Le strutture religiose accolgano gli immigrati
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 27.3.2011)
Sarebbe bello che le istituzioni religiose aprissero almeno una parte delle proprie strutture per dare un’ospitalità decente alle migliaia di immigrati, in primis ai minori non accompagnati, che arrivano a Lampedusa in fuga dall’incertezza e dai pericoli dei loro paesi in conflitto. Sarebbe non solo una doverosa compartecipazione all’azione di solidarietà collettiva cui tutti siamo chiamati a fronte di questa emergenza umanitaria, ma un atto di restituzione di un mancato introito per il bilancio pubblico (stimato in 70-80 milioni di euro) in un periodo di tagli alla spesa sociale che colpiscono soprattutto i cittadini più vulnerabili.
Soprattutto sarebbe una, sia pure temporanea, dimostrazione che effettivamente quelle strutture hanno finalità religiose e assistenziali e non commerciali e quindi la giustificazione formale del sostanzioso sconto Ici di cui beneficiano gli immobili destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive o per uso culturale" ha un effettivo fondamento.
Ricordo che, nonostante il parere contrario della Corte di giustizia Europea che giustamente ha parlato di trattamento di favore lesivo della concorrenza, il governo lo ha mantenuto e introdotto anche nel decreto sulla fiscalità municipale, anche se, specie per le "strutture ricettive", è spesso davvero difficile non definirle commerciali. Non basta la pur benemerita opera della Caritas, oggi in prima linea anche a Lampedusa, a giustificare perché i vari conventi trasformati in strutture alberghiere a Roma come a Venezia e in altre città debbano pagare meno Ici di qualsiasi altro albergo, pensione o bed and breakfast, facendo anche concorrenza sleale. Questo è il momento di dimostrare che sono innanzitutto dedicate allo svolgimento d attività assistenziali ed anche ricettive non commerciali.
Sarebbe anche opportuno che il governo ripensasse alla sua decisione di non avere un unico election day, buttando al vento centinaia di migliaia di euro. E’ stata una scelta sconsiderata in sé, appunto in un periodo di tagli dolorosi, ma lo è tanto più ora, quando le immagini dei profughi ridotti in condizioni disumane non possono non lasciarci pieni di vergogna. Lo scarto tra spreco e bisogno è letteralmente intollerabile.
Sarebbe infine bello che quest’anno lo Stato, a fronte di tagli alla spesa sociale e viceversa crescenti domande di sostegno in una situazione in cui una emergenza sociale non ne cancella un’altra, indicasse due-tre priorità sociali su cui si impegna a spendere l’8 per mille che gli verrà destinato nelle dichiarazioni dei redditi. Offrirebbe ai cittadini una alternativa effettiva, invogliando una quota maggiore di contribuenti ad indicare il proprio destinatario di elezione: tra le diverse chiese e confessioni religiose e, appunto, lo Stato.
E’ bene ricordare, infatti, che solo una minoranza dei contribuenti indica un destinatario dell’8 per mille. Chi non sceglie, è convinto che i soldi rimangano nel bilancio pubblico. Ma non è così. L’intero ammontare dell’8 per mille delle entrate è ripartito sulla base delle scelte effettuate. Chi conquista la maggioranza della minoranza che sceglie, conquista perciò anche la maggioranza dell’intero ammontare. Come nelle elezioni, chi si astiene di fatto è come se votasse con la maggioranza. In una situazione di risorse scarse e bisogni gravi crescenti, mi sembra davvero non solo poco democratico, ma uno spreco non mettere i cittadini di fronte a possibilità di scelta effettiva sugli obiettivi concreti, in campo sociale, su cui distribuire l’8 per mille.
