QUAL E’ L’ETIMOLOGIA DEL TERMINE ’’IDIOTA’’?
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Le lezioni di Emanuele Severino
Identità e destino forme in divenire
L’attenzione di Severino si concentra sul termine «tautótes» partendo da Aristotele
di Armando Torno (Corriere della Sera, 09.02.2009)
Ci sono parole che nel tempo hanno avuto il compito di ingentilire problemi irrisolti, questioni alle quali nessuno mai diede una risposta definitiva. Jean Haudry, professore di sanscrito a Lione, notò che il termine logos cela numerose contraddizioni dello spirito greco. E forse analoga situazione va cercata in un vocabolo carico di storia filosofica e di congetture matematiche: identità. Per i greci era tautótes.
Non è semplice narrarne l’odissea, giacché essa iniziò due millenni e mezzo or sono, allorché Parmenide ne propose il concetto per cercare la via che porta alla verità e Platone ruppe all’ombra dell’Acropoli il vaso incantato che la custodiva, rendendola operante attraverso la considerazione del genere che è presente nel molteplice.
Sarà Aristotele, nel V libro della Metafisica, a lasciare una definizione di questa parola che quattro secoli prima di Cristo era già carica di domande e si trascinava appresso questioni enormi: «È chiaro che l’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata, però, come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose» (traduzione di Giovanni Reale, Bompiani).
Non è il caso di riferire i dettagli di un dibattito infinito, che continuerà con Leibniz, Hegel, Carnap, Quine o Friedrich Waismann, per citare alcuni protagonisti, diremo semplicemente che Emanuele Severino ha chiuso le sue lezioni veneziane nell’anno accademico 2000-2001 proprio affrontando le problematiche della tautótes, alla quale peraltro aveva dedicato un libro nel 1995, uscito nella «Biblioteca filosofica» Adelphi. E ora quei corsi a Ca’ Foscari - 64 lezioni in 32 incontri - vengono raccolti da Giorgio Brianese, Giulio Goggi e Ines Testoni con il titolo L’identità del destino (Rizzoli, pp. 404, e 22). Ma vediamo le cose con ordine.
Durante i mesi di quell’anno accademico, Severino aveva terminato e attendeva l’uscita di Gloria (Adelphi, 2001), opera che avrebbe segnato un passo avanti rispetto ai problemi aperti due decenni prima con Destino della necessità (Adelphi, 1980).
Ma sia nella presente raccolta di lezioni, L’identità del destino, che nella precedente, L’identità della follia (Rizzoli, 2007), l’attenzione di Severino si è concentrata sul termine tautótes, partendo proprio da Aristotele. Questi corsi analizzavano il modo in cui è stata intesa la stessa identità e le conseguenze dell’averla considerata come il risultato di un «divenire altro».
Le parole di Aristotele mostrano la presenza di un baratro: il sommo greco indica un abisso senza «sapere» di averlo davanti, «trattando l’uno come se fosse due». Il modo in cui è stata intesa l’identità ha investito l’Occidente in tutti i campi del sapere, tanto che dal suo abbraccio di cultura e prassi non sono stati esclusi - per utilizzare esempi dello stesso Severino - Leonardo, Einstein, Shakespeare, Bach o Gödel: in ogni momento si vuole che una certa cosa divenga altro da ciò che è.
Si apre, per dirla in parole più semplici, una questione che sta alle radici del pensiero stesso: quello che si vuol fare diventare altro è creduto un esser altro; ovvero la cosa che dovrebbe essere se stessa, viene all’opposto pensata e trattata come un altro da sé. È come se si strappasse da sé, squartandosi e identificandosi a ciò che essa non è. E codesto squartamento è l’omicidio di fondo che sta alla radice di quanto chiamiamo male e bene.
Sembrano concetti di una dimensione a noi lontana, ma Severino sottolinea che «non si tratta di un argomento tra gli argomenti, ma è ciò su cui si regge l’intera vicenda del mortale e quindi, al culmine di questa storia, dell’intero Occidente».
Per codesti e per altri motivi L’identità del destino è un libro che consente, lezione dopo lezione, di comprendere perché l’uomo è convinto che la suprema evidenza siano le cose che diventano altro da sé. Ma proprio qui, per il filosofo Severino, c’è la follia estrema. E a pronunciarla non è l’individuo, un popolo o un dio ma il sapere incontrovertibile che egli chiama de-stino, ovvero l’assolutamente inamovibile e innegabile.
Fenomenologia dell’idiota tra comunità e individuo
di Giacomo Mininni *
Non fa mai piacere sentirsi definire un “idiota”; tra le varie offese a disposizione del vocabolario italiano, però, questa è una delle più “nobili”, che affonda le proprie radici nella Grecia classica e che, etimologicamente indica qualcosa di ben diverso da un soggetto irrimediabilmente stupido.
Nella polis greca, ἰδιώτης (idiòtes) deteneva una doppia valenza: letteralmente “individuo privato”, indicava da un lato coloro privi di cariche pubbliche, che non partecipavano perciò alle assemblee, esclusione normalmente dovuta alla mancanza di istruzione, e base linguistica per il latino idiota, “ignorante”, da cui poi l’offesa italiana. Il secondo significato, invece, è molto più pregnante e interessante: l’idiota era colui che, all’interno della polis, guardava al proprio interesse privato disinteressandosi del bene comune, sacrificando la cosa pubblica al benessere particolare.
Con tutte le limitazioni classiste, etniche e sessiste del caso, la Grecia classica aveva ben chiaro un concetto fondamentale a qualsiasi democrazia, riassumibile in una visione organicistica della polis: la città era manifestazione fisica della koinè, della comunità, e come tale era vista come un unico organismo, in cui ognuno ricopriva un ruolo fondamentale al benessere, alla prosperità e perfino alla vita di tutti. Lo scopo di ogni componente sociale doveva essere il bene comune, da questo sarebbe derivato anche quello individuale: chi ignorava il primo per dedicarsi al secondo, o invertiva la sequenza dei due, era un corrotto, un tiranno, o più semplicemente un idiota.
Dalla polis greca ad oggi i tempi sono chiaramente cambiati, la società si è fatta più stratificata e complessa, i numeri da soli impediscono lo svolgimento di una vita pubblica anche solo lontanamente simile a quella della Grecia classica, costringendo la democrazia a mutare da diretta a rappresentativa. Il nodo centrale dell’ideale greco, però, rimane, almeno teoricamente, inalterato: la società democratica esiste per amministrare le risorse pubbliche in modo da garantire il benessere di tutti, con ogni componente impegnata, ognuno nel suo specifico, al conseguimento di questo obiettivo.
Tra i tanti danni che il consumismo nella sua forma più becera e decadente ha portato alla società occidentale, però, c’è anche una frammentazione sistemica di questo originale patto sociale. Quella che Carlo Menghi (1990) ha definito la «società dei desideri» si è andata pian piano unendosi e confondendosi alla originale «società dei diritti», accuratamente tralasciando la parte “... e dei doveri” teorizzata nel modello francese di riferimento. Ogni individuo, ogni gruppo più o meno grande e rappresentato, rivendica diritti per sé, spesso e volentieri non per migliorare il tessuto sociale, ma per cambiare esclusivamente la propria condizione, reale o percepita. Nessun problema, ovviamente, quando questo deriva da un’effettiva situazione di discriminazione o di violenza sistemica: la lotta per i diritti dei neri che va avanti in America da due secoli almeno, migliorando la condizione di un gruppo minoritario oppresso, di fatto rafforza il tessuto sociale in quanto tale, aumentando la ricchezza sociale e culturale dell’intero gruppo. Ben diversa è la situazione quando l’autoreferenzialità dei richiedenti è tale che si ritiene soggetti terzi oggetto del proprio diritto: emblematico è il caso dei cosiddetti incel, i “celibi involontari”, che denunciando una sorta di complotto relazionale ai propri danni da parte del genere di interesse, rivendicano un nebuloso “diritto al sesso”, in cui un altro individuo pensante è reificato per il soddisfacimento di un proprio desiderio, tentativamente istituzionalizzato in diritto.
Saper distinguere i due tipi di rivendicazioni è di per sé complesso, e lo diviene ancora di più quando la scena pubblica si affolla di sempre nuove istanze, di sempre nuovi desideri scambiati per diritti, mentre molti diritti non riconosciuti rimangono a languire lontani dal palcoscenico di un dibattito che non li ritiene sufficientemente interessanti o trendy.
Un corpo in cui una gamba rivendica diritti propri a scapito di altri arti o organi è un corpo votato alla morte. Allo stesso modo, una società i cui membri sono concentrati esclusivamente sulle proprie rivendicazioni, disinteressandosi totalmente delle altre componenti della comunità, è destinata a una frammentazione tale che demolisce il tessuto sociale in quanto tale, una società in cui ognuno pensa per sé e pretende che lo Stato garantisca per legge ogni desiderio ottusamente considerato un diritto. Una società di idioti.
* Giacomo Mininni
Memoria /memorie
Lettera a Emanuele Severino
Intorno a una - eterna - lezione
di Roberta De Monticelli (Il Mulino, 24 gennaio 2020)
Caro professore,
se l’essere nella Gioia, come spero, le consente di ricevere qualche lettera senza che la Gioia sia interrotta dalla noia di leggerla, lasci pure che questa mia si depositi come foglia, soffio, ombra, umana illusione, fiato di voce o scintillio d’inchiostro là dove i più fra noi, tardi di mente e innamorati del visibile, stoltamente dimorano: nel Cerchio dell’Apparenza.Non turberà l’eternità dell’esser suo, caro professore, questo cicaleccìo di una collega invisibile, sì, proprio quella dell’aula accanto, quella del giovedì. O forse era martedì? Che cosa conta, e chissà mai perché poi avevamo quest’abitudine di onorare gli orari di lezione, questa conformistica, veramente illogica acquiescenza alla misurazione di ciò che non esiste, il tempo. Lei poi arrivava puntualissimo, molto più di me. Ben me ne accorgevo ogni volta che la folla dei suoi allievi in festosa attesa faceva barriera davanti a tutte le porte dello stretto corridoio su cui si aprivano le nostre aule, e i quattro gatti della mia classe e io restavamo bloccati per un pezzo, prima di entrare, con loro e mio rimpianto, nell’auletta degli esercizi di fenomenologia, piena di controversie e dubbi, invece che nella luce dell’incontrovertibile. Dove per due ore quelle menti giovinette e incerte, anzi certamente scosse da ogni sorta di amore e di terrore, si sarebbero spalancate alla ben rotonda verità dell’Essere, indefettibile e immobile: che sarebbe fluita senza interruzione alcuna dalle sue labbra, nel più religioso silenzio.
Lei cominciava col ben disporle, le menti, al saldissimo fondamento dell’epi-steme - diceva così, mi arrivava il suono della sua voce che inesorabilmente spezzava la parola greca, sapientemente appoggiando, con la pausa, la voce alla solidità di ciò che sta. Il sapere che sta, e non importa dove e come. Di là dalla parete, sentivo l’ombra di Socrate, smarrita, emergere come un fantasma da quella lineetta, da quella pausa che spezzava la parola, e come in un grido afono, beckettiano articolare con la bocca muta parole simili a sospiri: conoscenza... opinione vera e... giustificata... le ragioni, vi prego, le ragioni... Le ragioni per dirlo. L’evidenza per riconoscere che è vero - fino a prova contraria. Altro che stare. Quelli che stavano lì, immobili, ierocratici, erano i dignitari immensi della statuaria babilonese; a me veniva in mente ogni volta la stazione centrale di Milano, e certo subito ne arrossivo. In Grecia erano mobilissimi anche gli dei, invece, pieni di bizze e voglie, di splendori e di furia e di grazia, come i ragazzi e le ragazze che lei sapeva affascinare e render muti - come in un’estasi iniziatica.
Così, una volta che la mia lezione cominciava più tardi, l’ardente desiderio mi prese - chissà, l’invidia - di carpire il segreto di quel fascino. E assistetti alla mirabile dimostrazione “parmenidea” dell’impossibilità di far domande, con cui quel giorno si apriva il suo corso. E fremetti anche io dall’ammirazione, caro professore. Con quella voce così musicale, e insieme ieratica, quella sì, come se non si svolgesse affatto nel tempo: «Chi domanda è evidentemente nella non-verità. Ma dall’essere nella non-verità non c’è via all’essere nella verità. [Pausa]. Non c’è via. Per la contraddizione, che non la consente». Come invidiai questo modo così suadente di trasformare in un silenziatore il paradosso platonico della conoscenza, quello che introdusse nella nostra mente e nella nostra storia l’idea della ricerca, l’idea più sconvolgente e più controvertibile! Anzi controversa, al punto che bisognò morire, con Socrate, e mica una volta sola, perché l’idea vivesse, e la ricerca pure, e da questo sfacciato parricidio, da questa insolente perplessità che obietta alla ben rotonda verità dell’Essere, nascessero, come in una cosmogonia esiodea, la Disputa e l’Argomentazione, il Dubbio e la Scoperta, il disprezzo del sentito dire e la gioia del vedere, e la veglia e la critica, e il demone giocoso eppure serissimo della ragione.
