exierunt in mundum.
4:2 in hoc cognoscitur spiritus Dei: omnis spiritus qui confitetur Iesum Christum in carne venisse, ex Deo est:
4:3 et omnis spiritus, qui solvit Iesum, ex Deo non est, et hic est Antichristus, de quo audistis quoniam venit, et nunc iam in mundo est.
4:4 Vos ex Deo estis filioli, et vicistis eum, quoniam maior est qui in vobis est, quam qui in mundo.
4:5 Ipsi de mundo sunt: ideo de mundo loquuntur, et mundus eos audit.
4:6 Nos ex Deo sumus. Qui novit Deum, audit nos: qui non est ex Deo, non audit nos: in hoc cognoscimus Spiritum veritatis, et spiritum erroris.
4:7 Charissimi, diligamus nos invicem: quia charitas ex Deo est. Et omnis, qui diligit, ex Deo natus est, et cognoscit Deum.
4:8 Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus charitas est.
4:9 In hoc apparuit charitas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum.
4:10 In hoc est charitas: non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris.
4:11 Charissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere.
4:12 Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et charitas eius in nobis perfecta est.
4:13 In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis: quoniam de Spiritu suo dedit nobis.
4:14 Et vos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi.
4:15 Quisquis confessus fuerit quoniam Iesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo.
4:16 Et nos cognovimus, et credidimus charitati, quam habet Deus in nobis. Deus charitas est: et qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo.
4:17 In hoc perfecta est charitas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die iudicii: quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo.
4:18 Timor non est in charitate: sed perfecta charitas foras mittit timorem, quoniam timor pœnam habet. qui autem timet, non est perfectus in charitate.
4:19 Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos.
4:20 Si quis dixerit quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere?
4:21 Et hoc mandatum habemus a Deo: ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.
DIO E’ AMORE *
1 Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo.
2 Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio;
3 ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo.
4 Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo.
5 Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta.
6 Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.
7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
9 In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
11 Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
12 Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
13 Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito.
14 E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo.
15 Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio.
16 Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.
17 Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo.
18 Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore.
19 Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo.
20 Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.
21 Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
* PRIMA LETTERA DI GIOVANNI. - SACRA BIBBIA (Liber Liber).
Il simbolo Chi-rho con Alfa e Omega, Catacombe di Domitilla, Roma:
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Una teologia della storia molto "evangelica" e "francescana".La Chiesa gerarchica controlla le "azioni" dello Spirito santo e garantisce, amministra e distribuisce a "caro prezzo" ("Deus caritas est", 2006) la Grazia ("charitas") di Dio!?!
Avanti tutta!!! Verso il III millennio avanti Cristo!!!
SINODO DEI VESCOVI [5-26 ottobre 2008]
XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
LA PAROLA DI DIO NELLA VITA E NELLA MISSIONE
DELLA CHIESA
INSTRUMENTUM LABORIS
Città del Vaticano
2008
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
FLS
PIANETA TERRA: ASTRONOMIA ANTROPOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PREISTORIA.
Memoria di Francesco di Assisi (#4ottobre 2024): dopo ottocento anni (#Greccio, 1223), nonostante l’arrivo nel #cielo della #Terra, non di una sola #cometa ma di #due comete, ancora non si sa come si fa il #presepe e "come nascono i bambini". Incredibile, ma vero!
INVERTIRE IL PRESENTE. CON FERNANDO PESSOA, SEGUENDO OMERO VIRGILIO E DANTE, RITORNO AL FUTURO: "NON BASTA APRIRE LA #FINESTRA".
CAMBIARE ROTTA E SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT): INVERTIRE LA DIREZIONE (Carlo Rovelli) E USCIRE DALLA TRAGICA E "LUCIFERINA" #CAVERNA DI #PLATONE (E DI TUTTI I #PLATONISMI PER IL #POPOLO), DALLA #FILOSOFIA "COSMOTEANDRICA" DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" DI OGNI #UOMOSUPREMO:
"Non basta aprire la finestra *
Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo là fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che ai è quello che si vede quando la finestra si apre.
PIANETA TERRA E COSMOTEANDRIA:
TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA (KANT, 1724- 2024).
STORIA DELLA #CIVILTA’ E #FILOLOGIA: COME IL #PRINCIPIO ANTROPOLOGICO (TEOLOGICO E COSMOLOGICO) E’ STATO DECLINATO DALL’ANDROCENTRISMO (PLATONICO-PAOLINO ED HEGELIANO), NEI SECOLI DEI SECOLI, FINO A DIVENTARE PRINCIPIO "ANTROPICO", IN UNA SINTETICA "#PIRAMIDE" PROPOSTA DAL "#SAPIENTE" (1510) DI #BOVILLUS (v. allegato).
STORIA #ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA E #TEOLOGIA DELLA CHIESA: ALBINO #LUCIANI, PAPA #GIOVANNI PAOLO I , E IL PRIMATO DELLA CARITA’ ("CHARITAS") SUL GIURIDISMO. In memoria di #Simone Weil ...
"ANNIVERSARIO. Beato Giovanni Paolo I, oggi prima #memoria liturgica:
NOTE:
VITA E FILOSOFIA, STORIOGRAFIA, #FILOLOGIA, E "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO): IN #PRINCIPIO ERA LA VITA, NON LA MORTE.
FISICA E #METAFISICA. CON #KANT (#DANTE #MARX E #HUSSERL), RICORDANDO LA LEZIONE DI #EPICURO:
"[...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, / ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”. [...]" (Epicuro, "Opere", "Epistola a Meneceo", Einaudi, Torino, 1970, pp. 62-63).
NOTE:
FILOLOGIA E TEOLOGIA E STORIA DEL CRISTIANESIMO.
UNA DOMANDA SULLA "PAROLA D’ORO":
DEUS "CHARITAS" (AMORE) O DEUS "CARITAS" (MAMMONA)!?
La "charitas" è diventata la"#caritas", una parola della lingua latina (anzi del "#latinorum"), e ha assunto un significato equivoco, che rinvia alla ricchezza economica e a un #caro, nel senso di "#tesoro", e dell’oro, economicamente e affettivamente).
RICORDO DI SAN PIETRO CRISOLOGO (30 LUGLIO 2024): "[...] Fu grande oratore, per questo fu detto «Crisologo» che vuol dire «Parola d’oro». Ma fu ancora più grande come scrittore tanto da essere proclamato Dottore della Chiesa. Lasciò moltissimi discorsi ed omelie di cui ben 176 sono pervenuti fino a noi. I più celebri sono quelli contro le calende di gennaio in cui non si stanca di ripetere che
«non potrà godere con Cristo in cielo chi vuol godere col diavolo in terra ».
Verso la fine della sua feconda vita, lavorò alla difesa del dogma cattolico contro Eutiche. Questo eretico confondeva in una sola le due distinte nature, umana e divina, esistenti nella persona di Gesù Cristo [...]". (ripresa parziale).
Federico La Sala
Teologia.
Imparare a lasciarsi amare da Dio: il segreto perduto della grazia
Il teologo domenicano Adrien Candiard torna su un tema antico ma dibattuto a suo avviso in modo fuorviante: la grazia è un incontro d’amore. Ma l’essenziale può essere abbagliante...
di Roberto Italo Zanini (Avvenire, martedì 9 aprile 2024)
«Maestro cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». Un libro che comincia con la domanda del “giovane ricco” (Mt19,16) e finisce con una limpida considerazione sull’essenzialità della grazia di Dio che «è un incontro ed è un incontro d’amore» è certamente provocatorio. Lo stesso autore, il teologo domenicano Adrien Candiard, sottolinea che «tutti i discorsi teologici sulla grazia sviluppati nel corso dei secoli... sono andati fuori strada quando hanno mancato l’essenziale». La lista è lunga e attraversa i millenni fra dotti dibattiti teologici (domenicani-gesuiti), scismi, controriforma, concili, contrapposizioni pastorali e via dicendo. Eppure, quell’essenziale «abbaglia come il sole estivo di Galilea che si avvicina allo zenit», dice l’autore ricordando un recente pellegrinaggio al Monte delle beatitudini. È l’ineguagliabile e spesso misconosciuta originalità della vita cristiana, oggi sperduta nella nebbia di senso e di verità che avvolge le sempre più esigue Chiese d’Occidente.
L’essenziale «abbaglia», ma evidentemente non è facile da cogliere. Il giovane ricco va cercando proprio quello: la vita vera, fatta delle cose che contano, che danno piena soddisfazione, che ci fanno felici e restano per l’eternità. Lui, che è un’anima bella e osserva tutti i comandamenti, lo va a chiedere proprio alla “luce che brilla come il sole”, che prontamente lo ama, ma lui non riesce a restarne illuminato. Come noi e come i discepoli nel racconto evangelico, viene travolto dalla cruda risposta di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, vai, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
Candiard si dice travolto anch’egli dall’enormità delle parole di Gesù e nel libro pone il quesito che interroga i cristiani fin da san Paolo: ma se, come dice l’Apostolo, è la fiducia nella grazia a donare la vita eterna, perché Gesù, che è sempre accogliente con tutti, domanda al giovane come se la cava coi comandamenti e poi formula una proposta di perfezione così esigente che gli stessi discepoli, sgomenti, si chiedono, ma allora chi può essere salvato? In quest’ottica la replica di Gesù, «impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile», risulta un chiarimento efficace, ma non risponde al quesito sul valore della grazia e su quello delle opere.
Dilemma millenario e scismatico che riemerge ciclicamente e con prepotenza condizionante, al punto che papa Francesco ha più volte sottolineato il pericolo per la Chiesa di oggi di restare ingabbiata in un nuovo pelagianesimo. Perché puntando tutto sulla prassi, sulla dottrina sociale, sulle opere assistenziali, sulle cose da fare, sulla liturgia ridotta a routine, sulle preghiere senz’anima si finisce per perdere il carisma profetico e autenticamente cristiano, che viene dall’apertura totale all’amore di Dio, all’azione dello Spirito.
Ecco allora la provocazione di questo libro, che nell’edizione italiana, (Lev, pagine 109, euro 13) ha un titolo esplicativo e pratico: La grazia è un incontro. E nel sottotitolo specifica: Se Dio ama gratis, perché i comandamenti? Nell’originale francese, invece, il titolo, più simbolico, indica il percorso teologico-spirituale seguito da Candiard per fondare evangelicamente le ragioni della Grazia. Percorso che pone le sue radici nel Discorso della montagna: Sur la Montagne. L’aspérité et la grâce. E sulla Montagna Gesù comincia con le Beatitudini (Mt5, 3-12) che certamente costituiscono un programma esigente, e prosegue con altre “asperità” come: amate i nemici, porgete l’altra guancia, date a chi chiede, non preoccupatevi di quello che mangerete, non potete servire Dio e cercare la ricchezza... Raccomandazioni che a metterle in pratica, specifica il Vangelo, si fa come chi costruisce la propria casa sulla roccia (Mt7,24-27).
Se la parola “beati”, dice Candiard, può agevolmente essere resa con “felici”, le Beatitudini sono il percorso della vera felicità e restarne spiazzati è la prima conseguenza per il lettore attento. Cosa c’entra la felicità con la fame di giustizia, con la persecuzione, col pianto, con la povertà? Tanto più, possiamo aggiungere, che la gioia della risurrezione è pura felicità? Per uscire da questa rischiosa incomprensione, il padre domenicano ci ricorda che per Gesù la felicità non è nel non avere nulla, ma nel possedere il Regno di Dio, nell’abitarlo. Pertanto, «Quello che conviene cercare non è essere poveri, tristi o affamati di giustizia, ma è: essere consolati, saziati, perdonati, essere chiamati figli di Dio, è vedere Dio». Insomma, ciò che genera e dona la vera felicità, la vita vera; ciò che cercava il giovane ricco e che probabilmente cerca nel proprio intimo ognuno di noi, è tutto questo insieme, è il Regno di Dio, la perla preziosa da desiderare più di ogni altro bene al mondo. E il Regno di Dio non è l’Onnipotente che viene a prendere il controllo del mondo, ma è il suo amore incondizionato che si rivela in una povera mangiatoia e si offre sulla croce rigenerando la vita, la felicità eterna. Il Regno di Dio è amore, ed è amore donato, offerto a tutti, gratis, per sempre. Amore capace di renderci figli: divini come lui è divino. Questa è la buona novella. Questa è la grazia, sottolinea Candiard. E per cambiare le nostre vite, secondo il desiderio del giovane ricco, dobbiamo semplicemente desiderare di essere sanati e lasciarci sanare, desiderare di essere amati e lasciarci amare.
Facile? Evidentemente no se Pietro rifiuta, in prima battuta, che il Maestro lavi i suoi piedi (Gv 13,8); se tanta gente si indigna nel vedere Gesù che accetta di farsi profumare i piedi da una prostituta (Lc 7,38); se c’è chi si presenta alla festa di nozze senza essersi lasciato vestire con l’abito nuziale (Mt 22,12); se dopo secoli di dibattito teologico ancora adesso corriamo il rischio di restare irretiti dall’inganno pelagiano di conquistarci il Regno con le nostre forze, pur essendo stati avvertiti da Gesù in persona che non ne abbiamo a sufficienza.
«Nella Chiesa - aggiunge Candiard, che si chiede come mai ci sia tanta difficoltà per i cristiani a parlare di grazia - spendiamo un sacco di energie, di omelie e conferenze a lamentarci di quanto sia difficile obbedire al comandamento di Cristo e quindi amare il prossimo come noi stessi. Ci sforziamo di aggirare la difficoltà a forza di abilità esegetica e di retorica, spiegando che amare non è necessariamente quello che pensiamo, che è già tanto fare del proprio meglio, volere il bene o non fare del male. E non mi spiego come mai, nel frattempo, ci occupiamo molto meno del nostro vero campo di attenzione, cioè lasciarci rivestire dell’abito nuziale, lasciarci amare, accogliere il Regno che ci è dato».
Qui, Candiard affronta con efficace semplicità il tema della preghiera. Perché la preghiera è semplicità; è volgere l’attenzione a Dio che è nel nostro cuore «più intimo a me di me stesso», come dice Agostino (più volte citato da Candiard quale campione della teologia della grazia), lasciandosi aiutare dallo Spirito, anzi, lasciando che lui preghi per noi, come scrive san Paolo nella Lettera ai romani, perché «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (8,26) e «per mezzo dello Spirito gridiamo “Abbà! Padre!”» (8,15). Estremo paradosso, per noi cristiani così poco avvezzi ad aprirci all’amore donato e alle cose autenticamente spirituali, scoprire, come anche Candiard, che Dio prega in noi. Perché, non solo lo Spirito è in noi, ma in noi «prega per farci pregare». Dio è nel nostro cuore che ci aspetta e cosa fa? Prega! E giunge incessantemente col suo Spirito a suscitare la nostra preghiera. Per il teologo domenicano è la Trinità che in noi mostra il suo volto: l’amore che si svela nell’amore. E allora: perché non lasciarsi amare?
Nota:
FLS
EPOCALISSE: "APRIRE GLI OCCHI" (S. #FREUD, 1899), PER #CARITÀ! #FILOLOGIA E #ARCHITETTURA FILOSOFICA E ANTROPOLOGICA (#KANT2024).
#DANTEDI’, 25 MARZO 2024: UNA NOTA SULLA TRASVALUTAZIONE STORICA DELLA "VIOLENTA CARITÀ" ("VIOLENTAE CHARITATIS") DI RICCARDO DI SAN VITTORE.
STORIA E LETTERATURA. Nel bimillenario percorso planetario del #cattolicesimo romano (#Nicea 325-2025), la "#diritta via" (#Dante Alighieri) del filologico legame significante e significato tra il luogo dell’#amore e il luogo dell’#occhio ("Ubi amor, ibi oculus") è stata smarrita insieme con l’#acca ("h").
Incredibilmente, e inauditamente, l’amore, la #charitas dello stesso #Riccardo di San Vittore ("Riccardo /che a considerar fu più che #viro", più che uomo, come scrive Dante nel X del "Paradiso") è diventata la parola-chiave della teologia della ricchezza materiale e spirituale: la "caritas", senza più "h", senza più l’acca, è diventata semplicemente #Mammona, il dio ("#Deus #caritas est") dell’#economia mondiale, garante del "buon-andamento" del #carro delle borse e del #caro-prezzo del #mercato: la religione del #capitalismo, vecchio e nuovo (come aveva capito Karl #Marx, #WalterBenjamin, e, ovviamente, #DanteAlighieri).
L’EDITORIALE
Quando il diavolo ci mette lo zampino
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 02/03/2024)
Perché la ‘ndrangheta dovrebbe avvelenare il mite parroco di San Nicola di Pannaconi, popolato da mille anime appena o minacciare quello giovanissimo nella vicina Cessaniti? E perché a distanza di qualche giorno, nonostante, il clamore suscitato dagli episodi criminali (deprecabili e da condannare senza riserve), alzare il tiro e senza indugi, puntare dritto al vescovo della diocesi, quasi a voler svelare il vero obiettivo del clima intimidatorio?
Come nei gialli di Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». La risposta è da ricercare, evidentemente, all’interno della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, messa a dura prova dalla rinuncia al governo pastorale, (dopo 14anni) di mons. Luigi Renzo, il vescovo che “cancella” la Fondazione di Natuzza Evolo, finita nel gennaio 2023, al centro dell’operazione Olimpo. E tra i motivi dell’abbandono e del trasferimento dell’arcivescovo di Catanzaro Squillace, Vincenzo Bertolone.
Da qui (non mi pare poco) la nomina e l’ingresso del vescovo palmese Attilio Nostro con il compito di ricordare che «la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome» e di ricondurre alla fede, una comunità scossa dagli avvicendamenti. E c’è chi è pronto a giurare, che sono proprio i trasferimenti di tutti i parroci «mai visti da nord a sud della provincia», messi in atto dall’alto prelato, il male all’origine di tutti i mali.
E forse non è un caso se Papa Francesco, recentemente a Roma, nella Sala del Concistoro dove incontra la Conferenza Episcopale Calabra, avverte:
E rivolgendosi ai Vescovi chiede:
In attesa che la giustizia faccia il suo corso, smilitarizziamo i cuori.
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": "TONDO DONI". Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
EPIFANIA (#APPARIZIONE) E #IMMAGINAZIONE ("EPINOIA"), #6 GENNAIO 2024. Per "orientarsi nel pensiero" (#Kant) e nella realtà (#Marx), e cercare di non scambiare il gioco dell’illusione (#Schein) con la realtà dell’apparenza (#Erscheinung),
Un "invito alla lettura" dello studio sulla storia del #cibo "eu- caristico" ("EU-#CHARIS-TICO) del teologo, docente di "Storia della Chiesa", Anselm #Schubert, "Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia" (Carocci editore 2019):
NOTA:
Epifania2024. #Memoria e #archeologia di un evento epocale: i #Magi erano #sapienti e sapevano #distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone "giocastolaio" (#Erode). Ma, oggi, dove sono i magi?
Kafka ancora agli inizi del secolo scorso sapeva la differenza tra la #manifestazione epifanica e il #giogo dei "giocastolai" e delle "giocastolaie", e ricordava: "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Lettera a Helli Hermann, autunno 1921).
Anselm Schubert, “Pasto divino”
di Luca Arcari (Storica_mente.Laboratorio di storia)
Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.
Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. - che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) -, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).
Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).
La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).
Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione - stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) - siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.
FLS
Documento vaticano.
Coppie “di fatto” e dello stesso sesso, sì alla benedizione
Con “Fiducia supplicans” del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvata dal Papa, possibile benedire coppie formate da persone dello stesso sesso ma al di fuori di qualsiasi ritualizzazione
di Luciano Moia (Avvenire, lunedì 18 dicembre 2023)
Sul tema delle benedizione per le coppie irregolari o dello stesso sesso «non si debbono aspettare altre risposte su eventuali modalità per normare dettagli o aspetti pratici». La Dichiarazione firmata oggi dal cardinale Fernandez va intesa insomma come la parola finale sulla questione e va considerata come sufficiente «per orientare il prudente e paterno discernimento dei ministri ordinati a tal proposito». Una sottolineatura importante, quella indicata nel documento del Dicastero per la dottrina della fede. Quanto espresso in questo testo dev’essere considerato sufficiente, sia dal punto sostanziale, sia da quello formale.
E qui le coordinate sono esplicite: nessuna forma rituale propria della liturgia, ma preghiere spontanee con benedizioni impartite in contesti “non ufficiali”, come durante un pellegrinaggio, una visita ad un santuario, un incontro con un sacerdote, cogliendo il meglio «dalle viscere della pietà popolare» che sa individuare le strade più opportune per «invocare lo Spirito Santo».
Non si tratta di una “semplice ripetizione” di quanto già detto all’inizio di ottobre, prima dell’avvio del Sinodo. La Dichiarazione sul senso pastorale delle benedizioni per le coppie irregolari e dello stesso sesso,
Dietro al nuovo testo c’è insomma una «riflessione teologica basata sulla visione pastorale di papa Francesco» che «implica un vero e proprio sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni nel Magistero e nei testi ufficiali della Chiesa». È sulla parola “sviluppo” che dobbiamo soffermarci per comprendere il senso delle nove pagine firmate dal prefetto del Dicastero, il cardinale Victor Manuel Fernandez, e «approvate con la sua firma» dal Papa.
Uno “sviluppo” che ci fa comprendere, più sul piano pastorale che su quello dottrinale, che è possibile benedire le coppie in situazioni irregolare e le coppie dello stesso sesso «senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio».
Una contraddizione? Tutt’altro. Dietro questo ragionamento c’è un percorso coerente avviato da papa Francesco già nei due Sinodi sulla famiglia e poi nell’Esortazione Amoris laetitia: «Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo. Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino» (AL 297).
Quindi, se l’obiettivo è quello di “integrare tutti”, di aiutare ciascuno «a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale», è evidente che - come si legge nel nuovo documento - vanno accolti tutti coloro che adorano «il Signore con tanti gesti di profonda fiducia nella sua misericordia e che con questo atteggiamento viene costantemente a chiedere alla madre Chiesa una benedizione».
Un punto fermo che dovrebbe apparire esplicito alla luce del magistero di papa Francesco e, soprattutto, ai principi del Vangelo ma che, ammette il cardinale Fernandez, «ha suscitato non poche e diverse reazioni» quando è stato sintetizzato nel precedente Responsum ad dubium. «Alcuni hanno accolto con plauso la chiarezza di questo documento e la sua coerenza con il costante insegnamento della Chiesa», ma altri non hanno condiviso o non l’hanno ritenuto sufficientemente chiara. Da qui la necessità di una “seconda puntata” per entrare meglio nel dettaglio della questione e illustrare con più ampiezza il pensiero del Papa.
Proprio per evitare fraintendimenti il testo mette subito in chiaro che l’obiettivo non è quello di far confusione tra il matrimonio tra uomo e donna e altri tipi di unione. Il matrimonio è un sacramento che prevede un’unione «esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperte a generare figli». E su questo punto la dottrina resta ferma.
Altra cosa è la benedizione, considerata «tra i sacramentali più diffusi» - non sacramenti - gesti cioè che ci conducono «a cogliere la presenza di Dio in tutte le vicende della vita» e hanno per destinatari «persone, oggetti di culto e di devozione, immagini sacre, luoghi di vita, di lavoro e di sofferenza, frutti della terra e della fatica umana, e tutte le realtà create che rimandano al Creatore le quali, con la loro bellezza, lo lodano e lo benedicono».
A questo punto la grande domanda. L’amore di una coppia irregolare o dello stesso sesso rimanda al Creatore? Può diventare inno di lode e di benedizione? Finora la risposta della Chiesa è sempre stata negativa, perché - ribadisce il documento - ha da sempre «considerato moralmente leciti soltanto quei rapporti sessuali che sono vissuti all’interno del matrimoni».
Il discorso si sarebbe potuto chiudere qui se l’insegnamento di papa Francesco, ripreso nella Dichiarazione del cardinale Fernandez, non ampliasse il senso della benedizione, sollecitando quello sviluppo innovativo che riflette l’impegno di una Chiesa davvero in uscita, attenta a cogliere e a sostenere la fatica di tutte le periferie esistenziali.
Quindi una benedizione subordinata a «troppi prerequisiti di carattere morale» - come quelli previsti per un sacramento - finirebbe per porre in ombra «la forza incondizionata dell’amore di Dio», quando proprio papa Francesco «ci ha esortato a “non perdere la carità pastorale che deve attraversare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti” ed evitare di “essere giudici che solo negano, respingono, escludono”».
Ecco allora la necessità - come appunto fa la Dichiarazione - di ripercorrere le benedizioni secondo la voce della Scrittura per andare a cogliere quelle numerose ed esplicite tracce di misericordia divina che ci fanno riconoscere il gesto di benedire come «dono sovrabbondante e incondizionato». E questo, secondo la ricognizione sintetizzata nel documento, è vero sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento dove la benedizione non è soltanto ascendente «in riferimento al Padre», ma anche discendente «riversata sugli altri come gesto di grazia, protezione e bontà».
Ecco perché la benedizione dev’essere intesa anche come messaggio di «inclusione, solidarietà e pacificazione», ma anche di «conforto, custodia e incoraggiamento che esprime l’abbraccio misericordioso di Dio e la maternità della Chiesa e che invita il fedele ad avere gli stessi sentimenti di Dio verso i propri fratelli e sorelle». Nessuno escluso. Opportuno ribadirlo.
Ecco perché papa Francesco sollecita a comprendere il senso della benedizione come «risorsa pastorale da valorizzare» piuttosto che come rischio e problema anche per le coppie irregolari e per quelle dello stesso sesso. L’importante è, appunto, evitare confusioni con il sacramento del matrimonio.
Ecco perché papa Francesco sollecita a comprendere il valore della benedizione come “risorsa pastorale da valorizzare” piuttosto che come rischio e problema anche per le coppie irregolari e per quelle dello stesso sesso.
L’importante è, appunto, evitare confusioni con il sacramento del matrimonio. Opportuna quindi una benedizione non ritualizzata per evitare di confonderla con un atto liturgico o semi-liturgico, che «priverebbe i ministri della libertà e della spontaneità nell’accompagnamento pastorale della vita delle persone». Per questa ragione non si deve promuovere né prevedere «un rituale per le benedizioni di coppie in una situazione irregolare, ma non si deve neppure impedire o proibire la vicinanza della Chiesa ad ogni situazione in cui si chieda l’aiuto di Dio attraverso una semplice benedizione».
Cosa chiedere quindi nella breve preghiera che precede la benedizione? «La pace, la salute, uno spirito di pazienza, dialogo e aiuto vicendevole, ma anche la luce e la forza di Dio per poter compiere pienamente la sua volontà».
E se, sempre con il proposito di evitare confusioni, vanno evitati «abiti, gesti e parole propri di un matrimonio», non bisogna mai dimenticare che «ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni» e che «ogni fratello e ogni sorella potranno sentirsi nella Chiesa sempre pellegrini, sempre mendicanti, sempre amati e, malgrado tutto, sempre benedetti».
Ad theologiam promovenda *
Lettera apostolica in forma di «motu proprio»
del sommo pontefice FRANCESCO
1. Per promuovere la teologia in avvenire non ci si può limitare a riproporre astrattamente formule e schemi del passato. Chiamata a interpretare profeticamente il presente e a scorgere nuovi itinerari per il futuro, alla luce della Rivelazione, la teologia dovrà confrontarsi con le profonde trasformazioni culturali, consapevole che: «Quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca» (Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2013).
2. La Pontificia Accademia di Teologia, sorta agli inizi del xviii secolo sotto gli auspici di Clemente xi, mio Predecessore, e da lui istituita canonicamente col breve Inscrutabili il 23 aprile 1718, nel corso della sua secolare esistenza ha costantemente incarnato l’esigenza di porre la teologia a servizio della Chiesa e del mondo, modificando quando necessario la propria struttura e ampliando le proprie finalità: da iniziale luogo di formazione teologica degli ecclesiastici in un contesto in cui altre istituzioni risultavano carenti e inadeguate a tale scopo, a gruppo di studiosi chiamati a indagare e approfondire temi teologici di particolare rilevanza. L’aggiornamento degli Statuti, voluto dai miei Predecessori, ha segnato e promosso tale processo: si pensi agli Statuti approvati da Gregorio xvi il 26 agosto 1838 e a quelli approvati da S. Giovanni Paolo ii con la Lettera Apostolica Inter munera Academiarum il 28 gennaio 1999.
3. Dopo quasi cinque lustri è giunto il momento di revisionare queste norme, per renderle più adatte alla missione che il nostro tempo impone alla teologia. A una Chiesa sinodale, missionaria ed “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”. Come ho scritto nella Lettera al Gran Cancelliere dell’Università Cattolica di Argentina, rivolgendomi a professori e studenti di teologia: «Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. [...] Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». L’apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità, non può però ridursi ad atteggiamento “tattico”, adattando estrinsecamente contenuti ormai cristallizzati a nuove situazioni, ma deve sollecitare la teologia a un ripensamento epistemologico e metodologico, come indicato nel Proemio della costituzione apostolica Veritatis gaudium.
5. Questa dimensione relazionale connota e definisce, dal punto di vista epistemico, lo statuto della teologia, che è spinta a non chiudersi nell’autoreferenzialità, che conduce all’isolamento e all’insignificanza, ma a cogliersi come inserita in una trama di rapporti, innanzitutto con le altre discipline e gli altri saperi. È l’approccio della transdisciplinarità, cioè un’interdisciplinarità in senso forte, distinta dalla multidisciplinarità, intesa come interdisciplinarità in senso debole. Quest’ultima favorisce sicuramente una migliore comprensione dell’oggetto di studio considerandolo da più punti di vista, che tuttavia rimangono complementari e separati. La transdisciplinarità va invece pensata «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio» (Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, Proemio, 4c). Ne deriva l’arduo compito per la teologia di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.
8. Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo. Perciò occorre che venga anzitutto privilegiato il sapere del senso comune della gente che è di fatto luogo teologico nel quale abitano tante immagini di Dio, spesso non corrispondenti al volto cristiano di Dio, solo e sempre amore. La teologia si pone al servizio della evangelizzazione della Chiesa e della trasmissione della fede, perché la fede diventi cultura, cioè ethos sapiente del popolo di Dio, proposta di bellezza umana e umanizzante per tutti.
9. Di fronte a questa rinnovata missione della teologia, la Pontificia Accademia di Teologia è chiamata a sviluppare, nella costante attenzione alla scientificità della riflessione teologica, il dialogo transdisciplinare con gli altri saperi scientifici, filosofici, umanistici e artistici, con credenti e non credenti, con uomini e donne di differenti confessioni cristiane e differenti religioni. Ciò potrà avvenire creando una comunità accademica di condivisione di fede e di studio, che intessa una rete di relazioni con altre istituzioni formative, educative e culturali e che sappia penetrare, con originalità e spirito d’immaginazione, nei luoghi esistenziali dell’elaborazione del sapere, delle professioni e delle comunità cristiane.
10. Grazie ai nuovi Statuti, la Pontificia Accademia di Teologia potrà così più facilmente perseguire le finalità che il tempo presente richiede. Accogliendo favorevolmente i voti che mi sono stati rivolti perché approvassi queste nuove norme, e assecondandoli, desidero che questa egregia sede di studi cresca in qualità e per questo approvo, in forza di questa Lettera Apostolica, ed in perpetuo, gli Statuti della Pontificia Accademia di Teologia, legittimamente elaborati e di nuovo revisionati e conferisco loro la forza dell’Apostolica approvazione.
Tutto ciò che ho decretato in questa Lettera Apostolica motu proprio data, ordino che abbia valore stabile e duraturo, nonostante qualsiasi cosa contraria.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1°novembre dell’anno 2023,
Solennità di Tutti i Santi, undicesimo del Pontificato
Francesco
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023 (ripresa parziale).
VATICANO
Sinodo, la "Lettera al popolo di Dio": la Chiesa ha bisogno di ascoltare tutti *
Care sorelle, cari fratelli,
mentre si avviano alla conclusione i lavori della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, vogliamo, con tutti voi, rendere grazie a Dio per la bella e ricca esperienza che abbiamo appena vissuto. Questo tempo benedetto lo abbiamo vissuto in profonda comunione con tutti voi. Siamo stati sostenuti dalle vostre preghiere, portando con noi le vostre aspettative, le vostre domande e anche le vostre paure. Sono già trascorsi due anni da quando, su richiesta di Papa Francesco, è iniziato un lungo processo di ascolto e discernimento, aperto a tutto il popolo di Dio, nessuno escluso, per “camminare insieme”, sotto la guida dello Spirito Santo, discepoli missionari alla sequela di Cristo Gesù.
La sessione che ci ha riuniti a Roma dal 30 settembre costituisce una tappa importante in questo processo. Per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti. Per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei Vescovi. Insieme, nella complementarità delle nostre vocazioni, dei nostri carismi e dei nostri ministeri, abbiamo ascoltato intensamente la Parola di Dio e l’esperienza degli altri. Utilizzando il metodo della conversazione nello Spirito, abbiamo condiviso con umiltà le ricchezze e le povertà delle nostre comunità in tutti i continenti, cercando di discernere ciò che lo Spirito Santo vuole dire alla Chiesa oggi. Abbiamo così sperimentato anche l’importanza di favorire scambi reciproci tra la tradizione latina e le tradizioni dell’Oriente cristiano. La partecipazione di delegati fraterni di altre Chiese e Comunità ecclesiali ha arricchito profondamente i nostri dibattiti.
La nostra assemblea si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria. Abbiamo pregato per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione. Abbiamo assicurato la nostra solidarietà e il nostro impegno a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace.
Su invito del Santo Padre, abbiamo dato uno spazio importante al silenzio, per favorire tra noi l’ascolto rispettoso e il desiderio di comunione nello Spirito. Durante la veglia ecumenica di apertura, abbiamo sperimentato come la sete di unità cresca nella contemplazione silenziosa di Cristo crocifisso. “La croce è, infatti, l’unica cattedra di Colui che, dando la vita per la salvezza del mondo, ha affidato i suoi discepoli al Padre, perché ‘tutti siano una sola cosa’ (Gv 17,21). Saldamente uniti nella speranza che ci dona la Sua risurrezione, Gli abbiamo affidato la nostra Casa comune dove risuonano sempre più urgenti il clamore della terra e il clamore dei poveri: ‘Laudate Deum!’ ”, ha ricordato Papa Francesco proprio all’inizio dei nostri lavori.
Giorno dopo giorno, abbiamo sentito pressante l’appello alla conversione pastorale e missionaria. Perché la vocazione della Chiesa è annunciare il Vangelo non concentrandosi su se stessa, ma ponendosi al servizio dell’amore infinito con cui Dio ama il mondo (cfr Gv 3,16). Di fronte alla domanda fatta a loro, su ciò che essi si aspettano dalla Chiesa in occasione di questo sinodo, alcune persone senzatetto che vivono nei pressi di Piazza San Pietro hanno risposto: “Amore!”. Questo amore deve rimanere sempre il cuore ardente della Chiesa, amore trinitario ed eucaristico, come ha ricordato il Papa evocando il 15 ottobre, a metà del cammino della nostra assemblea, il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino. È la “fiducia” che ci dà l’audacia e la libertà interiore che abbiamo sperimentato, non esitando a esprimere le nostre convergenze e le nostre differenze, i nostri desideri e le nostre domande, liberamente e umilmente.
E adesso? Ci auguriamo che i mesi che ci separano dalla seconda sessione, nell’ottobre 2024, permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “sinodo”. Non si tratta di un’ideologia ma di un’esperienza radicata nella Tradizione Apostolica. Come ci ha ricordato il Papa all’inizio di questo processo: «Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità (...), promuovendo il reale coinvolgimento di tutti» (9 ottobre 2021). Le sfide sono molteplici e le domande numerose: la relazione di sintesi della prima sessione chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro.
Per progredire nel suo discernimento, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Ciò richiede da parte sua un cammino di conversione, che è anche cammino di lode: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» ( Lc 10,21)! Si tratta di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa. Ascoltare le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite. Soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più.
La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale: la testimonianza dei catechisti, che in molte situazioni sono i primi ad annunciare il Vangelo; la semplicità e la vivacità dei bambini, l’entusiasmo dei giovani, le loro domande e i loro richiami; i sogni degli anziani, la loro saggezza e la loro memoria. La Chiesa ha bisogno di mettersi in ascolto delle famiglie, delle loro preoccupazioni educative, della testimonianza cristiana che offrono nel mondo di oggi. Ha bisogno di accogliere le voci di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione.
La Chiesa ha particolarmente bisogno, per progredire nel discernimento sinodale, di raccogliere ancora di più le parole e l’esperienza dei ministri ordinati: i sacerdoti, primi collaboratori dei vescovi, il cui ministero sacramentale è indispensabile alla vita di tutto il corpo; i diaconi, che attraverso il loro ministero significano la sollecitudine di tutta la Chiesa al servizio dei più vulnerabili. Deve anche lasciarsi interpellare dalla voce profetica della vita consacrata, sentinella vigile delle chiamate dello Spirito. E deve anche essere attenta a coloro che non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito, Lui che dà “a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes 22).
“Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio” (Papa Francesco, 17 ottobre 2015). Non dobbiamo avere paura di rispondere a questa chiamata. La Vergine Maria, prima nel cammino, ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Nelle gioie e nei dolori Ella ci mostra suo Figlio e ci invita alla fiducia. È Lui, Gesù, la nostra unica speranza!
Città del Vaticano, 25 ottobre 2023
*Fonte: Vatican News
Oggi alle 18. I cristiani pregano per il Sinodo, veglia ecumenica in piazza San Pietro
Sarà presieduta da papa Francesco. Insieme per dire Dio in tutte le lingue del mondo e sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 30 settembre 2023
Insieme, together, per dire Dio in tutte le lingue del mondo. Per abbracciare nella stessa preghiera i tanti carismi che arricchiscono la Chiesa cattolica. Per sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione. Soprattutto per chiedere al Padre il dono dello Spirito perché guidi i lavori della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi che inizierà mercoledì prossimo per concludersi il 29 ottobre.
Oggi in piazza San Pietro è il giorno, anzi la sera di “Together”, la grande veglia che il Papa presiederà alle 18, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Canterbury, il primate anglicano Justin Welby. In realtà però l’appuntamento inizia molto prima, anzi è già partito. La maggior parte dei giovani dai 18 ai 35 anni, provenienti da diversi Paesi europei e di tutte le denominazioni cristiani hanno raggiunto Roma già da ieri pomeriggio. Per loro è stato preparato un programma apposito, che prevede l’accoglienza presso le comunità e le famiglie romane, quindi stamani dalle 9 alle 11 dei “laboratori” in diverse zone di Roma e, a seguire, il pranzo al sacco, la preghiera di lode in San Giovanni in Laterano, il cammino-pellegrinaggio fino a piazza San Pietro e l’animazione con canti e musiche nell’attesa del Papa.
Gli appuntamenti “giovani” inoltre non si esauriranno con la Veglia ma proseguiranno domani mattina con la Messa nelle varie parrocchie di Roma, seguite dal pranzo. Oltre ottanta le comunità dell’Urbe che hanno aperto le loro porte ai graditissimi ospiti. Together, spiega padre Davide Carbonaro, parroco di Santa Maria in Portico in Campitelli è un evento «molto atteso», perché esprime «l’ecumenismo e la sinodalità, che trovano completezza in questa esperienza» in cui un evento «della Chiesa cattolica è preceduto da un momento di preghiera con fratelli delle altre confessioni cristiane» . «L’accoglienza - aggiunge don Stefano Cascio che guida la comunità di San Bonaventura da Bagnoregio a Torre Spaccata - rientra nel concetto che la Chiesa di Roma presiede nella carità, quindi nell’apertura all’altro».
La Veglia stessa del resto respira l’aria dell’universalità. Non a caso l’appuntamento è stato organizzato nel proprio stile dalla Comunità di Taizé, che si è avvalsa della collaborazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, di quello per i laici, la famiglia e la vita e del Vicariato di Roma. Giunge in questo modo a realizzarsi una proposta lanciata due anni. «All’interno della stessa Chiesa cattolica - disse nell’ottobre 2021 disse il priore di Taizé frerè Alois invitato a parlare a Roma - , il Sinodo porterà alla luce grandi diversità. Queste saranno tanto più feconde nella ricerca della comunione, non per evitare o nascondere i conflitti, ma per alimentare un dialogo che riconcilia. Per favorire questo - aggiunse Alois - , mi sembra auspicabile che nel cammino sinodale ci siano dei momenti di respiro, delle soste, per celebrare l’unità già realizzata in Cristo e renderla visibile».
E sottolineare una volta di più il carattere ecumenico della Veglia, il patriarca ortodosso Bartolomeo I guiderà la preghiera di apertura mentre l’arcivescovo Welby, introdurrà la recita del Padre Nostro. Con loro tante voci differenti legate idealmente insieme dall’impegno a superare le divisioni e a promuovere un cammino di riconciliazione. «È una gioia essere qui - sottolinea Serge Sollogoub, arciprete del Patriarcato ecumenico di Francia - perché quando succede qualcosa in una Chiesa, dobbiamo gioire con essa; il Sinodo della Chiesa cattolica è molto importante». «Questo modo di intendere i legami tra le nostre Chiese - aggiunge la pastora Anne-Laure Danet responsabile delle relazioni tra le Chiese cristiane per la Federazione protestante francese - , legami di interdipendenza, di solidarietà, è essenziale nel movimento ecumenico. E ascoltare la Parola di Dio, lasciare che lo Spirito Santo ci ispiri e ci guidi, è anche parte di questo cammino insieme».
«Taizé è un luogo di ascolto dello Spirito Santo - osserva Karin Johannesson, vescovo della Chiesa luterana di Svezia - parliamo molto nella Chiesa, ma qui vengo per ascoltare, per discernere cosa dobbiamo fare insieme. Il processo del Sinodo è anche un processo di ascolto». Roma più che mai città dialogo dunque. Ma anche scintilla di un percorso virtuoso che vedrà iniziative di preghiera collegate con l’Urbe pressoché in ogni parte del mondo. Come dire che la famiglia dei credenti in Cristo sa che l’invocazione a Dio risulta più efficace se fatta, magari in lingue differenti ma con lo stesso desiderio di unità. Se nata insieme. Together.
Anniversario.
Beato Giovanni Paolo I, oggi prima memoria liturgica
di Dario Vitali (Avvenire, sabato 26 agosto 2023)
Accostarsi a Giovanni Paolo I e alle sue carte, che la Fondazione Vaticana intitolata al suo nome ha recensito e catalogato, significa entrare in un territorio vasto e complesso, tutto da scoprire. Dalla scrittura minuta, limpida, disseminata di abbreviazioni, emerge un mondo che si potrà conoscere solo percorrendolo più volte, e non in modo distratto e scontato, cercando conferme ad altro che non sia il profilo dell’uomo, del prete, del vescovo, del papa. Papa, vescovo, prete, perché uomo, un vero uomo, tenace di volontà, forte di pensiero, ficcante nella parola, pur nel tono flebile. La figura di Giovanni Paolo I si può accostare all’«ossimoro»: l’archivio fornirà gli elementi che possono colmare la distanza tra i termini che egli ha saputo collegare e coniugare in una sintesi tutta da scoprire e da consegnare alla Chiesa. Di quell’archivio, che abbraccia l’intera vita di Albino Luciani, soprattutto il suo ministero episcopale prima a Vittorio Veneto e poi a Venezia.
Affronto qui solo piccolo momento, ma di incredibile portata: il radiomessaggio Urbi et Orbi, pronunciato nella Cappella Sistina il 27 agosto 1978. Non si può che partire da qui per studiare Giovanni Paolo I. Il pontificato così breve obbliga a fissarsi sul programma espresso nei sei volumus, scanditi davanti al Collegio dei Cardinali che lo avevano eletto, in uno dei conclavi più brevi della storia.
Si percepisce qui l’idea di riforma così ricorrente nelle agende di Albino Luciani da apparire una direttrice del suo pensiero e della sua azione pastorale, maturata ben prima del Concilio, se la figura di riferimento che egli evoca in continuazione è san Francesco di Sales. I due riferimenti, al santo vescovo di Ginevra e al Vaticano II, si incrociano e si illuminano a vicenda, come risulta con evidenza da una nota vergata durante la prima intersessione.
Nel gennaio del 1963, facendo il punto sul Concilio, il vescovo di Vittorio Veneto annotava, come sempre in modo schematico: «Concilio ecumenico: α) Riforma; β) In capite (Curia); γ) In membris: carità > giuridismo». Il primato della carità sul giuridismo, con il richiamo alla semplicità e alla povertà lascia intuire quale fosse la prospettiva ecclesiologica del giovane vescovo. Nelle pagine a seguire egli si profonde in un’ampia sintesi dell’idea di riforma - evidentemente della vita cristiana - di san Francesco di Sales, per tornare di nuovo al tema della riforma in capite e in membris come soluzione per la vita e il cammino della Chiesa.
In questo orizzonte il Papa proietta la funzione petrina, intesa come servizio alla missione universale della Chiesa; funzione alla quale dice di volersi dedicare con tutte le forze, fisiche e spirituali: «Intendiamo servire la verità, la giustizia, la pace, la concordia, la cooperazione all’interno delle nazioni e tra i popoli». La frase richiama da vicino un’espressione che si incontra nelle agende, quando il giovane vescovo di Vittorio Veneto, chiosando molti anni prima lo schema De fontibus Revelationis, erompeva in un grido: «Servi, non padroni della verità». La stessa forza si percepisce nel proposito che suggella l’assunzione del ministero petrino: «In questo solenne momento vogliamo consacrare tutto ciò che siamo, ogni nostro sforzo [quidquid possumus] a questo supremo scopo, fino all’ultimo respiro (!), consapevoli del mandato che Cristo stesso ci ha affidato: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32)».
Nel primo volumus esprime così la volontà di adempiere «il grave ufficio» che gli è stato affidato e che egli intende svolgere in continuità con i suoi predecessori, ma soprattutto Paolo VI, del quale rammenta «l’opera immane, infaticabile, senza soste» per portare a compimento il concilio Vaticano II e per conservare la pace nel mondo. È a questo punto che Giovanni Paolo I introduce i sei volumus: 1) dare prosecuzione all’eredità del Concilio; 2) conservare intatta nella vita dei sacerdoti e dei fedeli la grande disciplina della Chiesa; 3) indicare la priorità dell’evangelizzazione nella missione ecclesiale; 4) mantenere vivo l’impegno ecumenico; 5) continuare il dialogo con il mondo contemporaneo avviato da Paolo VI; 6) incoraggiare le iniziative per la pace. Questi i sei volumus del Papa; questo il programma del pontificato.
Nella volontà di «perseguire l’eredità del Concilio» cita LG 23 quando dice che «ciascuno singolarmente ripresenta la propria Chiesa e tutti insieme in unità con il papa ripresentano la Chiesa tutta nel vincolo della pace, dell’amore e dell’unità». Sulla base di tale presupposto ecclesiologico, il Papa prosegue con un’affermazione di enorme portata, non a caso espressa con un ulteriore volumus, quasi a suggello dei precedenti: «Vogliamo fermamente rafforzare la forma collegiale dell’episcopato, avvalendoci dell’opera dei vescovi nel governo della Chiesa universale, sia mediante l’istituto sinodale, sia attraverso i compiti della Curia Romana, della quale fanno parte secondo le norme stabilite».
Il riferimento alla collegialità è particolarmente significativo, in quanto si riallaccia all’unico intervento del vescovo di Vittorio Venero al concilio - una animadversio scripta mai pronunciata in aula -, che verteva proprio su questo tema. Già la formulazione del richiamo è particolarmente interessante, perché il nuovo Papa legge la possibilità di un esercizio effettivo della collegialità nella partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale, indicando anche due «luoghi» di tale possibile esercizio: il Sinodo dei vescovi e la Curia Romana, nella quale i vescovi diocesani sono già inseriti a norma del diritto.
Soprattutto sul Sinodo dei vescovi Giovanni Paolo I sembra fare un passo in avanti rispetto al suo predecessore. Si muove, infatti, piuttosto nella direzione del decreto Christus Dominus, che recepiva la decisione papale sulla partecipazione dei vescovi alla sollecitudine per tutta la Chiesa come un riconoscimento quantomeno implicito della collegialità.
Ogni passaggio meriterebbe una rilettura in contesto e uno studio approfondito alla luce del pensiero di Giovanni Paolo I, attraverso le carte di un archivio (APAL) che restituisce - a volte anche nel dettaglio - il quadro completo della vita, del ministero, ma anche delle idee del pontefice appena eletto. Sarebbero sette volumi, ricchi di prospettive per la conoscenza tanto di Giovanni Paolo I che di una stagione complessa della Chiesa e del mondo non ancora approfondita a dovere. Qui basta averli rammentati, non tanto per vagheggiare come sarebbe stata la Chiesa di Giovanni Paolo I, ma per verificare quanto quelle sfide siano tuttora attuali. La forza che emana dai sei volumus chiama la Chiesa di oggi a riscoprire l’eredità di quel brevissimo pontificato. Per quanto i trentaquattro giorni di pontificato sembrino irrilevanti, schiacciati come sono tra due grandi pontificati, è proprio la distanza tra Paolo VI e Giovanni Paolo II che obbliga a tornare su quel brevissimo pontificato.
Esistono tornanti della storia che vedono una concentrazione di eventi in grado di incidere profondamente sul suo corso. Il 1978 - l’anno dei tre papi e perciò di due conclavi - è uno di quei tornanti: sondare quel pontificato come un passaggio decisivo per l’esercizio del ministero petrino, con riflessi enormi sulla vita della Chiesa, aiuta non solo a ricostruire il profilo di Giovanni Paolo I, ma a comprendere le sfide con le quali la Chiesa era ed è chiamata a misurarsi.
*Componente del Comitato scientifico della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I e docente all’Università Gregoriana
"UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE") E ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"): "L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX". *
Riscoperte.
Marshall McLuhan tra apocalisse mediatica e pensiero cristiano
Il grande teorico della comunicazione non nascondeva la sua fede: un libro raccoglie i testi dove ne parla. «Nell’epoca della nuova oralità la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare alla gente»
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 3 agosto 2023)
Si pronuncia il nome di Marshall McLuhan (1911-1980) e il pensiero corre all’idea di villaggio globale. Come un riflesso condizionato si ripete con noncuranza anche la sua felice formula “il mezzo è il messaggio”. Eppure dell’autore canadese docente all’università di Toronto, nato come esperto di critica letteraria e letteratura inglese e diventato noto come studioso delle trasformazioni indotte dalle rivoluzioni tecnologiche, è più facile citare le sue locuzioni che addentrarsi nel suo pensiero. Non a caso, durante una sua comparsata nel film Io e Annie di Woody Allen, pronunciò la battuta «lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». E proprio da qui si deve partire.
È vero che il contenuto della trasmissione influisce di meno sulla società e sui comportamenti dei suoi membri di quanto faccia il medium che la veicola, il quale finisce con il condizionare stili di vita, visione del mondo e idee. È parimenti vero che l’introduzione della cultura alfabetica, imposta dalla diffusione della stampa a caratteri mobili ai tempi di Gutenberg, ha condizionato le forme del vivere insieme al pari di quanto faceva in precedenza la trasmissione orale, prima dell’introduzione e diffusione della scrittura. E probabilmente altrettanto imponenti trasformazioni seguiranno con i media elettronici, che porteranno le società attuali nei meandri ancora inesplorati della cultura postalfabetica, come aveva profetizzato in anticipo su altri proprio McLuhan.
Ridurre però il pensiero di McLuhan a un presunto determinismo significa davvero ignorare la portata delle sue riflessioni e soprattutto misconoscere quanto fa da sfondo a tutto il suo lavoro. Si tratta di un punto di avvio non marginale per dare un senso alla ricerca dello studioso canadese. Si eviterà così di citare degli estratti del suo pensiero decontestualizzati dall’orizzonte ideale da cui sono anche alimentati.
Per smontare l’accusa di determinismo che spesso si imputa a lui e a tutta la scuola di Toronto, di cui fa parte anche il gesuita Walter Ong, basta citare una risposta fornita da McLuhan nel corso di un’intervista rilasciata al periodico americano “Future Church” nel gennaio del 1977. A chi gli chiede da cosa dipenda il suo ottimismo, il teorico dei media risponde senza infingimenti: «Non sono mai stato un ottimista o un pessimista - precisa -. Sono solamente un apocalittico. La nostra sola speranza è l’Apocalisse». E continua: «L’Apocalisse non è l’oscurità. È la salvezza. Nessun cristiano potrà mai essere ottimista o pessimista: questo è solamente uno stato d’animo secolare».
Col rifiuto di pessimismo e ottimismo si sgretola pure ogni concezione determinista, che però non significa trascurare le ricadute che le tecnologie hanno sulla vita di tutti i giorni. Quanto emerge da queste parole è invece la sua fede spesso negletta o semplicemente ignorata dagli interpreti- Non a caso poco si sa della sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1936, all’età di venticinque anni e poco ci si è interessati a scandagliarne l’influenza sulla sua produzione intellettuale. Di conseguenza a essere lasciata in disparte da critici e seguaci è la riflessione dello studioso legata a tematiche religiose, quasi che discuterne ne minasse l’autorevolezza come teorico dei media.
Ora i suoi contributi più importanti sulla questione sono stati raccolti e curati da Gianpiero Gamaleri nel volume pubblicato dall’editore Armando, La Chiesa secondo McLuhan. Il volto sconosciuto del profeta dei media (pagine 250, euro 20). Insieme a testi e interviste dello studioso canadese, il libro contiene anche alcune lettere inviate ad autori come Walter Ong e Jacques Maritain oltre che missive spedite alla madre e alla moglie e una testimonianza del figlio Eric.
Di quanto la fede cattolica di McLuhan fosse profonda ne fornisce testimonianza il collega e amico Ong in una conversazione con il curatore del volume: «Marshall era un cattolico assai fervente, dalla fede profondissima - precisa il padre della Compagnia di Gesù -. Di tanto in tanto egli testimoniava anche pubblicamente la sua fede. Una volta stava parlando qui all’Università di Saint Louis a un vasto gruppo di studenti quattro anni prima di morire e uno studente gli disse: professor McLuhan sono scoraggiato da tutte queste cose che sta dicendo, cosa possiamo fare? Egli rispose: beh, restano sempre la preghiera e i sacramenti della Chiesa».
Per il peso che la fede ricopre nella sua vita non è lecito pensare che McLuhan non rivolga la sua attenzione ai cambiamenti che l’arrivo dei mezzi di comunicazione digitale comporteranno per la stessa Chiesa e per il cattolicesimo. «Credo che le forze poderose che ci hanno investito con l’elettricità non siano state tenute nel benché minimo conto da parte dei teologi e dei liturgisti» ammonisce. E questo, secondo lo studioso dei media per cui il mezzo conta più del messaggio, può avere ricadute enormi sulla Chiesa e sulla fede.
