LEGGE ELETTORALE ("PORCELLUM") E PROSTITUZIONE: ANGELA NAPOLI LANCIA L’ALLARME.
Di Pietro VS Berlusconi: "S-pregiudicato illusionista; stupratore della democrazia"
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo della storia si è avventurato a dire con aria grave: «Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare sono parecchie. La prima, nota anche a studenti di latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non “vereo” (il verbo è cioè un “deponente”). La seconda è che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna. La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo “verecundia”, un sostantivo latino tratto da “vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
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ITALIA: PASQUA.IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.
L’uso di body shaming è una vergogna? *
L’uso di body shaming è una vergogna?
Insieme al suo diffondersi sul web, l’uso poco gentile di criticare le persone per aspetti del loro corpo ha cominciato a essere menzionato anche da noi italiani mediante l’espressione inglese body shaming, forma sostantivata del verbo to shame, identico a shame ’vergogna’, che sfrutta la straordinaria elasticità di questa lingua nel consentire allo stesso termine di figurare virtualmente in qualsiasi classe di parole. Questa possibilità è spesso maggiore nelle lingue dette "a morfologia isolante", cioè quelle in cui le parole si modificano pochissimo o per niente, come l’inglese e, ancor più, il cinese mandarino o il vietnamita. Ad esempio, l’inglese presenta in tutto il paradigma di un verbo regolare una manciata di forme (connect - connects - connected - connecting), neanche paragonabile alla complessità morfologica esibita da altre lingue, compreso l’italiano. In compenso, l’inglese può "piegare" le sue parole a svolgere molte più funzioni.
Questo fenomeno si chiama conversione, ed è in virtù di esso che in inglese shame non è solo il sostantivo che significa ’vergogna’, ma anche il verbo (to shame) che significa ’generare vergogna’, quindi ’far vergognare’, ’umiliare’. Alcune parole in inglese possono fare molto di più. Ad esempio round è aggettivo: a round face ’un viso rotondo’; nome: a round ’un cerchio, un giro’ (a round of drinks, un giro di bevute); preposizione: round a table ’intorno a un tavolo’, round the corner ’dietro l’angolo’ (cioè, girato l’angolo); avverbio: to walk round and round ’camminare in tondo’; e verbo: to round Cape Horn ’doppiare (aggirare) il capo Horn’.
Tornando alla nostra questione, l’italiano da vergogna deriva il verbo svergognare, il cui senso però include abbastanza necessariamente l’idea dello smascheramento, cioè che la vergogna gettata su qualcuno sia giustificata: lo ha svergognato fa pensare che sia stato rivelato qualcosa di cui chiunque si dovrebbe vergognare. Invece il verbo inglese significa semplicemente ’creare vergogna’, ’far vergognare’, anche nei casi in cui questa vergogna non sia giustificata, e la persona che si vergogna finisca per sentirsi così non tanto perché ci sia in lei qualcosa di sbagliato, ma semplicemente perché è stata esposta a una critica in pubblico.
È appunto il caso del body shaming sul web, dove l’oggetto della critica può essere una corporatura non ideale, un tatuaggio, o qualsiasi altra caratteristica del corpo che non giustifica di per sé la vergogna, ma può condurvi per il modo o la circostanza in cui viene commentata.
Non è una buona traduzione neanche umiliare il corpo (di un altro), che talora viene proposta sul web, perché questa espressione evoca un’azione fisica di sottomissione del corpo altrui o di violenza su di esso, piuttosto che una critica verbale rivolta a sue caratteristiche.
Invece, grazie anche alla capacità dell’inglese di giustapporre due parole creando un breve composto equivalente a quello che l’italiano ottiene aggiungendovi almeno una preposizione e spesso l’articolo, body shaming, forma sostantivata del verbo to shame, significa assai in breve ’il far vergognare del (proprio) corpo’.
Chi non voglia dunque adoperare l’espressione inglese, scartati svergognare (per) il corpo e umiliare il corpo con le ragioni di significato che abbiamo dette, dovrà ricorrere a perifrasi un po’ più lunghe, come far vergognare una persona del suo corpo o umiliazione di qualcuno riguardo al suo corpo; oppure meglio, spostando il centro semantico dal destinatario dell’azione a chi la compie, potrà dire derisione del corpo (altrui), perché nella semantica del verbo deridere è presente l’idea che chi subisce quell’azione provi un disagio.
Tutto sommato, viene da formulare l’auspicio che l’esigenza di esprimere questo significato nella comunità che parla italiano resti marginale, e che quindi ci si possa accontentare di un uso occasionale del termine inglese, seguitando a marcarne l’estraneità alla nostra cultura.
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Edoardo Lombardi Vallauri
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA... *
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Le idee
La vergogna è morta
Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi
di Marco Belpoliti (l’Espresso, 15 dicembre 2017)
Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.
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Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta.
La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
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L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
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Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano.
Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.
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Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora.
Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA. Sul filo di una nota di Tullio De Mauro
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
La vergogna perduta
Come siamo diventati un popolo di esibizionisti
Un saggio esamina la mutazione del sentimento che per secoli ha funzionato come un meccanismo di coesione sociale
Oggi i modelli cui è obbligatorio adeguarsi non sono più etici ma estetici, imposti dalle aspettative di una platea virtuale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 16.06.2012)
Cosa è successo alla vergogna? Dove è finita, o come è cambiata, quell’emozione fondamentale collocata al centro dei rapporti umani e che anzi, in un certo senso, li precede, tracciando una linea che non può essere varcata senza segnare una sorta di regressione antropologica? Se essa non è sparita - visto che le sensazioni costitutive della nostra esperienza non si cancellano di colpo - certamente è mutata di segno.
Dal pudore, quella che un tempo chiamavamo discrezione, essa si è rovesciata in un bisogno di esibizione, cui si può dare anche la patente di autenticità, ma che in realtà è parte integrante di una società in cui, per esistere, pare necessario essere visti, individuati, notati, non solo nei successi, ma anche nelle fragilità e nelle pieghe più intime. Altrimenti non si capirebbe perché mai, quotidianamente, in uno scompartimento di treno, siamo costretti ad ascoltare le vicende private di chi urla al cellulare accanto a noi, come se fosse solo. O, peggio, perché coppie, celebri o anonime, di ogni età e condizione, immettano in internet le immagini dei loro rapporti sessuali. E non è diventato un irresistibile richiamo mediatico il pianto in diretta di persone messe di fronte ai propri errori, rimorsi, rimpianti reali o immaginarie, di cui, poco alla volta, cominciano a vantarsi come di testimonianze di verità e di coraggio?
Un libro di Gabriella Turnaturi, intitolato appunto Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli), prova, con gli strumenti raffinati della psicologia sociale, a fornire una risposta a tale domanda, riconducendo questa antinomia ad un orizzonte più ampio e profondo. Il suo presupposto di partenza è che, se tutte le emozioni sono costruzioni sociali, ciò vale tanto più per la vergogna. Senza lo specchio dello sguardo altrui, non si aprirebbe quello scarto rispetto a noi stessi da cui si genera la vergogna. Certo, il disagio per un nostro modo di essere, o di fare, non ha bisogno del giudizio esterno - può emergere autonomamente dentro di noi. Ma esso è sempre socialmente mediato, si struttura nel confronto con modelli e norme elaborate nella comunità cui apparteniamo.
Non per nulla, secondo il mito platonico del Protagora, a consentire la nascita della politica, non sono le tecniche assegnate inizialmente agli uomini, ma è la combinazione di dike e di aidos, di giustizia e vergogna, senza le quali non sarebbe possibile una vita in comune. È proprio l’allentamento della coesione sociale, infatti, a produrre il depotenziamento della vergogna. Già il passaggio da comunità ad alto tasso di integrazione agli attuali regimi individualistici ne ha determinato un primo decremento. Ma, come già osservava Marco Belpoliti nel bel libro edito da Guanda Senza vergogna, è il narcisismo autoreferenziale della società dello spettacolo ad aver prosciugato i pozzi della vergogna.
Non soltanto nelle nostre società non esistono più interdetti generali, ma gli atti di cui un tempo ci si vergognava, piuttosto che celati, sono addirittura esibiti. Come si spiegherebbe, altrimenti, che personaggi più o meno noti, ripresi in case o isole, si mostrino in atteggiamenti volutamente indecorosi, mentre altri si denudano, in senso metaforico e reale, sotto lo sguardo degli spettatori - come la pornostar che, durante la sua performance, fissa attraverso la telecamera gli occhi dell’osser- vatore? Quasi a dirgli che c’è sempre qualcun altro capace di sfregiare ancora di più il volto della vergogna, al punto di fare della sua scomparsa l’oggetto stesso del godimento.
Ciò non vuol dire che ogni tipo di vergogna sia esaurito. Ma essa sposta il suo oggetto dal piano morale a quello fisico, dalle azioni ai corpi - non appena questi si allontanino dai canoni prefissati della bellezza mediatica o si appannino le prestazioni cui sono di continuo sollecitati. A generare vergogna, insomma, non è più un dato modo di comportarsi, ma il mancato adeguamento alle aspettative di una virtuale platea televisiva.
Nel web - osserva l’autrice - c’è perfino un sito, beautifulpeople. com, cui ci si può iscrivere, tramite foto, soltanto se si è giudicati sufficientemente attraenti. In questo modo il cerchio si chiude - è la norma fissata dai circuiti mediatici a definire la soglia della vergogna, sotto la quale ogni comportamento è potenzialmente concesso, purché procuri godimento.
Naturalmente, come sempre accade nelle dinamiche sociali, e nelle derive del senso, rimane un resto insaturo, qualcosa sporge e fa attrito. Quando una nota signora barese arriva a dichiarare in televisione che se si vuole guadagnare ventimila euro al mese, ci si deve vendere la madre, dando voce a un punto di vista non isolato, allora qualcosa non torna e qualcun altro finisce per pagare, calamitando su di sé la vergogna esorcizzata dagli altri.
Nel romanzo La vergogna, Salman Rushdie racconta di Sufiya, una donna brutta e handicappata, che nell’India della modernizzazione selvaggia assume sulle proprie spalle tutta la vergogna fuggita dal mondo - com e un contenitore di carne in cui questa si riversa prima di traboccare rovinosamente nella società. Del resto la proiezione della vergogna su individui o gruppi sociali inermi ed innocenti ha costituito da sempre un dispositivo centrale del potere.
Quante volte esso si è costruito imprimendo lettere scarlatte o stelle gialle sulle vesti di chi destinava all’espulsione e poi alla soppressione? Suscitando in loro, prima che il terrore, quello strano rossore che annuncia la morte, come accadde ad uno studente italiano - ricordato da Robert Antelme in La specie umana - scelto a caso dalle SS per la decimazione. Cosa provochi quel rossore non è facile a dire - forse la vergogna per coloro che ne hanno smarrito anche le tracce. Forse qualcosa di più misterioso, che chiama in causa il rapporto del soggetto con l’immagine insostenibile della propria desoggettivazione - come un fotogramma in cui ci si vede guardati nella nudità impudica di un corpo senza vita.
Ma quel rossore può richiamare anche un altro lato, o un altro effetto, del dispositivo della vergogna. Oltre che a dike, alla giustizia, aidos, il pudore, può essere associato anche a nemesis, che Bernard Williams in Vergogna e necessità (il Mulino, 2007) traduce con “indignazione”.
È un’altra contraddizione cui assistiamo in questi anni di continuo sommovimento, e ribaltamento, del rapporto tra società e individui - quando all’apparente scomparsa della vergogna fa riscontro, quasi compensandola, un sentimento di crescente indignazione. È come se, oltre un certo limite, ci si cominciasse a vergognare della mancanza di vergogna - indignandosi contro coloro che l’hanno sequestrata, o rivolta contro esseri umani obbligati a vergognarsi della propria pelle, della propria fame, della propria indigenza. Nelle situazioni in cui la crisi sociale oltrepassa un certo limite, come quella che attualmente viviamo, gli orientamenti fanno presto a mutare e a capovolgersi nel loro opposto.
La vergogna non è un dato psicologico, una impressione di superficie, che possa mai esaurirsi. Essa rappresenta un elemento costitutivo del nostro essere uomini - ciò che, forse più di ogni altro carattere, ci differenzia dagli animali. In questo senso Marx ha potuto affermare che la vergogna non si limita a precedere la rivoluzione - è già in sé una rivoluzione. Se, come un lampo, tale vergogna-indignazione è avvampata lungo tutta l’Africa Mediterranea fino al Medio Oriente, sfidando la repressione di massa, tornerà, sta già tornando, a farsi sentire anche da noi.
