ACCADEMIA E BERLUSCONISMO. PREMIATO IL PRESIDENTE BERLUSCONI, PER IL RILANCIO DEL PLATONISMO ATEO E DEVOTO. "IO, PLATONE, SONO LA VERITA’": "FORZA ITALIA"!!! Nelle piazze e nei campi di calcio il popolo ateo-devoto è tutto in festa, in un mare di bandiere "nazionali"
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIÀ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
DIVINA COMMEDIA E LETTERATURA. Rileggere i "Tre Moschettieri" con Beniamino Placido (1994)... per imparare a ben distinguere il "giglio" di "Milady" dal giglio della Firenze e di (Maria) Beatrice (di Dante Alighieri). *
IL GIGLIO DI MILADY
di Beniamino Placido ["la Repubblica", 8 settembre 1994] **
Ci sono delle buone ragioni per rileggere, d’ estate, I tre moschettieri? Certo che ce ne sono. Tanto per cominciare, non è poi mica così sicuro che l’ abbiamo veramente mai letto (e quindi tantomeno riletto). Non è improbabile che la nostra prima, appassionata ma approssimativa, conoscenza di quei personaggi sia avvenuta per merito (e demerito insieme) di qualche edizione per ragazzi. Dove la traduzione era abborracciata, la vicenda raccorciata, i nomi scarabocchiati male. Non è improbabile che tutto quel che sappiamo di Athos, Porthos, Aramis e d’ Artagnan, sia dovuto al cinema (il film di George Sidney e Gene Kelly, il film di Richard Lester) piuttosto che al romanzo di Dumas.
Il quale romanzo (seconda ragione per affrontarlo) fu pubblicato a puntate su Le Siècle giusto centocinquant’ anni fa: fra l’ undici marzo e l’ undici luglio del 1844. Abbiamo celebrato, ed onorato di scritti commemorativi, tanti anniversari letterari. Sembra giusto celebrare anche questo.
Tanto più (terza ragione) che di buona letteratura si tratta. Si dà il caso che l’ Editore Adelphi abbia ripubblicato quest’ anno La Poesia di Benedetto Croce. Dandoci modo di rileggere il giudizio che il severo, austero don Benedetto ebbe ad esprimere in proposito: "Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’ offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo".
La quarta, la quinta, la sesta, l’ ennesima ragione (ci sono anche quelle) aspettano il loro turno, se mai verrà. Ma una ragione addizionale, e tuttavia fondamentale, per una lettura-rilettura estiva va esplicitata subito. Quest’ estate è stata molto calda. Insopportabilmente calda. Informatevene da chi è rimasto in città, voi che eravate invece ai monti o al mare: ve lo confermeranno.
Quando il termometro sfiora i quaranta gradi ci si fa furbi, bisogna pur sopravvivere. Si trova subito una scusa per mettere da parte i faticosi studi progettati, le serissime letture programmate in gennaio, e raccontare a se stessi: sai che ti dico? Adesso mi leggo o rileggo I tre moschettieri. Anche Benedetto Croce me ne dà il permesso.
Così ho fatto. L’ ho affrontato in una ottima edizione francese - peraltro anche economica, anche maneggevole - della "Pocket" (Parigi, 1993) dotata di tutto. Note, contronote, tavole cronologiche, indice dei luoghi, dei nomi, dei personaggi storici. Dossier fotografico e documentario.
Perché in francese? Intanto, per continuare a tentare di imparare quella lingua. In modo da essere in grado di chiedere senza arrossire: "Che cos’ è questo palazzo?" ("Qu’ est-ce que c’ est que cet édifice?") la prossima volta, a Parigi. E poi lo so per esperienza, che c’ è sempre un premio per chi si sobbarca alla fatica di leggere un libro nell’ originale. Per ricompensarti l’ autore - lusingato - ti offre una, due cose in più da capire.
Per esempio. Tutti lo sappiamo che al centro di questo romanzo ci sono loro quattro, i tre moschettieri Athos, Porthos, Aramis, più d’ Artagnan. E il Re Luigi XIII, quel Re fatuacchione, perennemente annoiato (grazie, non faceva niente tutto il giorno); e il Cardinale Richelieu; e la Regina Anna (fedele? infedele?); e il Duca di Buckingham; ed altre persone ancora.
Ma sappiamo che c’ è soprattutto lei, Milady. La seconda parte del romanzo ne è totalmente dominata. Lei l’ angelica (in apparenza) la perfida, la dolce, la seducente, la spietata, la crudele Milady. Degnamente interpretata da Lana Turner nel film di Sidney e Kelly, che è del 1948. Degnamente interpretata da Faye Dunaway nel film di Richard Lester, che è del 1975.
E’ lei che cerca di far morire tutti (quasi tutti) i personaggi maschili e femminili che le capitano fra le mani - dopo averli variamente sedotti - e quasi sempre ci riesce. E pensare che basta guardarle - con la dovuta ammirazione - le bellissime spalle per capire chi veramente è. Sulla spalla sinistra lei porta impresso a fuoco il marchio del disonore, il giglio di Francia. Che la qualifica - malgrado il fascino, le moine, le lusinghe - come una volgare delinquente.
Così per seicento e passa pagine. Finalmente, al capitolo sessantacinquesimo, quello che comincia con la frase proverbiale, celeberrima: "Era una notte buia e tempestosa" ("C’ était une nuit orageuse et sombre") eccola lì smascherata - finalmente! - e condannata, che sta per essere giustiziata sulle rive della Lys.
Ciò che a un italiano non dice niente. Si trattasse delle rive della Senna, sarebbe per noi assolutamente la stessa cosa.
Ma per un lettore francese, per un lettore del testo originale, in francese, no. Non è la stessa cosa. Perché in francese giglio si dice "lis" (scritto a volte anche "lys"). E questo suggerisce una corrispondenza che sa di contrappasso. Tu, marchiata dal giglio ("lis" o "lys") di Francia sulle rive della Lys dovrai morire, brutta mascalzona.
Corrispondenza rafforzata da alte ricorrenze foniche. Il boia incaricato dell’ esecuzione è il boia di Lilla. Il paese che deve attraversare per raggiungere il luogo dell’ esecuzione si chiama Lillers. E poi c’ è tutto un gioco sottilissimo organizzato intorno al verbo "flétrir" ("far appassire" e insieme "macchiare"); intorno al sostantivo "flétrissure" ("appassimento, avvizzimento", e insieme "marchio d’ infamia").
Come a dire: un giglio, tu? Ma tu sarai tutt’ al più un giglio avvizzito, appassito, maleodorante. Il tuo destino è quello di decomporti adesso, sulle rive della Lys. Un destino che è però anche una resa dei conti, una vendetta. Tutti i personaggi del romanzo, e insieme a loro tutti i lettori del medesimo, si vendicano della perfida donna che li ha tanto sedotti. Tanto insidiati. Che ha fatto morire l’ adorabile Constanza Bonacieux, fidanzata di d’ Artagnan. Che ha tentato di far fuori anche d’ Artagnan. Che ci ha - confessiamolo - sedotti e abbandonati (quando non ammazzati): tutti.
Dove si vede che Alessandro Dumas padre è qualcosa di più del romanziere divertente, spregiudicato (e superficiale?) presentato con benevolenza da Benedetto Croce. Non possiede brio e spigliatezza soltanto. Sa anche giocare con corrispondenze ed assonanze significative, in modo raffinato.
Di più: sa giocare - come nessun altro prima, nessun altro prima di lui - con un tema esplosivo, il tema della vendetta. Lo si vede ne Il Conte di Montecristo, scritto nello stesso periodo. Lo si vede ne I tre moschettieri. Di recente lo scrittore Sebastiano Vassalli ha sostenuto proprio su queste pagine (la Repubblica, 27 luglio 1994) che "Odio ergo sum". Che finché ci sarà odio, in questo mondo, ci sarà il romanzo. L’ odio soltanto? E’ sicuro che basti? Non ci vuole anche - per scrivere un romanzo o per raggiungere, da lettore, la pace dei sentimenti leggendolo - anche un certo appagamento dell’ odio, nella forma di una bella vendetta?
Il romanzo I tre moschettieri è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’ è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei. Addirittura.
Il piacere della vendetta - che alberghiamo dentro, evidentemente - è così intenso da consentire ad Alessandro Dumas un clamoroso colpo di mano, un gioco di prestigio spericolato: ai nostri danni. C’ è un momento, un momento cruciale del racconto in cui ci prende in giro, ci mena per il naso. Spudoratamente.
Ho cominciato a sospettarlo verso la fine. Quando più insistente si faceva la pressione del romanziere sul tema del giglio di Francia e sul gioco di parole fra "lis" e "Lys". Dev’ essere stato il caldo, che rende insofferenti e sospettosi. Dev’ essere stata l’ euforia estiva, che ti mette in testa l’ idea di un incontro sorprendente. Nel mio caso l’ idea di un incontro filologicamente sorprendente con un "luogo" testuale trascurato da altri. Che nessuno si spaventi. Si tratta di filologia estiva, stagionale. E provvisoria, come ho doverosamente avvertito nel precedente articolo dedicato alla biblica storia di Giuseppe (la Repubblica, 1 settembre 1994).
Ma tornate con me a metà del romanzo, al capitolo ventisettesimo. Ecco la svolta. Athos racconta a d’ Artagnan la storia tragica della sua vita. Non è mica nato moschettiere, lui. Lui era un gran nobile un tempo. Era il conte de La Fère. Un giorno nel villaggio che le sue proprietà dominavano si affacciò una fanciulla. Capelli biondi, occhi azzurri, ciglia e sopracciglia nere. Bellissima. Un angelo.
Tu mi capisci d’ Artagnan, avrei potuto averla senza sposarla, ero il signore del luogo; ma me ne innamorai perdutamente, volli sposarla. Quand’ ecco che una mattina, andando a caccia, lei cadde da cavallo e svenne. Corsi a soccorrerla, e siccome la vedevo in affanno le lacerai le vesti con la punta del pugnale, le scoprii una spalla e cosa mi apparve? Mi apparve, impresso sulla di lei spalla il marchio del disonore: il giglio di Francia. Quell’ angelo era un demonio; tu mi capisci, d’ Artagnan.
Stropicciatevi pure gli occhi. Rileggete ancora una volta, se lo ritenete necessario. Ma è proprio così. Dumas vuol darci ad intendere, per i suoi biechi interessi narrativi, che quel marito di nome Athos aveva bisogno dell’ incidente di caccia, della caduta da cavallo, della conseguente difficoltà respiratoria della moglie per guardarle - finalmente - le spalle e scoprire che cosa c’ era stampato sopra. E prima, non aveva avuto nessuna occasione di guardarle, di ammirarle (non oso dire: di toccarle) quelle spalle?
