Fin dalla sua fondazione nel 2002 - ricorre infatti in questo 2012 il Decennale dalla sua istituzione - la Facoltà di Filosofi a dell’Università Vita-Salute San Raffaele si è caratterizzata per il pluralismo degli orientamenti fi losofi ci, per il reclutamento di un corpo docente di altissima qualità, presto rinforzato da giovani ricercatori selezionati su basi meritocratiche, nonché per la natura innovativa dell’insegnamento impartito.
Ciò è testimoniato sul piano dei contenuti da un’offerta didattica rappresentata ai massimi livelli tanto nell’ambito della fi losofi a continentale (nelle aree teoretica, ermeneutica, metafi sica, estetica, fenomenologica), quanto in quello della filosofi a analitica (logica, filosofi a della mente e del linguaggio, filosofi a della scienza, della matematica, logica e ontologia, semantica formale), a cui si aggiungono la storia della filosofi a e la filosofi a morale e politica.
A tutto questo si affianca, come elemento caratterizzante, un signifi cativo numero di insegnamenti raramente presenti nei corsi di laurea italiani, che spaziano dalle discipline scientifi - che come Genetica e antropologia, Fondamenti biologici della conoscenza, Linguistica generale, Intelligenza artifi ciale, Economia cognitiva, Neuroeconomia, Basi neurofi siologiche delle funzioni cognitive, ai corsi di Teologia biblica, Teologia moderna e contemporanea, Cultura ebraica, Civiltà islamica, Teoria politica, Geopolitica, Pensiero economico, Economia della globalizzazione.
Grazie a questo intreccio di diverse tradizioni di ricerca filosofica, religiosa, intellettuale e culturale, agli studenti viene offerta una formazione che scaturisce dal vivo del pluralismo contemporaneo, in termini di confronto sia fra culture sia fra discipline e metodi diversi - formazione che è alla base del successo che i laureati della Facoltà di Filosofia possono vantare nell’accesso al mondo del lavoro e della ricerca (master e dottorati di ricerca in Italia e all’estero).
Nel quadro di questo progetto, guidato da una tensione verso la libertà del pensiero e l’eccellenza degli studi (che caratterizza tutta l’Università Vita-Salute San Raffaele), hanno trovato e trovano spazio presso la Facoltà di Filosofi a alcuni dei più illustri pensatori e scienziati che il nostro Paese possa vantare.
Tra questi, a fianco dei docenti di ruolo come Michele Di Francesco, Roberta De Monticelli, Massimo Donà, Roberto Mordacci, Matteo Motterlini, Andrea Tagliapietra, si possono ricordare numerosi professori a contratto che hanno offerto e offrono il loro autorevole contributo, tra cui Salvatore Natoli, Umberto Curi, Enzo Bianchi, Guido Rossi, Luigi Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Giacomo Rizzolatti, Andrea Moro, il compianto Enrico Bellone, Giorgio Cosmacini, Achille Varzi, Andrea Bonomi, Andrea Bottani, Massimo Piattelli Palmarini.
Per questi motivi, noi professori a contratto della Facoltà di Filosofi a vogliamo esprimere la nostra soddisfazione nel lavorare con tanti illustri colleghi e tanti giovani preparati e impegnati in un progetto così significativo di didattica e ricerca, e siamo certi che le difficoltà ben note sorte nella complessa e, per tanti versi, straordinaria impresa del San Raffaele, troveranno presto defi nitiva soluzione.
Il bilancio di questo primo decennio appare infatti decisamente positivo, e rappresenta il miglior viatico per guardare al futuro. Anche in un periodo diffi cile per il nostro Paese e per il complesso ospedaliero del San Raffaele, la Facoltà di Filosofia non ha cessato di progettare e innovare.
A maggior ragione ora che la situazione problematica attraversata dall’Ospedale San Raffaele si è risolta positivamente con l’arrivo di una nuova Proprietà interessata al suo rilancio e dopo che l’Università Vita-Salute è uscita indenne dalle difficoltà, grazie ai suoi bilanci in ordine e all’impegno di tutto il corpo docente, ci sembra importante testimoniare come la tensione verso l’eccellenza che ha accompagnato fin dalla nascita la Facoltà di Filosofia sia tuttora viva e salda, e caratterizzi il suo presente e il suo futuro.
Massimo Cacciari, Edoardo Boncinelli, Elena Loewenthal, Alberto Martinelli, Angelo Panebianco, Giovanni Reale, Marco Santambrogio, Emanuele Severino, Vincenzo Vitiello.
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"Avviso a pagamento" apparso su "la Repubblica" del 23 luglio 2012 (pag. 32)
Dieci anni di Filosofia al San Raffaele Università Vita-Salute San Raffaele
Facoltà di Filosofia
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Un saggio di Massimo Cacciari /
Attualità di Musil. Paradiso e naufragio
di Paolo Perulli (Doppiozero, 15 aprile 2022)
Il densissimo saggio di Massimo Cacciari (Paradiso e naufragio, Einaudi 2022) dedicato all’Uomo senza qualità di Robert Musil ne riscrive l’interpretazione, mettendo in evidenza la ricerca dell’uomo contemporaneo e le sue aporie. Mentre nella prima parte del romanzo domina l’ironia verso i protagonisti della Grande Stupidità dell’Azione Parallela, ministri e banchieri, gran dame e borghesi, nella seconda parte cambia tutto. Il tono si fa partecipe e commosso, seguendo la ricerca impossibile di unione mistica dei “fratelli siamesi”, Ulrich e Agathe, in un amore che è una via moderna verso Dio. Questa impossibile possibilità colora l’intero romanzo, inducendo a rileggerlo in una chiave diversa.
L’uomo moderno crede in Dio o nel proprietario della ditta mondiale? È questa ironica domanda che introduce il tipo capitalista, rappresentato da Arnheim. Egli nella propria “visione del mondo” pensa che il denaro sia la forza duttile e fantasiosa che permette di regolare i rapporti umani senza ricorrere alla coercizione. A lui si contrappone il tipo creativo rappresentato da Ulrich, l’uomo senza qualità. Nel grande romanzo la sua ironica intelligenza guida e infine affossa l’Azione parallela, che deve celebrare l’Impero ormai in decadenza, con disperato disincanto. Nel secondo volume del romanzo Ulrich, grazie all’incontro con la sorella dimenticata, Agathe, entra in un’“altra” dimensione della ricerca. Essa si sviluppa attraverso i “dialoghi sacri” tra Ulrich e Agathe, verso il Regno Millenario. La conclusione del romanzo interrotto vede messi a confronto due tipi d’uomo: quello appetitivo e quello contemplativo. Il primo è l’attivista, guidato da “impaziente agire”. Il secondo è il nichilista che “sogna i sogni di Dio”. Ulrich e Agathe erano ora l’uno ora l’altro, secondo i casi.
L’uomo senza qualità descrive quindi una parabola che - spiega Cacciari - non si conclude. Punta sulla distinzione e sull’unicità dell’azione e dell’opera perseguita con rigore, nonostante sappia bene che la morale è in crisi o in dissoluzione. Ma il mondo comune chiede la riproduzione, la serialità, la stereotipia in tutti i campi, perfino nelle passioni. L’intero mondo si basa sulla ripetibilità, e il denaro ne è la forza spiritualizzata. Scrive Musil in La conoscenza del poeta. Saggi (pref.di Claudia Monti, Sugarco 1979) che è la necessità di orientamento pratico che spinge alla stereotipia (Formelhaftigkeit). Concetti, gesti, impressioni dei sensi sono soggetti a questa formalità, a questa natura convenzionale. Per liberarsene occorrerebbe liberarsi dello stato normale, pratico ed effettivo, dell’uomo. Se questo accade non resta null’altro che la zona oscura dell’“altro stato”, nel quale cessa provvisoriamente ogni cosa. Si tratta del negativo, assunto come laboratorio di una sperimentazione che superi la norma, e la stessa normalità. Verso che cosa? Verso un possibile, un non-ancora. L’uomo possibile, che è un altro modo di dire l’uomo senza qualità, punta a una possibilità che non è ancora realtà, semplicemente perché le attuali circostanze non glielo permettono. Se lasciamo che questa possibilità si sviluppi, ecco che nasce l’utopia.
L’uomo senza qualità sta come un equilibrista in costante tensione tra normalità e utopia. Se si appiattisse del tutto sulla normalità diverrebbe immediatamente banale, kitsch. Se invece si identificasse nel non-ancora, si condannerebbe all’inattua(bi)lità delle proprie idee.
L’uomo senza qualità, per sfuggire alla ripetitività della vita pratica, ricorre all’“altro stato”, quell’alterità che finisce per essere mistica - un viaggio senza ritorno, una condizione di incessante creatività cui però viene meno il collegamento con l’atteggiamento usuale. E quindi non può estendersi alla totalità, conclude Musil.
Un ponte può essere gettato dall’artista tra normalità stereotipata e trasgressiva alterità? È quanto Musil tenta nel suo grande romanzo, senza riuscirci né arrivare a una sua conclusione. Il fallimento di quel ponte, su cui si avventurano i due protagonisti del romanzo, i fratelli Ulrich e Agathe, corrisponde del resto al fallimento di ogni “sistema” che pretenda di riunire l’“utopia della vita esatta” e la “vita dello spirito”. Tra essi, c’è un bilancio complicato. E da qui prende le mosse, da quel ponte già crollato, il testo di Massimo Cacciari. Egli indaga l’inaudita scommessa di Musil: inventare la forma capace di narrare l’“altro stato”, l’incontro e la compenetrazione tra i due fratelli come un tutto unico di distinti. Il sogno di essere due creature e una sola. Oscillando tra abbandono mistico e cupio dissolvi, i Gemelli continuano la loro ricerca, “utopia degli indisgiungibili mai uniti”.
Ma su questa via e prima della impossibile conclusione, si sperimentano nuovi modi ancora incerti di essere uomo: questa dell’uomo senza qualità potrebbe rappresentare una suggestione, di più, una vera e propria direzione di marcia. Non rivolta all’utilità ma diseconomica e appassionata, rivolta all’incerto e all’avventura. Ma come evitare il naufragio dell’opera, quello che incombe sul romanzo di Musil e forse su ogni opera, nell’epoca attuale che vuole trasformare ogni cosa in valore di scambio?
L’uomo matematico, quello che calcola e ricerca un immenso sistema di risparmio, era stato definito da Musil già nel 1913, e sarà poi Ulrich nell’Uomo senza qualità (1930-1943). Cacciari lo definisce l’uomo statistico. È lo specialista, perché nessun genio è in grado di dominare l’insieme. Crede che quello che egli fa frutterà anche, prima o poi, un profitto. Appare quindi affine all’uomo economico, su cui l’economia, la Ricchezza delle Nazioni, ha costruito la sua visione del mondo. Ma non è questo interesse economico che lo sprona, che lo muove: egli è al servizio della verità, cioè del proprio destino, e non del suo scopo. In estrema densità è qui contenuto il dilemma eterno del tipo creativo, che crea l’opera ma per il mercato.
Il creativo è, ieri e anche oggi e forse sempre, sapere senza potere. Ma se il lavoro fosse lavoro dello spirito (M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi 2020), quell’unione di professione e vocazione che non richiede compenso perché esso è già dato nella sua stessa manifestazione creativa?
Esattezza e indeterminatezza: sono questi i due poli opposti che si compongono nell’uomo senza qualità, in Ulrich che ricerca. Analizziamo il primo polo: matematici, fisici, tecnologi si danno la mano nel costruire attraverso nuovi calcoli, le macchine. Ma essi ben presto si rendono conto che ne mancano i fondamenti, che l’edificio poggia sull’aria: eppure le macchine funzionano! Metafora musiliana dell’intera nostra esistenza, un pallido spettro: la viviamo sulla base di un errore.
Eppure l’uomo matematico non rinuncia al proprio calcolo, ha piena fiducia nel proprio ingegno. Anche senza fondamento procede nella costruzione della sua opera. E qui veniamo all’altro polo, quello dell’indeterminatezza. Sono al lavoro, nella nostra epoca, forze spirituali che si muovono verso una meta, quella del pensare. Con profondità, audacia e novità il pensiero procede, per il momento verso quello che è esclusivamente razionale e scientifico. Ma questo intelletto, osserva Musil, si espande intorno a sé e non appena tocca il sentimento, diventa spirito. Compiere questo passo spetta ai poeti.
Ulrich non intende seguire né una vita da sperimentatore né una vita “alla luce della scienza”, bensì una ricerca del sentimento simile alla ricerca della verità, salvo che non si tratta della verità. È davvero “un uomo del domani”. Non sarà un caso che i tipi creativi mettano insieme ingegneria e impossibile. Il mondo musiliano è fatto di casi che avvengono, o che possono avvenire. Ma i casi avvengono secondo ordini, assumendo così il loro valore statistico. Però esiste anche il possibile, e l’uomo possibilista è quello che compie l’invenzione: inventa la realtà anziché considerarla uno stato di fatto. Questa realtà possibile è quella priva di qualità definite, e per questo “senza qualità”.
“Perché non siamo realisti?” si chiede Ulrich nelle ultime righe del romanzo.
Ma il possibilista - osserva Cacciari - assai più del realista sa cogliere le continue possibili criticità del mondo, è consapevole che in ogni punto il “sistema” può collassare. È la realtà tutta ad apparire null’altro che un possibile.
Se la Storia non ha autore e il presente è il luogo che nessuno conosceva e dove nessuno desiderava andare, anche l’Io non è affatto il sovrano che compie atti di governo. Entrambi, sistema-mondo e individuo, sono incalcolabili. L’analogia con la crisi attuale non potrebbe essere più chiara. A distanza di un secolo Musil parla di noi.
«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente»
Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne
di Massimo Cacciari (L’Espresso, 05 Aprile 2021) 05 Aprile 2021
Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci.
Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere.
Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria.
Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale.
Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile?
Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
Memoria /memorie
Lettera a Emanuele Severino
Intorno a una - eterna - lezione
di Roberta De Monticelli (Il Mulino, 24 gennaio 2020)
Caro professore,
se l’essere nella Gioia, come spero, le consente di ricevere qualche lettera senza che la Gioia sia interrotta dalla noia di leggerla, lasci pure che questa mia si depositi come foglia, soffio, ombra, umana illusione, fiato di voce o scintillio d’inchiostro là dove i più fra noi, tardi di mente e innamorati del visibile, stoltamente dimorano: nel Cerchio dell’Apparenza.Non turberà l’eternità dell’esser suo, caro professore, questo cicaleccìo di una collega invisibile, sì, proprio quella dell’aula accanto, quella del giovedì. O forse era martedì? Che cosa conta, e chissà mai perché poi avevamo quest’abitudine di onorare gli orari di lezione, questa conformistica, veramente illogica acquiescenza alla misurazione di ciò che non esiste, il tempo. Lei poi arrivava puntualissimo, molto più di me. Ben me ne accorgevo ogni volta che la folla dei suoi allievi in festosa attesa faceva barriera davanti a tutte le porte dello stretto corridoio su cui si aprivano le nostre aule, e i quattro gatti della mia classe e io restavamo bloccati per un pezzo, prima di entrare, con loro e mio rimpianto, nell’auletta degli esercizi di fenomenologia, piena di controversie e dubbi, invece che nella luce dell’incontrovertibile. Dove per due ore quelle menti giovinette e incerte, anzi certamente scosse da ogni sorta di amore e di terrore, si sarebbero spalancate alla ben rotonda verità dell’Essere, indefettibile e immobile: che sarebbe fluita senza interruzione alcuna dalle sue labbra, nel più religioso silenzio.
Lei cominciava col ben disporle, le menti, al saldissimo fondamento dell’epi-steme - diceva così, mi arrivava il suono della sua voce che inesorabilmente spezzava la parola greca, sapientemente appoggiando, con la pausa, la voce alla solidità di ciò che sta. Il sapere che sta, e non importa dove e come. Di là dalla parete, sentivo l’ombra di Socrate, smarrita, emergere come un fantasma da quella lineetta, da quella pausa che spezzava la parola, e come in un grido afono, beckettiano articolare con la bocca muta parole simili a sospiri: conoscenza... opinione vera e... giustificata... le ragioni, vi prego, le ragioni... Le ragioni per dirlo. L’evidenza per riconoscere che è vero - fino a prova contraria. Altro che stare. Quelli che stavano lì, immobili, ierocratici, erano i dignitari immensi della statuaria babilonese; a me veniva in mente ogni volta la stazione centrale di Milano, e certo subito ne arrossivo. In Grecia erano mobilissimi anche gli dei, invece, pieni di bizze e voglie, di splendori e di furia e di grazia, come i ragazzi e le ragazze che lei sapeva affascinare e render muti - come in un’estasi iniziatica.
Così, una volta che la mia lezione cominciava più tardi, l’ardente desiderio mi prese - chissà, l’invidia - di carpire il segreto di quel fascino. E assistetti alla mirabile dimostrazione “parmenidea” dell’impossibilità di far domande, con cui quel giorno si apriva il suo corso. E fremetti anche io dall’ammirazione, caro professore. Con quella voce così musicale, e insieme ieratica, quella sì, come se non si svolgesse affatto nel tempo: «Chi domanda è evidentemente nella non-verità. Ma dall’essere nella non-verità non c’è via all’essere nella verità. [Pausa]. Non c’è via. Per la contraddizione, che non la consente». Come invidiai questo modo così suadente di trasformare in un silenziatore il paradosso platonico della conoscenza, quello che introdusse nella nostra mente e nella nostra storia l’idea della ricerca, l’idea più sconvolgente e più controvertibile! Anzi controversa, al punto che bisognò morire, con Socrate, e mica una volta sola, perché l’idea vivesse, e la ricerca pure, e da questo sfacciato parricidio, da questa insolente perplessità che obietta alla ben rotonda verità dell’Essere, nascessero, come in una cosmogonia esiodea, la Disputa e l’Argomentazione, il Dubbio e la Scoperta, il disprezzo del sentito dire e la gioia del vedere, e la veglia e la critica, e il demone giocoso eppure serissimo della ragione.
Che non è affatto una dea barricadiera e neppure una prosopopea della storia, ma solo l’irriguardosa, umile, ridente e dolente giovinezza dell’età adulta, quando ancora ha freschezza e speranza per dire, ad esempio: “No, a nessun prezzo mi si imporrà questo, piuttosto morire”; oppure “E perché no? Perché mai le cose non dovrebbero avvenire così, anche se non le vedo ancora? Perché mai, contro la tesi di un famoso professore italiano del Novecento, il possibile non dovrebbe essere tale, cioè forse vero, anche se non lo vedo?”. La filosofia, mi dicevo, non è che questo doppio ricciolo interrogativo, l’essere disposti a chiedere e dare ragione di ciò che si dice e di ciò che si fa, o di ciò che ci viene detto o imposto: e la Ragione non è affatto soltanto nostra natura, anzi! È una disponibilità, non una disposizione: si risveglia soltanto con la libertà. E ancor meno somiglia, la Ragione, a quella sorta di indomabile potenza della storia che lei, professore, e il suo predecessore tedesco chiamavate “la Tecnica”. Per carità, quel suo predecessore sì che era pericoloso: il suo, di Essere, odorava lontano un miglio di Blut und Boden.
Della tecnica invece continuavamo a servirci ogni volta che dovevamo compilare i registri elettronici, e meno male, con tutti gli allievi che aveva. Per non parlare poi del sollievo di evitare i denti strappati dalle gengive deste e sanguinanti... (mi perdoni, la natura femminea si distrae sovente in pensieri banali). Che poi, se anche sostituissimo a questo nome, “la Tecnica” (preferito nei suoi elzeviri), uno degli altri e numerosi nomi divini di quella potenza assoluta che ci destina a questo e quell’altro (il Destino dell’Occidente, il Capitalismo, il Potere, il Denaro), cambierebbe poco. Sospetto che quello che le Sue parole inducevano nell’anima dei suoi ascoltatori e lettori fosse una specie di rilassamento - in tedesco mistico si dice Gelassenheit - o meglio un gesto di virtuale auto-destituzione del soggetto morale in noi, un abbandono della responsabilità. Un gesto ben nascosto dietro l’ombra della macchinazione universale che di tutto ha colpa, e libera da ogni responsabilità nell’uso delle parole noi intellettuali, giornalisti, politici, professori, studenti, pensionati... Tutti noi operai del linguaggio.
Insomma, a pensarci bene, anche questa destituzione in noi dell’agente razionale e morale, sensibile e responsabile, era un atto di libertà - peccato, però, che fosse nella direzione della più perfetta sottomissione. Sarà per questo che i suoi ragazzi amavano tanto anche Spinoza? Libertà come inchino alla necessità? Curioso equivoco, a leggere l’autore del Trattato teologico-politico e il teorico della democrazia! Ma non divaghiamo.
Perché la ragione, appunto, o meglio il suo esercizio, è una libera disposizione, cui si può spavaldamente rifiutarsi o che pavidamente si può lasciar sopire: e fatica comunque a liberarsi come il ragazzo fatica a diventare adulto. Così che molti, nei tempi antichi e in quelli moderni, negli imperi dispotici e nelle comunità tribali, consigli di facoltà compresi, nelle città ierocratiche e in quelle demagogiche, responsabili di sé e di fronte al vero non lo diventano mai, e vivono di fake news e di costumi consortili.