I nuovi media, per McLuhan, inducono a trasformazioni epocali. Porterebbero a una progressiva interiorizzazione a discapito della socialità, su cui dovrebbero giocarsi le scelte pastorali. Se la scrittura con l’introduzione dei caratteri mobili promuoveva l’aspetto visivo della lettura, secondo McLuhan, i nuovi media elettronici danno spazio all’aspetto acustico. «Lo scritto, in generale, è da parte sua determinato e immutabile, - spiega McLuhan - costituisce l’hardware; mentre il linguaggio parlato, libero e mutevole, si richiama piuttosto al software. Il visivo è hardware, l’acustico software. La liturgia, per il suo aspetto di creatività e di improvvisazione è riferibile al software».
Ecco che, per lo studioso canadese, «oggi è la parola del pontefice che conta. Nell’era elettronica la parola ridiventa se stessa, non sopporta più di essere pietrificata nei documenti».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980)."Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986). MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!
FLS
Riflessioni sul rinnovamento teologico
A colloquio con monsignor Piero Coda, segretario della Commissione teologica internazionale
di ANDREA MONDA E ROBERTO CETERA *
Potremmo intanto iniziare chiedendole un parere sullo stato attuale della teologia. C’è la sensazione che la teologia spesso stenti a tenere il passo con gli spunti innovatori proposti da Papa Francesco. Permane una certa autoreferenzialità della riflessione teologica, tanto in quella “conservatrice” che in quella “progressista”, che non sembra aver accolto quell’indicazione alla “missionarietà” della teologia richiesta da Papa Francesco in «Veritatis gaudium».
Penso che l’impressione sia vera: c’è una certa inerzia, poca creatività e l’impasse causata dal rifiuto di liberarsi dal fardello di posizioni preconcette. Osservando le cose dalla postazione della Commissione teologica internazionale, istituita da Paolo VI sulla scia del Vaticano II , direi così: nei primi decenni dopo il Concilio, l’impegno teologico si è concentrato nel declinare le grandi direttrici di marcia emerse con nettezza e profezia dall’assise conciliare. Questo fatto ha comportato un complessivo riposizionamento: la teologia ha mutato volto, rinnovandosi nei contenuti e nella metodologia. Ora ci troviamo in una fase nuova, che è propiziata dal ministero di Papa Francesco ma risponde in senso più largo a ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa e opera - non senza contrasti - nella storia. È una fase in cui la teologia sta cercando, con fatica, d’intercettare la lunghezza d’onda dello Spirito Santo. Spesso si rischia però di fare due passi avanti e uno indietro... Si tratta di accogliere e implementare con creatività le linee proposte dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium. È uno spirito che anima molti giovani teologi, che sono preparati, sinceramente ecclesiali, aperti, capaci d’istruire un dialogo su diverse frontiere. E ciò nell’ambito delle Chiese locali, in presa diretta coi diversi contesti culturali ma al contempo con sguardo alla “cosmopoli” - direbbe Bernard Lonergan - in faticosa gestazione. Così ad esempio in Italia, dove la teologia ha cominciato appunto a parlare con incisività in lingua italiana. Per questo, la prima volta che incontrai Papa Francesco gli dissi: «Lo sappia: la teologia italiana è con lei». [...]
Abbiamo la necessità di uscire da una narrazione favolistica tanto del momento creativo che di quello escatologico. Questo sicuramente darebbe nuova credibilità alla fede per l’uomo moderno.
È un impegno su cui siamo indietro e su cui dobbiamo lavorare: ma prima occorre sperimentarlo. È così che si mette in gioco la valenza missionaria della teologia che Papa Francesco chiede, per ridare orizzonte e speranza a chi è confuso e sfiduciato davanti alle sfide, davvero epocali, che c’interpellano. Occorre dischiudere - per dirla con Antonio Rosmini impiegando un lemma pregnante - l’ontologia e cioè la verità e la bellezza della realtà che è partorita dalle viscere della Rivelazione. Gesù ha inaugurato quel nuovo modo d’essere in cui siamo tutti - tutti! - inseriti per dono. Come insegna il Concilio nella Gaudium et spes al n. 22, «dobbiamo ritenere (il latino è forte: tenere debemus) che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità, nel modo che Dio conosce, di venire associati al mistero pasquale di Cristo», che è il centro della storia.
C’è un “cronotopo” cristico, pneumatico, pancosmico (come si è ingegnato a illustrarlo Theillard de Chardin) che è lo spazio/tempo in cui viviamo, crediamo, amiamo, pensiamo, agiamo. Entrare in questa dimensione di vita e di pensiero - e dimorarvi in fraternità e convivialità con l’universo creato - è oggi un imperativo per la teologia: non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia.
È un compito immane, che necessita una buona dose di coraggio. Perché occorre ricominciare il pensiero fin dal suo inizio. Per esempio la teologia del peccato originale.
Una realtà trasversale. Anni addietro la Congregazione per la Dottrina della Fede lavorò a un documento sul peccato originale. Ma non se ne fece niente. La meditazione responsabile e aperta sulla realtà della tentazione, della caduta e della redenzione è senz’altro centrale - come mostrano il racconto della Genesi e il compimento della sua promessa in Gesù - e va rimessa in circolo con un’ermeneutica adeguata, partendo dall’affermazione della Lettera ai Romani di Paolo: «dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia» (cfr. Rom 5, 20). La chiave di tutto è la grazia di Dio, che è amore ed è misericordia. Il dato - che è dono - della libertà della creatura umana, della sua vulnerabilità e della serietà del male, va decifrato in questa luce. Che è quella di Gesù crocifisso, sino a patire la notte dell’abbandono, e di lì per sempre risorto, primogenito tra i molti fratelli e sorelle, primizia di cieli nuovi e terra nuova.
E messa in relazione anche al passo sempre paolino sulle “doglie del parto”, cioè a quella fragilità dell’umano che è integrata alla creazione, all’uomo essere perfettibile. Una fragilità che l’uomo moderno vede oggi, alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, con un occhio diverso.
Non possiamo più accodarci a una lettura semplificata della questione dell’evoluzione del cosmo e della crisi ecologica che - con l’avvento dell’antropocene - assume oggi proporzioni tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e della casa comune che la ospita ed è confidata alla sua cura. Fa difetto una riflessione approfondita sulla connessione tra la coscienza della vocazione umana, e quindi dello sviluppo del cosmo in cui essa si dà, e la sfida della libertà. È il tema fondamentale della modernità. La libertà è condizionata non solo da quell’ignoranza che può essere persino invincibile, ma anche dalla cattiva coscienza: e cioè da quel peccato contro lo Spirito che - attesta Gesù - è l’unico a non essere perdonabile. Occorre pensare e gestire la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana prendendo sul serio la tentazione della cattiva coscienza: e cioè la forza tragica del male che scaturisce da una libertà esercitata contro la verità dell’uomo, del creato, di Dio. È il mistero della libertà. E il mistero della grazia.
La psicanalisi nel secolo scorso, e le scoperte delle neuroscienze in questo secolo, sembrano aver inficiato la concezione di libertà alla base del pensiero cristiano. Nel senso che l’uomo sarebbe assai meno libero di quanto siamo abituati a credere.
Ciò che consente di penetrare la relazione tra la libertà e la grazia è il tempo ed è la relazione. Abbiamo pagato un prezzo alto a una certa oggettivizzazione e cosificazione della grazia. Come se si trattasse di un contenuto o di uno stato che viene assegnato a priori, e la libertà fosse semplicemente la facoltà di accettarlo o rifiutarlo. La verità è più profonda. Si tratta di aprirsi, accogliere e lasciarsi plasmare da una relazione viva e personale: con Dio, in Cristo e, in Lui, con gli altri. La grazia si dà negli incontri che ci occorrono lungo l’esistenza. Per rispondere alla sua domanda: bisogna mettere allo scoperto il nucleo profondo della libertà che attraversa certo, nel suo esercizio, una serie di condizionamenti culturali e storici, senza però esser estinta nella sorgente da cui sprizza: che tale è perché vive del contatto vivo con la grazia, e cioè nella relazione con quel Qualcuno che la vuole, la fa essere, la libera, la introduce - per dirla con la Dei Verbum - alla comunione di vita con Sé nell’abisso della sua Vita che è Luce e Amore. Un Qualcuno (con la maiuscola) che s’esprime sempre attraverso un qualcuno (con la minuscola). Se perdiamo questo senso della libertà, perdiamo l’umano. E il creato. Psicoanalisi e neuroscienze sono benedette nel darci conto della nostra condizionatezza, ma - come insegna un maestro della filosofia come Luigi Pareyson - la condizionatezza propria dell’umano è un’antenna che permette d’interpretare nella libertà la Verità e di plasmare alla sua Luce l’esistenza. La condizione e condizionatezza storica e culturale non è mai lo schiacciamento o persino l’annichilimento della libertà. Un Dio che non consegnasse alla libertà la sua creatura produrrebbe degli automi. Egli stesso sarebbe un automa. Non il Dio vivente come lo percepiamo a tentoni ma con incoercibile sentire. E come Si è rivelato e a noi donato sino alla fine in Gesù.
Il tema dei condizionamenti ci porta inevitabilmente alle considerazioni etiche e morali. Tra queste ad esempio occorrerebbe accendere una luce sul tema dell’influenza del sociale sui comportamenti dell’individuo, in primis l’imprinting che la famiglia, come primo nucleo sociale, esercita sul nostro agire . Ma anche questo, in progressione coi cambiamenti antropologici di cui parlavamo prima, va cambiando. La famiglia (quando c’è) non è più quella che idealizziamo ancora nella nostra pastorale. Pensi per esempio alla mobilità delle famiglie di oggi. O agli enormi cambiamenti intervenuti nel rapporto uomo-donna.
Anche la sociologia induce a un ripensamento di alcuni assiomi che davamo per immutabili, e che interferiscono con la dottrina etica insegnata dalla Chiesa. Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile - e benedetta! - del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare - e imprigionare - la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o... dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel Cantico dei cantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà. La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà. Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli. Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare.
Alla luce di un ripensamento sui connotati della grazia occorrerebbe trattare anche degli strumenti principali di sua espressione: i Sacramenti. In una recente intervista al nostro giornale Elmar Salmann ha detto che più ancora dei numeri dei fedeli lo preoccupa il declino della prassi sacramentale.
Il linguaggio sacramentale, così come lo proponiamo, risulta sempre più ostico e indecifrabile per le nuove generazioni: che pure - e forse come mai - sono assetate dell’acqua viva che ne scaturisce. Anche i teologi che dichiarano di voler innovare rimangono spesso prigionieri di un’autoreferenzialità sconcertante. Occorre una rivisitazione, nello spazio di quella ri-semantizzazione dell’esperienza viva dell’avvento del Regno che si realizza in Gesù e che, appunto, si verifica grazie alla mistagogia sacramentale. Dovremmo semplicemente ripartire sperimentando con stupore e gioia che l’evento della Pasqua del Cristo si fa attuale attraverso questi gesti santi di prossimità che ne mostrano e agiscono la grazia nella nostra vita. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, dal campo di concentramento, nei suoi pensieri per il giorno del battesimo riportati postumi in Resistenza e Resa: «L’antico spirito, dopo il tempo del suo misconoscimento e della sua effettiva debolezza e dopo un periodo di ritiro, di ripensamento interiore, di prova e di guarigione, saprà creare a se stesso forme nuove ... non dobbiamo aver fretta, dobbiamo saper aspettare ... nelle parole e nei gesti della tradizione intuiamo qualcosa di totalmente nuovo e di sconvolgente, senza tuttavia riuscire ad afferrarlo e a esprimerlo».
Riarrotolando il nastro di questa conversazione: siamo partiti dal peccato originale: da ripensare; poi la grazia: da ripensare; poi la libertà: da ripensare; poi i sacramenti: da ripensare. Fossimo nei suoi panni monsignor Coda, pensando al lavoro che c’è da fare - nell’assunto che non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia -, ci tremerebbero i polsi...
In verità, il compito cui sono stato chiamato da Papa Francesco a servizio della CTI , e ora anche nella Commissione teologica del Sinodo, lo vivo con serenità e passione, e non mi sembra poi così gravoso o drammatico. Che anzi mi entusiasma. Perché - dal punto di vista personale - è in linea con la chiamata che mi è stata fatta ormai molto tempo fa: vivere e imparare insieme con gli altri a camminare nella sequela di Gesù, oggi, guardando con occhi di amore al mondo che siamo. La missionarietà della teologia invocata da Papa Francesco mi è di conferma in quanto ho cercato di vivere, nel piccolo, nell’esercizio del ministero teologico. Due gli elementi che mi hanno sempre ispirato, perché li vedevo troppo poco presenti e attivi: la relazione e il tempo, e cioè la fraternità e la storia. Amare Dio con l’intelligenza per amare con intelligenza l’uomo e il creato, che sono il suo amore. Amore che chiede oggi un surplus d’intelligenza e discernimento. Questa la sfida per la teologia.
Una ricerca senz’altro attraente e oggi, diciamo, avventurosa per il suo carico innovativo pur nel solco della tradizione. Però alla fine c’è il magistero....
La spinta innovativa di Papa Francesco è sotto gli occhi di tutti, anche se in modo non scontato. Perché chiede di vivere in uno stato di perenne conversione. Come del resto chiede il Vangelo. Ma c’è da ricordare che la Dei Verbum al n. 8 mette il magistero al terzo posto tra i fattori che dinamizzano quel cammino del Popolo di Dio che felicemente sperimentiamo oggi come cammino sinodale: il primo è lo studio della Parola di Dio, e cioè la sua intelligenza nella fede e nella pratica dell’agape; il secondo è l’esperienza della vita di fede attraverso il sensus fidei e i doni dello Spirito Santo; il terzo appunto è il magistero. Perché il magistero non fa altro che recepire, con il carisma di verità e di guida di cui è dotato per servire, i frutti portati dalla Parola vissuta nello Spirito dal Popolo di Dio. A proposito del percorso sinodale, voglio aggiungere una cosa: la teologia non si limita a studiare la sinodalità, la teologia si fa sinodalmente. Sono convinto che il Sinodo sulla sinodalità sarà fra 50 anni guardato come oggi guardiamo al Vaticano II . Un passaggio epocale nella storia della Chiesa. Nella Commissione Teologica Internazionale - fin dalla sua istituzione - si cerca di assumere questo stile di lavoro sinodale che crea condivisione e genera fecondità. Stiamo lavorando proprio sui temi del cambiamento antropologico di cui dicevamo; e poi, nella ricorrenza dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, abbiamo avviato una riflessione sul significato permanente e profetico della confessione di fede nicena; stiamo infine studiando la teologia della creazione nella chiave di un’ecologia integrale alla luce della Laudato si’.
Monsignor Coda, lei ha dedicato gran parte dei suoi studi all’Ontologia Trinitaria. Perché?
L’Ontologia Trinitaria è vivere, pensare e gestire il senso della nostra esistenza e della realtà in cui viviamo alla luce di Dio che in Gesù si dice Amore e ci dona il soffio del suo Spirito «senza misura». La preghiera di Gesù al Padre non è forse stata: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te: Io in Te e Tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21)? Dunque, camminare sotto lo sguardo di Dio Trinità e vedere ogni cosa in questa luce. Immediatamente dopo il Concilio, Jean Daniélou - in quel gioiello che è il suo La Trinità e il mistero dell’esistenza - scriveva che il fondo dell’essere è la comunione. «Una rivelazione prodigiosa - esclamava -. Pare inverosimile che i cristiani, in possesso di questo segreto ultimo delle cose, capaci di penetrare con lo sguardo di Cristo nell’abisso del mistero nascosto in cui tutto è immerso, non siano maggiormente coscienti dell’importanza fondamentale del messaggio che devono trasmettere... La pienezza dell’esistenza personale coincide, nella Trinità, con la pienezza del dono dell’uno all’altro». Di qui una spinta, penso discriminante, a leggere con occhi nuovi ciò che è in gestazione nel parto di proporzioni panumane e cosmiche che investe il nostro tempo. Un’avventura appassionante e bella, concreta e tempestiva. Basti guardare - ripeto - al processo sinodale in cui oggi è impegnata la Chiesa cattolica, ma con l’abbraccio universale, gratuito e invitante, proposto dal Vaticano II , rilanciato da Papa Francesco e intrapreso con speranza dal Popolo di Dio. C’è bisogno di un nuovo pensare perché la Chiesa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo in quanto segno e strumento di unione con Dio e di unità del genere umano (cfr. Lumen gentium, 1), diventi ciò che è per grazia. Come intuisce Papa Francesco: «La Chiesa è “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). Per questo, nella realtà che denominiamo “sinodalità” possiamo localizzare il punto in cui converge in modo misterioso ma reale la Trinità nella storia».
*Fonte: L’Osservatore Romano, 27 luglio 2023 (ripresa parziale).
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
FILOLOGIA, TEOLOGIA ED ECONOMIA.
Sulla differenza (già aristotelica) tra la Saggezza (Prudenza /Phronesis) e la Sapienza (Scienza / Sofia), forse, sarebbe opportuno (quanto prima) fare epocale chiarezza e, possibilmente, non continuare a confondere la caritatevole Giustizia o Rettitudine (ebr. Zedaqah, o Tzedakah), la CHARITAS (gr. XAPITAS) del Logos evangelico, che richiama la grazia (Charis, gr. Xapis), con la "CARITAS" del logo di Mammona (lat. "carus": "caro", affetto e prezzo; e carestia)!
Con-fondere "Deus charitas est", con "Deus caritas est", acceca sull’ "Initium sapientiae timor Domini" (Sap. 7, 7-11) e fa perdere ogni possibilità di uscita dall’inferno delle "buone" intenzioni e della "buona" elemosina (carità)!
Federico La Sala
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
ANTROPOLOGIA, STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA:
RICORDANDO che "I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il #22febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare", e, ancora, che "[...] In quanto festa dell’amore, i Caristia non erano incompatibili con le abitudini cristiane, ed alcuni studiosi hanno notato delle influenze di Parentalia e Caristia sulla festa cristiana delle agapi, come il consumo di pane e vino presso la tomba sostituito dall’Eucaristia [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Caristia) forse, è opportuno svegliarsi dal sonno dogmatico e cercare nei limiti del possibile di non confondere l’amore disinteressato (il "Deus charitas est") con l’amore di mammona (il "Deus caritas est") e di non dimenticare la differenza che corre tra la caristia e la carestia: la prima rinvia alle Grazie e alla Grazia (#Charis, gr.: Xapis), la seconda al "caro" (lat. "carus") del mercato, nel senso del "prezzo", del "costoso".
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. PARTID. 1. tit. 5. l. 42. La primera Charidád, que quiere tanto decir como amor de Dios mäs que de otra cosa, è de sí, è de su Christiano. NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II, 1729)
P. S.
CHARISTIA o CARA Cognatio ...
"I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il 22 febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare [...] Durante i Parentalia le famiglie visitavano le tombe degli antenati e condividevano dolci e vino sia come offerte che come pasto. [...] " (Wikipedia).
CHARUN: "Nella mitologia etrusca, Charun (o Charu) era uno psicopompo o necropompo del mondo sotterraneo chiamato Ade. È il nome equivalente della figura della mitologia greca Caronte. Charun [...] viene rappresentato a protezione delle porte dell’Ade [...]".
Харистии - (Charistia) или, правильнее, Каристии древнеримский праздник, относившийся к числу родительских и замыкавший так называемые dies parentales (родительские дни); он приходился на 22 февраля. Это был день радости и вознесения богам молитв за живущих ... https://latin_latin.en-academic.com/14340/CARA_Cognatio.
FLS
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
FILOLOGIA E STORIA: RITORNARE A SCUOLA DA LORENZO VALLA (1440) E RISALIRE ALLA SORGENTE DELLA DIFFERENZA DI SIGNIFICATO TRA "CHARITAS" E "CARITAS".
IN #MEMORIA DEL TEOLOGO BELGA CHARLES MOELLER, A 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Note a margine di un articolo di Massimo Borghesi (Insula Europea) *
A) "#Karitas (von lat. #caritas = Teuerung, Hochachtung, hingebende Liebe, uneigennütziges Wohlwollen) ist im Christentum die Bezeichnung für die tätige Nächstenliebe und Wohltätigkeit. [...]"(https://de.wikipedia.org/wiki/Karitas).
B) #CHARITAS (gr. #XAPITAS). Che la "charitas" sia partecipe dell’orizzonte #greco è chiaro, così come la "caritas" sia partecipe dell’orizzonte #latino è altrettanto chiaro, ma che si continui ad equiparare logicamente, teologicamente, antropologicamente e filologicamente, "Dio-amore" ("Deus #charitas est") e "Dio-mammona ("#Deus #caritas est") è semplicente folle e autodistruttivo!
C) "I 110 anni dalla nascita di Charles Moeller (1912-1986), teologo e critico letterario belga, ci offrono l’occasione per ricordare un autore che non può e non deve essere dimenticato. Moeller, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, ha collaborato al #ConcilioVaticanoII svolgendo un ruolo decisivo nella stesura dello schema XIII, La Chiesa nel mondo, che ha poi dato vita alla costituzione Gaudium et Spes. È stato Segretario della Segreteria per l’Unità dei Cristiani e, su incarico di Paolo VI, Rettore dell’Istituto Ecumenico di Gerusalemme. È l’autore di due grandi opere.
La prima, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, pubblicata nel 1948, è un libro splendido, che ha come interlocutore ideale la gioventù francese, disorientata e priva di certezze, quale emergeva dall’immane tragedia della guerra. A essa, poggiante su un umanesimo distrutto, ben espresso dall’esistenzialismo in auge, Moeller proponeva il “paradosso” cristiano quale umanesimo assolutamente nuovo. Il metodo seguito era, in analogia a quanto aveva fatto #RomanoGuardini nei suoi studi su Hölderlin, Dostojewski, Rilke, di far risultare la verità cristiana rapportandola alla rappresentazione dell’uomo propria dell’opera artistico-letteraria.
Omero e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide da un lato e i moderni Shakespeare, Racine, Dostojewski dall’altro erano le grandi voci di un coro chiamate a evidenziare tanto i conflitti irrisolti dell’animo greco (il tema del male, del dolore, della morte, ecc.) quanto il modo in cui l’avvenimento cristiano muta l’orizzonte della drammatica nei tragici moderni. Attraversato dall’enigma della morte lo spirito greco oscilla, secondo Moeller, tra un’adesione profonda alla vita e alla terra e un rifiuto delle medesime quale vuota apparenza. Questo dissidio tra amore della “carne” e nostalgia di una pienezza in un aldilà, viene a risolversi solo con il cristianesimo. Solo qui viene realizzato ciò che i greci sognavano: «salvare il reale visibile e trasfigurarlo». Solo la risurrezione della carne consente al cuore di riconciliarsi con la terra senza rinnegare il desiderio di infinito che lo abita. Il dissidio greco torna, non superato, in quella parte della letteratura contemporanea che si rifiuta alla speranza cristiana.
Nel primo dei sei volumi dell’altra grande sua opera, Litterature du XX siècle et christianisme, tradotta in italiano da Vita e Pensiero, dal titolo Il silenzio di Dio, la «fedeltà al mondo» viene espressa mediante le figure di Camus e di Gide mentre il rifiuto, l’ombra sulla realtà, è presente nelle tendenze “gnostiche” di Aldous Huxley e Simone Weil. Ancora una volta solo nel cristianesimo l’antitesi può essere superata. Esso afferma che il mondo è salvo in quanto è trasfigurato. Tale trasfigurazione non sopprime la materia, né la personalità. Julien Green, Graham Greene, Bernanos documentano la difficile strada della fede, speranza, carità in un mondo velato dal dolore e dalla corruzione, il sì al finito nella luce dell’infinito. Fede, speranza e amore - le tre virtù teologali - costituiscono pure il tema dei successivi volumi dell’opera in una forma per cui esse si situano in continuità e al contempo in rottura con la fede, l’attesa, l’amore puramente umani.
Il secondo volume, La fede in Gesù Cristo, vede come interlocutori Sartre, Martin du Gard, H. James, Malègue. Il terzo, La speranza degli uomini, espressa da Malraux, Kafka, Vercors, Sciolokov, Maulnier, Bombard, Sagan, Reymont, prepara, non senza una chiara discontinuità, il quarto, La speranza in Dio Padre, i cui autori: Anna Frank, Miguel de Unamuno, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Fritz Hockwälder, Charles Péguy, «hanno decifrato i segni della seconda virtù teologale in una umanità straziata dal dolore e abbrutita dalla morte». Parimenti il volume quinto, Gli amori umani, con saggi su Françoise Sagan, Brecht, Saint-Exupéry, Simone de Beauvoir, Paul Valéry, Saint-John Perse, doveva aprire il campo al sesto e ultimo volume sull’amore di Dio, l’«amore dello Spirito Santo», che uscirà postumo nel 1993 con il titolo Esilio e ritorno, dove tratta di Marguerite Duras, Ingmar Bergman, Valery Larbaud, François Mauriac, Gertrud von le Fort, Sigrid Undset.
La prospettiva dei volumi era chiara: mostrare mediante un approccio non astratto quale quello della letteratura, il soprannaturale come compimento, impossibile all’uomo, dell’umana natura. Tra cristiano e umano non v’è abisso che il mistero dell’incarnazione non abbia già superato. Fuori da questo incontro vi sono due possibili interpretazioni cristianamente riduttive: «gli umanisti, i quali elaborano un ordine umano chiuso su se stesso; e gli escatologisti, i quali trovano che la cultura, davanti alla prospettiva della fine dei tempi, non ha importanza alcuna». Entrambi, scrive Moeller, «affermano che la cultura cristiana non conta solo che gli uni preferiscono, segretamente, una storia puramente profana, gli altri invece, una storia di contenuto puramente religioso, ma tanto gli uni che gli altri sono infedeli all’incarnazione di Dio nella storia». Essere fedeli a essa significa assumere, nella fede, la totalità dell’umano. Di qui il grande amore di Moeller per Péguy, come di un testimone profetico del regno futuro, regno «carnale-spirituale», «temporale-eterno». «Nel mio Paradiso - scriveva Péguy - ci saranno le cattedrali di Chartres... ci sarà tutto». E ancora, come per puntualizzare: «Nel mio Paradiso ci saranno delle cose». Le cose, spiegava Moeller, «sono le parrocchie, i villaggi, i campi di grano, in una parola il vero regno di Dio, celeste e terrestre».
Un’affermazione che manifestava, appieno, il suo realismo, la sua passione per la realtà, il suo modo di sentire il cristianesimo: come resurrezione della carne e non già come fuga idealistica dal mondo. Nel gennaio del 1979 ho avuto l’occasione di incontrarlo. Un amico doveva intervistarlo per il settimanale “Il Sabato” e mi chiese di accompagnarlo in via della Conciliazione, a Roma, dove si trovava. Ricordo che gli rivolsi una domanda su Simone Weil alla quale rispose: «Debbo dire che il capitolo su Simone Weil del primo volume di Letteratura e cristianesimo non è un buon capitolo. La reattività, con cui l’ho pensato e scritto, mi ha impedito di comprendere il profondo significato della Weil. Ho scritto in modo reattivo, perché in certi ambienti culturali e religiosi del Belgio e della Francia di quel tempo non vi era sufficiente coscienza del pericolo gnostico e dualista di alcuni testi della Weil. Oggi non vi è più questo pericolo nel leggere la Weil e, se si confrontano la prima e la settima edizione, si scorgono i mutamenti che vi ho apportato». Si trattava di una rettifica importante che consentiva di non contrapporre la Weil all’amato Péguy.
Quando lo incontrammo, nel 1979, gli chiedemmo dei suoi progetti futuri. Ci rispose che stava lavorando al sesto volume di Letteratura e cristianesimo, che uscirà postumo, e poi ad un libro sul «metodo di lettura del passato» e, da ultimo, ad un testo su Proust. Instancabile e generoso fino alla fine ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla letteratura classica e sulla grande letteratura del ‘900.
* Cfr. Massimo Borghesi, "Dio nella letteratura del ’900", Insula Europea, 30 novembre 2022.
A colloquio con il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Maria Zuppi
La Chiesa che conversa con gli uomini del suo tempo
di ANDREA MONDA e ROBERTO CETERA *
«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.
Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.
Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, [...] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.
La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.
Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati - religiosamente e civilmente - nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto XVI parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non - per usare un termine oggi un po’ abusato - autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II . Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.
Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.
Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!
Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.
Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive - a cominciare dalla memoria - sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.
In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.
Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni XXIII sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.
Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.
Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.
Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.
Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno - e la ricerca - dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.
Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua - povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione - appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?
Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.
[...]
In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?
Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.
Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.
Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.
Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.
Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici - anche atei - che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 settembre 2022 (ripresa parziale).
La sintesi Cei. Sinodo: più ascolto e accoglienza, ecco cosa dicono le Chiese locali
Tra i nodi anche il ruolo delle donne, la capacità di inclusione, la corresponsabilità dei laici, l’attenzione alle nuove fragilità. Nel documento indicati 10 nuclei prioritari. Il testo integrale
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 18 agosto 2022)
Il distillato di circa 50.000 gruppi sinodali, che hanno coinvolto mezzo milione di persone. Un lavoro coordinato da più di 400 referenti diocesani insieme alle loro équipe. Il tutto confluito in 200 sintesi diocesane e 19 elaborate da altri gruppi, per un totale di più di 1.500 pagine pervenute alla Cei a fine giugno. C’è tutto questo nella Sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo 2021-2023 “Per una Chiesa sinodale: Comunione, partecipazione e missione” che la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha consegnato il 15 agosto alla Segreteria Generale del Sinodo (in vista della fase universale in programma nel 2023) e che da ieri è online sui siti camminosinodale.chiesacattolica.it e www.chiesacattolica.it.
Un documento frutto dunque di un ascolto capillare del popolo di Dio (parrocchie e diocesi, gruppi, movimenti e associazioni) naturalmente armonizzato con il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, che sta interessando sempre di più i diversi territori con proposte e progetti. «La Sintesi - viene perciò sottolineato - offre anche una panoramica del primo anno di quel Cammino».
Ascoltare. Va colmato il «debito di ascolto come Chiesa e nella Chiesa, verso una molteplicità di soggetti». I giovani, che non chiedono che si faccia qualcosa per loro, ma di essere ascoltati; le vittime degli abusi sessuali e di coscienza, crimini per cui la Chiesa prova vergogna e pentimento ed è determinata a promuovere relazioni e ambienti sicuri nel presente e nel futuro; le vittime di tutte le forme di ingiustizia, in particolare della criminalità organizzata; i territori, di cui imparare ad accogliere il grido, grazie all’apporto di competenze specifiche e all’impegno di “stare dentro” a un luogo e alla sua storia». L’ascolto, infatti, «chiede di far cadere i pregiudizi, di rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire, di imparare a riconoscere e accogliere la complessità e la pluralità. E perciò diventa «già annuncio della buona notizia del Vangelo». «Il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto».
Accogliere. La Sintesi chiede di «superare la distinzione “dentro-fuori”». Si parla di «ministero di prossimità». «Vivere l’accoglienza significa armonizzare il desiderio di una “Chiesa in uscita” con quello di una “Chiesa che sa far entrare”, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia». Di conseguenza «si riconosce il bisogno di toccare ferite e dare voce a questioni che spesso si evitano». Tante sono le differenze che oggi chiedono accoglienza: «generazionali (i giovani che dicono di sentirsi giudicati, poco compresi, poco accolti per le loro idee e poco liberi di poterle esprimere; gli anziani da custodire e da valorizzare); generate da storie ferite (le persone separate, divorziate, vittime di scandali, carcerate); di genere (le donne e la loro valorizzazione nei processi decisionali) e orientamento sessuale (le persone Lgbt+ con i loro genitori); culturali (ad esempio, legate ai fenomeni migratori, interni e internazionali) e sociali (disuguaglianze, acuite dalla pandemia; disabilità ed emarginazione)».
Relazioni. «Le persone vengono prima delle cose da fare e dei ruoli». È il principio risuonato più volte nella consultazione. «I sacerdoti, per primi, sono chiamati a essere “maestri di relazione”». Ma anche loro vanno accompagnati dalle comunità. E tuttavia «le relazioni hanno bisogno di tempo e di cura costante: sono un bene fragile. Vanno accettate fatiche e sconfitte». L’incontro con le persone non va vissuto come un corollario, ma come il centro dell’azione pastorale, per «riconoscere e prendersi cura delle diverse forme di solitudine e di coloro che vivono situazioni di fragilità e marginalità».
Celebrare. La celebrazione eucaristica è e rimane “fonte e culmine” della vita cristiana e, per la maggioranza delle persone, è l’unico momento di partecipazione alla comunità. Tuttavia, la Sintesi registra anche «una distanza tra la comunicazione della Parola e la vita, una scarsa cura delle celebrazioni e un basso coinvolgimento emotivo ed esistenziale». Di fronte a «“liturgie smorte” o ridotte a spettacolo», si avverte l’esigenza di ridare alla liturgia sobrietà e decoro per riscoprirne tutta la bellezza che tocca in profondità le nostre vite. Da riscoprire è anche il valore della pietà popolare, depurandola da «potenziali ambiguità».
Comunicazione. «Risulta diffusa la percezione di una Chiesa che trasmette l’immagine di un Dio giudice più che del Padre misericordioso». Per cui serve un linguaggioi «non discriminatorio, meno improntato alla rigidità, ma più aperto alle domande di senso». Specie «per rendere la Chiesa più accessibile, più comprensibile e più attraente per i giovani e i “lontani”, più capace di trasmettere la gioia del Vangelo». Si chiede di prestare attenzione agli ambienti digitali, ma «senza assumere la logica degli influencer». Inoltre è necessaria la trasparenza, la cui mancanza «ha favorito insabbiamenti e omissioni su questioni cruciali quali la gestione delle risorse economiche e gli abusi di coscienza e sessuali».
Condividere. La corresponsabilità appare come il vero antidoto alla dicotomia presbitero-laico. «La Chiesa appare troppo “pretocentrica” - riconosce la Sintesi - e questo deresponsabilizza». I laici sono «relegati spesso a un ruolo meramente esecutivo e funzionale». Attenzione poi all’emargnazione delle donne che non consente «alla voce femminile di esprimersi e di contare». Nche le religiose e le consacrate, «spesso si sentono utilizzate soltanto come “manodopera pastorale”». Da migliorare il funzionamento degli organismi di partecipazione. «Diverse comunità ne sono prive, mentre in molti casi sono ridotti a una formalità».
Dialogo. Il confronto quotidiano con il mondo del lavoro, della scuola e della formazione, gli ambienti sociali e culturali, gli aspetti cruciali della globalizzazione fa emergere la consapevolezza che «la fede non è più il punto di riferimento centrale per la vita di tante persone: per molti il Vangelo non serve a vivere». Ma «i semi del Verbo sono presenti in ogni contesto». E bisogna imparare a dialogare: «Il processo sinodale ha svelato che molte realtà sociali, amministrative e culturali nutrono il desiderio di un confronto più assiduo e di una collaborazione più sistematica con le realtà ecclesiali. Una Chiesa sinodale è consapevole di dover imparare a camminare insieme con tutti, anche con chi non si riconosce in essa».
Casa. Bisogna evitare di trasformare le parrocchie e le comunità in fan club, di cui chi è fuori fatica a percepire il senso. Più che una casa, la comunità viene pensata come un centro erogazione servizi, più o meno organizzato. «La Chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo».
Passaggi di vita «Una comunità cristiana che vuole camminare insieme è chiamata a interrogarsi sulla propria capacità di stare a fianco delle persone nel corso della loro vita, e di accompagnarle a vivere in autenticità la propria umanità e la propria fede in rapporto alle diverse età e situazioni». Perciò la sintesi chiede «di ripensare i percorsi di accompagnamento perché siano a misura di tutti: delle famiglie, dei più fragili, delle persone con disabilità e di quanti si sentono emarginati o esclusi. Anche il camminino dell’iniziazione cristiana ha bisogno di transitare alla logica dell’accompagnamento».
Metodo «Per dare forma e concretezza al processo sinodale è stato proposto un metodo di ascolto delineato secondo i principi della conversazione spirituale», con i suoi tre passi: la presa di parola da parte di ciascuno, così che nessuno resti ai margini; l’ascolto della parola di ognuno e delle risonanze che essa produce; l’identificazione dei frutti dell’ascolto e dei passi da compiere insieme». Non far spegnere l’entusiasmo suscitato da questa metodologia sarà una delle sfide per continuare il cammino. Specie nella fase in cui i dieci ambiti verranno raggruppati lungo tre assi, definiti “cantieri sinodali”: quello della strada e del villaggio (l’ascolto dei mondi vitali), quello dell’ospitalità e della casa (la qualità delle relazioni e le strutture ecclesiali) e quello delle diaconie e della formazione spirituale.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, QUESTIONE CRISTOLOGICA, E FILOLOGIA: DIO E’ CARITÀ (CHARITAS) O MAMMONA (CARITAS)?!
Un intervento di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo su ’L’OSSERVATORE ROMANO, in occasione della "festa liturgica di santa Maria Maddalena", degno di attenzione e riflessione...
Oggi celebriamo la festa liturgica di Maria Maddalena, icona di una Chiesa “Maddalena”, dal cuore giovane, capace di accogliere la Pentecoste del Concilio Vaticano II . Questa santa «illumina il cammino che la Chiesa vuole compiere con e per i giovani [...] un cammino di risurrezione che conduce all’annuncio e alla missione. Abitata da un profondo desiderio del Signore, sfidando il buio della notte, la Maddalena corre da Pietro e dall’altro discepolo. Il suo movimento innesca il loro, la sua dedizione femminile anticipa il cammino degli apostoli e apre loro la strada. [...] La sorpresa dell’incontro: Maria ha cercato perché amava, ma trova perché è amata. [...] Il Risorto [...] non è un tesoro da imprigionare, ma un Mistero da condividere. Così ella diventa la prima discepola missionaria, l’apostola degli apostoli. Guarita dalle sue ferite è testimone della risurrezione, è l’immagine della Chiesa giovane che sogniamo» (Sinodo dei giovani, documento finale, 115).
In Oriente Maria Maddalena è definita «portatrice di unguento», «mirofora», in riferimento al corpo di Cristo sepolto. In quella tradizione non ci sono state difficoltà a definirla discepola e apostola, «isoapostola», come gli altri dodici. Gregorio Antiocheno vescovo ( VI secolo) attribuisce a Cristo queste parole per Maria Maddalena: «Proclamate ai miei discepoli i misteri che avete visto. Diventate le prime maestre dei maestri. Pietro, che mi ha negato, deve imparare che io posso anche scegliere donne come apostoli» (Oratio in mulieres unguentiferas, Patrologia Graeca, 88, 11, pag. 1863).
Nella tradizione occidentale san Gregorio Magno nel 591 nella basilica di San Clemente a Roma, durante un sermone, identifica erroneamente Maria Maddalena con altre due donne, la peccatrice di Luca, 7, 36-50 e Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta: «Crediamo che questa donna che Luca chiama peccatrice e Giovanni chiama Maria sia quella Maria dalla quale - afferma Marco - furono cacciati sette demoni» (Homiliarum in Evangelia, 33, 1, Patrologia Latina, 76, pag. 1239, n. 1592-1593). Non voleva disprezzarla: dobbiamo tenere presente la situazione storica in cui le omelie di Gregorio furono pronunciate e i fedeli ai quali si rivolgeva; più che della storicizzazione era preoccupato per l’attualizzazione del messaggio biblico. Lo stesso san Gregorio in un sermone precedente aveva messo in evidenza la bellezza del primo annuncio che nasce dall’amore: ella mossa dall’amore conobbe il Risorto; fu il suo amore a provocare il Risorto a mostrarsi (Homiliarum in Evangelia, 25, 1-10, Patrologia Latina, 76, pagg. 1188-1196, n. 1544-1553).
L’errore esegetico partito dal pulpito di San Clemente trovò l’humus del pregiudizio maschilista e patriarcale. Sarebbero bastate nozioni elementari di geografia per evitare la sovrapposizione di tre figure diverse: Betania si trova in Giudea e Magdala è una cittadina della Galilea. Inoltre la provenienza della terza donna, la peccatrice, non è chiarita. L’elemento antropologico che caratterizza Maria di Magdala e le altre donne che seguono Gesù mette a dura prova il preconcetto della superiorità e forza maschile di fronte alla debolezza femminile. Davanti alla morte e resurrezione di Cristo i maschi tradiscono, scappano e spergiurano. Le donne sono fedeli, amano e annunciano il Salvatore.
Sarebbe bastato ricordare le parole di san Girolamo sul termine magdal che non designava tanto il paese di provenienza ma il soprannome di questa Maria: in aramaico significa «torre», a indicare l’altezza e la robustezza della fede della donna che vide per prima Gesù risorto, risaltando le qualità di fortezza e grandezza. Egli sottolinea come i cristiani valutano le virtù non dal sesso ma dall’animo: «Posso ridere, lettore forse incredulo, per soffermarmi sulla lode delle donne, e ricordare le sante donne, compagne del Divin Salvatore, che lo assistevano con le loro sostanze, e le tre Marie che stanno davanti alla croce, e Maria Maddalena, la quale per la sua operosità e ardore di fede, ricevette il nome di “turrita” e prima degli apostoli meritò di vedere Cristo risorgere; ci condannerà alla superbia e alla stoltezza, noi che giudichiamo per virtù, non per sesso, ma per l’animo; consideriamo una gloria maggiore della nobiltà e della ricchezza» (Epistola Marcellae viduae epitaphium, 127, 5, Patrologia Latina, 22, pag. 1090, n. 954-955).
Così non fu: si stravolse la figura della santa, che passò da «apostola prima degli apostoli» a «grande peccatrice», modello cristiano della penitenza. Anche nell’arte la sua rappresentazione seguiva uno schema iconografico preciso di stampo maschilista che tanta presa fece nella pietà popolare: la nudità spudorata e seducente, il pianto di espiazione e l’atteggiamento di supplica. Ancora oggi Maria Maddalena rappresenta prevalentemente la peccatrice “penitente”, nonostante l’opera di riforma liturgica del Concilio Vaticano II . In coerenza con i principi teologici e pastorali dell’ecclesiologia le figure dei santi furono sottoposte a esame critico. Paolo VI riscattò questa figura nella revisione del Calendario Romano generale del 1969 rigettando ufficialmente l’identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice e con Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta.
Il Calendarium Romanum generale 1969, nella sezione Commentarius historicus calendarii instaurati, pagg. 97-98, dice: «22 luglio. S. Maria Maddalena. Il Martirologio di Beda fa menzione, il 22 luglio, di Maria Maddalena. Nello stesso giorno la sua festa è celebrata presso i Siriani, i Bizantini e i Copti. Ma il culto di Santa Maria Maddalena in Occidente non è diffuso prima del secolo dodicesimo. Nella liturgia romana riformata non ci sarà più la memoria di Maria di Betania né della donna peccatrice di cui tratta Lc, 7, 36-50, ma soltanto di Maria Maddalena alla quale per prima Cristo apparve dopo la sua risurrezione». Nella sezione Variationes in Calendarium Romanum Inductae ribadisce a pagina 131: «22 luglio. S. Maria Maddalena: nulla cambia per il titolo della memoria di questo giorno, ma si tratta soltanto di S. Maria Maddalena alla quale Cristo apparve dopo la sua resurrezione, ma non della sorella di Santa Marta, né della peccatrice alla quale il Signore ha rimesso i peccati (Lc 7, 36-50)».
Santa Maria Maddalena è come un simbolo. Come è tuttora difficile farla passare da prostituta penitente ad apostola, così sembra ancora difficile che il concilio si faccia strada nella Chiesa. Le donne sono il segno di questo passaggio ecclesiale, per mettere fine, come dice Papa Francesco, alla «perversione della Chiesa oggi [che] è il clericalismo» (La Civiltà Cattolica, 4040 [2018] 105-113). Non a caso il 22 luglio 2016 per volontà dello stesso Pontefice la memoria obbligatoria di Maria Maddalena è stata elevata al grado di festa, al pari degli apostoli.
Questa santa ci può aiutare a sviluppare una spiritualità sinodale. Ecco perché è importante che venga conosciuta nella sua identità di «apostola» nelle Chiese locali. In lei si concretizzano i tre elementi-chiave della comunione, della partecipazione e della missione. Ella è unita a Cristo con le altre donne e con i discepoli, superando ogni pregiudizio e separazione sociale; prende l’iniziativa mossa dall’amore intenso; annuncia la resurrezione del Signore con entusiasmo e parresia, invitando alla speranza del paradiso. La sua figura è pienamente ecumenica, legittimata dai Vangeli, attenzionata sia nelle Chiese orientali sia in quelle riformate. La guerra in Ucraina ha messo a nudo tante ipocrisie nelle comunità cristiane che siamo chiamati a superare per essere credibili: dobbiamo essere coraggiosi, e mostrare al mondo una Chiesa “Maddalena”, una Chiesa sinodale che non dubita e non calcola ma è testimone del bene e della pace e non teme.
di PAOLO SCARAFONI e FILOMENA RIZZO (L’OSSERVATORE ROMANO, 22 LUGLIO 2022).
I vescovi nel cammino sinodale: da geografi ad esploratori.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 25 giugno 2022)
Il cammino sinodale «al quale siamo tutti chiamati per essere entusiasmati dal fuoco dello Spirito» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022) deve essere conosciuto. Accompagnarlo con le nostre preghiere quotidiane è importante. A livello comunitario siamo invitati a creare la «consuetudine d’amore» di pregare nel primo lunedì di ogni mese in tutte le famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose, negli ospedali, nei luoghi di lavoro e dovunque sia possibile.
C’è bisogno di un cambio antropologico profondo che i pastori devono favorire con bontà e perseveranza: «pregare per il Sinodo significa richiedere il dono del discernimento, la pazienza di accettare la lentezza di chi cammina con più fatica, la conversione del cuore che apre al vero ascolto, il coraggio di fare il primo passo verso chi ci sta più lontano, l’umiltà di chiedere perdono per le ferite che abbiamo inferto nel nostro cammino» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022).
Il ministero episcopale, che si declina nelle tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo (Lumen gentium 25-27), come espressione della missione del Signore nel suo popolo, oggi è chiamato a discernere ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ascoltando il Popolo di Dio.
Vorremmo che tutti i nostri vescovi avessero già maturato una chiara identità sinodale, senza concedere l’attenuante che questo è un cammino reale che si scopre passo dopo passo, «si fa la strada nell’andare» come direbbe il poeta Antonio Machado («se hace camino al andar»). È un viaggio che si racconta intrecciando le storie quotidiane di tutti nella dimensione locale. Come direbbe il Piccolo Principe, i nostri vescovi non possono essere più soltanto dei geografi statici, immersi nei loro grandi registri, che ascoltano i resoconti dei viaggiatori, e segnano sulle carte le montagne, i fiumi e gli oceani delle loro diocesi. Insieme al popolo di Dio loro affidato, sono esploratori, scopritori di nuove esperienze e di sentieri aperti nella vita quotidiana per poter seguire con umiltà più da vicino Gesù, essere capaci di uscire dagli schemi con creatività per aiutare e guidare all’incontro con il Signore.
In questa fase di cambiamento non ci dobbiamo meravigliare delle numerose osservazioni che da parte dei vescovi giungono alla Segreteria generale del Sinodo, nel timore che la Chiesa sinodale possa sostituire quella gerarchica e che il Popolo di Dio rimpiazzi il magistero, nella contrapposizione ideologica tra «carisma» e «potere». Non un cammino dall’alto, né esclusivamente dal basso. Un cammino insieme nel rispetto dei ruoli. Perciò abbiamo bisogno di pregare molto affinché lo Spirito Santo realizzi l’apertura all’ascolto: «Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Per una Chiesa sinodale. Comunione, preparazione, missione, 15) ... tutti in cammino.
Il secondo momento sinodale è quello della collegialità: il discernimento dei pastori riuniti in assemblea, «ai quali si chiede di ascoltare ciò che lo Spirito ha suscitato nelle Chiese loro affidate». Nel primo lunedì mensile sia ora più forte la preghiera per i vescovi affinché, come spesso ha sottolineato Papa Francesco, siano pastori con l’odore delle pecore.
Sono molto belle le suggestioni che mostrano e spiegano attraverso l’immagine del telaio gli intrecci del percorso sinodale. Le parole usate sono: riallacciare, ricucire, ritessere le relazioni. Papa Francesco in un bel libro, curato da Andrea Monda, intitolato «La tessitura del mondo», usa questa immagine per indicare che il mondo è una tessitura a mano messa a dura prova, e che ha bisogno di essere rammendata con un lavoro artigianale con i fili «della speranza, della gioia, della misericordia». La tessitura a mano è un lavoro della comunità, che stimola la relazione fra le persone e la creatività, dove è necessaria la collaborazione degli altri e favorisce l’inclusione.
Oggi nel cambio epocale, nelle città e nelle periferie esistenziali, le Chiese locali stanno sperimentando di non avere un filato, ma grovigli fatti da fili spinati di sofferenze, scarto, violenza, pandemia e guerra; e anche di un benessere vissuto con egoismo, nell’apatia e nell’indifferenza agli altri. Se c’è stata vera esperienza sinodale con il popolo di Dio, i nostri vescovi andranno al momento collegiale con le mani ferite, consapevoli che prima di mettere mano al telaio c’è bisogno di faticare all’arcolaio, per dipanare quei garbugli di dolore e trasformarli in gomitoli di fili molto forti, di «funi indistruttibili» che realizzano il tessuto che collega tutto e tutti: riscoprire le alleanze volute da Dio, l’anima delle narrazioni del rapporto fra Dio e noi uomini, e degli uomini fra loro e con il creato.
Nel tessere c’è un «nodo d’oro» da non trascurare: «la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il “nodo d’oro”, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo. Proprio la famiglia è all’inizio, alla base di questa cultura mondiale che ci salva; ci salva da tanti, tanti attacchi, tante distruzioni, da tante colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano tanto il mondo» (FRANCESCO, Udienza generale, 16 settembre 2015).
Sul tema, in rete, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Exousia e cristologia femminista al seminario del Cti
Il rilancio delle teologhe
di VITTORIA PRISCIANDARO (L’Osservatore Romano, 04 giugno 2022)
Ci sono anche loro tra le firmatarie della articolata riflessione proposta ai “Fratelli vescovi” come contributo al cammino sinodale. Del documento “Ma lei gli replicò”, che fa riferimento «alla conversione di Gesù dopo lo straordinario dialogo con la donna siro-fenicia», il Coordinamento delle teologhe italiane (Cti) ha parlato anche durante il seminario del 7 maggio scorso, presso l’Antonianum di Roma. Perché partecipazione e autorità, discernere e decidere - i punti su cui è incentrata la riflessione proposta dalla rete sinodale delle donne - sono termini ampiamente risuonati all’incontro su “L’autorità teologica della donne. Pratiche di exousia”, che ha visto la presenza delle fondatrici del Cti, ma anche di giovanissime appassionate di teologia.
«L’autorità delle donne è un tema che viene dal femminismo storico, che si è domandato cosa significa avere una voce autorevole e come tramandarsi la forza di prendere la parola», spiega la presidente del Cti, Lucia Vantini. « La parola exousia esprime il fatto che l’esistenza delle cose e degli esseri viventi viene da fuori. Per i femminismi, questo riconoscimento di dipendenza da altro non è affatto una sottrazione, ma una forza che rende capaci di libertà. Sono i legami, infatti, a dare consistenza ed espressività a un soggetto. In questa prospettiva il potere si trova riconfigurato come potere-di-autorizzare altre e altri in una trama di parole, simboli, gesti e pratiche che mira alla condivisione anche quando inevitabilmente si aprono conflitti». Inoltre, aggiunge Vantini, «nel termine autorità c’è idea di far aumentare, di spingere, di sostenersi tra generazioni. La presenza di giovani teologhe al seminario è stato il segno della grande fecondità della vita teologica della donne. Il futuro passa per questo».
«Ai fratelli vescovi scriviamo che autorizzare deve significare difendere e non abusare del potere, perché nelle Chiese c’è un movimento di esclusione, di chiusure di spazi, casi di epurazione e di licenziamento», dice Cristina Simonelli, che ha tenuto la relazione di apertura del seminario “La teologia delle donne come pratica di autorità”, citando il documento della rete sinodale. «Noi donne abbiamo una memoria, un presente e una consegna di autorità che se esercitata crea stima, empowerment». Il cammino del Cti, nato nel 2003 dall’intuizione di Marinella Perroni - fare un’associazione in prospettiva di genere, ecumenica, pluri e multidisciplinare -, ha percorso strade che hanno portato a numerose pubblicazioni e, negli ultimi anni, alla serie Exousia, con la San Paolo, dove «ciascun volume ri-visita in prospettiva di genere gli ambiti teologici e si propone di attestare possibili circolarità ermeneutiche: tra discipline e temi, tra appartenenze confessionali, tra interessi e posizionamenti».
La serie, spiega Simonelli citando la presentazione che accompagna ogni volume, risponde a una necessità: «La teologia non va semplicemente aggiornata ma completamente riscritta. L’accesso delle donne alla Teologia non ha comportato un semplice aggiornamento degli schedari, ha piuttosto reso evidente l’urgenza di un ripensamento generale dei modelli». Condizione imprescindibile per questa svolta «è quella di accogliere la differenza, vagliando criticamente le prospettive acquisite, introducendo l’esplorazione di campi di indagine inediti, formulando categorie e paradigmi nuovi».
Al centro del seminario, dunque, l’ultimo volume della Collana, Percorsi di cristologia femminista, scritto da Milena Mariani e da Mercedes Navarro Puerto. «I quasi cinquant’anni di decostruzioni e ricostruzioni femministe dimostrano quanto nel discorso cristologico il cambiamento del punto di vista, grazie all’immissione della prospettiva di genere e femminista», ha spiegato nella sua relazione Milena Mariani, «consenta ripensamenti critici e approcci nuovi, illumini aspetti rimossi o prima ignorati dell’identità di Gesù, contribuisca a scongiurare le derive non solo sessiste e misogine, ma anche antigiudaiche, razziste, imperialiste, colonialiste che non appartengono soltanto al passato della tradizione cristologica». Le critiche femministe si sono soffermate, in particolare, su «l’uso strumentale della maschilità di Gesù per ribadire la superiorità del maschio e per rafforzare l’immaginario esclusivamente maschile di Dio». Un secondo nodo è stato indicato, fin dall’inizio, nelle teologie della croce accusate non solo di «veicolare l’immagine di un Dio sadico e indifferente, ma anche di esaltare le idee di sofferenza salvifica, di sacrificio vicario, di obbedienza passiva alla volontà divina, che hanno avuto ricadute storicamente rovinose sulla condizione delle donne e dei più umili nella scala sociale e sulle relazioni intessute dai paesi occidentali, di storia cristiana, con il resto del mondo».