A San Pietro un popolo disorientato
In piazza San Pietro lo scandalo che scuote il Vaticano preoccupa i fedeli
I fedeli traditi e disorientati “Alla deriva come l’Italia laica”
E in piazza San Pietro le sacre mura non riescono a contenere la “crisi parallela”
di Federico Geremicca (La Stampa, 28.05.2012)
"Ver-go-gna, ver-gogna, ver-go-gna». Le urla cattive si alzano dalla piazza assieme ai palloncini bianchi ai quali è legata la solita foto - foto di trent’anni fa - di Emanuela Orlandi. Il Papa è lassù, in alto, come al solito troppo in alto per poter sentire il coro che si leva, ora che è mezzogiorno. Protesta e gesticola Pietro, il fratello di Emanuela. E protestano e urlano i cittadini arrivati per l’ennesima volta fin qui a chiedere verità e giustizia. E’ vero, ci sono giornate che sarebbe meglio non cominciassero mai. Per Papa Ratzinger e la sua cittadella assediata, questa è una di quelle: e al di là delle mura, anzi, cancellerebbero con un amen l’intera settimana, se solo si potesse.
Ci sono giornate che sarebbe meglio non cominciassero mai. E fatti che si vorrebbe scolorissero in fretta. I fatti, solo gli ultimi fatti, sono questi: il presidente del potentissimo Ior rimosso dal suo incarico come un fannullone qualunque, sepolto da accuse infamanti, infedele e sfaccendato; il maggiordomo del Papa spiato, perquisito e arrestato per aver «passato ai media» documenti riservati e personali del Santo Padre: alla stregua di un cancelliere infedele che distribuisca intercettazioni e verbali a questo o a quel cronista.
Guerra tra bande Verrebbe voglia di non crederci: e la voglia riguarda tutti, atei e fedeli. E invece, purtroppo, in questa piazza San Pietro inondata di sole, non solo ci credono, ma ricordano quando la Chiesa si divideva - è vero - ma su ben altro: se sostenere e come Solidarnosc, oppure cosa fare con quei «ribelli» della teologia della liberazione. Oggi, in quelle stesse stanze drappeggiate di scuro, si trama per il controllo di una banca, tutto è ridotto a una guerra per bande bande sante, naturalmente - e si corrompono e utilizzano funzionari infedeli e (pare) senza scrupoli. Come in un film. E proprio come al di là delle mura benedette.
Che è pur sempre una spiegazione, oltre che una inevitabile constatazione. E che magari può aiutare a capire l’incredulità, lo smarrimento e la rabbia - la rabbia anche, certo di un altro popolo che si sente tradito, e che quasi non ci crede. E’ una suggestione che si insinua ascoltando una signora anziana, nonna Luigina, arrivata fin qui da un paesino vicino Como: «E’ che al Papa - dice sicura - lo vogliono fregare come hanno fregato su da noi l’Umberto. Guai a fidarsi dei figli, dei maggiordomi e ascolti me: anche delle mogli le dico... ». Un popolo disorientato, quello di Piazza San Pietro, come disorientato è il «popolo di Pontida», una fede tradita, due fedi tradite, e non capisci ancora né come nè perché.
Senso di vergogna La lotta - presunta - tra il cardinal Bertone e il Papa, come la lotta - accertata - tra il «cerchio magico» e il resto della Lega. E la delusione del popolo di San Pietro un senso di vergogna - che fa tornare in mente lo smarrimento rabbioso del fu popolo berlusconiano, di fronte all’inefficienza e ai bunga bunga, un Paese che tira la cinghia e gli altri che ballano, cantano e si travestono. Può sembrare un paradosso unire così il sacro e il profano: ma le mura sante del Vaticano sembrano non bastar più ad arginare la «crisi parallela» della più antica istituzione del mondo.
«La fede non basta» E’ quel che teme Marco, che ha i capelli scuri, è giusto al centro della piazza e veste una maglietta nera con la scritta «Viareggio Marineria». E’ preoccupato, e guarda con timore un angolo di folla che rumoreggia: «E’ terribile. Se diventiamo come gli altri è finita ed è terribile. La fede da sola non basta, perché non può camminare sulle gambe di gente cattiva e di uomini infedeli». Il Papa, intanto, è lassù e parla. Prima, dentro San Pietro, aveva celebrato la Pentecoste con parole amare: «Sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi... C’è un senso di diffidenza, di sospetto e di timore reciproco che ci fa diventare pericolosi gli uni per gli altri».
E’ quel senso di diffidenza - quella mancanza di orizzonti certi e di fiducia, insomma - che l’Italia laica conosce già. Ora, questa maledetta crisi di credibilità sembra investire - autoinvestire - anche la cittadella circondata da mura sante. Come se la Chiesa fosse un partito e il Papa il suo segretario, ombre tetre si allungano sugli uomini a lui più vicini: che siano leader anch’essi, che siano tecnici arrivati dal mondo dell’economia e delle banche, che siano amici e servitori del cerchio stretto che vigila sul Santo Padre. Non è che ci si debba soprendere chissà quanto, dopo la sconfinata bibliografia (e filmografia) sui misteri, gli scandali ed i segreti del Vaticano: però sia lecito e sia lecito soprattutto al popolo che riempie questa piazza - dirsi sconcertato e ferito dall’idea che corvi neri abbiano preso (ripreso) a volteggiare dentro le mura sante, come fossero un tribunale, una Procura o perfino la sede di un partito.
Il viaggio a Milano Lassù - intanto - il Papa parla, annuncia un viaggio a Milano, saluta i fedeli in più lingue, ringrazia e rende omaggio alle forze di polizia per il loro «compleanno» e perfino alla Federazione di tiro con l’arco. I palloncini con la foto di Emanuela Orlandi gli passano quasi davanti e salgono al cielo, segno di un passato che continua a inseguire un incerto presente. Il fratello Pietro aspettava dal Papa un segno, una parola. Ma il vento impiega un attimo a portar via la foto. E’ mezzogiorno e un quarto, la messa è finita: e chi riesce, allora, vada in pace..
Il Trattato della vergogna
La condanna di Strasburgo contro l’Italia, responsabile di violazione dei diritti umani per i respingimenti, pone un interrogativo: che ne è dell’accordo con la Libia, formalmente mai sospeso?
di Furio Colombo (il Fatto, 26.02.2012)
Signor Presidente, vorrei ricordare che il voto favorevole su questo Trattato sarà una pietra tombale sui diritti di umani di quei dannati della terra che sono in realtà la ragione del pagamento di centinaia di milioni di dollari alla Libia di Gheddafi. Il fatto è prorpio questo: si dice di voler combattere i mercanti di schiavi e si dà la caccia agli schiavi.
Signor Presidente, per fortuna abbiamo la testimonianza costante dei deputati radicali eletti nel Pd, per fortuna ci sono persone come l’On. Sarubbi che dicono queste cose, altrimenti da questa parte dell’aula ci sarebbe un silenzio che non riesco a spiegarmi. Signor Presidente, è già stato notato dai colleghi radicali il curioso silenzio dei media. Per le televisioni e i giornali questo dibattito non sta avvenendo. Se i media ne parlassero, la vicenda, così come si sta svolgendo, sarebbe clamorosa: dalla parte della Libia, vi sono il Popolo della Libertà e il Partito Democratico; dall’altra, contro il governo libico e contro il Trattato di amicizia con la Libia, i sei deputati radicali, due deputati del Pd, l’Italia dei Valori, l’Unione di Centro (su alcune posizioni) e alcuni deputati che usciranno dall’aula al momento del voto.
Signor Presidente, vorrei anticiparle che, in questo mondo globale, entro alcuni mesi cominceremo a sapere che cosa accade davvero nelle prigioni libiche e nella zona di mare sottoposta a pattugliamento misto, dunque a respingimento. Quando sapremo queste cose suggerisco ai colleghi del ‘corteo Gheddafi’ di preparare qualche risposta per gli italiani e per il mondo. Signor Presidente, questo Trattato è fuori dalla Costituzione perchè nega i diritti delle persone, è fuori dalla Convenzione di Ginevra perchè abbandona i profughi e non consente il diritto di asilo; è fuori dalla Carta dei Diritti dell’Uomo perché espone a persecuzione i migranti. È fuori dall’Europa perchè nessun Paese vuole avere un ruolo accanto all’Italia in questa storia terribile. Oggi questo Parlamento dovrà votare un trattato-ricatto con un ricattatore che non esisterà a rilanciare il gioco perché sa che i due fondamenti del Trattato sono il respingimento in mare o la cattura dei migranti e l’approvvigionamento del petrolio. Il senso di questo Trattato è che noi paghiamo i privilegi che ci garantisce con armi, somme enormi e vite umane”.
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QUESTI CHE avete letto qui sopra sono frammenti del continuo, affannato intervenire alla Camera dei Deputati il giorno 20 gennaio 2009, quando ho tentato di oppormi all’approvazione quasi all’unanimità il Trattato di amicizia con la grande Jamahirrya (la Libia di Gheddafi). Quel Trattato adesso si aggiunge agli errori gravi e ai momenti oscuri della nostra Repubblica. Perché ancora oggi, con la selvaggia uccisione di Gheddafi, non sappiamo e non sapremo mai tutte le ragioni, e il vero senso di un ignobile atto diplomatico stranamente accettato in modo così silenzioso e concorde da quasi tutto il Parlamento.
Un evento di giovedì scorso mi riporta al ricordo di quel giorno, di quelle ore di estremo tentativo di sbarrare la strada al Trattato, sospetto di interessi privati, oltre che di clamorosa violazione di norme internazionali e di patti italiani pre-esistenti, oltre che di creazione di una folle alleanza militare con basi italiane a disposizione della Libia, oltre che alla istituzione, approvata e votata, del delitto di “respingimento in mare” per chi tentasse di trovare rifugio in Italia fuggendo guerre e persecuzioni.
Sto parlando della condanna definitiva della Corte di Strasburgo contro l’Italia per violazione dei diritti umani. Tale sentenza ripete, una per una, le ragioni e le tragiche previsioni degli oppositori di quella legge priva di senso umano e di senso giuridico. Nella Cancelleria della Corte il caso è rubricato come “Hirsi Jamaa contro l’Italia”, ed è fondato sul ricorso di 11 profughi somali e 10 eritrei, assistiti dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (cito da La Repubblica, 24 febbraio) che nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2009 furono intercettati a sud di Lampedusa e consegnati dalle motonavi italiane alle autorità libiche.
Un comportamento che, secondo il verdetto unanime dei giudici di Strasburgo, ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea sui Diritti dell’Uomo. Infatti consegnando i profughi alla Libia, l’Italia li ha esposti a due rischi estremi: la morte nelle prigioni di un Paese che non ha firmato alcuna convenzione o trattato sui Diritti umani e ha goduto della triste celebrità di non rispettarli mai. E il rischio di morte, se rimpatriati, per i profughi consegnati ai libici. Inoltre l’Italia è stata riconosciuta colpevole del delitto di espulsione collettiva, per non aver concesso ai migranti la possibilità di richiedere il diritto d’asilo.
L’ITALIA è stata anche condannata per avere dichiarato che “La Libia era un posto sicuro e che Tripoli rispettava i propri impegni internazionali sull’accesso all’asilo”. Ora è bene chiarire: questo ricordare insieme l’opposizione accanita di pochi in un Parlamento stranamente succube a un Trattato disumano, ma anche assurdo, e la sentenza della Corte di Strasburgo non è una celebrazione perché ha troppe impronte di morte. Ma l’intenzione è di tenere vivo un altro allarme.
Misteriosamente il Trattato condannato da Strasburgo non è ufficialmente e formalmente cancellato. Per quanto ne sappiamo, i nuovi libici vorrebbero dimenticarlo. L’Italia, anche con il nuovo governo, sembra amare una finzione di sopravvivenza, benché i mondi di Gheddafi e di Berlusconi siano crollati per sempre. Il problema rimane. Qualcuno lo chieda, qualcuno lo dica: c’è ancora quel Trattato che ci condanna come un Paese barbaro e disumano secondo la squallida visione di Maroni, di Bossi, di Calderoli, di Borghezio, di Castelli e di ciò che resta della Lega Nord?