Per questo, caro professore, è un vero peccato zittire Socrate in culla, e farlo rimangiare da Parmenide, come da un Crono divoratore dei propri figli: perché proprio da quella fessura nella ben rotonda compattezza dell’Essere, dalla possibilità del non essere, è nata la fragile bellezza della nostra mente, la sua umiltà di fronte all’inesauribile vero e la sua fierezza di consentire - o no - alla legge. Per quella fessura è passato il doppio palpito della civiltà, il cuore pratico e quello teorico del nostro domandare ragione, cioè, infine, l’etica e la logica, la democrazia e la scienza. Che passando da quella fessura si sono lentamente fatte largo, in mezzo alle tragedie dei millenni.
Perdoni, professore, sento che la sua eterna essenza oppone un cortese ma fermo diniego all’opinione che Socrate per la dolente e felice fessura del parricidio, perché di lì passasse il possibile senso e valore della vita umana, morì proprio. Come morirono molti e molti altri suoi discendenti. Quella volta, finita la lezione, lei, con la sua grande e signorile cortesia, e dopo un baciamano galante che mi spense subito in gola ogni obiezione e mi accese un sorriso di gratitudine, mi accompagnò nel corridoio, fra due ali di giovinetti plaudenti, e c’era anche qualche dame à chapeau che mi lanciò un’occhiata di invidia. Che vuole, il suo fascino ammutolì anche me, e così mi rimangiai questa lunga obiezione che per tutta la lezione avevo rimuginato. E so che non è affatto troppo tardi per rivolgerla ora alla sua essenza eterna, dal di qua al di là del cerchio delle apparenze. Poco importa, su questo sono d’accordo con lei. Continuerà, col suo sorriso (tout just un peu compatissant, comme c’est le cas avec une dame) a lasciarmi disputare con lei, con parole sempre più affannate - come ho fatto tutta la vita.
Trump sospeso dai social, Cacciari: "E’ pazzesco"
di Redazione Adnkronos *
"C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump". E’ l’opinione di Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, che interviene con l’Adnkronos sulle polemiche che ha suscitato l’eliminazione dei post di Trump da parte di Twitter e la sospensione dell’account da parte di Facebook, Instagram e altri social in seguito all’assalto al Congresso.
"Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. E’ una cosa semplicemente pazzesca", incalza Cacciari.
Che spiega meglio nel merito: "Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy, che decide ’questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare. Cioè deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo".
* Fonte: Adnkronos, 08/01/2021 10:31 (ripresa parziale).
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
17 gennaio 2020
Nel castello incantato di Emanuele Severino
di Alessandro Carrera (Doppiozero, 24.01.2020)
Emanuele Severino è mancato il 17 gennaio, ma per sua espressa volontà lo si è saputo soltanto a funerali avvenuti. Nella sua lunga vita (era nato a Brescia il 26 febbraio 1929), in più di ottanta libri e centinaia di articoli, Severino ha edificato un sistema filosofico che è paragonabile solo a un castello incantato, nel quale è facile entrare ed è poi molto difficile uscire. Il lettore che ne voglia esplorare anche solo una parte deve essere avvertito che gli ci vorrà del tempo prima di rendersi conto delle maestose dimensioni dell’edificio. Anche se l’architettura appare troppo classicamente solida per una sensibilità postmoderna, piace perdersi nelle sue stanze e corridoi. Dopotutto, la mappa è tracciata fin dall’inizio, da La struttura originaria (1958) e dall’articolo sul Ritorno a Parmenide (1964). Severino ha avuto la fortuna di procedere per variazioni infinite di poche ma forti idee fondamentali, ed è per amore di queste variazioni che non si desidera uscire. Ci si aspetta una svolta che aprirà una visita inaspettata, l’improvviso movimento di una tenda che permetterà di gettare un’occhiata su ciò che fuori da quelle mura imprendibili il mondo contemporaneo è diventato.
Ecco da uno spalto il triste destino di una teologia che non sa far altro che dissezionare Dio, ecco da un balcone il panorama dell’inevitabile declino di tutti i sistemi totalitari, incluso il capitalismo planetario che si ritiene così invincibile, ecco da una finestra lasciata aperta un soffio di vento gelido mentre di sotto la parata militare della tecnologia non smette di celebrare i suoi trionfi. Per un momento ci si può consolare pensando che finché resteremo nel castello saremo al sicuro. Se là fuori tutto appare transitorio e destinato a decadere, dentro tutto è incontrovertibile, eterno, gioioso e glorioso. Ma sarà Severino stesso, con la squisita cortesia che gli era propria, a rivelare all’incauto visitatore l’errore che ha commesso. Non c’è sicurezza dall’onnipresente nichilismo di una civiltà che non ha mai messo in discussione la credenza in base alla quale “tutto deve passare”, tutto prima o poi sarà nulla. Bisogna piuttosto iniziare a pensare l’opposto: che nulla passa e che tutto è eterno, dentro e fuori il castello. Anzi, per essere più accurati, tutto “oltrepassa”, tutto oltrepassa la soglia di ciò che appare svanendo nella terra invisibile di ciò che non appare, ma che non per questo “non è”, perché non c’è luogo dove ciò che è stato possa cessare di esistere.
Stupito, anche un po’ intimidito dalle dimensioni grandiose di ciò che gli è stato rivelato, il viaggiatore trova il coraggio di obiettare che la saggezza del mondo dice, al contrario, che non c’è luogo dove ciò che non è più presente possa continuare ad essere, come non c’è luogo dove ciò che non è ancora possa già stare, ma Severino non gli dà tregua: dunque lei mi sta dicendo che l’essere può diventare non-essere e che il nulla può diventare essere? E come, di grazia? In base a quale miracolo? Forse la creazione divina? Ma se Dio ha creato un mondo che può anche distruggere, allora non ha creato nulla, ha creato solo del nulla. E lei davvero crede a questo?
Quando Nietzsche ebbe il primo barlume dell’Eterno Ritorno, si sentì esaltato e terrorizzato. Heidegger, per parte sua, lamentava l’inadeguatezza del linguaggio che non era in grado di superare le definizioni tradizionali dell’essere e non sapeva parlare adeguatamente dell’Evento che scandisce l’essere in differenti “invii”, o epoche. Rispetto a queste esaltazioni e lamentazioni, Severino suggeriva piuttosto che l’impossibilità di razionalizzare la logica del divenire deve essere oltrepassata dalla consapevolezza che la nostra transitorietà e anche le nostre sofferenze sono già comprese e dunque risolte nella Gloria dell’essere, la cui connotazione emotiva fondamentale (che non è più nemmeno un’emozione ma una determinazione ontologica) è la Gioia.
Fermamente anti-nietzschiano e anti-heideggeriano, Severino si è opposto per tutta la vita alla sottomissione dell’essere alla tirannia del tempo e del divenire. In risposta a questa “follia dell’Occidente”, come l’ha ripetutamente chiamata, Severino ha perciò elaborato la dottrina di una triplice eternità: eternità dell’ente (di tutti gli enti, anche di quelli più effimeri), eternità dell’orizzonte (del contesto) in cui l’ente appare, ed eternità dell’ordine nel quale gli enti si celano o si mostrano rispetto all’orizzonte dell’apparire. La fortezza parmenidea e antiplatonica che Severino ha costruito non intende dimostrare che l’esperienza quotidiana del mondo sia soltanto un’apparenza e che noi viviamo nel Velo di Maya o in qualche Matrix hollywoodiana. Al contrario, Severino sostiene che ogni apparenza è, non importa quanto ingannevole appaia, dal momento che dopotutto non è un niente e dunque non può trovarsi al di fuori dell’essere. Che tutto esista per sempre e che tutto sia eterno non significa che il mio io empirico sia immortale - l’eternità non è l’immortalità - ma che ogni “istantanea della realtà”, se è, è per sempre, non c’è un passato in cui non era e non c’è un futuro in cui non sarà.
Non sto parlando da severiniano. Non sono stato un suo allievo e nemmeno sono un suo seguace. Ho incontrato il pensiero di Severino nel corso di una riflessione che partiva dalla fenomenologia di Carlo Sini per poi concentrarsi sui meriti e le aporie delle critiche severiniane ai campioni dell’ultima metafisica europea. Severino non prese affatto male le mie perplessità nei confronti di vari aspetti del suo pensiero. La prima volta che ci sentimmo al telefono, dopo che io gli avevo mandato il mio La consistenza del passato. Heidegger Nietzsche Severino (Medusa 2007), mi disse divertito che nel mio libretto “davo delle belle mazzate”. Fu l’inizio di un lungo dialogare, mantenuto sporadicamente per dieci anni, dal 2008 fino al convegno per i suoi novant’anni, tenuto a Brescia nel 2019, ma soprattutto nella sua casa, tra i suoi libri, il pianoforte, la musica che era stata la sua prima passione e lo era ancora, anche se non mi veniva incontro su compositori che lo incoraggiavo ad ascoltare (Schönberg, la seconda scuola di Vienna) e che restavano lontani dalla sua sensibilità. Erano conversazioni rare ma meravigliose, incredibilmente serene, condotte in un’assenza di tempo che a volte durava un’intera giornata (non posso evitare il paradosso di dare una durata al non-tempo severiniano), finché ebbi notizia da Massimo Donà che esisteva una traduzione inglese completa di Essenza del nichilismo (2° ed. Adelphi 1982) uno dei libri fondamentali del canone severiniano, ad opera di Giacomo Donis, approvata dallo stesso Severino, e che per varie ragioni non era mai stata pubblicata.
Decisi in quel momento che dovevo far pubblicare quel libro. Non perché mi fossi convertito al severinismo, la mia formazione fenomenologico-ermeneutica non me lo permetteva (ma alla filosofia di Severino, che non ha mai preteso di essere una religione, ci si può convertire come se lo fosse, come del resto è accaduto all’heideggerismo). Volevo che Essenza del nichilismo potesse circolare in inglese, e quindi potenzialmente ovunque, perché ha cose da dire che forse nessuno ha detto con la stessa chiarezza. Ne scelgo una: quando Platone “scarica” Parmenide, nonché la rigorosamente binaria dottrina parmenidea (l’essere è, il non-essere non è, non si dà una dimensione intermedia), per sostituirla con quella “mescolanza” di essere e non essere che costituisce il “mondo” - ecco, quando Platone fa questo, non solo crea il “mondo di Platone” ma anche il mondo in cui tutt’ora vive l’intero occidente, il mondo fatto di apparenze e di idee, di cose ed esseri viventi che misteriosamente giungono all’esistenza e altrettanto misteriosamente ne escono (ed era un entrare e uscire dall’essere che peraltro risultava misterioso anche a Platone).
Il mondo di Platone, aggiungerei, è il “significato” di un “significante” (la “mescolanza”) che nella luce dell’apparizione dei fenomeni ci fa percepire l’ombra della perduta pienezza dell’essere parmenideo, pagando però il prezzo della nullificazione dell’unità dell’essere stesso - il prezzo insomma del nichilismo, l’adeguamento alla convenzione secondo la quale il mondo dopotutto è un nulla: una volta non c’era, adesso c’è, un giorno - quando Dio vorrà o quando lo deciderà la tecnologia - potrebbe non esserci più. Davanti a questo nichilismo dispiegato sono possibili, per me, due risposte. La prima è quella che, semplificando, ricavo da Carlo Sini: le cose che ci sono, in quanto e per quanto sono, “valgono la pena”, e il vero nichilismo è pensare che siccome un giorno non ci saranno più sono già un nulla anche adesso. La seconda è quella di Severino, il quale assume su di sé il compito colossale di ricondurci a fronteggiare l’intollerante assolutezza dell’essere, il suo Reale inscalfibile, sapendo bene che il suo discorso non può che apparire paradossale e insostenibile proprio alla stessa filosofia platonico-aristotelica fondata sulla dismissione di quell’Uno parmenideo, di quel Reale.
Ma, come ho detto, non c’è bisogno di convertirsi al severinismo per cogliere l’audacia del suo tentativo, e delle scoperte che permette anche se non ci si dichiara d’accordo con l’impianto che le anima. Perché questa audacia potesse incontrare lettori fuori d’Italia, e perché il quadro della filosofia italiana conosciuta all’estero non mancasse di questa figura, mi sono dedicato per anni a far trascrivere, editare e poi cercare di pubblicare il manoscritto di Essenza del nichilismo in inglese. È stato poi grazie all’aiuto di Ines Testoni, Università di Padova, allieva del Maestro, che molti problemi pratici sono stati risolti e The Essence of Nihilism è uscito da Verso nel 2016, a Londra e a New York, a cura di entrambi.
Severino ha avuto in sorte molti anni per limare e rifinire le sue idee, ma ce ne vorranno molti altri per poter assorbire e decantare le sfaccettature del suo insegnamento, perché se all’inizio di un filosofo impressiona e magari disorienta il sistema, con il tempo prendono luce i dettagli. Delle perplessità che avevo espresso nei suoi confronti in quel mio libretto del 2007, alcune le difenderei ancora; altre no. Venivano da un presupposto “costruzionista” o “correlazionista” che allora non avevo messo in discussione e che oggi sarei più cauto a utilizzare. Consisteva nel dare per scontato che ciò che Severino chiama “totalità dell’apparire” deve pur apparire a qualcuno, e che se c’è esperienza ci vuole un soggetto che faccia esperienza.
In Severino, il soggetto non c’è. C’è il “mortale”, che è mortale solo perché non sa di essere eterno. Ma il suo inconscio lo sa. (Non è l’inconscio della psicanalisi, è l’inconscio dell’essere stesso, ma sono più vicini di quanto non sembri.) Non avevo considerato adeguatamente, allora, che si danno esperienze soggettive senza soggetto (il sogno, il trauma). Il soggetto, retroattivamente, comprende di averle esperite, e anzi da tale esperienza retroattiva viene costituito come il soggetto che è. Nulla di tutto ciò concerne il sistema di Severino (un castello nel quale è facile entrare e difficile uscire, il che è un altro modo di dire che è ossessivamente autoreferenziale), ma tener presente i limiti intrinseci del costruttivismo mi avrebbe permesso di capire meglio in che senso la filosofia severiniana non ha bisogno di un soggetto cartesiano che si fa un’immagine del mondo o che “si trascende” verso il mondo,come invece accade nella tradizione fenomenologica.
Oggi mi sentirei di affermare che una parola decisiva sull’eredità di Severino potrebbe venire dal confronto con la scienza. Chiedo scusa al lettore più avvertito perché mi dovrò esprimere, causa ignoranza, in maniera molto rozza. Il grande dibattito della fisica del ‘900, e che si prolunga nel XXI secolo, è l’apparente incompatibilità tra la relatività generale e la meccanica quantistica, tra il continuum spazio-temporale e il salto quantico. Nella fisica quantistica non abbiamo più a che fare con il mondo come correlato dell’esperienza; l’osservatore di Heisenberg non è un soggetto trascendentale, non ci dà una “immagine del mondo”, il risultato dell’osservazione non è circoscrivibile da un pensiero oggettivante, né lo si può pensare senza servirsi del linguaggio matematico. Come dobbiamo comprendere dunque il lavoro della natura, dell’universo, o dell’essere stesso? Come una durata, come un “processo” (A. N. Whitehead, Processo e realtà, 1929, ora Bompiani 2019)? Come un “cambiamento” che non ha luogo nel tempo perché è esso stesso a generare il tempo (Julian Barbour, La fine del tempo, Einaudi 2015)? Oppure come un accadere di eventi quantici discreti, secondo quanto sostiene Gerard ‘t Hooft (Premio Nobel 1999), il quale propone di quadrare il cerchio tra relatività generale e meccanica quantistica negando la casualità heisenberghiana e proponendo un determinismo pressoché assoluto nel quale il divenire non ha luogo e il tempo non è un fattore?
Chi ha ragione? Non lo so. Quale teoria prevarrà? Non ne ho idea. Ma proprio il fisico olandese è entrato in dialogo con Severino in un convegno e poi in un libro a cura di Fabio Scardigli (Determinism and Free Will: New Insights from Physics, Philosophy, and Theology, Springer 2019), al quale hanno partecipato lo stesso ‘t Hooft, Severino e Piero Coda. Nessuno nega che il cambiamento abbia luogo, e chiamarlo continuum, durata, processo o salto quantico non cambia il credito di vita che ci è dato quando veniamo al mondo (che sia il mondo platonico o meno), ma la questione è dove dobbiamo puntare il nostro sguardo teoretico, e se il cambiamento da uno stato all’altro, o da una configurazione del processo all’altra, possa ancora essere compreso attraverso le categorie ereditate dalla metafisica con il nome di essere e divenire. Questa è forse l’ultima sfida a cui ci chiama il pensiero di Severino, questo chiamare in causa la scienza ottenuto - e questo va tutto a suo onore - con le pure armi della filosofia.
Il ricordo del filosofo.
Severino, il nuovo Parmenide che scommetteva sull’eterno
Chiamato alla Cattolica da Gustavo Bontadini, in seguito a pubblicazioni sempre più problematiche in merito alla fede cristiana, si avviò una controversia che lo portò a trasferirsi a Venezia
di Francesco Tomatis (Avvenire, mercoledì 22 gennaio 2020)
Essere o divenire? L’elaborazione filosofica del metafisico, già allievo di Bontadini, riprendeva i presocratici. Si laureò su Heidegger, che si è scoperto recentemente leggeva il nostro autore Diffusa ieri la notiza della sua scomparsa, a Brescia il 17 gennaio: stava per compiere 91 anni.
Da alcuni considerato il maggiore filosofo italiano vivente, negli anni 60 entrò in conflitto con l’Università Cattolica, ma poi aveva dato una lettura più distaccata della vicenda. Seguendo gli antichi, mise al centro il principio di non-contraddizione, Emanuele Severino resterà eternamente un grandissimo filosofo, colui che forse solo assieme a Martin Heidegger ha tentato di riprendere il cammino del pensiero occidentale da capo, sin dai primi passi di Anassimandro e Parmenide, prima ancora che di Platone e Aristotele. Fra questi grandi già in eterno vive nella gioia, in una comunicazione divina, infinita.
Per Severino ogni ente, che sia cosa, pensiero, persona, in ciascun suo cosiddetto aspetto particolare o temporale, è eterno, è salvo per sempre nell’eternità. Non che egli neghi il divenire, la mutevolezza, la incessante diversità di ciò che appare, come banalmente si potrebbe ironizzare in merito al suo invece profondo pensiero.
Ciò che Severino nega, confuta, mostra contraddittorio, è affermare cioè credere che un medesimo ente divenga, anzi nasca o sia creato dal nulla e al nulla possa tornare risultando scomparso, morto, annichilito.
L’apparente divenire non è che la variegatezza degli enti nell’apparire di ciò che appare, nell’orizzonte trascendentale dell’apparire, nel cerchio dell’apparire, intramontabile, orizzonte nel quale soltanto ogni singolo apparire empirico accade, è, è pensabile e pensato.
L’orizzonte degli orizzonti è intrascendibile e intramontabile, tanto che lo stesso pensare al di là di esso in esso accade, sia follia o ideale razionale tale sublime pensiero.
Emanuele Severino nasce a Brescia il 26 febbraio 1929, dove frequenta le scuole del Collegio Cesare Arici, dei padri gesuiti. Il fratello Giuseppe, maggiore di otto anni, lo distrae dalla passione per il pianoforte e lo precede negli studi filosofici, approdando da Brescia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è allievo di Giovanni Gentile, Guido Calogero e Armando Carlini. Ma come “volontario” nel corpo degli Alpini viene mandato nel 1942 sul fronte bellico francese, ove viene ucciso.
In casa si discuteva quindi della filosofia di Gentile, come presto Emanuele Severino farà anche con il suo principale maestro, Gustavo Bontadini, incontrato all’Università di Pavia e con il quale si laureerà nel 1950 discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica.
Trasferitosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, Bontadini si adopera per chiamarvi lo straordinario allievo, d’accordo con monsignor Francesco Olgiati, che nel 1954 lo invita a tenere lezione sulla sua cattedra.
Nei primi anni Sessanta, con il succedersi di pubblicazioni di Severino sempre più problematiche in merito alla fede cristiana, si avvia una controversia con le autorità accademiche ed ecclesiali, che sfocerà in un giudizio da parte della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, richiesto dal filosofo stesso, con il quale viene sancito il suo congedo dall’Università Cattolica.
Nel ripercorrere dopo quarant’anni la triste vicenda, documentandola, Severino giunge ad affermare che «il cristianesimo potrebbe avere un alleato e non un avversario - e anzi l’avversario - nel contenuto dei miei scritti» ( Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001).
Nel 1970 Severino si trasferì alla neonata facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, portando con sé nella diaspora allievi del livello di Salvatore Natoli, Umberto Regina, Mario Ruggenini, Luigi Ruggiu, Luigi Vero Tarca, Italo Valent, Carmelo Vigna..., ai quali si aggiungeranno veneziani come Massimo Donà o Andrea Tagliapietra.
Divenuto professore emerito a Venezia, ritornerà ad insegnare a Milano, ma alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele fondata da Massimo Cacciari nel 2002.
Severino è rimasto profondamente segnato nel suo lungo e fecondo cammino di pensiero, costellato da decine e decine di volumi pubblicati principalmente con le case editrici La Scuola, Adelphi e Rizzoli, dal rapporto con la fede cristiana.