La Chiesa di Roma e i paesi del nord Africa
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 10 aprile 2011)
Soprattutto, ma non soltanto, sulle rive del Mediterraneo. Stanno crollando governi che si credevano consolidati, sicuri, inamovibili, come quello libico e quello egiziano. Uno sconvolgimento soprattutto politico, ma anche inevitabilmente religioso. È in gioco la stabilità e la persistenza dell’islam, la religione di gran lunga dominante su tutto il bacino meridionale del Mediterraneo. Proprio là dove il cristianesimo è in assoluta minoranza, quasi insignificante. Il cristianesimo è dunque in crisi insieme ai regimi occidentali, di importazione. La crisi dell’Africa settentrionale comporta il consolidamento del dominio dell’islam.
Di fronte a questa situazione in parte nuova, quale la reazione del cristianesimo, in particolare di Roma (le altre forme di cristianesimo non sono particolarmente interessate)? Roma non può non ricordare le difficili vicende della sua storia con l’islam. Una storia molto contrastata e nella quale Roma è stata spesso perdente, di fronte a un islam aggressivo e spesso vincente. Proprio in quelle regioni dell’Africa che oggi sono in prima pagina.
In Asia, invece, il rapporto fra l’islam e Roma è stato generalmente più incerto e controverso. Quale è oggi l’atteggiamento di Roma di fronte all’attuale ripresa vincente dell’islam? Un atteggiamento che si potrebbe dire prudente e quasi gentile. I toni decisi e contrastanti che erano tipici dei secoli precedenti si potrebbero dire abbandonati. Soprattutto perché inutili, se non addirittura dannosi.
Roma cerca di mantenere quel tono cortese e magnanimo che da qualche anno caratterizza i suoi rapporti con le altre religioni. Dal giorno, più o meno, del famoso incontro di Assisi guidato da Papa Giovanni XXIII. Da allora domina un atteggiamento che cerca di affratellare le diverse religioni, compreso l’islam e nonostante una lunga storia di incomprensioni e di avversità.
Quella storia oggi, di fronte alle vicende dell’Egitto, della Libia e della Tunisia, sembra dimenticata. Dimenticata soprattutto di fronte alle migliaia di profughi e di «richiedenti asilo». Ai cristiani europei si chiede, più che una affermazione di fede, un gesto di accoglienza e di carità. Proprio quel gesto che i cristiani - soprattutto cattolici - hanno difficoltà a compiere. Il discorso religioso si sta spostando dalla verità alla carità.
Lampedusa e la sovranità del panico
Da settimane in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla situazione a Lampedusa. Ma la visuale è ristretta: il mondo è in mutazione e l’isola è divenuta l’emblema della nostra condizione di vittime
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 30 marzo 2011)
Sono settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla guerra che stiamo conducendo attraverso un’unica lente: nient’altro è per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non si discute che di Lampedusa assediata, di città italiane più o meno restie all’accoglienza. Per la verità non si parla di rifugiati ma di invasori, come se la vera guerra fosse contro di noi.
Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia: da un momento all’altro, il favore di cui gode l’operazione in Libia potrebbe precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l’altrove mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. Già alcuni parlano di tsunami, ed ecco paesi e persone degradati ad acqua che irrompe.
Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri, in parte avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli insorti, le loro intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria: come se esistesse, oltre alla guerra preventiva, un non-voler sapere preventivo.
Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più in là, lungo le coste libiche, ben felici che a gestire l’immigrazione fosse il colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e i detriti son tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in detrito: con Bossi che offre come soluzione lo slogan "föra di ball", con il Consiglio dei ministri che salta, con Berlusconi che di persona andrà nell’isola campeggiando - ancora una volta - come re taumaturgo.
Lampedusa è divenuta l’emblema della nostra condizione di vittime, il grido che lanciamo all’universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per 10.000 posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l’isolotto sommerso da grumi informi a malapena identificati con persone. Il fermo immagine sull’isola - il fotogramma che sospende il tempo creando stasi, ristagno - è l’arma di un governo che scientemente arresta la pellicola su questo dramma abbacinante. Lampedusa è agnello sacrificale, ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari.