Offese dello Spiegel all’Italia: lo sdegno del Quirinale
(Il Messaggero del 28 gen 2012)
di Rosario Amico Roxas
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C’è poco da sdegnarsi; il quotidiano tedesco ha assimilato il comportamento di Schettino a quello dell’ex presidente del consiglio che pretendeva rappresentare tutti gli italiani e che una striminzita parte di italiani ha scelto come loro immagine e come loro portabandiera.
Quando "fece per viltade il gran rifiuto" fu l’immagine dell’Italia intera ad essere mortificata;proprio questa Italia una volta terra di Santi, Poeti e Navigatori, diventata terra di corrotti, corruttori, corruttibili, turbatori d’asta, truffatori, casta privilegiata, mafiosi, camorristi ndranghetari e coronisti e politici per interesse personale.
Lo sdegno del Quirinale dovrebbe rivolgersi innanzitutto contro questa gente e contro il governo che li ha mantenuti, protetti, salvati con condoni, sanatorie e scudi fiscali, cercando di tacitare la parete lesa della nazione con la mortificante "social card" che servì solo a dispensare fior di milioni agli stampatori della carta, ai gestori, inghiottendo quanto non utilizzato.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà e accettare le denunce che ci piovono addosso (la risata della Merkel e di Sarkozy al solo pronunciare il nome Berlusconi, non ci è bastata ?) come brutale esperienza da non ripetere mai più.
Lo sdegno del Quirinale diventa così un "atto dovuto", ma non convince nessuno: sappiamo benissimo di meritarlo, grazie a chi ci ha ridotto ad essere i Pasquini d’Europa.
Rosario Amico Roxas
Lacrime e mercati
di Furio Colombo (il Fatto, 07 12.2011)
Fin dall’inizio avremmo dovuto notare che il governo Monti ha due missioni. Una è liberarci dalla vergogna di Berlusconi e dal ridicolo nel mondo, oltre che della totale incapacità di governare di Brunetta, Sacconi, Gelmini, Romani e Romano (con relativi carichi pendenti). La seconda missione, che tiene in ansia (a momenti, si direbbe, in ammirazione) tutta l’Europa, è di fronteggiare la gravissima crisi economica evitando la scomparsa del nostro Paese e una ferita a morte per l’Unione. La prima missione è riuscita, con plauso e successo che ha coinvolto i più prestigiosi quotidiani del mondo (vedi l’intera pagina del New York Times dedicata a Napolitano che ha saputo rendere possibile questa missione).
Mentre scrivo è impossibile non notare che Monti è arrivato in tempo per impedire che il rappresentante del clan dei Casalesi, certo Nicola Cosentino (fonte: la Procura di Napoli) sedesse ancora nel Consiglio dei ministri italiano, nonostante l’evidente conflitto di interessi. La seconda missione è quella del grande esperto che deve riparare il disastro di un lungo e incosciente vuoto di governo. Da tecnico, Mario Monti sembra essersi ispirato a tre realistici criteri: tagliare si deve; per essere alto, un taglio deve essere esteso; l’equità è un principio da rivendicare, ma senza compromettere la quantità necessaria e senza misurarsi con il compito impossibile di affrontare la ricchezza.
Considerate che un grande limite sono i tempi stretti. I poveri (i pensionati da 1000 euro privati della indicizzazione) si trovano subito, i ricchi no. Si è tornati alla precauzione di arrestare tutti gli anarchici quando il re arrivava in città. Infine: ogni audacia di tipo “sociale” irrita i mercati. Come è noto, i mercati turbolenti creano perdite, dunque impoveriscono i poveri. Ne consegue che agire con cautela sul versante della ricchezza, in modo da non scatenare nuove speculazioni (a quanto pare vi è un rapporto di causa ed effetto), vuol dire salvare un po’ i meno abbienti. In questo senso possiamo parlare di equità.
Equità pagata dai poveri. Quella pagata dai ricchi non esiste in natura. E forse a questo pensava Elsa Fornero, persona seria e sensibile, ma anche rigorosamente competente, quando le si è spezzata la voce, in quel momento della verità da non dimenticare.
Le lacrime e le parole
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 06.12.2011)
Tendiamo a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l’organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo. Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c’è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo. Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c’è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.
È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l’atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s’incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo.
Nella quarta sura del Corano è un peccato, «alterare le parole dai loro luoghi». Credo che l ’incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro - un segno dei tempi, quasi - di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d’un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover - per salvare la pòlis - sgozzare il capro espiatorio, l’innocente.
Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio - nazionale, europeo - che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s’è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: «Se dovete fare una scelta - mi permetto di rivolgermi a tutti - ascoltate! non applaudite!».
L’applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c’è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch’esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose.
La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l’idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto. Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministroGiarda si è presentato domenica come medico delle parole: «Son qui solo per correggere errori».
Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l’umiltà di dire: «Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore». Monti ha fatto capire che questa, «anche se siamo tecnici», è però politica piena: «L’esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista». Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.
Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l’economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi «stringono la cinghia da trent ’anni». Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l’equità, l’abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse - l’emozione dei potenti resta misteriosa - Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all’inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.
Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all’evasione fiscale iniziata dall’ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.
Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salvaEuropa. Non è un’omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi. Per dire che non si fa prima «ordine in casa» e poi l’Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
L’irruzione del futuro
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 15 giugno 2011)
Forse, dopo la perdita di Milano e Napoli, la sconfitta al referendum è la più avvilente nella storia di Berlusconi. Si era messo in testa che ignorandolo l’avrebbe ucciso, l’aveva definito «inutile», e il giorno del voto se n’era andato pure al mare, esemplarmente. Niente da fare: il quorum raggiunto e i quattro sì che trionfano non sono solo un colpo inferto alla guida del governo.
È una filosofia politica a franare, come la terra che d’improvviso si stacca dalla montagna e scivola. È un castello di parole, di chimere coltivate con perizia per anni. «Meno male che Silvio c’è», cantavano gli spot che il premier proiettava, squisita primizia, nei festini. Gli italiani non ci credono più, il mito sbrocca: sembra l’epilogo atroce dell’Invenzione di Morel, la realtà-non realtà di Bioy Casares. Per il berlusconismo, è qualcosa come un disastro climatico.
Tante cose precipitano, nel Paese che credeva di conoscere e che invece era un suo gioco di ombre: l’idea del popolo sovrano che unge la corona, e ungendola la sottrae alla legge. L’idea che il cittadino sia solo un consumatore, che ogni tanto sceglie i governi e poi per anni se ne sta muto davanti alla scatola tonta della tv. L’idea che non esistano beni pubblici ma solo privati: il calore dell’aria, l’acqua da bere, la legge uguale per tutti, la politica stessa. L’idea, più fondamentale ancora, che perfino il tempo appartenga al capo, e che un intero Paese sia schiavo del presente senza pensare - seriamente, drammaticamente - al futuro.
Più che idee, erano assiomi: verità astratte, non messe alla prova. Non avendo ottenuto prove, il popolo è uscito dai dogmi. Lo ha fatto da solo, senza molto leggere i giornali, gettando le proprie rabbie in rete. È una lezione per i politici, i partiti, i giornali, la tv. La fiamma del voto riduce una classe dirigente a mucchietto di cenere.
Pochi hanno visto quello che accadeva: il futuro che d’un tratto irrompe, la stoffa di cui è fatto il tempo lungo che gli italiani hanno cominciato a valutare. Erano abituati, gli elettori, a non votare più ai referendum. Questa volta sono accorsi in massa: a tal punto si sentono inascoltati, mal rappresentati, mal filmati. Nessuna canzoncina incantatrice li ha immobilizzati al punto di spegnerli.
Berlusconi lo presentiva forse, dopo Milano e Napoli, ma come un automa è caduto nella trappola in cui cadde Craxi nel 1991 - andare al mare mentre si vota è un rozzo remake - e con le sue mani ha certificato la propria insignificanza. Impreparato, è stato sordo all’immenso interrogativo che gli elettori di domenica gli rivolgevano: se la sovranità del popolo è così cruciale come proclama da anni, se addirittura prevale sulla legge, la Costituzione, come mai il Cavaliere ha mostrato di temere tanto il referendum? Come spiegare la dismisura della contraddizione, che oggi lo punisce?
Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del leader. Chi ha visto Videocracy ricorderà la radice oscena della seduzione, e le parole di Fabrizio Corona: «Io sono Robin Hood. Solo che tolgo ai ricchi, e dò a me stesso».
Nel popolo azzurro la libertà è regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un contropotere.
Di volta in volta sono «antropologicamente diversi» i magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era un Golem, il popolo - idolo d’argilla che il demiurgo esibiva come proprio manufatto - e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col nulla. E quando ti connette con qualcuno - Santoro, Fazio, Saviano - ecco che questo qualcuno vien chiamato «micidiale» e fatto fuori.
Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell’amore, perché nella crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede miraggi ottimistima verità. Accampa diritti, ma non si limita a questo.
Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. Celentano lunedì sera ha detto che siamo disposti perfino ad avere un po’ più freddo, in attesa di energie alternative al nucleare. Per questo si sfalda il dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è distruttiva per l’insieme della comunità. Era ammaliante, ma lo si è visto: perché simile libertà cresca, è indispensabile che il popolo sia tenuto ai margini della res publica.
Specialmente nei referendum, dove si vota non per i partiti ma per le politiche che essi faranno, il popolo prende in mano i tempi lunghi cui il governo non pensa, e gli rivolge la domanda cruciale: è al servizio del futuro, un presidente del Consiglio che ha paura dell’informazione indipendente, che ha paura di dover rispondere in tribunale, che elude la crisi iniziata nel 2007, che non medita la catastrofe di Fukushima e considera il no al nucleare un’effimera emozione? Pensa al domani o piuttosto a se stesso, chi sprezza la legalità pur di favorire piccole oligarchie, il cui interesse per le generazioni a venire è nullo? Ai referendum come nelle amministrative il tempo è tornato a essere lungo. Non a caso tanti dicono: si ricomincia a respirare.
La crisi ha insegnato anche questo: non è vero che il privato sia meglio del pubblico, che il mercato coi suoi spiriti animali s’aggiusti da sé, che la politica privatizzata sia la via. I privati non sono in grado di costruire strade, ferrovie, energia pulita per i nipoti. Vogliono profitti subito e a basso costo, senza badare alla qualità e alla durata. Berlusconi si presentò come il Nuovo ed era invece custode di un disordine naufragato nel 2007. Non era Roosevelt o Eisenhower, non ha edificato infrastrutture per le generazioni che verranno.
Ogni persona, dice Deleuze, è un «piccolo pacchetto di potere», e l’etica la costruisce su tale potere. Berlusconi pensava - forse pensa ancora - che questo potere fosse suo: che non fosse così diffuso in pacchetti. Pensava che il cittadino non avesse bisogno di verità; che il coraggio te lo dai nascondendola. Pensava (pensa) che il coraggio consista nel ridurre le tasse, e chi se ne importa se l’Italia precipita come la Grecia o se pagheranno i nipoti.
Pensava che, bocciato il legittimo impedimento, puoi farti una prescrizione breve, come se il popolo non avesse proscritto ogni legge ad personam. Il Cavaliere ha eredi nel Pdl. Ma all’eredità come bene consegnato al futuro non ha mai badato, convinto che la crisi sia come la morte (e lui come la vita) per Epicuro: «Finché Silvio c’è, la crisi non esiste. Quando la crisi arriva, Silvio non c’è». Tanti ne sono convinti, e lo incitano a «tornare allo spirito del ’94»: dunque a mentire sulle tasse, di nuovo.
Chi lo incita sa quello che dice? Ha un’idea di quel che è successo fra il 1994 e il 2011? Rifare il ’94 non è da servi liberi, ma da gente che ignora il mondo e ne inventa di falsi. Se fossero liberi e coraggiosi non sarebbero stupidi al punto di consigliare follie. Se insistono, vuol dire che sono servi soltanto. La loro retorica è così smisurata che neppure capiscono la nemesi, che s’è abbattuta sul loro padrone.