Che non è affatto una dea barricadiera e neppure una prosopopea della storia, ma solo l’irriguardosa, umile, ridente e dolente giovinezza dell’età adulta, quando ancora ha freschezza e speranza per dire, ad esempio: “No, a nessun prezzo mi si imporrà questo, piuttosto morire”; oppure “E perché no? Perché mai le cose non dovrebbero avvenire così, anche se non le vedo ancora? Perché mai, contro la tesi di un famoso professore italiano del Novecento, il possibile non dovrebbe essere tale, cioè forse vero, anche se non lo vedo?”. La filosofia, mi dicevo, non è che questo doppio ricciolo interrogativo, l’essere disposti a chiedere e dare ragione di ciò che si dice e di ciò che si fa, o di ciò che ci viene detto o imposto: e la Ragione non è affatto soltanto nostra natura, anzi! È una disponibilità, non una disposizione: si risveglia soltanto con la libertà. E ancor meno somiglia, la Ragione, a quella sorta di indomabile potenza della storia che lei, professore, e il suo predecessore tedesco chiamavate “la Tecnica”. Per carità, quel suo predecessore sì che era pericoloso: il suo, di Essere, odorava lontano un miglio di Blut und Boden.
Della tecnica invece continuavamo a servirci ogni volta che dovevamo compilare i registri elettronici, e meno male, con tutti gli allievi che aveva. Per non parlare poi del sollievo di evitare i denti strappati dalle gengive deste e sanguinanti... (mi perdoni, la natura femminea si distrae sovente in pensieri banali). Che poi, se anche sostituissimo a questo nome, “la Tecnica” (preferito nei suoi elzeviri), uno degli altri e numerosi nomi divini di quella potenza assoluta che ci destina a questo e quell’altro (il Destino dell’Occidente, il Capitalismo, il Potere, il Denaro), cambierebbe poco. Sospetto che quello che le Sue parole inducevano nell’anima dei suoi ascoltatori e lettori fosse una specie di rilassamento - in tedesco mistico si dice Gelassenheit - o meglio un gesto di virtuale auto-destituzione del soggetto morale in noi, un abbandono della responsabilità. Un gesto ben nascosto dietro l’ombra della macchinazione universale che di tutto ha colpa, e libera da ogni responsabilità nell’uso delle parole noi intellettuali, giornalisti, politici, professori, studenti, pensionati... Tutti noi operai del linguaggio.
Insomma, a pensarci bene, anche questa destituzione in noi dell’agente razionale e morale, sensibile e responsabile, era un atto di libertà - peccato, però, che fosse nella direzione della più perfetta sottomissione. Sarà per questo che i suoi ragazzi amavano tanto anche Spinoza? Libertà come inchino alla necessità? Curioso equivoco, a leggere l’autore del Trattato teologico-politico e il teorico della democrazia! Ma non divaghiamo.
Perché la ragione, appunto, o meglio il suo esercizio, è una libera disposizione, cui si può spavaldamente rifiutarsi o che pavidamente si può lasciar sopire: e fatica comunque a liberarsi come il ragazzo fatica a diventare adulto. Così che molti, nei tempi antichi e in quelli moderni, negli imperi dispotici e nelle comunità tribali, consigli di facoltà compresi, nelle città ierocratiche e in quelle demagogiche, responsabili di sé e di fronte al vero non lo diventano mai, e vivono di fake news e di costumi consortili.
Per questo, caro professore, è un vero peccato zittire Socrate in culla, e farlo rimangiare da Parmenide, come da un Crono divoratore dei propri figli: perché proprio da quella fessura nella ben rotonda compattezza dell’Essere, dalla possibilità del non essere, è nata la fragile bellezza della nostra mente, la sua umiltà di fronte all’inesauribile vero e la sua fierezza di consentire - o no - alla legge. Per quella fessura è passato il doppio palpito della civiltà, il cuore pratico e quello teorico del nostro domandare ragione, cioè, infine, l’etica e la logica, la democrazia e la scienza. Che passando da quella fessura si sono lentamente fatte largo, in mezzo alle tragedie dei millenni.
Perdoni, professore, sento che la sua eterna essenza oppone un cortese ma fermo diniego all’opinione che Socrate per la dolente e felice fessura del parricidio, perché di lì passasse il possibile senso e valore della vita umana, morì proprio. Come morirono molti e molti altri suoi discendenti. Quella volta, finita la lezione, lei, con la sua grande e signorile cortesia, e dopo un baciamano galante che mi spense subito in gola ogni obiezione e mi accese un sorriso di gratitudine, mi accompagnò nel corridoio, fra due ali di giovinetti plaudenti, e c’era anche qualche dame à chapeau che mi lanciò un’occhiata di invidia. Che vuole, il suo fascino ammutolì anche me, e così mi rimangiai questa lunga obiezione che per tutta la lezione avevo rimuginato. E so che non è affatto troppo tardi per rivolgerla ora alla sua essenza eterna, dal di qua al di là del cerchio delle apparenze. Poco importa, su questo sono d’accordo con lei. Continuerà, col suo sorriso (tout just un peu compatissant, comme c’est le cas avec une dame) a lasciarmi disputare con lei, con parole sempre più affannate - come ho fatto tutta la vita.
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
17 gennaio 2020
Nel castello incantato di Emanuele Severino
di Alessandro Carrera (Doppiozero, 24.01.2020)
Emanuele Severino è mancato il 17 gennaio, ma per sua espressa volontà lo si è saputo soltanto a funerali avvenuti. Nella sua lunga vita (era nato a Brescia il 26 febbraio 1929), in più di ottanta libri e centinaia di articoli, Severino ha edificato un sistema filosofico che è paragonabile solo a un castello incantato, nel quale è facile entrare ed è poi molto difficile uscire. Il lettore che ne voglia esplorare anche solo una parte deve essere avvertito che gli ci vorrà del tempo prima di rendersi conto delle maestose dimensioni dell’edificio. Anche se l’architettura appare troppo classicamente solida per una sensibilità postmoderna, piace perdersi nelle sue stanze e corridoi. Dopotutto, la mappa è tracciata fin dall’inizio, da La struttura originaria (1958) e dall’articolo sul Ritorno a Parmenide (1964). Severino ha avuto la fortuna di procedere per variazioni infinite di poche ma forti idee fondamentali, ed è per amore di queste variazioni che non si desidera uscire. Ci si aspetta una svolta che aprirà una visita inaspettata, l’improvviso movimento di una tenda che permetterà di gettare un’occhiata su ciò che fuori da quelle mura imprendibili il mondo contemporaneo è diventato.
Ecco da uno spalto il triste destino di una teologia che non sa far altro che dissezionare Dio, ecco da un balcone il panorama dell’inevitabile declino di tutti i sistemi totalitari, incluso il capitalismo planetario che si ritiene così invincibile, ecco da una finestra lasciata aperta un soffio di vento gelido mentre di sotto la parata militare della tecnologia non smette di celebrare i suoi trionfi. Per un momento ci si può consolare pensando che finché resteremo nel castello saremo al sicuro. Se là fuori tutto appare transitorio e destinato a decadere, dentro tutto è incontrovertibile, eterno, gioioso e glorioso. Ma sarà Severino stesso, con la squisita cortesia che gli era propria, a rivelare all’incauto visitatore l’errore che ha commesso. Non c’è sicurezza dall’onnipresente nichilismo di una civiltà che non ha mai messo in discussione la credenza in base alla quale “tutto deve passare”, tutto prima o poi sarà nulla. Bisogna piuttosto iniziare a pensare l’opposto: che nulla passa e che tutto è eterno, dentro e fuori il castello. Anzi, per essere più accurati, tutto “oltrepassa”, tutto oltrepassa la soglia di ciò che appare svanendo nella terra invisibile di ciò che non appare, ma che non per questo “non è”, perché non c’è luogo dove ciò che è stato possa cessare di esistere.
Stupito, anche un po’ intimidito dalle dimensioni grandiose di ciò che gli è stato rivelato, il viaggiatore trova il coraggio di obiettare che la saggezza del mondo dice, al contrario, che non c’è luogo dove ciò che non è più presente possa continuare ad essere, come non c’è luogo dove ciò che non è ancora possa già stare, ma Severino non gli dà tregua: dunque lei mi sta dicendo che l’essere può diventare non-essere e che il nulla può diventare essere? E come, di grazia? In base a quale miracolo? Forse la creazione divina? Ma se Dio ha creato un mondo che può anche distruggere, allora non ha creato nulla, ha creato solo del nulla. E lei davvero crede a questo?
Quando Nietzsche ebbe il primo barlume dell’Eterno Ritorno, si sentì esaltato e terrorizzato. Heidegger, per parte sua, lamentava l’inadeguatezza del linguaggio che non era in grado di superare le definizioni tradizionali dell’essere e non sapeva parlare adeguatamente dell’Evento che scandisce l’essere in differenti “invii”, o epoche. Rispetto a queste esaltazioni e lamentazioni, Severino suggeriva piuttosto che l’impossibilità di razionalizzare la logica del divenire deve essere oltrepassata dalla consapevolezza che la nostra transitorietà e anche le nostre sofferenze sono già comprese e dunque risolte nella Gloria dell’essere, la cui connotazione emotiva fondamentale (che non è più nemmeno un’emozione ma una determinazione ontologica) è la Gioia.
Fermamente anti-nietzschiano e anti-heideggeriano, Severino si è opposto per tutta la vita alla sottomissione dell’essere alla tirannia del tempo e del divenire. In risposta a questa “follia dell’Occidente”, come l’ha ripetutamente chiamata, Severino ha perciò elaborato la dottrina di una triplice eternità: eternità dell’ente (di tutti gli enti, anche di quelli più effimeri), eternità dell’orizzonte (del contesto) in cui l’ente appare, ed eternità dell’ordine nel quale gli enti si celano o si mostrano rispetto all’orizzonte dell’apparire. La fortezza parmenidea e antiplatonica che Severino ha costruito non intende dimostrare che l’esperienza quotidiana del mondo sia soltanto un’apparenza e che noi viviamo nel Velo di Maya o in qualche Matrix hollywoodiana. Al contrario, Severino sostiene che ogni apparenza è, non importa quanto ingannevole appaia, dal momento che dopotutto non è un niente e dunque non può trovarsi al di fuori dell’essere. Che tutto esista per sempre e che tutto sia eterno non significa che il mio io empirico sia immortale - l’eternità non è l’immortalità - ma che ogni “istantanea della realtà”, se è, è per sempre, non c’è un passato in cui non era e non c’è un futuro in cui non sarà.
Non sto parlando da severiniano. Non sono stato un suo allievo e nemmeno sono un suo seguace. Ho incontrato il pensiero di Severino nel corso di una riflessione che partiva dalla fenomenologia di Carlo Sini per poi concentrarsi sui meriti e le aporie delle critiche severiniane ai campioni dell’ultima metafisica europea. Severino non prese affatto male le mie perplessità nei confronti di vari aspetti del suo pensiero. La prima volta che ci sentimmo al telefono, dopo che io gli avevo mandato il mio La consistenza del passato. Heidegger Nietzsche Severino (Medusa 2007), mi disse divertito che nel mio libretto “davo delle belle mazzate”. Fu l’inizio di un lungo dialogare, mantenuto sporadicamente per dieci anni, dal 2008 fino al convegno per i suoi novant’anni, tenuto a Brescia nel 2019, ma soprattutto nella sua casa, tra i suoi libri, il pianoforte, la musica che era stata la sua prima passione e lo era ancora, anche se non mi veniva incontro su compositori che lo incoraggiavo ad ascoltare (Schönberg, la seconda scuola di Vienna) e che restavano lontani dalla sua sensibilità. Erano conversazioni rare ma meravigliose, incredibilmente serene, condotte in un’assenza di tempo che a volte durava un’intera giornata (non posso evitare il paradosso di dare una durata al non-tempo severiniano), finché ebbi notizia da Massimo Donà che esisteva una traduzione inglese completa di Essenza del nichilismo (2° ed. Adelphi 1982) uno dei libri fondamentali del canone severiniano, ad opera di Giacomo Donis, approvata dallo stesso Severino, e che per varie ragioni non era mai stata pubblicata.