Malgrado la serrata critica, che giunge ad affermare la contraddittorietà della fede nella sua stessa formulazione paolina di argumentum non apparentium (Ebrei 11,2), cioè per Severino dimostrazione di cose indimostrabili poiché non visibili e quindi dubbie, in fondo credo che il grande filosofo bresciano abbia tratto proprio dal cristianesimo, dall’evangelica fede nella salvezza per ogni cosa creata - persino «capelli del capo» e «passeri» di poco conto, «nemmeno uno di essi dimenticato davanti a Dio» (Luca 12,6) -, la principale fonte ispirativa del suo anelito filosofico, volto a ricercare l’eternità di ciascun essente.
Piuttosto un altrettanto pervicace rigore nell’attenersi al principio primo di ogni ragionare filosofico, quello di non-contraddizione, l’ha sempre costretto a rilevare e sviscerare, con un’acutezza di pensiero e una stringenza argomentativa unica nel panorama non solo contemporaneo, la quale non ha mai voluto accettare l’intrinseca simbolicità e quindi contraddittorietà di ogni linguaggio, appunto le contraddizioni insite in gran parte dei ragionamenti filosofici e teologici formulati nel corso del pensiero occidentale.
Senza contare la lucidità estrema e la profondità di visione con cui Severino ha saputo esaminare e commentare - soprattutto dalle pagine del “Corriere della Sera” - le vicende della politica contemporanea globale e della civiltà tecnocratica, notandone la volontà di potenza nichilistica sottesa: dalla violenza terroristica al totalitarismo amministrativo-burocratico, dalle contraddizioni della bioetica all’ipocrisia di ogni ideologia, capitalista o socialista o islamista che sia.
Ora che apprendiamo a funerali avvenuti della sua scomparsa, a Brescia il 17 gennaio, per lui certo infinitamente meno dolorosa che quella della dilettissima moglie Esterina nel 2009, a lui accanto una vita anche per diversi riguardi dei suoi continui studi, pensiamo, assieme al filosofo, che «nessuno toglierà via da voi la vostra gioia» (Giovanni, 16,22).
A confronto
Due atenei milanesi, Statale e San Raffele, hanno promosso una laurea magistrale per formare una classe dirigente proiettata nel futuro. Quattro partecipanti all’iniziativa discutono il rapporto tra filosofia e scienze sociali
Dobbiamo inventare l’Illuminismo del 2019
conversazione di Maurizio Ferrera con Francesco Guala, Roberto Mordacci e di Francesca Mordacci (Corriere della Sera, La Lettura, 19.05.2019)
La scienza moderna ha scoperto che la natura è governata da leggi che la rendono in larga misura controllabile e prevedibile. Le scienze sociali novecentesche hanno a loro volta messo in luce le molte regolarità che caratterizzano la sfera politica, economica e sociale, nonché i meccanismi che le generano. Lo Stato di diritto - diventato poi liberale e democratico - ha stabilizzato i processi di interazione e di decisione collettiva. In questo contesto, l’immagine del tempo è radicalmente cambiata. In particolare, il futuro non appare più dominato dal caso, dal destino o dalla provvidenza. È diventato la dimensione del possibile: una fase temporale vincolata, certo, dal passato, ma più o meno liberamente plasmata nel presente, in base ai nostri scopi e valori.
Insegnare ai giovani come «governare il futuro» è uno dei principali obiettivi di una nuova laurea magistrale promossa da due atenei milanesi: la Statale e l’Università Vita-Salute del San Raffaele. Abbiamo affrontato le tematiche al centro dell’iniziativa con tre studiosi di filosofia: Francesco Guala insegna Economia politica e si occupa di scienze sociali; Roberto Mordacci, preside al San Raffaele, è uno specialista di Filosofia morale e bioetica; Francesca Pasquali è docente di Filosofia politica.
MAURIZIO FERRERA - In un recente discorso, Emmanuel Macron ha lanciato un ambizioso percorso di riforme, nato da un «gran dibattito nazionale» che ha coinvolto più di due milioni di cittadini. Dibattito democratico e progetto di cambiamento: siamo gli eredi dell’Illuminismo, ha ricordato il presidente. Un richiamo che ben si presta a riflettere su come governare il futuro...
ROBERTO MORDACCI - Certamente. Fu l’Illuminismo a elaborare l’idea moderna di storia come orientata verso uno scopo. È l’idea di progresso scientifico ma anche morale e politico: vite meno infelici, istituzioni più giuste. La grande crisi attuale viene dalla sfiducia in questa possibilità, favorita dalla moda postmodernista della «fine» del sapere, della morale e dunque della storia. Ma il progresso è una responsabilità, non una necessità: esiste se lo facciamo accadere.
FRANCESCO GUALA - Un’impresa doverosa, ma non facile. Grazie alle scienze cognitive e sociali oggi siamo più consapevoli delle difficoltà che tutti noi, cittadini ed esperti, incontriamo quando cerchiamo di rappresentare e controllare i processi di cambiamento. La percezione esagerata del rischio, l’incapacità di pensare scenari alternativi a quelli dominanti sono ostacoli enormi, che possono impedirci di trovare soluzioni razionali e condivise. Ma Illuminismo vuol dire anche ottimismo: la riflessione filosofica e scientifica ci fornisce strumenti formidabili che non esistevano solamente qualche decennio or sono. Proprio perché sappiamo quali sono i nostri limiti, abbiamo più chance di superarli.
FRANCESCA PASQUALI - Come eredi dell’Illuminismo, riconosciamo che, non essendoci fini stabiliti da autorità esterne, il futuro è aperto e ognuno ha il diritto di contribuire a definirne la direzione. Per evitare fraintendimenti piuttosto diffusi, si deve chiarire però che questo non implica attribuire a tutte le opinioni la stessa validità. Al contrario, proprio perché non ci sono autorità esterne cui affidarci, per orientare il futuro verso il meglio dobbiamo sottomettere al vaglio della ragione le nostre opinioni, scartando quelle non fondate su solide argomentazioni o evidenze empiriche affidabili.
MAURIZIO FERRERA - Le nuove tecnologie, e più in generale quella che il filosofo Luciano Floridi chiama l’Infosfera, stanno rapidamente cambiando i modi di produrre, lavorare, comunicare, organizzare la vita associata, persino incrementare le nostre abilità naturali. Può davvero aprirsi la possibilità di un grande balzo in avanti dello sviluppo umano. L’Infosfera (e in particolare il progresso dell’intelligenza artificiale) solleva però anche enormi problemi di natura etica e sociale. Quali sono secondo voi le principali sfide e le strategie per affrontarle?
FRANCESCO GUALA - Sulle sfide c’è l’imbarazzo della scelta. Ne scelgo una che mina al cuore i fondamenti della democrazia: la necessità e insieme la difficoltà di vivere insieme nella diversità di pensiero. Si tratta di una sfida perenne, ovviamente, ma la tecnologia negli ultimi dieci anni ha enormemente facilitato la creazione di comunità alternative e «chiuse» - dai terrapiattisti ai no-vax - restringendo a sua volta lo spazio intermedio dove si stipulano i compromessi essenziali per il vivere comune. I gruppi che contrasteranno questo processo di isolamento e frammentazione potranno formare le coalizioni vincenti della politica del futuro.
FRANCESCA PASQUALI - Se gli scenari prevedibili in base agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e del potenziamento biologico - macchine intelligenti, individui sempre più resistenti alle malattie - sono perlomeno possibili, si tratta di capire se e come aggiornare il nostro resoconto circa le caratteristiche distintive degli esseri umani, che fa da sfondo alla riflessione morale. È sensato individuare la nostra specificità in certe facoltà cognitive, che forse condivideremo con le macchine, o in certe caratteristiche biologiche, che forse potremo modificare? Si tratta anche di valutare se simili scenari siano desiderabili e se vi siano soluzioni, magari distanti dalle nostre pratiche attuali, per bilanciarne al meglio vantaggi e svantaggi.
ROBERTO MORDACCI - In passato, le tecnologie generavano paure per la loro potenza distruttiva. Per questo Hans Jonas invocava responsabilità. Quelle attuali vivono di controllo e velocità. Chi ha accesso ai Big Data e quale potere acquisisce controllandoli? Quanta rapidità siamo in grado di gestire negli scambi di informazione? Abbiamo bisogno di un’etica per l’età digitale, che ne sappia affrontare la legge fondamentale, ovvero l’accelerazione costante e inarrestabile.
MAURIZIO FERRERA - Al di là delle oscillazioni e delle crisi cicliche dell’economia capitalistica, le società avanzate hanno oggi il potenziale di raggiungere sempre più alti livelli di «prosperità»: una nozione che evoca benessere quantitativo e qualitativo, pluralità e disponibilità (sperabilmente «equa») di chance di vita sempre più ampie e articolate. Il percorso è tuttavia irto di ostacoli: pensiamo alla sostenibilità ambientale e demografica, alla pressione migratoria, al logoramento dei legami di solidarietà, al rischio di ripiegamenti nazionalistici e di rigetto dei progetti di integrazione, in particolare in Europa. Quali sono le condizioni più propizie affinché il potenziale oggi esistente si possa realizzare in forme e modi «aperti, inclusivi, sostenibili»?
ROBERTO MORDACCI - Le condizioni essenziali dello sviluppo sono chiare: gli «obiettivi di sviluppo sostenibile» fissati dall’Onu mostrano che è il coordinamento la chiave di una crescita equilibrata. La minaccia alla vita viene dall’iniquità, dal conflitto sociale e dall’isolamento, che generano inquinamento, distruzione delle risorse, squilibri, discriminazioni e guerre. Nel mondo globalizzato, o si cresce insieme o si muore isolati.
FRANCESCO GUALA - L’etica economica si fonda su due princìpi universali: il principio secondo il quale chi produce un bene o un servizio ha diritto di goderne i principali benefici; e quello dell’uguaglianza, che si applica ogniqualvolta non è possibile identificare chiaramente chi ha prodotto il bene in questione. Questi due princìpi funzionano bene in comunità relativamente piccole e coese, nelle quali i rapporti di forza sono relativamente equilibrati. Quando si creano enormi disuguaglianze invece entrano in crisi. Credo che la redistribuzione oggi vada pensata in un’ottica nuova - politica invece che etica - proprio perché siamo in una situazione di questo genere. In pratica, significa che i «vincitori» di oggi devono smettere di porsi la domanda «è giusto redistribuire?» e chiedersi invece quale sistema di redistribuzione potrà salvare il patto sociale.
MAURIZIO FERRERA - Su scala globale il mondo resta attraversato da aspri conflitti e guerre locali, che minacciano pace e sicurezza, anche attraverso il terrorismo. Le radici di questi conflitti sono di natura sia «materiale» (diseguaglianze, accesso alle risorse e così via) sia «ideale» (cultura e religione). L’Europa è oggi l’area più pacificata, civilizzata e sviluppata del pianeta, ma questo esito è il risultato di secoli di guerre e scontri fra popoli. Non è detto che la via europea sia praticabile e replicabile a livello globale. E non è neppure detto che le dinamiche conflittuali che caratterizzano oggi il mondo possano gradualmente comporsi: potrebbero invece deflagrare nel famoso «scontro di civiltà» preconizzato da Samuel Huntington. L’ideale kantiano di una pace perpetua, sorretta da un ethos universale di civismo e assetti federali sul piano planetario, vi sembra oggi più vicino o più lontano?
FRANCESCA PASQUALI - Immanuel Kant è chiaro: una pace perpetua è possibile solo tra repubbliche, in cui le decisioni si fondano sul consenso dei cittadini che, consapevoli dei costi, rifiutano la guerra. Se è così, la tendenza attuale non è incoraggiante: i regimi autoritari non sono in diminuzione e, anzi, alcuni sono attori chiave a livello internazionale. Questo è un motivo in più per capire come mai regimi autoritari mantengano una notevole centralità e domandarsi come fare i conti con tali regimi senza contraddire i princìpi democratici.
ROBERTO MORDACCI - La tendenza odierna verso la barbarie è fortissima. Lo spettro dell’autoritarismo, dell’odio etnico e della regressione si aggira minaccioso per l’Europa e non solo. La pace perpetua va ripensata da capo, come fece lo stesso Kant nel proprio tempo. Ogni epoca deve vivere il suo Illuminismo, non ripetere quello passato. È ora che lo facciamo anche noi, prima che sia troppo tardi.
FRANCESCO GUALA - L’ideale kantiano della pace perpetua è un modello che deve guidare sempre il nostro agire politico. Ma non sono particolarmente ottimista riguardo alla progressiva integrazione degli Stati nazionali in entità federali planetarie. La difficoltà che sta incontrando il progetto europeo sono significative a questo proposito: dei popoli già profondamente integrati culturalmente ed economicamente non riescono a compiere il salto decisivo verso un assetto federale. D’altronde credo che lo «scontro di civiltà» sia uno spauracchio politico semplicistico utile a spaventare le persone, molto meno ad analizzare la realtà. È più probabile che la violenza si sviluppi in focolai relativamente marginali, dove le grandi nazioni non hanno l’interesse o la forza di intervenire.
MAURIZIO FERRERA - Torniamo ai giovani, che almeno dal punto di vista socio-demografico costituiscono il 100 per cento del nostro futuro. Quali sono le competenze che essi dovrebbero padroneggiare grazie agli studi universitari per apprendere dal passato, interpretare il presente e dare il proprio contributo, anche in ambito lavorativo, per costruire e governare il mondo di domani?
FRANCESCO GUALA - Sicuramente la capacità di integrare gli strumenti e le conoscenze provenienti da diverse discipline - economia, politica, filosofia. Ma anche la capacità di esprimere una sintesi in modo chiaro, comprensibile, e non conflittuale. Vorrei sottolineare quest’ultimo punto - non conflittuale - perché è forse il più difficile. Andare controcorrente non è difficile: basta dire il contrario di quello che dicono gli altri! Quello che è davvero difficile è trovare nuove soluzioni e convincere chi non la pensa come noi, spesso con ottime ragioni. Tornando a quanto detto prima, le nuove tecnologie non ci aiutano da questo punto di vista. Ma è appunto il motivo per cui è essenziale provarci, formando una generazione di giovani che siano in grado di farlo meglio di noi.
FRANCESCA PASQUALI - Serve una preparazione multidisciplinare che, producendo anticorpi contro specialismi fini a sé stessi, consenta di acquisire una prospettiva di ampio respiro e strumenti analitici, descrittivi e filosofici, per capire e valutare i rapidi cambiamenti politici e sociali e immaginare modalità di intervento efficaci e appropriate in termini valoriali.
ROBERTO MORDACCI - Sono d’accordo: preparazione multidisciplinare e capacità di «visione». Solo il futuro dà senso al passato e alla frammentazione presente. L’avvenire non è degli specialisti: per risolvere i problemi occorre sempre una visione complessiva. Per questo la filosofia ha un ruolo decisivo, purché si mescoli alle scienze sociali, alla ricerca e all’evoluzione delle imprese. Queste ultime stanno cambiando il capitalismo, sono più attente ai valori, ma hanno bisogno di giovani capaci di strategie vincenti sul piano sociale e politico, non solo economico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
Federico La Sala
A cento anni da La politica come professione di Max Weber /
L’ultimo eroe. Conversazione con Massimo Cacciari
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 28.01.2019)
Cento anni fa, il 28 gennaio del 1919, nelle aule dell’università di Monaco di Baviera, un anno prima della morte, Max Weber tenne una delle sue più celebri conferenze: La politica come professione. In occasione dell’anniversario, la Mondadori ha da poco ristampato l’edizione che contiene questa conferenza e quella tenuta due anni prima, nella stessa università, La scienza come professione, con il titolo: Il lavoro intellettuale come professione, a cura e con l’introduzione di Massimo Cacciari. Il politico vero, secondo Weber, è chi, con perseveranza, senza mai scoraggiarsi, tenta di conciliare vocazione, dedizione alla causa, adesione convinta a determinati valori, con spirito progettuale, professionismo, responsabilità rispetto ai fini, previsione dei mezzi adeguati alla loro realizzazione e delle conseguenze dell’azione. Un traguardo originale che Weber indica agli studenti e ai giovani che lo ascoltano, in un momento storico drammatico per la Germania, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, e per la città stessa di Monaco, scossa da agitazioni rivoluzionarie, consapevole di come l’agire politico, nel contesto della società di massa, possa generare tanto democrazie mature quanto avventure totalitarie o populismi. Di questa straordinaria attualità della lezione del sociologo tedesco abbiamo parlato con Massimo Cacciari.
Francesco Bellusci: Professor Cacciari, lei ha sempre sostenuto l’importanza di questa conferenza di Weber, presentandola come una lezione propedeutica a ogni corso di formazione politica, soprattutto se rivolto ai giovani. Comincio col chiederle: perché conciliare etica dei principi ed etica della responsabilità è però sempre difficile, forse impossibile, e tuttavia l’agire politico non può e non deve ridursi mai all’uno o all’altro, pena il suo snaturamento?
Massimo Cacciari: Il politico di Weber è un "tipo", non la descrizione di qualche "contingenza"; aiuta a far ordine, a comprendere macro-tendenze generali. La realtà è sempre poi una commistione di "tipi". E ogni commistione è poi storicamente relativa. Il "tipo ideale" del politico è chi formula fini "economicamente" raggiungibili, chi si distingue dal profeta e dal demagogo, chi dispone, sì, di un carisma, ma collegato alla sua Zweckrationalität. Si tratta di un ibrido già in sé - ma la maionese impazzisce se c’entrano altri elementi!
Già in L’Arcipelago (Adelphi, Milano 1997), lei rifletteva sull’“ultimo eroe” weberiano. Eroico perché accetta la possibilità che i propri progetti s’infrangano o si ridimensionino sullo scoglio della macchina burocratica e, nello stesso tempo vede, in questa il mezzo indispensabile per la realizzazione di quei progetti. Ma lei insiste anche sul fatto che la vocazione del politico è una “chiamata” che, nel tempo della “morte di Dio” e della “svalorizzazione” dei valori trascendenti (Weber è uno dei primi che apprende a fondo la lezione di Nietzsche), non proviene più da un’autorità extra-umana o da un ordine necessario. Allora: chi “chiama” il politico, a questo compito nella sua vita?
Massimo Cacciari: Chi chiama il politico? Nessuno - la voce del silenzio - la sua "voglia" di rispondere, cioè la sua responsabilità nei confronti di una situazione che intende mutare. Oppure (e anche qui ecco il "doppio") la sua volontà di potere - senza la quale non esiste politico, comunque. Il "tipo" del politico che Weber propone si distacca nettamente da ogni sfondo religioso.
Sono passati più di dieci anni dall’edizione che lei ha curato delle due conferenze. Rispetto ad allora, si sono accentuate alcune tendenze che segnalano la crisi della democrazia rappresentativa. Oggi, il “demagogo” populista prende di mira ora i partiti tradizionali, ora la burocrazia, additandoli come un ostacolo o addirittura una specie di nemico interno per i suoi progetti, presentati come specchio fedele degli interessi popolari. Cioè, prende di mira i due cardini dello Stato democratico moderno per Weber, intesi rispettivamente come la fucina dei “politici di professione” e dei “funzionari specializzati”. È ancora valido il modello di Weber?
Massimo Cacciari: Ciò riguarda la democrazia in generale. Il processo di democratizzazione non era concepibile per Weber senza partiti. Partiti e Stato democratico costituivano un insieme inscindibile. Eppure nient’affatto pacifico - poiché il partito (parte) tende naturalmente a farsi Stato, e cioè a rovinare la democrazia. Bisognava mantenere il rapporto in una "equilibrata tensione" - ecco di nuovo l’eroismo del vero politico!
Adesso, le chiederei qual è il nesso con la conferenza che Weber tiene due anni prima, nel 1917, La scienza come professione. Come si configura per Weber il rapporto tra l’uomo di scienza e l’uomo di azione? In che senso egli considera la scienza e la prassi politica come due forme del lavoro intellettuale? Lo scetticismo su scoperte e applicazioni scientifiche, introdotto nel dibattito pubblico, dimostra come la scienza e la razionalità scientifica, in quanto “valori” e “decisioni” dell’Occidente moderno, non si possano sottrarre al dramma inestinguibile del conflitto di valori. Un aspetto che lei sottolinea nelle prime pagine dell’Introduzione, quando, interpretando anche il Weber metodologo delle scienze storico-sociali, ci dice che la scienza verrebbe meno al suo stesso rigore se avanzasse il suo primato sugli altri saperi, perché - scrive - “la scienza è relativa in quanto all’origine”, ma - aggiunge - “non è relativistica in quanto al suo metodo e al suo rapporto con la realtà che intende comprendere”.
Massimo Cacciari: Scienza e politica formano insieme la "geistige Arbeit" - devono funzionare insieme. Non vi è Stato moderno senza lavoro scientifico, senza rapporto con la Tecnica. E non vi è Tecnica se non sia intrinseca allo Stato. Eppure anche qui si tratta di Due e non di Uno! Ecco il politico di nuovo: che conosce l’essenzialità del lavoro scientifico e in uno conserva l’autonomia delle proprie decisioni. La "politica al comando" è altrettanto utopistica di una "scienza autonoma". Il capitalismo è essenzialmente il sistema che le unifica nel loro stesso contraddirsi.