Dalle conclusioni di Mariani viene fuori la centralità della testimonianza e dell’esperienza di fede delle donne, che «richiederebbe il riconoscimento di un’autorità che si trova legittimata sin dal principio dalla traccia pasquale alla base delle narrazioni evangeliche, impensabile senza la loro testimonianza». Un’esperienza che, allora come oggi, «si esprime con parole, idee, sensibilità e gesti propri, la cui piena fecondità e novità nel linguaggio e nella vita delle Chiese cristiane richiederebbe un “discepolato di uguali” che ancora attende di essere davvero realizzato».
di VITTORIA PRISCIANDARO
Sturm und drang: quando a lasciare la Chiesa è un vicario generale
di Ludovica Eugenio (21/05/2022) *
41088 SPEYER-ADISTA. Che un vescovo si dimetta non fa molta notizia. Ma che un vicario generale dia le dimissioni per lasciare la Chiesa cattolica ed entrare in un’altra confessione religiosa è invece alquanto singolare. È accaduto in Germania, nella diocesi di Speyer, dove il vicario generale mons. Andreas Sturm, 47 anni, ha rinunciato al suo incarico, dopo un tormento durato un anno e mezzo, secondo quanto ha dichiarato al Mannheimer Morgen (10/5), per aderire alla Chiesa vetero-cattolica come pastore. Il vescovo di Speyer mons. Karl-Heinz Wiesemann ha accettato le dimissioni e ha liberato Sturm da tutti i doveri sacerdotali, e ha nominato al suo posto Markus Magin, rettore del seminario, con effetto immediato.
Sturm, vicario dal 2018 e in questa veste responsabile di migliaia di dipendenti e di un budget di milioni, è stato sempre più il volto di una Chiesa capace di riformarsi, prendendo coraggiosamente posizione su questioni come la benedizione delle relazioni omosessuali e il celibato. Ha rilasciato una dichiarazione personale sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere questo passo, pubblicata sul sito della diocesi: «Ho perso la speranza e la fiducia nel corso degli anni che la Chiesa cattolica romana possa davvero cambiare», ha affermato in una lettera. «Allo stesso tempo, vedo quanta speranza è riposta nei processi in corso come il Cammino sinodale», ma non si sente più di «annunciare questa speranza e di sostenerla onestamente e sinceramente perché semplicemente non ce l’ho più».
In una lettera alla diocesi, il vescovo Wiesemann afferma di aver accettato «con grande rammarico» le dimissioni del vicario, perché con lui aveva lavorato in «profonda fiducia». «Andreas Sturm ha portato molte cose positive nella nostra diocesi con i suoi modi pragmatici ed entusiasti e il suo impegno appassionato per una Chiesa rinnovata che è stata toccata da Dio ed è vicino alle persone». Il vicario ha guidato la diocesi di Speyer per diversi mesi, durante l’assenza del vescovo per motivi di salute. Nella sua dichiarazione personale, Sturm ha sottolineato di non andarsene con rabbia, «ma con grande speranza per me e per la mia stessa vocazione»; chiede perdono a tutti: «Semplicemente non ne avevo più le forze».
Il 15 giugno uscirà il suo libro, per le edizioni Herder, intitolato Ich muss raus aus dieser Kirche (“Devo uscire da questa Chiesa”), nel quale mette a nudo se stesso e gli abusi nella Chiesa, facendo un bilancio spietato ma anche un’ammissione di fallimento personale. Il sottotitolo del libro è ancora più espressivo del titolo: Weil ich Mensch bleiben will, “Perché voglio rimanere umano”.
Sturm è stato parroco nella diocesi per 20 anni e, oltre alla pastorale comunitaria, ha lavorato come guida spirituale della Comunità dei Giovani Cattolici (KjG) e come presidente diocesano della Associazione della Gioventù Cattolica Tedesca (BDKJ).
Perché la scelta di unirsi alla Chiesa veterocattolica? Nata negli anni ‘70 dell’Ottocento in contrasto con le risoluzioni del Concilio Vaticano I (1869-1870) sull’infallibilità e il primato del papa, la diocesi tedesca veterocattolica conta ben 16.000 membri in 60 parrocchie. Negli ultimi anni, ha visto un grande afflusso di membri in precedenza cattolici per la sua apertura rispetto a diversi temi: celibato opzionale e preti sposati, sacerdozio femminile, accoglienza delle persone Lgbtq e matrimonio religioso per le coppie omosessuali.
Motivi profondi
«Gli abusi sono stati un grosso problema», ha affermato Sturm; Il rapporto dello studio MHG nel settembre 2018 «ha infranto» la sua visione del mondo. «Ho sempre pensato che ci fossero abusi nella Chiesa, ma il fatto che la percentuale di casi sia così alta rispetto alla società nel suo insieme, e vedere quanto sia difficile affrontare il problema nella Chiesa è stato determinante». Anche il ruolo delle donne nella Chiesa è stato per lui un punto dolente: «Gesù non ha chiamato solo gli uomini. Noi neghiamo le vocazioni femminili». C’è molta ricerca teologica in questo campo, «noi, invece, continuiamo a ingrandire le parrocchie solo perché pensiamo che possano esserci, come preti, solo uomini non sposati». Questa considerazione porta al terzo tema, il celibato obbligatorio per i preti. «Non possono essere ammessi anche uomini sposati o che vivono con un uomo?», ha chiesto. Lui stesso ha ammesso di aver violato il celibato: «Ma soprattutto ho ferito delle persone, cosa di cui mi dispiace molto». Sturm ha attirato l’attenzione a livello nazionale quando si è opposto al divieto del Vaticano, nel 2021, di celebrare benedizioni delle coppie omosessuali e ha annunciato che avrebbe continuato a benedirle.
Quando, all’inizio di quest’anno, 125 persone queer al servizio nella Chiesa - preti, ex preti, insegnanti, funzionari della Chiesa a vario titolo, volontari - hanno fatto coming out con la campagna #OutInChurch chiedendo di eliminare le «dichiarazioni obsolete della dottrina della Chiesa» sui temi di genere, una benedizione in chiesa per le coppie dello stesso sesso, un cambiamento nella legge sul lavoro della Chiesa, che considera l’omosessualità dei propri dipendenti una violazione della lealtà, e la fine della discriminazione nei confronti dei credenti omosessuali, bisessuali e transgender, Sturm è stato tra coloro che hanno garantito l’assenza di conseguenze sul diritto del lavoro per i dipendenti della Chiesa queer (v. Adista News, 28/1/22).
Sturm ebbe parole di forte critica anche quando il Vaticano, nel 2020, emanò l’Istruzione sulla vita parrocchiale dal titolo “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, che poneva l’accento sulla centralità della figura sacerdotale (v. Adista Notizie n. 30/20), dicendosi deluso del fatto «che i tentativi delle diocesi di affrontare in modo costruttivo la mancanza di sacerdoti e di trovare nuovi modi di cura pastorale stiano ricevendo così poco supporto da parte della Congregazione per il Clero». Per lui, la corresponsabilità tra clero e laici nelle parrocchie - una possibilità che il Vaticano escludeva chiaramente nella istruzione - non costituiva «una minaccia, ma un’opportunità per le parrocchie e anche per i sacerdoti», e la condivisione degli incarichi tra preti, diaconi, religiosi e laici «rafforzano l’unità in una comunità e arricchiscono la parrocchia di punti di vista differenti».
I commenti
Le dimissioni e l’uscita dalla Chiesa di mons. Sturm hanno suscitato molto scalpore, ma non eccessivo stupore: «La crisi della Chiesa scuote profondamente il popolo di Dio in questo Paese e nel frattempo ha raggiunto anche il livello di leadership» commenta su katholisch.de Christoph Brüwer (17/5). «Eppure questa reazione non sorprende». Di certo, continua, è palpabile «la disillusione e la delusione tra coloro che sperano in riforme nella Chiesa. Per molti Sturm è stato un pioniere che, ad esempio, ha chiesto l’ordinazione delle donne diacono». Le sue dimissioni - questo è il suo timore maggiore - «significano anche una battuta d’arresto per processi di riforma come il percorso sinodale: a quanto pare anche i rappresentanti di alto rango della Chiesa non credono più che le riforme in discussione saranno effettivamente decise e attuate in modo tempestivo, e non possono più annunciare in modo credibile questa speranza. Alla prossima assemblea sinodale di settembre, i sinodali avranno l’opportunità di contrastare questa sensazione e di prendere decisioni concrete. Resta da vedere quante persone trarranno coraggio e speranza da questo».
* Tratto da: Adista Notizie n° 19 del 28/05/2022
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED ECOLOGIA: SCIENZA E FEDE...
Scenari.
Antropocene: che cosa chiede Dio all’uomo?
Siamo in una nuova era dove l’uomo può giocare il ruolo decisivo nel futuro del Pianeta. Però dal punto di vista cristiano è una sfida a unire il genere umano nella solidarietà e nella carità
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
Durante la seconda metà del XIX secolo, il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), portò l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto un’influenza globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” l’epoca geologica nella quale ormai ci si trovava. Dopo oltre un secolo, Paul Crutzen e Eugene Stormer si ricollegarono proprio a Stoppani intitolando Anthropocene il loro articolo apparso nell’anno 2000 sulla “Global Science News Letter”, nel quale si chiedevano a partire da quale data, e a motivo di quali fenomeni antropici, si potesse definire l’inizio di questa nuova “era geologica”. Il termine è tornato alla ribalta in questi ultimi anni a causa della questione ecologica, dei cambiamenti climatici e degli altri possibili effetti della presenza umana, diffusa e pervasiva.
Dal punto di vista scientifico, la definizione dell’inizio formale di una nuova era spetta ai geologi della International Commission on Stratigraphy (che non ha ancora preso una decisione); tuttavia, nei suoi aspetti mediatici, sociali e politici, nell’Antropocene ci siamo già da un pezzo.
L’essere umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi », per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin, sembra poter adesso influenzare in maniera decisiva e globale molte delle dinamiche terrestri a livello chimico, biologico, geologico e ambientale, tanto da poter, appunto, essere considerato un fattore determinante per lo stato complessivo del pianeta. Il tema, però, è filosoficamente più profondo di quanto sembri, se pensiamo che espressioni come “influenza sul pianeta” e “influsso globale” possono riguardare anche la comunicazione, la condivisione e la solidarietà.
Dal documento programmatico Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato (1990) di Giovanni Paolo II, fino alla Laudato si’ (2015) e alla Fratelli tutti (2020) di Francesco, il magistero della Chiesa cattolica ha da tempo guidato una riflessione di primo piano sulla responsabilità ecologica e sullo sviluppo sostenibile, guadagnando sul campo un’autorità ormai riconosciutale a livello internazionale. Sono insegnamenti ben noti che non è necessario qui richiamare. La teologia viene però sollecitata dalla nozione di antropocene a un’ulteriore riflessione, specie se questo termine viene compreso come «epoca in cui l’essere umano giunge a una visione unitaria e globale della sua attività sulla terra». Dio ha infatti affidato agli uomini un creato in via e l’attività umana nel cosmo - ormai operiamo ben oltre i confini della terra - contribuisce al progetto del Creatore mediante la costruzione di un futuro aperto sulla storia.
La teologia potrebbe allora porsi una domanda, forse inconsueta ma significativa: qual è l’Antropocene voluto da Dio? Teilhard de Chardin si era già chiesto un secolo fa qualcosa del genere, sebbene impiegando termini diversi. Partendo dai suoi studi di paleontologia, il pensatore gesuita consegnava la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, che pervade l’intero pianeta. Grazie alla sua vita spirituale, l’uomo avrebbe le risorse per unificare tutto il genere umano nella solidarietà e nella carità. Compito dell’umanità, sosteneva, è allora adoperarsi per realizzare tale condivisione e convergenza, lasciando che Cristo, centro del cosmo e della storia, possa attrarre tutti a sé, affinché Dio sia tutto in tutti.
Se osserviamo gli effetti che cristianesimo ha determinato sulla storia, in modo particolare quella dell’Occidente, non è difficile trovare opere e prospettive di carattere globale e unificante. Si pensi agli ospedali e alla cura dell’umano, alle università e alle economie di condivisione generate dai primi istituti di credito. Si tratta di iniziative nate dal lavoro responsabile dei cristiani, ispirate a ideali di solidarietà, di condivisione e di promozione. E si stratta di attività che hanno caratterizzato in modo globale, esteso, la nostra vita sul pianeta.
Ma possiamo andare più in là e chiederci, appunto: quali manifestazioni dovrebbe avere la presenza influente dell’essere umano sul pianeta perché egli cooperi, secondo il piano di Dio, a portare il creato verso un suo compimento? La prima di esse è fare del genere umano un’unica famiglia. Tutti gli esseri umani sono ordinati a divenire membra dello stesso corpo, il corpo di Cristo: la Chiesa, sacramento universale di salvezza, è figura e segno di questa unione, ci ha ricordato il Concilio Vaticano II. L’influenza e la presenza del genere umano sul pianeta, poi, dovrebbero essere tali da aiutare, in ogni luogo e in ogni circostanza, chi rimane indietro, facendosi carico di tutti, perché «tutti siamo responsabili di tutti», espressione cara a Giovanni Paolo II e a Francesco. «Quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale - scrive Francesco nella Laudato si’ - niente e nessuno è escluso da tale fraternità. [...] Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi». (n. 92).
Nell’antropocene voluto da Dio, la rete di comunicazione con la quale l’essere umano ha interamente avvolto il pianeta, e la globalizzazione che ne deriva, verrebbero impiegate per distribuire le risorse laddove è più necessario. Si investirebbe per accrescere in tutti la qualità della vita, ma anche per condividere il pane della cultura, dell’istruzione e della conoscenza, perché comprendere la nostra storia e il ruolo dell’uomo nel cosmo è espressione di una dignità alla quale tutti abbiamo diritto. In sostanza, nell’antropocene che Dio si attende dall’uomo, la scienza sarebbe al servizio dello sviluppo di tutti e l’uomo di scienza, perché sa di più, dovrebbe servire di più...
Il mondo in cui viviamo è un mondo in costruzione, un mondo nel quale gli uni influiranno sempre più sugli altri, un mondo in cui saremo sempre più consapevoli di essere tutti in relazione, fra noi e con la natura. È però indispensabile restare tutti aperti alla relazione più importante, quella con Colui che custodisce in Sé il progetto del mondo e il senso della storia. Solo così le relazioni potranno essere costruite su un fondamento solido, nella carità, nella solidarietà e nel rispetto. «Il presente e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio», scrive san Paolo ai Corinzi (1Cor 3, 21-23). La teologia cristiana è persuasa che in queste poche parole siano contenute tutte le istruzioni per gestire saggiamente la nuova era geologica, se così proprio fosse, che l’essere umano ha ormai inaugurato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE. DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!! IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.
FLS
Per un’unica storia di salvezza.
«Gerarchia delle verità» e principio di Lund.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 2 aprile 2022).
Lo scorso anno molti si chiedevano il senso di proseguire la preparazione della prima Assemblea ecclesiale per l’America Latina e i Caraibi, mentre il mondo affrontava la crisi del Covid-19. L’impegno profuso per realizzarla è stato un esempio di chiesa viva e vicina al suo popolo in un tempo di grande dolore. In questi giorni tragici segnati dalla guerra in Ucraina, i riflettori sul sinodo sembrano perdere luminosità.
Quelli che vorrebbero in Europa declassarlo a causa della guerra, sono gli stessi che lo subiscono e lo concepiscono come un evento passeggero e non come processo calato nella realtà.
Il lavoro sinodale che si sta portando avanti nelle parrocchie e nelle diocesi, per non rimanere astratto, e troppo concentrato su se stesso, si deve aprire all’impegno assunto: comunione, partecipazione e missione. La comunione e la missione hanno bisogno della partecipazione per diventare concrete.
La gente comune è immediatamente disponibile a gesti di solidarietà nei confronti dei profughi e delle vittime. Tante persone influenti nell’ambito della cultura, arte, economia, finanza, sport, politica, prendono posizioni chiare ed inequivocabili contro l’invasione russa. Diviene importante per i cristiani una riflessione teologica su quanto accade.
Il processo sinodale iniziato da poco è una risorsa in tal senso, se intercetta, soprattutto in Europa, le istanze di ascolto del popolo di Dio, di fronte al dolore della guerra, e per riuscire a comprendere meglio la nostra identità cristiana, una Chiesa che non separa dalla vita.
C’è un’unica storia. «Unico diventa il destino della umana società e senza diversificarsi più in tante storie separate» (Gaudium et spes 5). Oggi non è più possibile pensare a una «storia sacra» della Chiesa, «una storia di salvezza» che riguardi soltanto le Chiese, ma esiste un’unica storia dell’umanità, nella quale il cammino dei cristiani si intreccia con tanti altri cammini. La «storia della salvezza» si realizza nella «storia universale».
Teilhard de Chardin metteva in evidenza per noi cattolici nel secolo scorso: «il sospetto che la nostra religione renda i propri fedeli inumani. [...] Li isola, invece di fonderli con la massa. Li disinteressa, invece di legarli al compito comune. [...] Il mondo dice del cristiano: “a causa della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori”» (L’ambiente divino). «Disertori e traditori» della umanità in Cristo, dell’amore e della libertà nella pace.
Il cammino tormentato per comprenderci seguaci di Cristo contro ogni guerra e violenza, è stato anche il nostro. Tuttora abbiamo il compito di confermare queste decisioni per offrire una testimonianza sempre più chiara. Anche negli atteggiamenti di vita dobbiamo esprimere l’essenziale del cristianesimo.
Il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio afferma un principio teologico fondamentale per il dialogo ecumenico, di rilevanza tale da diventare un cardine per la teologia in generale: la «gerarchia delle verità». Ordine e gerarchia non significano diversa importanza fra le verità di fede, non una piramide, ma semplicemente il legame più o meno prossimo con il fulcro della fede, costituito dalla Trinità e dal mistero di Cristo, incarnazione, morte, risurrezione, redenzione, chiesa e giudizio finale, cioè dalle verità centrali o kerygma.
Le altre Chiese avevano colto in modo diverso la «gerarchia delle verità», formulando nel 1952 il principio di Lund che è un principio operativo.
Esso si può riassumere in questa espressione, per offrire al mondo una testimonianza comune: il desiderio di unione è maggiore delle divisioni, e pertanto si è «convinti che dovremmo fare insieme tutto ciò che può essere fatto insieme e fare separatamente solo ciò che deve essere fatto separatamente». Manifestare insieme i valori del Regno: pace, solidarietà e giustizia, senza lasciarsi prendere da lentezza, incertezza ed indifferenza. Così si mette in evidenza che quando il popolo di Dio agisce insieme affiora l’autenticità dell’essere cristiani.
Se tutto questo ha valore nell’urgenza della guerra, deve però diventare un modo di vivere abituale di tutti i cristiani. Il principio di Lund è importante perché traduce in criterio operativo la comunanza di fede esistente fra le chiese, e invita fattivamente ad esprimere i caratteri di koinonia reale; inoltre, l’esperienza mostra che spesso alcune difficoltà, che alle menti sembrano insormontabili, si appianano nella comune azione, come afferma l’ecumenista Geoffrey Wainwright: «Solvitur ambulando», ossia talvolta procedendo insieme si trova la via di soluzione.
La sinodalità è anche questo: camminare insieme ed «essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza» (Gaudete et exultate 89).
Papa Francesco sostiene che «l’unità è superiore al conflitto». «E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, “cerchiamo ciò che porta alla pace” (Rm 14,19)» (Gaudete et exultate 88).
Il discernimento sinodale sta dando prova che non è «dall’alto», si muove liberamente, e mostra che «lo Spirito soffia dove vuole», e in poche settimane ha preso una nuova via dall’ascolto della gente che pone al centro la pace e la solidarietà.
«Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di “un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice”, né di un progetto “di pochi indirizzato a pochi”. Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”. Seminare pace intorno a noi, questo è santità». (Gaudete et exultate 89).
Offerti all’attenzione del popolo di Dio e letti nella loro completezza, il principio della gerarchia delle verità e quello di Lund possono richiamare, in chiave contemporanea, la sentenza patristica: «lex orandi - lex credendi - lex agendi o lex vivendi». L’antichissima provenienza di questo apoftegma ci aiuta a valorizzare la bontà del processo sinodale. Pregare insieme, credere insieme e vivere insieme: operatori di pace sempre, nella vita di tutti i giorni da oriente ad occidente.
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA: IL SORGERE DELLA TERRA...
IL RIBALTAMENTO DEL CUORE, LA NASCITA, E LA SCOPERTA DELL’AMORE ("AGAPE", "CHARITAS"). Al di là della reciprocità ("do ut des") della "carità ("caritas")! *
Il segno e la carne /12. La rinuncia alla reciprocità
La rinuncia alla reciprocità
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 19 febbraio 2022)
I profeti sono la porta che mette in comunicazione Dio con gli esseri umani e gli uomini e le donne con Dio: a noi donano parole divine, a Dio donano le nostre parole migliori che poi egli usa per parlare con noi, in un dialogo continuo dove noi impariamo la lingua di Dio e diventiamo più umani e Dio diventa più Dio.
Il capitolo undici del rotolo di Osea contiene alcuni dei versi più belli e amati di tutta la Bibbia, è una vetta della profezia. Ma non li comprendiamo se arriviamo a questo capitolo senza aver prima attraversato i moltissimi versi di condanna, di maledizione, di delusione, di tradimento dei capitoli precedenti, senza aver incontrato tutte le parole che Osea ha speso per dirci che l’Alleanza tra YHWH e il suo popolo è spezzata per sempre, che la promessa è svanita per l’infedeltà di Israele. Quei capitoli (4-11) sono veri come è vero il capitolo undici. Come è vero il sepolcro vuoto ed è vero il Golgota, perché la verità del primo giorno dopo il sabato non sarebbe tale senza la verità della croce. La grandezza teologica e antropologica di questo capitolo si svela solo a chi ha percorso la via crucis fino alla fine, è arrivato sul monte e non ha trovato tre tende, ma tre croci. Lì ha voluto stare sotto il patibolo, ha visto morire veramente quel profeta diverso, e ha pensato, veramente, che era finito tutto, che quella speranza stupenda si era infranta contro il no degli uomini che non hanno accolto la luce. E poi ha seguito il cadavere nel terreno di Giuseppe d’Arimatea, ha visto porre la pietra sull’entrata della tomba, e ha sentito che quella pietra chiudeva per sempre anche quella breve stagione straordinaria di salvezza. E solo dopo, soltanto dopo questa verità verissima, ha sentito che il suo nome era chiamato da una voce viva: “Maria”. Non un secondo prima.
Quando invece saltiamo i capitoli difficili e duri della Bibbia, quando schiviamo il Golgota e dalla Domenica delle Palme andiamo subito in Galilea, le risurrezioni diventano finte e non salvano nessuno. Solo chi muore veramente può conoscere una risurrezione vera: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con lacci d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Osea 11,1-4).
YHWH aveva trasformato il giogo degli idoli che opprimevano tutti gli altri popoli in legami d’amore, curando il popolo come un figlio; ma il popolo non aveva voluto sentire nulla, e ha continuato le sue prostituzioni: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). La libertà guadagnata, grazie all’allentamento del morso del giogo, era diventata occasione per fuggire in cerca di nuovi amanti, era stata usata per allontanarsi da casa. Perché, lo abbiamo imparato anche noi: i legami d’amore restano lacci, e i figli crescono se riescono a spezzare i loro lacci, persino quelli che avevamo creato solo per amarli. Chiamato a guardare in alto: siamo chiamati a guardare le stelle, solo i sapiens lo sanno fare, gli animali non possono guardare il cielo - forse non c’è definizione più bella della vocazione umana.
Ma mentre Osea ripercorre questa tristissima storia di dolore e di fallimento, ecco che accade l’inatteso, e ci ritroviamo in una delle grandi risurrezioni della Bibbia: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si capovolge dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Senza soluzione di continuità, senza nessun preavviso, Osea fa rotolare la pietra del sepolcro e ci accorgiamo, noi e lui, che è vuoto. Quel non-spazio tra quei due versetti contigui crea un tempo infinito che inverte il senso del libro di Osea. Eravamo davvero convinti che YHWH non potesse fare altro che prendere atto della libertà di Efraim e quindi abbandonarlo alla stessa sorte di Adma e Seboìm (città sul Mar Morto, come Sodoma e Gomorra). E invece no: su quella non-speranza irrompe l’impensato, il verso delle cose viene piegato e inizia per Dio il tempo della fedeltà senza reciprocità - la nostra, la sua reciprocità. Non siamo di fronte soltanto a un pentimento di YHWH (come dopo il Diluvio o dopo la punizione per il vitello d’oro); qui c’è una conversione di Dio, come suggerisce il verbo ebraico che parla di un ribaltamento del cuore. YHWH cambia sguardo, inverte la strada, cambia la direzione della sua azione: dunque si converte. E fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare, l’opposto di quanto detto finora.
È una vetta della teologia biblica e delle religioni. Qui davvero Osea è maestro di tutti i profeti, di Isaia e di Geremia. Il Dio del capitolo undici di Osea lotta e vince il Dio dei suoi capitoli precedenti. Deus contra Deum: dentro la stessa Bibbia, dentro lo stesso libro, dentro lo stesso profeta. Da questa lotta emerge un Dio inedito. Questa rinuncia alla reciprocità, non ancora conosciuta dagli uomini, ora diventa possibile per Dio: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo» (11,9).
Perché sono Dio e non un uomo: è splendido che la diversità tra Dio e l’uomo stia proprio nel suo essere capace di amare anche senza reciprocità. Come a dirci: “Voi non siete capaci di amare se non siete riamati, io invece non riesco a non amarvi, è per questa incapacità di non amarvi anche se siete ingrati che Io sono Dio”.
La divinità emerge dallo scarto tra l’amore e la reciprocità, un amore che un giorno chiameremo agape, perché questo amore non era la reciprocità della philìa (amicizia) né il desiderio dell’eros. Quasi a dirci: solo un Dio può amare senza reciprocità: voi, che siete cattivi, non vivete la reciprocità con me, neanche io la vivo con voi e vi amo rinunciando alla reciprocità.
Ma poi ci dice anche qualcos’altro. Il Dio di Osea, infatti, da una parte prende le distanze da noi e ci dice parole che non sono ancora le nostre, ma mentre ce le dice ci fa diventare quelle parole diverse, ci sta creando più grandi di come eravamo ieri. Ci mostra una forma di amore che noi non abbiamo ancora, e nel mostrarcela ci rende capaci dell’amore del non-ancora. Meraviglioso.
È così che la parola continua a creare il mondo dicendolo, dicendoci a noi stessi. Noi non siamo il Padre misericordioso che perdona il figliol prodigo prima ancora che gli abbia chiesto perdono, ma ogni volta che ascoltiamo quella parabola di Luca ci nasce il desiderio di somigliarli, vogliamo diventare come lui, diventiamo realmente giorno dopo giorno come lui, finché almeno una volta nella vita ci ritroviamo capaci di accogliere e perdonare un figlio o un amico esattamente come quel padre misericordioso della parabola.
Gli uomini credendo nell’esistenza di Dio hanno detto e dicono molte cose. Una di queste è molto importante: se esiste Dio allora l’uomo non è Dio, quindi non è onnipotente, è limitato e mortale. La Bibbia ha fatto di tutto per tenere viva e operante questa distanza tra il Creatore e noi creature. Ma poi ci ha detto anche un’altra cosa: che siamo stati creati a “immagine di Dio”, e questa parola ha scombinato tutto il rotolo del mondo. Perché se noi siamo immagine di Dio allora ogni volta che Dio ci svela qualcosa di sé ci sta svelando anche qualcosa di noi, qualcosa di diverso, ma anche qualcosa di uguale. Parlandoci della sua giustizia ci parla della nostra giustizia, parlandoci del suo amore ci parla del nostro amore, diverso e simile, e svelandocelo aumenta la somiglianza tra i due amori.
Se guardiamo bene tra le pieghe del mondo, scopriamo ancora qualcosa di entusiasmante. Ci possiamo accorgere che anche le grandi parole umane condividono alcune dimensioni di questa capacità della parola biblica. Scriviamo in una Costituzione, la nostra, che la «Repubblica è fondata sul lavoro» ben sapendo che mentre lo scriviamo la Repubblica non è ancora fondata veramente sul lavoro, perché a fondare la vita sociale c’erano ancora troppi privilegi e ingiustizie. Ma scrivendolo stiamo dicendo, implorando, pregando che la Repubblica possa diventare davvero fondata sul lavoro, vogliamo che quelle parole più grandi di noi abbiano la capacità performativa di cambiare il nostro mondo. Poi scriviamo nei tribunali «La legge è uguale per tutti» ben sapendo che la legge non è ancora davvero uguale per ricchi e poveri, per italiani e stranieri. Ma ogni volta che inauguriamo una nuova aula di tribunale e vi riscriviamo al centro quella frase stupenda stiamo facendo avvicinare il mondo reale a quella parola profetica. Si trova qui una dimensione profetica della terra, quella profezia civile, popolare, cittadina di comunità intere che affidano a poche parole i propri desideri più grandi e i sogni collettivi, che sono autentiche parole-preghiera.
Non sappiamo, infine, come Osea scrisse quel versetto otto del capitalo undici. Forse fu lui il primo a essere tramortito e sconvolto da quanto capì e scrisse. Forse non se lo immaginava, non se lo aspettava, gli arrivò come dono, tutta gratuità, fu risorto da quelle sue parole. O, forse, guardando un giorno un uomo o una donna che era stata capace di amare e di perdonare oltre le infedeltà dell’altro, o ritrovandosi lui stesso capace di amore fedele per sua moglie infedele, Osea intuì che se gli uomini e le donne sono capaci di essere più grandi della loro reciprocità la fonte di questa capacità doveva trovarsi in Dio stesso. O, forse, queste due esperienze sono state una sola, quando Osea nel ricevere quella nuova parola dalla bocca di YHWH, al termine del verso sette gli fiorì un verso differente, vi riconobbe la vita attorno a sé, e finalmente la capì. Una certezza però l’abbiamo: Osea ha incontrato e annunciato una risurrezione perché è arrivato fino in fondo alla crisi sua e della sua comunità. Neanche un centimetro di meno: da dentro la certezza della fine è nata la certezza di un futuro. Troppe volte non risorgiamo perché ci fermiamo alla prima o alla seconda stazione della via crucis, non chiamiamo le crisi col loro nome tremendo, ci consoliamo con piccole risurrezioni e non tocchiamo il fondo degli abissi, dove il piede può tentare un nuovo volo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cammino sinodale e discernimento comunitario
Parola, alleanze e pietà popolare
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo *
Una delle priorità del cammino sinodale della Chiesa italiana, nella chiamata al discernimento comunitario, è riportare al centro la Parola nelle comunità reali, le parrocchie e le famiglie. Non c’è autentico discernimento cristiano senza la luce della Parola di Dio. Per il timore dell’eresia della libera interpretazione, la Bibbia di fatto scomparve dalle case dei cattolici. Il concilio Vaticano ii con la costituzione dogmatica Dei Verbum ha riproposto l’ascolto e la proclamazione della Parola nel cammino della Chiesa.
Come farla tornare al centro della vita cristiana affinché si realizzi la Chiesa comunità? Indichiamo le «alleanze» come chiave di lettura antropologica e teologica della Parola. Mostrano il rapporto vivo di Dio con il popolo. Lungo la storia, Dio ha stabilito alleanze con l’umanità, legami d’amore e promesse per concedere i suoi doni e ricevere la risposta dell’uomo. Sono reali, non ideologiche, e ne sono prova i tanti fallimenti.
L’alleanza della creazione, di Adamo ed Eva: è il Paradiso. Fallita per il peccato e per l’orgoglio, è vigente perché Dio continua a volerci tutti in Paradiso. È l’alleanza della felicità.
L’alleanza di Noè, con tutta l’umanità. Dio si impegna a non distruggere mai più ciò che ha creato. Il simbolo è l’arcobaleno fra il cielo e la terra. È fallita per l’orgoglio umano e la dispersione dei popoli, e sempre fedele nella regolarità delle stagioni. È l’alleanza della pace.
L’alleanza di Abramo, la scelta del popolo ebraico, come primogenito. Un vincolo segnato nella carne con la circoncisione. È fallita perché il popolo eletto, invece di essere «un pedagogo che conduce a Dio» tutti i popoli, ha interpretato la sua elezione come privilegio. Essa permane perché il popolo ebraico non è maledetto, conserva la primogenitura. È l’alleanza della vocazione.
L’alleanza di Mosè: Dio rivela il suo nome, libera dalla schiavitù, dona la terra e la legge, che è luce e cammino sicuro per tutta l’umanità, e istituisce il rito come elemento di relazione. Fallisce per la sfiducia in Dio e si trasforma in legalismo e ritualismo. È mantenuta viva dai profeti che invitavano alla speranza. È l’alleanza della legge, dell’attaccamento e della memoria.
C’è poi la sorpresa della nuova ed eterna alleanza di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, che compie le profezie. Da parte di Dio è un’alleanza definitiva, universale e irreversibile, che non abolisce le precedenti, ma «aggiunge», «porta a compimento» dando nuova vita a tutte le altre alleanze.
Il nuovo Adamo riapre il Paradiso e ci chiama “fratelli tutti”. L’alleanza di Gesù Cristo svela che Dio vuole una comunione di amore e di pace e non di dominio e di violenza. È l’alleanza dell’amore nonostante i fallimenti da superare e gli sbagli da correggere.
Il popolo nella Chiesa cattolica si relaziona con Dio nella liturgia, nella carità, nel rapporto con il creato e nella pietà popolare. Anche se solo una minoranza vi partecipa, la liturgia è il luogo teologico privilegiato per la Parola. I testi del lezionario delle domeniche e dei “tempi forti” sono stati selezionati alla luce delle alleanze, in modo che nel rapporto fra Antico e Nuovo testamento appaia chiaro il cammino di relazione fra Dio e umanità che apre al futuro di salvezza: promessa, compimento e pienezza. È importante, specialmente in parrocchia, preparare comunitariamente, alcune volte durante l’anno, la celebrazione domenicale e la predicazione, come suggerito in Evangelii gaudium, 135-151.
Negli ambiti della carità, specialmente con la scelta preferenziale per i poveri, e del rapporto con il creato, verso i quali molti si sentono oggi spontaneamente attratti, la Parola non è stata ancora sufficientemente valorizzata e talvolta è stata usata in modo riduttivo e ideologico; ma la teologia delle alleanze potrebbe apportare luce anche sulle grandi tragedie umanitarie di oggi.
Fin da subito invece si può ridare valore alla Parola di Dio nella pietà popolare. Una bella definizione di pietà popolare è di don Giuseppe De Luca: «La pietà è presenza amata di Dio; non è pietà una fiammata momentanea, per essere pietà deve essere come una vita. Si è pii come si è vivi». La pietà è consuetudine d’amore, tradizione assimilata, dal cuore del popolo. Non è mai solitaria e manifesta la vigenza delle alleanze. La comprensione teologica si trova in Evangelii nuntiandi, 48, dove si abbandona l’espressione “religiosità popolare” perché di sapore sociologico, e si chiede di prediligere l’espressione “pietà popolare”. Essa è naturalmente mistagogica, evangelizzatrice, perché contamina le generazioni in modo orizzontale e verticale, cioè sincronico e diacronico (Evangelii gaudium, 122). È universale come fenomeno che si riferisce a Dio, ma è particolare e locale come realtà vissuta, con testimoni conosciuti e amati e in rapporto con il creato in quel luogo specifico attraverso elementi simbolici.
Non sono bastati la lectio divina, i predicatori esperti, i gruppi selezionati, le élite, i movimenti, le scuole, perché sono cammini dall’alto. Per il popolo cattolico la pietà popolare è il luogo teologico per eccellenza “dal basso”, e in quel terreno fecondo da dissodare da ogni superstizione è importante che rifiorisca la Parola letta alla luce delle alleanze.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 24 agosto 2021
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
Documento.
I vescovi Usa: il politico cattolico dà scandalo se non segue la Chiesa
Nel testo approvato ieri chi svolge ruoli di autorità ha una responsabilità speciale verso la dottrina. Ma nessun esplicito riferimento al presidente Biden
di Elena Molinari, Baltimora (Avvenire, giovedì 18 novembre 2021)
Dopo mesi di discussione e due giorni di acceso dibattito, i vescovi americani hanno approvato ieri un atteso documento sulla coerenza eucaristica. Il testo era stato proposto dopo le elezioni 2020 da alcuni presuli Usa che vedevano la necessità di prendere una posizione chiara rispetto a un «presidente cattolico che si oppone agli insegnamenti della Chiesa». Il riferimento era all’accettazione della legalità dell’aborto da parte di Joe Biden, il secondo capo della Casa Bianca cattolico nella storia.
Ma il testo che è passato con 222 sì, otto no e tre astensioni non contiene riferimenti espliciti ad alcun politico, nè esamina l’opportunità di negare la comunione a personaggi pubblici che difendono posizioni non in linea con l’insegnamento morale della Chiesa. Il documento sostiene però che i cattolici che rivestono ruoli di autorità «hanno una responsabilità speciale» nel seguire la legge della Chiesa.
E sottolinea che coloro che ricevono la comunione pur avendo ripudiato nella loro vita pubblica gli insegnamenti della Chiesa «creano scandalo e indeboliscono la determinazione degli altri cattolici di essere fedeli alle esigenze del Vangelo».
In definitiva, durante la prima assemblea plenaria in persona in due anni, la Conferenza episcopale americana ha accolto gli inviti del Vaticano ad evitare condanne che potessero «diventare una fonte di discordia», come il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva ammonito in una lettera i vescovi Usa. Prevalso anche il timore, espresso da alcuni vescovi come Robert McElroy di San Diego, che l’Eucaristia possa essere usata come «un’arma in battaglie politiche».
La terza giornata di lavori della plenaria a Baltimora, aperti alla stampa, ha però rivelato che opinioni diverse sul tema permangono all’interno della Conferenza. Il testo, infatti, affida ai singoli vescovi il «compito speciale di porre rimedio a situazioni che comportano azioni pubbliche in contrasto con la comunione visibile della Chiesa e la legge morale». E se alcuni vescovi hanno interpretato il passaggio come un invito al dialogo, altri vi hanno visto una possibile apertura a negare l’eucaristia ai politici cattolici che ammettono l’aborto.
L’arcivescovo Joseph Naumann di Kansas City, ad esempio, ha evidenziato la responsabilità dei vertici ecclesiastici di parlare con i cattolici che agiscono in modo contrario agli insegnamenti morali della Chiesa, senza «aver paura di dire quanto è grave non difendere questi insegnamenti nella sfera pubblica».
Il comitato dottrinale che ha steso le 30 pagine sul «Mistero dell’Eucaristia nella vita della Chiesa», inoltre, ha accettato all’ultimo momento la richiesta dell’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, di includere la responsabilità delle persone in posizione di autorità di promuovere la vita dei non nati. «Non riconoscere la categoria di esseri umani vittima della più grande distruzione della vita umana nel nostro tempo sarebbe un’evidente omissione che, per alcuni di noi, trasformerebbe questo documento in un problema piuttosto che in un aiuto», ha detto l’arcivescovo.
I presuli sono stati però unanimi nell’evidenziare che il documento va ben oltre la questione dei politici cattolici e mette soprattutto in evidenza il ruolo del sacramento nella vita della Chiesa.
Le 30 pagine pongono infatti una rinnovata enfasi sulla catechesi sul significato dell’Eucaristia, in risposta a un calo, negli Usa, della fede nella presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo nella comunione.
Come ha spiegato l’arcivescovo di Denver Samuel Aquila è importante «portare una maggiore consapevolezza tra i fedeli di come l’Eucaristia può trasformare le nostre vite». I vescovi hanno infatti lanciato ieri da Baltimora una campagna triennale di «risveglio eucaristico», che prevede lo sviluppo di nuovi materiali didattici, la formazione di leader diocesani e parrocchiali, un nuovo sito web e l’invio di un’équipe di 50 sacerdoti nei 50 Stati per predicare l’Eucaristia. La campagna culminerà con un Congresso eucaristico nazionale nel giugno 2024 a Indianapolis.
L’intervento del nunzio apostolico Pierre all’assemblea generale dei vescovi degli Stati Uniti
L’unità è il futuro di una Chiesa sinodale
di Amedeo Lomonaco (L’Osservatore Romano, 17 novembre 2021)
«Il cammino verso il futuro implica necessariamente l’unità. Una Chiesa divisa non sarà mai in grado di condurre gli altri all’unità più profonda voluta da Cristo». È quanto ha affermato, martedì 16 novembre, l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nella giornata di apertura dell’assemblea generale della Conferenza dei vescovi cattolici del Paese (Usccb). L’appuntamento si svolge a Baltimora, nel Maryland, fino al 18 novembre, con la partecipazione di quasi 300 vescovi chiamati a riflettere sul tema dell’Eucaristia.
Il presule ha centrato il suo intervento sul tema della sinodalità, sulla scia del processo avviato da Papa Francesco in tutta la Chiesa. La sinodalità, ha detto, «non è un concetto astratto», ma aiuta ad affrontare «la realtà della nostra situazione attuale» come «una risposta alle sfide del nostro tempo e al confronto che minaccia di dividere questo Paese e che ha anche i suoi echi nella Chiesa. Sembra che molti non si rendano conto di essere impegnati in questo confronto, prendendo posizioni radicate in certe verità, ma isolate nel mondo delle idee e non applicate alla realtà dell’esperienza di fede, vissuta dal popolo di Dio nelle situazioni concrete».
Il nunzio ha ricordato «diverse questioni urgenti che la Chiesa deve affrontare oggi». Una di queste è la vita: «Non possiamo abbandonare la nostra difesa della vita umana innocente o della persona vulnerabile». Tuttavia, ha aggiunto, un approccio sinodale «sarebbe quello di capire meglio perché le persone cercano di interrompere le gravidanze», quali sono «le cause profonde delle scelte contro la vita» e quali sono i fattori che rendono queste scelte «così complicate per alcuni».
Sul tema dell’Eucaristia ha affermato che «le realtà sono più importanti delle idee. Possiamo avere tutte le idee teologiche sull’Eucaristia - e, naturalmente, ne abbiamo bisogno - ma nessuna di queste idee è paragonabile alla realtà del Mistero eucaristico, che ha bisogno di essere scoperto e riscoperto attraverso l’esperienza pratica della Chiesa, vivendo in comunione, particolarmente in questo tempo di pandemia. Possiamo diventare così concentrati sulla sacralità delle forme della liturgia che perdiamo il vero incontro con la Sua presenza reale. C’è la tentazione di trattare l’Eucaristia come qualcosa da offrire a pochi privilegiati piuttosto che cercare di camminare con coloro la cui teologia o discepolato è carente, aiutandoli a comprendere e apprezzare il dono dell’Eucaristia e aiutandoli a superare le loro difficoltà. Piuttosto che rimanere intrappolati in una “ideologia del sacro”, la sinodalità è un metodo che ci aiuta a scoprire insieme una via da seguire».
Dopo l’intervento del nunzio, ha preso la parola monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che ha ricordato come la missione della Chiesa sia «la stessa in ogni tempo e in ogni luogo»: è quella di «proclamare Gesù Cristo e aiutare ogni persona a trovarlo e a camminare con Lui». Dio, ha sottolineato, ci chiama «a costruire il suo Regno» e a infondere nella società «i valori del Vangelo». «La sfida che abbiamo è quella di capire come la Chiesa dovrebbe svolgere la propria missione in un’America che ora è altamente secolarizzata».
Citando l’appello costante di Papa Francesco per una Chiesa missionaria, monsignor Gómez ha ricordato che ogni cattolico condivide la responsabilità per la missione:
sacerdoti,
diaconi,
seminaristi,
religiosi e consacrati,
uomini e donne laici:
siamo tutti battezzati per essere missionari».
Nonostante uno scenario difficile, reso ancora più critico dall’attuale pandemia, l’arcivescovo di Los Angeles afferma che ci sono segni di speranza: c’è «un risveglio spirituale» nel Paese e molti «sono alla ricerca» in un momento in cui «la società americana sembra perdere la sua storia, radicata in una visione biblica del mondo». «Stanno cercando una nuova storia che dia senso alla loro vita». Ma «non hanno bisogno - ha affermato monsignor Gómez - di una nuova storia». «Ciò di cui hanno bisogno è ascoltare la vera storia, la bellissima storia dell’amore di Cristo per noi, il suo morire e risorgere dalla morte per noi, e la speranza che egli porta alle nostre vite». Infine, ha parlato del piano pastorale per «una rinascita eucaristica». Si tratta di un progetto missionario che mira a portare le persone nel cuore del mistero della fede: l’Eucaristia - ha concluso - è «la chiave di accesso alla civiltà dell’amore che desideriamo creare».
Anticipazione.
Lo spirito autentico dei Sinodi è nel sapersi mettere in gioco
di Antonio Spadaro (Avvenire, giovedì 4 novembre 2021)
L’avvio del Sinodo sulla sinodalità, avvenuto il 9 ottobre scorso, c’invita a porre la domanda su che cosa significa oggi essere Chiesa e quale sia il suo senso nella storia. E tale domanda è pure alla base del Cammino sinodale che la Chiesa italiana sta avviando, e di quello in corso o in fase di avvio in Germania, Australia e Irlanda. Chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi - i quali, tra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano -, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo fratturato come il nostro, è una profezia.
Non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto. Sarebbe questa un’immagine meccanica della comunione. Potremmo meglio pensarla come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Se dovessimo proseguire usando questa immagine, direi che non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Chi ha fatto l’esperienza dei recenti Sinodi dei vescovi avrà percepito le tensioni che emergevano all’interno dell’Assemblea, ma anche il clima spirituale nel quale erano - per lo più - immerse. Il Pontefice ha sempre molto insistito sul fatto che il Sinodo non è un’assemblea parlamentare dove si discute e si vota per maggioranza e minoranza. Il protagonista, in realtà, è lo Spirito Santo, che «muove e attira», come scrive sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Il Sinodo è un’esperienza di discernimento spirituale alla ricerca della volontà di Dio sulla Chiesa.
Che questa visione del Sinodo sia anche una visione della Chiesa, non è da mettere in discussione. C’è una ecclesiologia - maturata negli anni grazie al Concilio Vaticano II - che oggi si dispiega. Per questo c’è bisogno di grande ascolto. Ascolto di Dio, nella preghiera, nella liturgia, nell’esercizio spirituale; ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze (perché è sulle esperienze che si può far discernimento e non sulle idee); ascolto del mondo, perché Dio vi è sempre presente, ispirando, muovendo, agitando: abbiamo l’opportunità di diventare «una Chiesa che non si separa dalla vita», ha detto Francesco salutando i partecipanti intervenuti all’inizio del percorso sinodale (9 ottobre). Il Pontefice ha quindi sintetizzato così: «Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità». Mettere la Chiesa in stato sinodale significa renderla inquieta, scomoda, tesa perché agitata dal soffio divino, che certo non ama safe zones, aree protette: soffia dove vuole.
Il modo peggiore per fare sinodo allora sarebbe quello di prendere il modello delle conferenze, dei congressi, delle “settimane” di riflessione, e immaginare che così tutto possa procedere in modo ordinato, anche cosmeticamente. Altra tentazione è l’eccessiva premura per la «macchina sinodale», perché tutto funzioni come previsto. Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico - non quello scettico -, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è sinodo. Se lo Spirito Santo è in azione - una volta ha affermato Francesco -, allora «dà un calcio al tavolo». L’immagine è riuscita, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.
Per fare sinodo occorre cacciare i mercanti e rovesciare i loro tavoli. Non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? Ma chi sono oggi i «mercanti del tempio»? Solo una riflessione intrisa di preghiera potrà aiutarci a identificarli. Perché non sono i peccatori, non sono i «lontani», i non credenti, e neanche chi si professa anticlericale. Anzi, a volte essi ci aiutano a capire meglio il tesoro prezioso che conteniamo nei nostri poveri vasi di argilla. I mercanti sono sempre prossimi al tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti ispirano l’immobilismo delle soluzioni vecchie per problemi nuovi, cioè l’usato sicuro che è sempre un «rattoppo », come lo definisce il Pontefice. I mercanti si vantano di essere «al servizio » del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio che è «qui» e non «lì».
Fare sinodo allora implica essere umili, azzerare i pensieri, passare dall’«io» al «noi», aprirsi. Colpisce in questo senso, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale del Sinodo, cardinale Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto il 9 ottobre durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del Sinodo. Roland Barthes - da esimio linguista e semiologo - aveva capito che gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola servono a creare un linguaggio di interlocuzione con Dio fatto di ascolto e parola. Occorre comprendere che il Sinodo, a suo modo, condivide questa natura linguistica, di creatore di linguaggio. Ed è per questo che è importante il metodo, cioè il modo e le regole del cammino, soprattutto in funzione del pieno coinvolgimento.
In definitiva, la dinamica che si sviluppa nel Sinodo può essere descritta come un «giocarsi», un «mettersi in gioco». E, ad esempio, giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, «essere giocati» dalle situazioni che si verificano in campo. Infatti, «il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso», come scrive Gadamer nel suo celebre saggio “Verità e metodo”. Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore, ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. E questo è, in fondo, lo spirito del Sinodo: mettersi finalmente davvero in gioco seguendo la dinamica animata dallo Spirito.
Direttore “La Civiltà Cattolica”
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
"ECCE HOMO": MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
A SCUOLA DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E AUTOANALISI ISTITUZIONALE.
PER L’APERTURA DEL SINODO SULLA SINODALITÀ,
UN INVITO E UNA SOLLECITAZIONE
DI PAPA FRANCESCO
A TUTTA LA CHIESA CATTOLICA (E NON SOLO):
"[...] Chiediamoci, con sincerità, in questo itinerario sinodale: come stiamo con l’ascolto? Come va “l’udito” del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate?
Fare Sinodo è porsi sulla stessa via del Verbo fatto uomo: è seguire le sue tracce, ascoltando la sua Parola insieme alle parole degli altri. È scoprire con stupore che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi. È un #esercizio lento, forse faticoso, per imparare ad ascoltarci a vicenda - vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati - evitando risposte artificiali e superficiali, risposte prêt-à-porter, no.
Lo Spirito ci chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni Chiesa, di ogni popolo e nazione. E anche in ascolto del mondo, delle sfide e dei cambiamenti che ci mette davanti. Non insonorizziamo il cuore, non blindiamoci dentro le nostre certezze. Le certezze tante volte ci chiudono [...]"
(cfr. IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA DELLA MESSA DI APERTURA DEL SINODO)
Religioni.
Cosa accade se Gesù torna a parlare ebraico?
Esce il primo volume della traduzione del Nuovo Testamento dal greco nella lingua della Torà. Un lavoro lessicale e teologico imponente che apre un dibattito
di Massimo Giuliani (Avvenire, venerdì 1 ottobre 2021)
In cosa è diverso questo commento da tutti gli altri commenti ai Vangeli? In effetti, l’aggettivo diverso è l’unico che coglie la novità quasi assoluta di questa impresa, che oltre ad avere un chiaro valore religioso e teologico ha pure un enorme valore culturale. Mai nessuno in Italia si era azzardato a tradurre, ma potremmo anche dire ri-tradurre, i quattro testi evangelici e poi l’intero Nuovo Testamento lasciando i nomi propri e i terminichiave nella loro lingua davvero originale: l’ebraico.
Certo che abbiamo ricevuto questi testi in greco! Ma ciò non significa che siano nati o siano stati elaborati in greco. È un’ovvietà, forse, per alcuni (ma si tende a ignorarla o rimuoverla), che il rabbi Gesù e i suoi discepoli e quanti ne diffusero gli insegnamenti all’origine parlassero, in quanto ebrei, non greco ma ebraico (oltre che aramaico). Farne il perno per una nuova versione produce un effetto al contempo straniante e stupefacente, che sveglia all’improvviso i riflessi e sfalda l’assuefazione mentale.
Edita da Castelvecchi, l’opera in tre volumi si intitola Nuovo Testamento. Una lettura ebraica. Il primo volume appena uscito copre Vangeli e Atti degli Apostoli (con glossario e bibliografia; pagine 494, euro 25,00); il secondo è dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (uscirà tra poche settimane); il terzo contiene gli altri scritti neotestamentari, Lettere e Apocalisse, cui è stata aggiunta la Didachè (apparirà a novembre).
Quest’impresa, opera dell’ebraista Marco Cassuto Morselli e della grecista Gabriella Maestri, con le sue brevi introduzioni, i commenti e le note sembra rivelare qualcosa che, da sempre sotto gli occhi di tutti - come la famosa “lettera rubata” di Edgar Allan Poe - nessuno di solito riesce a vedere.
Il risultato è quello di ritrovare un Gesù che non si chiama più, italianizzato, Gesù ma Yeshua e che parla la sua lingua usando termini attinti alle Scritture ebraiche, non goffe traduzioni o addirittura traduzioni di traduzioni. Sin dalle prime righe i curatori ammettono onestamente le loro precomprensioni, da cui derivano i criteri del lavoro traduttorio:
«L’ebraicità di Yeshua e dei Vangeli è stata a lungo rimossa. Per iniziare a recuperarla nel nostro lavoro abbiamo scelto di non tradurre i nomi propri, sia di persone che di luoghi. (...) La nostra attenzione si è rivolta soprattutto all’esame di quei punti problematici i quali hanno offerto materia per la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. E al fine di restituire, per quanto possibile, i testi alla loro matrice ebraica abbiamo scelto di riportare in ebraico alcune parole di particolare rilevanza semantica».
Ad esempio, termini come teshuvà per conversione, malkhut per regno, mashalper parabola, tevillà per battesimo, ruach (al femminile) per spirito, Mashiah per Cristo... e soprattutto i nomi biblici per indicare Dio, che sono pregni di una teologia ebraica che né il greco né le traduzioni moderne riescono ad esprimere prestando il fianco a ogni genere di riempimento allotrio.
Ci hanno messo tredici anni di studio e di lavoro congiunti, l’ebraista e la grecista, per completare questa riscrittura delle Scritture cristiane, tenendo fisso ma ben calibrato il criterio ultimo: cercare di riportare i testi neotestamentari alla loro matrice linguistica e lessicale ebraica, e dunque alla sua complessa tessitura concettuale, e tale che impedisca di pensare quello che, invece, per secoli molta cristianità ha pensato e teorizzato: che Yeshua abbia predicato un Dio diverso da quello della rivelazione mosaica; una legge altra rispetto alla Torà sinaitica o che l’abbia dichiarata superata; un’etica avversa a quella, che invece Gesù condivideva e praticava, delle scuole farisaiche del suo tempo. Concludendone che il cristianesimo ha “portato a compimento” l’ebraismo sì che la Chiesa sia il sostituto di Israele.