La Mummia televisiva
di Norma Rangeri, (il manifesto, 21.05.2011)
Non più la libreria del leader giovane che seduce gli italiani con il sogno ceronato. Al suo posto un politico lento nel parlare, lo sguardo fisso, i capelli dipinti e il volto colorato come una mummia della nomenklatura sovietica. Dopo una settimana di silenzio, colpito dal flop delle preferenze nel forziere del suo elettorato, il premier si è presentato sulle reti televisive e radiofoniche (controllate o di proprietà) per un appello al voto di quattro minuti.
Il conflitto di interessi entra nelle case degli italiani seguendo gli orari delle edizioni di sei telegiornali. Pesante e asfissiante nella normalità dei palinsesti, si ripresenta con Berlusconi che parla come capo del governo e come candidato al comune di Milano, con il simbolo del Pdl formato gigante dietro le spalle e la didascalia che lo indica come presidente del consiglio. Una manifestazione di arroganza nel mezzo di una corsa elettorale che sta perdendo, una prova di forza di un leader dimezzato nel consenso e nella presa sulla maggioranza di governo.
Il presidente-candidato si appella ai moderati con l’estremismo del linguaggio leghista, visibile ostaggio degli umori dell’alleato, appeso agli interessi delle camicie verdi che hanno impostato la musica del secondo tempo della campagna elettorale coprendo i muri di Milano con lo slogan «la zingaropoli di Pisapia». Al quale lo spot di Berlusconi aggiunge una nota sul tema (l«Pisapia vuole baracca libera») nella finta intervista che inonda il piccolo schermo, accompagnata dalle faccette patetiche dei caporali dei telegiornali travestiti da giornalisti.
E’ un Berlusconi imbalsamato nella parodia del berlusconismo («con noi meno tasse per tutti, toglieremo anche l’ecopass a Milano») quello che chiama i milanesi e i napoletani al voto contro la sinistra. Tenta la rincorsa del centrodestra verso i ballottaggi evocando i fantasmi della sua realtà parallela, sventolando l’immagine di Milano trasformata nella «Stalingrado d’Italia», prigioniero di un mondo che non c’è più, impantanato in un’ideologia sempre meno capace di egemonia. Conosce la manipolazione demagogica e la proclamazione dell’emergenza, il vecchio armamentario che ricicla per rivolgersi a un elettorato che sarà moderato ma ha dimostrato di non essere così sprovveduto.
Berlusconi non ha scelto il comizio di piazza o la platea di qualche palazzetto, troppo pericoloso affrontare lo scontento delle città che gli hanno voltato le spalle. Meglio mettere la faccia nel territorio protetto del feudo mediatico, dove le telecamere si muovono sotto il suo controllo, e i telespettatori non hanno diritto di replica.
De Mauro: «Tagliare nell’istruzione compromette il futuro»
Il Paese cresce se studiano tutti
di Tullio De Mauro (Corriere della Sera, 17.05.2011)
Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio» , al «fallimento» . E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda. Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo» a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi.
E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola?
Una prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010.
La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro» .
Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa.
L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95%della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione.
Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38%della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33%è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70%di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura.
Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso.
La logica del padrone
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 11.05.2011)
Le mosse di Berlusconi sono da tempo prevedibili, perché appartengono ad una logica che egli ha trasferito nel mondo della politica senza mai farsi contagiare dal "senso delle istituzioni". Non può sorprendere, quindi, l’ultimo suo proclama: «Dobbiamo cambiare la composizione della Corte costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del Presidente del Consiglio». Proprio le ultime parole sono rivelatrici. Scompare il "Governo della Repubblica", di cui parla l’articolo 92 della Costituzione. Al suo posto viene insediato il "Governo del Presidente del Consiglio", una formula che esprime la logica proprietaria dalla quale Berlusconi non ha mai voluto separarsi. L’imprenditore è fedele alle sue origini, e nel suo modo d’agire si ritrova la vecchia e di nuovo vitale formula secondo la quale "la democrazia si ferma alle porte dell’impresa". Governare è esercizio di potere assoluto. Chi si presenta come un intralcio lungo questo cammino deve essere eliminato.
Prevedibile o no, l’ultima accelerazione inquieta, assomiglia ad un assalto finale. Gli ostacoli li conosciamo. Magistratura a parte, nell’ultima fase della storia della Repubblica le garanzie si sono concentrate in due istituzioni, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non dipende da una impropria volontà di potenza. Discende da un progressivo indebolirsi del sistema dei controlli, dei pesi e contrappesi che caratterizzano l’architettura costituzionale e dei quali non ci si è preoccupati quando è cominciata la stagione delle "spallate", delle manipolazioni delle leggi elettorali, del bipolarismo ad ogni costo, della "governabilità" senza aggettivi. Troppi apprendisti stregoni hanno lastricato la strada che oggi Berlusconi si ritiene legittimato a percorrere senza scrupoli. Così, nel deserto istituzionale, le funzioni di garanzia, ineliminabili in democrazia, si sono rifugiate nelle due istituzioni che il Presidente del Consiglio ha ieri pubblicamente rifiutato.
Mai, però, il tiro era stato alzato tanto in alto, per colpire deliberatamente il Presidente della Repubblica. Malumori, reazioni violente lasciate trapelare, senza tuttavia trasformare in conflitto aperto una relazione difficile. Cautele ormai abbandonate. Così com’è, il Presidente della Repubblica non è più accettabile. Questo, a chiare lettere, ha detto ieri Berlusconi.
Le ragioni di questa mossa sono nitide. Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la fiducia crescente riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano. Inammissibile il quotidiano rivelare le lacerazioni del tessuto istituzionale per chi vuole manipolarle impunemente. Oltraggiosa la pretesa di custodire la legalità costituzionale per chi vuole trasformare l’investitura popolare in un "lodo" che lo pone al disopra delle leggi.
Berlusconi sa benissimo che una riforma costituzionale che azzoppi in un colpo solo Presidente della Repubblica e Corte costituzionale esige tempi lunghi. Ma non gli importa. Nel momento in cui dice esplicitamente che i poteri del Presidente della Repubblica devono essere ridotti, lascia intendere che sono male utilizzati. Invita così ad una pubblica "sfiducia" a Giorgio Napolitano, facendo divenire asse della sua politica il copione che già l’informazione di rito berlusconiano aveva cominciato a scrivere. Vuole demolire l’immagine del Presidente super partes, mostrarlo non come un garante, ma come l’espressione di una parte.
Napolitano parla anche perché troppi sono silenziosi, o ridotti al silenzio. Ma la voce delle istituzioni non può spegnersi. Da esperto della comunicazione, Berlusconi è inquieto perché sa che quella non è una voce che parla nel deserto, ma trova ascolto perché dice verità e così concentra sulla Presidenza della Repubblica l’attenzione dei cittadini consapevoli della gravità di una situazione che Berlusconi e i suoi gabellano come il migliore dei mondi.
Una relazione non populista con i cittadini insidia lo stesso modo d’essere di Berlusconi. Ma questo manifestarsi d’una opinione critica diffusa appare monco, perché rivela gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì d’essere parte di una difficile discussione pubblica, di testimoniare almeno quelle "ingenue idealità etiche" alle quali, contro il realismo politico, si richiamava nel 1929 Benedetto Croce votando contro il Concordato.
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio (l’Unità, 10 marzo 2011)
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro - opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci - vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare.
Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse - se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative - a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
Intervista a Tullio De Mauro
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 21.02.2011)
Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua.
È un’eccezione tutta italiana? E da cosa nasce?
«La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»?
«Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico?
«Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%».
E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista.
I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista.
-All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta.
La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l’italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”?
O è rimasto lingua d’élite?
«Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla».
Dal 1954 in poi, l’italiano ce l’ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l’Inno di Mameli?
«Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26 gennaio 2011)
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d’esercitare l ’autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza.
Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l’autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L’autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall’elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l’obbligatorietà dell’azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l’autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s’attendevano, ma l’appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10). Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s’innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l’ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l’Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l’istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d’ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell’uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando».
Berlusconi è rimasto al di qua della linea d’ombra. La prova che dall’adolescenza ci immette nella maturità, non l’ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d’ombra è restata l’idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L’Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l’ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l’ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d’ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L’ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l’osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell’ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch’essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c’è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l ’opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C’è bisogno di porti, non fittizi. C’è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l’invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all’indegno di entrarvi, senz’aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C’è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell’88, nello stesso anno in cui denunciò l’ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.
Un nome da rossore
di Piero Stefani *
In una sera di maggio del 1915 un poeta vate, rivolgendosi alla folla accalcata in una piazza di Roma, così si esprimeva: «Su la nostra dignità umana, sulla dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia di un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore ...». Con queste, e altre ancor più veementi, parole di [un] «grande» della letteratura italiana, Gabriele d’Annunzio, portava a compimento un esercizio di retorica che fingeva di premere sul governo al fine di prendere una decisione in effetti già assunta: l’ingresso in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa. Non fu una scelta di cui gloriarsi.
In tutt’altro contesto, oggi si impongono con implacabile attualità, a patto di trascriverle al presente, alcune di quelle parole: «chiamarsi italiano è un nome da rossore». La vera ragione non è quella, pur reale, dell’immagine che si diffonde nel mondo legata agli inqualificabili comportamenti personali del presidente del consiglio. Lì, certo, ci sono ad abundantiam motivi di coprire le proprie guance di rubyno e tuttavia lo snodo fondamentale si trova altrove. Il vero motivo di vergogna che tutti ci accomuna è che, all’incirca da vent’anni, in Italia non si può fare a meno di riferirsi, in un modo o in un altro, a Berlusconi. Vi è un dato oggettivo: da quasi quattro lustri il Cavaliere è divenuto il perno su cui ruota l’intera vita nazionale.
Non siamo in una classica dittatura, le gigantografie di Berlusconi non appaiono agli angoli delle strade o sui palazzi istituzionali, nelle scuole o nei tribunali. Si tratterrebbe di un procedimento arcaico. Il fatto cruciale è che tutto il linguaggio della comunicazione, in modo diretto o indiretto, non riesce a ignorarlo o come persona o come stile di comportamento avversato e/o introiettato. Berlusconi si è impossessato dell’anima del paese. Questo è il vero motivo di incancellabile rossore. Essere all’opposizione politica è un rantolo di dignità, ma non sposta il baricentro della questione. Non ci si può dimenticare di lui. È lui che comanda il gioco. Prima o poi perderà; ma il torneo sarà sempre intitolato a lui anche dopo di lui. Lo sarà fino a quando non ci sarà una vera svolta. Giunti a questo punto, la rigenerazione dovrà, per forza, passare attraverso una fase traumatica, proprio come avvenne per l’altro ventennio: prospettiva realistica, ma non augurabile, i prezzi da pagare saranno infatti enormi.
Tutto è così. Quando ci si imbatte in forze positive impegnate nel sociale, nella concreta applicazione dei diritti, nell’elaborazione culturale seria, allora sorge, inevitabile, un interrogativo: come è possibile che un paese che ha queste potenzialità abbia una vita e un’immagine pubbliche così degradate? A parti rovesciate, la stessa conclusione va tratta quando ci si imbatte in comportamenti e stili di vita volgari, egoistici, narcisistici e dissipatori pervarsivamente presenti tra noi. In tal caso si è obbligati a constatare quanta terribile omogeneità ci sia tra il «paese reale» e quello legale.
Se si contemplano le opere d’arte del passato o si è avvinti dalla grande musica e letteratura dell’Italia di un tempo, ci si chiede come è possibile che una civiltà capace di aver prodotto quelle realtà si sia ridotta così. Se si è di fronte alla liturgia pubblica dei picchetti di onore, delle toghe, delle deposizioni di corone di alloro, delle solenni sedute inaugurali, delle celebrazioni e degli anniversari sorge, inevitabile, un senso di smarrimento constatando la vuotezza di quella ritualità di fronte al vero volto dell’Italia. Su questo declivio si potrebbe continuare, fino a giungere alla minuscola esemplificazione costituita da queste righe, anch’esse prigioniere di quello spettro che si aggira tra noi e dentro di noi.