Si può dire che l’“ultimo eroe”, cioè il politico di vocazione, fosse per Weber l’antidoto agli “ultimi uomini” di cui parla Nietzsche nello Zarathustra e che egli menziona nelle celebri pagine finali dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo? È nel Berufspolitker che Weber confida, per contrastare il destino di un mondo sociale totalmente amministrato e burocratizzato che intravede nel futuro dell’Occidente?
Massimo Cacciari: Weber cita esplicitamente Nietzsche a proposito degli "ultimi uomini" - sono gli "impiegati" senza spirito e i gaudenti (coloro che si godono il proprio benessere) senza cuore. Sono gli invidiosi, gli egoisti, Aristotele avrebbe detto i rappresentanti della pleonexia. Il sistema capitalistico li genera e rigenera - vi sarà un politico in grado di governarli? Weber alla fine della vita ne era disperato.
Weber vedeva, al suo tempo, l’imprenditore industriale moderno come indisponibile alla carriera del “politico di professione”, in quanto inesorabilmente assorbito dalla gestione razionale della sua impresa. Da Berlusconi a Trump, ormai anche il tycoon sembra proporsi come capo politico. Come spiega questo fenomeno? Espone sempre al rischio di una commistione o di una confusione tra l’“impresa politica” e l’“impresa economica”?
Massimo Cacciari: La commistione tra politica e economia genera il capitalismo politico - politica diviene mero attributo. Credo che sia proprio questa la fase che attraversiamo. Non se ne esce regressivamente, nella nostalgia di un "metti la politica al comando" - ma con politici in grado di contra-dire l’economico, di esserne potenti interlocutori - e cioè politici di vocazione dotati di strutture tecnico-organizzative adeguate. Siamo tanto lontani da questa situazione da avvertire l’idea come un’astratta utopia... e questo la dice tutta.
Per Weber, la vanità condanna un politico sempre all’insuccesso o al tramonto o, comunque, ne pregiudica la performance. È d’accordo?
Massimo Cacciari: La vanità è l’opposto della volontà di potenza. quest’ultima sa che cosa deve avere per funzionare e sa calcolare i propri obbiettivi per riuscire. La vanità crede di potere tutto. È esattamente ciò che rovina il politico di professione.
Conoscenza.
Il saggio di Edoardo Boncinelli
E la scienza divenne sperimentale
L’approccio soltanto speculativo ha grossi limiti che molti filosofi non riconoscono
La ricostruzione dello scienziato nel saggio «La farfalla e la crisalide» (Raffaello Cortina)
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 26.10.2018)
Che cos’è la scienza? E che cosa la distingue dalle altre discipline? La domanda ha impegnato i filosofi per secoli. Se la pone ora, nel libro La farfalla e la crisalide (Raffaello Cortina), un grande scienziato, Edoardo Boncinelli, autore di importanti scoperte in campo genetico.
Il saggio ripercorre per importanti snodi concettuali la storia della scienza, dalla sua nascita nella Grecia di 2.500 anni fa, quando l’indagine della realtà era ancora difficilmente distinguibile dalla riflessione filosofica, al presente, nel quale scienza e filosofia appaiono del tutto separate, incommensurabili per capacità di analisi e significatività dei risultati. La farfalla - questa la metafora scelta dall’autore - è la scienza così come la conosciamo oggi: nasce dalla crisalide della filosofia, un intreccio di modi di pensare spesso in competizione fra loro, ma capaci di influenzare profondamente la nostra vita. Poco più di quattro secoli fa, la scienza si svincola dal ruolo ancillare nei confronti della filosofia, sviluppandosi autonomamente e ramificandosi gradualmente in una serie di discipline che, dalla fisica alla biologia all’intelligenza artificiale, hanno sostituito la filosofia come strumento di conoscenza del mondo. Con Galileo, tra scienza e filosofia si apre un baratro che oggi forse non vale neppure la pena di provare a colmare.
All’inizio, con i Presocratici, la filosofia avanza ipotesi sul mondo. Nasce libera, svincolata da ogni verità rivelata. La messa a morte di Socrate, «corruttore» dei giovani ateniesi con la critica implacabile della religiosità che la società si attende da loro, inaugura paradossalmente la grande stagione del pensiero greco. Consapevole dell’importanza della tecnica, la riflessione classica accompagna l’osservazione del mondo (culminata nei trattati naturalistici di Aristotele) all’indagine ipotetico-deduttiva, che si sviluppa senza bisogno di conferme sperimentali. Gli enormi successi della geometria euclidea e dell’astronomia matematica convincono però i filosofi che la verità sia raggiungibile per via puramente speculativa. Così, pur rimanendo sostanzialmente indistinguibili, scienza e filosofia iniziano a perdere contatto. Un ruolo non secondario nella separazione è svolto da Platone, sostenitore di una teoria della conoscenza «innatista» dall’indiscutibile sapore biologico, che Boncinelli apprezza, ma che inchioda l’uomo alla sterile fissità di un mondo delle idee sempre uguale a sé stesso. Se però Platone non poteva conoscere l’evoluzione, non così i molti filosofi che oggi a lui direttamente si rifanno, e che ignorano l’impatto rivoluzionario del cambiamento che si impone di continuo in biologia.
Una discussione serrata e tranchant, che non risparmia neppure Cartesio, porta il lettore al Seicento, quando dalla crisalide della filosofia occidentale si libera finalmente la farfalla della scienza sperimentale. Se, fino ad allora, scienziati e filosofi si erano limitati a porsi domande e a tentare di dare risposte attraverso l’osservazione, con la possibilità e l’opportunità di condurre esperimenti, lo scienziato «costringe» la natura a rispondere a domande specifiche. Mentre l’osservazione si limita a registrare ciò che accade, lo sperimentatore svolge un ruolo attivo, preparando le condizioni per portare la natura stessa su un terreno a noi favorevole. L’adozione del metodo sperimentale, spesso accompagnato da un’analisi quantitativa, è per Boncinelli un rivoluzionario atto di umiltà: segna il riconoscimento che per certi problemi l’approccio speculativo non è sufficiente - riconoscimento, questo, che l’autore non manca di contestare come estraneo a molti filosofi di ieri e di oggi.
Con l’Accademia del Cimento e il suo motto, «provando e riprovando», inizia la stagione della grande scienza, che giunge fino a noi. Ma non si chiude la stagione della filosofia, che pure arriva fino a noi, ignorando però (o fingendo di ignorare) l’abisso che la separa dalla scienza. Né, forse, può essere altrimenti: la crisalide è fondamentale per la nascita della farfalla, ma appena questa nasce le due strutture biologiche si devono separare una volta per tutte, perché la presenza della crisalide si rivelerebbe ora tossica per l’insetto alato. Fuor di metafora, la filosofia è stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico, ma col passare del tempo ha avuto un’influenza sempre più negativa, come una sorta di a priori indiscusso che ha finito per ostacolare il progresso scientifico.
L’analisi di Boncinelli è spietata. E senza dubbio corretta, anche se a volte scivola in qualche semplificazione eccessiva. Ma questo nulla toglie alla tesi generale di La farfalla e la crisalide, che interroga e sfida gli studiosi: un libro utile agli scienziati, che dalla riflessione dell’autore possono trarre spunti per meditare sul significato e sulla portata della propria disciplina, e necessario ai filosofi, per considerare i limiti della propria attività e i modi per ripensarla.
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
IL “CIMENTO” DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA “PIETRA” DEI FILOSOFI: “PROVANDO E RIPROVANDO”!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Decalogo per uscire dal buio: mandate le vostre parole *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti, per discutere di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria.
L’Espresso, nel solco del dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave. Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. E poi Michela Murgia, Aboubakar Soumahoro, Francesca Mannocchi. E Guseppe Genna, Emiliano Brancaccio, Evelina Santangelo, Valeria Parrella, Roberto Castaldi e Chiara Valerio.
Adesso tocca ai nostri lettori. Vi chiediamo di trovare le parole che per voi meglio rappresentano questa sfida, parole che siano davveri un segno di luce per uscire dal buio, spiegando il perché della vostra scelta. Per contribuire al dibattito che troverà spazio nei prossimi numeri del giornale
* L’Espresso, 05.10.2018
http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/04/news/decalogo-per-uscire-dal-buio-mandate-le-vostre-parole-1.327515?ref=HEF_RULLO
Per uscire dal buio
Decalogo *
Noi e tu
di Massimo Cacciari
Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.
Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell’altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall’altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto. Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi.
Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.
* l’Espresso, 07.10.2018
Intervista
"Ora il Pd si sciolga per far nascere la lista Nuova Europa". L’appello di Massimo Cacciari
«La sinistra è salita sull’Acropoli. Ora bisogna scendere». E per battere i nazionalisti alle elezioni del 2019 occorre rompere con il passato. Perché la vecchia Ue è finita per i suoi tradimenti. La proposta del filosofo
di Marco Damilano (l’Espresso, 05 settembre 2018)
Il 3 agosto Massimo Cacciari ha firmato un appello insieme a Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino, Maurizio Pollini, Salvatore Sciarrino. Nomi della cultura, dell’università, della ricerca: filosofi, artisti, musicisti. In quel testo si parla di «spirale distruttiva», di «pensiero unico intriso di rancore e di risentimento».
E si trova la richiesta di una discontinuità con il passato: «È indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa», in vista della scadenza decisiva dell’anno che si apre: le elezioni europee della primavera 2019. «C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere».
L’allarme è stato ripreso da tanti in queste settimane e il primo momento di discussione pubblica sarà a Mestre, dal 6 all’8 settembre, al festival della politica organizzato dalla fondazione Gianni Pellicani. Nel frattempo, tutto quello che è successo nel mese di agosto, dal consenso ottenuto dal governo Salvini-Di Maio dopo il crollo del ponte Morandi al blocco della nave Diciotti nel porto di Catania, dalla sfida nei confronti dell’Europa sui contributi Ue all’attacco sui conti pubblici, conferma quanto è scritto nel testo-appello: «Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno».
La nostra conversazione con Massimo Cacciari parte da qui.
«Il nostro appello non va alla ricerca di adesioni formali, è la richiesta di un’assunzione di responsabilità, di un’iniziativa concreta. In alcune università si stanno preparando momenti di dibattito, nel mondo cattolico si sono mosse le Acli, a livello europeo Etienne Balibar sta preparando qualcosa di analogo per la Francia. È un movimento che si attiva a partire da un’urgenza: vogliamo evitare che l’Europa muoia. L’Europa è demograficamente vecchia, ma è necessaria, se non vogliamo un destino popolato da miserabili staterelli sovrastati da quanto decideranno gli Imperi, il ripetersi dei conflitti del Novecento, il ritorno in farsa delle tragedie del vecchio secolo».
Un obiettivo nobile, che rischia di essere fuori tempo massimo. Bisogna evitare che l’Europa muoia, certo. Ma per molti cittadini europei, e italiani, l’Europa è già morta, da tempo, dopo la Brexit, dopo la crisi dell’euro, dopo le crisi dei migranti non governate da nessuno. C’è una vasta letteratura internazionale in materia: penso al dramma in nove atti raccontato dallo studioso indiano Ashoka Mody nel suo “EuroTragedy”, in cui racconta il capovolgimento dell’Europa da continente di pace e sicurezza dopo il secondo conflitto mondiale a terra di divisione. E c’è la crescita dei movimenti sovranisti e populisti, che non hanno una vera prospettiva alternativa, ma si nutrono del tramonto dell’Europa, delle astrattezze, dei tradimenti, del distacco dal popolo con cui è stato portato avanti il processo di integrazione.
«Non è morta l’Europa. È finita l’Europa che si è andata costruendo negli ultimi 20-25 anni. Anni in cui si sono inanellati una serie di errori straordinari. È il punto di partenza di qualsiasi azione: non si possono coprire le immense responsabilità delle classi dirigenti politiche, economiche e intellettuali. L’Europa attuale è una costruzione a-storica, ignorante dello specifico di ogni tradizione, in preda da tempo a una deriva burocratica, centralista, anti-federalistica. La catastrofe finale è arrivata con la crisi economica, quando l’Europa si è mostrata incapace di difendere i suoi cittadini più deboli. È in quel momento che è avvenuto lo strappo tra la coscienza europea e la sua organizzazione. Lo strappo è qui e qui c’è la necessità di una discontinuità radicale con il passato. E quindi: politiche sociali diverse e una costruzione istituzionale di tipo federalista».
Oltre alla crisi economica c’è la questione dei migranti, anche lo spettacolo vergognoso degli ultimi giorni: esseri umani trattati dal governo italiano come arma di ricatto, governi europei incapaci di progettare l’accoglienza e la ricollocazione degli aventi diritto all’asilo, la propaganda scatenata che non incontra resistenze.
«Non si diventa razzisti per opera dello Spirito Santo. Quando nel 1933 i tre quarti dell’elettorato socialdemocratico votarono per Hitler non era arrivato l’Anticristo a sedurre gli uomini, c’era stato un lungo processo storico. Lo stesso vale per quanto accaduto negli ultimi anni. La costruzione centralistica e burocratica e le politiche sociali dominate dal tradimento delle promesse offerte dal vecchio welfare: progresso, benessere. Se rompi questo nesso, i popoli diventano anti-democratici. La crisi ha messo l’Europa a nudo nelle sue debolezze e mancanze e si sono aperte le praterie per le forze anti-europee, ciascuna con le sue particolarità. Per il Front di Marine Le Pen è il sogno di una nuova grandeur francese, nei paesi dell’Est c’è il mito risorgimentale e nazionalista. Per la Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia il discorso è diverso, perché fino alla formazione del governo M5S aveva fatto da argine all’elettorato leghista».
Lo storico Timothy Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli) ha scritto di due narrazioni che si sono confrontate negli ultimi anni. La politica dell’inevitabilità, ovvero l’idea della fine della storia, della globalizzazione come unico orizzonte possibile, è stata sconfitta. E al suo posto c’è la politica dell’eternità: il ritorno ciclico dei miti della razza, del suolo, del territorio, le radici, l’identità.
«Le forze socialiste sono crollate ovunque per la loro subalternità culturale a un modello in cui andava bene tutto: bene l’Europa, bene la moneta unica, bene l’allargamento. Bene, più di tutto, la globalizzazione. Questo spiega perché le forze tradizionali della sinistra europea siano smottate così rapidamente, uno sfaldamento così veloce. Il problema era solo l’Anpassung, come dicono i tedeschi, l’adattamento. Perché, altrimenti, se non ti adattavi, eri fuori dalla storia».
Ricordo il refrain dei congressi, dei convegni, dei politici e degli intellettuali dell’adattamento: dobbiamo gestire la globalizzazione, governarla.
«Magari! Quella era la migliore delle ipotesi, in molti non si ponevano neppure il problema. Per la maggior parte dei leader della sinistra europea la globalizzazione è stata un destino inesorabile, da Tony Blair a Matteo Renzi, vedi l’ammirazione senza sfumature di differenza per il modello Marchionne. E chi non era dentro, chi restava fuori? Era un affar suo, non nostro. La conseguenza è stata una sinistra che vince nei centri storici e perde nelle periferie. Sinistra, hai perso il tuo popolo! Ti sei asserragliata in una acropoli, sotto non esisti più».
Il distacco dal popolo ora è diventato abissale. Il populismo era un risentimento, si è trasformato in un sentimento, popolare.
«Dai leader populisti arriva un messaggio molto semplice: noi difendiamo il nostro popolo. Aprire i confini significa farvi entrare i ladri in casa e noi non lo permetteremo. È una questione che Matteo Salvini usa con grande intelligenza, con grande sagacia, in modo simbolico. Un simbolo enorme: la nostra casa è in pericolo, dobbiamo difenderci. Solo i coglioni, perdonami, dicono che le bandiere e i simboli non contano nulla: contano eccome! Eppure per anni si è detto il contrario, lo ripetevano i Blair e i Renzi. Ma la politica senza simboli, senza un sol dell’avvenire, è ineffettuale. Non produce e non ottiene nulla».
Tutto vero, però anche il vostro appello è stato accusato di intellettualismo, di astrattezza. Qualcuno ha scritto che si punta a far nascere un partito dei sapienti, di poche intelligenze illuminate, i dotti.
«E invece è necessario fare il movimento opposto: scendere dall’acropoli, ricostruire una presenza nella pianura. Il senso del nostro appello è dire a tutti: organizzatevi. Anche perché è evidente che i populisti falliranno e ci porteranno al disastro, per la loro fragilità strategica».
Si può fare prima delle elezioni europee? Con chi?
«In Italia l’unica forza, nel bene e nel male - ora direi soprattutto nel male - è il Pd. Non dà segni di vita, è sordo agli appelli, i suoi esponenti si limitano a dare del barbaro a Salvini, un esercizio sterile. Quando vedo Martina sul molo di Catania, davanti alla nave Diciotti, penso che faccia felice solo Salvini, è un atto di propaganda nei suoi confronti. Perché dietro quel gesto non c’è nessuno. Cosa ti sogni di fare opposizione dopo che da venticinque anni sei al governo o punti ad andarci? Non sei il Pci, come fare l’opposizione a questi l’hanno raccontato i nonni, ma loro non l’hanno mai vista, sono una classe politica che è stata cooptata per andare al governo. Fare l’opposizione in queste condizioni è una cosa comica! Se ci presentiamo così, è finita».
E allora? Va sciolto il Pd e poi cosa?
«La mia idea è fare leva sulla scadenza elettorale del 2019 per costruire un simbolo europeo. Le forze che condividono questo progetto si mettano insieme, in modo transnazionale: Macron in Francia, Ciudadanos in Spagna, Tsipras in Grecia, che è stato bravissimo. Un progetto che si chiami Nuova Europa. Senza questa iniziativa il Pd rischia la liquidazione. O ti ritiri e cavalchi in retromarcia o sfidi i populisti e i sovranisti su questo terreno».
È un progetto che assomiglia al Fronte repubblicano di Carlo Calenda? E che porta al coinvolgimento con il Pd di Forza Italia?
Tra gli intellettuali liberali (Giovanni Orsina, Angelo Panebianco) si discute: arrendersi ai barbari o fare il fronte unico. «Io dico di no. Forza Italia, i conservatori, devono restare fuori. Quello che serve è una forza democratica europea di totale discontinuità con il passato. È questo la Nuova Europa: un progetto di governo nuovo, di rottura con la vecchia interpretazione dell’Europa e in contrasto con i sovranisti».
Il governo di Salvini e di Di Maio arriverà alle elezioni europee?
«La cupiditas dominandi di Di Maio è inarrestabile, sarà difficile che scenda dal governo, M5S potrebbe entrare in difficoltà e sparire. L’unico tranquillo in questo momento è Salvini, con tutti i suoi fronti di sfida, da Fico a Mattarella. Ha un target fortissimo, una bandiera, un simbolo. E ha un nemico, che è essenziale. Le leadership europee sono apparse nemiche dei popoli, è questa la sua forza».
Nelle ultime pagine, in seguito agli articoli di Roberto Esposito sull’Espresso, su cui è intervenuto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera- La Lettura, si è sviluppato un dibattito sull’identità: l’assenza di un’identità che è stata tra i fattori di debolezza dell’Unione europea. Sei convinto che una formazione come la Nuova Europa che proponi sarebbe in grado di superare questo vuoto? Oppure si rischia di rifare un albero senza radici?
«Tu mi parli di radici, ma è Gesù Cristo che ha detto: sarete riconosciuti dai frutti, su quelli sarete giudicati. E allora: chi siamo? Siamo Salvini o siamo altro? L’identità è qualcosa che si cerca, non è data una volta per tutte. L’identità europea è una ricerca, è qualcosa che si fa nella storia. È stato un errore pensare il contrario: un’Europa senza identità e senza simboli o con un’identità da trovare esclusivamente nel passato. La radice dell’identità non va cercata nel passato, la radice si può individuare solo nel futuro».
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.... *
Un dialogo difficile ma necessario per capire l’Unione europea
Europeisti, euro-critici, euro-scettici, euro-ostili
di Pier Virgilio Dastoli (Il Mulino, 24 luglio 2018)
L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, uscito qualche giorno fa sul “Corriere della Sera”, si inscrive in quella corrente di pensiero che è stata troppo genericamente definita “euroscettica” - espressione coniata nel 1985 dal “Times” per definire l’ostilità del Partito laburista britannico contro le politiche liberiste della Comunità economica europea. Da allora il termine “euroscettico” viene applicato indistintamente ai (pochi) partiti che si battono per l’uscita del loro Paese dall’Unione europea (come l’Ukip di Neil Farage), ai (sempre più numerosi) movimenti contrari alla cessione o alla perdita dell’apparente sovranità nazionale nella dimensione sopranazionale, a alcuni partiti della sinistra radicale e alle forze politiche di estrema destra xenofobe e antisemite.