Se tutta questa quantità di pensieri ha davvero origine dai Vangeli, dicono Cassuto Morselli e Maestri, andiamo a verificarlo nei testi, scaviamo nel greco neotestamentario e cerchiamo di ricostruire i termini e i concetti che nessuna scuola ellenistica poteva aver inventato, perché sono la specifica eredità spirituale e letteraria del popolo ebraico. Del resto è impossibile capire i racconti evangelici se non ricostruiamo la vita e la predicazione gesuane a partire dal loro contesto sociale, dalle due lingue da lui usate ossia l’ebraico e l’aramaico (e non solo l’aramaico) e da milieu concettuale e geopolitico in cui Yeshua ha vissuto.
Fino a oggi non esisteva un’opera simile in Italia; è disponibile in inglese, made in Usa, un Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Bretter ed edita a Oxford, ma si “limita” a una ricca messe di note da parte di una estesa équipe di studiosi ebrei, ma non è un tentativo di restituire a Yeshua la sua lingua, i concetti che usava e i nomi a lui familiari. Forse esiste un lavoro simile in Israele, ma con altre premesse. In tre volumi, quest’opera è un unicum: si pensi ai modi in cui le traduzioni ufficiali del Nuovo Testamento nominano Dio. Dio è termine greco, generico e valido anche per gli idoli; il Dio di Israele, in ebraico, non si dice, perché è l’Innominabile e l’Impronunciabile.
Solo quel geniale traduttore moderno, in francese, che fu André Chouraqui si pose il problema: quale Nome sta dietro il termine Kyrios? Il Tetragramma? Elohim? Inoltre, mai uno di questi nomi sarebbe stato usato da ebrei per un essere umano. Come si distingue, nel greco della koinè, la signoria teologica da quella cristo-logica? In questa riscrittura e lettura ebraica del Nuovo Testamento viene fatto lo sforzo di rispettare queste basilari distinzioni, che solo chi traduce «a partire dalla fede ebraica» e nella conoscenza e nel rispetto di essa può cogliere (gli altri neppure si accorgono del problema).
Maestri e Cassuto Morselli scrivono ancora: «La Parola del Santo, benedetto sia, è infinita, e il fiume della Rivelazione si riversa nelle limitate parole dell’uomo. La sua infinita polisemia ha bisogno di un continuo lavoro di ascolto e di interpretazione, la Scrittura cresce con il suo lettore, e i lettori di oggi sono donne e uomini che vivono il tempo del dialogo tra ebrei e cristiani. Da secoli i cristiani leggono e commentano le Scritture ebraiche, in tempi recenti anche gli ebrei hanno iniziato a leggere le Scritture cristiane».
I tempi a cui qui si fa riferimento ebbero inizio in Europa nel XVII secolo con Orobio de Castro e Spinoza e arrivano ad Abraham Geiger, Jules Isaac e Susannah Heschel; in Italia si parte da Leone Modena e si giunge, più vicino a noi, al rabbino livornese Elia Benamozegh. Ma il solco più recente è quello tracciato da pionieri come Lea Sestieri, Paolo De Benedetti ed Elia Boccara. L’impresa del duo Maestri-Cassuto Morselli è un azzardo? I critici (sia ebrei sia cristiani) non mancheranno; anzi, speriamo che non manchino: ciò significherà che questo lavoro è stato preso sul serio e che il dialogo ebraico-cristiano ha ancora qualcosa da dire.
Il tema.
Una domanda, dieci tracce: ecco come le diocesi saranno coinvolte nel Sinodo
Nel Documento preparatorio per il Sinodo dei vescovi il "questionario" per la consultazione dal basso che vedrà protagoniste tutte le Chiese locali del mondo
di Giacomo Gambassi (Avvenire, martedì 7 settembre 2021)
Un’unica, impegnativa domanda. E poi dieci tracce per declinarla nel concreto e capire come ciascuna diocesi sia capace di “camminare insieme”. Ha i tratti di un esame di coscienza la grande consultazione “dal basso” di tutta la Chiesa che aprirà il processo sinodale voluto da papa Francesco e che sarà il primo tassello per giungere a celebrare il Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” in programma nell’ottobre 2023 a Roma.
L’ascolto delle diocesi del mondo è ai nastri di partenza e coinvolgerà ogni angolo del pianeta da ottobre ad aprile. Un’avventura inedita «con obiettivi di grande rilevanza per la qualità della vita ecclesiale», spiega il Documento preparatorio diffuso ieri che intende «mettere in moto le idee, le energie e la creatività di tutti coloro che parteciperanno all’itinerario».
Il testo è soprattutto una bussola per ogni territorio e per avviare la consultazione. A partire dall’interrogativo «fondamentale», come viene definito, a cui tutte le diocesi sono chiamate a rispondere: «Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?». L’intento è «raccogliere le esperienze di sinodalità vissuta, coinvolgendo i pastori e i fedeli a tutti i livelli». In particolare, specifica il Documento, verrà «richiesto il contributo degli organismi di partecipazione delle Chiese particolari, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale». E ogni diocesi dovrà fare una sintesi del «lavoro di ascolto e discernimento» in dieci pagine al massimo.
Per favorire il confronto, vengono proposte alcune serie di domande “pratiche” racchiuse all’interno di dieci ambiti tematici. Così, ad esempio, ogni diocesi dovrà riflettere su «chi cammina insieme» o chi sono i suoi «compagni di viaggio anche al di fuori del perimetro ecclesiale». Oppure valutare come «vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne»; in che modo si recepisce «il contributo di consacrati o consacrate»; come si accoglie «la voce delle minoranze, degli scartati, degli esclusi». Ancora. Le Chiese locali sono invitate a capire se il proprio «stile comunicativo» è «libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi», a promuovere «la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia», ad analizzare «come la preghiera e la celebrazione orientino il “camminare insieme”» ma anche «le decisioni più importanti».
Poi c’è la sfida della missione che chiama chiunque. Da qui i quesiti su come ogni battezzato sia «protagonista» o in quale maniera i credenti impegnati nel sociale siano sostenuti dalla comunità. Quindi la necessità del dialogo nella Chiesa e con l’ambito civile: come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti? come promuoviamo la collaborazione con le diocesi vicine? come la Chiesa impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, i poveri?, sono alcune domande. Non manca il richiamo alla vicinanza ecumenica con le altre confessioni cristiane o alla formazione.
E fra gli interrogativi ci sono anche quelli sui “vertici” nella Chiesa: come viene esercitata l’autorità? come si promuove la partecipazione alle decisioni in seno a comunità gerarchicamente strutturate?
Ciò che al Papa sta a cuore è «una conversione sinodale» che consenta di «immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta». Del resto, dice il Documento citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi».
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 settembre 2021 *
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 8. Siamo figli di Dio
Fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo il nostro itinerario di approfondimento della fede - della nostra fede - alla luce della Lettera di San Paolo ai Galati. L’Apostolo insiste con quei cristiani perché non dimentichino la novità della rivelazione di Dio che è stata loro annunciata. In pieno accordo con l’evangelista Giovanni (cfr 1 Gv 3,1-2), Paolo sottolinea che la fede in Gesù Cristo ci ha permesso di diventare realmente figli di Dio e anche suoi eredi. Noi cristiani diamo spesso per scontato questa realtà di essere figli di Dio. È bene invece fare sempre memoria grata del momento in cui lo siamo diventati, quello del nostro battesimo, per vivere con più consapevolezza il grande dono ricevuto.
Se io oggi domandassi: chi di voi sa la data del proprio battesimo?, credo che le mani alzate non sarebbero tante. E invece è la data nella quale siamo stati salvati, è la data nella quale siamo diventati figli di Dio. Adesso, coloro che non la conoscono domandino al padrino, alla madrina, al papà, alla mamma, allo zio, alla zia: “Quando sono stato battezzato? Quando sono stata battezzata?”; e ricordare ogni anno quella data: è la data nella quale siamo stati fatti figli di Dio. D’accordo? Farete questo? [rispondono: sì!] È un “sì” così, eh? [ridono] Andiamo avanti...
Infatti, una volta che è «sopraggiunta la fede» in Gesù Cristo (v. 25), si crea la condizione radicalmente nuova che immette nella figliolanza divina. La figliolanza di cui parla Paolo non è più quella generale che coinvolge tutti gli uomini e le donne in quanto figli e figlie dell’unico Creatore. Nel brano che abbiamo ascoltato egli afferma che la fede permette di essere figli di Dio «in Cristo» (v. 26): questa è la novità. È questo “in Cristo” che fa la differenza. Non soltanto figli di Dio, come tutti: tutti gli uomini e donne siamo figli di Dio, tutti, qualsiasi sia la religione che abbiamo. No. Ma “in Cristo” è quello che fa la differenza nei cristiani, e questo soltanto avviene nella partecipazione alla redenzione di Cristo e in noi nel sacramento del battesimo, così incomincia. Gesù è diventato nostro fratello, e con la sua morte e risurrezione ci ha riconciliati con il Padre. Chi accoglie Cristo nella fede, per il battesimo viene “rivestito” di Lui e della dignità filiale (cfr v. 27).
San Paolo nelle sue Lettere fa riferimento più volte al battesimo. Per lui, essere battezzati equivale a prendere parte in maniera effettiva e reale al mistero di Gesù. Per esempio, nella Lettera ai Romani giungerà perfino a dire che, nel battesimo, siamo morti con Cristo e sepolti con Lui per poter vivere con Lui (cfr 6,3-14). Morti con Cristo, sepolti con Lui per poter vivere con Lui. E questa è la grazia del battesimo: partecipare della morte e resurrezione di Gesù. Il battesimo, quindi, non è un mero rito esteriore. Quanti lo ricevono vengono trasformati nel profondo, nell’essere più intimo, e possiedono una vita nuova, appunto quella che permette di rivolgersi a Dio e invocarlo con il nome di “Abbà”, cioè “papà”. “Padre”? No, “papà” (cfr Gal 4,6).
L’Apostolo afferma con grande audacia che quella ricevuta con il battesimo è un’identità totalmente nuova, tale da prevalere rispetto alle differenze che ci sono sul piano etnico-religioso. Cioè, lo spiega così: «non c’è Giudeo né Greco»; e anche su quello sociale: «non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28). Si leggono spesso con troppa fretta queste espressioni, senza cogliere il valore rivoluzionario che possiedono. Per Paolo, scrivere ai Galati che in Cristo “non c’è Giudeo né Greco” equivaleva a un’autentica sovversione in ambito etnico-religioso. Il Giudeo, per il fatto di appartenere al popolo eletto, era privilegiato rispetto al pagano (cfr Rm 2,17-20), e Paolo stesso lo afferma (cfr Rm 9,4-5). Non stupisce, dunque, che questo nuovo insegnamento dell’Apostolo potesse suonare come eretico. “Ma come, uguali tutti? Siamo differenti!”. Suona un po’ eretico, no? Anche la seconda uguaglianza, tra “liberi” e “schiavi”, apre prospettive sconvolgenti. Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo succede anche oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù. Pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana, sono schiavi. Così infine, l’uguaglianza in Cristo supera la differenza sociale tra i due sessi, stabilendo un’uguaglianza tra uomo e donna allora rivoluzionaria e che c’è bisogno di riaffermare anche oggi. C’è bisogno di riaffermarla anche oggi. Quante volte noi sentiamo espressioni che disprezzano le donne! Quante volte abbiamo sentito: “Ma no, non fare nulla, [sono] cose di donne”. Ma guarda che uomo e donna hanno la stessa dignità, e c’è nella storia, anche oggi, una schiavitù delle donne: le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini. Dobbiamo leggere quello che dice Paolo: siamo uguali in Cristo Gesù.
Come si può vedere, Paolo afferma la profonda unità che esiste tra tutti i battezzati, a qualsiasi condizione appartengano, siano uomini o donne, uguali, perché ciascuno di loro, in Cristo, è una creatura nuova. Ogni distinzione diventa secondaria rispetto alla dignità di essere figli di Dio, il quale con il suo amore realizza una vera e sostanziale uguaglianza. Tutti, tramite la redenzione di Cristo e il battesimo che abbiamo ricevuto, siamo uguali: figli e figlie di Dio. Uguali.
Fratelli e sorelle, siamo dunque chiamati in modo più positivo a vivere una nuova vita che trova nella figliolanza con Dio la sua espressione fondante. Uguali perché figli di Dio, e figli di Dio perché ci ha redento Gesù Cristo e siamo entrati in questa dignità tramite il battesimo. È decisivo anche per tutti noi oggi riscoprire la bellezza di essere figli di Dio, di essere fratelli e sorelle tra di noi perché inseriti in Cristo che ci ha redenti. Le differenze e i contrasti che creano separazione non dovrebbero avere dimora presso i credenti in Cristo. E uno degli apostoli, nella Lettera di Giacomo, dice così: “State attenti con le differenze, perché voi non siete giusti quando nell’assemblea (cioè nella Messa) entra uno che porta un anello d’oro, è ben vestito: ‘Ah, avanti, avanti!’, e lo fanno sedere al primo posto. Poi, se entra un altro che, poveretto, appena si può coprire e si vede che è povero, povero, povero: ‘sì, sì, accomodati lì, in fondo’”. Queste differenze le facciamo noi, tante volte, in modo inconscio. No, siamo uguali. La nostra vocazione è piuttosto quella di rendere concreta ed evidente la chiamata all’unità di tutto il genere umano (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1). Tutto quello che esaspera le differenze tra le persone, causando spesso discriminazioni, tutto questo, davanti a Dio, non ha più consistenza, grazie alla salvezza realizzata in Cristo. Ciò che conta è la fede che opera seguendo il cammino dell’unità indicato dallo Spirito Santo. E la nostra responsabilità è camminare decisamente su questa strada dell’uguaglianza, ma l’uguaglianza che è sostenuta, che è stata fatta dalla redenzione di Gesù.
Grazie. E non dimenticatevi, quando tornerete a casa: “Quando sono stata battezzata? Quando sono stato battezzato?”. Domandare, per avere sempre in mente quella data. E anche festeggiare quando arriverà la data. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 08.09.2021
“La sinodalità è segno di cattolicità"
Un commento sulla Chiesa sinodale
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo* (La Stampa/Vatican Insider, 24 Ottobre 2019)
ROMA. Siamo alle ultime battute del Sinodo sull’Amazzonia e già si leva un soffio di vento sinodale per la Chiesa italiana. Papa Francesco il 17 ottobre 2015 ricordava i tre livelli della sinodalità nella Chiesa: quello Diocesano o delle chiese particolari; quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali; e quello Universale. Abbiamo avuto modo di seguire da vicino il cammino del Sinodo sull’Amazzonia, coinvolgendoci nella bella esperienza di Amazzonia Casa comune, che accompagna i lavori in aula con numerose iniziative di preghiera, ascolto e sensibilizzazione sulle tematiche del Sinodo. Possiamo dire che abbiamo vissuto “il popolo di Dio” nella sua realtà attuale, nelle sue differenze e particolarità che diventano “sinfonia” alle orecchie di chi è pronto all’ascolto senza pregiudizi.
La sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa e lo sforzo, dopo il Concilio Vaticano II, di presentare al mondo l’umanità rinnovata e salvata in Cristo nella libertà e nell’amore. Raccogliendo una tradizione molto antica e viva soprattutto nelle Chiese orientali, si vuole oggi mostrare un modello di vita nella fratellanza, superando i vincoli mondani basati sull’autoritarismo e sulla forza.
La prima osservazione molto positiva che lascia ben sperare per il futuro, è la conferma che la Chiesa cattolica è veramente universale in modo concreto e visibile: le problematiche che si affrontano in un luogo specifico hanno risonanza e conseguenze positive di rinnovamento in tutto il popolo di Dio, nel mondo intero. La sinodalità è segno di cattolicità. Non c’è bisogno di fare ogni volta decreti pontifici per sperimentarla. Si supera una concezione troppo astratta di “universale” o “cattolica”, come se la Chiesa fosse tale in modo invisibile e impalpabile, come una idealità. Abbiamo incontrato tante persone che hanno questa visione concreta. La cattolicità spinge a sfamare, curare e guarire in modo reale tutta l’umanità. I tre «verbi» più utilizzati da Gesù portano a respingere posizioni parziali, avendo il senso della pienezza e della completezza.
Una seconda osservazione riguarda direttamente coloro che appoggiano la sinodalità, si dichiarano sinodali, ma in realtà vorrebbero che il Papa e la Santa Sede risolvessero le loro problematiche intervenendo nel Sinodo con documenti risolutivi. Sono quelli del “sì! ... Però”. Sono quelli della così detta “sinodalità affettiva”, del “fare”, angosciati per risolvere i problemi, ma senza analizzarli a fondo ed ascoltare lo Spirito Santo che parla anche attraverso il suo popolo. Non di rado si tratta di religiosi abituati ad organizzare l’apostolato attraverso una struttura centralizzata. Vivono legati al concetto di “sudditanza”, come se nella Chiesa le relazioni vere fossero fra autorità e sudditi, e la sinodalità soltanto una forma moderna di conservare questi equilibri. La mancanza di questo intervento dall’alto li spaventa e disorienta. Ci sono anche laici abituati ad aspettare e a credere che le vere soluzioni vengano dalla gerarchia e dal clero.
Nella loro mente non è ancora scomparsa l’immagine della piramide per rappresentare la Chiesa. C’è chi la vorrebbe capovolgere, chi la vorrebbe scomporre. Ma non riescono a distaccarsene con il rischio che prima o poi qualcuno la rimetta in sesto, di fronte agli insuccessi dei cambiamenti. Non pochi seminaristi ancora oggi accarezzano la visione di una gerarchia di potere e di prestigio a cui appartenere.
Possibile che non si riescano a trovare altre immagini da proporre che aiutino a realizzare una maggiore condivisione nella Chiesa? Anche tra i teologi manca il coraggio. A noi piace quella illustrata l’anno scorso a Milano dall’ecclesiologo della Gregoriana Don Dario Vitali. Parlando del sensus fidei presentava come “immagine adeguata della Chiesa” la figura dell’ellisse: essa esiste in ragione dei due fuochi. Rappresentano il popolo di Dio con il sacerdozio comune e la gerarchia con il sacerdozio ordinato. Non devono essere né troppo lontani né troppo vicini, perché se sono troppo vicini uno “soffoca l’altro” e “finisce il campo magnetico”, se sono troppo lontani “non si crea il campo magnetico”. Si tratta di una figura familiare nella Chiesa, utilizzata anche nell’architettura barocca, con l’esempio più famoso della piazza san Pietro, dove sono segnati i due fuochi dell’ellisse. Evidente il legame con le teorie di Keplero che descrivono come ellittiche le orbite dei pianeti.
Una terza osservazione riguarda gli aperti oppositori alla sinodalità, con i loro cavalli di battaglia: Papa Francesco come il nemico da combattere perché introduce il disordine; la Chiesa è gerarchica e non esiste alcuna forma di partecipazione oltre l’obbedienza; il timore per l’integrità della fede e l’alterazione del Credo; la condanna della diversità nella liturgia e la diminuzione dei fedeli cattolici attribuita a questo fatto; la presunta falsa individuazione di nuovi “luoghi teologici”; tutte le problematiche relative all’ordinazione sacerdotale e all’eucaristia, che amplierebbero in modo inappropriato l’ambito dell’autorità e del governo; il celibato come unica forma di verifica della vocazione sacerdotale.
Davanti ai nostri occhi si presenta un quadro preoccupante come avvenne all’epoca del Concilio Vaticano II: ai meno attenti sembrava che ci fossero solo due schieramenti, quello dei progressisti e quello dei tradizionalisti. Confortati dai risultati delle votazioni, si sottovalutò il grande pericolo del terzo schieramento, formato dalla grande maggioranza degli attendisti, che hanno congelato il Concilio nella sua applicazione. A noi sembra che anche oggi questo terzo partito costituisca la grande maggioranza e il pericolo reale.
Auspichiamo una più ampia diffusione dell’esperienza sinodale, sia nelle chiese giovani, sia in quelle di antica tradizione. L’evangelizzazione non può più aspettare. Vorremmo vedere presto la nascita di una umanità rinnovata in Cristo nell’amore e nella libertà. C’è ancora tanto lavoro da fare. La sinodalità muove i primi passi.
Ma la fiducia nello Spirito Santo prevale e saremo stupiti da quanto accadrà: per vie inaspettate e impreviste il popolo di Dio si aprirà al cammino sinodale e sarà per il mondo una luce. Preghiamo per questo. Raccontiamo ai nostri studenti come segno di speranza che il 25 gennaio 1959, in ritardo rispetto al programma a causa del prolungarsi della cerimonia nella basilica ostiense, Giovanni XXIII alle 13,10 annunciava nella sala capitolare del monastero di San Paolo, “trepidando un poco di commozione”, ai 17 principi della Chiesa presenti, la convocazione del Concilio Vaticano II. Tutti ignari della circostanza che il mondo già lo sapesse. Il “popolo di Dio” era stato informato in anteprima. Infatti, il responsabile del servizio stampa vaticano aveva trasmesso come indicatogli, con un laconico comunicato alle 12,20, la celebrazione del Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale (1). I mezzi di comunicazione ancor prima del Papa avevano annunciato la nuova primavera della Chiesa, realizzando il loro servizio. Nei fatti c’era stato il superamento della piramide, in un mondo connesso in tempo reale con la gente.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia Nota
1) Giovanni Caprile (a cura), Il Concilio Vaticano II. L’annuncio e la preparazione 1959-1962, La Civiltà Cattolica, Roma 1966, p. 50-51
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Chiesa e covid /1. De Rita: la Chiesa ha smarrito il gregge durante la pandemia
Parla il sociologo, presidente di «Essere qui», l’associazione che ha pubblicato una ricerca sul rapporto tra i fedeli e vertici ecclesiastici in questo periodo
Il sociologo Giuseppe De Rita
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 14 agosto 2021)
L’immagine usata è quella del gregge smarrito. Richiamo evidente alla parabola evangelica, con la differenza che qui a essersi persa non è un’unica pecora che il buon pastore ora cerca lasciando sul monte le altre novantanove. Si tratta invece di rispondere a un disagio più diffuso, al malessere di quella parte di mondo cattolico per niente soddisfatto dalla posizione assunta nell’anno della pandemia dalla Chiesa italiana, di cui sottolinea l’irrilevanza, l’eccessiva sottomissione, l’autoreferenzialità.
Una "denuncia" fotografata e interpretata dall’associazione "Essere qui", nata da un gruppo di amici guidati dal sociologo Giuseppe De Rita con Liliana Cavani vicepresidente e, tra i soci, Gennaro Acquaviva, Ferruccio De Bortoli, Mario Marazziti, Romano Prodi e Andrea Riccardi.
Il risultato è una ricerca confluita nel volume appena pubblicato da Rubettino: "Il gregge smarrito". Chiesa e società nell’anno della pandemia (164 pagine, 15 euro, ebook 8,99). Non un semplice atto d’accusa, spiegano gli autori, semmai uno stress test o, per dirla in termini più consueti, un esame di coscienza, un "discernimento" sia interno alla Chiesa istituzione sia dal punto di vista dei fedeli, necessario per poi poter ripartire con maggiore vigore e consapevolezza del tanto che i cattolici possono offrire nella costruzione del bene comune.
In proposito, secondo la ricerca, la crisi legata al Covid ha fatto emergere alcune criticità latenti nella Chiesa da tempo, come «lo scollamento con la società reale, la distanza tra fedeli e pastori, l’irrilevanza nel pensiero socio-politico».
È risultato evidente, spiega il professor De Rita, «il distacco crescente, forte, che già c’era, tra evangelizzazione e promozione umana. Una separazione che riconduce alla lezione ruiniana, a suo tempo fatta propria da tutta la comunità ecclesiale italiana, secondo cui la Chiesa c’è per evangelizzare, per praticare il Vangelo e non per trasformare la società. Una condizione che durante la pandemia si è rivelata ancora più controproducente, nel senso che il sociale nella realtà ecclesiale non esisteva e quindi non poteva reagire. Si doveva fatalmente ritornare soltanto all’evangelizzazione, per la quale però non c’era più energia pastorale».
Quindi evangelizzazione e promozione umana devono procedere insieme.
Traggono forza l’una dall’altra. Se ne privilegi solo una uno salta tutto. Con la pandemia ce ne siamo accorti. In campo sociale la Chiesa ha manifestato la sua irrilevanza, l’incapacità di discutere con il potere mentre l’evangelizzazione, con le chiese vuote e senza Sacramenti, non è riuscita ad affermarsi.
In qualche modo secondo voi si è creato un fossato tra Chiesa e società.
Durante la discussione del Comitato preparatorio sul titolo da dare al Convegno ecclesiale nazionale del 1976, il segretario generale della Cei, monsignor Enrico Bartoletti impose quello che lui chiamava "l’et et", nel senso che la Chiesa non vive di contrapposizioni, di "aut aut". Non l’una o l’altra ma insieme, "et et" appunto. Una cultura ecclesiale, quella di Bartoletti, che abbiamo dimenticato.
Tra i dati evidenziati dalla vostra ricerca uno colpisce in particolare: per il 39% degli italiani e per il 50% dei praticanti, durante la pandemia la Chiesa ha accettato troppo acriticamente le decisioni del governo.
A molti cattolici è sembrato quasi stravagante che la Chiesa accettasse ogni cosa, non discutesse su nulla, che il Papa chiedesse di obbedire all’ordine delle autorità. Che può anche essere giusto nel rapporto con lo Stato ma non dal punto di vista della dimensione partecipante della Chiesa, che anziché esplodere in campo pubblico si è rannicchiata nel privato. C’è tanta gente che in pieno lockdown ha continuato ad andare a Messa magari in chiese periferiche, da amici preti, e molti fedeli erano arrabbiati perché non si celebravano funerali. Ma questa rabbia, questo disagio, li abbiamo tenuti dentro perché in fondo pensavamo che anche se ci fossimo esposti pubblicamente nessuno ci avrebbe dato retta.
E questo vale per la Chiesa a tutti i livelli?
Anche noi laici non siamo stati capaci di uno scatto d’orgoglio, per dire ad esempio che non si può rinunciare all’Eucaristia. Siamo stati irrilevanti non in termini di potere ma di cultura del sociale, del significato sociale di essere cattolici, di essere Chiesa..
Da questa situazione come si esce, quali soluzioni possono essere praticate?
Il nostro gruppo non avanza proposte, non vuole fare politica ecclesiale, non intende mettersi dentro discussioni e assumersi responsabilità che sono della gerarchia. Noi facciamo delle riflessioni a latere, diciamo quello che vediamo, ci limitiamo a fornire un input, perché dare un output sulla base di poche conoscenze e verifiche sarebbe un’avventura idiota.
Un’indicazione però la date, quella di "cercare la Chiesa fuori dalla Chiesa".
Oggi è il problema più importante. Le faccio l’esempio di due amici morti in casa e che non potendosi celebrare i funerali sono stati messi su un furgone per essere portati al luogo dove sarebbero stati cremati. Il parroco però ha voluto che passassero davanti alla parrocchia ed è uscito per un segno di benedizione. Ma quanti hanno fatto come lui? Credo pochissimi. La pandemia ha dimostrato che gli uomini di Chiesa non hanno saputo fare un passo oltre la soglia.
Vogliamo spiegare cos’è l’associazione Essere qui che ha realizzato la ricerca?
Nasce da un mio testo furibondo scritto durante la pandemia, quando ci è stato comunicato l’interdetto ad andare in chiesa, Una dozzina di pagine che mandai ad alcuni amici suscitando reazioni diverse. Qualcuno ha detto "lasciamo perdere", "stiamo buoni", altri invece hanno pensato che fosse bene andare avanti, realizzare un documento più lungo ed articolato. Ne è venuto fuori un secondo testo, meno fiammeggiante, dopodiché si è pensato di fare un passo ulteriore. E abbiamo realizzato una ricerca basata su mille interviste tra i fedeli italiani, poi accompagnata da un testo di commento. Anche la formazione del gruppo è avvenuta progressivamente, alcuni di quelli che all’inizio erano più arrabbiati li abbiamo persi, mentre è arrivato chi era interessato a un’attività quasi scientifica di analisi e di ricerca demoscopica. Devo dire che ripensandoci mi sorprendo di come tutto sia stato all’insegna della spontaneità totale. È la prima volta che nella Chiesa italiana si forma un gruppo organizzato senza assistenza ecclesiastica, senza timbri, senza decreto del parroco o del vescovo.
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Chiesa e covid /2.
Castellucci: prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza (Riccardo Maccioni, Avvenire, sabato 14 agosto 2021
Chiesa e covid /3.
Pagnoncelli: ora i credenti possono fare la differenza nella società (Enrico Lenzi, Avvenire, sabato 14 agosto 2021).
Chiesa.
Via al cammino sinodale, si parte dal popolo delle parrocchie e dalle diocesi
Durerà cinque anni il percorso nazionale che avrà come orizzonte il Giubileo del 2025. In agenda annuncio, famiglia, giovani, impegno sociale. La rivoluzione della Cei: basta input dall’alto
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 17 luglio 2021)
Il nome ufficiale è «Carta d’intenti». E rappresenta la prima roadmap del cammino sinodale della Chiesa italiana sollecitato da papa Francesco. Un percorso che è cominciato in modo formale con l’Assemblea generale dello scorso maggio e che è riassunto nel testo approvato dai vescovi della Penisola e consegnato al Papa. Il movimento “diffuso” che avrà come protagonisti le diocesi, le parrocchie e le multiformi espressioni del mondo ecclesiale italiano durerà cinque anni e avrà come orizzonte il Giubileo del 2025.
Il 2021 segna già il debutto del percorso in «sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale» dei vescovi. Il 2022 è l’anno della «prima tappa» italiana che sarà dal «basso verso l’alto»: in particolare avrà come snodo il «coinvolgimento» del “popolo delle parrocchie”. Il 2023 costituisce la «seconda tappa» che andrà «dalla periferia al centro»: in primo piano un grande «momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo» del Paese, specifica il testo-guida. La «terza tappa» prevista per il 2024 sarà «dall’alto verso il basso» e ruoterà attorno alla «sintesi delle istanze» emerse fra la gente e alla «consegna, a livello regionale e diocesano» delle proposte di azione pastorale. La conclusione durante il prossimo Anno Santo con la «verifica nazionale per fare il punto» dell’itinerario compiuto.
Il cronoprogramma recepisce le indicazioni di Francesco che lo scorso gennaio aveva sollecitato di varare un «Sinodo nazionale» tornando al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del 2015 e che, a fine aprile, incontrando l’Azione cattolica, aveva suggerito che fosse «dal basso fino all’alto» e poi «dall’alto al basso», come lo stesso Bergoglio aveva già detto durante l’Assemblea generale del 2019. Nessun itinerario «precostituito», spiega la Cei. Anzi. -«L’incoraggiamento di papa Francesco - si legge nella Carta - richiede di dare una risposta sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni». Il riferimento è anche ai Sinodi che la diocesi della Penisola hanno celebrato o stanno celebrando.
Mai nel testo si ricorre alla parola “Sinodo”: si preferisce utilizzare sempre l’espressione “cammino sinodale”, come del resto accade in Germania o in Irlanda dove sono in corso esperienze analoghe. A fare da filo conduttore la sfida di «annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita», evidenzia il titolo dell’itinerario italiano annunciato al termine del Consiglio straordinario permanente della scorsa settimana. Perché alla base della scelta sinodale c’è anche il «travaglio del tempo presente» marcato dalla pandemia che «sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali». Allora la crisi diventa occasione per «stimolare e accompagnare la rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale».
Un «ripensamento» che non ha bisogno di ricercare «affannosamente soluzioni immediate», ma necessita di mettere a fuoco «i “punti cruciali” per il prossimo futuro». La Carta ne indica alcuni: l’«abbondante semina della Parola»; la «proposta della lectio e della meditazione personale»; la «complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare»; la «catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico»; l’«azione educativa verso ragazzi»; l’urgenza di «un’alleanza familiare», di «una nuova stagione di solidarietà e carità», di un rinnovato «impegno civile» anche attraverso «un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata». L’agenda sarà scandita dal rapporto fra «Vangelo, fraternità, mondo». Con alcune priorità: la “forma di Chiesa” per il futuro; l’Eucaristia domenicale come sorgente ecclesiale; l’accompagnamento delle famiglie; il ruolo dei giovani; l’attenzione ai poveri; la presenza sociale e culturale.
È ancora da definire la cassetta degli attrezzi di lavoro: può contenere un’«agenda di temi di ricerca», l’Instrumentum laboris, le schede per l’ascolto e la verifica, una piattaforma digitale per il confronto. Comunque la Conferenza episcopale prospetta già una rivoluzione nell’impostazione che ha segnato gli ultimi decenni. Con il cammino sinodale si passerà «dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni». Basta quindi limitarsi all’opzione «applicativa»: serve imboccare la via «di ricerca e di sperimentazione» a partire dai territori.
Da qui le tre parole-chiave per coinvolgere le comunità: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Il che significa «ascoltare la situazione», «cercare quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili», «proporre scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire». L’intento è «smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società». Ecco perché serve uno «stile ecclesiale» che guardi «al primato delle persone sulle strutture», alla «corresponsabilità», alla capacità di «tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/accorpato».
Il cammino italiano si armonizzerà con quello del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” che, secondo la riforma approvata da papa Francesco, non si ridurre a un’adunanza in Vaticano ma coinvolgerà in prima battuta diocesi, Paesi e continenti. E questo va visto come «il primo momento» dell’itinerario nazionale, sottolinea la Carta d’intenti. Allora in Italia assumerà un valore particolare la data che segnerà in ogni diocesi del mondo (comprese quelle della Penisola) l’inizio del Sinodo dei vescovi: è domenica 17 ottobre quando ogni presule darà avvio al percorso universale nella propria Chiesa locale, preambolo del cammino italiano.
Che cosa è la libertà se non ci sono i doveri
Che la libertà sia un tema molto caro alla cultura contemporanea è cosa nota
di Mons. Vito Angiuli (La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 Luglio 2021)
Che la libertà sia un tema molto caro alla cultura contemporanea è cosa nota. Così come è evidente che, nelle società occidentali, il clima di esaltazione della libertà ha generato una stagione di rivendicazione dei «diritti individuali» che avanza come una valanga inarrestabile. Una passione incontenibile e un’irrefrenabile pulsione spingono alla ricerca di nuovi spazi di libertà.
La discussione che si è scatenata sulla proposta di legge Zan è una prova ulteriore di questo fenomeno sociale e culturale. Non entro nel merito del dibattito. Ciò che mi interessa sottolineare è la «visione» che è alla base di questa continua e pressante rivendicazione di nuove espressioni di libertà. Ragionando filosoficamente, si può dire che l’«Io voglio» nietzschiano ha soppiantato il «Tu devi» kantiano. I diritti hanno prevalso sui doveri. Siamo così lontani anni luce da quando Giuseppe Mazzini scriveva il libro «I doveri dell’uomo» (1860).
Parlando di libertà, ci muoviamo tra la nota espressione della canzone di Giorgio Gaber secondo il quale la libertà non è star sopra un albero, né il volo di un moscone né la ricerca di uno spazio libero, ma è «partecipazione» e le parole di Massimo Gramellini per il quale «la libertà non si può spiegare. Si può soltanto respirare senza pensarci, come l’aria, e come l’aria rimpiangerla quando non c’è più. A differenza dei dogmi, non reclama certezze e non ne offre. I suoi mattoni sono i dubbi e gli errori, gli slanci e gli abusi. I suoi confini sono labili, mobili. E la sua rovina è l’assenza di confini, che le toglie il piacere sottile della trasgressione».
In altri termini, per il cantante la libertà si esprime nel prendere parte a determinare non solo il proprio destino, ma anche quello della società in cui si vive, mentre per il giornalista la difficoltà a spiegare cosa sia la libertà, si scioglie nella facilità di avvertire la sua mancanza. In entrambi i casi, il punto di partenza è sempre l’io personale che, nella prospettiva di Gaber, trova la sua consistenza nell’impegno per l’edificazione del vivere sociale e, nella visione di Gramellini, si compiace del suo volteggiare tra dubbi, incertezze e trasgressioni.
In questo secondo caso, il compiacersi dell’assenza di qualsiasi dogma, assurge paradossalmente a diventare un «nuovo dogma» più invasivo di quelli precedenti perché più accattivante nella sua astratta declinazione di una libertà senza confini o con confini tanto labili da essere facilmente oltrepassati. A nulla serve poi lamentare la pericolosa assenza di confini se essi sono «così liquidi» da sciogliersi come neve al sole fino al punto da «togliere il sottile piacere della trasgressione».
Il riferimento al confine indica la necessità di una linea di demarcazione. Nella sua sapienza teorica e pratica, Archimede sapeva che per sollevare il mondo occorreva avere un punto fermo su cui poter far leva! Oggi, invece, pretendiamo di sollevare il mondo senza alcun punto fermo, ma con sostegni così labili da risultare del tutto inadatti allo scopo. Il punto fermo della libertà per librarsi liberamente va cercato nella dimensione relazionale della persona. La libertà sorge dalla relazione. In quanto dimensione costitutiva della persona, la relazione rende possibile il legame e il rapporto con l’altro e quindi l’esercizio della libertà. Senza la relazione viene meno anche l’idea stessa di libertà.
A questo proposito vale la pena di citare quanto scriveva Hegel per il quale l’idea di libertà trova il suo fondamento nella visione ebraico-cristiana. «Quest’idea ─ scriveva il grande filosofo tedesco ─ è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, l’uomo è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà» (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze, Laterza, Roma-Bari 2009, § 482, p. 474). In altri termini, l’assolutezza della libertà è data dall’assolutezza della relazione.
Su questa linea di pensiero si pone anche H. Arendt quando scrive che «con la creazione dell’uomo il principio della libertà ha fatto la sua comparsa sulla terra» (H. Arendt, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Ombre corte, Verona 2004, p. 68). L’idea della creazione e il mistero della nascita costituiscono il fondamento e il luogo originario dove la libertà sorge e si manifesta.
Il punto decisivo di questa visione, per certi versi ovvio e scontato, - ma nel nostro tempo anche l’ovvio sembra fare problema - è che nessuno si è originato da stesso, ma trova la sua origine da qualcuno che ha reso possibile la sua esistenza. La libertà è sempre situata e la sua possibilità di librarsi in uno slancio infinito è possibile per aver ricevuto ciò che liberamente persegue.
Nella sua dimensione essenziale, la persona umana è dono che, a sua volta, è capace di farsi dono. Ricevere, accogliere e offrire il dono che si è, è la sostanza stessa della libertà. Lo spazio che altri hanno creato per rendere possibile la mia esistenza è il compito offerto all’esercizio della mia libertà. Da qui nasce l’esigenza di fare spazio ad altri, la disponibilità a ritirarsi, a fare un passo indietro, a consentire ad altri di avanzare sulla scena. La scelta di diminuire rende possibile all’altro di crescere e prendere il proprio posto nel mondo senza ledere ad altri la possibilità di agire, anzi sollecitando e motivando a farlo in una catena ininterrotta di dono ricevuto e condiviso che, espandendosi sempre più, genera una libertà personale e partecipata. In questo quadro, lo Stato ha il compito di fare leggi che bilancino i diritti e i doveri e di promuovere i diritti di tutti senza ledere quelli di alcuno, in modo particolare il diritto alla libera espressione della propria visione del mondo.
Il criterio di riferimento dell’uomo moderno, invece, è espresso con efficacia dall’immagine del «rizoma» richiamata dai due filosofi francesi G. Deleuze e F. Guattari. Si tratta dell’agire senza radici, senza legami, senza finalità, senza alcun condizionamento interno ed esterno e, per questo, in piena libertà. In questa prospettiva, risultano illuminanti le parole di Osho quando afferma che «l’uomo libero è come una nuvola bianca. Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa. Tutte le dimensioni e tutte le direzioni le appartengono. Le nuvole bianche non hanno una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo momento è perfezione».
Per certi versi, questa affermazione sembra riecheggiare le parole di Gesù a Nicodemo: «Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3, 7-8). L’immagine della nuvola bianca e del vento sembrano delineare la stessa idea di libertà. In realtà, per Gesù, l’essere e il diventare liberi come il vento, presuppone una nascita, anzi una rinascita, cosa che non è contemplata dall’immagine della nuvola bianca. Essa ama solo volteggiare liberamente nel cielo, come un aquilone che, spezzato il filo che lo teneva agganciato alle mani del guidatore, vola sempre più in alto fino a dileguarsi in cielo e a scomparire definitivamente alla vista. Così l’assenza di fondamento e di confine rende la libertà una realtà sfuggente e inafferrabile, assoggetta alle sensibilità e ai desideri sempre cangianti dello «spirito del tempo».
*Vescovo Ugento - Santa Maria di Leuca
Pinocchio ridotto a lavoratore e consumatore?
Una rilettura del personaggio di Collodi da parte del brasiliano Rubem Alves: un ragazzino si trasforma in burattino. Un duro attacco alle odierne strutture educative, che tendono a fabbricare bambini su misura
di Roberto Carnero (Avvenire, 16.06.2021).
Molti sono convinti di conoscere"Pinocchio" perché hanno visto il cartone animato di Walt Disney o se va bene, da bambini hanno letto una versione scorciata del romanzo in edizione illustrata. Eppure Le avventure di Pinocchio e un grande classico della letteratura italiana, che andrebbe letto ascuola, come si fa con I promessi sposi e la Divina Commedia. Perché a riprova del suo valore - il romanzo di Collodi è una delle opere italiane più tradotte nel mondo ed è un testo dai significati complessi e stratificati. Collodi, infatti, è stato capace, grazie alla sua vena fantastica, di evocare atmosfere diverse, sperimentando soluzioni narrative assai ricche, con molti episodi che ben figurerebbero in un romanzo picaresco, altri in uno d’avventura, altri ancora in una narrazione "nera", e non è cosa da poco per un libro scritto per i ragazzi. Tra le disavventure del burattino, le sue cadute e risalite, Collodi non rinuncia mai alla dimensione irrazionale e magica del racconto e alla perfetta fusione di fiabesco e quotidiano: quello di Pinocchio è una sorta di viaggio dantesco tra umano e soprannaturale, in cui la fantasia e l’immaginazione si compenetrano alla perfezione con la realtà di un’umanità concreta, perfino dolorosa. Non stupisce perciò che fin dal suo primo apparire sul "Giornale per i bambini" (a puntate, dal 1881 al 1883) questo romanzo sia stato oggetto di numerose interpretazioni e anche di "riscritture": il destino, quest’ultimo, tipico dei grandi classici.
L’ultima in ordine di tempo è un Pinocchio alla rovescia (a cura di Paolo Vittoria, Marletti 1820, pp. 56, curo 7,00) di Rubem Alves (1933-2014), uno dei maggiori scrittori brasiliani del Novecento. Filosofo, storico, poeta, pedagogista, psicanalista e autore di racconti per bambini, con il suo saggio Teologia della speranza umana (in Italia pubblicatonel 1971 da Queríniana) era stato uno degli ispiratori della teologia della liberazione.
Nel 2010,invece, ha riscritto il capolavoro di Collodi "al contrario". Il suo Pinocchio non è più un burattino che diventa bambino, bensì un bambino, di nome Felipe, che si trasforma in burattino. In che modo? Adeguandosi ai meccanismi e agli ingranaggi sociali che, sin dalla scuola, richiedono al singolo di uniformarsi e omologarsi.
Attraverso questa vicenda metaforica e simbolica, Alves lancia un duro atto d’accusa nei confronti delle odierne strutture educative, tutte tese alla standardizzazione dei percorsi formativi, alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità, e, se serve, persino alla medicalizzazione, di fronte al disagio di quei ragazzi che, per le loro caratteristiche personali, non riescono a integrarsi in itinerari prestabiliti e uguali e per tutti. Ecco la risposta della maestra al piccolo protagonista: «La scuola non serve a imparare quello che vuoi, ma a imparare quello che devi imparare. Quello che devi imparare è ciò che hanno detto gli uomini intelligenti del Governo. Tutto nel giusto ordine. Una cosa alla volta. Tutti i bambini allo stesso tempo e con la stessa velocità...». E l’idolatria dei programmi,ammanniti ogni anno uguali a sé stessi,senza che siano mai suscettibili di una vera disamina critica.
Così Alves definisce il "disturbo dell’attenzione": «Disturbo dell’attenzione è quando l’attenzione sta nel luogo dove il cuore desidera e non nel luogo dove il maestro comanda». Ma una scuola simile sembra esistere solo «per trasformare i bambini che giocano in adulti che lavorano». Questo di Alves è un breve libretto che dovrebbe essere letto dai docenti, dagli educatori, dagli psicologi, dai genitori. Innanzitutto per una riflessione su che cosa dovrebbe essere la scuola: una macchina burocratica da far funzionare alla perfezione oppure un luogo, unico e straordinario, in cui scoprire i talenti e liberare le energie? E insecondo luogo per comprendere che in ogni vicenda educativa al centro deve essere posto sempre il ragazzo: solo così possiamo evitare di trasformarlo in un burattino.
L’Italia in cammino sinodale. Processo che parte dal basso
Su La Civiltà Cattolica il direttore si sofferma sull’avvio del percorso nazionale. «Chiaro il contesto: un incontro organizzato dai vescovi italiani». Il ruolo del laicato e l’unità della coscienza
di Antonio Spadaro *
Dal 24 al 27 maggio scorsi si è svolta la 74ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Essa è stata aperta dalla preghiera, presieduta da papa Francesco, e dal suo dialogo con i vescovi presenti. I lavori dell’Assemblea, sotto la guida del cardinale presidente Gualtiero Bassetti, hanno riguardato il tema: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Tra l’altro, nella sua Introduzione, il cardinale Bassetti ha definito questo cammino come «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
Il Pontefice ha esortato i pastori a riprendere le linee tracciate dal Convegno ecclesiale di Firenze, e a valorizzare un percorso che parta dal basso e metta al centro il popolo di Dio. Egli ha sempre lamentato una certa «amnesia» riguardo alle indicazioni che diede nel capoluogo toscano il 10 novembre 2015. Chiaro che la concomitanza tra l’indizione del Sinodo della Chiesa universale - del quale parleremo successivamente - e l’avvio del percorso sinodale della Chiesa italiana sarà un’occasione unica per sintonizzare i cammini.
L’Assemblea generale ha quindi votato la seguente mozione: «I vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre». Il Consiglio permanente della Cei costituirà un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme.
Le misurate parole della mozione riassumono e rilanciano un dibattito durato sei anni. Ad aprirlo fu il Papa a Firenze, suggerendo il metodo sinodale: «La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose», disse Francesco. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta - aggiunse - sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Tutto rimase sottotraccia. All’inizio del 2019, “La Civiltà Cattolica” rilanciò la proposta di un Sinodo nazionale (cfr. A. Spadaro, “I cristiani che fanno l’Italia”, in Civ. Catt. 2019 I 250-252): ci parve la via più sicura da indicare a tutti, quella in grado di aiutarci a leggere a fondo la storia di oggi. Un luogo privilegiato di discernimento è infatti il processo sinodale, dove, se lo Spirito Santo è in azione, - come ha affermato Francesco - «dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». E allora ecco la domanda: non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore...
Alla nostra proposta fecero seguito interventi autorevoli di vescovi su “L’Osservatore Romano”, “Avvenire”, “Corriere della Sera”, e di teologi e studiosi su “Famiglia Cristiana”, “il Regno” e altra stampa cattolica e laica che, in generale, alimentarono il dibattito. Su “La Civiltà Cattolica” intervennero successivamente anche padre Bartolomeo Sorge e il sociologo Giuseppe De Rita.
«La sinodalità è una proposta che sentiamo di poter e dover fare a una società slabbrata come la nostra», puntualizzò il cardinale Bassetti il 1° aprile 2019. Il Pontefice ha poi effettivamente indicato il cammino sinodale alla Chiesa italiana, parlando ai vescovi del nostro Paese il successivo 20 maggio 2019, aprendo la 73ª Assemblea generale della Cei.
Il 21 gennaio scorso, la rotta è stata aggiornata. Andando «oltre le emergenze», ha detto il cardinale Bassetti, l’Italia deve ricomporre le quattro «fratture» (sanitaria, sociale, educativa, delle nuove povertà) che l’hanno piegata, con una capillare «opera di riconciliazione».
Il 30 gennaio Francesco, in un discorso in cui non a caso ha anche difeso con fermezza il Concilio Vaticano II («Chi non lo segue è fuori dalla Chiesa»), ha rilanciato la proposta in maniera decisa, affermando: «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi». Il contesto è chiaro: un incontro organizzato dai vescovi italiani. Chiaro il messaggio: la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale. Chiaro, infine, il metodo: camminare a partire dal basso verso l’alto; comunità per comunità, diocesi per diocesi. «Il momento è adesso», ha scandito Francesco.
* * *
È necessaria un’«opera di riconciliazione» con la realtà e la storia - anche recente - del nostro Paese, ripensando uno «stile di presenza» della Chiesa italiana nella storia e nella vita del Paese, consapevoli del fatto che «la Chiesa è il cuore di Dio che batte nella storia» (monsignor Aldo Del Monte).
Le parole di Francesco alla Curia romana del 21 dicembre 2019 devono guidare il discernimento: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale». Quindi occorre anche fare un discernimento sulle dinamiche interne della stessa Chiesa italiana, in particolare quella del «clericalismo».
Il Sinodo è un mare aperto, e noi - ha detto Francesco in piena pandemia - «siamo tutti sulla stessa barca». Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera «sfida» culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità «alternative» dei social network e da tanti altri cambiamenti.
I processi ecclesiali di rinnovamento sono un fatto sinodale, il cui protagonista è il popolo di Dio. La Chiesa italiana ha bisogno di ritrovarsi in condizione sinodale. La richiesta di un «Sinodo dal basso» ha già messo in moto la riflessione, le discussioni, il coinvolgimento delle comunità e di alcune diocesi. Il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo di esistere della Chiesa.
In questo senso pensiamo sia da riprendere il «voto finale» che padre Bartolomeo Sorge espresse al Convegno ecclesiale del 1976 e registrato negli Atti. Egli, dopo aver affermato che «la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento», postulava la necessità di «dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia».
Padre Sorge intendeva indicare quel modo di procedere che oggi Francesco definisce come «popolo e pastori insieme» (cfr. Documento di Aparecida n. 371). Infatti - proseguiva padre Sorge - «è urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che [...] superi in radice l’impossibile divisione tra "Chiesa istituzionale" e "Chiesa reale"», e che è anche il rischio dell’oggi. Allora la proposta rimase senza esito. Oggi le condizioni per riprendere quel voto ci sono. E sappiamo che i frutti del cammino sinodale verranno per la grazia dello Spirito Santo. Il Sinodo, finalmente!
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Antonio Spadaro è direttore de "La Civiltà Cattolica"
* Avvenire, giovedì 17 giugno 2021 (ripresa parziale).
Corpus Domini. Il Papa: l’Eucaristia è il "farmaco" e la forza per amare chi sbaglia
All’Angelus in Piazza San Pietro, Francesco ricorda la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e sottolinea che l’Eucaristia guarisce perché la misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 7 giugno 2021) *
L’Eucaristia è il "farmaco" efficace contro le nostre chiusure. Fragilità e forza, amore e tradimento, peccato e misericordia. Papa Francesco, nella catechesi all’Angelus in Piazza San Pietro - come riporta Vatican News -, si sofferma su questi aspetti parlando della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, e del racconto dell’Ultima Cena di Gesù con l’istituzione dell’Eucaristia, “il sacramento più grande”, il Pane di vita.
Richiamando le parole di don Primo Mazzolari, Papa Francesco, già al mattino nella sua omelia per la solennità del Corpus Domini, aveva prefigurato l’immagine di una Chiesa che è “una sala grande”, dalle "porte aperte", “dove tutti possono entrare”. Non "un circolo piccolo e chiuso", ma "una Comunità con le braccia spalancate, accogliente verso tutti”.
Una comunità dove si guarda all’Eucarestia con "stupore e adorazione": se manca quello, avverte il Papa, "non c’è strada che ci porti al Signore. Neppure ci sarà il Sinodo". L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi. “La Chiesa dev’essere una sala grande”, ha affermato a più riprese Francesco nella Messa per il Corpus Domini celebrata anche quest’anno all’Altare della Cattedra di San Pietro e non - a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia - nel tradizionale scenario del sagrato di San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore, oppure in luoghi di periferia come avvenuto nel 2018, con la celebrazione a Ostia, e nel 2019, nel quartiere romano di Casal Bertone. Contingentato anche il numero dei fedeli presenti in Basilica. A loro, e alle centinaia di persone collegate alla celebrazione via streaming, il Pontefice pone una domanda: “Quando si avvicina qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso, la Chiesa è una sala grande per accoglierlo e condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo?”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino, non dimentichiamolo!”, afferma Francesco. “La Chiesa dei perfetti e dei puri è una stanza in cui non c’è posto per nessuno; la Chiesa dalle porte aperte, che festeggia attorno a Cristo, è invece una sala grande dove tutti possono entrare”.
L’umanità assetata
Quella della sala grande è una delle tre immagini proposte dal Vangelo della Solennità, che il Pontefice usa come spunti di riflessione per la sua omelia. L’altra immagine è l’uomo che porta una brocca d’acqua. “Seguitelo”, dice Gesù ai due discepoli inviati in città, perché dove li avrebbe condotti quell’uomo, là si sarebbe celebrata la Cena della Pasqua. Un uomo “anonimo” diventa dunque “guida per i discepoli”, mentre la brocca d’acqua è “segno di riconoscimento” che, dice il Papa, fa pensare all’“umanità assetata”, sempre alla ricerca di una sorgente d’acqua che la disseti e la rigeneri”.
Non possiamo farcela da soli
Bisogna riconoscerla, però, questa “sete di Dio” per celebrare l’Eucaristia. Bisogna essere, cioè, “consapevoli che non possiamo farcela da soli ma abbiamo bisogno di un Cibo e di una Bevanda di vita eterna che ci sostengono nel cammino”. “Il dramma di oggi - osserva il Pontefice - è che spesso la sete si è estinta. Si sono spente le domande su Dio, si è affievolito il desiderio di Lui, si fanno sempre più rari i cercatori di Dio. Dio non attira più perché non avvertiamo più la nostra sete profonda”. La sete di Dio, rimarca il Papa, “ci porta all’altare”; se manca “le nostre celebrazioni diventano aride”.
Una Chiesa con la brocca in mano
“Diventiamo una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, è dunque l’esortazione conclusiva del Papa per questa festa del Corpus Domini. “Spalanchiamo il cuore nell’amore, per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore. Spezziamo la nostra vita nella compassione e nella solidarietà, perché il mondo veda attraverso di noi la grandezza dell’amore di Dio”.
IL TESTO DELL’OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI
L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi
L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità.