Il modello «tirannico» (in senso classico) di chi governa la cosa pubblica in base al proprio interesse privato si è capovolto fino a far sì che anche il privato di ciascuno sia impregnato da un diuturno confronto con quello stile pubblico. Quando ci si alza la mattina, si è coperti da un rossore contraddistinto da tratti depressivi: non ce ne liberiamo, siamo ancora qui, non riusciamo a coagulare forze per uscirne.Nell’orizzonte italico vi è un altro rosso, quello cardinalizio. Anch’esso è ormai segno di vergogna. Quando il primo ventennio aveva imboccato la strada dello sfacelo, ci fu qualche sussulto; è il caso degli ultimi mesi di pontificato di Pio XI. Tuttavia neppure allora ci fu una seria messa in discussione dello scoperto appoggio che si era dato in precedenza. Né avvenne alcuna franca ammissione di aver sbagliato. La statura culturale di papa Ratti è imparagonabile a quella di un Bertone, di un Ruini o dell’evanescente Bagnasco. Da lui ci si poteva, forse, aspettare qualcosa, dagli odierni cardinali non è dato attendere nulla e i loro tardivi distinguo non fanno che rendere più intensa la porpora presente sui loro abiti e sulle nostre guance. Semplicemente essi non sono all’altezza di comprendere il dramma del nostro paese in quanto ne sono parzialmente corresponsabili.
* http://pierostefani.myblog.it/, 22 gennaio 2011
ORA BASTA!!!
di Maria Ricciardi (presidente Liberacittadinanza) *
Circola informalmente la notizia che il partito di Berlusconi cambi di nuovo nome. E’ ovvio che questo semplice atto non lo farà diventare migliore o più credibile. Per quel che ci riguarda può chiamarlo come gli pare, ma non certo "ITALIA"!
Berlusconi ha insultato e umiliato davanti al mondo intero e in ogni modo possibile l’onorabilità del nostro Paese e delle sue istituzioni , ma l’appropriazione indebita del nome della nostra nazione, "Italia", è per molti Italiani, e noi siamo fra questi, un’oltraggiosa offesa, che non gli permetteremo.
Non gli lasceremo usare come fosse "cosa sua" il nome di un Paese che ha dimostrato di non saper rispettare.
ORA BASTA!!!
FIRMIAMO... FIRMIAMO... FIRMIAMO
http://www.liberacittadinanza.it/petizioni/no-al-partito-nazione
Maria Ricciardi (presidente Liberacittadinanza)
www.liberacittadinanza.it
Dov’è finita la vergogna
Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
di Guido Crainz (la Repubblica, 20.01.2011)
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci - che implica codici di riferimento e vincoli collettivi - stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l’indulgenza all’esame o al capo ufficio per fare carriera". è lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati.
Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d’autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l’urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell’indecenza".
È inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere - con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura - sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell’antipolitica: senza l’agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi.
Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch’essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C’è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripetè in realtà vent’anni fa l’errore che Massimo D’Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un’Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (...) pensano a poter riformare l’Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita).
Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all’interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l’idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all’opposizione. Indubbiamente l’assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana.
Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l’attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. è anche la storia dell’affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" - per dirla con Carlo Donolo - nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e - più ancora - delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, ed è impietoso il raffronto con l’Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l’entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell’Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all’attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite.
Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l’Italia "l’esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.
La riscoperta dell’indignazione
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 22 gennaio 2011)
Trentadue pagine in cui articola l’imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all’emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l’immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia.
l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l’economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell’acquiescenza di larga parte dell’opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l’illusione della crescita indefinita e dagli Usa all’Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l’Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall’affaire Ruby.
L’affiorare di sussulti d’indignazione popolare che rompono l’indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L’indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un’etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell’indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L’indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall’ingiustizia, come l’odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l’indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!’?". Nell’indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter.
L’invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall’impatto distruttivo delle forze impersonali dell’economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell’indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall’oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all’intero corposociale, nel lungo periodo. L’indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l’agire politico.
Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell’indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d’ingiustizia è il contrassegno universale dell’umanità: l’indignazione, spesso, è selettiva. Nel ’68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.
Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L’uomo indignato odia l’ingiustizia e l’argine che lo trattiene dal volgere quell’odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l’unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall’uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.
Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un’"utopia dell’invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l’indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un’"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all’ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.
Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L’indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo.
C’è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall’etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l’economia dell’empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
Una sponda dal Vaticano per il Cavaliere
di Francesco Verderami (Corriere della Sera, 04.12.2010)
Le vie del governo per Berlusconi sono infinite. Passano persino dal Kazakistan, da dove il Cavaliere torna con una benedizione che gli tornerà utile nella sfida con Fini e con Casini, semmai dovesse fronteggiare il terzo polo alle elezioni. Più della dichiarazione di Hillary Clinton, a confortare il premier è stata la confidenza di Tarcisio Bertone: il Cavaliere non avrebbe potuto ricevere miglior regalo dal segretario di Stato vaticano, sebbene toccasse a lui farlo, visto che il 2 dicembre il cardinale compiva gli anni.
«Auguri eminenza», ha esordito Berlusconi. E un incontro del tutto casuale, avvenuto in una pausa dei lavori all’assemblea dell’Osce, si è trasformato in un colloquio a cui il capo del governo annette «grande valore». Così si è espresso con alcuni ministri, ai quali ha raccontato il passaggio a suo avviso più interessante della conversazione: «Quando gli ho chiesto cosa ne pensasse del terzo polo, il cardinale mi ha risposto che non celebra matrimoni fra uomini, soprattutto se si tratta di Casini e di Fini».
Per il Cavaliere quella battuta è stata la conferma che Oltretevere l’intesa dell’Udc con il Fli non solo è sgradita, ma addirittura osteggiata. È vista come un’inconciliabile unione tra una forza di chiara matrice cattolica con un’altra di evidente impronta laica, guidata da un leader - il presidente della Camera - che negli ultimi anni ha sostenuto le più importanti battaglie politiche e referendarie sui temi etici, schierandosi su posizioni opposte a quelle della Chiesa.
Se così fosse, Casini - che già si candida a essere il capo della nuova coalizione - perderebbe l’appoggio più influente, anche se il leader centrista ritiene il mondo cattolico molto variegato, «spazia da Comunione e Liberazione alla comunità di Sant’Egidio». Ma il problema c’è, ed è scontato che il terzo polo sia stato uno dei temi affrontati mercoledì scorso da Casini con il presidente della Cei. L’appuntamento con il cardinal Bagnasco ha fatto seguito ad altri incontri con autorevoli uomini di fede, che auspicavano (e tuttora auspicano) una ricomposizione dell’intera area moderata.
Dal cardinal Ruini a monsignor Fisichella, in molti si sono spesi nei giorni della trattativa tra l’Udc e Berlusconi. E non disperano che l’opera di Gianni Letta vada a buon fine, che il sottosegretario alla presidenza riesca - come ha spiegato - nell’estrema mediazione: «Un compromesso va trovato prima che si arrivi al voto di fiducia». Altrimenti tutto si farebbe, se possibile, ancor più complicato, le urne potrebbero diventare l’epilogo traumatico della crisi, e lo scontro elettorale porterebbe con sé inevitabilmente la nascita del terzo polo. Proprio ciò che non piace in Vaticano. Peraltro quella linea di cesura inizia a intravvedersi anche nel nuovo rassemblement, e le prime dissonanze si manifestano nel gioco di posizionamento per la leadership. La prospettiva che possa essere Casini il capo della coalizione da indicare in caso di voto - così come impone la legge elettorale - ha destato malumore tra i finiani. Per tempo tuttavia i centristi hanno voluto mettere in chiaro le cose, e già una settimana fa il leader dell’Udc l’aveva fatto capire: «Io sono iscritto all’Avis e dono sangue. Ma politicamente - ha sorriso alludendo al Fli - non sono più disposto a versarne una goccia. Abbiamo già dato».
Nei sondaggi il terzo polo è al momento accreditato del 13%, però non è ancora chiaro se l’unione riuscirà a far la forza, se ci sarà quella «scintilla» - come auspica Rutelli - che tramuterà l’alleanza in una «Kadima italiana», consegnandola così al successo. In passato i partiti che si sono uniti non sono sempre riusciti nelle urne ad addizionare le pere con le mele. Perché c’è un problema di strategia, lo spiega oggi sul Foglio il professor Campi: se è vero che l’ex leader di An lavora a «un nuovo centrodestra», «il terzo polo - secondo il direttore scientifico della fondazione finiana di Farefuturo - non lo è. Ha una funzione tattica parlamentare. Al massimo sarebbe una carta di riserva in caso di elezioni anticipate».
Insomma, l’alleanza serviva (e serve ancora) a costruire in Parlamento l’era post-berlusconiana. Se il Cavaliere dovesse però resistere, e lo sbocco della crisi fossero le elezioni, il terzo polo sarebbe una sorta di ripiego. Ecco perché il voto di fiducia del 14 dicembre sarà uno spartiacque. Ecco perché il Fli ieri ha aperto a un Berlusconi-bis. E sotto sotto anche l’Udc è disponibile. Sennò Bertone si farebbe sentire: lui quel matrimonio non lo celebrerebbe.
Se il potere si apre alla società civile
La buona politica e la società civile
Troppo scarsa l’attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un’autentica emergenza
Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e dalle chiusure di casta
di Gustavo Zagrebelsky
Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino *
"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società.
Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica.
Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio - l’allevamento - tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso - per squalificarne il concetto stesso - la si intende come "i salotti" dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile. Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos’è il terzo stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora - la Francia pre-rivoluzionaria - chiedeva riforme: "Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui - col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere.
Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti - tutti quanti - dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia. Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.
* la Repubblica, 13.09.2010
L’immunità un’offesa al buon senso
di MICHELE AINIS (La Stampa, 2/7/2010)
King cannot wrong»: il re non può sbagliare, recita un’antica massima della democrazia inglese. È dunque irresponsabile, se non infallibile tal quale il Papa, come stabilì Pio IX nel 1870.
Invece nella nuova democrazia italiana irresponsabili e infallibili sono i ministri, quale ne sia il numero, il sesso, la fedina penale. Così vuole il lodo Alfano nel suo abito costituzionale. Un abito peraltro continuamente allargato e ricucito nella sartoria del Senato; o dovremmo chiamarlo lodo Brancher?
L’ultima idea - quella di estendere lo scudo processuale alle iniziative giudiziarie inaugurate prima che l’imputato giurasse da ministro - sembra in effetti tagliata su misura per il neoministro a Non si sa che cosa. Significa che è un’idea incostituzionale? No di certo: ormai è vietato concludere i processi, figurarsi i processi alle intenzioni. E d’altronde già la Carta del 1947 elenca una serie d’immunità per le alte cariche; dunque l’immunità di per sé non viola il principio d’eguaglianza, altrimenti dovremmo reputare incostituzionale la Costituzione stessa. Purché ogni immunità venga introdotta attraverso il procedimento di revisione costituzionale, non con legge ordinaria: così ha sentenziato l’anno scorso la Consulta, così effettivamente sta operando la maggioranza di governo.
No, non c’è un attentato alla Costituzione in questo lodo redivivo. C’è piuttosto un’offesa al buon senso, oltre che al buon gusto. Perché mai, difatti, l’immunità dovrebbe estendersi ai reati commessi prima del giuramento da ministro? Se la risposta è il fumus persecutionis, ossia il sospetto che l’inchiesta giudiziaria risponda a una finalità politica, allora è come dire che i magistrati italiani hanno la palla di vetro. E perché il nuovo lodo protegge i ministri con una diga più alta di quella eretta nell’art. 96 della Costituzione? Quest’ultima norma concerne i reati funzionali, compiuti guidando un dicastero; il lodo tocca viceversa i delitti comuni. Insomma d’ora in poi ogni ministro sarà più tutelato se fa una rapina in banca anziché un abuso d’ufficio. E perché infine l’autorizzazione a procedere viene affidata alla maggioranza semplice delle assemblee legislative? Siccome tale maggioranza è lo sgabello su cui poggia il governo, siccome la sua sopravvivenza in Parlamento dipende dalla sopravvivenza del governo, è un po’ come consegnare un fucile a chi ha le manette ai polsi.