Decisi in quel momento che dovevo far pubblicare quel libro. Non perché mi fossi convertito al severinismo, la mia formazione fenomenologico-ermeneutica non me lo permetteva (ma alla filosofia di Severino, che non ha mai preteso di essere una religione, ci si può convertire come se lo fosse, come del resto è accaduto all’heideggerismo). Volevo che Essenza del nichilismo potesse circolare in inglese, e quindi potenzialmente ovunque, perché ha cose da dire che forse nessuno ha detto con la stessa chiarezza. Ne scelgo una: quando Platone “scarica” Parmenide, nonché la rigorosamente binaria dottrina parmenidea (l’essere è, il non-essere non è, non si dà una dimensione intermedia), per sostituirla con quella “mescolanza” di essere e non essere che costituisce il “mondo” - ecco, quando Platone fa questo, non solo crea il “mondo di Platone” ma anche il mondo in cui tutt’ora vive l’intero occidente, il mondo fatto di apparenze e di idee, di cose ed esseri viventi che misteriosamente giungono all’esistenza e altrettanto misteriosamente ne escono (ed era un entrare e uscire dall’essere che peraltro risultava misterioso anche a Platone).
Il mondo di Platone, aggiungerei, è il “significato” di un “significante” (la “mescolanza”) che nella luce dell’apparizione dei fenomeni ci fa percepire l’ombra della perduta pienezza dell’essere parmenideo, pagando però il prezzo della nullificazione dell’unità dell’essere stesso - il prezzo insomma del nichilismo, l’adeguamento alla convenzione secondo la quale il mondo dopotutto è un nulla: una volta non c’era, adesso c’è, un giorno - quando Dio vorrà o quando lo deciderà la tecnologia - potrebbe non esserci più. Davanti a questo nichilismo dispiegato sono possibili, per me, due risposte. La prima è quella che, semplificando, ricavo da Carlo Sini: le cose che ci sono, in quanto e per quanto sono, “valgono la pena”, e il vero nichilismo è pensare che siccome un giorno non ci saranno più sono già un nulla anche adesso. La seconda è quella di Severino, il quale assume su di sé il compito colossale di ricondurci a fronteggiare l’intollerante assolutezza dell’essere, il suo Reale inscalfibile, sapendo bene che il suo discorso non può che apparire paradossale e insostenibile proprio alla stessa filosofia platonico-aristotelica fondata sulla dismissione di quell’Uno parmenideo, di quel Reale.
Ma, come ho detto, non c’è bisogno di convertirsi al severinismo per cogliere l’audacia del suo tentativo, e delle scoperte che permette anche se non ci si dichiara d’accordo con l’impianto che le anima. Perché questa audacia potesse incontrare lettori fuori d’Italia, e perché il quadro della filosofia italiana conosciuta all’estero non mancasse di questa figura, mi sono dedicato per anni a far trascrivere, editare e poi cercare di pubblicare il manoscritto di Essenza del nichilismo in inglese. È stato poi grazie all’aiuto di Ines Testoni, Università di Padova, allieva del Maestro, che molti problemi pratici sono stati risolti e The Essence of Nihilism è uscito da Verso nel 2016, a Londra e a New York, a cura di entrambi.
Severino ha avuto in sorte molti anni per limare e rifinire le sue idee, ma ce ne vorranno molti altri per poter assorbire e decantare le sfaccettature del suo insegnamento, perché se all’inizio di un filosofo impressiona e magari disorienta il sistema, con il tempo prendono luce i dettagli. Delle perplessità che avevo espresso nei suoi confronti in quel mio libretto del 2007, alcune le difenderei ancora; altre no. Venivano da un presupposto “costruzionista” o “correlazionista” che allora non avevo messo in discussione e che oggi sarei più cauto a utilizzare. Consisteva nel dare per scontato che ciò che Severino chiama “totalità dell’apparire” deve pur apparire a qualcuno, e che se c’è esperienza ci vuole un soggetto che faccia esperienza.
In Severino, il soggetto non c’è. C’è il “mortale”, che è mortale solo perché non sa di essere eterno. Ma il suo inconscio lo sa. (Non è l’inconscio della psicanalisi, è l’inconscio dell’essere stesso, ma sono più vicini di quanto non sembri.) Non avevo considerato adeguatamente, allora, che si danno esperienze soggettive senza soggetto (il sogno, il trauma). Il soggetto, retroattivamente, comprende di averle esperite, e anzi da tale esperienza retroattiva viene costituito come il soggetto che è. Nulla di tutto ciò concerne il sistema di Severino (un castello nel quale è facile entrare e difficile uscire, il che è un altro modo di dire che è ossessivamente autoreferenziale), ma tener presente i limiti intrinseci del costruttivismo mi avrebbe permesso di capire meglio in che senso la filosofia severiniana non ha bisogno di un soggetto cartesiano che si fa un’immagine del mondo o che “si trascende” verso il mondo,come invece accade nella tradizione fenomenologica.
Oggi mi sentirei di affermare che una parola decisiva sull’eredità di Severino potrebbe venire dal confronto con la scienza. Chiedo scusa al lettore più avvertito perché mi dovrò esprimere, causa ignoranza, in maniera molto rozza. Il grande dibattito della fisica del ‘900, e che si prolunga nel XXI secolo, è l’apparente incompatibilità tra la relatività generale e la meccanica quantistica, tra il continuum spazio-temporale e il salto quantico. Nella fisica quantistica non abbiamo più a che fare con il mondo come correlato dell’esperienza; l’osservatore di Heisenberg non è un soggetto trascendentale, non ci dà una “immagine del mondo”, il risultato dell’osservazione non è circoscrivibile da un pensiero oggettivante, né lo si può pensare senza servirsi del linguaggio matematico. Come dobbiamo comprendere dunque il lavoro della natura, dell’universo, o dell’essere stesso? Come una durata, come un “processo” (A. N. Whitehead, Processo e realtà, 1929, ora Bompiani 2019)? Come un “cambiamento” che non ha luogo nel tempo perché è esso stesso a generare il tempo (Julian Barbour, La fine del tempo, Einaudi 2015)? Oppure come un accadere di eventi quantici discreti, secondo quanto sostiene Gerard ‘t Hooft (Premio Nobel 1999), il quale propone di quadrare il cerchio tra relatività generale e meccanica quantistica negando la casualità heisenberghiana e proponendo un determinismo pressoché assoluto nel quale il divenire non ha luogo e il tempo non è un fattore?
Chi ha ragione? Non lo so. Quale teoria prevarrà? Non ne ho idea. Ma proprio il fisico olandese è entrato in dialogo con Severino in un convegno e poi in un libro a cura di Fabio Scardigli (Determinism and Free Will: New Insights from Physics, Philosophy, and Theology, Springer 2019), al quale hanno partecipato lo stesso ‘t Hooft, Severino e Piero Coda. Nessuno nega che il cambiamento abbia luogo, e chiamarlo continuum, durata, processo o salto quantico non cambia il credito di vita che ci è dato quando veniamo al mondo (che sia il mondo platonico o meno), ma la questione è dove dobbiamo puntare il nostro sguardo teoretico, e se il cambiamento da uno stato all’altro, o da una configurazione del processo all’altra, possa ancora essere compreso attraverso le categorie ereditate dalla metafisica con il nome di essere e divenire. Questa è forse l’ultima sfida a cui ci chiama il pensiero di Severino, questo chiamare in causa la scienza ottenuto - e questo va tutto a suo onore - con le pure armi della filosofia.
Il ricordo del filosofo.
Severino, il nuovo Parmenide che scommetteva sull’eterno
Chiamato alla Cattolica da Gustavo Bontadini, in seguito a pubblicazioni sempre più problematiche in merito alla fede cristiana, si avviò una controversia che lo portò a trasferirsi a Venezia
di Francesco Tomatis (Avvenire, mercoledì 22 gennaio 2020)
Essere o divenire? L’elaborazione filosofica del metafisico, già allievo di Bontadini, riprendeva i presocratici. Si laureò su Heidegger, che si è scoperto recentemente leggeva il nostro autore Diffusa ieri la notiza della sua scomparsa, a Brescia il 17 gennaio: stava per compiere 91 anni.
Da alcuni considerato il maggiore filosofo italiano vivente, negli anni 60 entrò in conflitto con l’Università Cattolica, ma poi aveva dato una lettura più distaccata della vicenda. Seguendo gli antichi, mise al centro il principio di non-contraddizione, Emanuele Severino resterà eternamente un grandissimo filosofo, colui che forse solo assieme a Martin Heidegger ha tentato di riprendere il cammino del pensiero occidentale da capo, sin dai primi passi di Anassimandro e Parmenide, prima ancora che di Platone e Aristotele. Fra questi grandi già in eterno vive nella gioia, in una comunicazione divina, infinita.
Per Severino ogni ente, che sia cosa, pensiero, persona, in ciascun suo cosiddetto aspetto particolare o temporale, è eterno, è salvo per sempre nell’eternità. Non che egli neghi il divenire, la mutevolezza, la incessante diversità di ciò che appare, come banalmente si potrebbe ironizzare in merito al suo invece profondo pensiero.
Ciò che Severino nega, confuta, mostra contraddittorio, è affermare cioè credere che un medesimo ente divenga, anzi nasca o sia creato dal nulla e al nulla possa tornare risultando scomparso, morto, annichilito.
L’apparente divenire non è che la variegatezza degli enti nell’apparire di ciò che appare, nell’orizzonte trascendentale dell’apparire, nel cerchio dell’apparire, intramontabile, orizzonte nel quale soltanto ogni singolo apparire empirico accade, è, è pensabile e pensato.
L’orizzonte degli orizzonti è intrascendibile e intramontabile, tanto che lo stesso pensare al di là di esso in esso accade, sia follia o ideale razionale tale sublime pensiero.
Emanuele Severino nasce a Brescia il 26 febbraio 1929, dove frequenta le scuole del Collegio Cesare Arici, dei padri gesuiti. Il fratello Giuseppe, maggiore di otto anni, lo distrae dalla passione per il pianoforte e lo precede negli studi filosofici, approdando da Brescia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è allievo di Giovanni Gentile, Guido Calogero e Armando Carlini. Ma come “volontario” nel corpo degli Alpini viene mandato nel 1942 sul fronte bellico francese, ove viene ucciso.
In casa si discuteva quindi della filosofia di Gentile, come presto Emanuele Severino farà anche con il suo principale maestro, Gustavo Bontadini, incontrato all’Università di Pavia e con il quale si laureerà nel 1950 discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica.
Trasferitosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, Bontadini si adopera per chiamarvi lo straordinario allievo, d’accordo con monsignor Francesco Olgiati, che nel 1954 lo invita a tenere lezione sulla sua cattedra.
Nei primi anni Sessanta, con il succedersi di pubblicazioni di Severino sempre più problematiche in merito alla fede cristiana, si avvia una controversia con le autorità accademiche ed ecclesiali, che sfocerà in un giudizio da parte della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, richiesto dal filosofo stesso, con il quale viene sancito il suo congedo dall’Università Cattolica.
Nel ripercorrere dopo quarant’anni la triste vicenda, documentandola, Severino giunge ad affermare che «il cristianesimo potrebbe avere un alleato e non un avversario - e anzi l’avversario - nel contenuto dei miei scritti» ( Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001).
Nel 1970 Severino si trasferì alla neonata facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, portando con sé nella diaspora allievi del livello di Salvatore Natoli, Umberto Regina, Mario Ruggenini, Luigi Ruggiu, Luigi Vero Tarca, Italo Valent, Carmelo Vigna..., ai quali si aggiungeranno veneziani come Massimo Donà o Andrea Tagliapietra.
Divenuto professore emerito a Venezia, ritornerà ad insegnare a Milano, ma alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele fondata da Massimo Cacciari nel 2002.
Severino è rimasto profondamente segnato nel suo lungo e fecondo cammino di pensiero, costellato da decine e decine di volumi pubblicati principalmente con le case editrici La Scuola, Adelphi e Rizzoli, dal rapporto con la fede cristiana.
Malgrado la serrata critica, che giunge ad affermare la contraddittorietà della fede nella sua stessa formulazione paolina di argumentum non apparentium (Ebrei 11,2), cioè per Severino dimostrazione di cose indimostrabili poiché non visibili e quindi dubbie, in fondo credo che il grande filosofo bresciano abbia tratto proprio dal cristianesimo, dall’evangelica fede nella salvezza per ogni cosa creata - persino «capelli del capo» e «passeri» di poco conto, «nemmeno uno di essi dimenticato davanti a Dio» (Luca 12,6) -, la principale fonte ispirativa del suo anelito filosofico, volto a ricercare l’eternità di ciascun essente.