Da quel momento in poi è stata un’ estate di fuoco, nel vero senso del termine. Ho preso a tenzonare con i miei amici francesisti, ne conosco di giovani e bravissimi: e dunque, mi sapete spiegare come mai nessun lettore se ne accorge, se n’ è accorto? Siccome questi accalorati seminari di filologia si svolgevano generalmente intorno ad un tavolo di pizzeria, la sera, vi venivano implicate anche le mogli dei francesisti suddetti.
Che pudicamente suggerivano: forse a quel tempo le donne non si presentavano mai completamente svestite, nemmeno ai mariti. Specie le spalle, le coprivano sempre. E promettevano di interpellare - col dovuto tatto - le loro mamme, le nonne, le bisnonne, le trisavole. Le quali mandavano a dire, dopo qualche giorno, che ai loro tempi effettivamente era tutta un’ altra cosa, tutto un altro senso del pudore.
Suvvia, nonne bisnonne trisavole: nemmeno voi ce la contate giusta. E quando andava a ballare, Milady, anche lì con le spalle rigorosamente coperte? E quando faceva il bagno (ne avrà fatto qualcuno) sotto l’ occhio vigile della "femme de chambre" (o cameriera), e quando si vestiva con l’ aiuto della "femme de charge" (o guardarobiera) e quando si svestiva in compagnia della "suivante" (o dama di compagnia, confidente) e quando si faceva pettinare i lunghi capelli biondi dalla "coiffeuse" (o pettinatrice) nessuno, nessuna se ne accorgeva di quel marchio di infamia sulla spalla? Oltretutto, se il Re di Francia gliel’ aveva fatto imprimere addosso era perché facilmente si vedesse, e denunciasse la portatrice: com’ è che è così facile nasconderlo?
Credo che Alessandro Dumas lo sapesse, di avere la coda di paglia. Difatti in un capitolo successivo, il trentottesimo, prova a mettere le mani avanti. Quel fiore di giglio era - chissà, forse - quasi cancellato ("comme effacée") dagli strati di pomata ("les couches de pate") che Milady ci applicava sopra. Quasi cancellato, non proprio del tutto...
Niente da fare. A noi non la si fa, quando leggiamo i libri nell’ atmosfera irritata, sospettosa dell’ estate. Niente da fare. Al centro nevralgico de I tre moschettieri c’ è un vistoso buco logico, un sostanzioso ammanco di verosimiglianza narrativa.
Perché non ce ne accorgiamo? Perché non vogliamo accorgercene. Perché siamo troppo interessati alla storia, vogliamo che continui, malgrado tutto. Vogliamo goderci tutte le perfidie, tutte le diaboliche seduzioni di Milady, fingendo di detestarle. Vogliamo subito dopo, ma non tanto presto, liberarcene. Condannarla alla decapitazione sulle rive di quel fiume ("Lys") che porta il nome del giglio di Francia ("lis") stampato sulla sua sinistra spalla.
L’ autore lo sa. Ci conosce benissimo. "Hypocrite lecteur!" ci dice. So di poterti portare dove voglio, sfruttando le tue viltà, le tue debolezze. Per concludere, e per quanto mi riguarda: con queste letture, accompagnate da filologici sospetti, è stata una bella estate, malgrado tutto. Adesso mi propongo di continuare ad essere un lettore sospettoso anche d’ inverno. Se proprio è necessario, mi aiuterò alzando al massimo il riscaldamento di casa.
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ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E PEDAGOGIA: "SAPERE AUDE!" (ORAZIO-KANT). Ripartire dalla Costituzione e dalle lezioni delle 21 "Moschettrici" dell’Assemblea Costituente: "Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani" (don Lorenzo Milani).
FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO.
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora” (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
Sul tema, si cfr. L’Arca dell’ Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech. La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”.Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
ITALIA 1922-2022.
ITALIA 1922-2022. Che storia! E che storiografia! E che scuola! E che educazione civica e linguistica... Ma dove sta la logica e il diritto? E la filologia? A quando un bel convegno costituzionale sulla #mistica del PNF, del Partito Nazionale Fascista?!
Quando si parlerà dell’universalismo sovranista 1 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare: forza...Italia) e dell’universalismo sovranista 2 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare l’Inno della Nazione: fratelli di ...Italia)?
Ancora "Avanti, o popolo"!?
Cosa si aspetta la fine della storia? Ma la #critica del "platonismo per il popolo" non ha con-vinto e il #muro non è crollato?! Era solo una illusione?!
Forse è meglio uscire dal #letargo (Par. XXXIII, 94) .... e riattivare la #memoria: la rivoluzione copernicana è iniziata da tempo (1543) e il "Crepuscolo degli idoli" (1889), come l’ "Interpretazione dei sogni! (1899), è già stato scritto!
Federico La Sala
FILOLOGIA E COSTITUZIONE:
RICORDANDO IL "SAUSSURE" DI TULLIO DE MAURO, UN URLO E UN AUGURIO DI "LUNGA VITA ALL’ITALIA".
Una nota di commento su un "appunto" di Franco Lo Piparo ... *
STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA (Tullio De Mauro, 1963). "Lingua, intellettuali ed egemonia in Gramsci" (Franco Lo Piparo, 1979): "A scanso di equivoci, io non ho votato nessuno dei partiti che hanno vinto le elezioni" (Franco Lo Piparo, "Fascismo: parola da usare con misura, 16 ottobre 2022): forza_Italia! "Lunga vita all’Italia": "Restituitemi il mio urlo" (Huang Jianxiang, "La Gazzetta dello Sport" del 17 luglio 2006:).
"Checché ne dica Umberto Eco" (F. Lo Piparo, cit.), in onore della vertiginosa saggezza umana e politica della senatrice Liliana Segre, forse, è meglio ricominciare a riflettere da capo, proprio dal "CAPO" (questo il titolo di un articolo di Antonio Gramsci , del 1° marzo1924), sul "principio del Fuhrer" (Führerprinzip), e portare avanti i lavori sulla "storia linguistica dell’Italia unita". Da ricordare, inoltre, che il lavoro sulla "Psicologia delle masse e analisi dell’io" di Sigmund Freud è del 1921.
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Intervista.
Gerardo Bianco: elezione del capo dello Stato? Rischio svolta autoritaria
L’ex ministro Dc sulla proposta del centrodestra: presidenzialismo stravolge la Costituzione. Serve un risveglio dei cattolici, le parole del Papa in Canada erano rivolte a noi
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 2 agosto 2022)
«Il presidenziasmo? Sarebbe uno stravolgimento della Costituzione. In nome del populismo si seppellisce la nostra democrazia parlamentare, e potrebbe diventare l’avvio di una svolta autoritaria». Gerardo Bianco, passati i 90 anni, dedica la sua vita alla lettura e a tenersi informato. Nella gloriosa Dc è stato tante cose (capogruppo alla Camera più volte, ministro della Pubblica istruzione) e poi è stato segretario del Partito popolare.
Considerato uno degli storiografi più autorevoli di questa cultura politica, oggi ai margini dalle proposte politiche che vanno per la maggiore, si dice preoccupato per una «carenza di consapevolezza » che registra fra i cattolici, una sorta di mix di delusione e diserzione. -Il suo ragionamento parte da lontano. Da quello che il Papa ha inteso dirci con la sua visita in Canada: «Al di là della rappresentazione mediatica poco più che folkloristica, essa è stata un rivolgersi a noi, come San Paolo ai Colossesi, un invito a tutto l’Occidente a non smarrire sé stesso. Proprio la nostra crisi di identità ha consentito a Putin di scatenare la sua offensiva, un tentativo di disgregazione in atto che è di carattere culturale prima che bellico».
E questo c’entra con la campagna elettorale?
C’entra eccome, perché nei confronti di un popolo che sembra aver smarrito la sua identità la politica rispolvera il vecchio motto latino panem et cicencences, con proposte prive di una visione solidale, d’insieme, volte solo a catturare fasce di consenso sociale. La tradizione politica dei cattolici è un’altra cosa, non può nemmeno rifugiarsi in un’acritica idolatria del Pil, mentre ancora una volta il Papa ci sollecita a superare un consumismo sfrenato, indifferente al futuro del pianeta.
Che cosa occorre invece?
Serve un risveglio dei cattolici. Una nuova presa di coscienza. I grandi assenti sono i temi delle ultime Settimane sociali, delle grandi encicliche. Manca una vera consapevolezza del ruolo svolto dai cattolici nell’unità d’Italia, e nella promozione del progetto europeo.
Forse un momento così difficile lo si può paragonare solo al primo dopoguerra e agli anni di piombo.
Quella uscita dalla guerra era un’Italia poverissima, che seppe aprire una prospettiva di crescita, non basata su un’idea di benessere per il benessere, ma sulla sua forza morale. Penso al ruolo, umile ma dignitoso, svolto sul piano internazionale da De Gasperi nell’opera di ricostruzione; penso al sacrificio di Moro e al suo insegnamento negli anni di piombo, ma penso soprattutto al ruolo svolto da grandi costituenti come Dossetti, La Pira, Mortati, Fanfani, lo stesso Moro. Che seppero imprimere alla nostra Carta costituzionale il principio della centralità della persona umana. E ai movimenti anti-sistema seppero opporre la centralità dei corpi intermedi, un concetto di cui vedo scarsa consapevolezza, anche fra i cattolici.
Ma il problema della governabilità richiede, e non da oggi, una riforma delle istituzioni.
Se l’obiettivo fosse davvero questo sono altre le proposte da prendere in esame: ad esempio il modello del cancel-lierato, molto più compatibile con il nostro impianto costituzionale, e la sfiducia costruttiva, che imporrebbe a chi mette in crisi un governo di indicare contemporaneamente una soluzione alternativa.
E il presidenzialismo?
Si muove in tutt’altra direzione, mira proprio al superamento dei corpi intermedi su cui si basa il nostro assetto istituzionale. Un concetto mutuato dalla Dottrina sociale cristiana, richiamato già dalla Rerum novarum, di cui pochi si ricordano, in diretto collegamento alla centralità della persona umana che in questi organismi sviluppa la sua libertà, anche in nome del principio di sussidiarietà inserito nella nostra Carta costituzionale. Si vorrebbe ora passare a un modello, il presidenzialismo, che ha mostrato ovunque i suoi limiti: lo si è visto negli Usa, ma nell’America del Sud è stata la strada che ha aperto a una deriva istituzionale gravissima, che pari pari rischia di ripetersi in Italia.
Il centrodestra ha vinto già altre volte, in Italia.
Stavolta a vincere non sarebbe il centrodestra, ma la destra. E il vero rischio che vedo è lo stravolgimento della Costituzione, se avesse i numeri per poterlo fare da sola.
A sinistra quali rischi vede, invece?