Una logica nuova che Francesco ritrova in quel “gesto umile di dono, di condivisione” che porta Gesù a non dare pane in abbondanza per sfamare le folle ma ad offrire se stesso. “In questo modo Gesù - afferma il Papa - ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore e condivisione”.
Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunirci tutti noi in unità.
Il Pane dei peccatori
Un amore che si rafforza se è donato a chi ha sbagliato. Nel tradimento del discepolo, “il dolore più grande per chi ama”, in quell’ “abisso più profondo” Gesù non punisce ma dona misericordia.
Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori e sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, ma il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non avete paura! Prendete e mangiate”.
In quel Pane c’è un “senso nuovo alle nostre fragilità”, Gesù ci dice che siamo preziosi, “ci ripete - afferma il Papa - che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie”.
E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male - da questo da soli non possiamo guarire -; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi - da quella da soli non possiamo guarire -; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace; anche da questa, noi soli non possiamo guarire. È Lui che di guarisce con la sua presenza, con il suo pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure.
Infine Francesco ricorda che nei quattro versetti della Liturgia delle ore c’è "il riassunto di tutta la vita di Gesù". "E ci dicono così che Gesù nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita. Poi, nella cena si è dato come cibo. Poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto prezzo: ha pagato per noi. E adesso, regnando nei Cieli è il nostro premio, che noi andiamo a cercare quello che ci aspetta".
Al termine dell’Angelus, il Pontefice ha ricordato l’iniziativa dell’Azione Cattolica che si terrà martedì: "Dopodomani, martedì 8 giugno, alle ore 13.00, l’Azione Cattolica Internazionale invita a dedicare un minuto per la pace, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa. Preghiamo in particolare per la Terra Santa e per il Myanmar".
Poi ha rivolto il suo saluto ai "ragazzi del Progetto Contatto di Torino e il Gruppo Devoti della Madonna dei Miracoli di Corbetta, le famiglie di Cerignola e l’Associazione Nazionale Ambulanti, con numerosi lavoratori delle fiere e artisti di strada", ringraziandoli per i doni ricevuti. Infine un pensiero e un incoraggiamento ai salentini del sud della Puglia che in Piazza San Pietro hanno ballato "la pizzica".
IL TESTO DELL’ANGELUS DEL PAPA
Il video dell’Angelus
* Fonte: Avvenire, lunedì 7 giugno 2021 (ripresa parziale).
Vaticano. Il Papa riforma il Sinodo dei vescovi: partirà dal basso, dalle diocesi
Non solo l’incontro dei vescovi in Vaticano. Il Sinodo diventa un processo che coinvolge tutte le Chiese particolari del mondo e i cinque continenti. L’iter dal 2021 al 2023
di Giacomo Gambassi *
Non più «un evento» ma un «processo», come lo definisce il cardinale Mario Grech. Cambiano le modalità di celebrare il Sinodo dei vescovi. Non si limiterà soltanto al momento assembleare che raccoglie i pastori intorno al Papa, come avvenuto in passato. La grande novità è la consultazione prima in tutte le diocesi, poi nei continenti attraverso le conferenze episcopali che precederà l’incontro in Vaticano. Al centro c’è l’«ascolto del sensus fidei del popolo di Dio», richiamato più volte da papa Francesco. «Non si tratta di democrazia, di populismo o qualcosa del genere; è la Chiesa ad essere popolo di Dio, e questo popolo, in ragione del battesimo, è soggetto attivo della vita e della missione della Chiesa», sottolinea il cardinale Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi in un’intervista ad Andrea Tornielli per Vatican News.
La trasformazione è declinata nel documento sul prossimo Sinodo dei vescovi che avrà per tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Lo scorso 24 aprile il Pontefice «ha approvato un nuovo itinerario sinodale» per l’appuntamento che inizialmente era previsto nell’ottobre 2022 e che invece viene rivisto anche nei tempi. Le «inedite modalità per il cammino verso l’assise» sono state proposte a Francesco dalla segreteria generale del Sinodo dei vescovi, con l’assenso del Consiglio ordinario. Si tratta quindi di un itinerario sinodale “diffuso” nel mondo intero, che coinvolgerà tutti i Paesi e tutte le Chiese particolari, e che durerà dall’ottobre 2021 all’ottobre 2023 quando si terrà la vera e propria riunione dei vescovi in Vaticano.
L’apertura del Sinodo. Viene rivista l’apertura del Sinodo che avverrà sia in Vaticano sia in ciascuna diocesi. Il cammino sarà inaugurato dal Papa in Vaticano il 9 e il 10 ottobre, mentre domenica 17 ottobre ogni vescovo lo aprirà nella propria diocesi.
La fase nelle diocesi. Quindi è in programma la fase diocesana (dall’ottobre 2021 all’aprile 2022) che sarà una «consultazione del popolo di Dio», come indicato dalla costituzione apostolica Episcopalis communio di papa Francesco pubblicata il 15 settembre 2018 che “trasforma” il Sinodo dei vescovi. La Segreteria generale invierà un Documento preparatorio, accompagnato da un questionario e da un vademecum. Lo stesso testo sarà inviato anche ai dicasteri della Curia Romana, alle Unioni di superiori e superiore maggiori, alle federazioni della vita consacrata, ai movimenti internazionali dei laici e alle università e facoltà di teologia.
Ogni vescovo nominerà un responsabile (eventualmente un’équipe) diocesano della consultazione sinodale, che farà da punto di riferimento e di collegamento con la Conferenza episcopale e che accompagnerà la consultazione nella Chiesa particolare in tutti i suoi passi. La consultazione nelle diocesi si svolgerà attraverso gli organi di partecipazione senza escludere le altre modalità che «si giudichino opportune perché la consultazione stessa sia reale ed efficace». La consultazione in ciascuna diocesi si concluderà con una riunione pre-sinodale, che sarà il momento culminante del discernimento diocesano. Dopo la chiusura della fase diocesana, ogni diocesi invierà i suoi contributi alla Conferenza episcopale.
Quindi nelle Conferenze episcopali inizierà un periodo di discernimento dei vescovi riuniti in assemblea. È questo il momento per la redazione della sintesi che sarà inviata alla Segreteria generale del Sinodo insieme ai contributi diocesani. Quindi la Segreteria generale metterà a punto il primo Instrumentum Laboris entro settembre 2022.
La fase continentale. Si aprirà allora la fase continentale (da settembre 2022 a marzo 2023) che ha al centro il dialogo sul primo Instrumentum Laboris, realizzando un ulteriore atto di discernimento alla luce delle particolarità culturali di ogni continente. Si terranno quindi vere e proprie assemblee continentali: si stabiliranno i criteri di partecipazione dei vescovi e degli altri membri del popolo di Dio. Al termine la Segreteria generale del Sinodo procederà alla redazione del secondo Instrumentum Laboris.
L’assemblea. Nell’ottobre 2023 si terrà l’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi in Vaticano.
In Italia il percorso del Sinodo dei vescovi è destinato a intrecciarsi con il cammino sinodale della Chiesa italiana che è ai nastri di partenza.
Di fatto viene riformato il Sinodo dei vescovi nella configurazione voluta da Paolo VI nel 1965. Nel motu proprio Apostolica sollicitudo, del 15 settembre 1965, il Papa di Concesio istituiva un organismo di vescovi «sottomesso direttamente ed immediatamente all’autorità del Romano Pontefice» che partecipasse - alla funzione petrina di «sollecitudine per tutta la Chiesa». Il fine del Sinodo era quello di «favorire una stretta unione e collaborazione fra il Sommo Pontefice ed i Vescovi di tutto il mondo»; di «procurare una informazione diretta ed esatta circa i problemi e le situazioni che riguardano la vita interna della Chiesa e l’azione che essa deve condurre nel mondo attuale»; di «rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo d’agire nella vita della Chiesa».
Adesso accanto al momento di discernimento da parte dei vescovi che ha il suo punto culminante nell’Assemblea, si aggiunge la consultazione dal basso. «La storia del Sinodo illustra quanto bene queste Assemblee hanno arrecato alla Chiesa - afferma il cardinale Grech - ma anche come fossero maturi i tempi per una più larga partecipazione del popolo di Dio a un processo decisionale che riguarda tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa». È uno dei temi più forti del pontificato attuale. «Molti interpreti - aggiunge il porporato - sottolineano giustamente il tema della Chiesa come popolo di Dio; ma quello che maggiormente caratterizza questo popolo per il Papa è il sensus fidei, che lo rende infallibile in credendo. Si tratta di un dato tradizionale in dottrina, che attraversa tutta la vita della Chiesa. Il Concilio Vaticano II dice che il popolo di Dio partecipa alla funzione profetica di Cristo. Per questo bisogna ascoltarlo, e per ascoltarlo bisogna andare là dove vive, nelle Chiese particolari. Il principio che regola questa consultazione del popolo di Dio, è l’antico principio che «da tutti deve essere discusso ciò che interessa tutti».
Grech cita il discorso tenuto nel 2015 da papa Francesco per il 50 anni dell’istituzione del Sinodo quando il Pontefice parlava di «Chiesa costitutivamente sinodale», evidenziava l’urgenza di essere «Chiesa dell’ascolto» in cui ciascuno ha da imparare dall’altro e chiariva che «il Sinodo dei vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della Chiesa». Il cardinale aggiunge che l’impostazione di Paolo VI era «perfettibile» e che il rafforzamento dell’autorità dei pastori non poteva «essere la modalità ordinaria di vivere la comunione ecclesiale, che domanda circolarità, reciprocità, cammino insieme nel rispetto delle rispettive funzioni nel popolo di Dio. La comunione dunque non può che tradursi in partecipazione di tutti alla vita della Chiesa, ciascuno secondo la sua specifica condizione e funzione. Il processo sinodale mostra bene tutto questo».
* Fonte: Avvenire, venerdì 21 maggio 2021 (ripresa parziale).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO» DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
"ANTIQUUM MINISTERIUM" CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL MINISTERO DI CATECHISTA *
1. Il ministero di Catechista nella Chiesa è molto antico. È pensiero comune tra i teologi che i primi esempi si ritrovino già negli scritti del Nuovo Testamento. Il servizio dell’insegnamento trova la sua prima forma germinale nei “maestri” a cui l’Apostolo fa menzione scrivendo alla comunità di Corinto: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime» (1 Cor 12,28-31).
Lo stesso Luca apre il suo Vangelo attestando: «Ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,3-4). L’evangelista sembra essere ben consapevole che con i suoi scritti sta fornendo una forma specifica di insegnamento che permette di dare solidità e forza a quanti hanno già ricevuto il Battesimo. L’apostolo Paolo ritorna di nuovo sull’argomento quando raccomanda ai Galati: «Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce» (Gal 6,6). Come si nota, il testo aggiunge una peculiarità fondamentale: la comunione di vita come caratteristica della fecondità della vera catechesi ricevuta.
2. Fin dai suoi inizi la comunità cristiana ha sperimentato una diffusa forma di ministerialità che si è resa concreta nel servizio di uomini e donne i quali, obbedienti all’azione dello Spirito Santo, hanno dedicato la loro vita per l’edificazione della Chiesa. I carismi che lo Spirito non ha mai cessato di effondere sui battezzati, trovarono in alcuni momenti una forma visibile e tangibile di servizio diretto alla comunità cristiana nelle sue molteplici espressioni, tanto da essere riconosciuto come una diaconia indispensabile per la comunità. L’apostolo Paolo se ne fa interprete autorevole quando attesta: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,4-11).
All’interno della grande tradizione carismatica del Nuovo Testamento, dunque, è possibile riconoscere la fattiva presenza di battezzati che hanno esercitato il ministero di trasmettere in forma più organica, permanente e legato alle diverse circostanze della vita, l’insegnamento degli apostoli e degli evangelisti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 8). La Chiesa ha voluto riconoscere questo servizio come espressione concreta del carisma personale che ha favorito non poco l’esercizio della sua missione evangelizzatrice. Lo sguardo alla vita delle prime comunità cristiane che si sono impegnate nella diffusione e sviluppo del Vangelo, sollecita anche oggi la Chiesa a comprendere quali possano essere le nuove espressioni con cui continuare a rimanere fedeli alla Parola del Signore per far giungere il suo Vangelo a ogni creatura.
3. L’intera storia dell’evangelizzazione di questi due millenni mostra con grande evidenza quanto sia stata efficace la missione dei catechisti. Vescovi, sacerdoti e diaconi, insieme a tanti uomini e donne di vita consacrata, hanno dedicato la loro vita all’istruzione catechistica perché la fede fosse un valido sostegno per l’esistenza personale di ogni essere umano. Alcuni inoltre hanno raccolto intorno a sé altri fratelli e sorelle che nella condivisione dello stesso carisma hanno costituito degli Ordini religiosi a totale servizio della catechesi.
Non si può dimenticare, l’innumerevole moltitudine di laici e laiche che hanno preso parte direttamente alla diffusione del Vangelo attraverso l’insegnamento catechistico. Uomini e donne animati da una grande fede e autentici testimoni di santità che, in alcuni casi, sono stati anche fondatori di Chiese, giungendo perfino a donare la loro vita. Anche ai nostri giorni, tanti catechisti capaci e tenaci sono a capo di comunità in diverse regioni e svolgono una missione insostituibile nella trasmissione e nell’approfondimento della fede. La lunga schiera di beati, santi e martiri catechisti ha segnato la missione della Chiesa che merita di essere conosciuta perché costituisce una feconda sorgente non solo per la catechesi, ma per l’intera storia della spiritualità cristiana.
4. A partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa ha sentito con rinnovata coscienza l’importanza dell’impegno del laicato nell’opera di evangelizzazione. I Padri conciliari hanno ribadito più volte quanto sia necessario per la “plantatio Ecclesiae” e lo sviluppo della comunità cristiana il coinvolgimento diretto dei fedeli laici nelle varie forme in cui può esprimersi il loro carisma. «Degna di lode è anche quella schiera, tanto benemerita dell’opera missionaria tra i pagani, che è costituita dai catechisti, sia uomini che donne. Essi, animati da spirito apostolico e facendo grandi sacrifici, danno un contributo singolare ed insostituibile alla propagazione della fede e della Chiesa...Nel nostro tempo poi, in cui il clero è insufficiente per l’evangelizzazione di tante moltitudini e per l’esercizio del ministero pastorale, il compito del Catechista è della massima importanza» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 17).
Insieme al ricco insegnamento conciliare è necessario far riferimento al costante interesse dei Sommi Pontefici, del Sinodo dei Vescovi, delle Conferenze Episcopali e dei singoli Pastori che nel corso di questi decenni hanno impresso un notevole rinnovamento alla catechesi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, l’Esortazione apostolica Catechesi tradendae, il Direttorio catechistico generale, il Direttorio generale per la catechesi, il recente Direttorio per la catechesi, unitamente a tanti Catechismi nazionali, regionali e diocesani sono un’espressione del valore centrale dell’opera catechistica che mette in primo piano l’istruzione e la formazione permanente dei credenti.
5. Senza nulla togliere alla missione propria del Vescovo di essere il primo Catechista nella sua Diocesi insieme al presbiterio che con lui condivide la stessa cura pastorale, e alla responsabilità peculiare dei genitori riguardo la formazione cristiana dei loro figli (cfr CIC can. 774 §2; CCEO can. 618), è necessario riconoscere la presenza di laici e laiche che in forza del proprio battesimo si sentono chiamati a collaborare nel servizio della catechesi (cfr CIC can. 225; CCEO cann. 401 e 406). Questa presenza si rende ancora più urgente ai nostri giorni per la rinnovata consapevolezza dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (cfr Esort. Ap. Evangelii gaudium, 163-168), e per l’imporsi di una cultura globalizzata (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 100.138), che richiede un incontro autentico con le giovani generazioni, senza dimenticare l’esigenza di metodologie e strumenti creativi che rendano l’annuncio del Vangelo coerente con la trasformazione missionaria che la Chiesa ha intrapreso. Fedeltà al passato e responsabilità per il presente sono le condizioni indispensabili perché la Chiesa possa svolgere la sua missione nel mondo.
Risvegliare l’entusiasmo personale di ogni battezzato e ravvivare la consapevolezza di essere chiamato a svolgere la propria missione nella comunità, richiede l’ascolto alla voce dello Spirito che non fa mai mancare la sua presenza feconda (cfr CIC can. 774 §1; CCEO can. 617). Lo Spirito chiama anche oggi uomini e donne perché si mettano in cammino per andare incontro ai tanti che attendono di conoscere la bellezza, la bontà e la verità della fede cristiana. È compito dei Pastori sostenere questo percorso e arricchire la vita della comunità cristiana con il riconoscimento di ministeri laicali capaci di contribuire alla trasformazione della società attraverso la «penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico» (Evangelii gaudium, 102).
6. L’apostolato laicale possiede una indiscussa valenza secolare. Essa chiede di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen Gentium, 31). La loro vita quotidiana è intessuta di rapporti e relazioni familiari e sociali che permette di verificare quanto «sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo» (Lumen Gentium, 33). È bene ricordare, comunque, che oltre a questo apostolato «i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l’apostolato della Gerarchia a somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l’apostolo Paolo nell’evangelizzazione, faticando molto per il Signore» (Lumen Gentium, 33).
La funzione peculiare svolta dal Catechista, comunque, si specifica all’interno di altri servizi presenti nella comunità cristiana. Il Catechista, infatti, è chiamato in primo luogo a esprimere la sua competenza nel servizio pastorale della trasmissione della fede che si sviluppa nelle sue diverse tappe: dal primo annuncio che introduce al kerygma, all’istruzione che rende consapevoli della vita nuova in Cristo e prepara in particolare ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, fino alla formazione permanente che consente ad ogni battezzato di essere sempre pronto «a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» (1 Pt 3,15). Il Catechista è nello stesso tempo testimone della fede, maestro e mistagogo, accompagnatore e pedagogo che istruisce a nome della Chiesa. Un’identità che solo mediante la preghiera, lo studio e la partecipazione diretta alla vita della comunità può svilupparsi con coerenza e responsabilità (cfr Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, 113).
7. Con lungimiranza, San Paolo VI emanò la Lettera apostolica Ministeria quaedam con l’intento non solo di adattare al cambiato momento storico il ministero del Lettore e dell’Accolito (cfr Lett. ap. Spiritus Domini), ma anche di sollecitare le Conferenze Episcopali perché si facessero promotrici per altri ministeri tra cui quello di Catechista: “Oltre questi uffici comuni della Chiesa Latina, nulla impedisce che le Conferenze Episcopali ne chiedano altri alla Sede Apostolica, se ne giudicheranno, per particolari motivi, la istituzione necessaria o molto utile nella propria regione. Di questo genere sono, ad esempio, gli uffici di Ostiario, di Esorcista e di Catechista”. Lo stesso invito pressante ritornò nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi quando, chiedendo di saper leggere le esigenze attuali della comunità cristiana in fedele continuità con le origini, esortava a trovare nuove forme ministeriali per una rinnovata pastorale: «Tali ministeri, nuovi in apparenza ma molto legati ad esperienze vissute dalla Chiesa nel corso della sua esistenza, - per esempio quelli di Catechista... sono preziosi per la «plantatio», la vita e la crescita della Chiesa e per una capacità di irradiazione intorno a se stessa e verso coloro che sono lontani» (San Paolo VI, Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 73).
Non si può negare, dunque, che «è cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede» (Evangelii gaudium, 102). Ne consegue che ricevere un ministero laicale come quello di Catechista imprime un’accentuazione maggiore all’impegno missionario tipico di ciascun battezzato che si deve svolgere comunque in forma pienamente secolare senza cadere in alcuna espressione di clericalizzazione.
8. Questo ministero possiede una forte valenza vocazionale che richiede il dovuto discernimento da parte del Vescovo e si evidenzia con il Rito di istituzione. Esso, infatti, è un servizio stabile reso alla Chiesa locale secondo le esigenze pastorali individuate dall’Ordinario del luogo, ma svolto in maniera laicale come richiesto dalla natura stessa del ministero. È bene che al ministero istituito di Catechista siano chiamati uomini e donne di profonda fede e maturità umana, che abbiano un’attiva partecipazione alla vita della comunità cristiana, che siano capaci di accoglienza, generosità e vita di comunione fraterna, che ricevano la dovuta formazione biblica, teologica, pastorale e pedagogica per essere comunicatori attenti della verità della fede, e che abbiano già maturato una previa esperienza di catechesi (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, 14; CIC can. 231 §1; CCEO can. 409 §1). È richiesto che siano fedeli collaboratori dei presbiteri e dei diaconi, disponibili a esercitare il ministero dove fosse necessario, e animati da vero entusiasmo apostolico.
Pertanto, dopo aver ponderato ogni aspetto, in forza dell’autorità apostolica
il ministero laicale di Catechista
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti provvederà entro breve tempo a pubblicare il Rito di Istituzione del ministero laicale di Catechista.
9. Invito, dunque, le Conferenze Episcopali a rendere fattivo il ministero di Catechista, stabilendo l’iter formativo necessario e i criteri normativi per potervi accedere, trovando le forme più coerenti per il servizio che costoro saranno chiamati a svolgere conformemente a quanto espresso da questa Lettera apostolica.
10. I Sinodi delle Chiese Orientali o le Assemblee dei Gerarchi potranno recepire quanto qui stabilito per le rispettive Chiese sui juris, in base al proprio diritto particolare.
11. I Pastori non cessino di fare propria l’esortazione dei Padri conciliari quando ricordavano: «Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune» (Lumen Gentium, 30). Il discernimento dei doni che lo Spirito Santo non fa mai mancare alla sua Chiesa sia per loro il sostegno dovuto per rendere fattivo il ministero di Catechista per la crescita della propria comunità.
Quanto stabilito con questa Lettera apostolica in forma di “Motu proprio”, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore nello stesso giorno, e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il giorno 10 maggio dell’anno 2021, Memoria liturgica di San Giovanni d’Avila, presbitero e dottore della Chiesa, nono del mio pontificato.
Francesco
Liturgia.
La Pasqua porta il nuovo Messale nelle parrocchie italiane
Dal giorno della Risurrezione diventa obbligatorio il libro liturgico curato dalla Cei. Il vescovo Maniago: segno di speranza e di ripartenza. Le revisioni? Già accolte senza difficoltà
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 2 aprile 2021)
Tutti lo chiamano il nuovo Messale Romano. Ufficialmente è la traduzione in italiano della terza edizione tipica latina del libro per celebrare l’Eucaristia che la Santa Sede ha varato nel 2002. Da domenica 4 aprile il testo si aprirà sugli altari di tutte le parrocchie della Penisola. Perché, come ha stabilito la Cei che ha guidato un percorso durato quasi diciotto anni, il volume diventerà obbligatorio nell’intero Paese dal giorno di Pasqua. E non solo scandirà le celebrazioni in Italia, ma anche quelle presiedute in italiano da Francesco in Vaticano. Messale per la Penisola ma anche “del Papa”. E poi esempio per le traduzioni nelle diverse lingue nazionali dell’edizione tipica latina.
Certo, il rinnovato libro liturgico è già utilizzato da alcuni mesi in numerose diocesi o parrocchie. Molte regioni ecclesiastiche avevano indicato nell’Avvento il periodo per il “debutto” locale. E anche il Pontefice celebra con il nuovo Messale. Resta il fatto che con la solennità della Risurrezione finisce definitivamente in archivio la precedente edizione datata 1983 che, quindi, per quasi quarant’anni ha segnato la vita liturgica nel Paese.
«La scelta della Pasqua ha un preciso significato», spiega il vescovo di Castellaneta, Claudio Maniago, che da presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia ha curato l’ultima e più complessa fase della realizzazione del Messale. «Nella vita della Chiesa - prosegue - il giorno della Risurrezione rimanda all’inizio di un tempo rinnovato. Ecco, con il volume pubblicato lo scorso settembre la Chiesa italiana è chiamata a scrivere un nuovo capitolo del suo cammino».
L’esordio solenne avviene in un frangente ancora marcato dalla pandemia, con le limitazioni e i “ritocchi” ai riti imposti dalle misure anti-Covid. Non è sicuramente la Pasqua di un anno fa, senza le Messe a porte aperte. Però le liturgie risentono dell’effetto coronavirus.
«Potrebbe apparire penalizzante l’uscita di un nuovo libro liturgico in un tempo come l’attuale - afferma Maniago -. Tuttavia la pubblicazione del Messale è stata giustamente interpretata come un segno di speranza che può aiutare le comunità a concentrarsi su quanto è davvero essenziale. E l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana, è celebrare in ogni istante della storia la Pasqua del Signore. Direi che il nuovo volume è uno sprone per tornare a gustare con maggiore intensità e partecipazione ciò che nei mesi scorsi ci era stato tolto nella sua pienezza o ciò che ancora oggi è condizionato da vincoli che per motivi sanitari siamo doverosamente tenuti a rispettare».
Un test sul nuovo Messale - con le illustrazioni dell’artista Mimmo Paladino - c’è già stato nelle comunità che lo stanno impiegando dall’autunno. «Si è trattato di un tempo congruo per far sì che dopo la pubblicazione del volume si potesse avere una fase di sperimentazione e di prova necessarie», sottolinea il vescovo. E il primo bilancio che la Cei ha stilato è più che positivo.
«L’accoglienza è stata buona - racconta Maniago -. Da una parte, è stata accompagnata da una sana dose di curiosità, consapevoli comunque che le novità non stavano in una diversa struttura della celebrazione ma piuttosto in miglioramenti e revisioni dei testi con anche significative variazioni che intendono rendere più vicino alla sensibilità contemporanea quanto viene pronunciato. D’altro canto, le novità sono state recepite senza particolari fatiche: penso a quelle che toccano l’assemblea, come le modifiche del “Padre Nostro” o del “Gloria”. Inoltre i sacerdoti, che sono i primi utilizzatori del Messale, hanno potuto confrontarsi con formule ed espressioni nuove, come quelle nelle Preghiere eucaristiche: il linguaggio adoperato ha richiesto un adattamento di fronte a passaggi divenuti così familiari che potevano quasi essere recitati a memoria. L’unica difficoltà riscontrata è stata quella relativa alla veste editoriale: il carattere del libro ha creato in qualche prete più avanti con l’età un disagio alla prima lettura ma poi non è stato problematico abituarsi al diverso formato».
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
La Lettera. Papa Francesco e l’eredità di san Girolamo: amate le Sacre Scritture
Nel 16esimo centenario della morte, la Lettera apostolica rilancia la figura del grande Dottore della Chiesa, esempio anche per i giovani: partite alla ricerca del vostro patrimonio culturale
di Redazione (Avvenire, mercoledì 30 settembre 2020)
"Oggi ho firmato la Lettera apostolica Sacrae Scripturae affectus nel 16mo centenario della morte di San Girolamo. L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio".
Lo ha annunciato oggi papa Francesco, al termine dell’udienza generale.
La Lettera (QUI IL TESTO) ripercorre la figura di San Girolamo, "di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo”. Proprio l’affetto, l’amore per la Sacra Scrittura è l’eredità che Girolamo “ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere”.
Nella Lettera Francesco ne ripercorre la vita ricordando la sua solida educazione cristiana e la sua dedizione agli studi, i suoi viaggi, le sue amicizie e le sue esperienze. Tra queste il deserto, "luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime”.
Ed è nel deserto che il giovane di Stridone “avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con Lui, la sua consolazione misericordiosa”. Girolamo ha consacrato “la sua esistenza a rendere sempre più accessibili le lettere divine agli altri, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore”.
Viene ordinato sacerdote ad Antiochia intorno al 379 e si sposta poi a Costantinopoli, dedicandosi alla traduzione in latino di importanti opere dal greco. “È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca” scrive papa Francesco, che riporta le stesse parole di Girolamo:
A Roma nel 382 diviene stretto collaboratore di papa Damaso, e partecipa ai cenacoli di lettura della Sacra Scrittura. In quegli anni Girolamo “intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento”. “Per Girolamo, la Chiesa di Roma è il terreno fecondo dove il seme di Cristo porta frutto abbondante - osserva il Papa -. In un’epoca convulsa, in cui la tunica inconsutile della Chiesa è spesso lacerata dalle divisioni tra i cristiani, Girolamo guarda alla cattedra di Pietro come punto di riferimento sicuro: ‘Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla Cattedra di Pietro. So che su quella roccia è edificata la Chiesa’”.
Quando papa Damaso muore, Girolamo lascerà Roma e dopo vari viaggi e vari studi sceglierà di vivere a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività, dove fonda due monasteri, uno maschile e uno femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini.
Proprio a Betlemme, dove muore nel 420, Girolamo vive “il periodo più fecondo e intenso della sua vita, completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia”, chiedendo “continuo sostegno nella preghiera di intercessione per la riuscita della sua traduzione dei testi sacri ‘nello stesso Spirito con cui furono scritti’”. Un lavoro prezioso che ancora è possibile apprezzare nelle sue opere.
Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che “lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa". Il Papa ricorda l’attività epistolare di Girolamo, in particolare le missive in cui affronta le polemiche dottrinali, “sempre nella difesa della retta fede, rivelandosi uomo di relazioni, vissute con forza e con dolcezza".
Ed ecco le due dimensioni caratteristiche di Girolamo che bisogna considerare per una piena comprensione della sua personalità: "Da un lato, l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione", dall’altro, "l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore”. Per queste due caratteristiche lo rendono modello “per i monaci, innanzitutto, perché chi vive di ascesi e di preghiera venga sollecitato a dedicarsi all’assiduo travaglio della ricerca e del pensiero; per gli studiosi, poi, che devono ricordare che il sapere è valido religiosamente solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, sulla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione”.
“Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo - rimarca Francesco - rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio”. Un altro tratto è l’obbedienza di cui è intriso il suo amore per le divine Scritture, nei confronti di Dio e, di conseguenza, "obbedienza anche a coloro che nella Chiesa rappresentano la vivente tradizione interpretativa del messaggio rivelato”. Un’obbedienza, tuttavia, che non è “mera recezione passiva di ciò che è noto”, ma che “esige, al contrario, l’impegno attivo della personale ricerca”.
“Possiamo considerare San Girolamo un servitore della Parola, fedele e laborioso, consacrato interamente a favorire nei suoi fratelli di fede una più adeguata comprensione del ‘deposito’ sacro loro affidato”.
Ma Girolamo è una guida per gli studiosi di oggi, "perché (...) conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture”.
Per questo il Papa addita l’attività di San Girolamo quanto mai importante anche nella Chiesa di oggi ed evidenzia quanto sia “indispensabile che l’atto interpretativo della Bibbia sia sorretto da specifiche competenze”, citando poi i centri di eccellenza della ricerca biblica: il Pontificio Istituto Biblico e l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, e a Gerusalemme l’École Biblique e lo Studium Biblicum Franciscanum ed esortando ogni Facoltà di Teologia ad “impegnarsi affinché l’insegnamento della Sacra Scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa, sia nell’esegesi dei testi, sia nelle sintesi di teologia biblica”.
Per Francesco va anche promossa “una formazione estesa a tutti i cristiani, perché ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita”, per questo ricorda il motivo che l’ha spinto ad istituire la Domenica della Parola di Dio, iniziativa che deve “incoraggiare la lettura orante della Bibbia e la familiarità con la Parola di Dio”.
Il lavoro più noto di Girolamo è senza dubbio la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico, la cosiddetta Vulgata. Ai tempi di Girolamo, spiega il Papa, “i cristiani dell’impero romano potevano leggere integralmente la Bibbia solo in greco”, per i lettori di lingua latina non vi era una versione completa della Bibbia bensì solo alcune traduzioni, parziali e incomplete, a partire dal greco. “A Girolamo, e dopo di lui ai suoi continuatori, spetta il merito di aver intrapreso una revisione e una nuova traduzione di tutta la Scrittura - si legge nella Lettera Apostolica -. Iniziata a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di Papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni”.
“Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico” ed è possibile affermare che “l’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo”.
Con la Vulgata, scrive ancora il Papa “Girolamo è riuscito a ‘inculturare’ la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa”. Per il Papa “la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo”.
Quindi Francesco avverte “senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità”. E invece “il traduttore è un costruttore di ponti”.
La celebrazione del centenario della morte di San Girolamo porta a guardare “alla straordinaria vitalità missionaria espressa dalla traduzione della Parola di Dio in più di tremila lingue”, e ai tanti “missionari ai quali si deve la preziosa opera di pubblicazione di grammatiche, dizionari e altri strumenti linguistici che offrono i fondamenti alla comunicazione umana e sono un veicolo per il ‘sogno missionario di arrivare a tutti’. Da qui l’invito a “valorizzare tutto questo lavoro e investire su di esso, contribuendo al superamento delle frontiere della incomunicabilità e del mancato incontro”.
Infine, un invito ai giovani: “Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida - conclude Francesco - partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare ‘la perla di grande valore’”.
“Girolamo è la ‘Biblioteca di Cristo’ - nota il Papa - una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione”. E con le parole di Girolamo Francesco raccomanda: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”.
L’anima e la cetra /21.
I fragili movimenti della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 22 agosto 2020)
La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. Sta in questa esposizione di colui che dà fiducia la radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero, anche quando passa attraverso semplici cose materiali. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel "qualcosa" che si deposita nelle mani dell’altro, nel "palmo della sua mano". Una vulnerabilità che ha anche un suo valore, ha delle proprietà tipiche che cambiano e in genere migliorano la natura di un rapporto. Mostrare all’altro la mia vulnerabilità, rendergliela intenzionalmente evidente, mentre ci rende più deboli ci rende anche più forti, grazie alla dimensione trasformativa della fiducia vulnerabile. La prima e più importante garanzia che chi ha ricevuto fiducia la onori sta nel suo sentirsi onorato dallo stesso atto di fiducia - troppi debiti non vengono onorati perché la nostra finanza invece di onorare il debitore lo umilia.
Se allora chi compie un atto di affidamento fa di tutto per ridurre e possibilmente annullare il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Se, ad esempio, nello scrivere un contratto ne definisco i dettagli fino a includere tutte le possibili situazioni future al fine di prevenirmi da ogni possibile uso scorretto di quella relazione fiduciaria, sto dando alla controparte un messaggio di sfiducia che cambia la natura del rapporto che stiamo costruendo. Molti rapporti si bloccano sul nascere perché la volontà di escludere futuri abusi crea un clima di diffidenza che impedisce al rapporto di incominciare. La fiducia invulnerabile non è un bene. Lo vediamo nei confronti di mogli e mariti, dei figli e delle figlie, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro (e loro di noi) senza avere garanzie perfette sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è reciproca, è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. Quando poi la fiducia riguarda alcuni rapporti decisivi della nostra vita, la relazione di fiducia assume una forma ternaria: ci sono io che ho fiducia in te, ci sei tu di cui mi fido, e c’è un terzo che si pone tra noi due come garante o testimone.
È soprattutto la dimensione ternaria o trinitaria della fede e della fiducia che colpisce nel celebre Salmo 91, una preghiera cara a molte tradizioni religiose: «Tu che abiti negli atri dell’Altissimo, che passi la notte all’ombra dell’Onnipotente. Dì al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido"» (Salmo 91,1-2). È molto bello questo "trialogo" tra il protagonista del Salmo (che forse stava passando la notte in un tempio in attesa di un oracolo in sogno), il suo Dio e un terzo che gli insegna la fiducia-fede.
La fede biblica ha essenzialmente una natura ternaria. Tra il fedele e il suo Dio c’è qualcuno che gli dice che si può fidare. Questo qualcuno è un profeta, è Abramo o Mosè, è la Torah, ma è anche il fratello o la sorella nella fede.
Il Salmo 91 non ci dice chi sia questo terzo personaggio che insegna la fede all’orante, e questo anonimato è molto bello perché quel "qualcuno" può essere qualsiasi persona, posso essere io, puoi essere tu. Non tutti abbiamo un profeta accanto a insegnarci la fede, ma tutti abbiamo una persona che ci può insegnare a credere e a fidarci. Una persona che ci dice: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno» (91,3-6). E noi rispondiamo: «Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!» (91,9): è il secondo movimento della fede, quando dopo aver creduto a chi gli ha insegnato la fede-fiducia, il credente fa la sua dichiarazione di fede. Questo movimento è secondo, perché prima c’è qualcuno che mi dona la fede - la fede finirà sulla terra quando l’ultimo credente smetterà di donarla a qualcuno.
Sta anche qui il senso e il valore della Tradizione: è la catena di persone che si sono insegnate la fede a vicenda, quella corda solidale spiegata nei secoli fatta di persone e di comunità che hanno imparato a credere in Dio credendo alle parole di persone, un dialogo continuo tra chi ci dice di fidarci, noi che rispondiamo con il nostro sì e poi diciamo ad altri di fidarsi delle parole nostre perché non-nostre. La fede biblica è credere in Dio credendo alle persone che ci parlano in suo nome mettendoci la faccia. È sempre esperienza comunitaria, un evento che accade in mezzo al popolo, è un rapporto di fiducia. A volte non siamo capaci di credere perché non siamo capaci di fidarci, e l’allenamento alla fiducia inter-umana è un’ottima preparazione alla fede. Chi non si fida di nessuno non crede neanche in Dio, chi si fida poco degli uomini si fida poco anche di Dio, e la fede diventa un atto cognitivo che non cambia la vita.
Infine il terzo movimento. Entra in scena Dio: «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza» (91,13-16). Nel formulare la sua promessa, Dio si espone alla possibilità del non avveramento di queste parole, perché la storia è un continuo spettacolo di persone fedeli e giuste che invocano e non hanno risposta, che non sono resi gloriosi, che conoscono il fallimento. E questo perché la fede biblica condivide la stessa vulnerabilità inscritta in ogni rapporto di fiducia vera, che è vera perché vulnerabile. Perché non abbiamo conoscenza diretta di colui di cui ci fidiamo, lo conosciamo solo "per sentito dire" (Giobbe), lo conosciamo perché lo abbiamo "sentito dire" da chi ci siamo fidati. Perché sia noi sia Dio cambiamo in continuazione, ogni mattina dobbiamo ricredere a quello che avevamo creduto fino a ieri notte - la fede è un atto di fiducia coniugato al presente. Una tappa decisiva della fede matura consiste nel prendere un giorno coscienza che quando pronunciamo la parola "Dio", la parola più bella, famigliare e intima, non sappiamo cosa stiamo dicendo - ma continuiamo a dirla, perché queste parole possono solo essere amate. Ecco perché all’inizio di alcune grandi vocazioni bibliche c’è un affidamento complicato: Mosè non vuole tornare in Egitto, Geremia recalcitra, Giona fugge, Samuele ha bisogno di quattro chiamate per dire "eccomi", Elia per rialzarsi e continuare il cammino dovette imparare a udire il silenzio e YHWH dovette imparare a sussurrare.
Se l’affidamento della fede non fosse rischioso e vulnerabile la fede non sarebbe un’esperienza autenticamente umana, e diventando credenti diventeremmo meno umani. E chi nella vita ha incontrato una voce che lo/la chiamava e ha risposto, sa che quel rischio è reale ed effettivo, perché sa che qualche volta anche le vocazioni autentiche vanno a male, si smarriscono, si perdono nell’immenso dolore (loro e di Dio). Non sappiamo perché anche le vocazione vere finiscono male. Il fallimento fa parte della condizione umana, e una vocazione infallibile sarebbe semplicemente disumana. Ed è questa possibilità che la fede-fiducia riposta in un mistero possa andar male che la rende esperienza umanissima, simile in dignità alla maternità, al nascere e al morire. La nostra fede è esperienza interamente umana per la sua dimensione tragica. Si può essere pienamente umani senza stimare la fede e chi crede, ma non si può credere senza stimare l’umanità, tutta, senza lasciare fuori nulla nel tragitto che porta dall’inferno al paradiso, e ritorno.
Questo Salmo fu citato da Satana, nell’episodio delle tentazioni di Cristo: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"» (Mt 4,5-6). Satana qui cita il versetto 12 del Salmo 91. E Gesù risponde a Satana ribadendo la natura di affidamento della fede biblica: «Sta scritto anche: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"» (Mt 4,7).
Un messaggio importante di questo splendido versetto che finisce sulla bocca di Satana è l’eccedenza della Bibbia rispetto ai suoi soli usi buoni. Anche il diavolo conosce bene e usa la stessa scrittura conosciuta e usata dagli evangelisti, a dirci che conoscere e citare la Bibbia non offre nessuna garanzia di vita, né di autenticità di dottrina. C’è un uso diabolico della scrittura, persino dei Salmi e della preghiera, al punto che Satana prende una delle preghiere più sublimi e alte del Salterio per tentare Gesù. L’uso della Bibbia di Gesù e quello di Satana coesistono dentro di noi - ne fossimo almeno coscienti!
Sta anche qui la vulnerabilità della Bibbia: le sue parole sono lì, esposte nella pubblica piazza del mondo, e chiunque le può usare per pregare, per amare meglio, per imparare a vivere; ma tutti le possiamo usare anche per maledire, per condannare, per tentare, per manipolare gli uomini e Dio, per bestemmiare. Anche Dio si fida di noi, ripone nel nostro cuore le sue parole, e noi possiamo tradirle.
Nell’inferno non c’è soltanto "pape satàn pape satàn aleppe", ci saranno forse anche parole bibliche abusate e violentate. Dio, scegliendo di farsi parola, di parlarci in parole umane, ha scelto di condividere la nostra fragilità. Anche in questo ci somiglia. È il quarto movimento della fede.
L’annuncio.
Il Papa indice per il 2022 un Sinodo dei vescovi su Chiesa e sinodalità
Tra due anni si terrà la prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema della sinodalità. Lo ha annunciato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri
di Mimmo Muolo (Avvenire, sabato 7 marzo 2020)
Papa Francesco ha sempre posto l’accento, negli ormai quasi sette anni del suo pontificato, sullo stile sinodale della Chiesa. Appare dunque perfettamente in linea con questa convinzione la scelta del tema del prossimo Sinodo dei vescovi, comunicata ieri dal segretario generale dell’organismo voluto subito dopo il Concilio da Paolo VI. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, come riporta una nota della Sala Stampa della Santa Sede, ha infatti annunciato che «Papa Francesco indice la XVI assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà nel mese di ottobre del 2022 sul tema: "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione"».
La Chiesa sinodale, al centro del cammino di preparazione, dunque, e poi dei lavori in aula, in programma tra due anni e mezzo. Ma proprio a motivo dell’abbondante magistero di Francesco sull’argomento non si partirà certamente da zero.
Un importante punto di riferimento appare fin d’ora il discorso che il Papa tenne il 17 ottobre 2015 (proprio mentre era in corso l’assemblea ordinaria dedicata alla famiglia) per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo. «Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma - affermava in quella occasione papa Bergoglio - ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI - aggiungeva -, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».
A lui faceva eco, vent’anni più tardi, san Giovanni Paolo II, allorché affermava che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente».
Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo».
Il cammino - è proprio il caso di usare questa parola - del Sinodo ha dunque attraversato tutti i pontificati dal Concilio a oggi. Francesco ha dato nuovo impulso alla sinodalità nella Chiesa. E infatti in quel discorso affermava: «Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Sempre nello stesso discorso, il Papa enunciava poi alcune caratteristiche della Chiesa sinodale. Ad esempio la consultazione del popolo di Dio nella preparazione delle assemblee del Sinodo: «Come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce?» (la stessa cosa cosa si è fatta poi con i giovani in occasione dell’assemblea incentrata proprio su di loro).
Inoltre «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». Per il Pontefice questo deve essere «un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità», per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese».
Il Sinodo dei Vescovi è dunque «il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa». Infine «il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub
Petro - dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro - non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità».
In sostanza, proseguiva in quella occasione papa Francesco citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi». E questo ci offre anche la possibilità di comprendere meglio «lo stesso ministero gerarchico», che è soprattutto «servizio». «È servendo il Popolo di Dio - affermava il Pontefice - che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli. E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei».
Francesco richiamava poi anche le dimensioni "locali" della sinodalità, come ad esempio il sinodo diocesano e gli «organismi di comunione» della Chiesa particolare come il consiglio presbiterale, il collegio dei consultori, il capitolo dei canonici e il consiglio pastorale. E in conclusione sottolineava che «l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche».
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
1. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49).
La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. Giustamente San Girolamo poteva scrivere: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Is., Prologo: PL 24,17).
2. A conclusione del Giubileo straordinario della misericordia avevo chiesto che si pensasse a «una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo» (Lett. ap. Misericordia et misera, 7). Dedicare in modo particolare una domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio consente, anzitutto, di far rivivere alla Chiesa il gesto del Risorto che apre anche per noi il tesoro della sua Parola perché possiamo essere nel mondo annunciatori di questa inesauribile ricchezza. Tornano alla mente in proposito gli insegnamenti di Sant’Efrem: «Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).
Con questa Lettera, pertanto, intendo rispondere a tante richieste che mi sono giunte da parte del popolo di Dio, perché in tutta la Chiesa si possa celebrare in unità di intenti la Domenica della Parola di Dio. È diventata ormai una prassi comune vivere dei momenti in cui la comunità cristiana si concentra sul grande valore che la Parola di Dio occupa nella sua esistenza quotidiana. Esiste nelle diverse Chiese locali una ricchezza di iniziative che rende sempre più accessibile la Sacra Scrittura ai credenti, così da farli sentire grati di un dono tanto grande, impegnati a viverlo nel quotidiano e responsabili di testimoniarlo con coerenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato un grande impulso alla riscoperta della Parola di Dio con la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Da quelle pagine, che sempre meritano di essere meditate e vissute, emerge in maniera chiara la natura della Sacra Scrittura, il suo essere tramandata di generazione in generazione (cap. II), la sua ispirazione divina (cap. III) che abbraccia Antico e Nuovo Testamento (capp. IV e V) e la sua importanza per la vita della Chiesa (cap. VI). Per incrementare quell’insegnamento, Benedetto XVI convocò nel 2008 un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, in seguito alla quale pubblicò l’Esortazione Apostolica Verbum Domini, che costituisce un insegnamento imprescindibile per le nostre comunità.[1] In questo Documento, in modo particolare, viene approfondito il carattere performativo della Parola di Dio, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale.[2]
È bene, pertanto, che non venga mai a mancare nella vita del nostro popolo questo rapporto decisivo con la Parola viva che il Signore non si stanca mai di rivolgere alla sua Sposa, perché possa crescere nell’amore e nella testimonianza di fede.
3. Stabilisco, pertanto, che la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio. Questa Domenica della Parola di Dio verrà così a collocarsi in un momento opportuno di quel periodo dell’anno, quando siamo invitati a rafforzare i legami con gli ebrei e a pregare per l’unità dei cristiani. Non si tratta di una mera coincidenza temporale: celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida.
Le comunità troveranno il modo per vivere questa Domenica come un giorno solenne. Sarà importante, comunque, che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede. In questa domenica, in modo particolare, sarà utile evidenziare la sua proclamazione e adattare l’omelia per mettere in risalto il servizio che si rende alla Parola del Signore. I Vescovi potranno in questa Domenica celebrare il rito del Lettorato o affidare un ministero simile, per richiamare l’importanza della proclamazione della Parola di Dio nella liturgia. È fondamentale, infatti, che non venga meno ogni sforzo perché si preparino alcuni fedeli ad essere veri annunciatori della Parola con una preparazione adeguata, così come avviene in maniera ormai usuale per gli accoliti o i ministri straordinari della Comunione. Alla stessa stregua, i parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina.
4. Il ritorno del popolo d’Israele in patria, dopo l’esilio babilonese, fu segnato in modo significativo dalla lettura del libro della Legge. La Bibbia ci offre una commovente descrizione di quel momento nel libro di Neemia. Il popolo è radunato a Gerusalemme nella piazza della Porta delle Acque in ascolto della Legge. Quel popolo era stato disperso con la deportazione, ma ora si ritrova radunato intorno alla Sacra Scrittura come fosse «un solo uomo» (Ne 8,1). Alla lettura del libro sacro, il popolo «tendeva l’orecchio» (Ne 8,3), sapendo di ritrovare in quella parola il senso degli eventi vissuti. La reazione alla proclamazione di quelle parole fu la commozione e il pianto: «[I leviti] leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge. [...] “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,8-10).
Queste parole contengono un grande insegnamento. La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni e tanto meno una raccolta di libri per pochi privilegiati. Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola. Spesso, si verificano tendenze che cercano di monopolizzare il testo sacro relegandolo ad alcuni circoli o a gruppi prescelti. Non può essere così. La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità. La Parola di Dio unisce i credenti e li rende un solo popolo.
5. In questa unità, generata dall’ascolto, i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l’esigenza di renderla accessibile alla propria comunità.
L’omelia, in particolare, riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 142). Far entrare in profondità nella Parola di Dio, con un linguaggio semplice e adatto a chi ascolta, permette al sacerdote di far scoprire anche la «bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (ibid.). Questa è un’opportunità pastorale da non perdere!
Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei. Quando ci si ferma a meditare e pregare sul testo sacro, allora si è capaci di parlare con il cuore per raggiungere il cuore delle persone che ascoltano, così da esprimere l’essenziale che viene colto e che produce frutto. Non stanchiamoci mai di dedicare tempo e preghiera alla Sacra Scrittura, perché venga accolta «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13).
È bene che anche i catechisti, per il ministero che rivestono di aiutare a crescere nella fede, sentano l’urgenza di rinnovarsi attraverso la familiarità e lo studio delle Sacre Scritture, che consentano loro di favorire un vero dialogo tra quanti li ascoltano e la Parola di Dio.
6. Prima di raggiungere i discepoli, chiusi in casa, e aprirli all’intelligenza della Sacra Scrittura (cfr Lc 24,44-45), il Risorto appare a due di loro lungo la via che porta da Gerusalemme a Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Il racconto dell’evangelista Luca nota che è il giorno stesso della Risurrezione, cioè la domenica. Quei due discepoli discutono sugli ultimi avvenimenti della passione e morte di Gesù. Il loro cammino è segnato dalla tristezza e dalla delusione per la tragica fine di Gesù. Avevano sperato in Lui come Messia liberatore, e si trovano di fronte allo scandalo del Crocifisso. Con discrezione, il Risorto stesso si avvicina e cammina con i discepoli, ma quelli non lo riconoscono (cfr v. 16). Lungo la strada, il Signore li interroga, rendendosi conto che non hanno compreso il senso della sua passione e morte; li chiama «stolti e lenti di cuore» (v. 25) e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento.
7. La Bibbia, pertanto, in quanto Sacra Scrittura, parla di Cristo e lo annuncia come colui che deve attraversare le sofferenze per entrare nella gloria (cfr v. 26). Non una sola parte, ma tutte le Scritture parlano di Lui. La sua morte e risurrezione sono indecifrabili senza di esse. Per questo una delle confessioni di fede più antiche sottolinea che Cristo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa» (1Cor 15,3-5). Poiché le Scritture parlano di Cristo, permettono di credere che la sua morte e risurrezione non appartengono alla mitologia, ma alla storia e si trovano al centro della fede dei suoi discepoli.
È profondo il vincolo tra la Sacra Scrittura e la fede dei credenti. Poiché la fede proviene dall’ascolto e l’ascolto è incentrato sulla parola di Cristo (cfr Rm 10,17), l’invito che ne scaturisce è l’urgenza e l’importanza che i credenti devono riservare all’ascolto della Parola del Signore sia nell’azione liturgica, sia nella preghiera e riflessione personali.
8. Il “viaggio” del Risorto con i discepoli di Emmaus si chiude con la cena. Il misterioso Viandante accetta l’insistente richiesta che gli rivolgono i due: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Si siedono a tavola, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo offre a loro. In quel momento i loro occhi si aprono e lo riconoscono (cfr v. 31).
Comprendiamo da questa scena quanto sia inscindibile il rapporto tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II insegna: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
La frequentazione costante della Sacra Scrittura e la celebrazione dell’Eucaristia rendono possibile il riconoscimento fra persone che si appartengono. Come cristiani siamo un solo popolo che cammina nella storia, forte della presenza del Signore in mezzo a noi che ci parla e ci nutre. Il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti. Per questo abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità.
Sacra Scrittura e Sacramenti tra loro sono inseparabili. Quando i Sacramenti sono introdotti e illuminati dalla Parola, si manifestano più chiaramente come la meta di un cammino dove Cristo stesso apre la mente e il cuore a riconoscere la sua azione salvifica. È necessario, in questo contesto, non dimenticare l’insegnamento che viene dal libro dell’Apocalisse. Qui viene insegnato che il Signore sta alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, Egli entra per cenare insieme (cfr 3,20). Cristo Gesù bussa alla nostra porta attraverso la Sacra Scrittura; se ascoltiamo e apriamo la porta della mente e del cuore, allora entra nella nostra vita e rimane con noi.
9. Nella Seconda Lettera a Timoteo, che costituisce in qualche modo il suo testamento spirituale, San Paolo raccomanda al suo fedele collaboratore di frequentare costantemente la Sacra Scrittura. L’Apostolo è convinto che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (3,16). Questa raccomandazione di Paolo a Timoteo costituisce una base su cui la Costituzione conciliare Dei Verbum affronta il grande tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura, una base da cui emergono in particolare la finalità salvifica, la dimensione spirituale e il principio dell’incarnazione per la Sacra Scrittura.
Richiamando anzitutto la raccomandazione di Paolo a Timoteo, la Dei Verbum sottolinea che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Poiché queste istruiscono in vista della salvezza per la fede in Cristo (cfr 2Tm 3,15), le verità contenute in esse servono per la nostra salvezza. La Bibbia non è una raccolta di libri di storia, né di cronaca, ma è interamente rivolta alla salvezza integrale della persona. L’innegabile radicamento storico dei libri contenuti nel testo sacro non deve far dimenticare questa finalità primordiale: la nostra salvezza. Tutto è indirizzato a questa finalità iscritta nella natura stessa della Bibbia, che è composta come storia di salvezza in cui Dio parla e agisce per andare incontro a tutti gli uomini e salvarli dal male e dalla morte.
Per raggiungere tale finalità salvifica, la Sacra Scrittura sotto l’azione dello Spirito Santo trasforma in Parola di Dio la parola degli uomini scritta in maniera umana (cfr Dei Verbum, 12). Il ruolo dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura è fondamentale. Senza la sua azione, il rischio di rimanere rinchiusi nel solo testo scritto sarebbe sempre all’erta, rendendo facile l’interpretazione fondamentalista, da cui bisogna rimanere lontani per non tradire il carattere ispirato, dinamico e spirituale che il testo sacro possiede. Come ricorda l’Apostolo «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»(2Cor 3,6). Lo Spirito Santo, dunque, trasforma la Sacra Scrittura in Parola vivente di Dio, vissuta e trasmessa nella fede del suo popolo santo.