Piuttosto un altrettanto pervicace rigore nell’attenersi al principio primo di ogni ragionare filosofico, quello di non-contraddizione, l’ha sempre costretto a rilevare e sviscerare, con un’acutezza di pensiero e una stringenza argomentativa unica nel panorama non solo contemporaneo, la quale non ha mai voluto accettare l’intrinseca simbolicità e quindi contraddittorietà di ogni linguaggio, appunto le contraddizioni insite in gran parte dei ragionamenti filosofici e teologici formulati nel corso del pensiero occidentale.
Senza contare la lucidità estrema e la profondità di visione con cui Severino ha saputo esaminare e commentare - soprattutto dalle pagine del “Corriere della Sera” - le vicende della politica contemporanea globale e della civiltà tecnocratica, notandone la volontà di potenza nichilistica sottesa: dalla violenza terroristica al totalitarismo amministrativo-burocratico, dalle contraddizioni della bioetica all’ipocrisia di ogni ideologia, capitalista o socialista o islamista che sia.
Ora che apprendiamo a funerali avvenuti della sua scomparsa, a Brescia il 17 gennaio, per lui certo infinitamente meno dolorosa che quella della dilettissima moglie Esterina nel 2009, a lui accanto una vita anche per diversi riguardi dei suoi continui studi, pensiamo, assieme al filosofo, che «nessuno toglierà via da voi la vostra gioia» (Giovanni, 16,22).
1929-2020
Morto il filosofo Emanuele Severino
Addio al filosofo Emanuele Severino: nato il 26 febbraio 1929 a Brescia, stava per compiere 91 anni. È scomparso il 17 gennaio scorso, l’annuncio a funerali avvenuti
di Mauro Bonazzi *
Citando un verso di Archiloco, Isaiah Berlin ha una volta provato a distinguere i pensatori in volpi e ricci, tra chi «sa molte cose», inseguendo la realtà in tutte le sue diramazioni, e chi invece «sa una sola cosa, ma grande». Emanuele Severino - scomparso il 17 gennaio a quasi 91 anni - appartiene a pieno titolo al secondo gruppo, in compagnia di un altro riccio per eccellenza, Parmenide, al quale aveva dedicato il saggio Ritornare a Parmenide («Rivista di filosofia neoscolastica», 1964).
Nei tanti libri pubblicati e nelle tante conferenze tenute (Severino era tra le altre cose un ottimo oratore), la sua riflessione si è sviluppata intorno a un unico problema, quello del divenire e della morte. Con un solo, grandioso, obiettivo: negarne l’esistenza. Il problema degli uomini è la credenza del nulla, l’illusione che tutto ciò che esiste, prima non ci fosse e poi non ci sarà. Dal non essere all’essere e ancora al non essere: è il ciclo della vita che diviene. Questa certezza nell’esistenza del divenire è una forma estrema di «nichilismo» tragico: è nichilismo perché il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla (L’essenza del nichilismo, Paideia, 1972); ed è tragico perché di fatto riduce la vita ad una corsa verso la morte (il non essere).
La storia del pensiero occidentale in tutte le sue declinazioni, religiose, scientifiche, filosofiche, è un tentativo di eludere la paura di questo nulla. Per Severino non c’è spazio per tutta questa «follia», per una ragione semplicissima. Il divenire non esiste. L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, affermava Parmenide. Dire che l’essere è non essere, o che l’ente è niente, ammettere il divenire insomma, è contraddittorio. L’unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente - tutte le cose, ciascuno di noi - è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all’essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore).
La morte non esiste, è solo un abbaglio di chi non ha capito che cosa vuol dire «essere». Si pensa alla vita come a un film, in cui fotogrammi scorrono verso una conclusione, senza rendersi conto che tutti i singoli fotogrammi sono sempre lì e niente passa o si perde. Illusi dai loro errori gli uomini si angosciano per la morte e non si accorgono che sono già da sempre salvi, «nella Gloria e nella Gioia» (La gloria, Adelphi 2001; Storia, gioia, Adelphi 2016).
Nel 1970 la Congregazione per la dottrina della fede dichiarò che la filosofia di Severino era incompatibile con la rivelazione cattolica, costringendolo a lasciare l’Università Cattolica di Milano e trasferirsi a Venezia. C’era del vero nella condanna: il pensiero di Severino è un pensiero del qui e ora, che non demanda a un improbabile aldilà il momento della salvezza. Rinnova il confronto secolare tra religione e filosofia, prendendo le parti della seconda. La filosofia, quando è veramente filosofia, è il tentativo di spiegare - su basi razionali, senza bisogno di rivelazioni o illuminazioni - cosa sia la realtà e quale sia il suo senso. La filosofia è conoscenza e la conoscenza salva, perché ci aiuta a capire come stanno le cose: che non vi è nulla oltre agli enti (le cose, noi), che la morte non esiste, che il paradiso (la Gloria) è qui e ora.
Severino è davvero l’ultimo dei Greci. Anche per questo un altro controverso filosofo del Novecento, Martin Heidegger, s’interessò al suo pensiero (o meglio alle critiche che Severino gli aveva rivolto nella sua tesi di laurea), riconoscendone l’importanza. È una notizia recente, che però non sorprende, vista la convinzione di entrambi che l’Occidente avesse preso una strada «folle» nel momento in cui aveva deciso di sostituire a Dio la tecnica, credendo di poter risolvere in questo modo i problemi del nostro tempo (Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998). Del resto, al netto delle pur fondamentali differenze (per Severino neppure Heidegger è stato capace di uscire dal nichilismo: anche lui, insistendo sulla dimensione temporale dell’essere, è rimasto intrappolato nelle secche del divenire), il suo pensiero va incontro a difficoltà analoghe a quelle di Heidegger.
Nel mondo di Severino non c’è spazio per la politica, intesa come cambiamento dell’esistente (Il tramonto della politica, Rizzoli, 2017). Quello che serve è uno sguardo capace di contemplare l’eternità. Tutto è, eternamente - un bacio, il terremoto di Lisbona, la pioggia che cade. Sono tesi radicali, oggetto di grandi discussioni, ma coerenti con l’impianto di fondo del suo sistema, e un grande pensatore non rinuncia mai alla coerenza. Del resto non è proprio il compito della filosofia mostrarci che le cose stanno diversamente da come siamo abituati? «Non si tratta di rassicurare il mortale, ma di mostrare la verità del destino». E la verità, osservava Leopardi (di cui Severino ha vigorosamente difeso la profondità filosofica nel libro In viaggio con Leopardi, Rizzoli 2015), non è necessariamente buona o bella, ma non per questo va respinta. Di sicuro lui l’ha cercata per tutta la vita.
* Corriere della Sera, 21 gennaio 2020 (ripresa parziale).
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Chiarissimo sig. M. G.
Il "paragone degli ingegni moderni e postmoderni" (Paolo Rossi) fece tremare molta "gente" (filosofi/aspiranti/cattedratici) che "falsificava" e "falsifica" (ancora!) carte (della sana e robusta "Costituzione") per dimostrare che "mio nonno era un re"!
La ringrazio vivamente della sua impagabile e nobile testimonianza.
Federico La Sala
P. S. Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
Il filo tra Martin ed Emanuele
Scoperte. Severino aveva dedicato ad Heidegger la sua tesi di laurea pubblicata nel 1950. Testi e testimonianze dimostrano che il filosofo tedesco seguì il lavoro del pensatore italiano
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.05.2019)
Heidegger ha riflettuto sul pensiero di Emanuele Severino, e non sporadicamente, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. O meglio, una prima nota reca la data 1958. Altre annotazioni sul filosofo italiano risalgono agli anni Sessanta (1968-69). Ora sono stati diffusi testi e testimonianze che provano tale interesse.
La notizia è stata resa nota in una conferenza stampa a Milano il 10 maggio, dedicata appunto alle «Nuove scoperte nei manoscritti inediti di Martin Heidegger», dai quali sono emersi passaggi in cui il pensatore tedesco commenta l’italiano. Altro si saprà in occasione del convegno di Brescia, dal 13 al 15 giugno, intitolato «Heidegger nel pensiero di Severino».
Il celebre e discusso maestro tedesco, che morì il 26 maggio 1976 (e nel necrologio Nicola Abbagnano lo ricordò come «Il pastore dell’essere»), negli anni in cui prende in considerazione Severino è riferimento di primo piano della filosofia. Basterà ricordare un evento che cambiò gli atteggiamenti nei suoi confronti: lo straordinario successo che riscosse la conferenza «La questione della tecnica», che Heidegger tenne all’Accademia Bavarese di Belle Arti il 18 novembre 1953.
Tutta l’élite colta di quel periodo lo applaudì entusiasta, da Werner K. Heisenberg (Nobel per la fisica nel 1932) a Ernst Jünger a José Ortega y Gasset. Heinrich Wiegand Petzet, autore di una dettagliata biografia del pensatore tedesco (Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976), pubblicata a Francoforte nel 1983, scriverà dell’avvenimento: «Quando concluse con la frase divenuta famosa “Il domandare è la pietà del pensiero” dalla marea di bocche si levò un’ovazione senza fine. Ebbi la sensazione che finalmente il muro di sfiducia e di astio che si erigeva davanti al maestro e amico si fosse infranto. Fu forse il suo più grande successo pubblico» (tali parole si leggono alle pagine 81-82).
I periodi in cui il filosofo tedesco si occupa di dell’italiano seguono la pubblicazione dell’opera Heidegger e la metafisica, tesi di laurea di Severino (prefata da Gustavo Bontadini, suo maestro all’Università di Pavia), pubblicata dall’Editrice Giulio Vannini di Brescia nel 1950; e poi quella del saggio Ritornare a Parmenide, uscito nella Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. Del resto, di quel periodo va tra l’altro ricordato il viaggio che Heidegger compie in Asia minore nel 1965: visita le rovine di Troia, Efeso, Pergamo, raggiunge Istanbul.
A questi due testi di Severino ha fatto dunque riferimento Heidegger; inoltre in una lettera che Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente del pensatore tedesco, ha scritto al filosofo italiano e che è stata letta all’incontro del 10 maggio, si ricorda con precisione quanto accadde.
Usiamo direttamente le parole di von Hermann: «Posso affermare che il nome di Emanuele Severino era costantemente presente nella mente di Martin Heidegger, quando negli anni ’60 fui l’assistente di Eugen Fink prima e di Martin Heidegger poi». E ancora, tra significativi ricordi: «Le visite di lavoro settimanali a casa di Martin Heidegger mi permisero non solo di conoscere le sue opere non ancora pubblicate, ma anche il suo modo di rapportarsi con le opere di altri pensatori. Il fatto che Heidegger abbia inserito nelle sue Annotazioni tre osservazioni sul percorso di pensiero di Emanuele Severino, è secondo me eloquente. Inoltre, durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino - e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli».
C’è di più. Von Hermann in questa lettera aggiunge precisazioni che mostrano la stima della filosofia tedesca nei confronti dell’italiano. Vale la pena lasciargli di nuovo la parola: «Ma il nome di Emanuele Severino era ben noto anche nella cerchia attorno al filosofo Hans-Georg Gadamer, con cui intrattenni un contatto molto confidenziale sino alla morte di Gadamer. Poiché fui scelto da Martin Heidegger quale responsabile scientifico dell’edizione integrale delle sue opere, intrattenevo una fitta corrispondenza con Gadamer e lo incontravo spesso personalmente.
Tra i fenomenologi di Friburgo le opere Heidegger e la metafisica e Ritornare a Parmenide erano ben note, e Heidegger era molto impressionato da entrambe. Ciò significa che l’originalità del percorso di pensiero di Emanuele Severino s’inserisce a pieno titolo nella serie dei grandi pensatori del XX secolo, assieme a Husserl, Heidegger, Fink e Gadamer».
È il caso di aggiungere che Heinrich Heidegger (sacerdote, figlio del fratello Fritz), in una missiva scritta a Severino e ora resa nota aggiunge altre conferme: «Mio padre, che aiutava suo fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il Suo nome e non si stancava di evidenziare quanto era impressionato Martin Heidegger del modo in cui lei interpretava i suoi testi».
Padre Francesco Alfieri, già collaboratore di Oriana Fallaci (da cui ha ereditato la tenacia), vero segugio di archivi e assistente personale di von Hermann (c’è un loro libro, a quattro mani, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, edito da Morcelliana) ha partecipato alla conferenza stampa parlando di Heidegger interprete di Severino. Ci ha confidato: «Le tre frasi riguardano sia l’opera sulla metafisica sia il saggio su Parmenide. In particolare colpisce la frase di von Hermann, in calce alla lettera a Severino, nella quale dichiara che “Lei è riuscito dove molti hanno fallito”». Che dire? Innanzitutto che la prima nota inedita di Heidegger è questa: Überwindung, das Nichts eröffnet die mataphysische Frage. - Severino über die Metaphysik (1958); ovvero: Oltrepassamento, il nulla apre alla domanda metafisica - Severino sulla Metafisica (1958). Le altre due si conosceranno al convegno di giugno.