Vedo il rischio del riproposi di modelli ormai superati, che hanno poco a che vedere con un’impostazione come la nostra. Mentre trovo giusto, invece, che essa porti alla luce le istanze dei ceti più deboli, come è naturale che altre forze portino avanti soprattutto quelle dei ceti produttivi. Poi toccherebbe a noi, come cattolici, il favorire - in nome del bene comune - che si tenga conto di tutti i fattori in gioco, senza idolatrare nessuna ideologia o classe sociale. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di una nuova presenza, e di un nuovo protagonismo, da mettere in campo.
CINEMA, FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA
IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ.
Una lezione della regista Cristina Comencini ... *
Quirinale, l’ironico appello di Cristina Comencini: "Noi donne cediamo il passo: ora un uomo alla presidenza della Repubblica"
La provocazione della regista sulla prossime elezione del nuovo capo dello Stato: "Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo"
di Cristina Comencini (la Republica, 16 Gennaio 2022)
"Le donne italiane chiedono a gran voce finalmente un presidente della Repubblica uomo. Dall’alto della loro secolare esperienza al potere le donne dicono che è l’ora di cedere il passo agli uomini almeno per un tentativo, per una prima volta. Se l’esperienza deluderà, li si escluderà ancora per qualche decennio dalla carica, finché si saranno dimostrati pronti a esercitare con soddisfazione la più alta responsabilità dello Stato. Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo. Ma non abbiate paura, non diamo loro una fiducia cieca, un mandato senza condizioni. Poniamo invece delle caratteristiche e dei valori precisi che non siamo ancora certe siano caratteristiche del loro genere".
"Prima di tutto una grande e estesa cultura, avere esperienza della politica ma anche competenze giuridiche e costituzionali, avere conquistato una stima e un apprezzamento ampio ben oltre i confini di un’area politica, essere in una rete di relazioni pubbliche ma anche nella società civile, avere capacità di mediazione e di pacatezza. Insomma saranno considerati solo i molto meritevoli e non saranno accettati perché uomini ma perché avranno dimostrato di essere eccellenti. D’altronde non cediamo volentieri il potere esercitato per tanto tempo a chiunque, ma siamo obbligate almeno a proporlo, è un fatto di civiltà, non si può aspettare ancora. Siamo d’accordo, in via di principio, che un uomo prenda il posto di una donna, ma intendiamoci non è obbligatorio. Noi siamo talmente forti ed esperte che sarà difficile trovare un uomo all’altezza. Siamo legate una all’altra in un patto d’acciaio consolidato nei secoli. Ma intanto nessuno potrà rimproverarci di non averlo dichiarato, di non essere al passo con i tempi. Allora diciamolo senza paura, tanto non succederà: un uomo alla presidenza della Repubblica. Bisogna guardare il rovescio per capire il dritto".
* IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ. Una lezione della regista Cristina Comencini...
Brillante sollecitazione ...
BENE, BENE! “Bisogna guardare il #rovescio per capire il #dritto" - e il DIRITTO. La COSTITUZIONE e l’antropologia, non l’andrologia!
...UN FATTO DI CIVILTÀ. Che si cominci: si tratta di riequilibrare antropo-logica-mente la bilancia stessa dell’esistenza e uscire dall’orizzonte tragico della cosmoteandria - come da indicazioni di Dante 2021 (e da Virgilio-Freud: dall’ Acheronta Movebo, fin nel più alto dei cieli).
EARTHRISE (24 dicembre 1968). Che si sappia e si abbia, finalmente, la visione del Sorgere della Terra...
Che l’Italia viva!
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Tina Anselmi, prima ministra donna nella storia repubblicana
29 luglio 1976
di Caterina Segata (Il Mulino, 29 luglio 1976)
Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale nel terzo governo Andreotti, prima donna nella storia della Repubblica italiana. Una data che rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione femminile in Italia, un percorso lento e sofferto verso una parità di genere che ancora oggi non si può certo dire sia un traguardo raggiunto nella famiglia, nel lavoro e nella vita politica.
Nei quarant’anni successivi a quella nomina, la quota di donne ministre è sempre stata minoritaria; mai una donna è stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio dei ministri, e in alcuni ruoli chiave dei governi le donne sono state finora assenti o quasi.
Tina Anselmi nella sua autobiografia, Storia di una passione politica, scritta nel 2006 insieme ad Anna Vinci, invita alla perseveranza: “Io ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, come lo dicevo alle filandiere del Veneto nel dopoguerra, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza. Noi non possiamo abdicare, dobbiamo ogni giorno prenderci la nostra parte di responsabilità, perché solo così le vittorie che abbiamo ottenuto diventano permanenti” (p. 87).
La storia di Tina Anselmi è quella di una donna perseverante sin dall’adolescenza. Di una ragazza di diciassette anni partigiana, staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti, coraggiosa e forte, che dall’esperienza della guerra, della morte e della lotta contro il nazifascismo prese il coraggio per un impegno politico fondato sui valori della libertà e della democrazia. Quella storia ci racconta di una donna nata nel 1927 a Castelfranco Veneto e poi vissuta per gran parte della sua vita attiva a Roma, al fianco di Moro e Zaccagnini, suoi punti di riferimento insieme a De Gasperi. Ci racconta di una nomina a ministra meritata e motivata da un lungo percorso politico: sindacalista, incaricata nazionale dei giovani della Dc nel 1950, nel 1951 nel Consiglio nazionale del partito, eletta deputato nel 1968, Sottosegretaria al lavoro nel quinto governo Rumor e nel quarto e quinto governo Moro in continuità da marzo 1974 alla nomina a ministra. Un percorso che proseguirà con alti e bassi: la riforma sanitaria, la legge sulla parità nel lavoro, la riforma del diritto di famiglia ma anche gli anni di piombo, il rapimento Moro a pochi giorni dal suo secondo incarico ministeriale alla Sanità, gli attentati, le uccisioni che colpirono la classe dirigente di allora, fino all’incarico da lei considerato il più difficile a capo della Commissione parlamentare sulla P2 assunto il 9 dicembre 1981 e terminato il 10 luglio 1983, ben oltre i sei mesi inizialmente previsti dalla legge che la istituiva.
Nel libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2016), sono riprodotti gli appunti che lei prendeva nel corso delle audizioni in commissione e negli incontri successivi, a partire da quello con Nilde Iotti il 30 ottobre 1981, in cui l’allora presidente della Camera le propose di assumere la presidenza della commissione inquirente. Ma riemergono alla memoria grazie alle pagine dei sui diari anche documenti come l’intervento di Tina Anselmi alla Camera dei deputati il 9 gennaio 1986, oltre ai contributi di Dacia Maraini, Giovanni Di Ciommo (segretario della commissione di inchiesta) e Giuliano Turone, il magistrato che insieme a Gherardo Colombo dispose la perquisizione che portò al ritrovamento dell’elenco degli aderenti alla P2, oltre 900 nomi riportati in appendice al libro. Quei diari ci riportano a tratti un mondo surreale, per quanto tristemente noto.
L’immagine che traspare è quella di una persona laboriosa, sobria, dedicata; quel genere di persona che fa la differenza attraverso l’impegno e il lavoro, intenta a bere un calice amaro: guardare in faccia e ascoltare le voci di uomini - pochissime le donne - che raccontano una storia parallela alla vita democratica, coperta, segreta, fatta di sotterfugi, di doppi giochi, di commistione tra potere politico, finanziario, imprenditoriale, giudiziario; guardare in faccia l’ombra, i depistaggi, le bugie, le macchine del fango, per portare alla luce i rischi per lo Stato. Suonano forti le parole dette alla Camera il 9 gennaio 1986 a poco meno di tre anni dalla conclusione dei lavori della Commissione: la Loggia P2 è stata un sistema sofisticato e occulto di controllo, condizionamento e manipolazione della democrazia.
La potremmo immaginare stanca, smarrita e disillusa, ma invece la ritroviamo salda nei suoi principi, perseverare nello sforzo e nell’impegno, spronare ancora negli anni a seguire le persone all’impegno e alla determinazione, anche in politica. Fede e ragion di Stato e un percorso lungo nelle istituzioni, di cui con ogni probabilità vedeva e si teneva salda ai punti di forza pur non negando i punti di debolezza. Emblematiche a questo proposito le parole di apertura dell’intervento parlamentare che sottintendono quanto e cosa Tina Anselmi si aspettasse davvero dalla classe politica che la stava ascoltando: “Onorevole Presidente, Onorevoli colleghi, signor Ministro, voglio esordire osservando che la vicenda della Loggia massonica P2 è stata per lungo tempo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica [...]; com’è altrettanto indubbio che, successivamente alla relazione, nessuno dei temi politici che in essa venivano enucleati e analizzati è stato oggetto di ulteriore riflessione e dibattito”.
Quei diari hanno il grande pregio di raccogliere le parole delle persone e cercare di dare il nome, che hanno, alle cose. Uno sforzo preciso, che richiama doti di coerenza tra pensiero e azione e appunto di perseveranza nell’azione politica anche davanti a un potere declinato al maschile che offre di sé la peggiore delle immagini.
Il valore che Tina Anselmi riconosceva alla libertà della persona e alla possibilità di autodeterminazione appare declinato nella sua vita politica con la moderazione, la laicità e l’accettazione della diversità di opinioni e di visioni del mondo, in una regolata e rispettosa dialettica democratica. Una fiducia nella forza delle istituzioni democratiche incrollabile e una buona dose di gioia di vivere: “Io non sono una che rimugina sul passato. O si lamenta. Fortunatamente la gioia di vivere mi è sempre stata alleata. Ieri come oggi. Chissà, oggi anche di più. Oggi che sono vecchia” (Storia di una passione politica, cit., p. 142).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DEMOCRAZIA, BUONA EDUCAZIONE, E RISPETTO PER LA REPUBBLICA. LA LEZIONE DI TINA ANSELMI.
FLS
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema .
Federico La Sala (20 giugno 2019)
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Gli italiani vogliono il leader forte, piace la democrazia senza partiti
Oramai soltanto l’8% esprime fiducia nelle formazioni partitiche. Quattro su 10 pensano che la democrazia possa funzionare anche senza di loro. Un mutamento iniziato nel 1994
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 27.01.2019)
La "nostra" democrazia sta cambiando. Non da oggi. Ma, da qualche tempo, i segni del mutamento appaiono più evidenti. In Italia come (e più che) altrove. Mi riferisco, specificamente, alla democrazia "rappresentativa". E, in particolare, al declino dei partiti. Il principale canale della rappresentanza. La "democrazia dei partiti", che abbiamo conosciuto nel corso del dopoguerra, si è trasformata in "democrazia dei leader". Anzitutto, perché i partiti si sono "personalizzati".