Tutte le colpe s’addensano nell’icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario sacrificale che l’accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la parola apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così Lampedusa si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, già ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l’Italia è oggi laboratorio delle destre estreme.
Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l’uso dello spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo perirà"? La paura è comprensibile ma va affrontata, secondo Martini, con quattro virtù: resistenza, calma, serietà, dignità.
È proprio quello che manca in Italia. Che manca, nonostante l’attività della Caritas, anche alla Chiesa: con gli innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di cibo. Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su Repubblica: questi alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti fiscali perché destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali". Perché non sono messi subito a disposizione?
Quando non c’è serietà le bugie dilagano, le immagini s’adeguano. Si adeguano nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può nemmeno esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel descrivere l’Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma nella sostanza menzognere, da parte di governanti che di tutto son capaci tranne di pedagogia delle crisi.
Se non c’è una politica europea sull’emigrazione, è perché gli Stati vogliono mantenere per sé competenze che non sanno esercitare. È contro il proprio panico sovrano che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro l’ideologia del fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l’Italia da quasi cent’anni.
In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà (l’Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non sanno risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all’immigrazione, il trattato di Lisbona prevede che l’Unione decida all’unanimità tra governi, senza la codecisione del Parlamento europeo, con l’eccezione di alcune materie in cui il trattato stesso prevede la procedura legislativa ordinaria: solo in queste materie (non sono le più importanti) si decide a maggioranza qualificata e dunque si agisce.
Ma la menzogna decisiva riguarda quel che l’Italia pensa di sé. Alla radice della cecità, c’è l’illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo xenofoba.
In realtà sono 30 anni che siamo un paese d’immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la convivenza col diverso si apprende faticosamente ma la si deve apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato, del rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano alla svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da tempo non è più un’opzione ma un fatto.
Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai allarmato, che Human Rights Watch 1 ha pubblicato il 21 marzo sull’espandersi del razzismo in Italia. Condotta fra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, l’inchiesta raccoglie una mole di testimonianze e mette in luce cose che sappiamo, ma dimentichiamo.
Raramente il crimine razzista è denunciato come tale, nonostante la legge Mancino del ’93 (articolo 3) lo consideri un’aggravante nei reati: la disposizione non è però inserita nel Codice penale. Raramente sono applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti. Infine, né polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono commesse da forze dell’ordine.
È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la colpa è dei politici come dei media. Dei politici, che per primi "stigmatizzano le persone con stereotipi". Dei media, "a causa della monopolizzazione dell’editoria radio-televisiva esercitata da Berlusconi". Il rapporto non risparmia la sinistra, spesso tentata di equiparare immigrati e criminali.
Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si integrino nella nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai fuggiaschi non vengono dati gli strumenti per interiorizzare la nostra civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo perché gli italiani stessi - mal informati, mal governati - ignorano la civiltà sbandierata. Basti un esempio.
Il migrante privo di documento che è vittima di un reato può richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel paese per la durata del processo. L’autorizzazione è concessa per periodi rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è archiviato. Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il reato non è denunciato per paura, la fiducia del migrante nello Stato frana, le mafie diventano rifugi.
Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra politica estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che gli aiuti pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti dal governo Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per l’Istituto affari internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti: nel bilancio di previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è tra le spese più decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel mondo. Gli stanziamenti per la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il livello più basso, con una riduzione del 61% rispetto al minimo del ’97. Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È falso: Londra, Stoccolma e Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi.
Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta delle sue già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad aver negoziato con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha qualcosa di scellerato. È grazie a esso che dal 2009 sono stati rimpatriati centinaia di africani giunti in Libia per arrivare in Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i fuggitivi sono stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici campi di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame.
Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare questa guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di insorti che non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani sospettati di lavorare per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai successori del colonnello: dai ribelli che stiamo aiutando perché abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo.
* la Repubblica, 30 marzo 2011