Aggiungiamo che nella ricordata prefazione di Bontadini a Heidegger e la Metafisica, dell’agosto 1950 e non può ripubblicata, si legge: «La fatica del Severino, anche indipendentemente dai suoi interessi e dalle sue convinzioni teoretiche, dovrà essere apprezzata da ogni studioso di Heidegger».
Filosofia
Ogni istante della vita è eterno
Emanuele Severino sul destino delle cose. Le critiche a Horkheimer, Adorno e Popper
Un volume, edito da Rizzoli, che s’ispira alle controversie dell’Umanesimo
I limiti della tradizione occidentale e l’egemonia della tecnica
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 07.02.2018)
L’uomo teme la morte. Se la morte è la minaccia che Dio rivolge ad Adamo, significa che Dio sa ciò che il primo uomo già teme maggiormente. Essa è l’elemento fondante il pensiero occidentale, secondo il quale l’ente è concepito dal nulla, diventa ente e poi torna nel nulla, di cui la morte segna il passaggio. Ma tutto questo l’essere non può esserlo, poiché il nulla è la negazione dell’essere e dove c’è il primo, che è eterno, non si può palesare il secondo.
Nel suo nuovo libro, Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli), il filosofo Emanuele Severino muove dalle considerazioni base del suo pensiero neoparmenideo, guidando il lettore nel labirinto delle grandi domande, anche attraverso la rielaborazione di articoli apparsi sul «Corriere della Sera».
Il termine Dispute rimanda ad esempi della letteratura filosofica dell’Umanesimo o del Settecento: è l’affrontarsi di argomenti opposti. Qui sono il dominio delle tecnoscienze, che illusoriamente combatte il diventare nulla degli enti, contro l’immutabilità degli stessi in quanto esseri nella loro totalità, cosa che rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista.
È con il pensiero greco che gli enti incominciano a nascere dal nulla e sparire nel nulla. «Quasi, nascendo, moriamo», scriveva in ripresa a questo pensiero l’umanista Leon Battista Alberti; ed è ciò che diventerà l’«essere per la morte» nell’esistenzialismo di Martin Heidegger. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con le tecnoscienze che hanno preso il posto della filosofia (e che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), l’Occidente ha cercato di offrire una risposta all’angoscia del venir meno di ciò che era presente prima di precipitare nel nulla. Per Heidegger l’«Essere» è tempo e nessun ente è eterno; per le tecnoscienze conta l’incidenza pragmatica di un postulato sugli enti; gli scritti di Severino perseguono una terza via: la necessità che ogni ente sia eterno perché esso sia.
L’annientamento non può apparire, perché non possiamo fare esperienza dell’altro e perché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario «che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza», ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose da essa uscite. Il significato della morte va posto fuori dal movimento dell’Occidente, concorde nelle sue esperienze del mito, delle religioni («strumenti ciechi» che si contendono la lotta al nulla) e delle tecnoscienze nel ritenere che l’individuo venga e ritorni al nulla. Questa concordanza costituisce una piattaforma dogmatica che consiste nel mostrare l’impossibilità di qualcosa di eterno o immutabile.
Severino si pone in alternativa a questa piattaforma: «Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno». Il compimento e il non continuare che la morte segna non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Per il principio per cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Anzi, essendo l’essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza. Totalità non nell’accezione hegeliana della storia risolta nell’«In sé», ma totalità ontologica.
Per porre al centro l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro, Severino suggerisce di reintrodurre una educazione alla morte sul modello della Death Education (cita, a questo proposito, il libro di Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education , Bollati Boringhieri, 2015), una sorta di meditatio mortis che i Paesi anglosassoni intendono rendere operante.
Questo è urgente perché nel nostro tempo le tecnoscienze, nel dispiegare il loro scopo che è la creazione di scopi sia in chiave prassistica che controprassistica (Severino supera la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer), tendono a nascondere la morte come sconfitta. La tecnoscienza, infatti, non conosce la verità e la rifugge come Metafisica (qui la critica è a Congetture e confutazioni di Karl R. Popper), «ma non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». La morte è solo la persuasione «dell’assentarsi dell’eterno».
L’educazione alla morte deve partire dalla consapevolezza che l’eternità compete a ogni essente, non perché è contenuto originariamente in Dio, o perché la sua materia sia eterna, bensì perché esso «è quell’essente che è»: questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Non sono, e non possono diventare, un nulla.
Agli aspetti qui presentati, il volume ne aggiunge molti altri, come le osservazioni su Giovanni Gentile e i contributi nati dal pensiero dell’autore. In coda è pubblicata una lunga intervista rilasciata a Sioned Puw Rowlands. Il rilievo di alcuni è che Severino non abbandona il concetto di verità, così consustanziale alla filosofia greca, al cristianesimo e alla scienza moderna che egli contrasta.
No, non sono la variante di Heidegger
Il dibattito intorno all’autore tedesco invita a riflettere sulle questioni fondamentali dell’Essere e della violenza
I «Quaderni neri» hanno svelato l’antisemitismo e riaperto un caso
Qui Severino replica alle tesi di Giacomo Marramao e Victor Farías
di Emanuele Severino (Corriere della sera - La Lettura, 25.01.2015)
In questi giorni, in cui si è resa ancora più visibile la componente antiebraica del terrorismo islamico, la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger complica le cose. È tragicamente noto che cosa sia stata la violenza antiebraica del nazismo; Heidegger è stato nazista; i Quaderni neri confermano il suo antiebraismo.
Purtroppo Heidegger li ha scritti. Articoli interessanti in proposito, come quelli di Guido Ceronetti e di Livia Profeti, sono apparsi anche sul «Corriere». In sostanza, mi sembra, Heidegger trascrive nelle proprie categorie l’accusa di deicidio che il cristianesimo ha per secoli e secoli rivolto agli ebrei. Al posto di «Dio» mette cioè l’«Essere» (quello che lui intende con questa parola). Nel suo libro, molto informato e pensato, Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, 2014), Donatella Di Cesare, pur nella sua decisa opposizione, non intende nascondere nulla, a quanto ho capito, del peso filosofico di Heidegger e proprio per questo bada a mostrare tutta la forza speculativa di cui può disporre la sua condanna degli ebrei. Forza ben misera, che in sostanza, quando è al meglio, si riduce alla seguente affermazione: «La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non è razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo semplicemente svincolata, può fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio “compito” nella storia del mondo». Dal fatto che gli ebrei sono un popolo nomade, sradicato dalla terra, essi sarebbero cioè sradicati dall’«Essere». I tedeschi invece no, insieme ai greci antichi non sono sradicati.
Molte, da parte di Heidegger, le descrizioni dello sradicamento ebraico dalla terra e della propensione ebraica alla razionalità calcolante scientifico-economica; ma, appunto, non si va oltre il descrivere, o meglio: oltre la convinzione di dire cose che siano descrizioni; la quale non autorizza certo il passaggio dal nomadismo del popolo ebraico al suo sradicamento dall’«Essere». Per fortuna Heidegger non è coerente, ossia non esiste una connessione rigorosa tra le sue tesi; sì che si possono lasciar da parte i Quaderni neri senza esser costretti a fare altrettanto con molte altre sue opere, che lo rendono uno dei maggiori pensatori del Novecento. Rileggere tutta la sua opera alla luce di questi Quaderni (dalla copertina nera) è quindi molto arbitrario. Si può dire allora che se l’isolamento dell’ente dall’«Essere» è in Heidegger un problema serio, non altrettanto si può dire dell’affermazione che gli ebrei siano responsabili di tale isolamento. Non lo si può dire anche perché altrove egli sostiene la tesi che già nel primo pensiero greco, dove l’«Essere» si manifesta per la prima volta, si produce l’oblio dell’«Essere», ossia il voler avere a che fare soltanto con le cose e solo con esse, dimenticando l’«Essere». (Una volontà, peraltro, che prima di Heidegger era stata espressa da Husserl e da Gentile, visto che l’«Essere» è in sostanza il manifestarsi, l’apparire delle cose, l’«aver a che fare», appunto, con esse).
«Con Giacomo Marramao - scrive la Di Cesare - ho avuto modo di discutere sin dall’inizio le pagine di Heidegger». E Giacomo Marramao, nel suo importante libro Dopo il Leviatano (Bollati Boringhieri, 2013), ha avuto modo di discutere quelle che egli chiama «filosofie enfatiche del XX secolo (da quella di Heidegger a quella di Severino, che della filosofia heideggeriana può essere tranquillamente considerata l’italica versione o variante)». L’amico Marramao è un filosofo serio; errare humanum est ; e avrei lasciato correre se ora non si fossero messi di mezzo quei neri e heideggeriani Quaderni - e se non ci trovassimo in una situazione in cui è meglio che, a proposito dell’antiebraismo, tutto sia il più chiaro possibile. Debbo dunque dirgli che se il bianco può essere tranquillamente considerato una «versione o variante» del nero, allora, sì, si può stare altrettanto tranquilli nel considerare la mia filosofia come l’italica versione o variante di quella heideggeriana. Sennonché per Heidegger l’«Essere» è tempo, evento, e nessun ente è eterno; i miei scritti indicano invece la dimensione in cui appare la necessità che ogni ente sia eterno (e se l’«Essere» è, come in effetti è, l’apparire degli enti, allora anche l’«Essere» è eterno). Per molti la differenza, anzi, l’opposizione, tra queste due prospettive è evidente. Cito per tutti Massimo Cacciari.
Certo, Marramao è ben lontano dall’ingenuità di Victor Farías, la cui accusa a Heidegger sollevò verso gli ultimi anni Ottanta un clamoroso e internazionale vespaio analogo a quello che ora i Quaderni neri stanno suscitando all’estero e in Italia. (Solo che oggi, soprattutto in relazione all’antisemitismo presente nel terrorismo islamico, il problema non è solo «culturale»). Ho sempre sostenuto che se una verità definitiva non esiste, allora non è una verità definitiva nemmeno che la distruzione dell’uomo debba essere condannata; e che a questo risultato disumano, partendo da quella premessa, perviene inevitabilmente la civiltà occidentale (e ormai il Pianeta) - la civiltà occidentale, dico, non il Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti.
Ma il disattento Farías (cileno, allievo di Heidegger, docente alla Freie Universität Berlin) aveva capito che questa fosse una delle tesi del mio discorso filosofico - il quale è invece la negazione dei fondamenti di tale civiltà. E quindi, scandalizzato, emetteva nel suo libro giudizi come: «È l’inumanità in atto che parla nelle affermazioni di Emanuele Severino»; oppure: Severino «fa appello a Hegel, ma in realtà si trova pericolosamente vicino a Hitler»; e avanti di questo passo. (E il mio errore, agli occhi di Farías, era anche la pretesa di distinguere, in Heidegger, l’uomo dal filosofo. Pretesa, d’altronde, che tengo tuttora ferma: nel senso, come ho detto all’inizio, che tra le tesi di Heidegger non esiste una connessione rigorosa e che quindi la miseria di una non implica la miseria di tutte le altre).
Marramao è lontano dall’ingenua disattenzione di Farías. Però contrappone il Libro dei libri - cioè la Bibbia, che taglia i ponti col mondo classico - alle «filosofie enfatiche» di Heidegger e mia, appunto, per le quali «non si danno né cesure né metamorfosi, né vuoti né paradossi, ma solo passaggi e inveramenti interni a un monologo nichilistico del Divenire già dato ab originibus nel pensiero greco: almeno a partire dal “parricidio” nei confronti di Parmenide perpetuato da Platone e Aristotele. Per esse le idee di “redenzione” e di “consumazione dei secoli” introdotte dalle tre religioni del Libro non costituiscono novità alcuna».
È curioso - e abbastanza grave - che Marramao descriva Heidegger attribuendogli in sostanza (qualche sbavatura a parte) quella che è la mia diagnosi della storia dell’Occidente e che non solo gli heideggeriani, ma credo nessuno sarebbe disposto a vedere in Heidegger. Negando che tale storia sia un «monologo nichilistico del Divenire», Marramao intende negare che essa abbia un senso unitario. Quasi che «cesure», «metamorfosi», «vuoti», «paradossi», «redenzione» e «consumazione dei secoli», che gli stanno a cuore, non fossero forme del «Divenire».