Eccolo infatti il vizio (logico, prima ancora che giuridico) di questo nuovo lodo. Non è illegittimo, è inopportuno. Peggiora la qualità delle nostre istituzioni, anziché innalzarla. Infine erode sotto traccia l’autorità del Capo dello Stato. Il presidente della commissione Giustizia del Senato ha dichiarato che sarebbe ingiusto negare al premier il medesimo scudo processuale per i reati pregressi di cui potrà avvalersi il Quirinale. Errore: lì abita la prima carica dello Stato, il presidente del Consiglio è soltanto la quarta. Ma il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il Capo dello Stato: un improprio voto di fiducia, ha osservato Paolo Caretti. O altrimenti un’arma di ricatto. Meglio la maggioranza assoluta, come del resto vuole l’art. 90 della Costituzione per i reati presidenziali. O l’improcedibilità tout court, quale esiste in Francia, Israele, Grecia, Portogallo.
Ma l’opportunità è una categoria dello spirito, non della politica. A noi che non abbiamo scudi processuali sembrerà forse inopportuno tutto questo scalmanarsi attorno allo scudo dei potenti, prima con il lodo Schifani, poi con il lodo Alfano, poi con il legittimo impedimento, poi con il lodo Alfano bis. Suoneranno altrettanto inopportune le proclamazioni sui principi - la forma di governo, il federalismo, la libertà d’impresa nel nuovo art. 41 - quando le uniche riforme che poi approdano a riva sono quelle che hanno di mira la giustizia. Ci parrà infine inopportuno venire scomodati per il referendum costituzionale che giocoforza accompagnerà questo nuovo lodo. Ma ci scomoderemo.
michele.ainis@uniroma3.it
Il predone
di GIUSEPPE D’AVANZO *
PENSIAMO ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.
La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.
Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.
Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti - se non agli ingenui - che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.
C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo - il Cesare di Arcore - che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.
Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo - chiamatelo come volete - di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli - nel suo potere e volontà - di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma - come per Brancher - in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.
Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.
Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?
* la Repubblica, 25 giugno 2010
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita. Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
ISTITUZIONI
Napolitano, monito al governo
"Il Parlamento è compresso"
Il capo dello Stato accompagna la firma della legge incentivi con una lettera al presidente del Senato e ai presidenti del Consiglio e della Camera. I contenuti del decreto, scrive il presidente della Repubblica, modificati "nel corso dell’iter di conversione". "Basta fiducia su maxiemendamenti". "A rischio equlibri costituzionali". "Firmo solo per la lotta all’evasione" *
ROMA - Nuovo, duro richiamo di Napolitano all’esecutivo. Il presidente della Repubblica ha accompagnato la firma al dl incentivi con una lettera indirizzata al presidente del Consiglio e a quelli di Camera e Senato, con al quale mette nero su bianco i rilievi alle modalità dell’iter di conversione. Un modo per ribadire tutte le sue perplessità sull’alterazione degli equilibri e delle prerogative degli organi costituzionali. Nella lettera, Napolitano sottolinea di aver apposto la sua firma sul decreto per evitare la decadenza di "disposizioni di indubbia utilità", come quelle relative al contrasto dell’evasione fiscale e al reperimento di nuove risorse finanziarie. Appena ricevuta la lettera, il presidente del Senato, Renato Schifani, ne ha trasmesso copia ai presidenti dei Gruppi parlamentari di Palazzo Madama.
Scrive Napolitano che "il decreto legge, che nella sua formulazione originaria conteneva disposizioni riguardanti esclusivamente la repressione delle frodi fiscali, la riscossione tributaria e incentivi al sostegno della domanda e delle imprese, nel corso dell’iter di conversione è stato profondamente modificato, anche mediante l’inserimento di numerose disposizioni estranee ai contenuti del decreto e tra loro eterogenee".
Tale tecnica, ricorda il capo dello Stato, è stata "criticata" sia da lui che dai suoi predecessori. Napolitano dice dunque ancora una volta "no" ai maxiemendamenti approvati con il voto di fiducia che ampliano il contenuto originario dei decreti legge. Tale procedura, sottolinea il capo dello Stato, incide negativamente "sulla qualità della legislazione" ed elude "la valutazione spettante al presidente della Repubblica in vista della emanazione" dei provvedimenti d’urgenza del governo. Inoltre, "si realizza una pesante compressione del ruolo del Parlamento, specialmente allorché l’esame da parte delle Camere si svolga con il particolare procedimento e nei termini tassativamente previsti dalla Costituzione per la conversione in legge dei decreti".
Fin quando non intervengano eventuali modifiche alla prassi e alle norme vigenti, "si impone un richiamo al senso di responsabilità del Governo e del Parlamento - aggiunge Napolitano -, in particolare dei gruppi di maggioranza, affinché non si alterino gli equilibri costituzionali per quel che riguarda i criteri per l’adozione dei decreti-legge e i caratteri di omogeneità che ne devono contrassegnare i contenuti, nonché sotto il profilo dell’esercizio delle prerogative del presidente della Repubblica".
Il presidente della Repubblica confida che "Parlamento e governo converranno sulla fondatezza dei rilievi di carattere generale che ho ritenuto di sottoporre alla loro attenzione, nonché di quelli concernenti specifiche disposizioni del provvedimento da me oggi promulgato, anche apportando, nei modi opportuni, possibili correzioni".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
LA COMMEMORAZIONE
Napolitano: "Chi pensa a secessioni
coltiva un salto nel buio"
Il capo dello Stato a Marsala per la rievocazione della spedizione di Garibaldi "Penosi i commenti liquidatori contro l’unità di Italia" *
MARSALA - "Chi si trova a immaginare o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio". Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha parlato a Marsala nel suo intervento alla cerimonia organizzata nell’ambito del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Il Capo dello Stato è stato accolto da un bagno di folla, tra cori, applausi scroscianti e sventolio di bandierine tricolori.
"Non c’è nulla di retorico nel celebrare l’unità conseguita dall’Italia, è un modo di rinnovare il patto fondativo della nostra nazione", ha detto Napolitano sul molo del porto, salutando le due imbarcazioni salpate da Quarto che simboleggiano lo sbarco della spedizione garibaldina del 5 maggio di 149 anni fa, rievocazione ostacolata oggi dal forte vento. Vento su cui il presidente si è concesso una battuta: "E’ una giornata bellissima e ventosa. E siamo davanti a una meravigliosa manifestazione di popolo" ha detto rivolgendosi alla gente in piazza, scolaresche, cittadini, molti bambini con camicie e berretti rossi, in onore del colore delle divise garibaldine. Questo "fa capire che l’unità è uno straordinario e fondamentale patrimonio collettivo del popolo italiano. Celebrarla quindi non ha nulla di retorico ma è un modo di rinnovare il patto fondativo della nostra nazione".
Queste celebrazioni, ha sottolineato ancora il presidente della Repubblica, "sono l’occasione per determinare un clima nuovo nel rapporto tra le diverse realtà del Paese, nel modo in cui ciascuna guarda alle altre, con l’obiettivo supremo di una rinnovata e salda unità che è, siamone certi, la sola garanzia per il nostro comune futuro", ha detto. "Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere fino in fondo su un dato cruciale: l’Italia deve nel medio e lungo periodo crescere di più e meglio, ma può riuscirvi solo se crescerà insieme, solo se si metteranno a frutto le risorse finora sottoimpiegate, le potenzialità, le energie delle regioni meridionali", ha aggiunto.
"Le critiche - ha detto ancora Napolitano - che è legittimo muovere in modo argomentato e costruttivo agli indirizzi della politica nazionale, per scarsa sensibilità e aderenza ai bisogni della Sicilia e del Mezzogiorno, non possono essere accompagnate da reticenze e silenzi su quel che va corretto, anche profondamente, qui nel Sud". Il capo dello Stato, parlando dei punti da correggere, ha specificato che il suo riferimento è "alla gestione dei poteri regionali e locali, al funzionamento delle amministrazioni pubbliche, agli atteggiamenti del settore privato e ai comportamenti collettivi". "Parlo di correzioni essenziali - ha sottolineato Napolitano -, anche al fine di debellare la piaga mortale della criminalità organizzata".
Dal porto, Napolitano ha raggiunto il municipio dove ha salutato il consiglio comunale e poi, a piedi, insieme al sindaco e al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha raggiunto la piazza della Repubblica che ospita la celebrazione storica.
* la Repubblica, 11 maggio 2010
La vergogna perduta un sentimento diventato tabù
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 22 aprile 2010)
Il brano che anticipiamo è tratto da Senza vergogna, il nuovo libro di Marco Belpoliti , che esce in
questi giorni (Guanda, pagg. 246, euro 16). Il saggio incrocia riflessioni politiche e culturali su
uno dei fenomeni più visibili nella società di oggi, che rimbalza dalla società al mondo della
comunicazione e che l’autore sintetizza in un quesito: perché nessuno si vergogna più? -L’episodio
da cui prende le mosse Belpoliti è la festa per i 18 anni di Noemi Letizia a Casoria, aprile 2009,
alla quale partecipò anche Silvio Berlusconi.
La vergogna non c’è più. Quel sentimento che ci suggerisce di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induce a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, a farci piccoli e timorosi, sembra scomparso.
Oggi la vergogna, ma anche il pudore, suo fratello gemello, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come tra le classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna è contestuale a un altro singolare fenomeno: l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a persone di notevole rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Si tratta di un fenomeno prodotto dalla televisione, da alcuni programmi di grande ascolto come il Grande Fratello.
Günther Anders, il filosofo tedesco emigrato in America durante il nazismo, ha scritto che noi «veniamo defraudati dell’esperienza e della capacità di prendere posizione». Come può accadere? Per effetto dell’immagine televisiva abbiamo davanti un orizzonte molto vasto, «in diretta visione sensibile, ma solo attraverso le sue immagini». Incontriamo la realtà «sotto forma di apparenza e fantasma», non il «mondo» bensì «un oggetto di consumo che ci viene fornito a domicilio». Anders spiega: «Chi ha consumato nella propria stanza ben riscaldata un’esplosione atomica sotto forma di un’immagine fornita a domicilio, cioè di una cartolina illustrata in movimento, costui oramai assocerà tutto ciò che può capitargli di sentire su una situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimensioni minuscole e con questo verrà defraudato della capacità di concepire la cosa stessa e di prendere nei suoi confronti una posizione adeguata».
In questo brano in cui, per altro, compare per la prima volta l’idea che viviamo «in uno stato liquido», divenuta celebre attraverso il sociologo Zygmunt Bauman, Anders mette a fuoco un problema che ci tocca da vicino, e che influenza anche il modo attraverso cui si formano e si manifestano le nostre emozioni, tra cui appunto la vergogna.
L’esperienza che facciamo è quella dell’assenso che sostituisce il consenso, ovvero del sì incondizionato e slegato da qualsiasi contenuto. È in corso un inarrestabile processo di omologazione fondato sulla democrazia dei consumi, di cui l’audience è il sistema di valutazione, ma anche il fine ultimo: spettacolo è tutto ciò che applaudiamo, scrive Davide Tarizzo, per quanto è ancora vero che non tutto è spettacolo nel mondo odierno, contrariamente a quello che sosteneva Guy Debord, creatore della formula «società dello spettacolo».
In questo contesto la vergogna tende a scomparire, un sentimento proprio di altre epoche dell’umanità, in cui il bisogno di esserci, o meglio, di essere visti, e di vedere tutto, sempre e comunque, non era così significativo e rilevante, come accade oggi. La visibilità come obiettivo ultimo dell’esistenza dei singoli individui.
La vergogna è diventata un tabù. O meglio, si è trasformata in vergogna di non aver successo, di non essere notati: la terribile vergogna d’essere nessuno. Ha scritto uno psicologo che la nostra vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria esibizione. Ci si vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l’attenzione di tutti sull’unica cosa che si vuole nascondere: l’insuccesso.
Jean Baudrillard ci ha avvertiti parlando del «delitto perfetto», perpetuato dal trionfo della televisione: se tutto è esposto alla vista, significa che non c’è più nulla da vedere. La realtà stessa sembra scomparire nella totale trasparenza. Secondo Anna Maria Pandolfi, una psicoanalista che ha studiato la scomparsa della vergogna, è probabile che l’esibizionismo e il voyeurismo, che dominano incontrastati, siano in realtà la spia di una diffusa carenza d’identità, ovvero di un narcisismo fragile e povero, «per cui l’essere visti e conosciuti o anche solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericolo vissuto di non valore o addirittura appunto di non esistenza».