Soprattutto, a partire dagli anni Novanta, dopo il crollo della Prima Repubblica. E dei partiti che l’avevano accompagnata. La svolta, allora, venne segnata da Silvio Berlusconi.
L’imprenditore dei media, presidente del Milan, che divenne imprenditore politico.
Giusto 25 anni fa, nel 1994, "scese in campo", mutuando tecniche e linguaggi dall’impresa e dal calcio. Fondò "Forza Italia" e denominò "azzurri" i suoi elettori. FI apparve subito un "partito personale" - come lo definì Mauro Calise. Ideologia, organizzazione, dirigenti: tutti espressi da Berlusconi.
Riconducibili alla sua persona.
Alle sue aziende. Forza Italia era - e rimane - il "partito di Berlusconi". Il Partito del Capo (definizione di Fabio Bordignon). Un modello riprodotto da altri soggetti politici. Con alterno esito. Ma, in una certa misura, tutti i partiti, dopo quella fase, si sono "personalizzati". Fino a divenire, talora, "personali". In-distinguibili dalla persona del Capo.
Basti pensare, per primo, al partito, anti-berlusconiano, per definizione. L’Italia dei Valori. Il partito "di" Antonio Di Pietro. Magistrato simbolo di "Mani pulite". Censore implacabile dei conflitti di interesse del Cavaliere. L’IdV agisce in simbiosi con Di Pietro. A sua immagine. Mentre "scendono in campo" altri "partiti personali".
Su basi diverse. Alleanza Nazionale, ad esempio, nasce nel 1995. A destra. Per superare il retroterra e il marchio post-fascista del MSI. Per andare oltre, Fini "personalizza" il partito. Lo trasforma nel Partito di Fini.
Lo stesso percorso avviato, successivamente, da Mario Monti. Dopo l’esperienza di governo, dal novembre 2011 al dicembre 2012, si presenta alle elezioni del 2013 a "capo" di una coalizione centrista, de-nominata: "Con Monti per l’Italia". Intorno a "Scelta Civica". Il suo "partito personale".
Gli unici partiti "im-personali", fino a pochi anni fa, erano quelli con radici storiche più profonde. In primo luogo, il Partito Democratico. Sorto nel 2007. Dalla convergenza della Margherita e dei DS. Post-Democristiani e Post-Comunisti. Insieme. Un Post-Partito, per echeggiare un testo di Paolo Mancini. Confluenza di due partiti "condannati", nella Prima Repubblica, a guidare il governo e l’opposizione. L’uno contro l’altro. Fino alla caduta del muro.
Anche la Lega proviene dalla Prima Repubblica. Sorta dalle Leghe regionaliste, negli anni Ottanta e, soprattutto, dalla Lega Nord per l’indipendenza della Padania, negli anni Novanta. Guidata da Bossi e, quindi, da Maroni. Tuttavia, nell’ultimo decennio, entrambi, PD e Lega, si sono "personalizzati". Il PD è divenuto PDR. Il Partito di Renzi. Mentre la Lega si è trasformata "radicalmente". Matteo Salvini l’ha de-territorializzata. La Lega Nord è divenuta Nazionale. E sovranista. Ha occupato lo spazio lasciato vuoto, a Destra, da FI e da AN. E Salvini le ha dato il suo volto.
Infine, c’è il M5s. L’ultimo arrivato. Un non-partito. Collettore dei ri-sentimenti politici. Privo di una specifica connotazione "personale". L’unica figura in grado di identificarla è (stato) Beppe Grillo. Un anti-politico per definizione. Leader della "comunicazione" post-televisiva. Della dis-intermediazione, prodotta da internet e dai Social.
Così, è possibile leggere la storia recente della politica e della democrazia in Italia come un percorso "oltre" i partiti. Orientato dall’ascesa dei leader.
Oggi i "partiti" sono largamente declinati. Solo l’8% degli italiani esprime fiducia nei loro riguardi. Mentre oltre il 40% pensa che la democrazia possa funzionare anche senza i partiti.
E quasi 6 elettori su 10 (sondaggio di Demos, dicembre 2018) sostengono la necessità di "un leader forte a guidare il Paese". I più convinti: gli elettori della Lega: oltre 8 su 10. Poi, gli elettori di Forza Italia (76%).
Ispirati dall’inventore del modello. Quindi: la base del M5s. Un non-partito, che non dispone di "un leader forte". Ma beneficia del sentimento anti-partitico diffuso. Mentre i suoi elettori si affidano all’unico vero "leader forte" al governo. Matteo Salvini. Si spiega anche così il loro ripiegamento elettorale, in questa fase.
Il Pd, infine, soffre della crisi post-PdR. Doppiamente. Perché è difficile, per non dire impossibile, per una base elettorale che ha memoria dei "partiti di massa" sentirsi a casa in un partito personale. Il PdR. E perché nessuno degli attuali candidati, in corsa alle Primarie, appare in grado di "personalizzarlo". (Per fortuna...).
Così, la nostra democrazia si sta trasformando alle fondamenta. I partiti, vecchi e nuovi, si stanno personalizzando. E, per questo, l’intero sistema politico è divenuto instabile. Perché i partiti personali sono legati ai leader. Sorgono e affondano assieme a loro. Com’è avvenuto a IdV, Scelta Civica, AN. Alla stessa FI. Mentre il PD ha sofferto e soffre della propria mutazione in PdR. Quanto al M5s, risente del "minor tasso di personalità" rispetto alla Lega di Salvini. E la stessa Lega: cosa (ne) sarà dopo Salvini?
In generale, è evidente che la democrazia italiana si sia personalizzata. Insieme ai partiti. Spinta dai media. Vecchi e ancor più nuovi. Dalla TV, dalla rete, dai social. Così, stiamo diventando una "Repubblica personale". Di fatto. In modo im-personale e in-consapevole.
La democrazia svanisce se diventa illiberale
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 29.08.2018)
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il primo ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che «i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza» e che «i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona». Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
Ha inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una «costituzione incostituzionale» e il «Washington Post» qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese «la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi». Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una «democrazia illiberale». Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale.
La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo.
Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua «Storia del liberalismo europeo», i principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, «una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile». Una «democrazia illiberale» non è una democrazia.
Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a «promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri «compagni di strada» ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un «incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo», ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano?
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E MINORANZE LINGUISTICHE: L’ITALIA RIDOTTA AL SILENZIO.... *
L’allarme. Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel silenzio
In Italia ce ne sono varie e molte vanno sparendo: walser, tabarchino, arbëreshë, ladino, grico, occitano. Ma in alcuni casi il recupero oltre che identitario diventa motore di sviluppo economico
di Chiara Zappa (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Da Pecetto, la più alta tra le nove frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser, tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata, l’arbëreshë, l’albanese portato nel ’500 dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana.
O come il tabarchino, che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka, in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla "madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare dell’italiano, così come l’occitano e il grico del Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro 18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo. -«La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che, consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche. Nel momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare, che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848, quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e politici.
Si tratta di identità ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli. Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo. Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi della Grecia salentina si comincia a pensare che il recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica. «In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di correre, se non si vuole scomparire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE... *
Un banco di prova per tutti.
Genova e adesso fatti e stile
di Francesco Ognibene (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Non è faccenda che si archivia in fretta, questa di Genova, e non solo per la vastissima impressione suscitata dal crollo del ponte Morandi in un Paese appena entrato nella pacificante quiete ferragostana. Rimuovere le immani macerie, ricostruire la complicata trama delle possibili responsabilità, ipotizzare e mettere in opera un manufatto durevole che possa rimpiazzare il viadotto sventrato richiederà tempo, e per una ferita di questa portata è il caso di chiedere soluzioni certo solerti, ma non spicciative. Va dunque risolutamente accantonata l’illusione di poter archiviare nel giro di qualche giorno la tragedia di martedì relegando alla svelta la notizia nella categoria dei traumi violenti ma momentanei, o delle grane locali. Prendiamo bene le misure dell’accaduto. Quello che si è consumato non è un incidente casuale o naturale, è una sciagura scatenata da un manufatto umano, che oltre a mietere decine di vite in modo crudele ha travolto una struttura che pompa ossigeno da e verso un’area produttiva del Paese, col rischio di stringere il collo di uno dei porti più grandi del Mediterraneo, di una straordinaria città e di una buona metà della Liguria.
Ma c’è anche dell’altro che va colto dentro e attorno lo scenario d’apocalisse del Polcevera. È proprio ascoltando la profonda emozione diffusa tra gli italiani - un misto di cordoglio, angoscia, indignazione e interrogativi non liquidabili con risposte a buon mercato - che va cercato l’atteggiamento doveroso in questa situazione tanto aspra. Avvertiamo tutti il dovere - nostro, di chi ci rappresenta, di quanti sono più direttamente coinvolti nei molti snodi della vicenda - di essere all’altezza di giorni duri nei quali si sente gravare su tutti il peso di una tragedia che come altre volte nella nostra storia recente ci fa sentire più che mai comunità nazionale, solidali nel dolore con chi patisce una perdita, una ferita, la lacerazione di dover lasciare casa propria forse per sempre, l’incertezza sul lavoro e il domani. Genova soffre e l’Italia soffre con lei, la abbraccia e insieme ne scruta la reazione, come sempre sobria e operativa.
Le parole misurate degli sfollati e della gente, mai sopra le righe o genericamente recriminatorie, ma neppure rassegnate o irose, sembrano indicare al Paese in ogni sua componente che davanti all’inimmaginabile la sola risposta proporzionata è badare all’essenziale, tenendo alla larga le polemiche frontali e le dichiarazioni roboanti in cerca di fugace consenso (ancora troppe, però, e suonano offensive quando parenti in angoscia attendono che sia trovato il corpo di un loro caro).
Silenzio, ci vuole, e misura e condivisione di un dolore che è di tutti. Chi rumoreggia in un campo e nell’altro (se ha un senso dividersi in ore come queste) pare rimuovere un dato che invece vorremmo vedere chiaramente compreso e interiorizzato, trasparente nei gesti e nelle parole, nelle strategie operative e nelle decisioni che ci attendono. La modernità di un Paese è giustamente evocata come il parametro che rende intollerabile il collasso di un’infrastruttura strategica costruita appena mezzo secolo fa, ma si misura non solo in trafori o ferrovie.
Altro serve per dirsi evoluti che la padronanza di tecnologie costruttive che peraltro da tempo vedono le nostre imprese spuntare in tutto il mondo appalti di opere ben più vertiginose. A Genova si tratta di affrontare un nuovo esame di maturità che è per tutti, ognuno in proporzione al proprio ruolo. E per superarlo è uno stile che ora serve, e che proviamo a riassumere in tre parole. Ci vuole anzitutto compostezza nel modo di accostarsi alla dimensione di un fatto che è insieme umano e materiale, sapendo unire comprensione delle ferite da sanare e capacità di vedere tutti gli aspetti di un problema che coinvolge vita quotidiana, mobilità, lavoro, economia, turismo. Impegnarsi a vedere oltre le macerie il futuro e ciò che occorre a costruirlo conferisce la serietà e il rigore adesso imprescindibili, e che mettono in fuori gioco protagonismi e recriminazioni.