La filosofia greca pensa che il «Divenire» sia l’andare nell’essere, da parte delle cose, venendo fuori dal loro non essere e ritornandovi. Il futuro è ciò che non è ancora; il passato è ciò che non è più. Nel passato e nel futuro le cose sono nulla. C’è un luogo, nella storia dell’Occidente, dove questa convinzione è negata? C’è un luogo, ovunque lo si cerchi? Assolutamente no. (Ecco perché la storia dell’Occidente è un «monologo»). Ma - e siamo al punto decisivo - questa convinzione è, insieme, l’errore estremo e l’estremo orrore, l’estrema violenza. L’errore estremo, perché, affermando un tempo in cui le cose sono nulla, si identificano le cose, ossia ciò che non è un nulla, al nulla (ecco perché il monologo dell’Occidente è «nichilistico»). L’orrore estremo, perché la convinzione della essenziale nullità delle cose è il fondamento di ogni violenza, omicidio, genocidio, Olocausto: «Tu sei nulla - grida la Violenza -; quindi posso e anzi devo trattarti come un nulla». I difensori dell’uomo, e quindi dell’uomo ebraico, volendo essere amici del Divenire vogliono essere amici della Violenza?
Sull’idiozia sociale
di Nicola Fanizza *
La genialità e l’idiozia, pur configurandosi come situazioni estreme e complementari della nostra coscienza sociale, sono comunque coestensive. L’idiozia abita a pieno titolo nei sotterranei del nostro immaginario e vive e vegeta proprio nel cono d’ombra della genialità. Si può dire che l’idiozia pervade a tal punto la nostra vita, è così immanente ad essa da risultare quasi del tutto assente. Da qui la scarsa attenzione nei confronti di una modalità della nostra esistenza che nelle sue molteplici declinazioni presenta risvolti davvero interessanti.
L’idiozia può essere divertente. Questo accade, specialmente, quando si presenta commista con la pazzia. A tale proposito, l’altro ieri, sulla Linea rossa della Metropolitana milanese, un folle vivente con la sua perfomance - un monologo, in cui trovavano posto simpatici rilievi sui viaggiatori, canzonature dei politici, ardite analogie e frammenti di lucida follia - ha sortito un inconsapevole sorriso su tutti i volti dei viaggiatori. Ho rivisto in lui i tratti del filosofo cinico che dice la verità (parresia) e, insieme, l’immagine dei Santi folli di Bisanzio, che, al fine di riattivare la comunicazione con la città che non li voleva più ascoltare, ricorrevano a gesti estremi, privi di senso e comunque spettacolari.
A volte l’idiozia è disarmante. Ciò accade in particolare quando ci troviamo di fronte all’idiozia dei bambini o degli stupidi. Nondimeno questi ultimi non sono tutti uguali, poiché accanto agli stupidi disarmanti come i bambini ci sono quelli che Ciano, icasticamente - in riferimento a Starace -, chiamava i «coglioni che fanno girare i coglioni». Quando li incontriamo, corriamo quasi sempre il rischio di perdere il controllo delle nostre azioni. La collera, infatti, in quelle rare e fuggitive occasioni, pervade a tal punto la nostra coscienza da offuscare le nostre stesse capacità razionali.
L’idiozia produce i maggiori disastri, quando si coniuga con l’insipienza di chi svolge una funzione di potere: gli ufficiali, specialmente, in caso di guerra, i docenti e i politici. Questi ultimi - in quanto conoscitori delle diverse tecniche e, insieme, possessori della phronesis (l’astuzia, la capacità di mediare fra le esigenze tecniche e la necessità di salvaguardare i legami sociali) - dovrebbero essere i migliori. Eppure non è sempre così.
Nondimeno, nell’inedito spazio sociale prodotto dalle dinamiche della globalizzazione - accanto alle idiozie di cui sopra -, è possibile cogliere il fantasma di una nuova forma di idiozia. Si tratta dell’idiozia sociale che si configura come un vero e proprio ossimoro. La cifra di tale ossimoro, tuttavia, può diventare intellegibile solo se si fanno i conti con il significato che la parola idiota aveva nella lingua greca. Il termine idiotes stava, infatti, a indicare l’uomo privato in contrapposizione all’uomo pubblico, il quale ultimo rivestiva cariche politiche proprio perché era colto, capace ed esperto. Ebbene, oggi, la dissoluzione dei vincoli sociali - determinata dalle politiche neoliberiste - si configura come lo sfondo da cui si origina l’idiozia sociale e, insieme, l’incanaglimento che sempre più pervade il tessuto delle nostre relazioni. Di fatto l’idiozia sociale si dà nella misura in cui ciò che è privato pervade lo spazio pubblico. Non sta pertanto in alcun modo a indicare l’insipienza, ma l’assenza dell’obbligo nei confronti degli altri.
L’idiozia sociale è ormai onnipervasiva. Gli interessi privati signoreggiano nello spazio pubblico, che è stato colonizzato da politici che hanno per lo più lo stesso stile. Quelli di destra - si dice - sono volgari; quelli di sinistra, invece, sono spocchiosi. Se è vero che la plebaglia con la sua volgarità trova sempre più spazio sulle reti televisive di Berlusconi (vedi il talk show Quinta Colonna), è altresì certo che la maggior parte i nipotini di Togliatti continua ad aver come proprio modello il gaga degli anni Trenta (D’Alema). Non si tratta di una grande differenza! La volgarità e la spocchia sono termini coestensivi e, insieme, coessenziali: ambedue rimandano, infatti, alla mancanza di rispetto nei confronti degli altri.
L’insipienza, la supponenza e il sussiego si configurano come i tratti più rilevanti che ineriscono allo stile dei nostri politici, i quali svolgono la loro funzione senza avvertire alcun obbligo nei confronti dello spazio pubblico. Alcuni anni fa mi è capitato di assistere - in occasione della presentazione a Mola di Bari di un libro di Gino Giugni - a uno spettacolo oltremodo vergognoso. Nonostante alcuni dirigenti del Pd avessero accolto a tempo debito l’invito del padre dello statuto dei lavoratori a presentare il suo libro, dichiararono senza alcun pudore di non aver trovato il tempo per leggerlo. E la stessa cosa è accaduta in altre occasioni: gli intellettuali squillo presentano i libri senza averli letti!
D’altra parte, i mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia condita in tutte le salse, e con l’arrivo della televisione e dei giornali e di facebook non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo quasi gratuito.
Il senso del Nuovo Realismo
Altro che Nietzsche, il nucleo sfugge se non si riscopre il pensiero di Gentile
Una prospettiva filosofica largamente diffusa in Italia e ancor più all’estero
ha alimentato un vivace dibattito.
Con una grave lacuna
di Emanuele Severino (Corriere della Sera/ La Lettura, 16.09.2012)
A proposito del «nuovo realismo», una prospettiva filosofica oggi largamente diffusa, sono stati recentemente pubblicati vari scritti. Mi limiterò qui a due di essi, con l’intento di mostrare come persista il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea.
Ho altre volte richiamato quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo, cioè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace.
Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente Nietzsche. Ma anche Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni.
Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer eccetera), e cioè «antirealista», la critica alla «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti, 2012). Si tratta della critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza tra intellectus e res», tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In sostanza - egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene ad essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è «interna».
Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da un appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione», ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa «sentenza» di Nietzsche, dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofia soltanto come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-politiche (pagina 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza» (pagina 122, corsivo mio).
In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva» dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile?
En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pagina 164 e seguente), e pertanto rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente).
Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toglie di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo.
Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel sostiene ora un «nuovo realismo» (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel Il senso dell’esistenza (Carocci, 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (pagina 21).
L’«argomento» è che, una volta ammesso che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi», Gabriel lascia indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non producono il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.
«Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in-un-mondo», scrive Gabriel (pagina 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione». Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico, allora, su questo punto, sono d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»?
Per lui ciò che esiste, esiste necessariamente «all’interno di un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere se stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pagina 52 e seguenti).
Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene se stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - tutto è contingente, neghi a un certo punto - pagina 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità).
L’idealismo assoluto di Gentile è poi un assoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in se stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neo-realisti a studiare Gentile. E a studiare lo sfruttamento in senso realistico che di Gentile è stato dato da Gustavo Bontadini (del cui pensiero è uscita recentemente una puntuale ricostruzione, Gustavo Bontadini, di Luca Grion, edita dalla Lateran University Press nella collana dedicata ai «Filosofi italiani del Novecento», che la Chiesa non ritiene quindi opportuno passare sotto silenzio).
Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero, l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità.
L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo esseri storici e "la massima evidenza disponibile qui e ora" si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (pagina 109).
Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile.
Il dibattito sul nuovo realismo: risposta a Severino
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 18.09.2012)
Emanuele Severino, domenica scorsa, su La lettura del Corriere della Sera, rimprovera al nuovo realismo di non tener conto della “svolta trascendentale” del pensiero, avviata da Kant e realizzata da Gentile. Per questa svolta, il pensiero è il primo e immediato oggetto della nostra esperienza, e noi non abbiamo contatto con nessun mondo “là fuori”, se non appunto tramite la mediazione del pensiero e delle sue categorie. In altri termini, e richiamandoci alle cose - il tema del festival di filosofia appena conclusosi a Modena - noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi.
In effetti, i realisti sono ben consapevoli della rilevanza storica di questa svolta, ma non ne sono convinti per motivi teorici. Questi: la svolta trascendentale ci pone in una perenne contraddizione, e fa sì che, nei nostri rapporti con il mondo, siamo afflitti da uno strabismo divergente. Da una parte, nella vita di tutti i giorni, siamo dei realisti ingenui, convinti che le cose siano quello che appaiono. Dall’altra, siamo degli idealisti costretti a pensare che nulla esorbita dal nostro pensiero e che non abbiamo a che fare con cose, ma con dati di senso, fenomeni, apparenze.
La versione moderna dell’idealismo gentiliano, e cioè il postmodernismo, dice invece che tutto è socialmente costruito (di passaggio, Severino ha perfettamente ragione nel notare che i postmodernisti non hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Gentile). La domanda che si pone il realismo, allora, è semplicemente: è davvero così, o non è una superstizione filosofica, una abitudine inveterata e niente più?
Prendiamo gli oggetti naturali. Per Kant (e a maggior ragione per Gentile, che lo estremizza) sono dei fenomeni per eccellenza: sono situati nello spazio e nel tempo, che però non sono cose che si diano in natura. Stanno nella nostra testa, insieme alle categorie con cui diamo ordine al mondo, al punto che se non ci fossero uomini potrebbe non esserci né lo spazio né il tempo. Se ne dovrebbe concludere che prima degli uomini non c’erano oggetti, almeno per come li conosciamo, ma chiaramente non è così. I fossili ci tramandano esseri che sono esistiti prima di qualunque essere umano, prima di Gentile, prima di Berkeley, prima di Cartesio e prima di qualunque “io penso” in generale.
Come la mettiamo? E come spieghiamo il fenomeno, comunissimo, del giocare con il nostro gatto? Visto che lui ha schemi concettuali e apparati percettivi diversi dai nostri, dovrebbe vivere in un altro mondo, altro che giocare con noi (inoltre, se davvero Gentile avesse ragione, ogni gioco, non solo con il gatto ma anche con un amico, sarebbe virtualmente un solitario).
Ma a ben vedere anche gli oggetti sociali, che dipendono dai soggetti (pur non essendo soggettivi) sono cose in sé e non fenomeni. Questo sulle prime può apparire complicato perché se gli oggetti sociali dipendono da schemi concettuali, allora sembra ovvio che siano dei fenomeni. Ma non è così.
Per essere un fenomeno non basta dipendere da schemi concettuali. Per essere un fenomeno bisogna anche contrapporsi a delle cose in sé. Prendiamo una multa. Quale sarebbe il suo in sé? Dire che una multa è una multa apparente significa semplicemente dire che non è una multa. Una multa vera e propria è una cosa in sé, così come è una cosa in sé e non semplicemente un riflesso del nostro pensiero la crisi economica che ci provoca tante preoccupazioni. Soprattutto, sono cose in sé le persone, che nella prospettiva di Gentile si trasformerebbero in fantasmi, in umbratili proiezioni del pensiero.
E adesso veniamo agli eventi, cose come gli uragani o gli incidenti d’auto. Che spesso sono imprevedibili. L’irregolarità, ciò che disattende i nostri dati e attese, è la più chiara dimostrazione del fatto che il mondo è molto più esteso e imprevedibile del nostro pensiero. Come nel caso della sorpresa, che - se non si è pessimisti, e soprattutto se si è fortunati - può anche essere bellissima. Per esempio, non prevedevo che un grande filosofo (che considero non un fenomeno, ma una cosa in sé: una persona con caratteristiche insostituibili e indipendenti dal mio pensiero) come Severino decidesse di intervenire sul realismo con tanta ampiezza e profondità. Lo ringrazio di nuovo, e spero che trovi questa risposta soddisfacente, o almeno tale da aprire un dialogo.