Come avviene per la corrente di pensiero europeista, nella quale occorre distinguere gli orientamenti moderati o conservatori di chi difende l’Ue nel suo stato attuale - con le istituzioni consolidate nel Trattato di Lisbona (2009) e le politiche di austerità rappresentate dal Fiscal Compact (2013) - dalla cultura federalista che sostiene la necessità di sovranità condivise nel quadro di una democrazia europea multilivello, così fra gli euroscettici occorre distinguere fra chi sostiene l’idea di un’Europa intergovernativa, nella quale prevalga la difesa degli interessi nazionali e la posizione di chi è contrario in se al progetto di integrazione europea, che ne propugna la fine e che potremmo definire più correttamente “euro-ostile”. Dalla nascita della Comunità economica europea nel 1957, i cittadini e le cittadine di ventidue Paesi europei sono stati chiamati quaranta volte a esprimersi per referendum sul processo di integrazione europea dando il loro consenso ventinove volte (a cominciare dal primo referendum “europeo” nel Regno Unito del 1975) e il loro voto contrario undici, ivi compreso il doppio “no” dei norvegesi all’adesione. Si è concluso un ciclo durato oltre vent’anni, segnato da una globalizzazione caratterizzata da politiche liberiste senza regole, da una crisi economica che è stata la più lunga e profonda che abbia mai attraversato il mondo. La crisi ha prodotto disuguaglianze tra i ceti sociali in conseguenza di un processo redistributivo della ricchezza a scapito del lavoro, del ceto medio, dei giovani e tra i popoli, in cui con la stessa logica non i ceti, ma le economie più forti hanno prodotto un ulteriore impoverimento all’interno dell’Ue dove vivono oggi 120 milioni di persone che rischiano la povertà e l’esclusione sociale.
L’intero pianeta è interessato da processi che, in maniera sempre più interdipendente e con velocità crescente, ne mettono in discussione l’assetto geopolitico e ne accrescono gli squilibri sociali: da quelli concernenti la finanza e le monete alla loro ricaduta sull’economia e sull’assetto sociale, dalla crescita della popolazione mondiale alla disperata migrazione delle parti più deboli di essa che rende sempre più aleatoria la distinzione fra richiedenti asilo e migranti economici, dal consumo eccessivo delle risorse naturali non rinnovabili alla compromissione irreversibile dell’ambiente, dal miglioramento delle condizioni di benessere di una parte minoritaria della popolazione del pianeta al precipitare in condizioni di crescente povertà, fame e malattia di un’altra parte notevole della stessa popolazione. Questi processi interdipendenti, se non governati da autorità sopranazionali, provocheranno devastazioni degli assetti istituzionali anche nelle democrazie più progredite del pianeta.
Le conquiste di civiltà, in particolare quelle che caratterizzano l’Europa, conseguenti a contraddittorie e controverse secolari azioni di dominio mondiale, rischiano di essere messe in discussione. L’illusione degli Stati europei che ritengono di attraversare, immuni, gli sconvolgimenti planetari ai quali assistiamo, rinchiudendosi nell’ottocentesca dimensione nazionalista, sarà spazzata via non solo dai flussi migratori africani e asiatici, ma anche dal progredire degli Stati continentali.
Alle problematiche sopra accennate si aggiungono, tra le altre, quelle dell’energia e dell’ambiente che continuano a essere affrontate dagli Stati nazionali, singolarmente e nelle sedi internazionali, con scarse possibilità di successo, in assenza di soggetti di governo e di politiche che consentano di fronteggiare e governare i processi interdipendenti che le caratterizzano.
Per rispondere al neo-protezionismo degli Stati Uniti, al nazionalismo russo, alla trasformazione nella rete dei poteri globali e al neocolonialismo economico cinese, l’Ue dovrebbe essere dotata degli strumenti necessari a svolgere un ruolo autonomo di attore politico a livello planetario per contribuire ad avviare un nuovo ciclo nel governo dell’interdipendenza, segnato da uno sviluppo equilibrato e sostenibile, dalla distensione e dal rispetto della dignità umana.
Se la globalizzazione ha cambiato, nel bene e nel male, il mondo in rapidissima sequenza, l’Ue è così apparsa incapace di reagire velocemente e in modo adeguato, prigioniera del potere multi cefalo dei governi nazionali in settori chiave per la gestione di problemi di carattere nazionale. Al contrario di un Leviatano o di un Impero europeo che dà ordini a stati e sudditi satelliti dall’alto del Berlaymont (la sede della Commissione europea a Bruxelles), il potere europeo è passato progressivamente nelle mani dei governi nazionali e, per essi, dei capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo all’interno di un’inedita “Santa Alleanza”, che costituisce quello che Habermas chiama il “federalismo degli esecutivi”. Amplificata dalla rivoluzione tecnologica e digitale, la globalizzazione ha sconvolto in questi anni gli equilibri più di quanto si immaginasse, causando una rapida redistribuzione internazionale del lavoro, delle ricchezze e degli investimenti. Se la portata inedita di tali fenomeni e il loro manifestarsi in veloce sequenza hanno cambiato il mondo, rendendo precari gli equilibri, l’Ue è apparsa vittima del suo gradualismo, delle risibili risorse finanziarie del bilancio Ue pari all’1% del Pil europeo e gestito da un’euro-burocrazia che costa a ogni cittadino 1,40 euro al mese.
L’analisi di Galli della Loggia non mi pare, dunque, fondata. Non vi è stata una vera eliminazione delle differenze fra gli Stati nazionali e le nazioni non sono scomparse. I Parlamenti nazionali sono stati in grado di recuperare parte dei loro poteri con il Trattato di Lisbona. Il pluralismo non è stato negato e gli indirizzi comuni nella sanità, nell’istruzione, nella cultura e nella ricerca sono passati dai tentativi (falliti) di armonizzazione al mutuo riconoscimento. La cittadinanza europea, infine, non ha sostituito le cittadinanze nazionali, ma ha aggiunto a esse diritti comuni che sono stati consolidati nella Carta europea dei diritti fondamentali.
Ogni giorno di più la realtà mostra, drammaticamente, che non ci può essere alternativa all’unità europea nella prospettiva di rinsaldare la secessione secolare con l’Oriente e con il Mediterraneo.
Per costruire quest’alternativa serve con urgenza una “operazione verità” condotta da un vasto movimento di opinione ben al di là dell’associazionismo europeista, una alleanza di innovatori che nasca dal mondo dell’economia e del lavoro, della cultura e della ricerca, delle organizzazioni giovanili e del volontariato coinvolgendo tutti coloro che vivono l’utilità dell’integrazione europea e pagano le conseguenze dei costi della non-Europa.
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POPULISMO E PRINCIPI COSTITUZIONALI
Perché la nazione ha ancora un senso
Il tema della patria è stato regalato a chi manipolandolo lo ha utilizzato per i propri scopi: è un inganno al quale non basta opporre il progetto europeista
di Ernesto Galli della Loggia *
L’Unione europea è visibilmente in crisi, non riesce a fare alcun passo avanti in quanto soggetto politico (anzi negli ultimi tempi ne ha fatto parecchi indietro), ma l’ideologia europeista almeno un successo importante può continuare comunque a vantarlo. Essere riuscita a delegittimare alla radice la dimensione della nazione in generale. Essere riuscita a farla passare come responsabile di tutte le sciagure novecentesche e come il ricettacolo delle più inquietanti ambiguità ideologiche, tipo quelle messe in circolazione da Matteo Salvini con il suo sciovinismo xenofobo a base di «prima gli italiani» e «padroni in casa nostra». Il risultato è che in pochi Paesi come l’Italia ogni riferimento alla nazione appare, ormai, come il potenziale preludio di una deriva sovranista, di una dichiarazione di guerra antieuropea, come sinonimo di sopraffazione nazionalistica. Non abbiamo forse sentito ripetere fino alla nausea, ad esempio, e dalle cattedre più alte, che gli Stati nazionali significano inevitabilmente la guerra? Come se gli esseri umani avessero dovuto aspettare la Marsigliese, il Kaiser o Mussolini per trovare il motivo di scannarsi. Come se prima dell’esistenza dei suddetti Stati nazionali di guerre non ce ne fossero mai state, e come se i Romani, l’impero turco, gli Aztechi, gli Arabi dell’epoca di Maometto o mille altri non avessero tutti coperto di stragi e di morti ammazzati il proprio cammino nella storia.
Naturalmente l’ostracismo comminato alla nazione ha avuto effetto non tanto sulla gente qualunque, sulla maggioranza dell’opinione pubblica quanto nei confronti delle élites, della classe dirigente. Anche perché l’Italia, si sa, non è la Francia. Da noi la cultura della nazione era già stata messa abbastanza nell’angolo dalla storia: non per nulla la Repubblica, nata e vissuta con l’obbligo di differenziarsi dal fascismo specialmente su questo punto, ha intrattenuto a lungo un rapporto per così dire minimalista con la nazione. Come del resto le sue maggiori culture politiche fondatrici (quella cattolica e quella comunista), il cui sfondo ideologico non aveva certo molto a che fare con la nazione.
Cresciuto per decenni in questa atmosfera, l’establishment italiano - in prima fila l’establishment culturale - si è dunque trovato prontissimo, dopo la fine della Dc e del Pci, a gettarsi nell’infatuazione europeistica più acritica. Trovandovi nuovo alimento non solo alla propria antica indifferenza, al suo disinteresse nei confronti di una dimensione nazionale giudicata ormai una sorta di inutile ectoplasma, ma per spingersi addirittura fino alla rinuncia della sovranità in ambiti delicatissimi come la formazione delle leggi. Mi domando ad esempio quante altre Costituzioni europee siano state modificate come lo è stata quella italiana nel 2001 con la nuova versione dell’articolo 117, che sottomette la potestà legislativa al rispetto, oltre che come ovvio della Costituzione stessa, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». (Sulla stessa linea, pur nella sua evidente vacuità prescrittiva, anche il primo comma aggiunto nel 2012 all’art. 97, secondo il quale «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»).
È accaduto così, attraverso queste vie e mille altre, che il tema della nazione sia stato pian piano regalato a chi, manipolandolo ed estremizzandolo, combinandolo con i cascami del populismo, se ne è sempre più servito per i propri scopi agitatori. Espulsa dalla cultura ufficiale del Paese, tenuta in non cale dal circuito della formazione scolastica, non più elemento vivo costitutivo del modo d’essere e di pensare della classe dirigente, la nazione (o meglio la sua caricatura) è fatalmente divenuta patrimonio e strumento di una parte. La quale non ci ha messo molto ad accorgersi della sua capacità di aggregare, di commuovere, e anche di illudere, d’ingannare, se del caso di trascinare alla più vile prepotenza.
Cioè di trasformarsi in nazionalismo, appunto. Ma di chi la colpa principale mi chiedo, se non di coloro che, pur potendo e sapendo, per cecità ideologica hanno omesso di ricordare che cosa ha veramente rappresentato l’idea di nazione? Di illustrare e di far valere nella discussione pubblica la reale portata storica, le innumerevoli conseguenze positive di quell’idea?
Senza la quale, tanto per dirne qualcuna, non ci sarebbero stati il liberalismo e la democrazia moderna, la libertà religiosa, le folle di esclusi e di miserabili trasformate in cittadini, le elezioni a suffragio universale. Senza la quale non ci sarebbe stata la scuola obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa, il Welfare e la sanità pubblica, e poi la rottura di mille gerarchie pietrificate, di tante esclusioni corporative. Senza la quale infine - scusate se è poco - non ci sarebbe stata neppure l’Italia. Cioè questo Stato scalcagnato e pieno di magagne grazie al quale, bene o male, però, nel giro di tre o quattro generazioni (una goccia nel mare della storia) un popolo di decine di milioni di persone ha visto la propria vita migliorare, cambiare come dalla notte al giorno, in una misura che non avrebbe mai osato sperare prima.
All’inganno nazionalistico che incalza e che cresce non vale opporre la speranza sbiadita e senza voce, il disegno dai contorni tuttora imprecisi e imprecisabili, del progetto europeistico. Va opposta prima di ogni altra cosa, in tutta la sua forza storica, la cultura della nazione democratica. Che più volte - ricordiamo anche questo - ha dimostrato anche di sapere aprirsi al mondo superando i confini della propria patria con la sua carica emancipatrice volta all’umanità.
* Corriere della Sera, 19 luglio 2018 (modifica il 19 luglio 2018 | 20:30) (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
LE IDEE. Il religioso nell’arte....
L’ultimo segreto delle icone russe
Le opere di Rublèv restano custodi del mistero proprio mentre lo esprimono
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 22.06.2018)
Tra le vere opere di Elémire Zolla sta certamente quella di averci fatto scoprire l’opera di Pavel Florenskij, promuovendo prima l’edizione di La colonna e il fondamento della verità presso Rusconi nel 1974 (prima traduzione nel mondo) e poi, presso Adelphi nel 1977, di Le porte regali. Opere fondamentali per il pensiero teologico e filosofico del Novecento, scaturite dall’irripetibile humus della apocalisse russa a cavallo della Rivoluzione.
Non posso non ricordare con emozione anche il mio incontro con esse (e l’influenza determinante che ebbero per alcuni miei lavori, come Icone della legge e L’angelo necessario, precedenti il largo sviluppo di studi su Florenskij che negli ultimi trent’anni è maturato soprattutto in Italia, fino al recentissimo e importante volume collettivo curato da Silvano Tagliagambe, Il pensiero polifonico di Pavel Florenskij, presso l’University Press della Facoltà teologica della Sardegna).
La ristampa di Le porte regali, dopo molte adelphiane, avviene ora a cura e con una post-fazione di Grazia Marchianò, nell’ambito dell’edizione delle Opere Complete di Zolla, presso Marsilio. Occasione preziosa per approfondire ancora il valore epocale di questo saggio. Esso va ben oltre all’illuminare i fondamenti teologici dell’arte dell’icona russa del XV secolo, e del sommo Andrei Rublëv in particolare, a partire dai suoi modelli bizantini (chiarendo cosi, retrospettivamente, anche aspetti decisivi di tutta l’arte paleocristiana); Le porte regali impongono una drammatica comparazione tra forme di civiltà, sulla differenza che sembra avere per sempre deciso la spiritualità dell’Europa orientale da quella occidentale.
Una comparazione che in Florenskij diviene perentorio giudizio, quasi ad assumere la forma dell’aut-aut. Da una parte, l’opera che rivela, che apre il Velo e permette di intuire il Realissimo; dall’altra parte, l’Occhio sovrano del poietes, dell’artista-poeta, che dispone la sua materia secondo la sua prospettiva. Da una parte, l’opera che fa tutt’uno col culto; dall’altra, la creazione che si pretende “libera”, e che per Florenskij è invece incatenata, come i prigioni della Caverna platonica, alla rappresentazione delle apparenze, delle ombre del Reale. L’icona vive sulla soglia, trova il proprio luogo appunto sull’Iconostasi che distingue lo spazio dei fedeli dal Sacro in sé inaccessibile. -Nel mostrare la abissale differenza tra i Due, l’icona è segno a un tempo dell’Invisibile stesso. Custode del mistero nel momento in cui lo esprime. Il mondo della sua immagine è puramente metafisico; l’immagine dell’icona è mundus imaginalis in sé, non in relazione a quello dell’esperienza sensibile.
È questo un destino dell’immagine e dell’immaginare da cui l’Occidente sembra separarsi per sempre con la grande svolta segnata da San Francesco, Cimabue, Giotto, Dante: qui la Luce taborica dell’Icona si incarna nella sofferenza, nel dramma storico delle figure fino a esserne inghiottita. E tuttavia Florenskij, grande teorico anche dell’arte dell’avanguardia russa, sa bene quale poderosa nostalgia per l’icona, per il suo pathos anti-soggettivo, anti-romantico, rinasca proprio nel Novecento!
Le forme fondamentali in cui una civiltà si esprime difficilmente muoiono, scompaiono, piuttosto, e altrettanto imprevedibilmente possono in altri modi risorgere. Ciò fa di Le porte regali un testo imprescindibile anche per la filosofia dell’arte contemporanea.
Non si intenderebbe però l’importanza filosofica del grande saggio florenskijano se non lo si leggesse alla luce dell’idea di Verità svolta nel suo capolavoro La colonna e il fondamento. Non si conosce veramente se non divenendo uni-sostanziali all’altro, non semplicemente simili. Non vi è verità nella semplice corrispondenza tra forme dell’intelletto e l’apparire delle cose. Anzi, l’errore è già contenuto nel chiamare “cose”, e cosi reificare, gli essenti reali di cui facciamo esperienza.
Conosciamo vera-mente soltanto il vivente che amiamo, e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità integra, eterna, luminosa, sovra-luminosa si rivela soltanto quando, usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è Amore. Questa idea di Verità, che ha origini neo-platoniche, e che Zolla pone giustamente in relazione con le grandi metafisiche dell’Iran, sembra essersi separata per sempre da quelle dominanti nell’Occidente, tutte, per Florenskij, nient’altro che rappresentazioni del nostro esserci storico (e perciò memoria o oblio di eventi temporalmente determinati). E tuttavia, di nuovo, come intendere nelle sue radici il nostro stesso destino se non comparandolo al paradigma che Florenskij gli oppone? Due civiltà, eppure entrambe appartenenti all’Europa o Cristianità. Un agon, una lotta nello stesso cuore? Questo mi sembra certo: che cessando tale lotta, cesserà di battere questo cuore. Evento che molti segni affermano già essersi compiuto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI. Una recensione di Michele Dolz di una nuova e più completa versione dell’opera del pensatore russo
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE -- Guida al nuovo occidente senza "utopia" e "profezia" (Cacciari e Paolo Prodi).
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
La Grande Crisi
Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. incapace di discussione pubblica Al punto di non ritorno
di Massimo Cacciari ( l’Espresso, 03.06.2018)
Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma.
Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega ino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi?
Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza.
Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza...».
Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo.
Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta - vero Renzi?
Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia. Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate.
Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto - dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro.
Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità.
Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
IMPARARE A CONTARE! ODIFREDDI CHIEDE A "CACCIARI, SOGNO O SON DESTO?". MA CONTINUA A ’DORMIRE’, NELLA SUA POSIZIONE PREFERITA!
Federico La Sala
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ...
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo. Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”.
Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti. Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo.
La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile. Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni. Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”. La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Costituzione e populismi (ateo-devoto) "di sostanza": W "la Repubblica", W "Forza Italia"!!! ... *
L’inganno sul mio voto a Berlusconi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 24.11.2017)
Cari Lettori,
non cadete nell’inganno di chi sfrutta una domanda paradossale («Chi voterebbe tra Di Maio e Berlusconi?») per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai. Martedì scorso ho partecipato alla trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris, dove tornerò martedì prossimo. Rispondendo a una domanda sul tema dell’ingovernabilità, ho detto che in caso di estrema necessità per superare una situazione paralizzante per il Paese il Pd (per il quale io ho sempre votato dai tempi di Berlinguer, dell’Ulivo prodiano e infine di quello costruito da Walter Veltroni) potrebbe essere costretto, come già successo in passato, a un’intesa non di natura politica con Forza Italia, sempreché si separasse da Salvini.
Ipotesi a me sgradita, che è emersa parlando del rischio di ingovernabilità del Paese, tema approfondito ieri sul nostro giornale con molta lucidità da Gustavo Zagrebelsky. Ho poi detto che ai miei occhi sia Di Maio che Berlusconi sono populisti, ma che il populismo del secondo ha perlomeno una sua sostanza. Ma veniamo allo stato attuale dei satti e dei sondaggi, i partiti in corsa sono soprattutto tre: il Pd, i Cinquestelle, la destra di Berlusconi e della Lega di Salvini.
Nelle recenti elezioni siciliane la destra ha largamente vinto, seguita dai grillini e a buona distanza dal Pd, con la sinistra dissidente che aveva presentato una propria lista con risultati lillipuziani. Questa situazione si ripeterà probabilmente nelle prossime elezioni di sine Legislatura che avverranno a marzo o aprile del 2018? Probabilmente sì. Il Pd si rassorzerebbe se la sinistra dissidente e Pisapia e Bonino consluissero sin d’ora nel partito: una sinistra unita probabilmente recupererebbe anche una parte degli astenuti che hanno sentimenti di sinistra lacerati dall’attuale dissidenza. Fassino, incaricato da Renzi, ha tentato in tutti i modi di recuperare la dissidenza, ma non è riuscito. Forse Pisapia, ma è ancora molto incerto.
Il tema dell’ingovernabilità è dunque ancora dominante, se nessuno dei tre maggiori partiti assronterà le elezioni della prossima primavera nella situazione attuale, il Paese non avrà un governo legittimato dal voto. Il Centro si orienterà verso la destra ma anche in quel caso un governo Berlusconi- Salvini non avrà la maggioranza, durerà qualche mese dopodiché le elezioni dovranno ripetersi. Ci troviamo purtroppo nella stessa situazione della Germania di Angela Merkel.
Ma c’è un’altra evidenza da sottolineare: così come sta accadendo per la Germania, anche un’Italia sballottata dall’ingovernabilità non conterebbe più nulla in Europa con tutte le conseguenze del caso. La mia risposta nella trasmissione televisiva a Floris era chiaramente motivata da quanto sta accadendo: se l’ingovernabilità prosegue così come le previsioni e i sondaggi attuali consermano, la maggioranza relativa sarà certamente del centrodestra, Salvini compreso ed anzi preponderante.
Ovviamente io non voterò mai Berlusconi, ma con quel tanto di esperienza che gli anni hanno largamente ampliato, la situazione è quella che ho qui esposto.