Ci vuole anche concretezza nel saper cogliere ciò che va fatto davvero, un passo dopo l’altro, senza la furia di mostrarsi a conoscenza di soluzioni che tutti sappiamo complesse quanto l’immenso guaio che si è prodotto. È solo così che si sarà in grado di agire nei tempi giusti, con una visione progettuale, senza improvvisare e sapendo mettere insieme competenze e risorse di tutti quelli che possono contribuire, evitando esclusioni pregiudiziali, processi sommari e la caccia a scalpi da esibire sulla piazza.
Ci vuole, infine, consapevolezza della terra che abitiamo, frastagliata e vulnerabile come poche al mondo, e le scosse in Molise poche ore dopo il dramma di Genova e di nuovo ieri sera ce lo hanno bruscamente ricordato. Un territorio così, con una morfologia sofferta e una presenza umana diffusa e laboriosa pressoché ovunque, richiede una cura assoluta delle opere pubbliche soggette a degrado elevato e talora improvviso. È un posto fragile, l’Italia, possibile che siano i morti a dovercelo rammentare? Il Paese maturo che vogliamo abitare non può prescindere da questo stile. La tragedia di Genova può diventare uno di quei momenti in cui abbiamo dimostrato di saper girare al largo dallo sfiancante dedalo delle polemiche faziose per mostrarci capaci di quella forza che di una espressione geografica e politica fa una comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA , TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Crollo del Ponte #Morandi a #Genova, la dichiarazione del Presidente #Mattarella:*
«È una catastrofe quella che ha colpito Genova e l’Italia intera. Su persone e famiglie inermi si è abbattuta una disgrazia spaventosa e assurda.
Il primo pensiero - mio come di tutti gli italiani - va alle vittime, ai feriti, alle sofferenze e alle angosce dei loro familiari. A quanti oggi piangono per i loro cari, desidero esprimere il più sentito cordoglio, la mia vicinanza e, insieme, la solidarietà della Repubblica.
Un caloroso ringraziamento rivolgo a coloro che - sulle strade, tra le macerie, negli ospedali - si sono immediatamente prodigati e tuttora continuano a lavorare in condizioni di difficoltà, per salvare vite e per recuperare i corpi di chi è stato travolto.
Questo è il momento dell’impegno comune, per affrontare l’emergenza, per assistere i feriti, per sostenere chi è colpito dal dolore, cui deve seguire un esame serio e severo sulle cause di quanto è accaduto. Nessuna autorità potrà sottrarsi a un esercizio di piena responsabilità: lo esigono le famiglie delle tante vittime, lo esigono le comunità colpite da un evento che lascerà il segno, lo esige la coscienza della nostra società nazionale.
Gli italiani hanno diritto a infrastrutture moderne ed efficienti che accompagnino con sicurezza la vita di tutti i giorni.
I controlli, la cultura della prevenzione e l’intelligente ammodernamento del sistema delle comunicazioni, devono essere sempre al centro dell’azione delle istituzioni pubbliche e dei concessionari privati, a tutti i livelli».
*Fonte: Presidenza della Repubblica, Roma, 14/08/2018
TWEET: forza, #Genova - forza, #Italia *
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado». Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
*
CALCIO, POLITICA, E IDENTITÀ NAZIONALE. CASO ITALIA: DAL TIFO PER LA SQUADRA DELLA "NAZIONALE" (1982) AL "TIFO" PER LA SQUADRA DEL PARTITO "NAZIONALE" (1994-2018): AVANTI POPOLO ALLA RISCOSSA, IL populismo TRIONFERÀ....*
Una storia della coppa del mondo
di Daniele Serapiglia (Il Mulino, 25 giugno 2018)
Il 14 giugno scorso ha avuto inizio la XXI edizione della coppa del mondo di calcio. Lo stesso giorno a Parigi presso l’Université Sorbonne Nouvelle si è svolto il congresso: La coupe du monde de Football entre Europe et Amériques. Enjeux, acteurs et temporalités d’un événement global -XX - XXI siècles. A questo evento hanno preso parte alcuni dei più importanti storici del calcio, tra cui Matthew Taylor, Fabien Archambault e Paul Dietschy. Proprio a questi ultimi due fanno riferimento Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti nell’introduzione al loro volume Storia della coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione. I due francesi, infatti, sono con John Foot e Simon Martin i più importanti storici del calcio italiano. Ciò è singolare se pensiamo che, eccetto quelli di Sergio Giuntini, non si possano annoverare altri lavori fondamentali sulla storia del calcio del nostro Paese di studiosi nati nella penisola, ma è anche indicativo di come fino a oggi la storiografia nostrana abbia avuto poco riguardo verso questa disciplina. Eppure, come evidenziano Brizzi e Sbetti, il calcio fin dagli anni Trenta si è imposto in Italia quale fenomeno sociale, mostrando le passioni e le contraddizioni della popolazione, per la quale è diventato un mezzo di espressione identitaria.
In questo senso, l’Italia non era differente dagli altri Paesi europei, che, come sottolineava Hobsbawm, hanno trovato nel calcio una delle cartine di tornasole del proprio nazionalismo. Ciò è ancora più importante se contestualizziamo, come ha fatto Judt in Postwar, questo rapporto tra calcio e identità nazionale nell’ambito della costruzione dell’identità europea. Prendendo in considerazione questi elementi, Brizzi e Sbetti descrivono come il calcio si sia imposto tra le masse e quale ruolo abbia avuto la Coppa del mondo nelle dinamiche politiche globali.
Il libro è diviso in otto capitoli, preceduti dalla breve introduzione e seguiti da una altrettanto sintetica conclusione, con un cenno alla funzione politica dei mondiali di Russia 2018 e di Qatar 2022. Al primo capitolo è demandata la descrizione dei primi tornei internazionali e della prima coppa del mondo (Uruguay 1930).
Il secondo capitolo, dedicato ai mondiali di Italia 1934 di Francia 1938 e al calcio durante la Seconda guerra, si apre con un’efficace nota introduttiva, che problematizza il complesso rapporto tra questo sport e il totalitarismo. Se in altre opere questo tipo di analisi si focalizzava sul ruolo del calcio nella creazione del consenso, nel presente volume essa si concentra sugli elementi contraddittori di questa disciplina, i quali spesso sfuggono dal controllo di qualsiasi tipo di regime.
Il terzo e il quarto Capitolo, dedicati rispettivamente ai mondiali di Brasile 1950, Svizzera 1954 e Svezia 1958 e a quelli di Cile 1962, Inghilterra 1966 e Messico 1970, rappresentano il baricentro dell’opera. Questi offrono le chiavi per comprendere il peso della Fifa e della coppa del mondo nelle politiche internazionali: particolarmente accurata risulta l’analisi del ruolo dei mondiali nella guerra fredda, con particolare attenzione al processo di decolonizzazione. In questo capitolo ben descritta è la nascita del mito brasiliano, attraverso un’accurata analisi del ruolo del calcio nell’affermazione simbolica del “lusotropicalismo”.
Il capito successivo è dedicato ai mondiali di Germania 1974, Argentina 1978 e a Spagna 1982. Significative risultano le pagine sul mondiale argentino, che ebbe luogo durante il regime di Videla. Ovviamente evocativo è il paragrafo su Spagna 1982. Vengono poi narrate le vicende dei mondiali di Massico 1986, Italia 1990 e Usa 1994. La riflessione ruota attorno alla crescita della Fifa di João Havelange con una particolare attenzione al ruolo dei media nelle kermesse mondiali. Ben visibili sullo sfondo delle tre edizioni sono gli epocali cambiamenti sia della politica italiana, con il canto del cigno della Prima repubblica, sia della politica globale, con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione sovietica.
Il settimo e l’ottavo capitolo, infine, sono dedicati alla Fifa di Blatter, dal suo apice al suo declino. Si parla della grandeur di Francia 1998, segnata dal mito dell’integrazione razziale della squadra transalpina; della funzione diplomatica del mondiale di Corea-Giappone 2002; del successo azzurro a Germania 2006 nel mezzo della bufera di Calciopoli. Infine, si discute dei mondiali del Sud Africa del 2010, che furono caratterizzati dall’ultimo saluto al mondo di Nelson Mandela, e di quelli fallimentari di Brasile 2014, che mostrarono le prime crepe nella stagione politica segnata dal governo del Partido dos Trabalhadores.
A causa della lunga periodizzazione, questo libro non esaurisce le possibilità di ricerca sugli argomenti trattati. Crediamo, però, che non fosse questo lo scopo degli autori i quali, più che altro, sembra abbiano voluto proporre al grande pubblico un lavoro capace di raccontare in maniera semplice l’interconnessione tra politica e coppa del mondo, ma soprattutto hanno voluto dare agli studiosi un valido strumento per sviluppare nuovi studi dedicati alla storia del calcio.
La corposa bibliografia a cui fa riferimento questo volume vede elencate le più importanti pubblicazioni nazionali e internazionali dedicate al calcio, una piattaforma molto utile per la costruzione dello stato dell’arte di futuri lavori sul tema. Ciò è importante soprattutto nel nostro Paese, dove gli storici dello sport spesso hanno trovato difficoltà nel confrontarsi con la letteratura straniera, a causa dell’assenza nelle biblioteche delle più importanti opere degli studiosi inglesi, francesi e americani. Per questo motivo, il libro va considerato un lavoro importante, in particolare per i ricercatori italiani che si cimenteranno in futuro nello studio non solo della storia del calcio, ma più in generale dello sport.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALL’ITALIA E PER L’ITALIA. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, SE NON "DORME" E NON SI E’ FATTO ESPROPRIARE DELLA SUA PAROLA, PROVI A GRIDARE DAL QUIRINALE: FORZA ITALIA!!!, COME E CON IL PRESIDENTE PERTINI. Un appello contro l’indecenza
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ...
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
Mattarella: ’Contropotere Capo Stato per evitare abusi’
Discorso in ricordo di Einaudi. Dopo elezioni 1953 non si avvalse delle indicazioni della Dc
di Redazione ANSA *
"Solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi": questa, secondo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fu una delle "convinzioni più profonde" dello studioso Einaudi che, "sin dal suo messaggio alle Camere riunite in occasione del giuramento ricordò il ruolo di ’tutore’ dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica. Questo un passaggio dell’intervento del Capo dello Stato a Dogliani. Quello del presidente della Repubblica - ha detto - è un ruolo di "tutore dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica".