10. L’azione dello Spirito Santo non riguarda soltanto la formazione della Sacra Scrittura, ma opera anche in coloro che si pongono in ascolto della Parola di Dio. È importante l’affermazione dei Padri conciliari secondo cui la Sacra Scrittura deve essere «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Con Gesù Cristo la rivelazione di Dio raggiunge il suo compimento e la sua pienezza; eppure, lo Spirito Santo continua la sua azione. Sarebbe riduttivo, infatti, limitare l’azione dello Spirito Santo solo alla natura divinamente ispirata della Sacra Scrittura e ai suoi diversi autori. È necessario, pertanto, avere fiducia nell’azione dello Spirito Santo che continua a realizzare una sua peculiare forma di ispirazione quando la Chiesa insegna la Sacra Scrittura, quando il Magistero la interpreta autenticamente (cfr ibid., 10) e quando ogni credente ne fa la propria norma spirituale. In questo senso possiamo comprendere le parole di Gesù quando, ai discepoli che confermano di aver afferrato il significato delle sue parabole, dice: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
11. La Dei Verbum, infine, precisa che «le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13). È come dire che l’Incarnazione del Verbo di Dio dà forma e senso alla relazione tra la Parola di Dio e il linguaggio umano, con le sue condizioni storiche e culturali. È in questo evento che prende forma la Tradizione, che è anch’essa Parola di Dio (cfr ibid., 9). Spesso si corre il rischio di separare tra loro la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza comprendere che insieme sono l’unica fonte della Rivelazione. Il carattere scritto della prima nulla toglie al suo essere pienamente parola viva; così come la Tradizione viva della Chiesa, che la trasmette incessantemente nel corso dei secoli di generazione in generazione, possiede quel libro sacro come la «regola suprema della fede» (ibid., 21). D’altronde, prima di diventare un testo scritto, la Sacra Scrittura è stata trasmessa oralmente e mantenuta viva dalla fede di un popolo che la riconosceva come sua storia e principio di identità in mezzo a tanti altri popoli. La fede biblica, pertanto, si fonda sulla Parola viva, non su un libro.
12. Quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. L’Antico Testamento non è mai vecchio una volta che è parte del Nuovo, perché tutto è trasformato dall’unico Spirito che lo ispira. L’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola. Gesù stesso lo afferma chiaramente all’inizio del suo ministero: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Chi si nutre ogni giorno della Parola di Dio si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro.
La Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l’ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza. Tornano alla mente le parole del profeta Ezechiele quando, invitato dal Signore a mangiare il rotolo del libro, confida: «Fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,3). Anche l’evangelista Giovanni sull’isola di Patmos rivive la stessa esperienza di Ezechiele di mangiare il libro, ma aggiunge qualcosa di più specifico: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10).
La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr 1Pt 3,15-16). L’amarezza, a sua volta, è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi doverla vivere con coerenza, o toccare con mano che essa viene rifiutata perché non ritenuta valida per dare senso alla vita. È necessario, pertanto, non assuefarsi mai alla Parola di Dio, ma nutrirsi di essa per scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli.
13. Un’ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità. Costantemente la Parola di Dio richiama all’amore misericordioso del Padre che chiede ai figli di vivere nella carità. La vita di Gesù è l’espressione piena e perfetta di questo amore divino che non trattiene nulla per sé, ma a tutti offre sé stesso senza riserve. Nella parabola del povero Lazzaro troviamo un’indicazione preziosa. Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l’amore del prossimo, per evitare che anch’essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti ascoltino loro» (Lc 16,29). Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà.
14. Uno degli episodi più significativi del rapporto tra Gesù e i discepoli è il racconto della Trasfigurazione. Gesù sale sul monte a pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli evangelisti ricordano che mentre il volto e le vesti di Gesù risplendevano, due uomini conversavano con Lui: Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè le Sacre Scritture. La reazione di Pietro, a quella vista, è piena di gioiosa meraviglia: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,33). In quel momento una nube li copre con la sua ombra e i discepoli sono colti dalla paura.
La Trasfigurazione richiama la festa delle capanne, quando Esdra e Neemia leggevano il testo sacro al popolo, dopo il ritorno dall’esilio. Nello stesso tempo, essa anticipa la gloria di Gesù in preparazione allo scandalo della passione, gloria divina che viene evocata anche dalla nube che avvolge i discepoli, simbolo della presenza del Signore. Questa Trasfigurazione è simile a quella della Sacra Scrittura, che trascende sé stessa quando nutre la vita dei credenti. Come ricorda la Verbum Domini: «Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera» (n. 38).
15. Nel cammino di accoglienza della Parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cfr Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della Parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della Sacra Scrittura, Sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3).
La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture, così come l’autore sacro insegnava già nei tempi antichi: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, 30 Settembre 2019
Memoria liturgica di San Girolamo nell’inizio del 1600° anniversario della morte
FRANCESCO
[1] Cfr AAS 102 (2010), 692-787.
[2] «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto» (Verbum Domini, 56).
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Spiritualità.
Radcliffe: «Credere significa porsi in dialogo»
Cosa significa credere al tempo dei fondamentalismi? In un libro le riflessioni del domenicano: «Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza E prende direzioni inaspettate»
di Timothy Radcliffe (Avvenire, giovedì 26 settembre 2019)
Ascoltare la parola di Dio non significa assorbirla passivamente. Secondo la Dei Verbum, vuol dire impegnarsi nel dialogo di Dio con l’umanità. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Nella Verbum Domini, papa Benedetto ha scritto: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (n. 6). La vita di Dio è un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio nello Spirito. La Rivelazione è l’invito che Dio ci rivolge a sentirci sempre a casa, in quell’eterna e amorevole conversazione, non è ricevere messaggi dallo spazio con gli esegeti che disperatamente cercano di decifrare strani segnali come faceva il matematico Alan Turing a Bletchley Park. La Rivelazione comporta di essere assorbiti in quell’eterno dialogo che è la vita di Dio. È quindi estremamente calzante affermare che la parola di Dio si fa carne nel dialogo con l’uomo. Il Vangelo di Giovanni, per esempio, è un succedersi di conversazioni - dal dialogo di Giovanni Battista con i sacerdoti e i leviti, fino alla conversazione finale di Gesù con Pietro sulla riva del lago. La notte prima di morire, si tenne quello che siamo soliti chiamare il «discorso d’addio », ma in realtà è l’ultimo dialogo che Gesù ha con i suoi amici. È Pilato a chiudere la conversazione con un «che cos’è la verità? ». La Parola viene silenziata. Ma la conversazione riprende quando Maria di Magdala incontra Gesù nel giardino. Non è una coincidenza che i primi documenti cristiani non fossero libri o professioni di fede, ma le lettere di san Paolo: l’altra metà delle sue conversazioni con le persone.
Leggere Paolo è come ascoltare qualcuno che parla al telefono e cercare di immaginare che cosa l’interlocutore stia dicendo all’altro capo del filo.
Perciò la parola di Dio non si rivolge a noi con una purezza immacolata che precede le nostre interpretazioni. Non possiamo risalire agli autori biblici alla ricerca della cruda verità, di una parola nuda. I sostenitori della Riforma dicevano: «Lasciate perdere, abbandonate la tradizione che la corrotta Chiesa cattolica ha aggiunto, tornate alla pura parola della Bibbia!». Poi, nel XIX secolo gli studiosi iniziarono a dire: «Attenetevi alla Bibbia, al falegname di Galilea... Attenetevi a Paolo che ha inventato il cristianesimo ». State agli evangelisti: ognuno ha la propria agenda. Tornate al puro messaggio, prima che venga distorto dalle nostre risposte. Ma in questo modo ciascuno ha trovato il Gesù che amava trovare. Lo storico ebreo Geza Vermes ci ha fatto tornare a un Gesù che era un rabbino ebreo. Teologi militanti latinoamericani scoprirono che era stato un politico rivoluzionario. I professori di Oxford vi riconobbero un altro professore che, come loro, avrebbe sicuramente apprezzato un bicchiere di sherry prima dell’Ultima Cena. I californiani invece scoprirono un hippy gentile, carino con tutti, che probabilmente avrebbe preferito la marijuana allo sherry. C’è poi il Gesù gay, il Gesù infatuato della Maddalena, il Gesù simil-Gandhi nonviolento... qualsiasi Gesù ti garbi! In realtà, se ti metti a pelare i vari strati della cipolla via via fino al centro, troverai sicuramente un Gesù che assomiglia giusto a te! Allora, invece di sbucciare la cipolla, dialoghiamo. Entriamo in dialogo con la parola di Dio e lasciamocene sconvolgere. Dialoghiamo con la tradizione. Gli uni con gli altri. La conversazione porta alla conversione.
La chiave di tutto ciò che papa Francesco sta facendo è lo sforzo di riportare il dialogo nel cuore della chiesa. Ha nominato un consiglio dei cardinali, con i quali si incontra regolarmente per discutere delle questioni della chiesa. Sta cercando di trasformare il sinodo in una vera conversazione, invece di avere delle persone che s’incontrano semplicemente per leggere dei testi che avevano scritto prima di arrivare a Roma. Io sono stato a tre sinodi, e vi assicuro che possono essere lunghi momenti estremamente noiosi. Lui invece vuole che si instauri il dialogo nel cuore di ogni parrocchia, di ogni diocesi. Ma il fondamento di tutto è il nostro dialogo con Dio.
La Dei Verbum cita sant’Ambrogio (IV secolo): «Quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza. Non ha senso avere un dialogo con chi la pensa esattamente come te. È così noioso! Una buona conversazione prende direzioni inaspettate. Non può essere controllata. E la Bibbia è piena di dialoghi. Nell’Antico Testamento ci sono conversazioni litigiose tra i profeti e i re; e c’è un dialogo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento abbraccia le differenze con un entusiasmo temerario. Al suo centro sta il dialogo tra i quattro Vangeli. Come ha scritto il teologo Francis Watson: «È emerso lentamente un consenso sul fatto che i quattro Vangeli debbano essere letti l’uno accanto all’altro e che a nessun altro Vangelo debba essere permesso di condividere la loro conversazione intratestuale». Quattro Vangeli che non vanno d’accordo tra loro. Nel II secolo, la chiesa si oppose fermamente a quei timorosi che volevano ridurli a una singola e coerente narrazione. La nostra interpretazione della morte di Gesù è un dialogo senza fine, da una parte con i racconti di Marco e Matteo che parlano di un uomo che grida che Dio l’ha abbandonato, e dall’altra con le narrazioni dei più sereni Luca e Giovanni, nelle quali egli confida e si abbandona allo Spirito. È una conversazione che continuerà fino a che non avremo scoperto la verità di Dio che resta al di là di ogni parola.
Ci poniamo in ascolto di questa conversazione e troviamo il coraggio di intervenire, come bambini che osano intromettersi nelle conversazioni degli adulti. E così, lentamente, essa ci trasforma. Smonta uno per uno i nostri pregiudizi, ci cura dalla violenza. Da una generazione all’altra, come il lievito nella chiesa. Ci sono voluti migliaia di anni prima che il Dio violento dei testi più antichi diventasse il Dio misericordioso, padre del figliol prodigo. Pensate solo alla schiavitù.
Paolo scriveva che in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ma nella sua Lettera a Filemone egli sembra tollerare la schiavitù. Considera Onesimo suo figlio, e vorrebbe che fosse trattato come un diletto fratello, ma non mette mai in discussione l’istituzione della schiavitù. Questa era universale all’epoca, non si sarebbe potuto immaginare una società senza di essa.
Solo con Bartolomé de Las Casas - come visto sopra - l’idea stessa di schiavitù iniziò ad essere ripudiata. I domenicani spagnoli riuscirono a persuadere il papa a denunciarla nell’enciclica Sublimis Deus del 1537. Spesso dimentichiamo che per secoli il papato ha denunciato qualsiasi forma di schiavitù. Ma abbiamo ancora molta strada da fare. Nel XIX secolo riconoscemmo la schiavitù dei lavoratori incatenati alle loro macchine. Oggi assistiamo alla riduzione in schiavitù delle donne dovuta alla tratta sessuale. Nonostante la Parola sia stata pronunciata da Gesù una volta per tutte e per sempre, la sua eco continua ad interrogarci, a sfidarci, a incalzarci ad andare oltre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA PAROLA DI DIO, IL SINODO DEI VESCOVI, E UN OMAGGIO AI FRATELLI MAGGIORI E A SIGMUND FREUD. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, dopo due anni, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! E che confusione spirituale di lunga durata!!!
Federico La Sala
Nel laboratorio della giustizia.
Incontro con l’Africa, segno per il mondo
di Stefania Falasca (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Guardare l’Africa. Attirare l’attenzione verso questo continente nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste per uno sviluppo umano integrale, un’equa distribuzione delle risorse e una cultura di pace che inviti a prendersi cura della nostra casa comune. È quello che papa Francesco ha inteso e intende fare anche con questo suo secondo viaggio in tre Paesi dell’Africa sub-sahariana. È quello che in molti non fanno. E non intendono fare. Perché non è comodo. Preferendo sfruttarla, l’Africa. Schiavizzarla, incendiarla e depredarla. Anche se continuare a saccheggiarla ci ripresenta sempre il conto. Salato. In termini umani, politici, sociali e ambientali. Che è proprio quello che ritorna a noi, duri ancora a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca.
Proprio per questo oggi per noi vale quanto Francesco ha detto nella prima tappa del suo tour africano, rivolgendosi ieri alle autorità mozambicane: «Il perseguimento del bene comune dev’essere un obiettivo primario. È necessario seguire il percorso che porta al bene comune, favorire la cultura dell’incontro che conduce a cercare obiettivi comuni, valori condivisi, idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri». Si tratta cioè delle basi per un futuro di speranza, di dignità, di pace. Basi "urbi et orbi". E che necessariamente comprendono anche la cura della casa di tutti. «Da questo punto di vista - ha continuato quindi il Papa con un indirizzo valido non solo per il Mozambico - questa è una nazione benedetta, e voi in modo speciale siete invitati a prendervi cura di questa benedizione».
E ha aggiunto poi quanto aveva già espresso in altre latitudini all’inizio del 2018, in Perù, dando di fatto inizio al prossimo Sinodo sull’Amazzonia: «La difesa della terra è anche la difesa della vita, che richiede speciale attenzione quando si constata una tendenza a saccheggiare e depredare, spinta da una bramosia di accumulare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre, né viene motivata dal bene comune del vostro popolo». Dal Papa dunque arriva ancora una volta l’appello a una cultura di pace che implichi uno sviluppo produttivo, sostenibile e inclusivo «in cui ognuno possa sentire che questo Paese è suo, e in cui possa stabilire rapporti di fraternità ed equità con il proprio vicino e con tutto ciò che lo circonda». Del resto la visita apostolica in Mozambico, Madagascar e Mauritius si svolge, come la precedente in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, nel solco della Populorum progressio di san Paolo VI, per la quale lo sviluppo di una nazione non si riduce alla semplice crescita economica.
Perché per essere autentico lo sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Enciclica oggi più profetica che mai, quella firmata da papa Montini nel 1967. Nella convinzione, sulla scia della Laudato si’, che l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo è strettamente legata a un rinnovato rapporto con l’ambiente, che esige cambiamenti strutturali e personali rispetto a quel paradigma imperante di sviluppo votato al dio denaro che produce scarti e trasforma il mondo in una discarica. In questi Paesi dell’Africa australe la crescita economica è stata evidentemente ostacolata dalla corruzione e dallo sfruttamento rapace delle risorse naturali.
A ciò si aggiunga la piaga dell’esclusione sociale, che penalizza fortemente i ceti meno abbienti. Ma c’è da rilevare che il Mozambico, uscito da una lunga guerra civile, è - come gli altri del continente - un Paese giovanissimo: oltre il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e per questo guarda al futuro con speranza, non foss’altro perché le giovani generazioni sono quelle che invocano l’agognato cambiamento all’insegna della concordia e del bene condiviso. Il Papa perciò è attento a segnalare e promuovere tutti quei segni di speranza che pure ci sono, quegli sforzi che si stanno compiendo per la risoluzione dei conflitti, per uno sviluppo sostenibile, per il rispetto e la cura del Creato.
«Per usare un’espressione di san Paolo VI - ha fatto notare il segretario di Stato Pietro Parolin alla vigilia del viaggio -, si può dire che l’Africa è come un laboratorio di sviluppo integrale». Sottolineare proprio questa dimensione di speranza e di sguardo nuovo verso il futuro, a partire dai tanti segni positivi che ci sono all’interno del continente, ribalta così anche l’immagine oscura e reietta che tuttora resiste dell’Africa. Guardandola nelle sue possibilità, nelle sue potenzialità di sviluppo integrale che anche noi dobbiamo ancora realizzare
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO per l’Amazzonia (in Vaticano, dal 6 al 27 ottobre 2019). Il tema è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il libro.
Senza l’Amazzonia per il mondo c’è poca speranza di vita
Esce alla vigilia del Sinodo il ricco reportage di Capuzzi e Falasca lungo la “frontiera” del polmone del pianeta dalla cui cura dipende il futuro dell’umanità
di Claudio Hummes (Avvenire, giovedì 5 settembre 2019)
Oggi è evidente che la crisi socio-ambientale dell’Amazzonia riveste un’importanza planetaria. Qui è in gioco il futuro del pianeta e dell’umanità. Senza l’Amazzonia resterà poca o nessuna speranza di vita al mondo. In questi ultimi decenni il pianeta è entrato in una grave situazione di crisi climatica ed ecologica. È necessario pertanto un grande impegno per superare la crisi: agire è urgente.
Due importanti eventi hanno risvegliato la coscienza mondiale su questo grave problema: la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco nel maggio 2015 e, pochi mesi più tardi, la realizzazione della Cop21 a Parigi, che si è conclusa con la pubblicazione di un articolato Accordo sul clima firmato da oltre 190 paesi e che ha indicato le azioni da intraprendere per superare gradualmente la crisi, entro questo ventunesimo secolo.
I due documenti, di portata storica e scientificamente irrefutabili, rendono evidente quanto la nostra madre Terra non sia più in grado di sopportare simili distruzioni e l’intervento predatorio da parte di un’attività umana irresponsabile. La causa profonda della crisi è strettamente collegata con il modello dominante di sviluppo adottato che la Laudato si’ indica con l’espressione di «globalizzazione del paradigma tecnocratico». Un modello che induce a considerare il pianeta alla stregua di una merce. E come tale esso può essere sfruttato, degradato e depredato senza scrupoli per accumulare denaro (...).
Questo spirito predatorio insaziabile e prepotente ha ormai già annientato una parte importante dell’enorme ricchezza amazzonica e minaccia ciò che ancora è riuscito a sopravvivere. Non soltanto l’ambiente: tra i sopravvissuti minacciati di estinzione ci sono gli stessi popoli originari che ancora vivono in essa. Si tratta dunque ancora di un neocolonialismo feroce che invade e distrugge questo particolare patrimonio di biodiversità espellendo e massacrando interi popoli.
Nella Laudato si’ papa Francesco chiama la Terra «la nostra casa comune», della quale dobbiamo avere molta cura. L’ecologia integrale è una realtà meravigliosamente nuova che il Papa ci ha messo davanti e che ci interpella. Si tratta di un modo innovativo di intendere la relazione profonda che esiste tra tutte le creature del pianeta. C’è una canzone brasiliana che dice: Tudo está interligado, como se fóssemos um, tudo está interligado nesta casa comum («Tutto è interconnesso, come fossimo una cosa sola, tutto è interconnesso in questa casa comune»).
Perché tra noi e la natura non esiste separazione. Tutto è interconnesso. Dio stesso, per l’incarnazione del suo Figlio, è in relazione, definitivamente, con la nostra casa comune. Il grido della natura e il grido degli ultimi sono perciò il medesimo unico grido. Non esistono due crisi separate: una sociale e una ambientale, c’è una sola, unica e complessa crisi socio-ambientale. Di conseguenza non si può separare la cura dei poveri dalla cura della casa comune. Le soluzioni richiedono un approccio integrale per contrastare la povertà, per restituire dignità agli esclusi e, simultaneamente, prendersi cura della natura (...).
Il tipping point dell’Amazzonia, il punto di non ritorno fissato dagli scienziati superato il quale la sua distruzione sarà irreversibile, è il 40 per cento della deforestazione. Siamo già quasi al 20 per cento. Nel contesto della crisi socio-ambientale mondiale, il Papa ha citato più volte, in modo esplicito, l’Amazzonia come regione cruciale, perché è determinante per il processo complessivo. Ha ricordato che l’Amazzonia è polmone del mondo e dunque chiesto la massima attenzione alla sua biodiversità per la vita. La vita della foresta, delle acque, dei suoi abitanti e la missione della chiesa in questa immensa regione: ecco da dove è nata la convocazione del sinodo per l’Amazzonia.
La Laudato si’ mi ha cambiato molto l’orizzonte delle cose. Mi aperto gli occhi a una visione nuova. Anche sulle responsabilità della Chiesa per la cura della casa comune, per la salvaguardia di tutta la creazione a partire dalla fede. La chiesa ha il dovere di occuparsi dell’ambiente, come una madre il suo bambino (...).
Papa Francesco ha denunciato ogni forma di neocolonialismo e ha esortato la Chiesa a non viverne lo spirito e la pratica nella sua missione evangelizzatrice. Quello del Papa è un richiamo a non fare della Chiesa in Amazzonia una colonizzatrice, a non proporsi di colonizzare i popoli indigeni riguardo alla loro fede, alla loro spiritualità e alla loro esperienza di Dio. La Chiesa in ogni regione della terra deve inculturarsi nelle culture locali. Come ha detto il Papa: «Anche Cristo si è incarnato in una cultura, l’ebraismo, e, a partire da esso, Egli offrì sé stesso come novità a tutti i popoli». Nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale. I valori e le forme positivi che ogni cultura propone arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto. Una cultura sola non è capace di mostrarci tutta la ricchezza di Cristo e del suo messaggio.
Dopo 400 anni di evangelizzazione, non siamo riusciti a far nascere qui una Chiesa inculturata. Finora la Chiesa ha difeso i diritti umani degli indigeni, ma noi dobbiamo fare un passo avanti, dobbiamo andare verso una chiesa indigena: aiutare cioè la nascita di una Chiesa che esprima pienamente la fede nella sua cultura, nella sua propria identità (...) .
I popoli indigeni sono e devono essere interlocutori indispensabili. Essi conoscono l’Amazzonia meglio di chiunque altro. Hanno vissuto nella regione per millenni. La loro visione del mondo e la loro concezione religiosa si sono formate a partire dalla propria esistenza nella foresta amazzonica, caratterizzata dall’immensità di acque, dai fiumi incredibilmente grandi, dai mille laghi, ruscelli e igarapé, piccoli corsi d’acqua. Da sempre vivono immersi in una biodiversità incalcolabile e affascinante. Sono i sapienti guardiani e custodi di questo immenso ecosistema privilegiato. La loro saggezza non può andare perduta, né la loro cultura, né le loro molte lingue, la loro spiritualità, la loro storia, la loro identità.
Questi popoli sono stati perseguitati, cacciati (sia nel senso di essere allontanati, sia nell’atroce senso di essere considerati alla stregua di selvaggina da braccare e cacciare), ridotti in schiavitù o decimati fin dai primi anni dall’arrivo dei coloni europei in queste terre di Dio. Numerose etnie sono state totalmente sterminate. Una piccolissima percentuale è sopravvissuta e continua a lottare per riuscire a esistere. Essi sono ancora aggrediti, maltrattati, espulsi dalle loro terre, disprezzati, umiliati, sfruttati e molti uccisi. A causa della persecuzione subita e che subiscono già da cinque secoli, alcuni gruppi di indigeni si sono volontariamente isolati, nascondendosi nelle foreste (...).
La storia della colonizzazione mostra con chiarezza quante violenze inaudite sono state commesse contro i popoli indigeni, quante ingiustizie, quanti stermini. Tutte queste tragiche realtà rappresentano un immenso debito contratto dalla società moderna nei confronti dei popoli originari, sottomessi e colonizzati. E fino a quando non saranno loro restituite le condizioni reali di essere soggetti della propria storia, questo debito non sarà estinto (...).
Oggi l’industria, l’agricoltura e molte altre forme di produzione dicono sempre più spesso che la loro attività è «sostenibile». Ma che cosa significa davvero «essere sostenibile»? Significa che tutto quanto estraiamo dal suolo o restituiamo al suolo come residuo non deve impedire alla terra di rigenerarsi e di restare fertile. Se gli interessi economici e il paradigma tecnocratico avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia, dobbiamo sapere da che parte stare.
Il Sinodo per l’Amazzonia vuole diventare un faro e vuole aprire nuovi cammini per tutta la Chiesa della regione, sia nelle città, sia nella foresta, sia per la popolazione urbana, per i popoli indigeni, i ribeirinhos, i contadini, i seringueiros e altri che vivono nell’interno della regione, dispersi e fuori da agglomerati urbani, con un obiettivo principale, definito: la difesa e l’evangelizzazione incarnata nella cultura dei popoli indigeni in una prospettiva di ecologia integrale. Perché noi non dobbiamo e non possiamo arrenderci.
Vaticano.
Il Sinodo sull’Amazzonia si terrà dal 6 al 27 ottobre
Il Papa ha reso noto le date. Il tema del Sinodo è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
di A.M.B. (Avvenire, lunedì 25 febbraio 2019)
Papa Francesco l’aveva convocato con due anni di anticipo, mettendo così in modo la fase preparatoria. Ora, quando mancano sette mesi alla riunione dei vescovi, si conoscono anche le date. Il Papa Francesco ha convocato l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica, da domenica 6 a domenica 27 ottobre 2019. Lo rende noto la sala stampa della Santa Sede.
Il Sinodo avrà come tema «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale».
Perché un Sinodo sull’Amazzonia?
Il 15 ottobre 2017, papa Francesco ha convocato un Sinodo Speciale per la regione Panamazzonica, indicando che l’obiettivo principale è quello di «trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, in particolare le persone indigene, spesso dimenticate e senza la prospettiva di un futuro sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di fondamentale importanza per il nostro pianeta».
Chi vi parteciperà?
Al consiglio chiamato Sinodo dei Vescovi partecipano vescovi scelti da diverse regioni del mondo. Tale Sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale.
Com’è organizzato un Sinodo?
Ogni Sinodo è articolato in tre fasi: la fase preparatoria, in cui ha luogo la consultazione del Popolo di Dio (spesso tramite questionari) sui temi indicati dal Pontefice; la fase celebrativa, caratterizzata dal raduno assembleare dei vescovi; la fase attuativa, in cui le conclusioni del Sinodo approvate dal Pontefice devono essere accolte dalle Chiese.
Dove si terrà il Sinodo sull’Amazzonia?
In Vaticano c’è l’Aula del Sinodo dei Vescovi, dove si tiene ogni Sinodo compreso quello del prossimo ottobre sull’Amazzonia.
Quali sono i Paesi direttamente coinvolti?
La Panamazzonia è composta da nove Paesi: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana francese. È una regione, abitata da 34 milioni di persone, che è una fonte importante di ossigeno per tutto il pianeta. Vi si trova il 20% di acqua dolce non congelata di tutto il pianeta.
All’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia il Vaticano ha dedicato un sito internet, sul quale è pubblicato anche il Documento Preparatorio.
CHARIS in Vaticano. Il nostro sogno è fare comunione. Ce lo chiede il Papa
I responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico si incontrano in Vaticano da oggi fino a sabato 8 giugno per pregare insieme in attesa dell’apertura ufficiale di Charis
di Emanuela Campanile (Vatican News, 06 giugno 2019)
Città del Vaticano Si sono dati appuntamento in Vaticano - Aula Paolo VI - e arrivano da tutto il mondo. Sono più di 550 e sono i responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Vogliono pregare insieme e mettersi all’ascolto dello Spirito Santo in attesa dell’inizio ufficiale di Charis previsto proprio domenica 9 giugno: solennità di Pentecoste. Voluto espressamente da Papa Francesco, Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service) segna una nuova tappa per il Rinnovamento Carismatico Cattolico come corrente di grazia nel cuore della Chiesa.
Il Charis
Si tratta di un servizio di comunione tra tutte le realtà del Rinnovamento Carismatico Cattolico che, nel mondo, conta attualmente più di 120 milioni di cattolici che vivono l’esperienza del battesimo nello Spirito in gruppi di preghiera, comunità, scuole di evangelizzazione, reti di comunicazioni e ministeri vari. Quando nella solennità di Pentecoste prenderà ufficialmente il via, l’Iccrs e il Catholic Fraternity cesseranno di esistere.
Rinnovamento come corrente di grazia
"Il nostro sogno è fare ciò che il Papa ci ha chiesto", spiega nell’intervista Jean-Luc Moens, il professore belga nominato moderatore di Charis. "Lui parla del Rinnovamento carismatico come di una corrente di grazia nella Chiesa, riprendendo l’espressione dal cardinale Suenens, il quale voleva sottolineare che il Rinnovamento Carismatico non è un movimento, perché - prosegue il professore - in un movimento c’è un’appartenenza; le persone sono o dentro o fuori. Dunque, c’è una separazione. Una corrente di grazia è un’altra cosa. Il cardinale faceva il paragone con la corrente del Golfo nell’Atlantico che riscalda tutto l’oceano e poi sparisce. Allora, forse posso dire qualcosa di abbastanza strano, ma - conclude - il nostro sogno è quello di sparire quando tutta la Chiesa avrà scoperto il battesimo nello Spirito Santo".
Liturgia.
Via libera del Papa alla nuova traduzione italiana del Messale
Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore. Tra le novità principali quelle su Padre Nostro e Gloria
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 22 maggio 2019)
La nuova traduzione italiana del Messale è pronta ad arrivare nelle parrocchie della Penisola. Ancora non c’è una data certa ma è giunto il “via libera” del Papa. Durante la prima giornata di lavori dell’Assemblea generale della Cei, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha annunciato ai vescovi che Francesco ha autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano di Paolo VI. Il testo italiano è passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. Ancora è prematuro sapere quando cambieranno alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua. Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore.
La nuova traduzione era stata approvata lo scorso novembre dall’Assemblea generale della Cei. Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo »). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa. Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore».
Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 16 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota. Nelle intenzioni, infatti, la pubblicazione della nuova edizione non è solo un fatto “editoriale”, ma «costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica». L’utilizzo del nuovo Messale verrà accompagnato da una sorta di «riconsegna al popolo di Dio», tramite un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970; la seconda porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione del 1983 - è quella ancora in uso.
«Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Ma come un vitello d’oro di Mammona ("caritas") o come il bambino, figlio dell’Amore ("charitas") di Giuseppe e Maria?! *
Il Vangelo.
Pregare trasforma in ciò che si contempla
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 14 marzo 2019)
II Domenica di Quaresima
Anno C
Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è la terra che si fa verticale, la più vicina al cielo, dove posano i piedi di Dio, dice Amos. I monti sono indici puntati verso il mistero e la profondità del cosmo, verso l’infinito, sono la terra che penetra nel cielo. Gesù vi sale per pregare. La preghiera è appunto penetrare nel cuore di luce di Dio. E scoprire che siamo tutti mendicanti di luce.
Secondo una parabola ebraica, Adamo in principio era rivestito da una pelle di luce, era il suo confine di cielo. Poi, dopo il peccato, la tunica di luce fu ricoperta da una tunica di pelle. Quando verrà il Messia la tunica di luce affiorerà di nuovo da dentro l’uomo finalmente nato, “dato alla luce”. Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma: tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, diventi come Colui che preghi.
Parola di Salmo: «Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Guardano i tre discepoli, si emozionano, sono storditi, hanno potuto gettare uno sguardo sull’abisso di Dio. Un Dio da godere, un Dio da stupirsene, e che in ogni figlio ha seminato una grande bellezza.
Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. Sono sotto il sole di Dio e l’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita - che bello! - Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. È bello stare qui. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto; altrove non è bello, qui è apparsa la bellezza di Dio e quella del volto alto e puro dell’uomo.
Allora «dovremmo far slittare il significato di tutta la catechesi, di tutta la morale, di tutta la fede: smetterla di dire che la fede è cosa giusta, santa, doverosa (e mortalmente noiosa aggiungono molti) e cominciare a dire un’altra cosa: Dio è bellissimo» (H.U. von Balthasar).
Ma come tutte le cose belle, la visione non fu che la freccia di un attimo: viene una nube, e dalla nube una voce.
Due sole volte il Padre parla nel Vangelo: al Battesimo e sul Monte. Per dire: è il mio figlio, lo amo. Ora aggiunge un comando nuovo: ascoltatelo. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola del Figlio: ascoltate Lui. La religione giudaico-cristiana si fonda sull’ascolto e non sulla visione. Sali sul monte per vedere il Volto e sei rimandato all’ascolto della Voce. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltatelo. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù, la Voce diventata Volto, il visibile parlare del Padre; dentro Gesù: bellezza del vivere nascosta, come una goccia di luce, nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Genesi 15,5-12.17-18; Salmo 26; Filippesi 3,17- 4,1; Luca 9,28-36)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Preti pedofili, j’accuse del vescovo Marx: il Vaticano ha insabbiato
Corpus demoni. Al Sinodo l’alto prelato tedesco schierato con Bergoglio: «Dossier sulle violenze distrutti o mai creati». Scontro con i conservatori
di Luca Kocci (il manifesto, 24.02.2019)
La Chiesa ha messo in atto un’azione sistematica di copertura degli abusi sessuali commessi dal clero per proteggere i preti pedofili, «calpestando» le vittime
La severa accusa alle gerarchie ecclesiastiche è arrivata dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca, intervenuto ieri mattina in Vaticano, all’incontro mondiale sulla «Protezione dei minori nella Chiesa». Una relazione, quella di Marx, in sintonia con il grido che, fuori dall’aula del Sinodo dove sono riuniti i 190 presidenti delle conferenze episcopali e superiori generali di tutto il mondo, si è levato dalle vittime degli abusi riunite nel network internazionale Eca global (Ending clerical abuse) le quali, in una marcia da piazza del Popolo a piazza San Pietro, hanno chiesto «tolleranza zero», invocando «la fine dell’impunità e degli insabbiamenti degli abusi da parte della Chiesa». «Gli abusi sessuali nei confronti di bambini e giovani sono dovuti all’abuso di potere», ha detto Marx. L’amministrazione ecclesiastica, ha aggiunto, «non ha compiuto la missione della Chiesa, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. I procedimenti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, anzi cancellati o scavalcati.
I diritti delle vittime sono stati calpestati». Si riferiva in particolare alle diocesi tedesche, ha precisato in conferenza stampa, sottolineando però che «la Germania non è un caso isolato».
Sono indispensabili «trasparenza e tracciabilità», per chiarire «chi ha fatto cosa, quando, perché e a quale fine, e cosa è stato deciso», ha proseguito l’arcivescovo di Monaco, secondo il quale non ci sono obiezioni che tengano: né rispetto al «segreto pontificio» (non vale per «i reati riguardanti l’abusi di minori») né alla preoccupazione di «rovinare la reputazione di sacerdoti innocenti o del sacerdozio e della Chiesa»: la «presunzione di innocenza», la «tutela dei diritti» e «la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda». Anzi «non è la trasparenza a danneggiare la Chiesa, ma gli abusi commessi, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento».
È stata anche la volta delle donne.
Prima la testimonianza (venerdì sera) di una vittima che ha subito abusi da quando aveva undici anni da parte di un prete della sua parrocchia: «Da allora - ha raccontato - io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata non sono più esistita», «restano incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui lui bloccava me bambina con una forza sovrumana, io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse». «Dobbiamo trovare il coraggio di parlare e denunciare - ha concluso -, pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena», «non può e non deve essere più così».
Poi la relazione di Veronica Openibo, religiosa nigeriana, superiora della Società del santo bambino Gesù, che ha rimarcato l’esistenza di un fenomeno conosciuto già da qualche anno ma ancora in ombra: la violenza subita dalla suore da parte di preti e religiosi, soprattutto in Africa. La Chiesa sta facendo qualcosa, ma «non è ancora abbastanza», ha aggiunto suor Openibo, che ha indicato alcuni problemi da affrontare, come «l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere», e alcune prassi da abolire: nascondere «per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito sulla Chiesa»; e «la scusa che si debba rispetto ad alcuni sacerdoti in virtù della loro età avanzata e della loro posizione gerarchica».
Oggi il summit termina, con la messa e l’intervento del papa. Le posizioni sono emerse con chiarezza. I conservatori puntano il dito sull’omosessualità: sarebbe questa la causa degli abusi sessuali (però così non spiegano le violenze sulle donne). La maggioranza filo-Francesco indica invece nel clericalismo e nel potere la radice degli abusi e chiede creazione di strutture di ascolto autonome con il coinvolgimento di laici e donne, collaborazione e denuncia alle autorità civili, riforma del segreto pontificio, rimozione di preti colpevoli e vescovi collusi o complici.
Nemmeno sfiorato il tema del celibato obbligatorio - per molti osservatori il vero nodo del problema -, ma su questo punto anche Francesco è inamovibile. Proposte concrete, però, sono state avanzate. L’incontro non ha valore deliberativo, si tratterà quindi di vedere se ora diventeranno regole scritte. «Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate», ha concluso la giornata, con la celebrazione penitenziale. il vescovo ghanese Philip Naameh.
Il vertice
Il consigliere del Papa: «Distrutti i dossier sugli abusi nella Chiesa»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 24.02.2019)
CITTÀ DEL VATICANO «Ora cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo». Un giovane cileno che fu abusato da un prete racconta la sua storia, chiude gli occhi e imbraccia il violino, le note di Bach risuonano nel silenzio della Sala Regia e delle gerarchie ecclesiali di tutto il mondo riunite per la «celebrazione penitenziale» guidata da Francesco. Prima del mea culpa del Papa («dobbiamo dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato») e di cardinali e vescovi («confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e ridotto al silenzio chi ha subito del male»), il Pontefice ha invitato all’«esame di coscienza» spiegando che «si rendono necessarie azioni concrete per le chiese locali»: l’incontro mondiale sulla protezione dei minori finisce con la messa di oggi ma l’essenziale si vedrà da domani.
La questione centrale è quella che ieri il cardinale Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti del Papa, ha scandito senza perifrasi: «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare». Il cardinale, presidente dei vescovi tedeschi, ha spiegato più tardi che si riferiva in particolare a ciò che la Chiesa tedesca ha scoperto nella ricerca, durata tre anni, sugli abusi nelle sue diocesi. Ma «presumo che la Germania non sia un caso isolato», ha aggiunto.
La denuncia di Marx è la premessa di una serie di riforme, a cominciare dall’abolizione o almeno revisione del «segreto pontificio», definito dal documento «Secreta continere» del 1974.
Il cardinale Marx spiega che la «trasparenza» si deve accompagnare alla «tracciabilità» delle «procedure amministrative», in modo che chiunque possa sempre sapere «chi ha fatto che cosa, quando, perché e a quale fine, e che cosa è stato deciso, respinto o assegnato». E aggiunge: «Ogni obiezione basata sul segreto pontificio sarebbe rilevante solo se si potessero indicare motivi convincenti per cui il segreto pontificio si dovrebbe applicare al perseguimento di reati riguardanti l’abusi di minori. Allo stato attuale, io di questi motivi non ne conosco».
In questi giorni si è parlato di «nuove strutture legali» di controllo - legate ai metropoliti (le diocesi più grandi) e composte anche da laici, donne e uomini - cui i vescovi debbano «rendere conto». E di centri di ascolto per raccogliere denunce in ogni conferenza episcopale e diocesi. Ma soprattutto sono state le donne a scuotere le gerarchie. Dalla canonista Linda Ghisoni alla suora nigeriana Veronica Openibo, che ieri ha parlato di «mediocrità e ipocrisia» e avvertito: «Questa tempesta non passerà. Spero e prego che alla fine di questa conferenza sceglieremo deliberatamente di spezzare ogni cultura del silenzio». Suor Veronica, parlando accanto al Papa, ha evocato il cambio di linea nello scandalo cileno, all’inizio sottovalutato: «La ammiro, fratel Francesco, per essersi preso del tempo, da vero gesuita, per discernere e per essere abbastanza umile da cambiare idea, chiedere scusa e agire: un esempio per tutti noi».
La giornalista messicana Valentina Alazraki non l’ha mandata a dire, a cardinali e vescovi: «Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici».
Udienza generale.
Papa Francesco: dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione
Nella prima catechesi del 2019 Francesco ritorna sulla preghiera del Padre Nostro: «Pregare Dio come un figlio, non come un pappagallo che parla, parla, parla»
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 2 gennaio 2019)
"Dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieti, ci spinge: è rivoluzionario". Così si è espresso il Papa nella prima udienza generale del 2019, ricordando che il Vangelo di Matteo pone il testo del Padre nostro "in un punto strategico, al centro del discorso della montagna", Francesco ha osservato che con le Beatitudini "Gesù incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo - ma anche nel nostro! - non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore... È la rivoluzione del Vangelo".
"Il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna” è questo, ha aggiunto Francesco, nel corso dell’udienza generale, in aula Paolo VI: "Siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico".
È UNO SCANDALO ANDARE IN CHIESA MA ODIARE GLI ALTRI
Il cristiano, ha osservato il Pontefice, “non è uno che si impegna a essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome di ‘Padre’, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie". Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”: "Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: ‘Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente’. C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio: lo fanno per essere ammirati dagli uomini". "Quante volte - ha detto a braccio - noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno tutta la giornata lì e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Ma allora è meglio non andare in chiesa". "Se vai in Chiesa devi vivere come figlio e dare buona testimonianza, non una contro testimonianza".
PREGARE NON È PARLARE COME UN PAPPAGALLO, MA RIVOLGERSI A DIO COME UN FIGLIO AL PADRE
La preghiera cristiana, invece, "non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: ‘Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto’".
"I pagani pensano - ha aggiunto il Papa - che parlando, parlando parlando Dio ascolta”, ma “io penso - ha aggiunto a tanti cristiani che credono che pregare è parlare a Dio come un pappagallo, no pregare si fa dal cuore, da dentro", ha osservato a braccio. "Tu invece - dice Gesù -, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda. Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il ‘Padre nostro’: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi".
"È bello pensare - ha concluso - che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto".
Dopo i saluti ai pellegrini polacchi, una ventata di musica e colore in aula Paolo VI: si sono esibiti, infatti, davanti a un divertito papa Francesco, artisti del circo di Cuba, con danze ed esercizi acrobatici. "Con il loro spettacolo portano bellezza, una bellezza che ci vuole tanto sforzo, allenamento per farlo. La bellezza sempre eleva il cuore, ci fa più buoni a tutti, ci porta alla bontà, ci porta a Dio. Grazie tante" così li ha salutati il Pontefice.
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Angelus.
Il Papa: illusorio separare amore verso Dio e verso il prossimo
Amore di Dio e amore del prossimo, le due facce di uno stesso comandamento, quello portato da Gesù
Papa all’Angelus (Avvenire, 05.11.2018)
“Le due dimensioni dell’amore, per Dio e per il prossimo, nella loro unità caratterizzano il discepolo di Cristo”. Il pensiero di Papa Francesco all’Angelus di questa domenica è tutto incentrato sul brano del Vangelo proposto dalla liturgia.
Racconta, il Vangelo, l’episodio dello scriba che chiede a Gesù quale sia ‘il primo di tutti i comandamenti’. La risposta è la professione di fede recitata da ogni israelita e al centro del suo credo. Comincia con le parole: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore’. E il Papa commenta: «Esiste un solo Signore e quel Signore è ’nostro’ nel senso che si è legato a noi con un patto indissolubile, ci ha amato, ci ama e ci amerà per sempre. È da questa sorgente che deriva per noi il duplice comandamento: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Amerai il tuo prossimo come te stesso’».
Gesù insegna “che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili” - sono, dice Francesco, - “le due facce di un’unica medaglia”. E spiega che amare Dio è vivere “per quello che Lui è e per quello che Lui fa”. E Lui è donazione, perdono, relazione.
Amare Dio vuol dire investire ogni giorno le proprie energie per essere suoi collaboratori nel servire senza riserve il nostro prossimo, nel cercare di perdonare senza limiti e nel coltivare relazioni di comunione e di fraternità.
Il prossimo, prosegue il Papa, è la persona che incontro sul mio cammino, non si tratta di pre-selezionarlo. E aggiunge: "Questo non è cristiano. Io penso che il mio prossimo sia quello che io ho preselezionato: no, questo non è cristiano, è pagano". Si tratta di vederlo e di amarlo.
Se ci esercitiamo a vedere con lo sguardo di Gesù, ci porremo sempre in ascolto e accanto a chi ha bisogno. I bisogni del prossimo richiedono certo risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione.
E Francesco fa l’esempio di un affamato che ha bisogno sì di cibo, ma anche di un sorriso e di un ascolto. Il Vangelo invita quindi a rispondere alle necessità concrete dei poveri, ma anche a manifestare loro “vicinanza fraterna”: Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni; il rischio delle comunità ... io direi comunità “stazioni di servizio” ma di poca compagnia, nel senso pieno e cristiano di questo termine.
Sarebbe un’illusione pensare di amare il prossimo senza amare Dio e viceversa, dice Francesco che conclude: “La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere e testimoniare nella vita di ogni giorno questo luminoso insegnamento”.
Dopo la preghiera dell’Angelus, il Papa rivolge il suo pensiero alla Chiesa Copto ortodossa in Egitto colpita due giorni fa da un attentato terroristico, esprimendo il suo dolore e assicurando la sua preghiera per tutte le persone coinvolte. Insieme ai pellegrini in piazza Francesco recita una Ave Maria per tutta quella comunità. Infine ricorda Madre Clelia Merloni, fondatrice delle Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, proclamata ieri beata. "Una donna pienamente abbandonata alla volontà di Dio - ha affermato - zelante nella carità, paziente nelle avversità ed eroica nel perdono".
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Il Papa con la corona del Rosario (Ansa)
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
Santa Sede.
Lotta agli abusi, il Papa convoca i capi dei vescovi di tutto il mondo
L’annuncio al termine della riunione dei 9 Cardinali. L’incontro sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Sul tavolo il tema della protezione dei minori e della prevenzione degli abusi
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Una decisione forte, che esprime la volontà fermissima di fare verità su una piaga che va sanata al più presto. Papa Francesco sentito il Consiglio di cardinali, ha deciso di convocare una riunione con i presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa cattolica sul tema della protezione dei minori e degli adulti vulnerabili.
L’annuncio è contenuto nel comunicato che conclude la XXVI riunione del cosiddetto C9, il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Un tema quello degli abusi, rilanciato dal recente dossier sulla diocesi della Pennsylvania e dal caso McCarrick, ampiamente trattato, come recita la nota finale, nella riunione di cardinali, iniziata lunedì per concludersi stamani.
Il vertice con i tutti i leader degli episcopati rilancia una volta di più la volontà di adottare misure idonee alla prevenzione e alla tutela delle vittime e, allo stesso tempo rappresenta una presa d’atto di come il problema si ancora drammaticamente caldo. Il tutto si svolgerà nella linea della tolleranza zero, che Bergoglio ha adottato sin dall’inizio del suo pontificato, proseguendo la rotta indicata da papa Ratzinger.
Domani l’incontro con i vertici dell’Episcopato Usa
Un anticipo dell’appuntamento di febbraio si avrà comunque già domani, giovedì. quando saranno ricevuti in Vaticano i vertici della Conferenza episcopale statunitense. In particolare il Papa incontrerà il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e presidente dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, monsignor José Horacio Gomez arcivescovo di Los Angeles, vicepresidente dell’episcopato e il segretario generale monsignor Brian Bransfield.
Non imminente un ricambio nel C9
Naturalmente il C9 ha affrontato ha anche gli argomenti per cui è nato. Come ha sottolineato la vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, «gran parte dei lavori del Consiglio e stata dedicata agli ultimi aggiustamenti della bozza della nuova Costituzione Apostolica della Curia romana, il cui titolo provvisorio e “Praedicate evangelium”. Il Consiglio di cardinali ha già consegnato, in proposito, il testo provvisorio che, comunque, e destinato ad una revisione stilistica e ad una rilettura canonistica».
Inoltre come comunicato lunedì scorso, durante la prima sessione di questa XXVI riunione, il C9 «ha chiesto al Papa una riflessione sul lavoro, la struttura e la composizione dello stesso Consiglio, tenendo anche conto dell’età avanzata di alcuni membri». In proposito la vicedirettrice della Sala Stampa ha detto che «per dicembre non ci saranno nuovi membri del C9» aggiungendo che «se ci saranno cambiamenti, vedremo». Procedendo nei lavori per la riforma della Curia romana infine il Consiglio che «ancora una volta ha espresso piena solidarietà a papa Francesco per quando accaduto nelle ultime settimane», vedi dossier Viganò, «si è concluso con la rilettura dei testi già preparati facendo motivo di attenzione la cura pastorale per il personale che vi lavora». Dei 9 porporati che costituiscono il C9 mancavano il cardinale australiano George Pell, l’85 enne cardinale cileno Francisco Javier Errazuriz e il quasi 79enne cardinale africano Laurent Monsengwo Pasinya.
«Il Santo Padre, come di consueto, informa il comunicato finale del C9, ha partecipato ai lavori, anche se e stato assente in tre momenti: lunedì in fine mattinata, per l’udienza al cardinale Beniamino Stella; martedì mattina, per la visita ad limina apostolorum della Conferenza episcopale Venezuela e questa mattina per l’Udienza generale».
La Cei: non per fermarsi all’abuso
E sempre in tema di abusi, il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana cita l’incontro, annunciato nei giorni scorsi dal C9 e svoltosi ieri. «Ascolto delle vittime, impegno di educazione, formazione e comunicazione, stesura di Linee guida e di norme per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Sono questi - scrive don Ivan Maffeis - i temi approfonditi nell’incontro che ieri - martedì 11 settembre - ha visto insieme la Pontificia Commissione per la tutela dei minori con la corrispondente Commissione della Cei. Una collaborazione fattiva, che mira soprattutto all’elaborazione di proposte, iniziative e strumenti di prevenzione da offrire alle diocesi. Per non fermarsi a condannare l’abuso e promuovere una cultura della persona e della sua dignità».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
Nuova denuncia abusi scuote Chiesa Cile
Vescovo Goic, compromesso dallo scandalo, chiede perdono
di Redazione ANSA SANTIAGO DEL CILE
20 maggio 2018
(ANSA) - SANTIAGO DEL CILE, 20 MAG - Una nuova denuncia di abusi sessuali da parte di un gruppo di sacerdoti cileni - organizzati in una ’confraternita’ di abusatori - ha scosso la Chiesa cilena e compromesso uno dei suoi vescovi più autorevoli, monsignor Alejandro Goic, appena tornato dal viaggio in Vaticano in cui tutto l’episcopato del paese sudamericano ha rassegnato le dimissioni al Pontefice. Il caso è stato sollevato da un reportage tv del programma T13. Una testimone ha raccontato di aver avuto consegnato a Goic una lista di 17 sacerdoti che hanno messo su una "confraternita", con al vertice un "nonno" e "zie" e "nipoti", al femminile, al di sotto di lui, che si dedicano ad abusi sessuali. Goic, che inizialmente aveva negato ogni addebito oggi, ha invece chiesto perdono, riconoscendo che aveva "agito senza l’adeguata agilità nell’inchiesta su Luis Rubio e altri sacerdoti". Goic - già presidente della Conferenza episcopale cilena - presiede dal 2011 il Consiglio nazionale per la prevenzione degli abusi contro i minori.
"Ritornar nel chiaro mondo" (Dante, Inferno, XXXIV, v. 134). *
Pedofilia, il gesto dei vescovi cileni «necessario per un nuovo inizio»
Così la docente presso la Pontificia Università Cattolica di Santiago commenta le dimissioni collettive dei presuli: da Francesco un segnale forte per tutta la Chiesa Che sta dando frutti
di Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 19 maggio 2018)
«La Chiesa cilena ha aperto le finestre per far entrare lo Spirito. Lo sento soffiare con forza in questo momento». Sandra Arenas, teologa di spicco e docente della Pontificia Università Cattolica di Santiago, ricorre alla nota metafora di san Giovanni XXIII per analizzare la temperie attuale. Un periodo intenso, «di crisi ma anche di straordinaria opportunità di intraprendere un nuovo cammino », sottolinea. In tale ottica vanno interpretate le cosiddette “dimissioni in blocco” dell’episcopato del Paese australe.
Un atto, al contempo, individuale e collettivo. Ognuno dei 32 vescovi in carica ha rimesso l’incarico nelle mani del Pontefice. Compiendolo insieme, nel medesimo istan- te, «essi decidono di farsi carico, come corpo episcopale, di un problema trasversale e sistemico. Un gesto, forse tardivo, ma di sicuro coraggioso. Con cui i vescovi riconoscono di non essere stati all’altezza delle circostanze, al di là delle responsabilità, più o meno gravi, dei singoli. Ed esprimono la disponibilità ad avviare un processo di conversione profonda, personale e comunitaria, per rendere la Chiesa più conforme al mandato evangelico. La notizia mi ha dato molta speranza».
Il gesto dell’episcopato arriva all’indomani di tre giorni di preghiera e meditazione con papa Francesco. Che cosa significa questo metodo di “discernimento congiunto” proposto dal Pontefice?
Rappresenta un precedente per la Chiesa universale, non solo cilena. Francesco ha dato l’esempio, negli ultimi cinque mesi, di come un pastore deve affrontare una situazione difficile.
In che modo?
Egli per primo s’è lasciato “provocare” dalla realtà - incontrata nel viaggio e sottolineata dal commento del cardinale Sean O’Malley - e si è sottoposto per primo, con umiltà evangelica, a un processo di discernimento. Da qui è maturata la prima richiesta di perdono, la volontà di fare chiarezza e di accettare la realtà, in tutta la sua durezza e scomodità. Né la Chiesa né una comunità di perfetti né Francesco un superuomo. Invece di proporsi come tale, ha ammesso pubblicamente il proprio errore e ha cercato di porvi rimedio. In modo innovativo. A conclusione della missione di Scicluna e Bertomeu ha avviato una seconda fase di discernimento comunitario. Prima con le vittime, poi con i vescovi. Un’esperienza concreta di sinodalità, assunta a pieno, in una contingenza critica, in cui più forte è la tentazione di “prendere in mano le redini” da soli. In tal modo, Bergoglio ha mandato un messaggio forte all’intera Chiesa. E, nel caso particolare cileno, possiamo vedere che il ’metodo Francesco’ sta producendo frutti.
Lei ha parlato di ’problema sistemico’. Che cosa intende?
Al di là del caso Karadima e dei ’gravi errori ed omissioni’ di alcuni, la Chiesa cilena ha mostrato, negli ultimi decenni, una disfunzione di fondo. Una certa “spiritualità da sacrestia”, cioè un forte clericalismo, l’ha separata dal resto della società. Lo hanno riconosciuto gli stessi vescovi nella loro lettera quando affermano la necessità di dare nuovo impulso alla missione profetica e di rimettere Cristo al centro. Al suo posto, nel passato recente, la Chiesa ha messo se stessa e i propri interessi. O, peggio, quelli del proprio gruppo, del proprio settore, della propria comunità. L’autopreservazione e autodifesa a oltranza hanno ferito la comunione ecclesiale.