Come c’era da aspettarsi sono stato ricoperto di insulti dai grillini rappresentati nel Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma considero quegli insulti come una sorta di Legion d’onore. Quanto alla sinistra dissidente, ci pensi bene prima di risiutare le aperture di Renzi nei suoi consronti. Da parte loro è un litigio di comari, come si diceva un tempo. La politica è la prima delle attività dello spirito. Lo dimostrarono Platone e soprattutto Aristotele. Sarebbe opportuno leggerli. L’ho consigliato a Renzi e spero l’abbia satto. A Berlusconi è inutile suggerirlo, la lettura non sa parte della sua attività. Gli consiglio soltanto di piantare Salvini: meglio soli che in pessima compagnia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
Federico La Sala
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota sul Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare"
I POLITICI SI SONO FATTI TEOLOGI E LA TEOLOGIA, IN SENSO PROPRIO, NON PARLA PIU’. Una riflessione di Paolo Prodi.
Palazzo Ducale - Fondazione per la Cultura - Genova
La guerra di Troia
8 febbraio 2017, ore 17.45
Sala del Maggior Consiglio
Lectio magistralis
di Massimo Caccciari
chair Nicla Vassallo
Per il ciclo “Miti senza tempo”, a cura di Eva Cantarella e Nicla Vassallo, Massimo Cacciari riflette sulla guerra di Troia, un evento che nel nostro immaginario oscilla tra storia e letteratura, in un incontro dedicato a uno degli episodi più eclatanti del mondo classico. Non si tratta di un vero e proprio mito (perlomeno nel senso platonico del termine), bensì di una delle narrazioni più avvincenti, che in sé contiene molti miti e mitologie, e che non può, né deve essere venire utilizzata con qualche sedativa faciloneria predatoria delle cosiddette scienze umane, sempre che scienze siano, bensì rivisitato e rilanciato cogli strumenti e le metodologie razionali, serrate e agibili della filosofia, filosofia che, tra l’altro, vicino a Troia è nata. Chi ha goduto della “buona sorte” di visitare Troia può comprendere ancor meglio, chi non la avuta comprenderà Troia, il suo “mito” e la costante ricerca attraverso la lezione magistrale di Massimo Cacciari, accompagnato da una chair d’eccezione, Nicla Vassallo, che a Troia vi è stata più volte per amore della comprensione di quel mondo di allora, che oggi viene messo brutalmente in discussione.
Bio ineludibili
Massimo Cacciari si è laureato a Padova in Filosofia, con una tesi sulla “Critica del Giudizio” di Kant. Dopo la laurea è stato assistente di Dino Formaggio presso la Cattedra di Estetica di Padova. Dall’anno accademico 1970-1971 ha avuto un incarico di Letteratura artistica presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia ed è iniziata in quegli anni la sua amicizia e collaborazione con Manfredo Tafuri. Nel 1980 è diventato associato di Estetica e nel 1985 ordinario della stessa materia. Nel 2002 fonda con Don Luigi M. Verzé la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e ne diviene primo Preside. Attualmente è collocato a riposo. Nell’ottobre 2012 riceve dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo il titolo di Professore emerito. E’ stretto collaboratore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e del Collége de Philosophie di Parigi.
Nicla Vassallo (http://www.niclavassallo.net) si è specializzata al King’s College London, è ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Genova e associato dell’ISEM-CNR. Tra i suoi interessi scientifici: epistemologia, filosofia della conoscenza, metafisica, gender studies. Autrice, coautrice, curatrice di ben oltre centocinquanta pubblicazioni, della sua produzione scientifica, in italiano e in inglese, ricordiamo i volumi più recenti: Filosofia delle donne (Laterza 2007), Teoria della conoscenza (Laterza 2008), Knowledge, Language, and Interpretation (Ontos Verlag 2008), Donna m’apparve (Codice Edizioni 2009), Piccolo trattato di epistemologia (Codice Edizioni 2010), Terza cultura (il Saggiatore 2011), Per sentito dire (Feltrinelli 2011), Conversazioni (Mimesis 2012), Reason and Rationality (Ontos Verlag 2012), Frege on Thinking and Its Epistemic Significance (Lexington-Rowman & Littlefield 2015), Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso! (Laterza 2015), Breve viaggio tra scienza e tecnologia con etica e donne (Orthotes 2015), Meta-Philosophical Reflection on Feminist Philosophies of Science (Springer, New York 2016). Sta al presente lavorando sul problema dell’ignoranza conoscitiva, sulle sue cause, i suoi modi per porvi rimedio. Ha vinto il premio di filosofia “Viaggio a Siracusa” nel 2011. Ha pubblicato due raccolte di poesie, Orlando in ordine sparso (Mimesis 2013) e Metafisiche insofferenti per donzelle insolenti (Mimesis 2017).
http://www.palazzoducale.genova.it/massimo-cacciari-2/
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
(federico la sala)
Piergiorgio Odifreddi, intervista Huffpost: "Il 90 per cento degli italiani è stupido"
di Redazione (l’Huffington post, 25/09/2016)
Odifreddi, nel suo dizionario c’è anche la voce: Matteo Renzi. Perché?
Se vogliono conquistare voti, i politici devono dire alle persone ciò che si vogliono sentir dire. Tendenzialmente, delle stupidaggini. E Matteo Renzi è l’erede perfetto di Berlusconi: il Cavaliere ha imparato a farlo cantando sulle navi, lui esordendo alla Ruota della fortuna.
Ma politicamente?
Renzi ha realizzato il programma berlusconiano, andando addirittura oltre con il Jobs act, che ha dissolto le tutele dello statuto dei lavoratori.
Dedica un lemma anche a Grillo.
Grillo ha iniziato a dire scemenze prima di cominciare a fare politica. Per dire: sosteneva che l’AIDS era una bufala, che l’OGM ammazza, che le radiazioni dei cellulari cuociono le uova. Ma lui ci crede. È questa la grande differenza tra Grillo e un politico di professione: che il politico deve dire delle cretinate per racimolare voti, lui le dice per convinzione.
Eppure ha un gran consenso.
Non voglio dire che il suo pubblico sia fatto di deficienti. È una parola brutta. Dico: ingenui. Ma rimane il fatto che sono persone che credono alle scie chimiche e fanno battaglie contro i detersivi. È la parte della società con meno mezzi culturali per giudicare.
Possibile che siano tutti così?
Bertrand Russell diceva che i politici hanno nei confronti degli elettori un vantaggio: che gli elettori sono più stupidi di loro. E giudicare Grillo, per me, è troppo difficile: mi è così distante che lo considero un minus habens. Quando lo sento, mi viene la pelle d’oca. Dicono che i suoi siano argomenti di pancia. Io fatico a considerarli proprio argomenti.
A Palermo, però, molte persone sono andate per ascoltarlo alla Festa nazionale dei 5 stelle.
Il novanta per cento delle persone è stupido. Quindi, considerato che siamo 60 milioni, in Italia ci sono almeno 54 milioni di stupidi: non credo ve ne siano di più a quella festa.
E gli altri dove vanno?
Vanno anche alle feste dell’Unità. Come si fa a pensare che dopo due anni di governo Renzi quella festa abbia un senso? Almeno, per decenza, cambiassero nome.
Non le sembra di sottovalutare? Il partito democratico governa il Paese, i Cinque stelle hanno conquistato due grandi città alle ultime elezioni.
C’è una differenza enorme tra le due città: a Torino, Chiara Appendino è il prodotto di ciò che i 5 stelle stessi chiamano poteri forti; a Roma, invece i poteri forti li hanno contro.
Può essere più esplicito?
Dietro Appendino c’è la Fiat. Appena aletta, John Elkan è subito corso a incontrarla. Viceversa, Virginia Raggi è dovuta recarsi in visita dal Papa.
C’è solo questa differenza tra le due?
No, Appendino ha le qualità per governare, Raggi le ha solo per vincere le elezioni.
Scrive: "E’ venuto il momento di tornare a considerare i banchieri paria della società e reietti da Dio".
Nel Medio Evo, era considerato usuraio chiunque prestasse denaro, a qualsiasi tasso. Oggi il fastidio per i banchieri è tornato a essere forte. Quando la gente vede i posti di lavoro che evaporano, le tutele che si dissolvono, e dall’altra gli aiuti di stato per tenere in vita istituti che hanno fallito, s’incazza.
Però è difficile vivere in un mondo senza banche.
Certo che si può vivere in un mondo senza banche. Per metà del secolo scorso, l’Unione Sovietica ne ha fatto a meno.
Non è andata benissimo, però.
Non per quel motivo. Mi domando perché non si possano nazionalizzare le banche che vengono salvate. Perché è diventata una bestemmia?
In Europa, nazionalizzare è contrario alle regole dell’Unione.
È per questo che l’UE suscita l’astio dei suoi cittadini: perché è solo un’unione economica.
Nel suo libro, mostra di preferire Ratzinger a Papa Francesco. Perché?
Da ateo, con Benedetto XVI ho avuto un dialogo. Mi è interessato leggere le cose che scriveva, Ratzinger aveva una profondità di pensiero. La statura intellettuale Papa Francesco lascia perplessi. Quando parla, mi cadono le braccia. La misericordia, il vogliamoci bene, l’amore: sono cose talmente banali. Chi può essere contrario?
È facile criticare l’Islam allo stesso modo in cui lei, ora, ha fatto con il Cattolicesimo?
Penso che, in realtà, sia molto più facile criticare l’islam che il Cristianesimo. Farlo, è politicamente corretto. Ci sono partiti politici che fanno propaganda sull’equazione musulmano uguale terrorista. E l’opinione pubblica è sempre sul chi va là.
Dimentica quello che è successo in Francia per le vignette di Charlie Hebdo su Maometto?
La diversità è che i cristiani non vengono sotto casa ad aspettarti se li prendi di mira con la satira. Ma ricorda la parodia di Ratzinger fatta da Crozza? A un certo punto ha dovuto smettere di farla. E potrei fare altri esempi. Nei risultati, non è molto diverso da quello che accade con l’Islam.
Lei è stato compagno di classe di Flavio Briatore. Ha letto della polemica sul turismo al sud, secondo lui poco sensibile ai bisogni dei ricchi?
Non saprei dire se è così. So che con Briatore studiavo al geometra. Lui fu bocciato al secondo anno, poi lasciò e fece una scuola privata per recuperare tutti gli anni in uno. Credo sia la dimostrazione che il detto popolare - "ultimi a scuola, primi nella vita" - è vero.
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Esposito (la Repubblica, 13.09.2016)
In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge.
Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione.
Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica.
Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio-speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma.
La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
La visione strumentale della religione di Berlusconi che ora si affida a Dio
di don Aldo Antonelli ( L’huffington Post, 13/06/2016)
Dopo essersi sostituito a Dio negli anni della sua onnipotenza, ora lo risuscita come altro da sé, ma sempre a supporto del suo ego e come polizza assicurativa nei giorni della sua impotenza. "Mi affido a Dio!".
L’espressione non è la confessione di una improvvisa conversione, ma la prosecuzione di un’antica, strumentale visione della religione.
Sia chiaro. Qui non si vuole infierire sulla malattia del de cuius, cui auguriamo pronta guarigione, ma evidenziare l’uso, o meglio, l’ab-uso, cui spesso la religione si presta e a cui ancora più spesso molti ricorrono. È un cliché vecchio stampo ma sempre "disponibile", "pronto all’uso".
Nel suo bellissimo e molto interessante libro "Prego Dio che mi liberi da Dio" a pagina 45 Marco Vannini scrive testualmente: "Nel suo aspetto menzognero, la religione è la forma estrema di appropriazione, religio come legame non all’origine, alla verità, ma a se stessi, ovvero amor sui, che vuole impadronirsi di Dio per metterlo al proprio servizio, a sostegno dell’egoità - e lo fa con la costruzione di una teologia".
Il Cristianesimo, così come si evince dal messaggio evangelico, che è la carta costituzionale per la fede di un cristiano, è ben altra cosa: Dio mi libera da me stesso per aprirmi, in totale disponibilità e senza riserve, all’altro.
Caro Cacciari, perché su Renzi sbagli tutto
Riforme. Il neo-centralismo della riforma costituzionale e il dispositivo autoritario contenuto nell’Italicum non sono una cattiveria di Renzi. È un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globale, di una strategia ineludibile per il ceto politico. Se non hai il consenso hai bisogno del potere
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 31.05.2016)
L’intervista che Massimo Cacciari ha rilasciato a Ezio Mauro (Repubblica, 27.5.2016) per motivare il suo SI al referendum confermativo della riforma del Senato, offre al lettore, io credo, un buon campionario di motivi per indurlo al comportamento contrario a quello perorato dal filosofo: cioé a votare decisamente NO.
Nel merito Cacciari arriva a definire l’oggetto del referendum «una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino». Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi». Come dissentire?
Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi». E tuttavia egli dichiara che la riforma è da approvare comunque, perché finalmente si arriverebbe a decidere un cambiamento. Quel che importa è che si faccia qualcosa.
Un ragionamento - mi perdonerà l’amico Cacciari - che non si discosta molto da quello del padre della fanciulla che ha visto sfumare tante occasioni di matrimonio e alla fine si acconcia a farla sposare allo sciancato del paese. Perché almeno non resti zitella. Ma non son queste le pecche peggiori del suo argomentare.
Egli fa una ricostruzione storica troppo sommaria e indistinta della sinistra in lotta per le riforme istituzionali. Finisce con lo stabilire un nesso di continuità, diciamo tra la fondazione del Centro per la riforma dello Stato, voluta dal Pci nel 1972, con l’efficace direzione di Ingrao per tutti gli anni ’80, e il «brutto topolino» dei nostri giorni. Finisce col dare ragione a tanti giovanotti e fanciulle del Pd, che negli ultimi tempi sono andati in forze in Tv («la riforma che l’Italia aspettava da 30 anni»). Come dimenticare, infatti le grandi manifestazioni popolari, nelle piazze di tutto il Paese, per invocare l’abolizione del Senato? Ma questo è il folklore... La sostanza storica è che Cacciari mette insieme cose diverse.
Intanto ricordiamo che l’esigenza di una riforma dello Stato, nata dentro alcuni settori del Pci, non era ispirata solo da ragioni di efficienza della macchina decisionale, ma soprattutto dalla volontà di un allargamento della democrazia. Per la verità, ricordando le battaglie federaliste degli ultimi decenni, Cacciari non dimentica le ragioni di una maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, ma proprio questo rende ancora più paradossale e insostenibile la sua posizione. A essere tradito oggi è esattamente l’ordito federalista da lui auspicato, a favore di un neocentralismo che sta sottraendo materie importanti alle regioni, soprattutto per quanto riguarda il governo dei propri territori.
Il nuovo Senato toglierà ancor più potere alle aree periferiche del Paese - com’è stato persuasivamente argomentato da tanti costituzionalisti di rango - non solo perché non tutti i territori saranno parimenti rappresentati. Ma anche per una ragione più grave e per certi versi drammatica. Ma si ha idea delle lotte che esploderanno all’interno dei consigli regionali per accaparrarsi il posto di consigliere-senatore? Quanti mesi sottrarranno al lavoro dei nostri governi regionali?
C’è nel ragionamento di Cacciari, ma soprattutto di tanti altri commentatori, una impropria sopravvalutazione del fattore efficienza della macchina amministrativa. Fattore certo importante, ma spesso secondario. Attribuire al bicameralismo perfetto l’inefficienza dei nostri governi è una lettura semplicemente superficiale della storia politica italiana.
Negli anni ’70 vigeva il bicameralismo eppure in quel decennio sono state realizzate le riforme più importanti per la modernizzazione dell’Italia. E il ragionamento vale anche in periferia. Davvero si crede che le nostre regioni, soprattutto quelle meridionali, non siano capaci di utilizzare a pieno i fondi strutturali europei per pura inefficienza? In realtà sono lentissime nel decidere a causa delle lotte intestine tra i vari gruppi che si contendono le risorse e sono in perenne litigio sulle forme, i modi, i luoghi del loro utilizzo. Il guasto è nel corpo del ceto politico e lo si cerca nelle istituzioni.
Ancora più paradossale è però il “Si” di Cacciaci al referendum accompagnato da un giudizio severo sulla riforma elettorale dell’Italicum. Ma dov’è, innanzi tutto, il senso tattico di questa posizione? Già Renzi ha fatto sapere, con la consueta mitezza di modi, che «l’Italicum non si tocca». Figuriamoci quanto sarà disponibile a modificarlo nel caso dovesse vincere il referendum d’autunno. Ma questa distinzione tra legge elettorale e riforma del Senato, che è di tanti attori politici e commentatori, tradisce una grave incomprensione storica di quel che è avvenuto nei paesi capitalistici.
E a Cacciari, a tal proposito, dovrei ricordare, allorché usa il termine sinistra, che negli ultimi 15 anni, un arcipelago di intellettuali si è messo a studiare il capitalismo attuale e riesce a leggere in profondità e con capacità di anticipazione i fenomeni sociali e politici del nostro tempo. Quella capacità che la sinistra storica sembra avere ormai definitivamente perduto.
Il dispositivo autoritario contenuto nell’Italicum non è una cattiveria di Renzi. E’ un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globalizzato, di una strategia che oggi appare ineludibile per il ceto politico. Non lo ripeterò mai abbastanza: ceto politico vuol dire una classe professionale, con sempre meno legami con le masse popolari, che vive di politica, cioè di mediazione tra i poteri industrial-finanziari e la società. Tale ceto politico, sia per la sempre minore autonomia d’azione dello Stato-nazione, sia perché necessitato a ridurre sempre di più diritti e welfare non riesce a governare con il consenso dei cittadini. C’è bisogno di prove?
Osservate le statistiche della diserzione delle urne, in Italia come altrove. Se manca il consenso, per governare occorre il potere. L’Italicum è il completamento di un disegno già in atto. Il governo Renzi ha abolito l’articolo 18, combatte apertamente il sindacato, ha elevato a simbolo della sua nuova narrazione un capitalista internazionale come Marchionne, ha insediato la figura del preside-capo nelle scuole, controlla e presidia quotidianamente le Tv pubbliche. Forse che non ha dato sufficienti prove di spregiudicatezza e irresponsabilità nel manomettere la Costituzione e spaccare ora il Paese? Che cosa devono desiderare di più e di meglio i gruppi capitalistici nazionali e transnazionali? Giusto un governo dominato da un capo che comanda un Parlamento di nominati. Eccolo in arrivo...
L’Italia ha già conosciuto su scala ridotta lo squallido servilismo, il conformismo asfissiante generato in tutti gli ambiti della società dal potere assunto, a metà anni ’80, da Bettino Craxi e dal suo Psi. Oggi incombe su di noi un ben più grave pericolo, perché allora, benché mal messi, esistevano ancora i partiti di massa. Oggi non più. Allarmante è che un intellettuale della statura di Cacciari non l’abbia ancora capito.
IL "SENATICCHIO" INCONGRUO... Non è di questione morale che si dovrebbe parlare ma di sistema. Non di gente che ruba, ma dell’assenza di un sistema funzionante, di un meccanismo, di un automatismo - hai insistito - che renda irrilevante la gente che ruba (non il rubare, spero).
Ma perché dici sì a una riforma costituzionale sulla quale sputi?
Lettera aperta a Massimo Cacciari
di DI ROBERTA DE MONTICELLI (libertàegiustizia, 11 MAGGIO 2016)
Caro Massimo, non è la prima questa lettera e non sarà l’ultima, nel corso della nostra ormai lunga, benché molto intermittente, conversazione “filosofica”. E lo scrivo fra virgolette, perché lo è, filosofica, e non lo è, la questione che pongo. Lo è per noi che concepiamo la filosofia come “pensiero concreto”, per usare un’espressione tua. E non come una fabbrica di abracadabra e calembour più o meno brillanti. Comunque la questione che ti pongo la chiamo “filosofica” anche per darmi coraggio e superare la distanza, tutta a tuo favore, di autorevolezza e presenza sulla scena pubblica, oltre che quella abissale, ancora a tuo favore, di effettiva conoscenza ed esperienza della politica.
Vengo alla questione che vorrei porti questa sera, 9 maggio, dopo averti ascoltato, ospite di “Otto e mezzo”, sviscerare - anzi, eviscerare, a rapidi colpi di spada, con espressività e vigore assolutamente eloquenti - l’“assurdità” e la sgangherata incongruenza della riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum. Quel ridicolo senato fatto di consiglieri regionali e sindaci non solo non risolverebbe il problema del bicameralismo perfetto, che tu ed altri, dicevi, avevate rivoltato in tutti i suoi aspetti (con ben altra attenzione e competenza, si evinceva dal contesto) prima che gli autori della riforma attuale “fossero al mondo”, ma complicherebbe a dismisura - lo hai ben chiarito - il più profondo errore di sistema della democrazia italiana, al quale tornerò fra poco.
Ecco la domanda: perché allora voterai “sì” al referendum, come hai detto? E’ una domanda sincera e smarrita. E se la faccio, è perché credo che molti se la facciano con il mio stesso smarrimento. Molti di quei non molti che della nostra vita civile si preoccupano, che credono o tentano di credere, con la loro fatica quotidiana, che la Repubblica siamo noi, e che se accettiamo una riforma “assurda”, incongrua, incoerente e inefficiente dei suoi fondamenti, della democrazia sfigurata e monca che ne risulterà noi saremo non passivi, ma attivi complici, dunque colpevoli. E quanti di quelli che ti hanno ascoltato continueranno a credere, come Socrate insegnava ai suoi concittadini, che sia doveroso chiedere ragione di ogni decisione che ci riguarda? Che abbia senso applicare la volontà di evidenza, la logica, il buon senso, alle cose che pure sommamente ci riguardano, della politica?