Einaudi, riferendosi alla prerogativa del sovrano (e, vien da pensare, interrogandosi implicitamente sul ruolo del Presidente della Repubblica), osservava che essa "può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé, non sono capaci di affrontare".
"Cercando sempre leale sintonia con il governo e il Parlamento - ha detto ancora - Luigi Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario".
"Fu il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo le elezioni del 1953 per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Dc", aggiunge.
Era "tale l’importanza che Einaudi attribuiva al tema della scelta dei ministri, dal volerne fare oggetto di una nota, nel 1954, in occasione dell’incontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della Dc, dopo le dimissioni del governo Pella", ha aggiunto Mattarella. "E’, scrisse nella nota, dovere del Presidente evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Carta gli attribuisce".
"Solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi": questa, secondo il presidente della Repubblica fu una delle "convinzioni più profonde" dello studioso Einaudi che, "sin dal suo messaggio alle Camere riunite in occasione del giuramento ricordò il ruolo di ’tutore’ dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica.
* ANSA 12 maggio 2018 (ripresa parziale, senza foto).
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi.
A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte.
Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
Elezioni: 75 simboli ammessi su 103 depositati
Per 19 serve sostituzione o integrazione, 9 sono stati ’bocciati’
di Redazione ANSA*
Primo ’taglio’ per i 103 simboli consegnati lo scorso weekend al Viminale dai partiti che intendono partecipare alle elezioni politiche del 4 marzo. Nove contrassegni sono stati ’bocciati’ per "carenza documentale" e non accederanno dunque alla presentazione delle liste, 75 sono stati ammessi e 19 non ammessi. Chi ha depositato questi ultimi ha 48 ore di tempo per integrarli o sostituirli: tra di loro anche simboli storici come lo scudo crociato della Democrazia Cristiana e la fiamma del Movimento sociale italiano.
Nelle apposite bacheche al piano terra del Viminale è stato inserito il quadro riepilogativo dello stato di tutti i simboli. Due di quelli tradizionali - Dc e Msi - non hanno avuto il via libera perché analoghi ad altri già depositati. Lo Scudo crociato si trova infatti nel contrassegno consegnato da Noi con l’Italia-Udc di Lorenzo Cesa, mentre la Fiamma tricolore è presente in quello presentato da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. E la legge vieta la presentazione di simboli "identici o confondibili con quelli presentati in precedenza ovvero con quelli riproducenti simboli usati tradizionalmente da altri partiti".
Fanno parte dei non ammessi, inoltre, i Forconi, Pensionati Consumatori, Indipendenza del Veneto. Tra i 9 invece definitivamente ’bocciati’ c’è La Margherita - Democrazia è Libertà, Fronte Verde, Ragione e Libertà. La nuova legge elettorale prevede ora che entro 10 giorni (31 gennaio) dalla scadenza del termine per il deposito dei contrassegni, sulla sezione Elezioni trasparenti del sito del Ministero dell’Interno saranno pubblicati per ciascun partito, movimento e gruppo politico organizzato che ha presentato le liste: il contrassegno depositato, con l’indicazione del soggetto che ha conferito il mandato per il deposito; lo statuto ovvero la dichiarazione di trasparenza depositati; il programma elettorale con il nome e cognome della persona indicata come capo della forza politica depositati. Nella stessa sezione, entro 10 giorni (8 febbraio) dalla scadenza del termine di presentazione delle liste dei candidati, saranno pubblicate per ciascun partito, movimento e gruppo politico organizzato, le liste di candidati presentate per ciascun collegio.
[L’intervista]
Il politologo Panarari analizza la cerimonia del deposito dei contrassegni elettorali. Sono più che dimezzati, da 216 a 103, perché “più difficile presentarli” e perché cresce "la distanza rispetto alla politica"
’Grasso è una maglia da indossare come Salvini. Ma la personalizzazione questa volta è un inganno’
di Claudia Fusani, giornalista parlamentare *
Il rito del deposito dei simboli elettorali al Viminale si è concluso ieri pomeriggio alle 16. E’ un rito antico ma non stanco perché, spiega Massimiliano Panarari, politologo, saggista, docente di Comunicazione politica e Marketing politico all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma, è “una convivenza di momenti che hanno a che fare con quello che gli antropologi politici chiamano il rituale elettorale, una vera e propria festa secondo la tradizione, e con il rapporto dei cittadini e la politica”. Complesso, di odio e amore e rabbia, ma a quanto pare, nonostante la crisi della rappresentanza, sempre molto vivo.
Due giorni e mezzo di code ordinate, gente in fila in educata attesa del proprio turno, e il corridoio del Viminale dove sono esposte le bacheche dei simboli trasformato in un piccolo palcoscenico dove ciascun depositante spiegava le ragioni della sua presenza. Non le sembra contraddittorio nell’era dove tutto è digital e social e la selezione del personale politico avviene via web?
"La cerimonia del deposito dei simboli elettorali è una convivenza di momenti. E’ vero che la politica oggi passa sempre di più per l’agorà del web che è una piazza informatica e telematica. Ma sopravvive in ottima salute una tradizione radicata e consolidata al cui successo contribuisce certamente la copertura mediatica di tv e giornali, l’opportunità concreta di visibilità per i leader e anche, soprattutto, una vera e propria liturgia che rinvia all’appuntamento elettorale come una festa, secondo la definizione che ne danno molti antropologi".
Dunque, un fatto comunque positivo?
"Positivo perché in un’epoca di sfiducia e di crisi della rappresentanza la partecipazione e l’attenzione a questo evento significano ancora, per tanti versi, una festa per la democrazia. Dall’altro lato, però, c’è una dimensione quasi di litania e di consunzione e stanchezza, perché molti di quei simboli parlano di tensioni sociali che si perpetuano e di mancate soluzioni ai problemi".
Rispetto al 2013, le ultime politiche, sono stati depositati solo 103 simboli rispetto ai 219 di cinque anni fa. Più che dimezzati, perché?
"Il macrotema resta quello della distanza della politica dai cittadini elettori sempre più sfiduciati che possano arrivare risposte. Il clima è quello dei cittadini che rifiutano i volantini ai banchetti, quindi attivarsi per organizzare la presentazione di simboli elettorali richiede sforzi improbi. Credo però, in ogni caso che i furbetti, quelli che presentavano brutte copie di altri simboli, i disturbatori storici e i presentatori seriali siano stati tenuti lontani da un insieme di tecnicalità che hanno reso la presentazione più complessa e costosa del passato".
Andremo a votare con una legge per 2/3 proporzionale che non prevede l’indicazione del candidato premier. Eppure resistono, forse aumentano, i nomi dei leader scritti a caratteri cubitale nei simboli. Questo è fortemente contraddittorio...
"La risposta è complessa. Ci sono almeno tre motivi. C’è un tema prima di tutto di struttura. Da Tangentopoli a oggi, l’offerta politica non si è mai ridefinita da un punto di vista ideologico-programmatico né sedimentata. Aver cambiato quattro leggi elettorali ne è la prova. In una fase così fluida e di transizione, la valuta di riserva che si continua a far circolare resta sempre il valore e l’appetibilità del leader. E’ una scorciatoia cognitiva che ha attecchito. Voglio dire che anche se si torna a votare con una legge proporzionale, e per quanto il bipolarismo non abbia fatto in tempo a radicarsi, la centralità del leader è stata forte ed evidente. E rimane".
Il secondo motivo?
"I partiti declinano una campagna elettorale in cui utilizzano una comunicazione sintonizzata sul modello maggioritario. L’indicazione del nome del leader o candidato premier nel simbolo è puro storytelling. Chiamiamola pure retorica. Attecchisce perché si parla molto poco di programmi che invece sarebbero decisamente importanti".
C’è un terzo elemento...
"La personalizzazione si è praticamente sostituita all’ideologia. Grasso diventa, in qualche modo, un’ideologia, una maglia da indossare orgogliosi. E così pure Salvini".
Quei nomi hanno tutti funzioni diverse. Vediamoli. Salvini si propone come premier, ma è un falso visto che il Rosatellum non lo prevede e la coalizione non lo ha indicato.
Salvini parla al suo popolo. La Lega è sempre stato un partito molto personale - e leninista, potremmo dire - e quindi il nome del leader ha semplicemente sostituito l’altro, quello di Umberto Bossi".
Berlusconi presidente è, come dire, una grafica che resta fedele negli anni, nulla di nuovo per quanto tutto sia cambiato. Colpisce, piuttosto, che una personalità come Grasso abbia accettato, o dovuto accettare, di comparire enorme nel simbolo. Perché?
"Il nuovo partito di Liberi e Uguali ha bisogno di parlare con voce unitaria e nuova rispetto agli azionisti di maggioranza di quella lista e che vengono tutti dal passato. LeU, tra l’altro, ha una molteplicità di leader essendo la somma di tre forze politiche. Serviva quindi un messaggio unitario e di novità".
Beatrice Lorenzin compare a tutto tondo nel simbolo colorato della lista Civica popolare, confluenza di ben cinque partiti. Qual è il criterio?
"Questo caso colpisce anche di più perché si tratta di una lista con tradizione e vocazione centrista e cattolica, geneticamente refrattaria al leaderismo. In questo caso c’è un effetto trascinamento della scorciatoia cognitiva: quella lista ha bisogno di posizionarsi con un volto perché è ciò che si ricorda più di tutto il resto. Nella comunicazione politica, oggi, c’è un tema importante e strategico di soglia di visibilità".
Una volta la politica era ideologia e non ha sempre avuto un’accezione negativa. Oggi sembra ridotta a scorciatoie cognitive, ai volti, ai nomi dei leader...
"In effetti anche le ideologie avevano la stessa funzione di scorciatoia cognitiva: erano, a loro modo, un processo di semplificazione seppure con un tasso di complessità maggiore. Eravamo nell’era della ’galassia Gutenberg’, contava la parola, meglio se scritta. Oggi - e da tempo - siamo nella società dell’immagine, dalla tv ai social".
Almeno nel simbolo, il Pd invece non personalizza nulla. Come mai?
"La tradizione culturale della sinistra non si è mai trovata a proprio agio con la personalizzazione. C’è stata, invece, un’epoca di forte personalizzazione, e il renzismo è andato in forte conflitto con quella tradizione. Oggi si fa opportunamente un passo indietro e si rilancia l’idea della collegialità della leadership e della squadra. In termini di posizionamento elettorale è una strategia sensata e razionale, che si posiziona in maniera diversa rispetto al mainstream. E’ un’offerta diversa da quella maggioritaria. E però mi pare che si possa vedere anche un altro tema...".
Quale?