Per quanto riguarda la vergogna, non è più vero, come nel passato, che questa emozione costituisca comunque un valore; era ciò che distingueva l’essere umano dagli animali. La vergogna della società contemporanea è, come si è detto, una «vergogna sulla pelle» (Á. Heller) o, come dicono gli psicologi, una «vergogna amorale». Non una vera vergogna, bensì una vergogna di superficie, legata appunto all’etica del successo, al conformismo di fondo che, nonostante le tante parole e immagini spese per innalzare l’individuo, per affermarlo, in realtà lo sta omologando sempre più: diversi, ma sempre più uguali.
La vergogna sulla pelle funziona perfettamente nella società svergognata in cui viviamo, quella in cui la barriera del pudore si è molto abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Con una formula assai efficace gli studiosi del contemporaneo parlano di «commercializzazione del sesso e di sessualizzazione del commercio». La pubblicità è il grande veicolo di questa trasformazione dei nostri sentimenti ed emozioni, divenuti essi stessi merci. L’oscenità che domina sugli schermi televisivi riguarda qualcosa di più intimo ancora del corpo stesso, come ha scritto Battacchi. Nei talk-show i partecipanti non esitano a esibire le loro emozioni e i sentimenti, i lati deboli della loro personalità, le mancanze di gusto, i difetti espliciti. Al pubblico piace, e spesso ci si fabbrica un cinismo e una cattiveria adatti allo scopo: colpire chi guarda, farsi ammirare, diventare dei «divi». Così la vergogna morale scompare. Come ci spiegano gli psicologi, la «vergogna morale» comporta la stretta fusione di senso di colpa e di vergogna.
Essere scoperti nel ruolo di traditori, di vigliacchi, nella condizione imbarazzante di colpevolezza, provoca sempre la vergogna morale, mentre la vergogna amorale non è più legata ad alcuna norma, ma solo a modelli di consumo, a etichette sociali, al potere personale o all’esito della competizione sessuale per la conquista di una donna o di un uomo. Questo tipo di vergogna non lascia segni profondi, ma solo uno stato transitorio d’imbarazzo.
quei bambini puniti e umiliati: altro che paese cristiano
Digiuno e castigo: scene dalla nuova Italia
di Dario Fo e Franca Rame (il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2010)
Qualche giorno fa, stando davanti al video e seguendo un telegiornale, Franca ed io siamo rimasti sconvolti. La cosa si è ripetuta anche nei giorni successivi. Siamo venuti a sapere che proprio qui, in Lombardia, in un complesso di scuole per l’infanzia, elementari e medie, ci sono dei bambini che al momento della distribuzione del cibo nella mensa si sono trovati con davanti un piatto, dentro al quale c’era un pezzo di pane, e un bicchiere d’acqua; mentre nel piatto degli altri bimbi c’era pastasciutta, e appresso formaggio e anche la frutta. Perché? Perché i genitori dei puniti non avevano pagato la retta, o anche solo erano in ritardo, e quindi i figlioli non avevano il diritto di mangiare! Digiuni per castigo dovevano restare!
Pensiamo allo choc che devono aver provato questi ragazzini: fermi, davanti al panino, il bicchiere d’acqua; e gli altri che mangiavano. Sappiamo che alcuni fra i bambini, di quelli che avevano gli spaghetti, senza una parola ne hanno messo nel piatto vuoto dei compagni una o due forchettate.
Diciamo: una società che produce un dolore, una mortificazione, un’umiliazione di questo livello a dei ragazzini innocenti - ma che razza di società è? Che razza di valori ha nel corpo, nel cuore e nel cervello? Che cultura produce? Quale dimensione sociale? Ci siamo sentiti proprio male. E’ da ricordare che questi che inscenano spettacoli del genere sono gente nostra, della nostra razza. Sono loro che hanno ordinato di togliere il cibo ai bambini poveri, in quanto indegni dei vantaggi comuni. S’è saputo poi, che questi genitori non hanno mancato per strafottenza o per un atto di inciviltà, ma solo perché non avevano i denari per pagare la retta! E’ gente travolta dalla crisi, quasi tutti causa la perdita di un lavoro, e quindi senza paga, disoccupati. Ai gestori della cucina, ai gestori di questa economia e di questa scuola e del comune non importava niente. Importava: “Non paghi, non mangi”: anche se sei un bimbo devi soccombere, essere punito.
Di colpo ci è venuto in mente Sant’Ambrogio. Su di lui, il maggiore vescovo che la nostra città abbia avuto, abbiamo realizzato e messo in scena anche uno spettacolo al Piccolo Teatro di Milano, lo Strehler.
Siamo atei, ma abbiamo studiato profondamente la storia del cristianesimo. E abbiamo scoperto che Ambrogio possedeva un grande senso della collettività, che aveva preso parola, intervenendo con durezza al Senato di Milano, quando questa era stata eletta a Capitale dell’Impero d’Oriente e d’Occidente, portando avanti il diritto della dignità degli uomini: anche quando sono schiavi, anche quando sono privi di diritti.
Lui diceva: “Ricco signore, non t’accorgi che davanti alla tua porta c’è un uomo nudo, e tu sei tutto assorto a scegliere i marmi che dovranno ricoprire i muri. Quell’uomo chiede del pane e intanto il tuo cavallo mastica un morso d’oro. Tu vai in visibilio contemplando i tuoi arredi preziosi, e quell’uomo nudo trema di freddo di fronte a te e tu non lo degni di uno sguardo, non l’hai nemmeno riconosciuto. “Sappi che ogni uomo affamato e senz’abito che viene alla tua porta è Gesù; ogni disperato è Gesù. E lo incontrerai il giorno in cui si chiuderà il tempo del mondo e lui, quello stesso uomo, verrà ad aprirti e ti chiederà: ‘Mi riconosci?’. “Voi, ricchi, dite: ‘C’è sempre tempo per pentirsi e pagare i debiti’. Ma non c’è peggior menzogna. Ricchi, non vi è nulla nella vostra attività di uomini che possa piacere a Dio. Anche se tenete appesa una croce sopra il letto e disponete di una cappella dove pregare soli e assistere alla messa. Voi vi stringete ai vostri beni, gridando ‘È mio!’. No, nulla è vostro su questa terra”. “Schiacciate le vostre regole di infamia e di ingiustizia. Ridate il diritto a chi non ne ha... il pane a chi non ne può masticare, impedito dalla vostra grettezza! Distribuitene, finché siete in tempo, ai disperati, ai derubati dalla vostra insolente avidità. Nessun lascito sostanzioso alla chiesa e al suo clero vi salverà”.
“Vi dirò”, concludeva Ambrogio, “che non si può credere a un potere magnanimo, poiché chi lo possiede vuole tutto, anche le briciole. Perciò io sono per la comunità dei beni; io sono per l’uguaglianza fra uomini diversi. Perché solo il furto ha creato la proprietà privata”.
La porta della libertà
di Furio Colombo (il Fatto, 28.03.2010)
Nessuno di noi finora ha tenuto conto di una domanda che pure dovrebbe apparire urgente e drammatica. La domanda è questa: riuscirà la Repubblica Italiana a rientrare nella normalità democratica senza avere prima capito e detto e denunciato il grave stato di fuori gioco in cui si trovano ormai da tempo in questo Paese tutte le istituzioni? Fino ad ora ha prevalso, se non altro per l’ autorevolezza di chi l’ ha espressa, la persuasione che alcuni episodi separati, non sempre denunciati, non sempre redarguiti, non formino di per sé un comportamento grave e costante e non debbano, quindi, essere affrontati in difesa della Repubblica e della sua Costituzione, come un grave pericolo in atto. Il più delle volte, a parte il silenzio, l’invito ha queste caratteristiche: ci sono due parti che debbono riconciliarsi. Offra ciascuna il suo “passo indietro” e “ i toni bassi” e “il rispetto delle istituzioni”, senza “delegittimare l’avversario”.
Questi ammonimenti sono saggi da un punto di vista molto importante: evitare il peggio. Chi li propone, a volte in modo ripetuto e con una preoccupazione che si percepisce molto intensa, questo “peggio” deve averlo intravisto o addirittura vissuto in alcune occasioni rimaste non pubbliche. Va dunque considerato e apprezzato lo sforzo di “evitare il peggio”, tenendo conto, però, che nelle vicende politiche sia nazionali che internazionali, tale intento di scartare un pericolo ha sempre portato a un pericolo più grave. Infatti lo spazio lasciato vuoto da fatti veri non riconosciuti e non descritti ai cittadini, viene invaso, ogni volta, da fatti più gravi e letali. Il lettore può pensare che mi sto tenendo un po’ alla larga. Perciò preciso. Vi prego di notare che dirò le stesse cose che molti di coloro che si oppongono vanno dicendo tutti i giorni, durante i quindici anni di Berlusconi.
Ma questa volta lo dico nel modo formulato dalla domanda: se si possa uscire da un pericolo ormai molto grave e imminente fingendo di non vedere, ed evitando di descrivere quel pericolo. Non è ciò che è accaduto a Monaco quando normali e prudenti statisti democratici hanno accettato e avvalorato la finzione di avere raggiunto un accordo con normali e democratici statisti di parte opposta che però erano Hitler e Mussolini? Purtroppo abbiamo imparato che prudenza e saggia cautela non diminuiscono il rischio contro la democrazia.
Il modo in cui avvengono le cose oggi in Italia lo conosciamo: un esecutivo, per sua natura pronto nell’ agire e nel reagire (per questo la Costituzione circonda ogni esecutivo di verifiche, contrappesi, controlli, garanzie per i cittadini) e per giunta reso fortissimo dal doppio potere, pubblico e privato, lancia attacchi violenti, con intenzione di piena rottura contro i centri costituzionali di verifica, controllo e garanzia. Alla fine di ogni attacco, complice quasi tutta la stampa (d’ altra parte comprata o succube o spaventata) manca la descrizione di quell’attacco, la portata distruttiva. Persino le intenzioni esplicite, proclamate dal capo di quell’esecutivo che attacca le altre istituzioni, vengono omesse. Qui il problema non è l’ arbitro (mi riferisco con tutto il rispetto al Capo dello Stato) perché il problema non è il rapporto fra maggioranza e opposizione e non è l’eventuale lamentela dell’opposizione.
Qui stiamo parlando di iniziative ripetute di tipo rivoluzionario contro la Costituzione, i suoi organi di controllo, i suoi giudici e le fondamentali leggi della Repubblica tuttora in vigore. In quel punto e in quel momento dell’ aggressione, che è ogni volta un colpo duro e forse finale al muro democratico, c’è l’ ultima, estrema possibilità di difesa della Repubblica. Vi sono consiglieri, in luoghi autorevoli, che insistono nel suggerire, come unica cura, come unico intervento risolutivo di questo momento grave, una ragionevole e ben visibile equidistanza.
Ma equidistanza da che cosa? La parte offesa di questo tremendo gioco non è l’ opposizione. Il suo mestiere comprende il dare e avere, argomenti duri e aggressivi (vedi la brutalità senza riguardi che i repubblicani americani riservano al loro Presidente, vedi l’impegno senza tregua con cui Barack Obama tiene testa a quell’ offensiva) .
La parte offesa, adesso, in Italia, sono le istituzioni dello Stato, sono i magistrati (tutti), sono le Corti, fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, sono le authority di garanzia, come quella delle comunicazioni. Quando i giudici si comprano (nei pochi casi in cui si può) o si insultano con modalità di separazione definitiva dallo Stato di diritto, quando cade ogni finzione sull’ appartenenza comune alle leggi fondamentali, violandole e annunciandone la soppressione ogni volta che sono un ostacolo, la controparte è la Costituzione, sono le sue radici di libertà, la sua originaria e incancellabile natura antifascista. Questa è la descrizione di una grave e pericolosa situazione politica. Se continueremo a non riconoscerla fingendo di credere che due parti in contrapposizione debbano smettere di delegittimarsi e giungere a più miti consigli, si nega la realtà, si cancellano i fatti, si murano le porte di uscita.
Regime, scene di un crollo
di Furio Colombo (il Fatto, 17.03.2010)
Un giorno qualcuno potrà dividere il regime Berlusconi (finora quindici anni ininterrotti) in tre periodi: quello del finto innocente, della negazione risoluta davanti ai fatti. Chi, io? ma io mi dimetterei immediatamente se fosse vero; quello in cui comincia lui e poi si guarda intorno smarrito come nel gioco “lo schiaffo del soldato”; quello della rivendicazione del fatto (o reato) compiuto come di un naturale e legittimo diritto. E la violenta denuncia: “Ci dobbiamo difendere”.