Se anche il più noto filosofo italiano scorna la logica e l’evidenza in politica, e getta il peso di tutto il suo prestigio nel dire sì a una riforma costituzionale sopra la quale sputa? Quanti che ancora non avevano del tutto perduto la voglia di partecipare, cioè di discutere e deliberare nello spazio delle ragioni, dove le parole hanno un senso e le decisioni una coerenza, perderanno la loro residua fiducia nella democrazia? Perché la democrazia non è solo una forma di governo. E’ una civiltà fondata in ragione, il che vuol dire, sulla fragile forza dei nostri interrogativi, sulla fatica dei buoni argomenti. Una Repubblica democratica è fondata su lavoro - sul nostro lavoro di cittadini, così faticoso, così disprezzato. Anche e soprattutto da chi, “nel paese di Machiavelli”, come hai detto, trova come te che si parli troppo di “questione morale”. Cioè di interesse pubblico!
Vengo al paese di Machiavelli, perché qui hai detto una cosa illuminante, che il politico di turno ha subito ripreso a suo vantaggio. Non è di questione morale che si dovrebbe parlare ma di sistema. Non di gente che ruba, ma dell’assenza di un sistema funzionante, di un meccanismo, di un automatismo - hai insistito - che renda irrilevante la gente che ruba (non il rubare, spero). Evviva, qui riconosco a ciascuno il suo e a te maggior sapienza: io non chiamerei automatismo un’amministrazione impermeabile alla corruzione, ma riconosco che qui sì, ha più da dire un filosofo che conosce o riconosce l’elemento sistemico della politica e della società - più di uno che, come chi scrive, non ha in politica altro orizzonte che quella dell’etica pubblica e non vede altri attori che gli individui responsabili.
Bene: ma proprio qui tu hai detto la cosa giusta. Il più profondo errore di sistema della democrazia italiana è non disporre di un dispositivo che disinneschi la corruzione, lasciando operare come devono le pressioni degli interessi particolari, ma senza farsene travolgere. E proprio questo senaticchio incongruo, fatto dei pezzi finora più corrotti di meccanismo mal funzionante, ci hai fatto capire, aggraverebbe ancora di più l’errore di sistema. Questo sarebbe l’esito della riforma.
E allora perché, perché dirle di sì?
Massimo Cacciari. Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica “Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò”. “Ora Renzi però fa un errore capitale se personalizza il confronto”
“Riforma maldestra ma è una svolta, l’attacca chi ha fallito per 40 anni”
Intervista di Ezio Mauro (la Repubblica, 27.05.2016)
PROFESSOR Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all’opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all’ultimo sangue sul referendum?
«Devo essere sincero? C’erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella».
Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
«Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch’io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall’altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico ».
Di cosa avevate timore?
«Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori».
Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
«Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all’economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell’Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica».
Come mai quell’idea non ha funzionato?
«Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell’istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia».
Per la paura comunista, dall’opposizione, di rafforzare l’esecutivo?
«Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l’esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi».
Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
«Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d’inchiesta all’americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un’autorità quasi da tribunato».
Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E’ questa la riforma che vorrebbe?
«Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E’ quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole».
Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
«E’ quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica? ».
E’ esattamente l’accusa che viene rivolta dal fronte del “no” alla riforma del Senato, non le pare?
«Esattamente proprio no. Manca l’autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n’era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell’Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant’anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche».
Quali?
«Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente».
E dunque per questo - mi ci metto anch’io - dovremmo stare zitti?
«Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D’Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient’affatto federalisti ».
Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
«Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente ».
Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
«La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall’altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo? ».
Anche lei prigioniero del “non c’è alternativa”?
«No, io so cosa c’è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo? ».
Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
«Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C’è una teoria della cosa, si chiama il “male minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele».
E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
«Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all’effetto che avrebbe sull’opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel “no”: chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio».
Sta dicendo che rifiuta il “no”?
«Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del “no”, non il tono e l’impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni».
Dunque?
«Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana ».
Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
«E’ inutile girarci intorno, è Milano che decide l’intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi».
E a sinistra?
«Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze».
Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l’Austria e con tutta l’Europa di mezzo?
«Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com’è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l’Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer ».
E’ colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
«E’ colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l’identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente».
“Non la Costituzione, l’hanno distrutta”
Ha detto Il giurista: non faccio lezione sul testo Renzi-Boschi
intervista di Jacopo Iacoboni (La Stampa, 15.03.2016)
«Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Gustavo Zagrebelsky ci scherza su; una citazione leopardiana invita a non drammatizzare troppo la notizia che vogliamo commentare: a quasi 73 anni uno dei decani della cultura torinese - e un simbolo, nonostante lui neghi insistentemente - della Torino post-azionista lascia l’Università della città per accettare l’invito ad andare a insegnare a Milano, al San Raffaele. È un momento che segna oggettivamente la fine di una stagione, e forse di una fase del dibattito politico italiano.
Le fa effetto lasciare l’insegnamento a Torino? È esagerato dire che è la fine di tutto un mondo, di laicità e democrazia intransigente?
«Appunto: è un’esagerazione. Quel verso di Leopardi dice che tutto passa, ma aggiunge: “quasi”. Una certa Torino non c’è più dagli anni cinquanta, ma quel mondo non è sparito. Rivive in altre forme, magari non è più egemone, ma quando lo è stato? Torino insegna ancora una sorta di repulsione del mondo intellettuale verso il potere politico, la ripulsa dell’arruolamento. L’idea di entrare in una squadra ci sembra un tradimento. D’altra parte non mi sono mai sentito figlio legittimo della Torino azionista, non sono stato allievo di Bobbio, anche se, specialmente negli ultimi anni, ho avuto con lui una grande amicizia. Ma la mia Torino era anche Giuseppe Grosso, un cattolico, accanto appunto a Bobbio o a Galante Garrone. E Leopoldo Elia, colui con il quale ho iniziato gli studi costituzionalistici. Era questa sintonia tra laicità e il miglior pensiero cattolico liberale. La favola della Torino azionista “covo di moralisti, giacobini e intollerante” è una vulgata polemica creata ad arte da destra, a fini denigratori».
Vulgata poi arrivata, anche solo come ronzio, all’orecchio dei governanti di oggi, quelli che le danno del “professorone”.
«Mah! Lei crede che sappiano qualcosa dell’azionismo? Il nuovismo e il giovanilismo bastano a se stessi. Non hanno bisogno d’altro per compiacersi di sé».
Torniamo a Torino.
«Non è un addio, avrei comunque lasciato l’Università. Per una serie di ragioni. Per stanchezza, fisica ma anche mentale. Ho quasi 73 anni, preparare le lezioni di diritto costituzionale diventava più faticoso, anche se poi l’incontro con gli studenti è sempre stato molto bello. Qualche mese fa Massimo Cacciari, che era venuto a presentare un mio libro sul Grande inquisitore, mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere tenere un corso al San Raffaele. Mi disse “vieni a insegnare filosofia del diritto”. La cosa mi ha stuzzicato e ho accettato; ma non parlerò di Tommaso o di Aristotele. Parlerò dei limiti, dei confini del diritto. Le idee migliori sul diritto, diceva Bobbio, vengono dai giuristi pratici, più che dai filosofi. Il diritto ha dei limiti? Può invadere tutte le sfere dell’esistenza o ce ne sono alcune davanti alle quali deve fermarsi? Non è rimasto allibito davanti all’idea che il legislatore, nel dibattito sulle unioni civili, possa legiferare su cose come la fedeltà? Siccome il diritto incontra dei limiti, e non ce la fa a vietare, per esempio il cosiddetto l’utero in affitto o la maternità surrogata, quello è il campo in cui deve operare non l’homo iuridicus, ma l’homo moralis. Poi, di fronte all’impotenza, i politici rimettono le decisioni ai giudici e, ipocritamente, si lamentano delle loro “invadenze”».
Lei che posizione ha sulla maternità surrogata?
«Gli aspetti commerciali mi turbano, sono un uomo dell’altro secolo. Che tutto sia o possa essere business mi spaventa. Comunque, non si può derogare a due principi: la non discriminazione del bambino nato con gestazione diversa, e l’interesse del minore. A Milano parlerò di cose come queste».
Che bilancio fa oggi di 50 anni in cattedra?
«Parafrasando San Paolo, che disse “ho combattuto la buona battaglia, e ho mantenuto la fede”, io direi invece che ho perduto la fede».
Perché?
«Non voglio più insegnare il diritto costituzionale. La Costituzione non è una materia come le altre, è qualcosa che implica l’adesione a certi valori. Se passerà il referendum sulla riforma Boschi non saprei neanche più che cosa insegnare. È un testo scritto malissimo, in certe parti contraddittorio e incomprensibile. La Costituzione del ’48 fu rivista da personaggi come Concetto Marchesi. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia» (Zagrebelsky ha davanti l’articolo 70 sulla funzione legislativa. Ne legge le sgrammaticature, e fa impressione).
Chi ha scritto materialmente questa roba?
«Persone che hanno trovato su questo tema l’occasione, la volta buona, per emergere nel dibattito tra i costituzionalisti».
Renzi e Boschi non sono molto toccati dalle sue critiche.
«Me ne sono fatta una ragione. Siamo in mano a persone per le quali tutto diventa negoziabile. L’opportunismo governa. Per questo, mi va bene la filosofia del diritto; la consolatio philosophiae come, se mi è lecito, per Severino Boezio».
Perché il bisogno di giustizia è più forte del relativismo etico
Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza”
di Vito Mancuso (la Repubblica, 22.03.2016)
La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.
Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.
Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?
È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).
Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».
Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.
Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.
Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta... e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.
La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni. Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».
Massimo Cacciari
Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Renzi al posto fisso e all’articolo 18
“Matteo abbatte i simboli della socialdemocrazia per sedurre il centrodestra con il Partito della Nazione”
“Il premier agita bandiere ideologiche e di fatto allontana le due anime del Pd. Una scissione? Non la teme e forse, sotto sotto, la desidera”
intervista di Sebastiano Messina (la Repubblica, 28.10.2014)
ROMA «Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Matteo Renzi al posto fisso e all’articolo 18. Lui sta abbattendo i simboli della sinistra socialdemocratica per penetrare nel centrodestra con il progetto del Partito della Nazione. E’ un piano lucidissimo». Non è per niente stupito, Massimo Cacciari, della durezza dello scontro che si è acceso nel Pd.
Professor Cacciari, non è la prima volta che un presidente del Consiglio di sinistra dice che è finita l’epoca del posto fisso (lo disse D’Alema 15 anni fa). Eppure stavolta sembra diventato lo spartiacque tra le due anime del Pd, quella che si è radunata alla Leopolda e quella che è scesa in piazza con la Cgil. Perché?
«A volte il tono è tutto. Mentre gli altri dicevano queste cose con un tono di analisi, anche spietata, Renzi mi presenta un destino come se fosse un suo successo personale: ah che bello, finalmente è finita l’epoca del posto a tempo indeterminato! Ma come si fa a non comprendere il carico di ansia, di frustrazioni che una situazione di questo genere può determinare? Un politico non può fermarsi all’analisi: deve dirmi quali sono i rimedi. Deve dirmi quali ammortizzatori sociali ha previsto, e quali garanzie avranno i lavoratori senza più posto fisso per la loro pensione».
Il segretario del Partito democratico, dice lei, non dovrebbe parlare così.
«Neanche il più feroce dei conservatori ha mai presentato queste trasformazioni sociali che possono generare ansie ed angosce come se fossero delle pensate geniali».
Il vero centro della polemica sembra però l’abolizione dell’articolo 18. Difenderlo oggi, ha detto Renzi, è come cercare di mettere il gettone nell’Iphone. E’ così?
«Ma è evidente che l’abolizione dell’articolo 18 è una bandiera ideologica, una banderuola rossa che Renzi sventola sotto il naso dei suoi oppositori e dei suoi sostenitori. L’ha detto lui stesso».
E perché, secondo lei, ha scelto questo tema, in questo momento e in questo modo?
«Perché è il tema che gli dà più spazio nel costruire il Partito della Nazione. E’ un tema ideologico molto forte, che gli permette di penetrare nell’ambito dell’elettorato di centrodestra. E l’articolo 18 è una formidabile arma ideologica per costruire questo consenso trasversale, infinitamente al di là dei confini tradizionali del centrosinistra. Siamo di fronte a un politico puro, e di razza secondo me. Il suo è un calcolo tutto politico, non c’entra nulla il ragionamento economico».
Ma il partito della Leopolda e quello di piazza San Giovanni possono convivere?
«Queste due anime sono sempre meno avvicinabili, ma Renzi il problema di tenerle insieme non se lo pone neanche. Lui pensa: se io do l’impressione di entrare in un gioco di compromessi e di mediazioni tra personaggi che la pubblica opinione ritiene assolutamente sorpassati, io divento uno di loro, e perdo».
Ormai il tema della scissione è sul tavolo. Non la temo, dice Renzi. Sarà inevitabile, secondo lei?
«Io credo che lui non solo non la tema ma sia sul punto di desiderarla. Fino a qualche tempo fa no, ma ora forse comincia a pensare che la scissione gli convenga».
Cioè crede che tagliare le radici, e perdere un pezzo del partito, gli porti più voti?
«Se c’è una scissione, è chiaro che senza i Bersani e i D’Alema eccetera non potrà mai rifare il 41 per cento. Ma il taglio delle radici potrebbe convenirgli, per realizzare il suo progetto. E forse avrà fatto questo ragionamento: se escono da qui, cosa fanno? Si rimettono con Vendola? Fanno un’altra Rifondazione? Se ci fosse qualcuno che ha un’idea oltre Renzi, beh allora francamente sarei il primo io a iscrivermi al partito di questo qualcuno. Ma qui hanno tutti facce, e idee, pre Renzi. Eccetto Civati. Se togli lui, gli altri sono i reduci, come li chiama Renzi. Hanno fatto il Partito democratico senza uno straccio di idea nuova: l’unico che ce l’aveva era Veltroni, che infatti oggi appoggia Renzi. A parte Veltroni, conservatorismo puro, su tutto: dalle riforme istituzionali al lavoro. Cosa vuole che possano combinare, se escono dal Pd? Niente. Il vero problema è: ma a noi piace, il Partito della Nazione?».
Già. A lei, per esempio, piace?
«Mi piace? Ma io lo detesto! E’ una boutade populistica per arraffare voti e conquistare un’egemonia attorno alla figura di un leader. Ogni decisione favorisce una parte e sfavorisce un’altra. Perciò sono nati i partiti politici, nella democrazia. Partiti: da “parte”. Un Partito della Nazione è una contraddizione logica. Da analfabeti della politica. Ma questo non inficia minimamente la strategia di Renzi e la sua coerenza. Lui oggi si fa un partito suo e se lo fa grosso, rappresentativo, tendenzialmente egemone, chiamandolo Partito della Nazione. Approfittando dello sfascio della tradizione socialdemocratica e cattolico-democratica e anche dello sfascio del berlusconismo. E’ un’occasione unica, irripetibile. E lui la sta cogliendo».
Un fantasma s’aggira nel mondo odierno. La filosofia hegeliana
Calare il pensiero del «Drago di Jena» nella contemporaneità
A Milano studiosi a convegno
di Giulio Goria e Giacomo Petrarca (l’Unità, 29.05.2014)
«NON SI FA FILOSOFIA COME SI STA IN PIEDI E SI CAMMINA». Cioè: non è da tutti. Senza dubbio oggi a parlare così s’incontra una generale derisione; o almeno l’incomprensione dei più. Giacché si capisce che un’espressione così lapidaria ed urticante stride con le comuni avvertenze adottate nell’agone democratico e liberale, quanto mai attento ad estendere il campo della pubblica discussione. Di ciò non v’è neppure più sorpresa. Quel che invece dovrebbe far nascere qualche sospetto in più è il fatto che il riso si diffonda anche nel cosiddetto circuito accademico; quello stesso circuito che, però, spesso si intesta la padronanza della filosofia. Con una differenza: che lì alla durezza della proposizione citata si accompagnerebbe la conoscenza della penna che l’ha scritta, quella di Hegel.
Ecco allora la tanto rischiosa impresa che ha riunito alcuni filosofi italiani presso l’università San Raffaele di Milano: prendere sul serio la lapidarietà dell’ammonimento hegeliano senza però farne argomento di sola tecnica accademica. Questo l’intento che questa settimana ha animato il convegno dedicato proprio «al drago di Jena», come il contemporaneo Schelling ebbe ad apostrofare Hegel.
Due giornate di studi in cui personalità di diversa provenienza ma accomunate tutte da indubbia originalità nel panorama filosofico italiano - Luca Illetterati, Massimo Adinolfi, Adriano Fabris, Gaetano Rametta, Massimo Donà, Vincenzo Vitiello - hanno dialogato con più giovani studiosi, dottorandi, ricercatori. Che sia stato un convegno tra esperti però non spiega affatto che si sia trattato di filosofia; con buona pace di chi vorrebbe ridurre al ristretto specialismo il senso delle parole hegeliane sopra citate.
Dove allora andare a cercarlo l’esercizio della filosofia, senza confonderne il fantasma con il corpo vivente? A sentire gli interventi della due giorni milanese si potrebbe abbozzare una risposta del genere: là dove c’è la fatica del pensiero per darsi collocazione nella realtà; e dunque, proprio nelle forme linguistiche, politiche e religiose che al mondo appartengono. «Prospettive hegeliane - che è il titolo del convegno milanese - allude dunque al modo in cui la filosofia, quella di ieri non più di quella di oggi, deve forse abitare il suo presente: portando la realtà in pensieri non meno che il pensiero nella molteplice e varia realtà; realtà che se risulta a portata di mano - o di quella mano inedita che sono le nostre protesi tecnologiche -, ad un tempo si dilegua e disperde in multiformi e sfuggevoli rivoli; tanti e tanto differenti sono gli alberi da render straordinariamente ardua la vista generale della foresta.
Sa la filosofia rimanere se stessa calandosi in queste impervie vie? Ha ancora uno sguardo sull’intero? Hegel viene in questione oggi perché il mondo sfugge al suo concetto:ma non è in questo modo richiesto, se non la si vuol far troppo facile, un pensiero di questo mondo, il che ci riporta nuovamente a Hegel e al suo bisogno di filosofia a partire dalle forme che il mondo assume? O la si mette così o non si fa che vuota retorica accademica rilanciando la domanda: «perché e come Hegel oggi?».
Insomma, né si confanno alla filosofia le prediche edificanti che vorrebbero rivolgersi al mondo appuntandogli una forma che dovrebbe - chissà poi per quale ragione - indossare. Né il discorso filosofico evita il rischio di mutare natura relegandosi alla dimensione accademica, per quanto inappuntabili possano essere i suoi risultati. In entrambi i casi cioè non cambia la sostanza: la filosofia ci farebbe - e troppo spesso oggi ci fa - la stessa figura di generale imbarazzo del bibliofilo protagonista del noto romanzo di Elias Canetti, Auto da fé, quando nel mondo si addentra: mondo senza testa o teste (accademiche) senza mondo?
Così le prospettive hegeliane cercate o almeno indicate nel convegno, ben prima di proporsi come un esito o una soluzione, sono la riproposizione di un gesto, di un esercizio, quello filosofico - antico quanto il proprio sorgere, dunque anche sempre nuovo; gesto che ponendo la domanda sul proprio tempo, sul proprio oggi, interroga anzitutto il senso del proprio interrogare, o meglio: la possibilità della propria interrogazione. Via stretta, forse, ma certo percorribile, per porsi in salvo - volendo restare nella metafora canettiana - dal rogo della propria biblioteca. Domanda, dunque, del pensiero sulle cose - anzitutto su quella peculiare cura per il mondo che è la filosofia stessa. Domanda vana, chiacchiera che annoia, e semmai solo insospettisce, la pratica scientifica? Forse sì.
Certo è che il convegno si sia svolto in un ateneo - il San Raffaele di Milano - segnato sin nelle viscere dalla vocazione verso le scienze mediche e non solo mediche. Che è un po’ come dire: talvolta alla filosofia riesce di prendere aria pura anche senza il soccorso del respiratore artificiale.
Lettera aperta
Le idee esistono, caro Cacciari
di Roberta De Monticelli (il Fatto, 11.02.2014)
Io avrei voluto, quella sera, occuparmi d’altro. Da molte, molte sere vorrei occuparmi d’altro: di idee. Ma come si fa, quando un collega illustre e con un’opera cospicua, il fondatore della mia Facoltà, un professore di filosofia - e un amico - di fronte al pubblico televisivo di Otto e mezzo, ci dice che le idee non esistono, non servono, non contano? E io che vorrei stare in loro compagnia ogni sera, ecco: come un povero, vecchio don Chisciotte ho frenato il mio ronzino, e ora levo la mia povera vecchia lancia arrugginita, con la mano stanca e le lacrime negli occhi, che li fanno ancora più guerci.
Le nostre povere idee. Perché, caro Massimo, trattarle così male, sia pure con due giornalisti, una più garrula dell’altro (che cosa ci sarà stato mai da essere così gai poi)? Già, perché a differenza di te, che pratichi con lucida coscienza - e coerenza, in fondo, da sempre - il “pensiero negativo”, loro annuivano nella luce della filosofia, sì sì. Per idee intendo quelle che dovrebbero muovere chi si impegna, da cittadino o da politico, in politica. Dunque intendo idee che non sono disgiunte da ideali o se preferisci, chiamali valori.