"La squadra del Pd ha una guida, un ’primus inter pares’, Gentiloni, la forza tranquilla, non invasiva, che non ama la personalizzazione. Perfetta per le consuetudini della sinistra. Perciò avrebbe senso comunicare un’idea di Pd come forza tranquilla di governo con un candidato che è Gentiloni".
I 5 Stelle nascono con una forte personalizzazione - sono il partito di Grillo - però hanno tolto dal simbolo il nome del comico e puntano tutta la comunicazione su Di Maio presidente. Idee poco chiare?
"I 5 Stelle stanno procedendo ad una sostituzione complessa di una personalità con l’altra. Dove la prima, Grillo, era un performer e uno stand up comedian, l’artista che cambia il suo repertorio in base alle reazioni del pubblico che ha davanti. Passare da uno come lui ad un ’politico politicante’ e con tratti da politico di professione come Di Maio, è un’operazione complessa e per niente scontata. Molti supporter, tra l’altro, non lo vogliono perché tutto ciò si accompagna con una istituzionalizzazione del Movimento. Credo che Di Maio e i 5 Stelle si stiano giocando tutto e in una battaglia one shot. Questa elezione è la battaglia della vita: se non vincono, loro stessi non sanno se potranno tenere alto il consenso".
Centrotre simboli, 99 forze politiche, i principali li abbiamo esaminati. E tutti gli altri?
"Al netto della paccottiglia e del folclore, quelle bacheche piene di simboli sono un termometro del paese che ha una sua validità rispetto allo stato di salute dell’elettorato. Emerge una richiesta irrazionale di ordine e ci sono spunti molto interessanti, del paese reale, dalle start up a W la Fisica, una lista per i cervelli in fuga che predica il predominio della scienza. Sono temi veri, spunti da valorizzare nei programmi".
* Fonte: Notizie-Tiscali, 22 gennaio 2018
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO , SI CFR.:
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!!.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore
Dalla battaglia per la Mondadori con le sentenze comprate dal Cavaliere agli ultimi tentavi di fare impresa assieme
di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 23.11.2017)
Il triangolo no, Berlusconi non l’aveva considerato. Eppure Eugenio Scalfari è riuscito a fare in tv l’elogio dell’ex Cavaliere. “Il populismo di Berlusconi ha una sua sostanza”, ha detto il Fondatore. E alla domanda di Giovanni Floris, “se dovesse scegliere tra Di Maio e Berlusconi, chi sceglierebbe?”, ha risposto senza esitazioni: “Berlusconi”. Il terzo del triangolo è l’Editore, Carlo De Benedetti, che completa un ménage à trois burrascoso ma intenso, che si dipana in quarant’anni di scontri e incontri e scontri. Grandi guerre e improvvise alleanze. In cui, più che il giornalismo, pesano gli affari.
All’inizio - era il 1979 - ci fu un incarico commerciale affidato a Scalfari dalla famiglia Mondadori: vendere a Berlusconi Rete 4, che stava trascinando nel baratro la casa editrice di Segrate. “Berlusconi ci invitò a cena ad Arcore”, raccontò poi il Fondatore, “e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale”.
L’agente commerciale Scalfari portò a compimento il suo mandato: “I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente)... Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani”. E allora la quasi-amicizia si interruppe, perché Eugenio preferiva De Mita. Scalfari sparò contro Silvio - era il 1990 - articoli in cui lo paragonò a Mackie Messer, il bandito inventato da Bertolt Brecht. Anche De Benedetti, intanto, aveva incrociato Silvio sulla sua strada. Nel 1985 aveva cercato di portare a casa a buon prezzo la Sme, industria alimentare di Stato. Bettino Craxi chiese a Berlusconi di bloccare a ogni costo l’operazione. Silvio eseguì: gli preparò una cordata concorrente (Barilla, Ferrero, Fininvest) e l’affare sfumò. I due si ritrovarono a fare i duellanti nella “guerra di Segrate”. La Mondadori era diventata di De Benedetti e Repubblica si era integrata nel gruppo. Ma Silvio si era mangiato tutto, anche comprandosi giudici e sentenza. Poi però aveva accettato di spartire il bottino, lasciando Repubblica e L’Espresso a Scalfari e De Benedetti. Ci fu uno strascico: 50 milioni di lire di spese legali.
Non le voleva pagare nessuno, né Berlusconi, né De Benedetti, né Carlo Caracciolo, il principe editore del vecchio Espresso. “A quel punto dovetti intervenire io”, racconta Scalfari, che propose a Berlusconi un baratto. “Riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali... Il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. Allora sparò un’altra delle sue definizioni: non più Mackie Messer, ma “ragazzo coccodé”, prendendola a prestito da Renzo Arbore.
Nel bel mezzo del ventennio berlusconiano - e dunque anche antiberlusconiano - i duellanti della Sme e della “guerra di Segrate”, De Benedetti e Berlusconi, nemici accerrimi, anche antropologicamente inconciliabili, diventano improvvisamente soci. Nel 2005 De Benedetti fonda la società di investimenti M&C. Mission: salvare imprese in difficoltà. Si diffonde la notizia che vi entrerà, con una quota consistente, anche la Fininvest. La Borsa s’infiamma, il titolo s’impenna, la Consob s’insospettisce e De Benedetti, accusato di insider trading, paga una sanzione di 30 mila euro.
Ma la pubblica opinione, di cui i lettori di Repubblica sono parte, s’indigna: ma come, l’Editore, dopo guerre sanguinose per Sme e Mondadori, fa affari insieme al suo arcinemico? Alla fine Berlusconi si sfila: troppe polemiche, troppe insinuazioni (e forse pochi affari). I duellanti riprendono a duellare. Dopo che una sentenza definitiva stabilisce, nel 2007, che la Mondadori era andata a Berlusconi grazie a una sentenza comprata, De Benedetti avvia una causa civile, chiedendo che Fininvest risarcisca la sua Cir per avergli scippato la casa di Segrate. Porta a casa in primo grado, nel 2009, 745 milioni di euro come “danno patrimoniale da perdita di opportunità di un giudizio imparziale”: a scriverlo è il giudice Raimondo Mesiano, subito messo in ridicolo dalle tv di Berlusconi per via dei suoi imperdonabili calzini azzurri. Nel 2011 il risarcimento a De Benedetti è ridotto a 540 milioni, che diventano 560 con gli interessi. Nel 2013, nuovo ritocco: 494 milioni.
Quando il 29 settembre 2016 Silvio compie 80 anni, Eugenio unisce agli auguri un’autocritica: “Sbagliai, non era affatto il ragazzo coccodé e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni. E ancora non è finito”. E allora: “Oggi dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994”. Del resto, “debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio”. Sarà la comune senescenza a farli tornare più vicini? Ora Eugenio recupera Silvio come populista “di sostanza” contro il populismo senza qualità dei 5stelle. Si chiude il cerchio. Anzi il triangolo.
Costituzione e populismi (ateo-devoto) "di sostanza": W "la Repubblica", W "Forza Italia"!!! ... *
L’inganno sul mio voto a Berlusconi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 24.11.2017)
Cari Lettori, non cadete nell’inganno di chi sfrutta una domanda paradossale («Chi voterebbe tra Di Maio e Berlusconi?») per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai. Martedì scorso ho partecipato alla trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris, dove tornerò martedì prossimo. Rispondendo a una domanda sul tema dell’ingovernabilità, ho detto che in caso di estrema necessità per superare una situazione paralizzante per il Paese il Pd (per il quale io ho sempre votato dai tempi di Berlinguer, dell’Ulivo prodiano e infine di quello costruito da Walter Veltroni) potrebbe essere costretto, come già successo in passato, a un’intesa non di natura politica con Forza Italia, sempreché si separasse da Salvini.
Ipotesi a me sgradita, che è emersa parlando del rischio di ingovernabilità del Paese, tema approfondito ieri sul nostro giornale con molta lucidità da Gustavo Zagrebelsky. Ho poi detto che ai miei occhi sia Di Maio che Berlusconi sono populisti, ma che il populismo del secondo ha perlomeno una sua sostanza. Ma veniamo allo stato attuale dei satti e dei sondaggi, i partiti in corsa sono soprattutto tre: il Pd, i Cinquestelle, la destra di Berlusconi e della Lega di Salvini.
Nelle recenti elezioni siciliane la destra ha largamente vinto, seguita dai grillini e a buona distanza dal Pd, con la sinistra dissidente che aveva presentato una propria lista con risultati lillipuziani. Questa situazione si ripeterà probabilmente nelle prossime elezioni di sine Legislatura che avverranno a marzo o aprile del 2018? Probabilmente sì. Il Pd si rassorzerebbe se la sinistra dissidente e Pisapia e Bonino consluissero sin d’ora nel partito: una sinistra unita probabilmente recupererebbe anche una parte degli astenuti che hanno sentimenti di sinistra lacerati dall’attuale dissidenza. Fassino, incaricato da Renzi, ha tentato in tutti i modi di recuperare la dissidenza, ma non è riuscito. Forse Pisapia, ma è ancora molto incerto.
Il tema dell’ingovernabilità è dunque ancora dominante, se nessuno dei tre maggiori partiti assronterà le elezioni della prossima primavera nella situazione attuale, il Paese non avrà un governo legittimato dal voto. Il Centro si orienterà verso la destra ma anche in quel caso un governo Berlusconi- Salvini non avrà la maggioranza, durerà qualche mese dopodiché le elezioni dovranno ripetersi. Ci troviamo purtroppo nella stessa situazione della Germania di Angela Merkel.
Ma c’è un’altra evidenza da sottolineare: così come sta accadendo per la Germania, anche un’Italia sballottata dall’ingovernabilità non conterebbe più nulla in Europa con tutte le conseguenze del caso. La mia risposta nella trasmissione televisiva a Floris era chiaramente motivata da quanto sta accadendo: se l’ingovernabilità prosegue così come le previsioni e i sondaggi attuali consermano, la maggioranza relativa sarà certamente del centrodestra, Salvini compreso ed anzi preponderante.
Ovviamente io non voterò mai Berlusconi, ma con quel tanto di esperienza che gli anni hanno largamente ampliato, la situazione è quella che ho qui esposto.
Come c’era da aspettarsi sono stato ricoperto di insulti dai grillini rappresentati nel Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma considero quegli insulti come una sorta di Legion d’onore. Quanto alla sinistra dissidente, ci pensi bene prima di risiutare le aperture di Renzi nei suoi consronti. Da parte loro è un litigio di comari, come si diceva un tempo. La politica è la prima delle attività dello spirito. Lo dimostrarono Platone e soprattutto Aristotele. Sarebbe opportuno leggerli. L’ho consigliato a Renzi e spero l’abbia satto. A Berlusconi è inutile suggerirlo, la lettura non sa parte della sua attività. Gli consiglio soltanto di piantare Salvini: meglio soli che in pessima compagnia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
Federico La Sala
Considerazioni di un politico. Quando Thomas Mann non salvò la democrazia
Tornano, con un saggio di Giorgio Napolitano, i “Moniti all’Europa” del grande scrittore tedesco.