Come ripartire?
Francesco ha indicato la direzione: la sinodalità. Solo da un processo di discernimento approfondito e condiviso tra vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, possono venire quelle misure di lungo periodo affinché il «volto del Signore torni a risplendere nella nostra Chiesa».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ... *
’My mirror’, nell’era dei selfie specchiarsi nell’altro è rivoluzionario
Esperimento di ’eye contact’, 4 minuti per guardarsi negli occhi altrui
di Redazione ANSA *
Guardarsi foto bowie15 iStock. © Ansa Guarda le foto...
MILANO.
Una doppia cabina, in cui due sconosciuti si siedono uno di fronte l’altro, per 4 minuti, semplicemente per guardarsi negli occhi. Al termine di questa breve interazione, ognuno dei due, assistito da alcuni facilitatori, racconta all’altro le sensazioni che ha provato.
E’ ’My mirror’, un nuovo esperimento di eye contact, organizzato da Caritas Ambrosiana, che sarà possibile sperimentare a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili dal 23 al 25 marzo.
Le tecniche di eye contact - spiegano gli organizzatori - dimostrano che 4 minuti di contatto visivo avvicinano le persone più di tante parole.
Così, con My Mirror si proverà a favorire l’incontro tra tante persone diverse, per genere, età, nazionalità, storie. L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario e comunque non lascia nessuno indifferente
Secondo le stime, in media, ognuno di noi passa 5 anni della propria vita collegato a internet, 11 davanti alla tv. Con quante persone potremmo connetterci se ci prendessimo la briga di guardaci negli occhi gli uni con gli altri? E come cambierebbe la percezione che abbiamo del mondo?
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
My Mirror fa parte della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey” volta a promuovere la “cultura dell’incontro”.
* ANSA, 23 marzo 2018 (ripresa parziale - senza foto).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
*
Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO. ..
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’,.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" ("DEUS CARITAS EST", 2006)!!! UNA VULGATA DEI MERCANTI DEL TERZO MILLENNIO "PRIMA DELA NASCITA DI CRISTO"..... *
Corte Strasburgo: Gesù e Maria possono essere testimonial pubblicità
Bocciato stop giustizia lituana a campagna che ne usava immagini
Roma, 30 gen. (askanews) - Utilizzare i nomi e le immagini di Gesù e Maria in una campagna pubblicitaria è lecito: lo ha stabilito la Corte europea per i diritti umani, definendo “ingiustificabile” il provvedimento con cui la giustizia lituana era intervenuta a bloccare l’iniziativa in quanto contraria alla pubblica morale.
Come riporta il sito di The Baltic Course la campagna (lanciata dal designer di abbigliamento Robert Kalinkin) risale al 2012, e impiegava due modelli, un giovane dai capellim lunghi e una donna con un vestito bianco, e le legende “Gesù, che pantaloni”, “Maria cara, che vestito” e simili.
L’ente statale per la commercializzazione dei prodotti non alimentari aveva imposto una multa agli organizzatori dopo aver ricevuto delle lamentele da parte di alcuni consumatori, prima che la magistratura ordinasse la sospensione della campagna.
Per la Corte tuttavia “la campagna non appariva gratuitamente offensiva o blasfema, né incitava all’odio religioso o attaccava la religione in maniera abusiva o ingiustificata”: non era possibile “dare per certo che qualunque fedele cristiano ritenesse necessariamente offensiva la pubblicità, e il governo lituano non ha presentato alcuna prova in contrario; ma anche se la maggioranza della popolazione lituana fosse stata di questo avviso, l’esercizio dei diritti della Convenzione da parte di una minoranza non può essere condizionato al volere della maggioranza”.
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola (la Repubblica, 30.01.2018)
Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.
Marino Niola è antropologo della contemporaneità. Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
"ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS"), DALLA GRAZIA ("gr.: "XAPIS", lat.: "CHARIS") DI DIO AMORE ("CHARITAS"), NON DI DIO MAMMONA ("CARITAS") ...
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Giravolte dottrinali di Bergoglio, 45 teologici criticano “Amoris laetitia”
di Gianni Toffali (Imola Oggi, lunedì, 25, luglio, 2016)
Ai primi di Luglio un gruppo di 45 teologi, filosofi e pastori di anime ha consegnato al Cardinale Angelo Sodano, Decano del Sacro Collegio, una forte critica dell’Esortazione Apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Nelle prossime settimane il documento, in diverse lingue, sarà fatto pervenire ai 218 Cardinali e ai Patriarchi delle Chiese Orientali, chiedendo loro di intervenire presso Papa Francesco per ritirare o correggere le proposizioni erronee del documento.
Nel descrivere l’esortazione come contenente “una serie di affermazioni che possono essere comprese in un senso contrario alla fede e alla morale cattoliche“, i firmatari hanno presentato insieme all’appello una lista di censure teologiche applicabili al documento, specificando “la natura e il grado degli errori che potrebbero essere imputati ad Amoris laetitia”.
I 45 uomini di chiesa hanno chiesto al Collegio dei Cardinali che, nella loro veste di consiglieri ufficiali del Papa, rivolgano al Santo Padre la richiesta di respingere “gli errori elencati nel documento, in maniera definitiva e finale e di affermare con autorità che Amoris Lætitia non esige che alcuna di esse sia creduta o considerata come possibilmente vera“.
“Non accusiamo il papa di eresia“, ha detto il portavoce degli autori, “ma riteniamo che numerose proposizioni in Amoris lætitia possano essere interpretate come eretiche sulla base di una semplice lettura del testo. Ulteriori affermazioni ricadrebbero sotto altre censure teologiche precise, quali, fra l’altro, “scandalosa”, “erronea nella fede” e “ambigua”.
A suffragare gli errori dottrinali dell’esortazione apostolica, è arrivato il segretario di Papa Ratzinger Padre Georg Gänswein, che in un’intervista al quotidiano tedesco Schwäbische Zeitung, ha rincarato le mazziate ponendo più di un interrogativo sulle piroette dottrinali di papa Francesco”. “Quando un Papa vuole cambiare qualcosa nella dottrina, allora deve dirlo con chiarezza, in modo che sia vincolante”, ha affermato il prefetto della Casa Pontificia, “importanti concetti dottrinali non possono essere cambiati da mezze frasi o da qualche nota a piè di pagina formulata in modo generico. Dichiarazioni che aprono a diverse interpretazioni sono rischiose. Alcuni vescovi hanno davvero la preoccupazione che l’edificio della dottrina possa subire delle perdite a motivo di un linguaggio non cristallino”.
Nell’incredibile j’accuse sottovalutata dai media, l’alto prelato ha aggiunto che “La certezza che il Papa sia una roccia nei marosi, ritenuto come l’ultima ancora, ha iniziato in effetti a vacillare. La mia impressione è che Francesco goda di grande simpatia come uomo più di tutti gli altri leader del mondo. Ma riguardo alla vita e all’identità della fede questa sua simpatia non sembra avere grande influenza. I dati statistici, se non mentono, mi danno purtroppo ragione. Le presenze alle messe non sono aumentate, così come le vocazioni e il ritorno alla Chiesa di chi ha abbandonato non è in crescita. Insomma, visto da dentro, dal centro del centro del mondo l’effetto Francesco è solo mediatico“. Parole bomba che non lasciamo adito ad alcun dubbio: nonostante i reciproci apparenti salamelecchi dei giorni scorsi dei due papi (di qui uno, evidentemente non è vero papa), la resa dei conti è arrivata. Con buona pace di chi ravvisava teologiche corrispondenze amorose tra il “nonno saggio” e il papa più fotogenico dei rotocalchi mondiali.
Gianni Toffali
La “moneta falsa” del filantrocapitalismo.
Una riflessione sulla «carità dei ricchi» *
FILANTROPIA
Tra cariTà e giusTizia
Renato Piccini
La filantropia è diventata di moda nel sistema neoliberista. Per capire, quindi, cos’è, la sua vera natura, il peso che ha nei rapporti economico-sociali, quali sono i suoi meriti e demeriti, è necessario guardare dentro il sistema economico capitalista. Oggi, infatti, vi è una nuova concezione, definita filantrocapitalismo.
La filantropia vuol essere la faccia buona del capitalismo, il suo volto pulito, che giustifica le sue scelte fondamentali, anche quelle della più assurda sperequazione sociale, l’impressionante ingiustizia che genera. (...). Non per niente, infatti, il Paese in cui è più diffusa la filantropia, gli USA, è anche quello in cui la sperequazione sociale raggiunge livelli tra i più alti del mondo.
La filantropia, nella concezione capitalista, esclude ogni senso di giustizia. (...). Chi “fa” filantropia non si sente legato ad alcun obbligo né legge e la esercita in piena libertà, secondo i propri “sentimenti” ma, soprattutto, secondo calcoli economico-politici. Chi la riceve sa che non ha alcun diritto e quindi raccoglie quella “moneta” con un duplice obbligo morale: non calcolare il dono secondo le proprie necessità; accoglierlo, soprattutto, con la massima gratitudine per aver ricevuto ciò cui non aveva diritto.
La giustizia è un obbligo di coscienza (e di legge) per chi deve praticarla e, per il destinatario, è un diritto da rivendicare. (...). Linsey McGoey (...) si interroga sull’efficacia ed efficienza dell’attuale filantropia (non molto diversa da quella del passato), soprattutto nell’ottica del filantrocapitalismo, rendendo evidente che la filantropia non viene esercitata secondo i bisogni e le necessità dell’uguaglianza - un diritto che è di tutti, al di là di ogni cultura, fede, geografia... - ma solo secondo la “bontà” (leggi “interessi”) dei padroni del denaro.
È DAVVERO EFFICIENTE LA FILANTROPIA?
In uno dei suoi racconti brevi, La moneta falsa, Charles Baudelaire descrive un incontro immaginario tra due amici che incrociano per strada un mendicante. Entrambi danno l’elemosina, però la moneta che lascia cadere uno di essi è molto più preziosa. Il narratore elogia la sua generosità e il suo compagno gradisce il complimento, però poi, lontano dal mendicante, aggiunge: «Era una moneta falsa».
Il narratore rimane sbalordito. Non soltanto perché il suo amico ha ingannato il mendicante, ma per la sua soddisfazione di apparire generoso. La soddisfazione deriva dal fatto che il mendicante non si rende conto di essere stato ingannato. Il narratore considera che «aveva voluto fare, a un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; pigliarsi senza spesa la fama d’uomo caritatevole».
Baudelaire scrisse questa storia nella seconda metà del XIX secolo, quando industriali come Andrew Carnegie e John Rockefeller cominciavano a investire le loro grandi fortune nelle maggiori azioni di filantropia mai viste prima. Dalle donazioni di Carnegie a biblioteche pubbliche sino agli investimenti di Rockefeller in ricerche biomediche, entrambi cambiarono il modo di fare carità, che passò da donazioni poco sistematiche a una forma di affare in se stesso, controllato da consulenti pagati.
Molti, tuttavia, non si sentivano riconoscenti per la generosità di questi robber barons (baroni ladri). Nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Oscar Wilde criticò la tendenza dei benefattori di usare la carità come copertura dinanzi alle richieste di una giusta redistribuzione della ricchezza. «I migliori tra i poveri - scrisse Wilde - non sono mai riconoscenti [ai benefattori]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. [...]. Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero essere seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!».
Ora che la filantropia entra in una seconda epoca d’oro, con donazioni di benefattori come Bill Gates e Warren Buffett (...), gli scettici cominciano a chiedersi se le preoccupazioni di Wilde e Baudelaire siano ancora attuali. I filantropi di oggi stanno coscientemente distribuendo “monete false”? Stanno cercando di “conquistarsi senza sforzi la fama d’uomo caritatevole”?
Nella maggior parte dei casi non è così. Le donazioni vengono realizzate in buona fede, con empatia verso vicini o lontani sconosciuti. Sta però affermandosi una nuova tendenza: il filantrocapitalismo, che cerca di combinare il guadagno con la riduzione della povertà. Dietro a questa nuova filantropia c’è il tentativo di fare una buona azione e, allo stesso tempo, realizzare un buon affare. È ancora valido l’interrogativo che si pose Baudelaire: chi trae più vantaggio dagli aiuti di carità, il donatore o il destinatario?
MISURAZIONE DEI RISULTATI
Nell’avanguardia della nuova filantropia si trova il movimento dell’“altruismo efficiente”, che (...) pone l’accento sulla misurazione dei risultati. Un pioniere è Peter Singer, discusso bioetico che ha elogiato Buffett e Gates come “gli altruisti più efficienti della storia”. (...).
L’organizzatore di una recente conferenza sull’altruismo efficiente, svoltasi nel campus di Google in Mountain View, arrivò al punto di affermare che «l’altruismo efficiente potrebbe essere l’ultimo movimento sociale di cui abbiamo bisogno ». Tuttavia è evidente che l’aumento globale delle donazioni negli ultimi dieci anni non è riuscito a ridurre le disuguaglianze economiche. (...).
Carnagie pubblicò il suo primo saggio sulla ricchezza, nel quale esortava i ricchi a condividere il loro bottino, solo pochi anni prima dello sciopero di Homestead del 1892, una delle più sanguinose rivolte di lavoratori della storia degli USA. Carnagie, nel momento in cui combatteva e annientava i grandi sforzi sindacali in espansione, dispensava anche “generosi aiuti” ai suoi lavoratori.
«Paradossalmente - ha segnalato David Nasaw, biografo del filantropo - Carnagie divenne sempre più spietato nella ricerca di guadagni una volta che decise di distribuirne i benefici». «Nel sostenere che il milionario è l’unico a poter decidere dove destinare i suoi milioni e che quanto egli considera migliore è il meglio - aggiunge Nasaw - Carnagie promulgava una verità profondamente antidemocratica, quasi feudale, del suo paternalismo».
Gli altruisti efficienti insistono sul fatto che la filantropia privata è la via più adatta per migliorare la vita. «I filantrocapitalisti di oggi vedono un mondo pieno di grandi problemi che loro, e forse soltanto loro, possono e debbono risolvere », scrivono Matthew Bishop e Michael Green in Filantrocapitalismo: come i ricchi possono cambiare il mondo, la Bibbia dei nuovi filantropi. (...).
Come ai tempi di Carnegie, la filantropia in molte occasioni viene utilizzata come giustificazione per decisioni lesive per la maggioranza della popolazione. «Ho donato 5 milioni di dollari per diverse cause. E ho una grande voglia di farlo sapere», scriveva su Twitter, a metà settembre del 2015, Martin Shkreli, consigliere delegato dell’impresa farmaceutica Turing, criticata duramente per aver aumentato il prezzo del Darapi (un medicinale di prima necessità usato contro gravi malattie infettive che colpiscono il sistema immunitario, ndt) di oltre il 5.000%. Questo è un eccellente esempio di filantrocapitalismo in azione: l’uso della filantropia per sviare l’attenzione da pratiche commerciali che impediscono l’accesso a medicinali salvavita. (...).
LE CONTRADDIZIONI DELLA FILANTROPIA: OPPORTUNITÀ DI PROGRESSO O AMMORTIZZATORE SOCIALE?
La filantropia viene ritenuta in diversi settori della società essenziale nel contesto del XXI secolo. I fautori ne difendono l’importanza e la necessità come argine agli effetti dell’attuale sistema capitalista “selvaggio”. Molte, però, sono le voci contrarie. (...).
«La filantropia - scrive Slavoj Zizek - è il modo in cui il sistema conserva lo status quo. La sua funzione è nascondere l’origine del problema. Grazie alla beneficienza il capitalismo si può auto-assolvere. La beneficienza diviene parte integrante del sistema, la carità fa parte dell’ideologia generale di oggi». Invece di porsi interrogativi seri su cosa sta succedendo e cercare vie d’uscita che garantiscano il bene comune, si delegano le soluzioni al “buon cuore” di chi ha denaro. (...). «La carità - continua Slavoj Zizek - è la maschera comunitaria che si nasconde dietro lo sfruttamento
economico. Per me il modello insuperabile di ciò che io considero “carità falsa” continua a essere Carnegie. Va bene, fece di tutto, costruì anche spazi culturali, per concerti, ecc... però assunse anche centinaia di detective Pinkerton in Texas per piegare i lavoratori in sciopero e liquidare i sindacati. Questo è per me il modello: prima colpisce brutalmente i lavoratori e poi... offre loro un concerto».
Peter Buffett, figlio di Warren Buffett e, come lui, uno dei più grandi filantropi statunitensi - quindi non “sospettabile” di sentimenti antifilantropici - fa un’analisi interessante: «La carità dei ricchi ha creato una macchina di povertà eterna. [...]. Nelle riunioni dei grandi filantropi si possono vedere capi di Stato, operatori economici, direttori di grandi imprese, capi di corporation transnazionali... che con la mano destra cercano soluzioni per risolvere problemi che i presenti nella sala hanno creato con la mano sinistra. [...]. Nella misura in cui la vita di un numero sempre più alto di individui e comunità viene distrutta da un sistema che crea enormi volumi di ricchezza per poche persone, si rafforza la filantropia come sistema per lavarsi la coscienza con la donazione di qualche briciola». (...).
La carità non arriva mai al nucleo del problema, nei casi migliori lo sfiora soltanto. Non si tratta di essere contro la carità, ma è necessario riconoscere l’ipocrisia di un sistema che, con una mano, “accumula e centralizza il capitale” e, con l’altra, “fa la carità per ridistribuire qualcosa”. (...).
José Ignacio Fernández scrive: «Nel capitalismo carità e ipocrisia sono due pilastri essenziali per la sua sopravvivenza: permettono ai ricchi di nascondere l’esistenza di meccanismi sistemici che generano disuguaglianza e ingiustizia sociale. È un po’ il gioco delle maschere per nascondere il comportamento egoista e il furto sistematico».
I sostenitori della filantropia la difendono come garanzia della vera “sostenibilità” che consiste non nel limitarsi “a dare un pesce a chi ha fame, ma nell’insegnargli a pescare”. La “legge della foresta” che “regola” i mercati, affermano, continuerà a creare bolle speculative che apriranno crisi ricorrenti... e il capitalismo produrrà sempre vincitori e vinti, lasciando molta gente vulnerabile e in grandi difficoltà. Se non si corregge qualcosa di queste disuguaglianze, i “vinti”, anche grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, hanno la possibilità di “rovinare la festa” ai vincitori. La filantropia è essenziale per la sopravvivenza dell’umanità perché i grandi filantropi sono gli unici che possono “pensare in grande”. (...).
Il filantrocapitalismo non è altro che applicare alla solidarietà e alla carità i meccanismi imprenditoriali che hanno permesso di accumulare ricchezze multimilionarie. Harry Browne scrive: «L’idea è geniale: fatti ricco nello stesso tempo in cui salvi il mondo!».
Stephan Ernest Schmidheiny è un imprenditore svizzero condannato a 18 anni di carcere dalla Corte d’Appello di Torino per il disastro ambientale provocato dall’amianto negli stabilimenti Eternit in Italia e nei territori limitrofi, poi prosciolto in via definitiva per intervenuta prescrizione di reato e rimasto unico imputato nel processo Eternit-bis per l’ipotesi di reato di omicidio volontario di 258 persone.
In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo, un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia l’hanno giudicato colpevole di disastro ambientale.
Slavoj Zizek (e molti altri) afferma che l’economia capitalistica attuale ingloba l’etica filantropica assumendola come proprio fondamento, un fondamento contraddetto dalle stesse logiche del capitale. Questo meccanismo perverso fa sì che, di fatto, si verifichi «una sovrapposizione tra etica e consumo: chi consuma può comprare, allo stesso tempo, un’azione etica. La redenzione del consumismo è nel consumo stesso».
La pubblicità che si fa delle grandi donazioni filantropiche aiuta a migliorare l’immagine della marca del donatore, associandola a una percezione di impegno sociale. (...). La filantropia diventa così un’ottima arma di concorrenza, un ottimo strumento di pubblicità e marketing.
La filantropia serve al cambiamento sociale? (...). Il giornalista Pere Rusiñol scrive: «L’età d’oro della filantropia è indiscutibile, però le maggiori quote storiche di fondi della filantropia coincidono con le maggiori quote di disuguaglianza della storia contemporanea. L’aumento delle elargizioni della filantropia e della disuguaglianza percorrono strade parallele». Le donazioni filantropiche negli USA si sono triplicate nello stesso periodo in cui gli ultraricchi hanno triplicato anche la loro parte di torta.
Naturalmente ci sono ragioni precise ed evidenti (...). Secondo i calcoli dell’economista francese Thomas Piketty, negli ultimi trent’anni il tasso effettivo delle imposte del 99% dei cittadini statunitensi è stato, praticamente, costante, mentre per i super-ricchi, in seguito alle detrazioni per “opere benefiche”, è passato dal 72 al 35%.
Lo stesso avviene per le grandi corporazioni con la diminuzione delle imposte per l’aumento della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR - Corporate Social Responsability). (...). L’economista francese Gabriel Zucman mette in guardia sul fatto che questa nuova età d’oro della filantropia, basata sulla riduzione delle imposte pagate dai ricchi e dalle imprese, «mina le fondamenta stesse del controllo sociale. Una società nella quale i ricchi decidono per proprio conto quante imposte pagare e a quali servizi pubblici sono disposti a contribuire non è una società civile. Questo è ciò che succedeva nella società vittoriana del XIX secolo e non dovrebbe succedere nel XXI. Se i multimilionari sono liberi di contribuire alla società, perché debbono pagare imposte? L’atteggiamento di molti, in particolare in Silicon Valley, si riassume in: smetti di farmi pagare imposte e darò la mia ricchezza alle cause che ritengo valgano la pena».
Molte “cause che valgono la pena” hanno quasi sempre a che vedere con la fede assoluta nella tecnologia in grado di risolvere, per se stessa, i problemi dell’umanità. Le fondazioni dei filantrocapitalisti sono lo strumento più importante usato dal capitale per penetrare in settori strategici dove fare affari (salute, educazione, ambiente, comunicazione...).
Ricercatori inglesi e tedeschi sono molto critici circa il potere decisionale dei grandi filantropi in grado di imporre a entità pubbliche e organizzazioni internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, Organizzazione Mondiale del Commercio, ONU, ecc...) sia l’agenda - i problemi che debbono essere presi in considerazione - sia la metodologia per affrontarli e gli obiettivi che ci si pongono, privilegiando le “soluzioni” idonee e congeniali alle transnazionali. Questi milionari rappresentano un pericolo poiché possono imporre le loro priorità nel mondo, al margine di governi e del sistema democratico: la democrazia diventa una mera facciata al servizio del potere economico-finanziario.
La Fondazione Gates, ad esempio, finanzia campagne in campo sanitario, ma, attraverso intense campagne di lobby, difende anche la validità della proprietà intellettuale per assicurare ampi benefici ai suoi brevetti di software. I brevetti, però, colpiscono anche medicinali e sementi, condizionando pesantemente il diritto alla salute e all’alimentazione di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri.
La filantropia, infatti, è anche espressione delle lobby più potenti, in grado di condizionare ogni aspetto della vita, della politica, dell’economia. (...). Per il mondo della filantropia l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa è abituale: è indispensabile poter contare sull’informazione per far passare il proprio messaggio e portare a casa grandi profitti. (...). Naturalmente, anche in questo campo c’è un uso perverso del linguaggio: cancellati termini riconducibili a diritti sociali, si parla di “necessità” a cui rispondere con azioni filantropiche. (...).
Slavoj Zizek afferma: «La filantropia ha sostituito la politica ». La politica non è più un “affare comune”, è affidata a “professionisti” e rappresentanti, mentre il semplice cittadino deve limitarsi a preoccuparsi/occuparsi dei propri “affari privati”.
Nella privatizzazione “selvaggia”, a tutto campo, del sistema neoliberale, il “cittadino” diviene “insignificante”, non ha voce né spazio, non è ritenuto in grado di decidere cosa sia bene per lui - e tanto meno per la società - per cui ha l’obbligo di “scegliere” ciò che è stato scelto da altri per lui. (...).
Rhodes Diaves, responsabile del programma Giving Thought, della Charities Aid Foundation, chiede: «Come è possibile affrontare ingiustizia e disuguaglianze, quando la filantropia è possibile proprio come risultato della mancanza di equità?». (...).
Andando al di là di ideologie ed emozioni, se analizziamo a grandi linee il ruolo storico della filantropia, le sue conseguenze sociali, economiche e culturali, sembra che questa sia stata più una nemica che un’alleata nella trasformazione dell’attuale sistema economico verso uno più giusto ed equilibrato: una società veramente sana, retta da un modello basato su giustizia ed equità, non avrebbe alcun bisogno di gesti filantropici. Oscar Wilde diceva: «Il vero obiettivo deve esser quello di ricostruire la società in modo tale che la povertà sia impossibile ».
La filantropia rientra nella logica di privatizzare gli interventi su effetti, sintomi, conseguenze che non colpiscono mai le cause, perché queste sono originate dal sistema e ne perpetuano la priorità, prima tra tutto la demolizione del Welfare.
Di certo lo Stato attuale si allontana sempre più da un reale Stato di diritto, rappresentativo dei diritti e degli interessi delle maggioranze, preso com’è tra le spire soffocanti dell’economia e del potere finanziario internazionale, però il futuro della storia non può essere affidato a chi del sistema vive e che tale sistema ha creato e perpetuato: pure questo è un campo aperto da affrontare e per cui lottare.
* Adista/Documenti, 30 LUGLIO 2016 • N. 28
Il dossier.
Palazzi, alberghi e ospedali
2 mila miliardi di patrimonio quanto vale “Vaticano spa”
Un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, e appartamenti di lusso spesso affittati a politici a prezzi di favore
di Corrado Zunino (la Repubblica, 17.05.2016)
ROMA. La chiesa cristiana e cattolica, con i rami diretti e le sue arciconfraternite, gli enti morali, le società di soccorso, gli almi collegii e le ancelle, con le fondazioni, le banche e le immobiliari che rimandano a fondi chiusi, possiede nel mondo - è la stima più credibile, racchiusa tuttavia in nessun documento ufficiale - un milione di immobili per un valore di duemila miliardi. Chiese, naturalmente, e queste non sono alienabili essendo costruite sulla Pietra evangelica. Poi sedi parrocchiali, case generalizie, istituti religiosi, conventi, missioni, case di riposo, seminari, centri di cura e bellezza, ospizi, orfanotrofi, asili, pii alberghi per turisti e pellegrini, terreni e molte abitazioni civili date in locazione. Solo tra ospedali, scuole e università la chiesa cristiana e cattolica può contare sullo stesso numero di edifici presente negli Stati Uniti.
UN QUARTO DI ROMA
Di quel milione di “cose” di proprietà, settecentomila beni materiali sono all’estero, trecentomila in Italia concentrati, questi, in Lombardia e Veneto, naturalmente a Roma. Secondo il Gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze al Vaticano sul tema, il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è tutt’oggi proprietà della chiesa: 115 mila pezzi. Lo calcolò per primo Paolo Ojetti in un’inchiesta per l’Europeo del gennaio 1977 che rivelò come un quarto della capitale fosse nelle mani della Chiesa apostolica. Solo a Roma ogni anno vengono registrati 8-10 mila testamenti a favore del clero.
I due istituti operativi vaticani sul fronte immobiliare, spesso confusi, sono Propaganda Fide e l’Apsa. Gli appartamenti di Propaganda, di lusso, valgono 9 miliardi di euro. Tra le 957 case di proprietà spesso usate come merce di scambio e cedute con larghi sconti (il palazzetto di tre piani e 42 vani di via dei Prefetti, a Roma, venduto a costo calmierato all’ex ministro Pietro Lunardi in cambio della ristrutturazione a spese pubbliche della sede di Propaganda in piazza di Spagna), 725 immobili sono nella capitale. E sono diventati affitti buoni per l’ex vicedirettore generale Rai Antonio Marano, il capo delle missioni sporche della Protezione civile Mauro Della Giovampaola, il direttore dell’Enac aeroportuale Vito Riggio, l’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino, l’ex ragioniere generale Andrea Monorchio. Di Propaganda sono l’attico abbacinante di Bruno Vespa, l’appartamento di Cesara Buonamici, lo show room dell’Oreal, il mega solarium Priscilla che al Vaticano versa solo 3.000 euro il mese. All’epoca di Angelo Balducci gentiluomo del Papa, l’ingegnere pubblico girava in auto con la mappa degli appartamenti della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli pronto a suggerire le case migliori a buoni conoscenti.
LE CASE-REGGIA DEI CARDINALI
Poi c’è l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede cattolica, con i suoi 5.050 appartamenti affittati a prezzo di mercato agli sconosciuti e a canone zero a chi ha servito la chiesa: giuristi, letterati, direttori sanitari. Sono 860 le locazioni gratuite. Innanzitutto, quelle per le case-reggia dei 41 cardinali di prima fila: tutti intorno a San Pietro. Quindici in piazza della Città Leonina dove spiccano i 368 metri quadrati del penitenziere maggiore Mauro Piacenza, otto in piazza di San Callisto con i 472 metri del francese Roger Etchegarray, sei in via Rusticucci con l’appartamento del prefetto della Congregazione per le chiese orientali, Leonardo Sandri: 522 metri di stucchi e biblioteche. Tre sono in via Pfeiffer, dove s’allargano i 525 metri da primato dello statunitense William Joseph Levada.
Nel tentativo di ricostruire e mettere a sistema i possedimenti Apsa, monsignor Lucio Vallejo Balda, a capo della commissione Cosea, ha scatenato l’ultima guerra in Vaticano, che poi è diventata il processo Vatileaks 2. Papa Francesco ha già detto molto sulle “case dei principi” della chiesa.
GLI EX CONVENTI B&B
Il turismo religioso nei più famosi luoghi di pellegrinaggio offre 200 mila posti letto e vale 4,5 miliardi. Il calo delle vocazioni ha svuotato abbazie e monasteri, più di duemila in Italia, e moltiplicato i cantieri per trasformare antichi conventi in bed and breakfast. A Roma un palazzo del Borromini nella titolarità delle suore Oblate di Santa Maria dei Sette dolori è diventato un hotel da 62 camere.
Il richiamo del Papa ai vescovi
“Siate sobri, basta proprietà”
Francesco apre l’assemblea della Cei: “Bruciate le ambizioni di carriera e di potere. Rinunciate ai beni non necessari”
Su “La Croix” parla di dialogo con l’Islam
“Eutanasia e nozze gay? Decida il parlamento”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.05.2016)
CITTÀ DEL VATICANO. Chi aspettava un intervento sulle vicende politiche italiane, dalle unioni civili all’immigrazione, è rimasto deluso. Le parole di ieri pomeriggio di Papa Francesco all’annuale assemblea generale della Cei sono entrate invece con forza nel tema principale della stessa assemblea: il rinnovamento del clero. Un tema caldo, per la Chiesa, perché tracciare l’identikit del sacerdote significa indicare un modello preciso, che per Bergoglio dista anni luce dalle tentazioni del carrierismo e del personalismo: «I preti - ha detto - brucino sul rogo le ambizioni di carriera e di potere».
Per Francesco il sacerdote ideale è colui che «non ha un’agenda da difendere» ma «si fa prossimo di ognuno», ha uno «stile di vita semplice ed essenziale» che lo rende credibile ed è «attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi». E per quanto riguarda la «gestione delle strutture e dei beni economici» Francesco dice ai vescovi riuniti le parole forse più incisive: «In una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio».
Il ritorno all’essenziale è il leitmotiv degli interventi tenuti da Francesco in questi tre anni di pontificato davanti alla Chiesa italiana. Se al convegno ecclesiale di Firenze aveva evocato la figura del don Camillo di Guareschi, ieri ha parlato dei «tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità». La loro vita, come la vita di tutti i preti, è «eloquente » se è «diversa, alternativa ». Il prete «è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto” che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco». E ancora, le parole più immaginifiche: «È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano». Messi al bando sia «il freddo rigorismo» che un «buonismo» fatto di «superficialità e accondiscendenza a buon mercato», il prete «con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza».
Non è stato un monito quello di Francesco. Né un anatema. Non ha sgridato nessuno. Piuttosto si è messo «in ascolto» dei preti, avvicinandosi «quasi in punta di piedi» ai tanti parroci, per capire da loro quale sia l’identikit del sacerdote oggi. Bergoglio, come quando era arcivescovo di Buenos Aires, impara dal clero e dal meglio di esso desume le linee utili per tutti: il sacerdote, ha detto, non è un burocrate, non mira all’efficienza, non si scandalizza per le fragilità. È uomo di pace, sempre disponibile con le persone perché «in questo tempo povero di amicizia sociale il nostro primo compito è quello di costruire comunità».
La giornata di ieri del Papa è stata caratterizzata anche da un’intervista al quotidiano cattolico La Croix. Francesco è tornato a parlare dell’immigrazione causata dalle guerre e dal sottosviluppo, dei trafficanti di armi e dell’integrazione: «La coesistenza tra cristiani e musulmani è possibile - ha detto - In Centrafrica, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e devono reimparare a farlo oggi. Il Libano mostra che ciò è possibile». E ancora: «Non credo che ci sia oggi una paura dell’islam, in quanto tale, ma di Daesh (Is, ndr) e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’Islam ». E a una domanda su eutanasia e unioni civili ha risposto che tocca al parlamento discuterne. Poi, quando una legge è approvata, lo Stato deve rispettare le coscienze, l’obiezione è un diritto umano anche per i funzionari pubblici.
Francesco non dà tregua al male oscuro della Chiesa: "Soldi e potere, tentazioni che distruggono"
Nell’omelia a Santa Marta, il Papa ricorda il passo del Vangelo in cui Gesù parla di umiltà e i discepoli preferiscono discutere su chi tra di loro sia il più grande. "Accade anche oggi in ogni istituzione della Chiesa. Tutti con la voglia di ricchezza, vanità, orgoglio. Nessuno di noi può dire: sono una persona santa e pulita" *
CITTA’ DEL VATICANO - "La via che indica Gesù è la via del servizio, ma spesso nella Chiesa si ricercano potere, soldi e vanità". Sono le parole con cui Papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta, ha messo in guardia dagli "arrampicatori" che anche nel mondo cattolico sono tentati di distruggere l’altro "per salire in alto". Tornando dunque a ribadire il messaggio lanciato lanciato ieri all’Assemblea dei vescovi italiani: i cristiani devono vincere la "tentazione mondana" che divide la Chiesa.
A Santa Marta, Francesco ha commentato il passo del Vangelo in cui "Gesù insegna ai suoi discepoli la via del servizio, ma loro si domandano chi sia il più grande tra loro. Il Maestro parla un linguaggio di umiliazione, di morte, di redenzione. Loro parlano un linguaggio da arrampicatori: chi andrà più in alto nel potere?". Esattamente, ha accusato il Papa, quanto "accade oggi in ogni istituzione della Chiesa: parrocchie, collegi, istituzioni, anche i vescovadi. Tutti con la voglia dello spirito mondano di ricchezza, vanità, orgoglio. Nessuno di noi può dire: no, io sono una persona santa e pulita. Tutti noi siamo tentati da queste cose, siamo tentati di distruggere l’altro per salire su. Questo spirito mondano, nemico di Dio, è una tentazione che divide e distrugge la Chiesa".
"Questa voglia mondana di essere con il potere - ha proseguito Bergoglio -, non di servire ma di essere servito, non si risparmia mai come arrivare: le chiacchiere, sporcare gli altri. L’invidia e le gelosie fanno questa strada e distruggono. Questo noi lo sappiamo, tutti. E tutti siamo tentati da queste cose, siamo tentati di distruggere l’altro per salire in su. E’ una tentazione mondana, ma che divide e distrugge la Chiesa, non è lo Spirito di Gesù".
Il Papa ha invitato quindi a immaginare la scena: Gesù che parla di umiltà e i discepoli che preferiscono discutere su chi di loro sarà il più grande. "Ci farà bene - ha sottolineato il Pontefice - pensare alle tante volte che noi abbiamo visto questo nella Chiesa. E alle tante volte che noi abbiamo fatto questo. E chiedere al Signore che ci illumini, per capire che l’amore per il mondo, cioè per questo spirito mondano, è nemico di Dio".
DIFENDERE LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
E tende la mano ai divorziati
Bergoglio fissa in 260 pagine la nuova “costituzione per le famiglie”
No ai matrimoni gay, ma nessuno deve sentirsi condannato o escluso
di Andrea Tornielli (La Stampa, 09.04.2016)
La Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». È la frase chiave dell’esortazione post-sinodale di Papa Francesco «Amoris laetitia», la gioia dell’amore, nove capitoli per oltre 300 paragrafi distribuiti in 260 pagine.
Testo lungo e articolato, che fa proprie le conclusioni degli ultimi due Sinodi e rappresenta quasi una nuova «carta costituzionale» per le famiglie del terzo millennio, in un tempo di grandi cambiamenti. Il tentativo, che emerge quasi in ogni pagina, è quello di un approccio positivo, che parte dalla complessità della realtà e dal superamento della logica della semplice «condanna» e della «lamentela» per ciò che non va. Non ci sono cambiamenti della normativa generale sui sacramenti per i divorziati risposati, ma Francesco, seguendo la via indicata dal Sinodo, insiste sul «discernimento» caso per caso e sull’«integrazione» degli «irregolari».
Amore tra i coniugi
Non manca l’analisi delle sfide, come quella rappresentata dalla cultura individualista che porta a non prendere impegni definitivi, o quella rappresentata dalla povertà o ancora da ritmi di lavoro così frenetici da impedire un minimo di vita familiare. Si definisce «inquietante» il tentativo di imporre ai bambini l’ideologia gender, viene ribadito il no all’aborto, si accenna alla «minaccia» dell’eutanasia, viene ripetuta a chiare lettere la contrarietà a ogni equiparazione tra matrimonio e unioni gay. Tra le pagine più interessanti e innovative quelle sulla sessualità, presentata come un «dono meraviglioso» di Dio, con una significativa autocritica per aver insistito troppo sul fine procreativo del matrimonio e non altrettanto sul suo fine unitivo. Per troppo tempo, infatti, la Chiesa ha tenuto, riconosce Francesco, un atteggiamento troppo difensivo, «con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità». Nei due capitoli dedicati all’amore tra i coniugi sono contenuti una serie di consigli importanti ma anche più spiccioli, per mantenere viva la «gioia dell’amore», imparando giorno dopo giorno ad amare l’altro uscendo da se stessi.
Nel testo, dove trovano spazio citazioni di Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Martin Luther King, Erich Fromm e si menziona il film «Il pranzo di Babette» come esempio di capacità di far godere gli altri, c’è ampio spazio dedicato all’educazione dei figli, da aiutare a crescere senza fare i «controllori», evitando la bulimia di smartphone e tablet che porta al rischio dell’«autismo tecnologico». Un intero capitolo, l’ottavo, è dedicato alle famiglie «ferite» e in particolare alla pastorale per i divorziati risposati. Francesco rilancia la necessità di «discernere» e di «integrare», deludendo sia chi chiedeva cambiamenti della norma canonica sull’accesso alla comunione, sia chi ribadiva che nulla può mai cambiare sulla disciplina dei sacramenti.
Caso per caso
Bergoglio ricorda che i divorziati in seconda unione, «possono trovarsi in situazioni molto diverse», non catalogabili in «affermazioni troppo rigide». Una cosa, ad esempio, è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, «con provata fedeltà, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe». C’è poi il caso di quanti hanno fatto «grandi sforzi» per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o il caso di chi si è sposato nuovamente «in vista dell’educazione dei figli» e magari in coscienza è certo che il precedente matrimonio, «irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido». Un caso completamente diverso, invece, è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e confusione che colpiscono i figli e le famiglie intere, o la situazione di chi ha ripetutamente «mancato ai suoi impegni familiari».
Nessuno può dunque avanzare pretese circa i sacramenti, ma «non è più possibile dire - scrive il Papa - che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale». Ecco dunque lo spazio per valutazioni caso per caso, nella discrezione del rapporto con il confessore, senza il rischio di introdurre una doppia morale, ma con la consapevolezza che scendendo nei casi particolari ci possono essere circostanze che attenuano le responsabilità personali. Nessuno deve sentirsi condannato, nessuno disprezzato, nessuno escluso.
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AGLI SPOSI CRISTIANI E A TUTTI I FEDELI LAICI SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA
NEL CAPITOLO TERZO DELL’ "AMORIS LAETIZIA", intitolato "LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA") così è scritto:
"(...) 70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune» (...)".
LA VERITA’ DELL’AMORE DEL "DIO MAMMONA" ("DEUS CARITAS") O LA VERITA’ DELL’AMORE DI "DIO AMORE" ("DEUS CHARITAS"?!:
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006).
Ma sulla famiglia la Chiesa è ferma
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 09.04.2016)
NEL LINGUAGGIO amorevole e compassionevole cui ci ha ormai abituati, sollecitando anche qualche ingenua aspettativa, il pontefice ha ribadito la immodificabilità delle posizioni della chiesa cattolica in merito alla famiglia. L’amore e il sesso sono dimensioni positive dell’agire umano, purché avvengano entro il matrimonio tra un uomo e una donna. Bisogna evitare di mettere al mondo figli cui non si è in grado di provvedere, ma gli unici strumenti contracettivi legittimi sono quelli naturali, ovvero l’astensione dai rapporti sessuali nei periodi in cui la donna è fertile. Le persone omosessuali vanno accolte e non discriminate, ma i loro rapporti di amore e la loro sessualità non ha nulla a che fare con il «disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Il che è perfettamente accettabile per chi crede esista un tale disegno.
Non si capisce però perché, in nome di questo, la chiesa e lo stesso pontefice ostacolino e condannino chi vuole inserire queste coppie in una configurazione della famiglia che non trovi il proprio fondamento nel disegno di Dio, ma nella legislazione civile e nel principio di uguaglianza e non discriminazione, che include anche il diritto a farsi una famiglia. Non manca, nel documento papale, neppure un accenno di condanna alla fantomatica teoria del genere, da cui dovrebbero essere protetti i bambini, ribadendo la più o meno intenzionale incomprensione degli obiettivi cui mira una educazione critica sul genere.
L’unica parziale apertura riguarda i divorziati risposati e la possibilità che possano essi accedere ai sacramenti. Facendo propria e persino andando oltre la posizione espressa dalla maggioranza dei padri sinodali, il pontefice sostiene che non tutti i casi sono uguali, che la condizione di peccato non è necessariamente per sempre, ma va valutata caso per caso. È ciò che avviene già di fatto in molte parrocchie, ma l’affermazione del papa può essere letta come una vera e propria modifica dottrinale, nella misura in cui toglie il divorzio e i divorziati dalla condizione di essere una categoria omogenea, e irreversibile, di peccato e peccatori, per tornare ad essere singoli, con le loro specifiche ragioni e circostanze, che possono o meno essere perdonate e superate.
Non è un passaggio di poco conto. Così come non lo è l’autocritica per le durezze che la chiesa ha manifestato in passato. Ma, pur senza sottovalutare l’attenzione per le difficoltà che incontrano molte famiglie in condizioni di disagio, la persistente discriminazione nei confronti delle donne e il richiamo all’importanza di politiche sociali adeguate, sono gli unici due passaggi che presentano qualche apertura, su cui può continuare a lavorare l’opera di riflessione collettiva messa in moto dai due sinodi.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Enzo Bianchi, il priore di Bose si racconta: “Tutti i governi sono inginocchiati al mercato”
"L’atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana".
di Silvia Truzzi (il Fatto, 24 dicembre 2015)
La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.
Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di una malattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.
Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all’abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c’è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s’ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all’azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.
Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico - cattolici, valdesi, battisti, ortodossi - che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l’apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l’idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.
Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all’ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c’era l’acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.
Qui cosa producete?
Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.
Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all’anno, più o meno. C’è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso - da circa cinque anni - si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall’Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l’italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?
“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.
Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.
Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta - ingiusta perché contro gli innocenti - ad altra violenza.
L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.
La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre - a qualunque costo - chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.
Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?
Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.
La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità - tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo - allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.
È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.
Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.
Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche - sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche - la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.
Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.
Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair - che non è proprio un giusto - fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.
Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.
Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza... Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!
La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.
Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.
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Da il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2015
di Silvia Truzzi | 24 dicembre 2015
Via Crucis, Gianluigi Nuzzi sui fasti dei cardinali a canone zero: "l’attico di Bertone è la regola, non l’eccezione"
di Redazione (L’Huffington Post, 04/11/2015)
Gli sperperi della Curia sostenuti utilizzando i fondi destinati ai bisognosi. I fasti dei cardinali a canone zero, con residenze immense nel centro di Roma riservate a porporati pressoché privi di incarico. Sono solo alcuni degli scandali raccontati in “Via Crucis”, il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi edito da Chiarelettere.
Oltre al rigore e alla trasparenza, povertà e carità sono le parole chiave del suo linguaggio pastorale e del pontificato. Con una sensibilità che cerca di trasmettere e accrescere soprattutto tra sorelle e sacerdoti. A iniziare dalle piccole cose, le più semplici. Come l’utilizzo dell’automobile sul quale si sofferma nell’udienza generale del 6 luglio 2013:
Bergoglio è il primo a dare il buon esempio. Quando va a Lampedusa per abbracciare i profughi che arrivano dall’Africa usa una Fiat campagnola messa a disposizione da un cattolico che vive nell’isola, mentre ad Assisi, nella terra di san Francesco, eccolo usare una piccola auto, una Fiat Panda. Perfino «quando un prete veronese gli regala una Renault4, il papa accetta ma la trasferisce al museo delle automobili papali».
I cardinali, infatti, continuano a concedersi lussi di ogni genere, senza badare a spese. L’attico di Bertone - scrive Nuzzi - è la regola, non l’eccezione.
Un’altra pattuglia di porporati si trova poco distante, al di là di piazza San Pietro, in un bel palazzo a ridosso di via Conciliazione.
I privilegi dei cardinali però non finiscono qui. I porporati, infatti, non pagano l’affitto ma solo le spese finché ricoprono incarichi all’interno della curia. Dopo viene fissato un canone calmierato di 7-10 euro al metro quadro. Spesso però gli alti porporati mantengono incarichi in qualche dicastero che consentono loro di continuare a godere del benefit “canone zero”.
Società
Sinodo, la vecchia chiesuola è finita per sempre
di Paolo Farinella (Il Fatto, 28 ottobre 2015)
Papa Francesco: Ultimo giorno di lavori del Sinodo dei VescoviDue giorni prima che si chiudesse il Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica, dedicato alla famiglia, svoltosi in Vaticano nel mese di ottobre 2015, ho pubblicato il mio “Pacchetto del Mercoledì” con le mie previsioni sulle conclusioni dell’assise che si sono puntualmente avverate, senza nemmeno un grande sforzo per prevederle. Non c’era bisogno di immaginazione per capire che non vi sarebbe stata alcuna rivoluzione perché abbiamo assistito alla solita metodologia clericale che, rimescolando un po’ le carte, un colpo al cerchio e uno alla botta, ha lasciato le cose come stavano, salvo prendere atto della realtà della vita e della storia, quando ormai è troppo tardi. Ho intitolato la mia riflessione “Un Sinodo inutile perché fuori tempo“.
Leggendo le quasi novanta pagine delle conclusioni, non posso che confermare la mia impressione che anzi si rafforza. Rendo onore a Papa Francesco che ce la sta mettendo tutta per dare una sberla all’immobilismo atavico di vecchi armamentari che non possono più stare in piedi né dal punto di vista scientifico, né -Mirabile dictu! - da quello biblico e poi teologico, psicologico e antropologico. Il Papa è figlio del suo tempo, condizionato anche lui dall’impostazione teologica in cui è vissuto per tutta la sua vita, ma è onesto, ha senso ecclesiale ed è anche gesuita, uomo cioè con personalità formata e consistenza psicologica stabile.
Non è attaccato al potere in sé, né al papato e appena si accorgerà di non essere più in grado, darà le dimissioni. Egli sta provando a recuperare il tempo perduto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due papi che hanno affossato con convinzione il concilio Vaticano II, ma lunga è la via e arduo il cammino in una realtà clericale (non ecclesiale) attaccata alla religione come controllo e quindi alleata di ogni potere (anche corrotto) che ne garantisca l’esistenza con leggi privilegiate, favori e anche intrallazzi vari.
Il clero non è pronto perché, culturalmente impreparato, confonde teologia con formule imparate a memoria nei trattati che sono ancora quelli della neoscolastica, rimasticata nel XIX, dopo il concilio Vaticano I che ha tentato di definire l’infallibilità del papa come variante del potere temporale perduto con la breccia di Porta Pia. Il marchingegno non è riuscito e oggi il Papa che vuole mettere in discussione il papato stesso come storicamente si è realizzato deve combattere contro i difensori dell’infallibilità assoluta, cioè con i papalini più papalini del Papa. L’inconsistenza dell’episcopato italiano ne è una prova.
Pare che il Sinodo abbia fatto una timida apertura alle coppie divorziate e risposate, parlando di “discernimento caso per caso”. Buono a sapersi, buongiorno e buonasera. Nella parrocchia di San Torpete, da quando ho iniziato il mio servizio in centro storico a Genova, dopo il mio rientro da Gerusalemme, cioè da almeno dieci anni, abbiamo sempre applicato il criterio del “discernimento” - e io aggiungo - “della coscienza” informata e formata. Credo che sia giunto il tempo di considerare le persone non più “suddite”, ma adulte e capaci di scelta davanti a se stessi e a Dio. È finito per sempre il tempo del prete che dice cosa bisogna fare e non fare. Egli può aiutare a capire, ad approfondire, a valutare, ma non può sostituirsi alla coscienza personale davanti alla quale anche Dio cede il passo e s’inginocchia. Nella mia chiesa separati e divorziati fanno la comunione in forza del principio del “discernimento” che il Sinodo ha inverato come criterio efficace per tutta la Chiesa. La mia colpa semmai è quella di avere anticipato i tempi di qualche decennio a San Torpete e di oltre quarant’anni ovunque sono stato, perché mi ha sempre guidato il criterio del primato della persona sulla lettera della Legge: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).
Se questo Sinodo si fosse svolto negli anni ’60 al posto dell’enciclica “Humanae vitae“, che segna l’inizio del fallimento postconciliare della Chiesa cattolica, avrebbe avuto un altro impatto, ma ora che buoi e stalle sono scappati e non tornano più, nel 2015 è fuori tempo massimo, ottimo per illudere gli eminentissimi, travestiti da donna con abiti filettati e berretti da circo, di essere custodi della “dottrina” nella quale nemmeno loro credono a vedere comportamenti e scelte. Prendiamo atto che con il Sinodo la vecchia chiesuola è finita per sempre, nonostante i complotti e le manovre. Noi restiamo in attesa che spunti l’alba di una nuova “ekklesìa” che possa annunciare la «Stella del mattino che non conosce tramonto» (Preconio pasquale).
Domani santi i genitori di Teresa di Lisieux *
Tra le canonizzazioni previste nella solenne celebrazione eucaristica di domattina in piazza San Pietro spicca indubbiamente quella dei coniugi Luigi e Zelia Martin, genitori di Teresina di Lisieux. Intanto perché è la prima volta che due coniugi vengono contemporaneamente iscritti nell’albo dei santi e perdipiù dopo che già una loro figlia ha goduto dello stesso privilegio. E poi perché la cerimonia si inserisce in modo veramente esemplare nel contesto del Sinodo della famiglia.
Senza contare che la celebrazione si svolge anche nella domenica in cui la Chiesa universale celebra la Giornata mondiale delle missioni di cui santa Teresa di Gesù Bambino è dal 1927 celeste patrona.
Proprio questa eccezionalità della canonizzazione dei coniugi Martin giustifica quindi l’insolita presentazione ufficiale che è stata fatta ieri nella Sala Stampa vaticana, con la moderazione del vice-direttore padre Ciro Benedettini, su richiesta della Conferenza episcopale francese.
Il carmelitano Romano Gambalunga, postulatore della causa di canonizzazione, ha ricordato la storia di questi due coniugi vissuti nella Normandia francese del 19° secolo, che dopo aver sentito il desiderio di entrare in monastero, furono portati dalla vita ad essere orologiaio e merlettaia. Dalla loro unione nacquero nove figli, ma solo cinque sopravvissero. Tra loro Marie-Françoise Thérèse, poi divenuta santa Teresa di Lisieux - canonizzata nel 1925 e dottore della Chiesa dal 1927 - e Léonie, il cui processo di beatificazione è stato aperto proprio nel luglio scorso. Il religioso italiano ha inoltre sottolineato come i coniugi Martin hanno saputo vivere «prima di tutto il matrimonio come vocazione», e poi vivere «anche il rapporto tra coniugi, quindi tra uomo e donna, come un’amicizia, dove c’è stima reciproca, dove si è alleati, dove si condivide un progetto comune, dove ci si aiuta anche ad educare i figli».
E la loro canonizzazione dimostra che «la famiglia non è solo il luogo del conflitto, o dei problemi, ma il luogo dove si impara a comunicare, perché è il luogo in cui si impara a scoprire la bellezza del rapporto tra uomo e donna e tra genitori e figli». Nel corso del briefing è stato ricordato a Luigi e Zelia sono stati riconosciuti due miracoli: il primo per Pietro, bimbo italiano nato nel 2002 con una grave malformazione polmonare, e il secondo, successivo alla beatificazione, per Carmen, nata in Spagna nel 2008, prematura e con una grave emorragia cerebrale.
I due piccoli domani saranno in piazza e porteranno le reliquie in processione. E il vice-postulatore padre Antonio Sangalli ha testimoniato «la riconoscenza grande» delle famiglie di questi bimbi, che hanno potuto capire che «il miracolo più grande - oltre alla guarigione dei figli - è quello di vedere attorno a sé riprendere in mano la vita cristiana di tante persone che si erano impegnate nella preghiera, nell’accompagnare tali famiglie in questo grave, difficile momento della loro vita».
Alla conferenza stampa hanno partecipato anche padre Jean-Marie Simar, rettore del Santuario dei coniugi “Louis et Zélie Martin” di Alençon, (che ha osservato come i nuovi santi condussero «una vita molto ordinaria, una vita completamente semplice, che possiamo paragonare con la vita della Santa Famiglia di Nazareth») e padre Olivier Ruffray, rettore del Santuario di Lisieux («possiamo capire che Teresa ci ha parlato dell’amore di Dio, degli altri, quotidianamente, grazie ai suoi genitori che glielo hanno insegnato»).