Ma la Verità ci salverà dal populismo?
di Pietro Barcellona (l’Unità, 02.11.2012)
SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.
Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.
Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica.
Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.
Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.
Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.
Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso. Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.
Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.
L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.
Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.
Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro.
Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.
Pedagogia
Severino, educare alla verità
Ripensiamo il destino dell’uomo per opporci al nichilismo
Esce per l’editrice La Scuola di Brescia un’intervista al filosofo a cura di Sara Bignotti
di Armando Torno (Corriere della sera, 18.07.2012)
Esce oggi presso La Scuola Editrice di Brescia un libro-intervista a Emanuele Severino dal titolo Educare al pensiero (pagine 162, e 9). Curato da Sara Bignotti, responsabile editoriale della Morcelliana, il volume è diviso in tre parti e affronta i temi della pedagogia e dell’educazione tradizionali, ma trasformati radicalmente alla luce delle categorie filosofiche care a Severino.
Il pensatore, dopo una perplessità lunga un anno, ha accettato l’invito. Ci ha confidato in proposito: «Dal punto di vista glottologico la parola "educare" (da cui "educazione") è molto lontana dalla parola "pedagogia". Tuttavia "educare" proviene dal latino e-ducere, "trar fuori, condurre fuori"; e anche in tedesco la parola Er-ziehung ("educazione") alla lettera significa "trar fuori". Da che cosa? Da uno stato di carenza, di povertà, di pochezza, insomma di mancanza. Ora, la parola "pedagogia" è costruita sulla parola greca páis ("fanciullo"). Ma páis è, dal punto di vista linguistico, strettamente imparentato alla voce paus, sulla quale si costruiscono parole come pauros ("povero"), pausis ("pausa"), a cui il latino risponde con parole come paucus (poco), pauper (povero). Ma questa povertà e pochezza è, appunto, quella condizione iniziale da cui l’e-ducere, a cui facevo riferimento prima, trae fuori».
Tutta questa riflessione linguistica a cosa mira? Severino risponde: «La forma fondamentale dell’e-ducere, nella civiltà occidentale, è il "trar fuori da sé" il mondo, da parte di Dio. Dio fa uscire il mondo dalla sua originaria nullità (nella formula teologica: ex nihilo sui, cioè "dal nulla del mondo"). Tutta l’azione educativa e pedagogica dell’Occidente ripropone nel rapporto tra docente e discente questa fondamentale impostazione metafisico-teologica e concepisce l’educare come un trar fuori l’umano dalla povertà e pochezza dell’iniziale condizione quasi animale in cui si trova l’educando (il pais)». A questo punto - il lettore se ne sarà accorto - siamo al centro della filosofia di Severino, laddove si avverte che lo sforzo educativo riflette l’azione creatrice di Dio.
Ma questo implica la nota conclusione di Severino, per la quale l’estrema «Follia» è credere che una qualsiasi cosa, anche la più irrilevante, provenga dal nulla e vi ritorni. Il filosofo aggiunge, illustrando l’itinerario percorso nel libro: «Appunto per questo l’intervista Educare al pensiero è, come abbiamo prima rilevato, la trasformazione radicale del senso che è stato sempre dato alla pedagogia e all’educazione. Il "pensiero" al quale si tratta di educare, infatti, è proprio la negazione del valore dell’educazione in quanto Follia dell’e-ducere le cose e l’umanità dal niente e da quel niente che è la povertà della condizione iniziale dell’essere umano».
A questo punto chiediamo a Severino come si concilia tutto questo con il titolo della seconda parte dell’intervista Educare alla tecnica. Il compimento del nichilismo. La sua risposta non si fa attendere: «Aspettavo questa domanda, del tutto pertinente. La tecnica è diventata, sul Pianeta, la forma suprema dell’e-ducere le cose dal nulla (produzione, trasformazione, invenzione, manipolazione) con le corrispettive forme di distruzione. Analogamente Dio, alla fine dei tempi, dopo averlo fatto essere, annienta il creato. Non è possibile per ora saltar fuori dalla dominazione della tecnica (che ha sì sostituito quella di Dio, ma nemmeno essa ha l’ultima parola). All’interno di questo dominio l’educazione non può essere che il condurre l’uomo a favorire la crescente potenza della tecnica. È vero, è l’educare all’Errore estremo, alla Follia estrema, al nichilismo, ma è necessario che l’errore e la Follia e il nichilismo si facciano innanzi in tutta la loro concretezza proprio per essere oltrepassati dal non-errore, dalla non-Follia e dal non-nichilismo, ossia da ciò che chiamo "Destino della verità". Senza l’apparire dell’errore e degli erranti, la verità è impossibile. Tra l’altro questa educazione all’errore è la Grande Politica, che le politiche mondiali di destra e di sinistra non sono ancora capaci di realizzare».
Severino, dopo Educare al pensiero per La Scuola, pubblicherà in autunno presso Rizzoli un saggio sul futuro del capitalismo e, alla fine dell’anno, da Adelphi, una nuova indagine sul senso del nulla. Ma questa, direbbe Kipling, è un’altra storia. Della quale vi racconteremo a suo tempo.
Tutto su Severino, dall’Essere al capitalismo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 28.o5.2012)
Oggi all’Università di Venezia si tiene un incontro preparatorio, con molti giovani ricercatori, per il convegno di studi «Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino», che si svolgerà domani e dopodomani a Ca’ Dolfin. È stato organizzato dal dipartimento di Filosofia, dove si è formato e insegna un gruppo di docenti di alto profilo che sono stati, appunto, studenti di Severino.
Non capita, se non raramente, che si organizzi un convegno su un filosofo vivente, ma per Severino si è fatta un’eccezione. Del resto i suoi allievi, oltre che da Venezia, giungono da ogni parte d’Italia (da Milano, Bari, Padova e Verona) e da atenei europei e americani. Non manca nemmeno un professore che ha insegnato a Pechino. Le due giornate si chiuderanno con una tavola rotonda (il 30 maggio alle 15) alla quale, oltre una dozzina di ex allievi della prima generazione, parteciperà lo stesso protagonista.
Non si tratterà comunque di un incontro «in famiglia». Ci saranno anche economisti, esperti di diritto, psicologi, eccetera, estranei alla «covata di Severino». Il quale si sente, al tempo stesso, «stuzzicato» a proseguire le sue indagini sulla società. Ed esse si dimostrano particolarmente attuali, avendo egli trattato i rapporti tra capitalismo, politica e tecnica. Tale incontro offre inoltre la possibilità di far luce sulla filosofia italiana, nella quale il dipartimento di Venezia (fondato dal medesimo Severino nel 1970, allorché lasciò la Cattolica di Milano) ha una posizione di spicco. Di più: in questo momento - usiamo le sue parole - «la filosofia italiana non ha nulla da invidiare alle ricerche che si fanno all’estero e i nostri pensatori, pur con lo svantaggio della lingua, offrono una serie di contributi degni della massima attenzione».
Emanuele Severino, che è un giovanotto di 83 anni, sta ultimando tre libri. Stando alle indiscrezioni, che sempre vagolano nel mondo dell’editoria, sappiamo che uno uscirà da Adelphi alla fine dell’anno (entrerà a far parte della collana a lui dedicata da questo editore); il secondo vedrà la luce in autunno da Rizzoli e tratterà di capitalismo e tecnica; il terzo sarà una intervista edita da La Scuola di Brescia, dedicata al rapporto tra educazione e pensiero.
A Venezia - ed è l’unico nome che qui ricordiamo - non potrà esserci purtroppo Italo Valent, scomparso da qualche anno, allievo tra i cari a Severino, che fra l’altro fu direttore del dipartimento che si appresta a dar vita all’incontro di Ca’ Dolfin. Tutte le sue opere sono in corso di pubblicazione da Moretti & Vitali. Severino lo ricorda con tre densi aggettivi: «Dolce, profondo, originale».
di Armando Torno (Corriere della Sera, 21.10.2009)
Cosa ne pensa Emanuele Severino del caso Lombardi Vallauri? E di quello che vide protagonista Franco Cordero, escluso dall’in segnamento in Cattolica poco dopo di lui? Risponde il filosofo: «Mi sembra, e per quanto ricordo, che Lombardi Vallauri e Cordero siano stati e rimangano sostanzialmente cristiani, e quindi si è trattato di una lite in famiglia. Il mio caso risale alla fine degli Anni 60 e, se i due colleghi non hanno gradito la decisione dell’Università fondata da padre Gemelli, è perché alla Cattolica volevano rimanere».
Cosa capitò, invece, a Severino? Ecco le sue parole: «A differenza di loro, nei miei riguardi c’è stato un processo formalmente analogo, dal punto di vista giuridico e con le debite proporzioni, a quello di Galileo». Insomma, era questione diversa. Perché? «Il mio discorso filosofico - nota Severino- fa rientrare il cristianesi mo nella storia del nichilismo. Non si tratta di una lite in famiglia». Puntualizza: «Aggiungo che per le leggi italiane l’Università Cattolica può sospendere dall’insegnamento, ma non togliere lo stipendio al docente colpito qualora egli sia un professore che abbia vinto un concorso statale (come il sottoscritto, Cordero, Vallauri e tutti gli ordinari). Da parte mia, d’accordo con le autorità accademiche ed ecclesiastiche, ho preferito andarmene a Venezia soprattutto perché avevo attorno un gruppo di giovani studiosi, oggi tutti in cattedra, presidi eccetera, che invece sarebbero ri masti senza alcun sostentamento qualora io avessi scelto di percepire lo stipendio rinunciando a insegnare».
Per quel che riguarda il giudizio europeo sul caso Lombardi Vallauri, Severino osserva: «Ritengo, con tutta la stima per i colleghi, che se un’università libera decide che sia seguito un determinato indirizzo culturale, chi vi insegna non debba poi avere la pretesa di sceglierne uno diverso». E conclude: «Fortunatamente in un’università come quella del San Raffaele dove insegno, chi la guida, cioè il sacerdote don Luigi Maria Verzé, auspica ma non esige dai docenti un determinato indirizzo culturale».
Identità e destino.
Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant
L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita
Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 20.03.2009)
Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «vita umana », «uomo»? Pressoché assente, invece, quest’altra domanda: «Esiste l’uomo? ». Certo, essa sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell’amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l’intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l’esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l’esistenza stessa dell’uomo, è una congettura. Dell’uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l’esistenza dell’«uomo», quanto lo è l’esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell’«evidenza».
Che l’uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell’esistenza dell’uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «conferme » è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell’amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce.
Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l’amante (il buon Samaritano lo è rispetto all’uomo derubato), giacché se l’amore rende prossimo, cioè vicino, l’amato, anche l’amante si avvicina all’amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall’amore, ma l’amare è il contenuto della «Legge», ossia di un «Comandamento »; e non si comanda quel che si ritiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l’amato-amante, l’amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all’origine del massacro che incomincia con l’uomo, ma lo si può dire stando all’interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «legge morale», di un «imperativo », di un comando. È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All’inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossimo » (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l’ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo».
L’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell’«incominciare» e del «finire», e a questo punto l’inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e altre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento dell’inizio e della fine di qualcosa - il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici - che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt’altro che insensato discutere sull’inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma - rispondiamo - è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è addormentati. No, se si riesce a scorgere che c’è dell’altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi.
È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il risveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il sogno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha fede che così stiano, ma perché esse stanno incontrovertibilmente così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi giorni all’Università di Padova. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l’«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert’altro finisca?
Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l’esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considerare ancora come «prossimo»).
Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l’annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l’annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cadavere compare sulla scena, la vita da cui è preceduto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l’«annientamento » della vita. Non appare, non si fa esperienza dell’annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi »), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere.
E l’annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è necessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose che da essa sono uscite. Appunto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall’esperienza «può» ritornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessario » che ritorni.
Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) credono che l’annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più «evidente» vi sia, di più manifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l’autentico «pungiglione della morte». La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell’annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, attende di ritornare, nella sua gloria.
All’università di Padova
Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia
Si apre oggi, alle 9.15, all’Università di Padova, nella sala dell’Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull’argomento). L’iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell’Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale.
Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review».