Non c’è bisogno allora che le idee siano troppo astratte. Ognuno capisce cosa vuol dire un po’ più di giustizia. Un po’ più di legalità. Un po’ meno corruzione. Un po’ più di rappresentanza dell’interesse pubblico negli uomini delle istituzioni, dai governanti ai parlamentari ai burocrati. Un po’ meno Mastrapasque. Un po’ meno Ilve, un po’ meno Terre dei Fuochi, un po’ meno colate di cemento sulle coste e le colline, un po’ meno mafia, familismo e clientele. Un po’ meno trucchi di pacchetti governativi, tipo finanziare una legge (la soppressione dell’Imu) con un’altra legge (l’han - no detto loro), con resistenza tagliata a colpi di ghigliottina. Vedi che se parliamo di ideali scendiamo subito terra a terra. E allora diamoci un colpo d’ala.
L’ala stanca e spennata di don Chisciotte ha subito un primo, duro colpo. La rappresentazione di un capo del governo e di un segretario di partito che “ovviamente” si muovono solo - rispettivamente - per mantenere e per conquistare personalmente il potere.
Sembra proprio così, in effetti: ma come è possibile a un filosofo che insegna Platone e Husserl non dico darlo per evidente, ma darlo per normale senza batter ciglio, come a dire, il fatto e la norma sono la stessa cosa? Normale questa loro contesa, e ciascuno dei due deve fare così - e perciò è ovvio che il governo intanto non governi -. L’ala freme: forse ora dirà che allora è meglio andare alle urne, visto questo straccio di brutta legge elettorale che stanno facendo? Non era questo, del resto, il patto iniziale? Povero don Chisciotte, da quando in qua pacta sunt servanda?
Arriva la seconda mazzata: niente si può fare e lì si deve restare, restare a ogni costo fino a quando ci sarà la ripresa. Ma non eri tu che ridevi, una volta, di quelli che in fondo a tutto vedono sempre e solo l’economia?
Cambiare idea si può: ma allora prima di combattere qualunque nefandezza bisogna calcolare i centesimi di PIL, che poi a quanto pare saranno proprio e solo centesimi? L’ala si ripiega dolente: cala un’altra mazzata, che questa volta volano tutte le povere piume rimaste.
La domanda era: il presidente del Senato ha fatto bene a decidere di costituire il Senato parte civile nel processo per la compravendita dei parlamentari? Fiato sospeso: ti prego, ti prego, almeno qui (mormorano in cuor loro i tuoi allievi). Risposta ieratica, lapidaria: no. Il Presidente del senato ha fatto male. E perché? Perché da che mondo è mondo nei Parlamenti si fanno cose che fanno schifo (hai detto proprio così: “cose che fanno schifo”.
Non hai detto, che so, che anche Lincoln corruppe - per far finire la schiavitù, però). Ma sollevare un “dovere morale” (così aveva detto, con un insolito colpo d’ala, il prudentissimo, assai realistico Presidente del Senato) - questo dev’essere proprio il colmo. Il razionale che contesta il reale! Ma dove andremo a finire? Un minuetto d’anime belle, al posto degli stivali della storia che sono insanguinati e se ne vantano? L’astratto moralismo contro la filosofia della storia?
Don Chisciotte cala la sua lancia inutile, spezzata. Fra le ammaccature delle sue povere ossa è questa quella che fa più male: che tutti gli spettatori di Otto e mezzo crederanno che questa sia la filosofia. È una filosofia, indubbiamente. Quella che prima ha tolto ideali alla sinistra. E poi ha tolto speranza alla ragione. E infine, ha tolto ragione alla politica. Viva il pensiero negativo. O mi sbaglio io caro Massimo? Dimmelo tu, dove!
L’inganno della cultura al servizio del potere
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 03.11.2012)
NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte.
Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse dagli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità.
Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura? Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore.
Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica.
Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro.
La cultura - per parafrasare un’espressione triviale - non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva.
Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento), cose utili ma in ambito diverso. Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia.
Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori.
La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzacorsi re le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.
La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2012)
«Tu, o Compassione, sei la sola virtù! Tutte le altre sono virtù usuraie»: così enfaticamente scriveva lo Jacopo Ortis foscoliano. Ed è proprio da questa esclamazione che parte il noto storico della medicina Giorgio Cosmacini, intrecciandola con l’analoga e altrettanto appassionata dichiarazione del l’Idiota dostoevskijano secondo cui «la compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera». Ma come declinare oggi questa virtù che può degenerare nella più distaccata commiserazione o compatimento, ma anche allargarsi a ventaglio in un arcobaleno di iridescenze "filantropiche" come la pietà, la misericordia, la pena, la comprensione, la solidarietà, per ascendere sino alla carità, virtù teologale suprema?
Cosmacini ha optato per un antico tracciato di matrice catechetica cristiana, scandito dal celebre settenario delle cosiddette «opere di misericordia corporale», modulate sostanzialmente su un’altrettanto celebre pagina del Vangelo di Matteo ove Cristo si identifica coi miseri della terra: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» e l’elenco comprende affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati (25,31-46). È assente da questa lista solo l’ultima opera misericordiosa o compassionevole, il "seppellire i morti" che naturalmente in questo saggio appare a coronamento del settenario.
Dove sta l’originalità del commento del docente dell’Università milanese Vita-Salute San Raffaele?
La singolarità della sua analisi sta nel l’aver adottato quello che l’autore chiama «il rovescio della medaglia» che paradossalmente attualizza le "opere" secondo le coordinate della cultura e della società contemporanea, soffiando via da esse la polvere della retorica morale tradizionale e mostrandone la drammatica necessità anche per quest’era tecnologica. Così il «dar da mangiare agli affamati» non è più soltanto il pur sempre angosciante contrasto - come scriveva nel Settecento Chamfort - tra «quelli che hanno più cibo da mangiare che appetito e quelli che hanno più appetito che cibo da mangiare», ma diventa anche attenzione alla devastazione che l’obesità introduce e, se si vuole, la discesa negli inferi della bulimia (o del suo antipodo speculare, l’anoressia).
Il «dar da bere agli assetati» può trasformarsi nella lotta all’etilismo, nella consapevolezza di quanto scriveva l’alcolizzato Fitzgerald con un irresistibile calembour inglese che non necessita di traduzione: «First you take a drink, then the drink takes a drink, then the drink takes you». E «vestire gli ignudi», come si diceva nell’obsoleto linguaggio del catechismo, che cosa ha nel suo rovescio? È facile pensare a quella moda così invadente e provocante che - per ricorrere ancora a un’auctoritas del passato come l’autore inglese William Hazlitt - conferma sempre più un esito sconcertante: «Coloro per i quali il vestito è la parte più importante della persona finiscono in generale per valere tanto quanto il loro vestito» (così nei suoi Political Essays).
Insomma, sotto il vestito, niente. E talora è già il vestito ad essere un niente anche tessile. Come si vede, nella nostra elencazione abbiamo adottato una costante, il ricorso alla citazione tematica. Lo abbiamo fatto anche per evocare il taglio che rende godibile il testo di Cosmacini. Egli, infatti, intarsia le sue analisi con un caleidoscopio di rimandi storici, letterari, folclorici, documentari, naturalmente approdando anche al registro dell’attualità, convinto comunque che, per dirla con Carlo Levi, «il futuro ha un cuore antico». Proponiamo, allora, gli altri suoi «rovesci della medaglia» relativi alle ultime componenti del settenario delle opere compassionevoli.
«Ospitare i pellegrini» ha la sua rovente immediatezza nel «non respingere gli immigrati». A questo proposito merita di ricordare che non è un comma di una legislazione scandinava questa norma: «Quando uno straniero sarà residente nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero residente tra voi lo tratterete come il nativo. Anzi, l’amerai come te stesso». Si tratta, invece, di un asserto del codice ebraico biblico presente nel libro del Levitico (19,33-34). «Visitare gli ammalati» è riproposto non più secondo una tabella di orari o di imbarazzati discorsi al capezzale dell’infermo, bensì secondo la modalità del dialogo, in particolare quello tra medico e paziente, attraverso un’alleanza nella quale tecnica e umanità s’incrocino.
Per finire, le ultime due opere di misericordia o compassione suscitano oggi complesse questioni sociali, giuridiche e morali. I carcerati diventano un appello a «non aggiungere pena a punizione», come purtroppo accade in molte prigioni ove l’affollamento quasi bestiale toglie ogni residuo di dignità al condannato. E «seppellire i morti» oggi apre il capitolo delicatissimo e lacerante del «rispettare la dignità dei morenti». Proprio dall’elenco che abbiamo stilato si evince quanto sia tutt’altro che superata la lezione catechetica antica. Certo, Cosmacini fa intuire in filigrana la sua opzione cristiana, ma il suo discorso conserva il respiro di un’umanità e di una sapienza universale.
In un mondo inginocchiato davanti al gelido idolo della tecnica, un supplemento di pietas, che è calda come la carne umana sofferente, è ancor più necessario. Il ritorno alla compassione è un antidoto all’indifferenza, è un vaccino al morbo dell’isolamento egoistico, è la riscoperta di quella virtù senza la quale non si è né Dio né persona umana, cioè l’amore. Proprio come vantava nell’emblematica The Pity of Love (1922) Yeats: «Una pietà ineffabile si nasconde nel cuore dell’Amore» («A pity beyond any telling / is hid in the heart of Love»).
Riscoprire la gratuità
di Enzo Bianchi (Rocca, n. 15, 1 agosto 2012)
La crisi economica che stiamo attraversando - crisi dai risvolti umani e sociali pesantissimi per così tante persone - ha però tra le sue conseguenze anche un’inversione di tendenza rispetto al progressivo rarefarsi della capacità di percepire cosa davvero conti nella verifica di questi ultimi decenni.
Assistiamo oggi a una sorta di schizofrenia etica: da un lato confermiamo l’ormai ultrasecolare intuizione di Oscar Wilde secondo il quale «oggi si conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna», ma d’altro lato constatiamo la diffusione della pratica del dono. Dalle associazioni di volontariato di ogni tipo alle banche del tempo, da quanti usano ogni momento libero per condividere sulla rete conoscenze e progettualità a quanti continuano a dedicarsi al miglioramento delle condizioni di vita della collettività, troviamo sempre più persone capaci di «donare» gratuitamente risorse e capacità.
Così quello che a prima vista sembrerebbe il pensiero dominante - cinismo del mercato, ricerca del proprio interesse, volontà di cavarsela a dispetto degli altri, monetizzazione di ogni attività, valutazione degli altri in base alla ricchezza posseduta... - è contestato silenziosamente da chi fa spazio alla gratuità, al prevalere del bene comune sul vantaggio personale. Apparentemente non c’è spiegazione alla logica del gratuito: «la rosa è senza perché», osservava già il poeta mistico Angelo Silesius nel XVII secolo. Così nel nostro mondo di dilagante dominio della redditività, dell’ottimizzazione dei profitti, la rosa custodisce la memoria attiva dell’essere senz’altra ragione che l’esserci.
Oggi questo senso della gratuità sembra smarrito: non riusciamo più a vederla come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società.
Eppure non manca chi ci ricorda che, come la vita, il dono è qualcosa che ci precede, che esula dai diritti-doveri, che non può mai essere pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché suscita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto.
Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confine certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il calcolo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fondamento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.
Da tempo vado anche ripetendo che non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche sociale costituisce un’esperienza liberante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ha ricordato con parole forti Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: «La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza... Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità». Se a livello personale e relazionale possiamo riscoprire la libertà profonda che il donare richiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che riceve, a livello sociale ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai dominante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita fraternità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’esercizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti.
Come cristiani testimonieremo così l’unicità del Signore, dono sceso dall’alto che non ha cercato né atteso il nostro contraccambio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe possibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristianesimo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.
PARLAMI D’AMORE
"L’impossibile ricerca dell’armonia perfetta"
Massimo Cacciari spiega i diversi modi di raccontare i sentimenti e come sia difficile distinguere le parole che sembrano simili ma non lo sono. Come ad esempio eros, amicizia e carità: l’idea che possano fondersi è sbagliata
di NADIA FUSINI *
Il filosofo e l’amore. La filosofia e l’amore. Dalla storia delle passioni al rapporto tra eros e conoscenza, Massimo Cacciari (tra i suoi libri anche ’Ama il prossimo tuo’, uscito per il Mulino e scritto con Enzo Bianchi) racconta le tante voci del discorso amoroso. Un dialogo, più che un’intervista.
"Non mi piacciono gli uomini" dice Amleto ai falsi amici Rosencrantz e Guildenstern. E quelli ridono come sospettando... "Neanche le donne" aggiunge. Eppure Amleto, se non ama, vuole però conoscere e non fa che chiedersi "che cos’è l’uomo?" Il filosofo è un uomo "erotico"?
"È un uomo amante, senz’altro. Ma l’oggetto della sua passione non è il medesimo: se la filosofia promette sapere, amore che cosa promette? C’è chi dice: pace, fusione, un approdo felice. In sanscrito Rama è il dio dell’amore e ’ramati’ significa un luogo tranquillo, dove sia lieto il sostare. ’Eros’ e ’eremia’ potrebbero avere un etimo comune... ".
Mi interessa la parola che hai appena detto: eremia,solitudine. Nel senso comune l’amore è il contrario, è l’uno più uno che fa due, è l’anima che trova la propria gemella... Ma prendi Proust, prendi l’amore di Marcel per Albertine: se l’amore è fusione con l’altro, estasi del possesso, allora Marcel non ha "amato" Albertine. O quel non-amore è proprio l’essenza dell’amore?
"Direi di sì. Ma bisogna stare attenti: lo scacco della comunicazione, e dunque dell’amore, è uno scacco della conoscenza. Per tornare a eros e eremia, almeno in Occidente filosofia e eros sono sempre a-oikos, senza dimora. E proprio quando sembrano agire da difensori della casa, ne diventano i distruttori per eccellenza - poiché dalla casa pretendono l’impossibile: armonia perfetta, dedizione, gratuità, eternità. Non si dà eros che acquieti, come non si dà filosofia che pervenga al sapere assoluto. Ma come la filosofia è sapere che ama il proprio cercare, così eros ama soprattutto ciò di cui manca, e che teme di poter mai possedere. I maestri francescani affermavano - in polemica anche con Tommaso - che l’amor Dei quaggiù è più perfetto di quello delle anime beate e degli angeli...".
Proviamo a distinguere tra le voci e i volti dell’amore: eros, amicizia, carità... Significano forse lo stesso?
"Assolutamente no anzi, tra loro è guerra. Per questo amore fa male. Mente e corpo vorrebbero fonderli in uno vorrebbero che eros non contraddicesse amicizia che carità contenesse in sé fino in fondo ogni forma del toccare e godere che ogni senso e sensazione fossero divini... Quest’idea amiamo in ogni atto d’amore. Ma è un’idea e ne patiamo l’irrealtà. Anche se per questo l’amiamo ancora di più".
Vuoi dire che l’amore è anche una capacità di sentire?
"Sì, una capacità...".
E anche una forma del pensare?
"Nessuna sensazione è altrettanto immediatamente connessa all’esser pensata quanto il semplice credere di "provare amore". Naturalmente, per gli animali dotati di logos anche provare sete o fame è da subito pensare la sete e la fame. Ma "sentire amore" lo è ancora di più e in modo diverso: non si accompagna alla domanda "come fare a soddisfarlo", bensì a quella, metafisicamente contraria, riguardo al nome proprio di chi abbiamo incontrato, e perché quel nome, che ancora ignoriamo, arrivi a mutare il nostro...".
L’amore sarebbe un modo di stare in presenza di un altro di per sé inconoscibile, e tale esperienza in sé ci trasforma?
"In amore il mutamento è trasformazione della mente, metanoia indistricabilmente connessa alla nostra dimensione di corpo vivente, al nostro pathein, alle nostre viscere...".
E dunque se la capacità di sentire è una forma del pensare, allora il pensare e l’amare e l’essere vivi sono tutt’uno. È questo che vuoi dire?
"È questo che dobbiamo pensare. Quando il pensare è interrogarsi su tutto ciò, pensiero e essere-vivo si stringono in un abbraccio non scioglibile, che è anche un dilemma inscritto del resto nella nostra lingua, dove se torniamo agli etimi essere nati, divenire, crescere significano sentire, accorgersi, sapere ".
Allora questo accade in amore: pathos e logos dismettono ogni astratta separatezza...
"Ma non certo per produrre il balsamo della conciliazione, anzi al contrario in questo caso ne sortisce una forma di spaesamento, e insorge polemos. In altri termini, il logos inquieto non cessa di chiedere il nome proprio dell’amato, mentre il pathos si tormenta nell’impossibilità del suo stesso domandare ".
Perché amore non vuole universalità, astrazione; impone al contrario la verità dell’esserci singolo. La singolarità è il grande tema dell’amore: perché questo qui? E dalla logica dell’universale entriamo nella logica dell’uno per uno...
"Esatto. La nostra questione è che non c’è discorso che possa declinare questa singolarità. La poesia soltanto, forse, aiuta a trovarne traccia nel linguaggio. Per questo la filosofia dell’amore sembra così spesso non avere altra risorsa che citare i poeti... ".
I quali insegnano che l’amore non riguarda mai soltanto i due amanti. L’incontro tra i due si affolla di altre presenze e fantasmi...
"Entrambi cercano nell’altro l’Altro, vogliono conoscerlo, saperlo. Entrambi si rivolgono a "ciò" che eccede la loro stessa capacità di sentire e pensare. Il Terzo è l’essenziale: è "ciò" che unisce, che aggioga gli amanti impedendo ogni henosis... ".
E cioè l’unione stessa, l’idea stessa dell’unità. Come se questa inevitabilmente si traducesse in morta identità. Penso a come il tema dell’incomunicabilità radicale della persona si presenta alla letteratura moderna, al cinema, quasi fosse l’ostacolo fondamentale contro il quale urta lo slancio della "fraternità universale". Il pathos del Socialismo, dice da qualche parte il filosofo Levinas, si infrange contro l’eterna Bastiglia del fatto che ognuno di noi resta prigioniero di se stesso. La disperazione della comunicazione impossibile segna il limite di ogni pietà, di ogni amore. E anche di ogni idealismo collettivo, politico.
"Vale in tutti i casi lo stesso esito: se l’Altro non viene sentito - saputo, l’amore si esaurisce nel più vuoto fraintendersi, in una "conversazione" da teatro dell’assurdo. La verità è che quando si inizia a "sapere" di amare, avviene sempre una anamnesi, si risveglia prepotente il ricordo di ciò cui non potremo mai dare nome".
Il ricordo, dici. Dunque, l’amore è rivolto al passato, è memoria? Forse io amo quest’uomo qui perché sul suo volto, nei suoi modi ritrovo un tratto che mi ricorda il padre? e tu in questa donna un gesto in cui rinasce la madre, la sorella?
"Che l’amore abbia rapporto con un passato immemoriale, lo rivelano le sue parole, tese verso l’ultima radice, che rimane inattingibile. E una volta scesi agli inferi, non è facile "tornare a riveder le stelle". Ma a te domando: sei certa che esista amore paterno? In tutti gli idiomi indo-europei, e anche in quelli semitici, domina la relazione pater-potens. E una simile relazione è incompatibile con l’atto d’amore. La gratuità, l’arrischio, la capacità di donare ritirandosi, di lasciar-essere senza nulla esigere, di non giudicare, se mai esistono, esistono nella donna soltanto".
Interessante: io ho in me l’immagine rovesciata di un padre materno, niente affatto potente, ma semmai gaudente, giocoso. Mentre la madre è esigente, severa, lei sì potente. Voglio dire che certe qualità e carismi possono circolare al di là della differenza dei sessi.
"Materno è Francesco, e perciò inseparabile da Chiara. Significato essenziale dell’icona della Madonna col Bimbo quando questi abbia già il volto del Crocefisso, o addirittura del Deposto. Impotenza trionfante, destituzione fin dalla fondazione del mondo di ogni logica e linguaggio del potere".
Mi viene da dire: ecco, il "vero" amore. Ma c’è un ultimo volto d’Amore di cui vorrei ragionare con te, quello "creativo". Scrittori, artisti, poeti conoscono la particolare fecondità della creazione e ne parlano come di una vera e propria gioia. La gioia del fare, creare, produrre. L’amore della propria opera come della propria creatura. Un amore materno, come quello che hai appena nominato, di Francesco. Si può provare quell’amore verso il mondo? Ricordi Hannah Arendt, il suo amor mundi? Tu uomo filosofo e politico lo provi quell’amore lì? È amore del mondo la politica?
"Più che di amor mundi, parlerei di riflessione sulla vita. Questo è la filosofia. Certo, immanente alla vita stessa è la passione politica, passione che intendo alla Spinoza come una passione calda, appunto vitale. Non libido di potere sull’altro, volontà di trionfo, ma comune interesse a prendere parte l’un l’altro alla medesima povertà. Non dimenticare che è dal grembo di Penia, di sorella Povertà, che nasce Amore".
* la Repubblica, 01 agosto 2012