Teresa d’Avila, la riformatrice assetata di Dio
Nata e cresciuta nella Spagna rinascimentale è stata una mistica capace di rimboccarsi le maniche. «Ha dimostrato che il tempo per la preghiera non è tempo perso», ha detto di lei Benedetto XVI ricordandola con affetto. Un altro Papa che l’apprezzò tanto fu Paolo VI che nel 1970 la proclamò Dottore della Chiesa
di Alberto Chiara (Famiglia Cristiana, 15.10.2015)
E’ una santa attuale. Attualissima. Anche se la sua epoca è quella - lontana, per quanto vivace - del Rinascimento. A mantenerla vicina alla sensibilità dei nostri giorni concorrono almeno tre fattori: fu una mistica dedita alla preghiera ma altresì attenta alla vita che scorreva fuori dal suo convento al punto da essere una delle artefici delle riforma della Chiesa; non ebbe una particolare formazione ma elaborò un pensiero profondo e apprezzato tanto da essere proclamata "dottore della Chiesa" (lo fece Paolo VI il 27 settembre 1970); di lei si sono occupati, scrivendo pagine appassionate, tutti i Papi degli ultimi tempi, in particolare Montini e Ratzinger.
Teresa nasce ad Avila, in Spagna, nel 1515, con il nome di Teresa de Ahumada. Nella sua autobiografia ella stessa menziona alcuni particolari della sua infanzia: la nascita da “genitori virtuosi e timorati di Dio”, all’interno di una famiglia numerosa, con nove fratelli e tre sorelle. All’età di 20 anni, entra nel monastero carmelitano dell’Incarnazione, sempre ad Avila; nella vita religiosa assume il nome di Teresa di Gesù. Tre anni dopo, si ammala gravemente, tanto da restare per quattro giorni in coma, apparentemente morta. Parallelamente alla maturazione della propria interiorità, Teresa inizia a sviluppare concretamente l’ideale di riforma dell’Ordine carmelitano: nel 1562 fonda ad Avila, con il sostegno del Vescovo della città, don Alvaro de Mendoza, il primo Carmelo riformato, e poco dopo riceve anche l’approvazione del Superiore Generale dell’Ordine, Giovanni Battista Rossi.
Negli anni successivi prosegue le fondazioni di nuovi Carmeli, in totale diciassette. Fondamentale è l’incontro con san Giovanni della Croce, col quale, nel 1568, costituisce a Duruelo, vicino ad Avila, il primo convento di Carmelitani scalzi. Nel 1580 ottiene da Roma l’erezione in Provincia autonoma per i suoi Carmeli riformati, punto di partenza dell’Ordine Religioso dei Carmelitani Scalzi. Teresa termina la sua vita terrena proprio mentre è impegnata nell’attività di fondazione. Nel 1582, infatti, dopo aver costituto il Carmelo di Burgos e mentre sta compiendo il viaggio di ritorno verso Avila, muore la notte del 15 ottobre ad Alba de Tormes, ripetendo umilmente due espressioni: “Alla fine, muoio da figlia della Chiesa” e “E’ ormai ora, mio Sposo, che ci vediamo”. Un’esistenza consumata all’interno della Spagna, ma spesa per la Chiesa intera. Beatificata dal Papa Paolo V nel 1614 e canonizzata nel 1622 da Gregorio XV, è proclamata "Dottore della Chiesa" da Paolo VI.
Il 2 febbraio 2011, in un’udienza generale del mercoledì, papa Benedetto XVI ne ricorda i tratti salienti: «In primo luogo, santa Teresa propone le virtù evangeliche come base di tutta la vita cristiana e umana: in particolare, il distacco dai beni o povertà evangelica, e questo concerne tutti noi; l’amore gli uni per gli altri come elemento essenziale della vita comunitaria e sociale; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione come frutto dell’audacia cristiana; la speranza teologale, che descrive come sete di acqua viva. Senza dimenticare le virtù umane: affabilità, veracità, modestia, cortesia, allegria, cultura».
«In secondo luogo», prosegue Joseph Ratzinger, «santa Teresa propone una profonda sintonia con i grandi personaggi biblici e l’ascolto vivo della Parola di Dio. Ella si sente in consonanza soprattutto con la sposa del Cantico dei Cantici e con l’apostolo Paolo, oltre che con il Cristo della Passione e con il Gesù Eucaristico. La Santa sottolinea poi quanto è essenziale la preghiera; pregare, dice, “significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama” . L’idea di santa Teresa coincide con la definizione che san Tommaso d’Aquino dà della carità teologale, come “amicitia quaedam hominis ad Deum”, un tipo di amicizia dell’uomo con Dio, che per primo ha offerto la sua amicizia all’uomo; l’iniziativa viene da Dio. La preghiera è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l’interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all’unione d’amore con Cristo e con la Santissima Trinità».
«Un altro tema caro alla santa è la centralità dell’umanità di Cristo», puntualizza ancora Benedetto XVI. «Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell’unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l’importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all’Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia. Santa Teresa vive un amore incondizionato alla Chiesa. Riforma l’Ordine carmelitano con l’intenzione di meglio servire e meglio difendere la “Santa Chiesa Cattolica Romana”, ed è disposta a dare la vita per essa».
«Un ultimo aspetto essenziale della dottrina teresiana, che vorrei sottolineare», conclude Benedetto XVI, « la perfezione, come aspirazione di tutta la vita cristiana e meta finale della stessa. La santa ha un’idea molto chiara della “pienezza” di Cristo, rivissuta dal cristiano. Alla fine del percorso del Castello interiore, nell’ultima “stanza” Teresa descrive tale pienezza, realizzata nell’unione a Cristo attraverso il mistero della sua umanità». La sua attualità, infine. «Nella nostra società, spesso carente di valori spirituali, santa Teresa ci insegna ad essere testimoni instancabili di Dio, della sua presenza e della sua azione, ci insegna a sentire realmente questa sete di Dio che esiste nella profondità del nostro cuore, questo desiderio di vedere Dio, di cercare Dio, di essere in colloquio con Lui e di essere suoi amici. Questa è l’amicizia che è necessaria per noi tutti e che dobbiamo cercare, giorno per giorno, di nuovo. L’esempio di questa santa, profondamente contemplativa ed efficacemente operosa, spinga anche noi a dedicare ogni giorno il giusto tempo alla preghiera, a questa apertura verso Dio, a questo cammino per cercare Dio, per vederlo, per trovare la sua amicizia e così la vera vita; perché realmente molti di noi dovrebbero dire: “non vivo, non vivo realmente, perché non vivo l’essenza della mia vita”. Per questo il tempo della preghiera non è tempo perso, è tempo nel quale si apre la strada della vita, si apre la strada per imparare da Dio un amore ardente a Lui, alla sua Chiesa, e una carità concreta per i nostri fratelli».
Donna eccezionale
· Francesco per il quinto centenario di santa Teresa di Gesù · *
«Donna eccezionale» e «modello attraente di donazione totale a Dio»: è il ritratto con cui Papa Francesco descrive Teresa di Gesù nella lettera inviata al preposito generale dei Carmelitani scalzi per i cinquecento anni della nascita della santa di Ávila.
Dopo essersi unito all’«ora di preghiera per la pace» promossa in tutte le comunità carmelitane del mondo per la ricorrenza di sabato 28 marzo, nello stesso giorno il Pontefice ha scritto a padre Saverio Cannistrà, ricordando come l’anniversario teresiano coincida con l’Anno dedicato alla vita consacrata», nella quale Teresa è stata e resta esempio tra i più attraenti.
Nel dipinto di Juan de la Miseria l’unico ritratto eseguito quando Teresa era ancora viva (1576)
Approfondendone la figura, il Papa si è soffermato in particolare sulla dimensione orante, missionaria, ecclesiale e comunitaria della sua spiritualità. Santa Teresa è anzitutto, ha affermato in proposito, «maestra di preghiera». Infatti «nella sua esperienza è stata centrale la scoperta dell’umanità di Cristo. Mossa dal desiderio di condividere questa esperienza personale con gli altri, la descrive in maniera vivace e semplice, alla portata di tutti». Al punto che la sua «non è stata una preghiera riservata unicamente ad uno spazio o ad un momento della giornata», al contrario «sorgeva spontanea nelle occasioni più diverse».
Per questo con il suo esempio «la Santa ci chiede di essere perseveranti, fedeli, anche in mezzo all’aridità, alle difficoltà personali o alle necessità pressanti che ci chiamano».
Quanto alla dimensione missionaria ed ecclesiale, che ha da sempre contraddistinto la famiglia religiosa carmelitana, «anche oggi la Santa apre nuovi orizzonti, convoca per una grande impresa, per guardare il mondo con gli occhi di Cristo, per cercare ciò che Lui cerca e amare ciò che Lui ama».
Infine, ha concluso, «santa Teresa sapeva che né la preghiera né la missione si possono sostenere senza un’autentica vita comunitaria. Perciò, il fondamento che pose nei suoi monasteri fu la fraternità».
Per la prima volta gli scout britannici hanno un capo donna
di Silvia Guzzetti (Avvenire, 13 ottobre 2015)
Per la prima volta nei loro 108 anni di storia gli scout britannici avranno una donna come leader. Ann Limb, 62 anni, ex funzionaria statale e insegnante, ha dichiarato che sarà sua missione emancipare il movimento britannico incoraggiando più ragazze a indossare l’uniforme verde e il fazzolettone.
Rimangono, invece, rigorosamente soltanto femminili le “Girl Guides” ovvero le guide. In Gran Bretagna l’associazione che Baden Powell avviò, proprio qui, nel 1908, è ancora divisa lungo linee di genere come all’inizio del secolo con le "Brownies", le bambine tra i 7 e i 10 anni, che frequentano centri diversi dai "Cubs", i lupetti. Le femmine sono state sì ammesse, nelle sezioni maschili, a partire dagli anni settanta, ma sono rarissime.
Diversi gli scout italiani che sono misti da tempo
In Italia, invece, come in altri paesi europei, nel 1974 l’Agesci ha cominciato a educare insieme maschi e femmine, con un sistema misto, affiancando ai lupetti le coccinelle già a otto anni.
Insomma la patria del femminismo ha mantenuto separato lungo linee di genere lo scautismo, come aveva voluto il suo fondatore, decidendo, soltanto negli ultimi anni, di aprire alle femmine la propria sezione maschile.
E’ solo dal 1991, infatti, che le undicenni britanniche possono diventare scout, e del mezzo milione di bambini che fanno parte di questo movimento, in Gran Bretagna, soltanto un quinto sono femmine.
Basta con gli scout figli bene delle classi medie
Figlia di un macellaio e cresciuta in una delle zone più malfamate di Manchester, Moss Side, la nuova capa scout pensa che aumentare il numero di ragazze sia la via del futuro. Né ama l’idea degli scout come hobby delle classi medie.
“L’immagine degli scout come giovani bianchi, provenienti dalle classi medie, non incoraggia le femmine a far parte del movimento”, ha dichiarato Ann Limb, “Vogliamo aumentare il numero di ragazze e giovani donne perché lo scoutismo deve riflettere la società nella quale viviamo. Sarebbe bellissimo se raggiungessimo il milione di membri”.
“Diventare una “Brownie” ha voluto dire moltissimo per me”, ha detto ancora la nuova capa scout, “Ha aumentato la mia autostima e la fiducia in me stessa. Non era come andare a scuola. Non importava se fallivi perché avevi un’altra possibilità”.
Mancano i volontari, scoppiano le liste di attesa
Il problema più grosso dello scoutismo britannico, in questo momento, è la mancanza di volontari mentre scoppiano le liste di attesa di bambini e ragazzi desiderosi di fare la promessa.
Secondo Ann Limb i genitori più giovani, con meno di 55 anni, sono troppo occupati per dare una mano nei gruppi frequentati dai figli mentre toccherebbe a chi ha più di 55 anni, i “baby boomers”, rimboccarsi le maniche e darsi da fare. “Anche le aziende dovrebbero cambiare”, ha detto Limb, “Per dare più spazio al volontariato”.
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
Il coming out di monsignor Krzysztof Charamsa, alla vigilia del Sinodo sulla famiglia, riporta l’attenzione su una pastorale possibile "per" e "con" le persone omosessuali. Ma qual è l’effettiva condizione in cui si trovano gay e lesbiche nella Chiesa cattolica?
di PASQUALE QUARANTA *
ROMA - Per una pastorale inclusiva - concepita non solo "per" ma anche "insieme" alle persone omosessuali - bisogna augurarsi che il Sinodo in corso porti a una svolta. Perché nella storia della Chiesa giudizi assoluti, e spesso infondati, hanno a lungo ferito gay e lesbiche, in particolare i credenti. Una prova è arrivata dal coming out di monsignor Charamsa che ha sollevato il tema dell’omofobia in Vaticano.
Quando si tratta delle persone omosessuali, le parole “rispetto”, “accoglienza”, “dialogo” spesso non hanno trovato spazio nella Chiesa cattolica, come riconosciuto in queste ore in un’intervista a Repubblica dallo stesso cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha parlato di "forme di discriminazione" subìte dalla persone omosessuali. Il dialogo, se vuole essere onesto, non può prescindere dall’ammissione di giudizi che tante volte hanno paralizzato le persone (si pensi alle cosiddette "terapie riparative", al tentativo di convincere gay e lesbiche a farsi “curare” le loro “ferite”).
Un noto e importante documento vaticano insegna che “l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio” (Congregazione per la dottrina della fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali). Questo giudizio deriva dall’enciclica Humanae Vitae, secondo la quale esiste una “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”.
Da alcuni decenni, com’è noto, questa dottrina tradizionale è ampiamente disattesa e apertamente contestata, perfino in alcuni ambienti della Chiesa. Il sesso solitario, l’uso degli anticoncezionali, l’atto omosessuale non vengono più considerati in se stessi un male, perché si ritiene che la dottrina tradizionale non tenga adeguatamente conto di tutti gli aspetti della natura umana, oggi conosciuti grazie anche alle scienze umane, e perché si ritiene che le ragioni addotte a sostegno della dottrina tradizionale non siano più solidamente fondate.
È vero che mai come oggi - con il Sinodo iniziato da pochi giorni - il tema è al centro della discussione nel mondo cattolico ma la condizione delle persone omosessuali nella Chiesa resta complicata.
Da una parte, i documenti e i testi vaticani insegnano che l’omosessualità ostacola gravemente un corretto relazionarsi con donne e uomini, che l’omosessualità è collegata a una immaturità psicologica, che la condizione omosessuale è disordinata, che gli atti omosessuali impediscono di realizzarsi e di essere felici, che l’amore delle persone omosessuali è contrario alla volontà di Dio, che le coppie gay e lesbiche legalmente riconosciute sono un pericolo per l’umanità.
Dall’altra, i risultati sicuri delle scienze umane mostrano che l’omosessualità non impedisce corrette e sane relazioni umane e che il riconoscimento legale delle coppie gay e lesbiche giova alla società; le coppie omosessuali e le loro famiglie sperimentano che il loro amore li rende felici e che l’omosessualità è per loro una delle opportunità della loro vita e non un problema; varie ricerche filosofiche, bibliche, teologiche mostrano che non ci sono ragioni stringenti per seguire la teoria secondo cui la condizione omosessuale è disordinata e l’amore delle coppie gay e lesbiche è contrario alla volontà di Dio.
Di fatto, le persone omosessuali non possono prendere la parola - argomentando sulla base dei risultati sicuri delle scienze umane, dell’esperienza loro e delle loro famiglie, delle ricerche filosofiche, bibliche e teologiche - per mostrare che le loro ragioni sono le ragioni della Chiesa e non un loro capriccio, per chiedere di riesaminare quei giudizi discutibili, pena l’accusa di fare del male a se stesse e alla Chiesa.
Un’accusa che, tanto più per chi occupa un posto di rilievo nella gerarchia ecclesiastica, si traduce nel silenzio obbligato o nell’espulsione (come nel caso di monsignor Charamsa). La logica che genera l’accusa è chiara: poiché tali giudizi sono verità insegnate dall’autorità garante del bene della Chiesa, mostrare che sono infondati o discutibili, addirittura il solo chiedere di riesaminarli costituisce un rifiuto della verità, una disobbedienza all’autorità, un attentato al bene della Chiesa.
Che fare dunque in questo contesto? Il 3 ottobre si è svolta a Roma una conferenza internazionale di cattolici omosessuali intitolata “Le strade dell’amore”. Ne hanno parlato in pochi. La novità emersa dalle testimonianze di persone provenienti da 13 Paesi diversi è che nelle Chiese cristiane gay e lesbiche credenti sono protagonisti di una grande novità: dicono apertamente con le parole e con i fatti che tra esperienza omosessuale e vita cristiana non esiste alcuna inconciliabilità. Si tratta di una rivoluzione d’amore e in quanto tale non violenta. Perché la comunità non può accoglierla con gioia? Perché la celebrazione di questo amore non può avere la dignità di matrimonio?
* la Repubblica, 08.10.2015 (ripresa parziale).
Prima la Costituzione poi il catechismo, vale anche per le scuole cattoliche
di MARIA MANTELLO *
Un ragazzo fuori dalla classe con tanto di sedia e di banco dove possa stanziare durante l’orario di lezione lontano dai compagni: in uno spazio di solitudine... perché gay dichiarato.
Una umiliazione nella violazione della sua dignità di essere umano che si consuma a Monza nell’ “Ente Cattolico Formazione Professionale” (E.C.Fo.P) di Via Manara 34.
La ghettizzazione inizia giovedì 24 settembre e ha termine il lunedì successivo di fronte all’intervento dei carabinieri a cui la madre del ragazzo si rivolge per denunciare quanto stava accadendo al figlio.
Il Centro di formazione professionale di Via Manara 34 è annesso alla chiesa di S. Biagio, il cui parroco, don Marco Oneta è anche il presidente dell’Ecfop, che in Lombardia ha diverse altre sedi.
I centri di formazione professionale non fanno capo al Ministero dell’Istruzione, ma alle Regioni che in base all’art. 117 della Costituzione si occupano di “istruzione artigiana e professionale”. Le Regioni riconoscono gli enti privati di formazione professionale, a cui affidano la gestione dei corsi, coprendone ogni spesa: stipendi del personale, attrezzature di servizio, materiali didattici, ecc. Insomma, nel settore della formazione professionale, le Regioni hanno esclusivamente un ruolo sussidiario, ovvero di erogatrici di pubblico denaro. Un modello - per inciso- che la “buona scuola” renziana sta esportando nei cicli ordinari del sistema scolastico (dalla scuola d’infanzia ai licei).
Ma torniamo al caso dell’ Ecfop di Monza.
A far conoscere l’umiliazione inflitta al ragazzo gay è stata la stampa locale, che ha riportato nel dettaglio l’accaduto, comprese le incredibili dichiarazioni rilasciate in interviste e comunicati dal direttore Adriano Corioni, che dice di aver separato l’alunno gay perché «influenza negativamente gli altri ragazzini». Ovviamente - quanta cura! - lo avrebbe fatto anche per il bene del ragazzo stesso. Tanto bene, che il ragazzino gay è tornato a casa in lacrime, e fermamente intenzionato a non tornare più in quella scuola. Di qui l’intervento della famiglia di cui abbiamo detto prima.
Quando la vicenda ha cominciato a rimbalzare sui media, il direttore Corioni ha cercato di tutelarsi affermando: «Vi assicuriamo che non facciamo discriminazioni sessuali né razziali. La nostra attenzione è alla formazione professionale dei giovani, seguendo il dettame della pastorale della Chiesa cattolica».
Ecco il punto. Per una scuola cattolica il faro non è la Costituzione, ma la dogmatica curiale e il suo catechismo, che stigmatizza l’omosessualità come «oggettivo disordine morale», (canone 2357) e condanna gli omosessuali all’espiazione del “peccato” vivendo nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358).
Così, il direttore del centro professionale cattolico, si deve essere sentito un novello S. Giorgio (come non pensare al corto di Fellini “Le tentazioni del dott. Antonio”!) nel perseguire in quel suo alunno adolescente una doppia “colpa”: essere gay e per giunta dichiarato.
La dirigenza dell’Ecfop di Monza si deve essere sentita come investita da spirito militante alla diffusione della dottrina curiale cattolica. Un baluardo per non incrinare la pregiudiziale omofoba.
Di qui la crociata per mettere all’indice il ragazzino gay, gettando sulle fragili spalle di quell’adolescente la croce a cui inchiodarlo: quel banco d’isolamento.
Una vergogna per ogni più elementare concezione di umana educazione, che deve porre l’attenzione sul singolo, nel diritto dovere al riconoscimento della sua dignità.
Ma la direzione Ecfop preferisce la veste del medievale inquisitore per annichilire un ragazzo coraggioso. Un ragazzo che vuole essere riconosciuto per quello che è, e che sta combattendo la battaglia per il fondamentale diritto umano ad essere proprietario della sua vita.
Allora, vale appena ricordare che “formazione integrale della persona” - di cui si parla in ogni statuto di qualsivoglia scuola cattolica - non vuol dire omologazione ai precetti cattolici.
Si dismettano i sogni medievali teocratici. La libertà e la democrazia sono state conquistate con lacrime e sangue... Oltre i roghi e le gogne di Santa Romana Chiesa!
Sopra al catechismo e alle gerarchie vaticane c’è la Costituzione con i suoi principi fondamentali: anche contro i razzismi sessisti.
Ecco allora un buon esercizio che in un banco da solo potrebbe fare quel direttore: scrivere almeno cento volte l’art. 3 della Costituzione che vincola alla rimozione degli ostacoli - discriminazioni sessuali comprese - per promuovere la formazione del Cittadino.
Del cittadino democratico, caro direttore, non del credente cattolicista!
Maria Mantello
di Gianfranco Brunelli (Il Sole-24 Ore, 09.10.2015)
Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.
Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da Papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia. Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il Papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali.
Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto.
Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire (cfr. Il Regno 7, 2015, 485). Per il Papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».
Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.
Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?
Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il Papa ha indicato qual è per lui l’unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri. L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire.
Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa. Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa.
Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio. Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni.
Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio. Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.
Il Papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.
di don Aldo Antonelli (L’Huffingtonpost,08/10/2015)
Ho appena finito di leggere il Vangelo che la liturgia propone alla nostra meditazione per domenica prossima e che di certo, noi e voi, proclameremo nelle celebrazioni con i nostri fedeli. Si tratta del Vangelo di Marco, capitolo 10, versetti 17-30, là dove si narra di quel giovane dalla condotta irreprensibile che corre dal Maestro e gli chiede cosa deve fare per avere una vita che non sia ostaggio della morte. Noi sappiamo come è andata a finire: all’invito di Gesù a lasciare tutto e a seguirlo, il giovane "si fece scuro in volto - narra il vangelo - e se ne andò rattristato; possedeva infatti molte ricchezze"!
Ecco: in un breve esame di coscienza mi è venuto di pensare a me prete, a voi Vescovi e Cardinali, alla Chiesa in generale, e mi si è posto un interrogativo: "Non è che anche noi, come quel giovane, ci si ritrova solitari e tristi, prigionieri delle nostre ricchezze e sordi e ciechi al richiamo dei poveri e dei nullatenenti?". Il discorso si è fatto poi ancor più intrigante quando mi è venuto di accostare e sostituire il termine "ricchezze" con l’altro con il quale fa rima: "certezze". Mi sono ritrovato come sull’orlo di un precipizio nel quale sprofondavano tutte quelle "verità" che invece di aprire percorsi per il cammino, sbarravano strade, chiudevano orizzonti, strozzavano speranze.
Mi è risuonato, poi, nel silenzio della notte scorsa, il grido affranto di uno vostro grande e indimenticabile confratello, il vescovo Tonino Bello: "Salvami, Signore, dall’arroganza di chi non ammette dubbi". E così, come in un profluvio di nuova primavera, mi si è aperto lo scrigno prezioso dei ricordi sulla necessità, sulla positività e sulla bontà del dubbio. Sul piano della Fede San Gregorio Magno confessava: "A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che la Fede degli Apostoli".
Sul versante magisteriale Paolo VI ebbe a dire: "Il dubbio è una strada che porta alla Fede". Sul piano teologico Hugo Asmann scrive: "In un mondo pieno di dogmatismi e di buone novelle ingannatrici, è bene accarezzare incertezze. Un’attitudine, uno spirito e una spiritualità ricca di incertezze feconde. Non intesa come disorientamento o sradicamento ma come preservazione di quell’orizzonte utopistico che si vorrebbe annientare; nell’apertura all’alternativa, alla speranza, alla sorpresa, all’imprevedibile, all’irruzione della grazia nella storia".
Sul piano culturale, infine, Norberto Bobbio afferma: "Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze"; affiancato da Jorge Luis Borges: "Duda es uno de los nombres de la inteligencia".
Il dubbio, insomma, non è opera del demonio, ma dono di un presente che interroga e pone urgenze e impone cambiamenti di rotta e sfida a ripensamenti e a nuove comprensioni. È quello che fa, per esempio, il francescano basco José Arregui, teologo di fama internazionale. Di fronte ai divorzi e ai nuovi matrimoni, si chiede se si può davvero pensare che si possa essere colpevoli "per il mero fatto di avere divorziato e di essersi risposati". E ancora, rispetto alla presunta indissolubilità del matrimonio, come si possa restare aggrappati "a questo artificio canonico in base a cui, anche nel caso in cui l’amore si dissolva, il matrimonio rimane indissolubile", a meno che non sia stato dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico.
Ponendo, infine, la domanda scottante: com’è possibile "che sia un sigillo canonico a fare il sacramento e che questo, una volta validamente contratto, persista anche in assenza dell’amore?". Cari confratelli nella fede, voi, uomini di fede e di cultura, non vogliate rattristare lo spirito che è in voi. Vi prego: uscite fuori da quelle certezze verniciate di fede che vi tengono prigionieri e da fratelli vi trasformano in maestri abusivi.
Scendete dal piedistallo delle vostre presunzioni. Fatevi compagni di strada di quanti, oggi, di qualsiasi razza o sesso o età o credenza, si interrogano e cercano e lottano per una vita più umana. Aprite gli orecchi al grido delle vittime della storia: vittime di un’economia assassina, di una politica autocrate, delle guerre di potere, dei razzismi e dei sessismi, di amori traditi e non più recuperabili. Soprattutto, parola di vangelo, non siate come i dottori della Legge contro cui Gesù imprecò senza pietà perché caricavano gli uomini di "pesi insopportabili che loro stessi non osavano smuovere neppure con un dito" (Luca, 11,46).
Possibile che non vi rendiate conto del carico di violenza di cui vi fate portatori nell’imporre a tutti i costi una vita in due là dove l’amore non c’è più, anzi c’è astio, odio, intolleranza, sopraffazione? Possibile non avvertire la dose di sadismo insita nel costringere coloro che hanno formato una nuova famiglia a interrompere i loro rapporti (quindi rovinare la nuova famiglia) per ristabilire la vecchia unione?
Di fronte ad una divisione per tradimento e/o violenza perché infierire su chi ne è vittima negandogli perfino la "Comunione"? L’assurdità, disumana ed antievangelica, è talmente evidente che il sottoscritto, ormai da tempo, ammette alla Comunione quanti, divorziati e non, conviventi e non, vi si accostano. Sono un pastore e non un censore!
Suor Chittister scrive al papa
Caro Francesco, i poveri sono anche le donne
di SUOR JOAN CHITTISTER ("Adista-Segni Nuovi", 10.10. 2015 • N. 34 )
Caro papa Francesco, la tua visita negli Stati Uniti è importante per noi tutti. Ti abbiamo visto fare del papato un modello di ascolto pastorale. Hai richiamato con forza l’immagine di Gesù che camminava tra la folla ascoltandola, amandola e guarendola.
Il tuo impegno contro la povertà e per la misericordia, per la vita dei poveri e per la sofferenza spirituale di molti - per quanto sicuri si possano sentire materialmente - ci dà una nuova speranza nell’integrità e nella santità della Chiesa stessa.
Una Chiesa che guarda più al peccato che alla sofferenza di coloro che portano i fardelli del mondo è una Chiesa fragile. Nel volto di Gesù che frequentava i più vulnerabili, i più emarginati della società, giudicando sempre e solo chi giudica, la tua coerenza è una lezione di vita per i moralisti e per chi ha fatto della religione una professione.
È con questa consapevolezza che solleviamo due questioni.
La prima riguarda la miseria su cui richiami incessantemente la nostra attenzione. Tu ci impedisci di dimenticare la disumanità delle periferie ovunque nel mondo, i senzatetto, gli sfruttati, i malpagati, gli schiavi, i migranti, i vulnerabili e coloro che sono invisibili ai potenti di oggi. Tu rendi visibile al mondo ciò che abbiamo dimenticato. Ci chiami a fare di più, a fare qualcosa, a dare lavoro, cibo, casa, educazione, voce e visibilità che conferiscono dignità e pieno sviluppo.
Ma c’è anche una seconda questione nascosta sotto la prima cui anche tu dovresti prestare rinnovata e seria attenzione. La verità è che le donne sono le più povere tra i poveri.
Gli uomini hanno lavori retribuiti; di poche donne nel mondo si può dire lo stesso. Gli uomini hanno chiari diritti civili, giuridici e religiosi nell’ambito matrimoniale; per poche donne al mondo vale lo stesso. Gli uomini danno per scontata l’educazione; poche donne nel mondo possono farlo. Gli uomini possono raggiungere posizioni di potere e autorità fuori casa; poche donne al mondo possono sperarlo. Gli uomini hanno diritto di proprietà; la maggior parte delle donne si vedono negate queste cose dalla legge, dal costume, dalle tradizioni religiose. Le donne sono regolarmente trattate come oggetti, picchiate, violentate e ridotte in schiavitù semplicemente per il fatto di essere donne.
E, forse peggio di tutto, vengono ignorate - respinte - dalle loro Chiese, compresa la nostra, come esseri umani in pienezza, come autentiche discepole.
È impossibile, Santo Padre, fare sul serio qualcosa per i poveri e allo stesso tempo fare poco o niente per le donne.
Ti prego di fare per le donne del mondo e della Chiesa ciò che Gesù fece per Maria che lo generò, per le donne di Gerusalemme che resero possibile il suo ministero, per Maria di Betania e Marta cui insegnò teologia, per la samaritana che fu la prima a riconoscere Gesù come Messia, per Maria di Magdala chiamata l’Apostola degli Apostoli, e per le diaconesse e le leader delle chiese domestiche della Chiesa primitiva.
Fino ad allora, Santo Padre, niente potrà davvero cambiare per i loro figli affamati e nelle loro disumane condizioni di vita.
Siamo felici che tu sia qui a parlare di queste cose. Confidiamo in te per cambiarle, partendo dalla Chiesa stessa.
La difficile chiarezza sull’amore naturale
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 06.10.2015)
È cominciato ieri il Sinodo sulla famiglia. Che difenderà il concetto di «famiglia naturale». Ma cosa si intende per famiglia naturale? Un uomo e una donna che si amano e fanno un figlio insieme? Ma oltre ad amarsi , i due dovranno pur firmare un contratto. Giureranno davanti a un prete o a un sindaco, impegnandosi a essere fedeli, a rispettarsi, ecc. La domanda è: cosa c’è di naturale in un contratto? Come si spiega per esempio che un popolo permetta ai suoi cittadini maschi di avere 4 mogli, mentre un altro gliene concede una sola? Eppure sono contratti riconosciuti dalla legge, addirittura sanciti dalla religione. Qual è più naturale fra i due contratti? E chi stabilisce cosa è naturale e cosa non lo è? A
bbiamo sentito un giovane prete teologo dire con fermezza che nella Chiesa esiste una «paranoia omofoba», che la disciplina riguardanti la vita sessuale dei suoi preti è «disumana». Quindi l’amore fra uomo e donna è «naturale» e fra due uomini è innaturale e perversa. Però poi scopriamo che migliaia di preti sono stati condannati in America per pedofilia. Una cosa grave, perché si tratta di violenza, anche se le grandi cifre ci suggeriscono che perfino in quel deplorevole comportamento ci sia qualcosa di «naturale». Non sto giustificando la pedofilia, ma constato che una sessualità clandestina, vissuta nella paura, nei sensi di colpa, porta direttamente alla violenza contro il corpo dell’altro.
Merito di Krzysztof Charamsa è di avere messo l’accento sulla completezza dell’amore: eros e affetto non possono essere separati. La Chiesa invece demonizza l’eros e glorifica l’affetto, ma con questo crea schizofrenia e malessere.
Ho conosciuto dei giovani preti protestanti tedeschi e inglesi, con accanto moglie e i figli.
Nessuno li considerava meno preti perché avevano una vita sentimentale e sessuale lecita, pulita.
Mi chiedo, rileggendo il Vangelo, se Cristo sarebbe oggi così indignato contro chi proclama il diritto all’amore. Dopo tutto anche la sua famiglia aveva poco di «naturale»: non era nato da una vergine e da un uomo costretto alla castità? Eppure Marco e altri raccontano di fratelli e sorelle di Cristo. Ma i Padri della Chiesa li hanno volutamente cancellati. Cosa c’è di «naturale» in un Sinodo che affronta i grandi temi della trasformazione della famiglia, senza che si possa ascoltare una sola voce femminile? Ci saranno 270 padri sinodali, da tutto il mondo, che dovranno, alla fine, scrivere una «Pastorale familiare». Qualche donna sarà ammessa, ma solo fra gli Uditori. Vi sembra logico e giusto?
IL TERZO MILLENNIO DOPO CRISTO E’ INIZIATO, MA IN VATICANO INVECE DI AVERE FEDE E CORAGGIO perseverano alla grande nell’immaginario costantiniano?!!
Nel discorso di Francesco alla veglia in Piazza San Pietro l’auspicio che i padri sinodali possano attingere dalla tradizione "orientamenti di speranza" e il riferimento a una Chiesa che "protegge senza sostituirsi" e "corregge senza umiliare"
di ANDREA GUALTIERI (la Repubblica, 03 ottobre 2015)
CITTA’ DEL VATICANO - "Se non sappiamo unire la compassione alla giustizia finiamo con essere inutilmente severi e profondamente ingiusti". Papa Francesco lo ricorda alla vigilia del sinodo che si apre con la messa solenne di domenica e che è chiamato ad affrontare le problematiche legate alle famiglie contemporanee. Bergoglio ha parlato durante la veglia organizzata in piazza San Pietro dalla Cei ed alla quale hanno partecipato migliaia di persone da tutta Italia, insieme ai padri sinodali e agli uditori che lunedì inizieranno il dibattito.
"Dal tesoro della viva tradizione - ha auspicato Francesco - i padri sappiano attingere parole di consolazione e orientamenti di speranza per famiglie chiamate in questo tempo a costruire il futuro della comunità ecclesiale e della città dell’uomo". Più che "parlare" di famiglia, ha precisato, si tratta di "mettersi alla sua scuola, nella disponibilità a riconoscerne sempre la dignità, la consistenza e il valore, nonostante le tante fatiche e contraddizioni che possono segnarla". Il sinodo, ha insistito il pontefice, "sappia ricondurre a un’immagine compiuta di uomo l’esperienza coniugale e familiare, riconosca, valorizzi e proponga quanto in essa c’è di bello, di buono e di santo, abbracci le situazioni di vulnerabilità, che la mettono alla prova: la povertà, la guerra, la malattia, il lutto, le relazioni ferite e sfilacciate da cui sgorgano disagi, risentimenti e rotture".
Un anno fa, alla veglia che ha preceduto il sinodo straordinario e preparatorio, il Papa argentino aveva chiesto ai vescovi di evitare di imporre pesi che essi stessi non avrebbero saputo sopportare. Ora l’atteggiamento auspicato dal pontefice per il confronto che proseguirà fino al 24 ottobre è quello di una Chiesa che, ha detto, "protegge senza sostituirsi, che corregge senza umiliare, che educa con l’esempio e la pazienza, a volte, semplicemente con il silenzio di un’attesa orante e aperta". Ma anche una comunità ecclesiale "lontana da grandezze esteriori, accogliente nello stile sobrio dei suoi membri e, proprio per questo, accessibile alla speranza di pace che c’è dentro ogni uomo, compresi quanti hanno il cuore ferito e sofferente".
Bergoglio ricorda alla sua Chiesa di essere misericordiosa perché essa stessa "per prima vive l’esperienza di essere incessantemente rigenerata nel cuore misericordioso del Padre". E solo con questa consapevolezza può "rischiarare davvero la notte dell’uomo, additargli con credibilità la meta e condividerne i passi".
Galantino: "Non gridiamo contro qualcuno" - Prima del Papa avevano parlato i responsabili dei grandi movimenti ecclesiali: da Matteo Truffelli dell’Azione cattolica a Maria Voce dei focolarini, da don Julian Carron di Cl a Kiko Arguello del Cammino neocatecumenale e Salvatore Martinez del Rinnovamento nello Spirito.
E’ stato il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ad accogliere il pontefice: "L’esperienza quotidiana - ha detto - ci vede coinvolti in una trasformazione epocale della cultura sociale, che interessa profondamente la famiglia". E ha aggiunto: "Non vogliamo lasciare che il lamento, la stanchezza o la paura prevalgano sullo stupore, sulla gioia e sul coraggio, né che le analisi, legate a un contesto in cui sembra vincere la dinamica del non legarsi a niente e nessuno, ci frenino sulla disponibilità ad accompagnare i giovani nella scelta coraggiosa del matrimonio".
Alla folla si era rivolto in precedenza il segretario dei vescovi italiani, Nunzio Galantino: "Vogliamo anche noi gridare, ma non contro qualcuno. Il nostro è un grido di preghiera perché Dio possa accompagnare la Chiesa, chiamata a mettere occhio ma anche cuore nell’esperienza sinodale".
In piazza i ’colori’ della Chiesa - "La famiglia è alla svolta?", chiedeva la scritta su uno striscione in piazza San Pietro. Davanti al Papa sventolavano vessilli di associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali. Tantissimi i bambini, anche sul sagrato, ai piedi del quale si è creato un inedito parcheggio di passeggini. In prima fila i drappi di diocesi del Sud, da Monreale a Cassano Jonio. Poi i forum familiari e i consultori. "Non abbiamo paura delle differenze: qui sono insieme i tanti colori della Chiesa italiana", ha sottolineato don Paolo Gentili mentre piazza San Pietro si riempiva.
Tre le testimonianza scelte dagli organizzatori: sul palco sono saliti una coppia di fidanzati - lei di Alghero, lui cubano -, due genitori con i figli e infine una coppia di nonni pisani insieme ai nipoti. Ed è stata proprio la signora toscana a raccontare in piazza lo stato d’animo con il quale grazie alla sua famiglia sta affrontando la sindrome gravissima e invalidante che la affligge: "Dire ti amo - è stato il cuore del suo intervento - significa dire che tu non morirai mai".
Al Papa poi una famiglia con 4 figli, uno dei quali affetto dalla sindrome di Down, ha portato una lampada che Bergoglio ha benedetto. Da essa, la fiamma si è propagata alle fiaccole che la folla dei fedeli aveva in tutta la piazza e il gesto si è ripetuto in contemporanea in tutte le diocesi italiane: "La luce che si è irradiata da San Pietro è il segno visibile di questa fabbrica di speranza che sono le famiglie", sottolinea don Paolo Gentili
La confessione del monsignore Krzysztof Charamsa: "Io gay felice e con un compagno".
La Santa Sede: "Lasci l’insegnamento"
"So che pagherò conseguenze, ma ora Chiesa apra gli occhi"
di Redazione ANSA *
ROMA. "Certamente mons. Charamsa non potrà continuare a svolgere i compiti precedenti presso la Congregazione per la dottrina della fede e le università pontificie, mentre gli altri aspetti della sua situazione sono di competenza del suo Ordinario diocesano". Lo ha detto padre Federico Lombardi.
"La scelta di operare una manifestazione così clamorosa alla vigilia della apertura del sinodo - dichiara padre Lombardi - appare molto grave e non responsabile, poiché mira a sottoporre l’assemblea sinodale a una indebita pressione mediatica". E questo nonostante il rispetto per le vicende personali.
La confessione del monsignore. "Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana". Lo afferma al Corriere della Sera, monsignor Krzysztof Charamsa, 43 anni, polacco, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, oltre che docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.
Molto attivo sui social network, da twitter a linkedin, monsignor Krzysztof Charamsa, il teologo gay ha anche un suo blog, attivato alla fine di questo mese agosto. Pochi ancora i post pubblicati e il monsignore si presenta al pubblico della rete con una foto in t-shirt gialla e con un saluto in diverse lingue.
Sulle ragioni del suo coming out, spiega: "Arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte , forte per le sue conseguenze, ma dovrebbe essere la più semplice per ogni omosessuale, la premessa per vivere coerentemente, perché - aggiunge - siamo già in ritardo e non è possibile aspettare altri cinquant’anni".
"Dunque dico alla Chiesa chi sono - aggiunge -. Lo faccio per me, per la mia comunità, per la Chiesa. È anche mio dovere nei confronti della comunità delle minoranze sessuali". Alla domanda su che cosa pensi di ottenere, mons. Charamsa afferma: "Nella Chiesa non conosciamo l’omosessualità perché non conosciamo gli omosessuali. Li abbiamo da tutte le parti, ma non li abbiamo mai guardati negli occhi, perché di rado essi dicono chi sono.
Vorrei con la mia storia scuotere un po’ la coscienza di questa mia Chiesa. Al Santo Padre rivelerò personalmente la mia identità con una lettera".
Il teologo spiega di parlare alla vigilia del sinodo sulla Famiglia perché "vorrei dire al Sinodo che l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno della famiglia. Ogni persona, anche i gay, le lesbiche o i transessuali, porta nel cuore un desiderio di amore e familiarità. Ogni persona ha diritto all’amore e quell’amore deve esser protetto dalla società, dalle leggi. Ma soprattutto deve essere curato dalla Chiesa".
Terza e conclusiva tappa della sua visita negli Stati Uniti
di Redazione ANSA *
Papa Francesco chiude oggi il suo storico viaggio a Cuba e negli Stati Uniti, con la giornata che conclude l’Incontro mondiale delle famiglie a Filadelfia.
Una grande ovazione delle migliaia di persone presenti ha accolto l’arrivo di papa Francesco in "papamobile" aperta nell’area del Benjamin Franklin Parkway, a Filadelfia, dove il Pontefice ha partecipato alla festa delle famiglie e alla veglia di preghiera dell’Incontro mondiale 2015.
Durante la serata esibizioni di artisti - tra gli altri Aretha Franklin e Andrea Bocelli -, letture, testimonianze, momenti di preghiera.
"Non possiamo pensare a una società sana che non dia spazio concreto alla vita familiare. Non possiamo pensare al futuro di una società che non trovi una legislazione capace di difendere e assicurare le condizioni minime e necessarie perché le famiglie, specialmente quelle che stanno incominciando, possano svilupparsi". Così papa Francesco.
Futuro Chiesa è in ruolo più attivo laici e donne
A Filadelfia Meeting mondiale famiglie. In serata parata di star
Arrivato a Filadelfia per l’Incontro mondiale delle famiglie, dopo i giorni di Washington e New York che lo hanno visto al centro delle questioni politiche globali, papa Francesco lancia subito un forte messaggio alla Chiesa per maggiori spazi e responsabilità ai laici, e in particolare alle donne. Nel suo primo appuntamento nella città-simbolo dell’Indipendenza americana - ma "oggi vorremmo cambiarci il nome in Francisville", gli dice l’arcivescovo Charles Chaput al termine della messa in cattedrale col clero della Pennsylvania - papa Francesco non esita ad affermare che "il futuro della Chiesa, in una società che cambia rapidamente, esige già fin d’ora una partecipazione dei laici molto più attiva". Per papa Bergoglio, "una delle grandi sfide della Chiesa in questo momento è far crescere in tutti i fedeli il senso di responsabilità personale nella missione della Chiesa - spiega nell’omelia -, e renderli capaci di adempiere tale responsabilità come discepoli missionari, come fermento del Vangelo nel nostro mondo".
"La nostra sfida oggi - ripete questo termine, che evidenzia anche la sua determinazione sul tema - è far crescere un senso di collaborazione e di responsabilità condivisa nella programmazione del futuro delle nostre parrocchie e istituzioni". E secondo Francesco, questo non significa affatto "rinunciare all’autorità spirituale che ci è stata conferita": piuttosto, "significa discernere e valorizzare sapientemente i molteplici doni che lo Spirito effonde sulla Chiesa". E "in modo particolare", sottolinea il Pontefice, significa "stimare l’immenso contributo che le donne, laiche e religiose hanno dato e continuano a dar alla vita delle nostre comunità". L’accento posto sul ruolo delle donne, oltre che dei laici, fa seguito anche all’omaggio reso due giorni fa dal Papa, durante i Vespri nella cattedrale di New York, alla suore americane ("che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi?"), verso le quali negli ultimi anni il Vaticano non è stato affatto tenero, con verifiche e anche con censure contro le posizioni più avanzate in tema, ad esempio, di sessualità e contraccezione. Un omaggio a cui il Papa ha comunque aggiunto una visita fuori programma anche a un convento di suore, le "Little sister of the poor", famose perché nel 2013 si sono appellate al giudice per denunciare l’Obamacare, la riforma sanitaria che tra le altre cose introduceva l’obbligo per i datori di lavoro di applicare la copertura assicurativa sui costi di contraccezione.
La spinta data oggi da Bergoglio su maggiori responsabilità a donne e laici, si inserisce anche nel processo di riforma del governo della Chiesa, che a breve terrà a battesimo una nuova Congregazione Laici-Famiglia-Vita, dove le donne potrebbero avere cariche di alto livello. Qui a Filadelfia, in ogni caso, il Papa è soprattutto per concludere il Meeting mondiale delle famiglie, che lo porta dritto anche nei temi del Sinodo di ottobre.
PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Marco 10, 2-16: Contro l’indissolubilità o a favore della donna?
[di don Aldo Antonelli] *
Ciò che è determinante nella comprensione di un qualsiasi testo o parola o fatto, non è la vista o l’udito ma il “punto di vista”, la “sitz im leben” dell’osservatore.
“Quiquid reciptur ad modum recipientis recipitur” era il detto che il mio professore di filosofia usava ripeterci, a noi alunni, per farci capire l’importanza del “punto di vista”.
Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve!
Questa premessa per significare l’utilizzo strumentale che si è fatto di questo passo del Vangelo (Marco 10, 2-16), sempre utilizzato a difesa di quella che è diventata una vera e propria ossessione nell’abito della chiesa: l’indissolubilità del Matrimonio!
E se provassimo a contestualizzare questo “dibattito” tra Gesù e i farisei?
In una società là dove le donne erano totalmente sottomesse all’uomo e ai suoi capricci?
Per meglio comprendere l’ambiente “pesante” per le donne del tempo, mi permetto di proporvi la lettura di questo passo di Molière, anche se vissuto ben sedici secoli dopo...(La scuola delle mogli):
«Solo dovere del vostro sesso è la sottomissione:
Chi porta la barba è l’onnipotente padrone.
Sebbene siamo due metà della società,
Tra queste due metà non esiste parità:
L’una è la metà suprema, e l’altra la subalterna;
L’una è sottomessa in tutto all’altra che governa;
E l’obbedienza che il soldato, addestrato al dovere,
Porta al suo capo che guidar lo deve,
Il servo al padrone, il figlio al padre,
E l’ultimo dei conversi al suo superiore,
E’ ancora nulla rispetto alla docilità,
E all’obbedienza, e all’umiltà,
E al profondo rispetto che la donna deve avere
Nei confronti del marito, sua guida, suo signore e padrone.
Quando egli la guarda con occhio severo
Il suo dovere è di abbassare subito gli occhi,
E di non osare mai guardarlo in faccia
Finché di uno sguardo benevolo egli non vorrà farle grazia».
In commento a questo brano José Antonio Pagola scrive:
«La cosa che più faceva soffrire le donne nella Galilea degli anni Trenta del secolo era la loro totale sottomissione all’uomo nella famiglia patriarcale. I loro mariti potevano perfino ripudiarle in qualsiasi momento, abbandonandole alla loro sorte. Secondo la tradizione giudaica, questo diritto si basava nientemeno che sulla legge di Dio.
I maestri discutevano sui motivi che potevano giustificare la decisione del marito. Secondo i seguaci di Shammai, si poteva ripudiare la moglie solo in caso di adulterio; secondo Hillel, bastava che la donna facesse qualcosa di “sgradevole” agli occhi del marito. Mentre gli uomini dotti discutevano, le donne non potevano levare la loro voce per difendere i loro diritti.
A un certo punto, la questione venne a Gesù: “Può un marito ripudiare la propria moglie?”. La sua risposta sconcertò tutti. Le donne non ci potevano credere. Secondo Gesù, se il ripudio è nella legge, lo è per la “durezza di cuore” degli uomini e per la loro mentalità maschilista, ma il progetto iniziale di Dio non fu quello di un matrimonio “patriarcale”, dominato dall’uomo.
Dio creò l’uomo e la donna perché fossero “una sola carne”. I due sono chiamati a condividere il loro amore, la loro intimità e la loro vita intera, con uguale dignità e in comunione totale. Di qui il grido di Gesù: con il suo atteggiamento maschilista, “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”»! (La via aperta da Gesù. Vol.2 - Borla).
Non aggiungo altro.
Le nostre ossessioni giuridiche sull’indissolubilità ci hanno imbottigliato dentro quella che Franco Ferrarotti chiamava la “cultura del paralume”.
Prigionieri delle nostre diatribe, siamo diventati incapaci di ricerca e di ascolto.
Buona domenica.
Aldo [Antonelli]
* Via mail
Papa: non contraddite con comportamento quanto predicate
A nuovi arcivescovi cui consegna il ’pallio’
Redazione ANSA *
CITTA’ DEL VATICANO.
"Non vorrei soffermarmi - ha detto il Papa all’inizio dell’omelia per la messa di consegna dei ’pallii’ ai nuovi arcivescovi metropoliti - sulle atroci, disumane, e inspiegabili persecuzioni, purtroppo ancora oggi presenti in tante parti del mondo, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti". "Vorrei invece oggi - ha detto - venerare il coraggio degli apostoli e della prima comunità cristiana, di portare avanti l’opera di evangelizzazione".
"La Chiesa non è dei papi, dei vescovi, dei preti e neppure dei fedeli, è solo e soltanto di Cristo", ha detto il Papa nella messa di san Pietro e Paolo, durante la quale consegna il "pallio" a 46 nuovi arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno. "Una Chiesa senza testimonianza è sterile", ha aggiunto papa Bergoglio, è "un morto che pensa di essere vivo, un albero secco che non dà frutto, un pozzo arido che non dà acqua".
"La testimonianza più efficace e più autentica è quella di non contraddire, con il comportamento e con la vita, quanto si predica con la parola e quanto si insegna agli altri": così il Papa concludendo l’omelia. "Insegnate la preghiera pregando; annunciate la fede credendo; date testimonianza vivendo", ha concluso. Il pallio è una stola di lana simbolo di unione tra il Papa e le chiese locali.
"Dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "La prossima settimana, dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus recitato in piazza dalla finestra dello studio su piazza San Pietro davanti ad alcune migliaia di persone - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi - ha aggiunto - di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "Esprimo alla cara popolazione dell’Ecuador, della Bolivia e del Paraguay - ha aggiunto - la mia gioia di trovarmi a casa loro, e chiedo a voi in maniera par di pregare per me e per questo viaggio, affinché la vergine Maria ci dia la grazia di accompagnarci con la sua materna protezione".
“La famiglia è in pericolo”
il manifesto per il sinodo dei cardinali conservatori
Da Ruini a Caffarra, undici prelati di peso rispondono alle aperture di Bergoglio: “No alla comunione ai divorziati e alle nozze gay. Fermiamo questa fase di disfacimento”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 27.09.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Alla «fase di disfacimento che non ha eguali nella storia» nella quale sono entrati nel mondo occidentale «il concetto di matrimonio come anche l’istituzione della famiglia», undici cardinali rispondono con un libro, le cui bozze sono state lette da Repubblica , appositamente scritto in vista dell’imminente Sinodo.
“Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali di undici cardinali” (Cantagalli) è il titolo di un lavoro che, nella sua tesi, risponde alle due relazioni con cui il cardinale Walter Kasper aprì nel 2014 alla comunione ai divorziati risposati. Non possumus è, nella sostanza, la risposta che Caffarra, Cleemis, Cordes, Duka, Eijk, Meisner, Onaiyekan, Rouco Varela, Ruini, Sarah e Urosa Savino mettono in pagina. «Ma tiene a precisare Winfried Aymans, curatore del libro il volume non è contro Francesco né contro Kasper e le posizioni di quest’ultimo più aperte. Piuttosto, in scia al Papa che ha incoraggiato la libera discussione su tali tematiche in seno alla Chiesa, ha lo scopo di offrire un contributo per un confronto che nell’aula sinodale avrà il suo momento clou. Il Sinodo, infatti, non è un Parlamento dove fazioni contrapposte combattono la propria battaglia, ma è un luogo di comunione nel quale ogni sensibilità ha diritto di esistenza».
Comunque sia gli undici, fra loro esponenti di peso della curia romana e pastori di grandi diocesi, non lasciano spazio ad aperture. E anzi, si oppongono a chi, come il presidente della commissione pastorale della conferenza episcopale tedesca, il vescovo di Osnabrück Franz-Josef Bode, ha chiesto sui divorziati risposati un «cambio di paradigma». È il cardinale Cordes a dire che Bode è ricorso «a munizioni pesanti» quando ha messo in campo, per sostenere la sua tesi, la Costituzione conciliare Gaudium et spes per spiegare come vita e dottrina non dovrebbero mai essere completamente separate. Eppure, incalza ancora Cordes, «l’appello di Bode a un cambio di prospettiva non è né originale né utile». Perché «l’ordinamento della Chiesa deve restare fedele al Vangelo e non ha il diritto di deformarlo». E ancora: «I divorziati risposati hanno infranto un inequivocabile comandamento di Gesù e vivono una situazione che contraddice in maniera oggettiva il volere di Dio. Ecco perché non possono ricevere l’eucaristia». L’unica soluzione per “risolvere” il problema è, per Cordes, la «comunione spirituale».
Al fondo delle tesi degli undici sembra esserci un approccio negativo al fenomeno della secolarizzazione. Essa, più che un’opportunità, è per loro un qualcosa da combattere. Nella società occidentale secolarizzata - scrive il cardinale Sarah -, «la dimensione della tristezza rivela la profondità della ferita inflitta alla verità e alla felicità umana. Le leggi sulle unioni omosessuali sfidano il buon senso, le statistiche sul divorzio rivelano una vera e propria “epidemia” e mostrano la fragilità di ogni impegno». A tal riguardo per Sarah «la Chiesa deve svolgere un’azione urgente di evangelizzazione».
Il “no” forse più netto alla comunione ai divorziati risposati viene dal cardinale Eijk, arcivescovo di Utrecht. La concessione della comunione è un pericolo da evitare. Perché «una volta accettata, accetteremo pure che il mutuo dono degli sposi non debba essere totale, né a livello spir