UNA TEOCRAZIA IMPERFETTA
di Alessandro Carrera *
Un mio collega che segue le cose italiane mi ha chiesto di spiegargli che cosa significa per l’Italia la controversia intorno a Eluana Englaro (che in America ha fatto capolino anche su CNN). Senza pensarci, istintivamente, gli ho detto che per capire l’Italia di oggi deve pensare all’America coloniale, prima della dichiarazione d’indipendenza. Finché è durata la Prima Repubblica, la Democrazia Cristiana aveva un’importante funzione di mediazione tra il Vaticano e l’Italia. Venuta meno la DC la mediazione è saltata, e gli italiani si sono trovati esposti alla lotta che da allora, a Roma come nel resto d’Italia, si svolge tra due stati per il controllo dello stesso territorio. Il risultato è una situazione coloniale e una teocrazia imperfetta.
In una nota dello Zibaldone datata 1 dicembre 1825, Leopardi osserva che i romani e in generale gli italiani, per via del gran numero di papi non italiani che hanno avuto, sono l’unico popolo che non trova strano il fatto di essere comandato da un capo di stato straniero. Tale situazione di “pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista” (parole testuali) non solo è data per scontata, è anche obliata. Molti italiani non sanno affatto di vivere in una colonia e non in uno stato sovrano, che le curie vescovili agiscono sul loro territorio come agenzie coloniali, e che lo stato non è retto da governanti ma da governatori. Alcuni di questi governatori hanno mantenuto un certo grado di autonomia e infatti sono stati rimossi. Altri, come quello attualmente in carica, si vogliono distinguere per zelo e fanno di tutto per guadagnare crediti agli occhi del loro sovrano.
Che cosa vuole un potere coloniale? Riscuotere le tasse (l’otto per mille, pagato in anticipo dallo stato italiano, prima ancora di averlo incassato) e tener buoni i nativi. Non interviene a gestire la cosa pubblica. A tale scopo ha bisogno di una classe di colonizzatori collocati nei governi locali, nell’istruzione e nei media, e che avrebbero tutto da perdere se la popolazione locale alzasse la cresta e volesse prendere decisioni autonome. Non disponendo di un esercito, la potenza coloniale dalla quale l’Italia dipende fa di più e di meglio: sostenendo di essere l’unica istituzione in grado di interpretare il diritto naturale (ma se è naturale come può avere un solo interprete?) sottrae al popolo la possibilità di gestirsi come soggetto morale. Agli occhi di questo potere coloniale, la popolazione è fatta di indigeni senza autonomia decisionale e che devono essere guidati, premiati o castigati a seconda dei casi.
Vivo in America da ventun anni. Quando torno nel paese in cui sono nato, ogni volta che varco le porte di un’istituzione connessa alla gerarchia religiosa capisco di trovarmi di fronte all’unica classe dirigente che esista oggi in Italia. Sono svegli, colti, informati. Viaggiano, imparano, e hanno un’idea molto chiara dello scopo che perseguono. Tra loro vi sono serie differenze d’opinione, naturalmente, perché la Chiesa è una grande istituzione, tanto vasta al suo interno da poter essere reazionaria su alcuni punti e progressista su altri, nonché dotata, su alcune specifiche questioni, di maggiore buon senso dei governanti laici. Voglio solo far notare che questa classe dirigente, la sola attiva in Italia, non lavora per l’Italia ma per un altro stato, che i suoi rappresentanti sono agenti di una potenza straniera operante su un suolo colonizzato e che i funzionari indigeni, se in un momento di crisi devono scegliere tra la potenza coloniale e la colonia, sanno benissimo che la loro lealtà deve andare alla prima.
Le conseguenze di questa teocrazia imperfetta sono molteplici. Da un lato, la potenza coloniale costituita dal Vaticano, dalla CEI, dalla Compagnia delle Opere (stavo per dire la Compagnia delle Indie, ma del resto i gesuiti nel Settecento chiamavano le isole “le Indie d’Italia”) raccoglie tutti i benefici; dall’altro non si assume responsabilità spicciole. Non deve costruire ferrovie, risolvere crisi economiche o ripulire i cantieri dall’amianto. Questo è compito dei funzionari indigeni. Se falliscono, la colpa è interamente loro. La potenza coloniale aborrisce i dettagli, glielo impedisce la sua stessa superiorità morale. Molti studiosi della modernità, stranieri e non, osservano spesso che gli italiani non hanno ben chiaro che cosa sia la responsabilità individuale, e nemmeno di che natura sia il vincolo che lega il cittadino alla legge. Ma nessuno può crescere come soggetto morale e giuridico se ogni giorno constata che nemmeno i governanti da lui eletti sono padroni in casa propria, e che l’ultima autorità non risiede presso di loro, bensì presso i rappresentanti di uno stato straniero che lui non ha eletto e non avrebbe potere di eleggere.
La situazione di teocrazia imperfetta toglie agli italiani la dignità di decidere e quindi anche di sbagliare, affrontando da adulti le conseguenze delle proprie decisioni. Agli occhi della gerarchia coloniale gli italiani sono dei Renzo Tramaglino, tanto bravi e un poco sciocchi, e se non interviene Fra’ Cristoforo a dirgli che cosa devono fare non ne combinano una giusta.
Finché gli italiani non si renderanno conto di essere colonizzati non avranno nessuna speranza di diventare adulti. E nulla cambierà finché non verrà sottoscritta una Dichiarazione d’Indipendenza del Popolo Italiano. Che potrebbe cominciare ispirandosi a quella stesa da Thomas Jefferson: “Quando nel corso degli eventi umani diventa necessario per un popolo dissolvere i legami politici che l’hanno legato a un altro e assumere, tra le potenze della terra, lo statuto separato e uguale al quale le leggi della natura e divine gli danno diritto...”. Gli italiani potranno allora ascoltare quello che i loro funzionari ex-coloniali hanno da dire, e potranno loro rispondere: “Grazie, terremo conto del vostro parere, ma siamo indipendenti, siamo un’altra nazione”.
È difficile per due nazioni condividere lo stesso territorio, ma una nazione è formata dai suoi cittadini e dalle sue leggi, non dai suoi chilometri quadrati. E siccome la strada verso l’indipendenza sarà lunga e faticosa, intanto è bene che la Dichiarazione d’Indipendenza venga sottoscritta interiormente, cittadino per cittadino, che si faccia ricorso ad essa ogni volta che si tratta di prendere decisioni difficili, e che in ogni momento della giornata venga sempre tenuta in mente, stampata a caratteri d’oro, costi quello che costi. (Houston, 11 febbraio 2009)
Alessandro Carrera
University of Houston
I nuovi scenari globali che si aprono al di là delle alleanze fra le grandi potenze
La Tecnica, un Superstato oltre i confini della politica
Perché l’incontro Europa-Russia va nella direzione giusta
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 1.11.2009)
«Sono ben calibrati, i rapporti che l’Italia ha con la Russia?» - si chiedeva qualche tempo fa, il 20 ottobre scorso precisamente, Franco Venturini sul «Corriere», prendendo spunto dall’incontro di Berlusconi e Putin a San Pietroburgo. Concordo con lui nel ritenerla «la domanda chiave della nostra politica estera». Ma la sua risposta è negativa: mancherebbero, quei rapporti, di «opportunità e bilanciamento». Inopportuno che un Paese come il nostro abbia la pretesa di fare da intermediario tra Stati Uniti e Russia, sbilanciandosi eccessivamente in favore di quest’ultima e aprendo contenziosi con gli Stati Uniti, come quello, ad esempio, relativo al gasdotto Nabucco, promosso da Europa e Stati Uniti ma di fatto ostacolato da Germania e Italia.
Tuttavia esiste, in Europa, un direttorio: Inghilterra, Germania, Francia. L’Italia è tenuta fuori. Se non si rassegna, la mossa pressoché obbligata non è forse stabilire rapporti privilegiati con Mosca, soprattutto nell’attuale fase filoamericana di quei tre Stati? Favorendo la presenza della Russia in Europa non si riduce forse la distanza tra i membri del direttorio e l’Italia? Per la politica estera italiana è meglio avere in mano una carta da giocare per riguadagnare terreno in Europa, o evitare di correre il rischio di sembrare ’inopportuna’? Questa mossa pressoché obbligata il centro-sinistra non ha potuto farla: non ha potuto fare quello che oggi il centro-destra invece può. Durante il suo ultimo governo, Prodi ha dichiarato che un ingresso della Russia nell’Unione Europea sarebbe stato assolutamente fuori luogo. Se avesse detto l’opposto avrebbe dato corda all’accusa, rivolta da Berlusconi al centro- sinistra, di non essersi ancora liberato dal comunismo. La Russia è pur sempre l’ex Unione Sovietica. Invece il centrodestra può permettersi di sembrare filorusso. E lo fa con qualche ragione.
Ci si deve anche chiedere se quel direttorio (di cui l’Italia vorrebbe far parte) sia vantaggioso per l’Europa, cioè se sia compatibile con l’intento, ribadito recentemente dal presidente della Commissione Europea, di rafforzare il più possibile il mercato unico europeo. Un obbiettivo certo irrinunciabile. Tuttavia anche oggi è impossibile per i popoli riuscire ad essere economicamente floridi se sono militarmente deboli. E questa è appunto la condizione in cui l’ Europa verrà a trovarsi anche quando sarà uscita dalla crisi economica. Oggi il mondo è un vulcano in eruzione.
Troppo sconveniente far torto a Obama credendo che egli voglia per davvero arrivare al disarmo atomico totale. Come se in una città infestata da ladri e assassini si congedasse la polizia e si togliessero le porte alle case. L’Europa è senza porte e senza polizia. Con l’aggravante che il pericolo maggiore non proviene da ladri e assassini, ma dalla fame e dalle ingiustizie sociali che pesano su gran parte dell’umanità - sì che, anche quanto sarà ricca, l’Europa non solo continuerà ad esser debole, ma, come tutto il mondo ricco, non avrà nemmeno la coscienza a posto. D’altra parte vorrà continuare a vivere. (Ai popoli non ha senso fare prediche morali. Né a quelli sfruttati, nè agli sfruttatori). Ma come potrà vivere se continuerà ad esser debole?
D’altra parte, la solidità economica è essenziale all’Europa. Non solo perché il benessere è preferibile alla penuria, ma perché la ricchezza è per l’Europa indispensabile per trattare da pari a pari con la Russia: in una cooperazione dove l’Europa assicurerebbe l’esistenza di un mercato fiorente e la Russia avrebbe quella forza militare, e innanzitutto quell’arsenale nucleare, senza di cui oggi nessuna economia sana può sopravvivere.
Gli Stati Uniti di Bush solo a parole hanno trattato l’Europa da partner. Di fatto hanno agito come se essa fosse un satellite. La stessa cosa avverrebbe, e anche peggio, in un’apparente partnership tra la Russia e un’Europa economicamente debole. Ma la Russia ha bisogno, molto più degli Stati Uniti, di una economia europea in buona salute. È per questo che, se l’Europa non è destinata al declino economico, la progressiva integrazione di Europa e Russia è nell’«ordine delle cose». Non certo perché sia nell’ «ordine delle cose» che l’Europa divenga un avversario degli Stati Uniti, ma perché la partnership tra Europa e Russia, da un lato, e Stati Uniti dall’altro, sia reale e non apparente. Si aggiunga che se l’entrata della Turchia in Europa è una possibilità concreta, questa entrata renderebbe più equilibrato il rapporto demografico tra i Russi e gli attuali Europei.
Che nell’«ordine delle cose» ci sia la progressiva integrazione di Europa e Russia lo dicevo d’altronde ben prima che tale integrazione diventasse l’obiettivo sempre più esplicito della politica estera dell’attuale governo di centro-destra. Lo dicevo sin dagli inizi degli anni novanta, al tempo della fine dell’Unione Sovietica (nel sesto capitolo de Il declino del capitalismo, pubblicato da Rizzoli nel 1993), e ho poi ripreso il concetto anche su queste colonne.
Ma, infine, ci si deve chiedere: Europa, Stati Uniti, Russia - e si aggiungano Cina, India, Giappone, eccetera - riescono a scorgere il volto autentico dell’«ordine delle cose»? Essi agiscono ancora politicamente, cioè come Stati che nel loro fronteggiarsi credono di essere in grado di servirsi della potenza della Tecnica per far prevalere le loro rispettive forme statuali. Non si rendono conto che le loro tensioni e la loro elaborazione dei problemi del mondo - le quali sono peraltro l’insieme di eventi oggi più visibile - stanno diventando una lotta di retroguardia; che tuttavia è necessaria proprio per andar oltre, nella direzione che vado da tempo indicando. Incomincia infatti ad affiorare il contrario di quanto essi credono: affiora che è la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e militare, a servirsi sempre di più degli Stati per accrescere la propria potenza, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti. L’integrazione Europa-Russia, ossia la riduzione delle autonomie statuali, è un passo importante in questa direzione.