Ho detto “quindicennio ininterrotto” del regime Berlusconi nonostante due periodi (uno molto breve) di governo del centrosinistra a causa di due trovate di Berlusconi che spero gli storici non trascureranno. Il primo è di agire, in democrazia, con la trovata di sospendere la democrazia nel suo partito. Ciò gli dà uno spazio di libertà (a parte i soldi, a parte il conflitto di interessi) che i suoi avversari, appesantiti dalla necessità del consenso, non possono fronteggiare. Il secondo è di non governare mai e di fare opposizione, anzi campagna elettorale sempre. Per farlo deve arrecare danno - e lo fa - alla Repubblica. Il danno più grave è portarsi via - forse solo a causa del suo fascino leaderistico - potenti funzionari dello Stato, guardiani delle garanzie, verificatori e tutori della legalità, notai della vita istituzionale e della vita pubblica. Clamoroso è il caso dell’Autorità delle Comunicazioni.
Comincia il crollo del regime. Si vedono ovunque nel Pdl crepe, lacerazioni, perdite di rispetto. Le barzellette rimbalzano tra sms ed e-mail, tra l’Italia e il mondo. Quella che trovate oggi sul telefonino spiega: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Il fatto è che sta facendo crollare la Repubblica e con lui cadono nel vuoto i lavoratori senza fabbrica, i precari senza contratto, le aziende svendute senza padrone. Ma con lui cominciano a cadere anche pezzi importanti delle Istituzioni repubblicane. Per ogni regola è stato legiferato uno strappo. Per ogni strappo ci vuole un garante a rovescio. Un garante della illegalità. Sarà una lista lunga e un danno immenso.
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 15 marzo 2010)
Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa.
È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole.
Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo.
Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise.
Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco - il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole - si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere.
Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese.
Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge.
Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati.
Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto.
Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto - scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis - cesserà insieme con la barbarie».
I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere.
Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà.
Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano - in forme abnormi - piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri.
Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Craxi lotta con noi
di Vittorio Zucconi *
Nella lettera di Napolitano alla vedova Craxi c’è un capoverso che alla nostra solita fretta di indignarci, di scandalizzarci o, da parte degli eredi del craxismo, di applaudire, sembra sfuggire, nella sua enorme gravità.
La frase è questa: ” Si deve invece parlare di una persistente carenza di risposte sul tema del finanziamento della politica e della lotta contro la corruzione nella vita pubblica. Quel tema non poteva risolversi solo per effetto del cambiamento (determinatosi nel 1993-94) delle leggi elettorali e del sistema politico, e oggi [....] si è ancora in attesa di riforme che soddisfino le esigenze a cui ci richiama la riflessione sulle vicende sfociate in un tragico esito per l’on. Bettino Craxi”.
Tradotto dal politichese e dal presidentese, questo passaggio vuole ricordarci che l’ordigno infernale del finanziamento dei partiti ancora è in piena azione e la condanna di Craxi, insieme con tutto il polverone di Tangentopoli, non mai ha risolto il problema che sta alla base di tutto e che preferiamo non vedere, se non nei partiti degli altri: chi paga, e in che modo, i costi della politica, a destra come a sinistra o al centro, per i micropartitini come i mega partiti azienda? Il problema non è stabilire se Craxi fosse stato o meno un corrotto/corruttore, domanda alla quale ha già risposto la magistratura in via definitiva, o se lo facessero tutti, argomento che non ha mai nessun valore essendo la responsabilità politica e penale sempre individuale nelle nazioni civile, ma sapere quanti Craxi ci siano oggi, in ogni partito e in piena attività, anche in quelli che strepitano contro la corruzione altrui.
Tempo reale. Il blog del direttore zucconi 18 gen 2010
Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
la sua bellezza è nella continua evoluzione
Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne
di STEFANO BARTEZZAGHI *
C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").
Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.
Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.
La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
’Pm come Tartaglia’: interviene il Csm
Parole Berlusconi in dossier a tutela magistrati gia’ attaccati dal premier *
ROMA - Il Csm si occuperà delle frasi pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, che ha paragonato "l’aggressione" giudiziaria nei suoi confronti a quella fisica subita in piazza Duomo a Milano per mano di Tartaglia. La prima commissione di Palazzo dei Marescialli ha infatti deciso di acquisire i giornali che riportano le dichiarazioni di Berlusconi e di inserirle nell’ampia pratica a tutela di magistrati oggetto in passato di accuse rivolte dal premier. Questo fascicolo pende da tempo e riguarda in particolare i giudizi espressi dal presidente del Consiglio sui magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose e sui giudici del processo Mills.
Berlusconi, parlando ieri dopo la riunione del Consiglio dei ministri, ha definito le aggressioni giudiziarie "parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio’’.’’Mi attaccano sul piano della persona con la ’character assassination’ che e’ stata messa in campo - ha detto ancora Berlusconi riferendosi ora a un ambito più generale -, mi attaccano sul piano patrimoniale, ora non gli resta che attaccarmi sul piano fisico, come hanno iniziato a fare, ma - ha avvertito - ’non praevalebunt’’’.
Sempre parlando di giustizia il Presidente del Consiglio ha annunciato che il governo ’’riproporra’ l’inappellabilita’ delle sentenze di primo grado nella riforma della giustizia che stiamo esamindando’’. Per quanto riguarda la riforma fiscale, ha invece parlato di tempi lunghi. Per ora - ha detto - la crisi non consente una riduzione delle tasse.
Di giustizia e molto altro, Berlusconi parlera’ oggi in un faccia a faccia con il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante una colazione in programma a Montecitorio. All’ordine del giorno anche una ricognizione su equilibri nel Pdl, agenda di governo, regionali, innesti nel governo di nuovi sottosegretari, alleanze con l’Udc.
* Ansa, 14 gennaio, 10:57
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
LA POLEMICA
Il libretto bianco di Silvio Ceausescu
di FRANCESCO MERLO *
CERTO, alla prima occhiata anche io, come tutti, ho pensato al catechismo populista dei sudamericani, alla Bulgaria, al kitsch di Ceausescu che giocava al golf o indossava gli sci, al libro verde di Gheddafi, alla parodia italiana di Stalin «piccolo padre dei popoli», a quei mondi che sono destinati o al dominio dei generali o a quello degli imbonitori, o la tromba o il trombone.
Ma poi, quando ho cominciato a leggere e, sbalordito, mi sono inoltrato in questa melassa di pittura, in questo abuso di sentimento rancido, insozzato e soffocato in una pozzanghera di falsa caramella, ebbene è a Sanremo che ho pensato, a una certa idea dell’Italia credulona e caprona.
E più leggevo e più mi sembrava di sentire Berlusconi cantare: "da un male deve nascere un bene grande, grande grande". In un paese dove la corruzione di Stato è l’esibizione corale, la violenza di un’orchestra forte, Berlusconi gorgheggia: "siamo l’Italia che sa amare", "siamo tosti, orgogliosi e concreti", "se non sai amare non puoi costruire niente di buono, per te e per gli altri", "anche lo Stato è tornato a fare lo Stato", "non sarò più un leone in gabbia". E più andavo avanti nella lettura e più pensavo a quanto è diventato inutile contrapporre alle voci di petto e di stomaco dell’Italia di Tartaglia e di Berlusconi la voce di testa, misurata e guidata, il timbro cupo, velato e grave del Diritto, della politica, della normalità perduta.
Insomma Berlusconi apre il suo libro più agiografico e più sepolcrale con motivetti e ritornelli che contrappone ai toni acuti e alle distorsioni, alla malattia del povero ma violento Tartaglia che quest’opera ha appunto ispirato, ed è infatti a lui che è indirettamente dedicata: "Il dolore, non solo fisico, è stato grande. Il rischio che ho corso anche... E come segno di riconoscenza, ho deciso di raccogliere una selezione dei tanti messaggi di incoraggiamento che mi sono giunti. Tutte queste manifestazioni di simpatia (dal greco ’syn pàthos’, saper patire assieme) mi hanno risarcito di tutte le calunnie, le offese, le false accuse".
Da un lato dunque c’è il tanfo del berlusconismo al tramonto e dall’altro l’atto inconsulto di piazza Duomo, a Milano. Insieme Tartaglia e Berlusconi, la musa e il suo poeta, compongono un’Italia al ribasso, un’Italia che ricorre al ventre e alle parti basse appunto, dove i due se la cavano benissimo, l’uno predisponendo l’altro in un rapporto inscindibile tra il lanciatore di statuetta e l’uomo che vuole diventare statuetta.
E’ tutto qui il libro. Tra i "grazie", i "ti vogliamo bene", "non mollare", "sei il nostro nonno", "anche mio figlio di tre anni ha pianto per te", che sono le solite banalità del ’popolo dei fax’, quel pezzo di mondo che spesso è disturbato, tanto a destra come a sinistra, c’è il tentativo patetico di fare del colpo di statuetta la festa di consacrazione letteraria a uomo del destino, lo svelamento finale perché il mito del leader si nutre di attentati al tempo stesso riusciti e mancati, ha bisogno di ordigni inesplosi, di un corpo contundente che si intrufola nello sventolio dei tricolori, di una ferita che si rimargina in mezzo allo sbigottimento attivo della folla.
La sola, vera differenza fra Tartaglia e Berlusconi è che il primo non ce l’ha fatta a saltare dentro la storia mentre l’altro comincia ad uscirne con questa crepuscolare brodaglia, edita nientemeno dalla Mondadori, che non merita di essere recensita né tanto meno sbranata, non riesce ad essere offensiva, non funziona neppure come provocazione e non avrà reazioni indignate perché con convince e non vince. Sa appunto di fondo di caffé, di barile raschiato, e non soltanto perché il leader non fa più sorridere neppure gli uomini che gli stanno vicini e molto più sfacciatamente del passato lo servono nelle istituzioni, nell’informazione e alla Rai: sono ancelle innamorate in pubblico che, però, in privato si abbandonano al dileggio e alla congiura (ed è una storia che in Italia si ripete sempre perché come diceva Valery: "quando qualcuno ti lecca le scarpe, mettigli il piede addosso prima che cominci a morderti") .
La verità è che solo al gesto inconsulto di Tartaglia il libro fa malinconicamente pensare senza più la forza spiazzante delle altre invenzioni di Berlusconi, dalla nave elettorale alla bandana, dal lifting come evoluzione finale del trasformismo alla barzelletta strumento di governo, e poi il contratto con gli italiani, lo slogan "meno tasse per tutti"... Anche la foto di copertina che ovviamente lo ringiovanisce non rimanda più alla cura di sé e al trucco seduttivo ma propone lucentezze oleose ed emana un forte odore di Prep, cattiva colonia e pensiero stantio, sembra il cartellone di una barberia meridionale, di quelle che stavano sotto l’invitante scritta "taglio italiano". Anche il ricorso alla foto-patacca è insomma così smodato da rivelare Berlusconi nella sua verità più crudele.
Alla fine ci rimane solo l’amarezza per la scelta della Mondadori. Il libro, infatti, non è pubblicato dal "Partito delle Libertà" ma dalla casa editrice che, con l’Einaudi, fu la più autorevole, la più amata, la più coraggiosa e la più geniale, un tempio e un’istituzione paragonabili, che so?, alla Gallimard francese, alla Collins e alla Phaidon inglesi, alla Random House americana, alla Suhrkamp Verlage tedesca. E bisogna dirlo forte che questo libro nella parte centrale diventa, in carta patinata, un volantino elettorale, pura propaganda che sarebbe anche legittima, certamente più della stanca agiografia senile, se non portasse appunto il marchio Mondadori.
Ebbene, da questo punto di vista il volume è peggio di una statuetta sul viso della Mondadori. E’ un attentato riuscito alla nostra memoria, una bestemmia contro la fonte battesimale di chiunque in Italia abbia creduto di potere capire il mondo attraverso i libri. In un Paese meno corrotto e più civile sarebbe uno scandalo. Perché nessun voto in più o, chissà, magari - involontariamente - in meno a Berlusconi, vale la reputazione (perduta) della Mondadori.
© la Repubblica, 12 marzo 2010