Orazioni civili per fermare la caduta di Weimar.
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 13 novembre 2017)
Documento storico di eccezionale importanza per la comprensione del “suicidio” politico d’Europa tra le due Guerre, delle ragioni dell’affermazione e del destino del regime nazista, della crisi di civiltà di cui esso fu espressione, ma ancora testimonianza dell’amore consapevole e tormentato di un grande intellettuale europeo per la sua patria, mai tanto amata quanto nell’angoscia di doverla abbandonare e, anzi, nel doverne auspicare la tragica disfatta.
Tutto questo significano i discorsi e i saggi politici di Thomas Mann, che Mondadori presentò ai lettori italiani nel 1947, con il titolo “Moniti all’Europa”, e che ora riedita con una introduzione di Giorgio Napolitano, che è un monito per noi, per il nostro presente, e, a sua volta, testimonianza di una straordinaria esperienza culturale, politica e umana, segnata da drammatici interrogativi e amare inquietudini. Questo “dialogo” tra due coscienze apparentemente lontanissime, ma in realtà e nel profondo amiche sia nel disincanto che nella speranza sul futuro d’Europa, rende il libro davvero necessario.
Nessuno potrà mai comprendere il dramma del dopoguerra tedesco e la crisi della Repubblica di Weimar, già immanente all’atto della sua fondazione, se non mediterà sul grande discorso Della repubblica tedesca tenuto da Mann a Berlino nell’ottobre del 1922. Gli sta alla pari forse soltanto quello di Max Weber agli studenti di Monaco durante la rivoluzione del ’18. È l’appello alla ragione, al realismo politico, alla sobrietà del discorso contro l’attivismo tumultuoso e impaziente; è l’appello alla forma contro l’impeto della vita che vorrebbe non riconoscere altro ordine, altro limite che quelli dell’espressione della propria potenza. In Weber parla la responsabilità politica, della politica come alta vocazione.
In Mann, che è trascinato nell’agone politico dalla guerra, che è costretto alla politica dalle tragedie dell’epoca, parla quella che per lui è la fondamentale tradizione, l’eredità del pensiero tedesco, la cui catastrofe coinciderebbe con la rovina della stessa Germania. Di fronte a entrambi i giovani - giovani che non li comprendono, estranei al loro linguaggio.
Il discorso di Mann è continuamente interrotto. A leggerlo si rivive un autentico dialogo tragico. Quale sofferenza maggiore di quella di uno scrittore, di un poeta che si ritiene e si vuole profonda espressione della propria terra, il quale si scopre senza figli, vede sterile la propria arte, e proprio a conclusione di un immane conflitto in cui egli si era schierato per la vittoria tedesca in quanto vittoria dello spirito e della cultura contro le potenze impersonali, sradicate, puramente tecnico- economiche della civilizzazione? Eppure dalla sofferenza occorre imparare. La prospettiva delle Considerazioni di un impolitico del 1918, le idee anti-politiche e anti-democratiche di quell’opera, alimenterebbero ora soltanto spiriti reazionari, nazionalismi esasperati e impotenti. Tuttavia Mann non abiura, «io non revoco niente. Non ritratto nulla di essenziale».
Questo punto è di fondamentale importanza. Esso segna la grande differenza del poeta tedesco con un altro intellettuale europeo che per tanti versi potrebbe apparirgli affine (e tale affinità certamente avverte Giorgio Napolitano), Benedetto Croce. Croce è del tutto estraneo alla temperie ideologica delle Considerazioni. Mann “emerge” dal loro crogiuolo infuocato e continua a portarne in sé tutti i “veleni”. Mann si è formato in Schopenhauer, in Nietzsche, in Wagner; il suo Goethe era il Goethe di costoro. Non li potrà mai abbandonare, ma re-interpretare e rivivere soltanto. Croce sembra invece ignorare la radicalità della crisi del pensiero europeo a cavallo del secolo; per lui non si tratta che di un tragico intervallo irrazionalistico in quella storia dell’affermazione dell’idea di libertà che è «la luce e l’anima dell’Occidente»( Mann).
Mann ne riconosce, invece, la necessità storica; le voci che l’hanno agitata né possono né debbono venire dimenticate. Esse esprimono una verità - ma questa deve essere diversamente ascoltata. È l’impervia impresa che egli tenta nel discorso Della repubblica tedesca di fronte a vecchi maestri e politici dotati di antica temperanza e misura, come “babbo” Ebert e Gerhart Hauptmann, ”il poeta pietoso”, e ai continui segni di disapprovazione della gioventù studentesca. Forse che Romantico significa semplicemente simpatia per la notte e la morte, per l’aorgico e il dionisiaco?
Non sono forse i suoi grandi poeti, invece, a esaltare la personalità della propria patria in quanto partecipe del “grande Stato” formato dall’intera umanità? Sono certi questi giovani, entusiasti fino al fanatismo, che Illuminismo e Romantico siano assolutamente opposti? Che Novalis nulla abbia a che fare con l’intelletto e la repubblica? Non è rintracciabile il germe di un’idea tedesca di repubblica negli stessi Maestri cantori? Grande retorica manniana, sul filo del paradosso, condotta con la penetrazione sim-patatetica di cui solo la più disperata speranza è capace. Coniugare Novalis con Walt Whitman - quale triplo salto mortale! Eppure sì, è necessario tentarlo. Necessario cantare Deutschland über Alles nella stessa tonalità con cui Whitman aveva cantato la democrazia americana.
La democrazia non può ridursi a una carta costituzionale vissuta come mera convenzione, a un ordinamento senz’anima. Se non ha chi la canta, anche in terra europea, se non saprà essere anche fede, non potrà resistere all’assalto dei suoi nemici. Herder ha insegnato a Goethe che ogni grande poesia è sempre il risultato di uno spirito nazionale; oggi è necessario che essa sia il riflesso dello spirito dell’idea repubblicana- democratica.
Idea che significa responsabilità personale, comprendere che lo Stato è ora nelle nostre mani, l’opposto di un’uguaglianza livellatrice. Soltanto nell’affermazione di questa idea si impedirà la liquefazione della eredità goethiana e dell’intera civiltà europea. La “rivoluzione” democratica tedesca appare perciò a Mann conservatrice: «In realtà io sono un conservatore ».
Repubblica e democrazia formano un tutt’uno nel contenere le potenze distruttive che la guerra ha scatenato. Anti-cristiche anche? Sì, tali appariranno palesemente nella figura di Hitler. Esse mirano a cancellare l’Europa o cristianità. L’idea democratica è in sé rivoluzionaria - come appunto la concepisce Whitman: una rivoluzione permanente volta al culto della persona umana e della pace - e nello stesso tempo profondamente conservatrice.
Questo spirito informa di sé la proposta politica manniana. E qui il monito del poeta si incontra con la dolorosa esperienza del politico di vocazione che oggi ce la introduce, il presidente Napolitano. La salvezza della Repubblica di Weimar, e cioè almeno il freno, il contenimento della reazione, sarà perseguibile soltanto se le forze dei partiti borghesi-liberali e quelle del partito socialdemocratico sapranno trovare un’intesa, e cioè comprendere la loro complementarietà.
La borghesia è dominata da una paura: il comunismo. Questa paura la spinge, nelle mani di una destra nazionalistica, razzista, autoritaria, e cioè al suicidio. Cos’è in realtà oggi il marxismo? Riformismo soltanto: proteggere e migliorare il tenore di vita delle classi lavoratrici; custodire la forma democratica; politica estera di pace. Sono questi obbiettivi estranei allo spirito della borghesia?
Il mio è un angosciato monologo alla borghesia tedesca, scrive Mann; io “figlio della borghesia” mi rivolgo a voi perché non spezziate il filo dell’alleanza possibile perseguita da politici come il cancelliere Stresemann, fondata su valori di libertà, giustizia, cultura, fede nel progresso, che sono i vostri - e che Mann ritroverà nell’esilio americano incarnati da Roosevelt. Napolitano sottolinea questi passaggi con interiore partecipazione.
L’alleanza tra cultura borghese e socialdemocrazia non ha rappresentato la ragione più profonda anche della sua esperienza politica? Non ha cercato per tutta la vita di liberare la borghesia dallo spauracchio del comunismo? E tuttavia “comunista” si chiamava il suo partito. Cosa significa una tale astuzia del destino? Forse è Mann, ma il Mann delle Considerazioni, a farcelo capire: l’epoca borghese e il suo mondo sono finiti per sempre con la Grande Guerra. La svolta è decisiva e irreversibile. Il romanzo giovanile, I Buddenbrook, ne rappresentano l’epitaffio.
Il capitalismo contemporaneo non è borghese, il suo sempre-più e sempre-oltre manca della misura, del Takt, della cultura che appartenevano all’illuminismo dei Diderot come al romanticismo dei Novalis. Un’epoca semi-barbara si spalanca, masslose la chiamava Nietzsche, per la quale il “grande Stato” che l’umanità costituisce non è che il mercato aperto dello scambio, insofferente di confini quanto di regole, e universale è davvero soltanto la potenza del denaro.
Come potrà esservi una politica «nella pienezza del suo significato e della sua efficacia» in una tale situazione storica? Questa la domanda che Napolitano si rivolge alla fine del suo saggio. Quando la politica perde la sua dimensione ideale e spirituale si fa per forza «di corto termine e respiro», e per ciò stesso impotente, come lo fu a Weimar nel costruire una solida repubblica democratica, cosi ora nel realizzare quella vera unità politica europea, di cui la Germania sia pilastro essenziale, che rappresentava l’incrollabile speranza di Mann.
Ma quella dimensione ideale e spirituale si identificava per lui con lo spirito della borghesia. Ha sperato Napolitano che la socialdemocrazia stessa potesse diventarne l’erede? Lo spera ancora dinanzi alla crisi che in tutta Europa sembra metterne in discussione la stessa esistenza? Sono domande che si addicono soltanto ai protagonisti massimi di una stagione storica, che forse soltanto loro sono oggi capaci di cogliere.
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis (Il Fatto, 17.09.2017)
Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”.
La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale.
Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”.
Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre).
Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale.
Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni.
Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse.
Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
Cassandra muta
Intellettuali e potere nell’Italia senza verità
di Tomaso Montanari *
Quando Cassandra parla, dice la verità: ma è giudicata un intralcio, una sacerdotessa del no. Quando Cassandra tace è perché sta sul carro del potere: e poco cambia che ci sia salita volontariamente, o che sia stata portata in catene. Il risultato è lo stesso: il tradimento degli intellettuali, e cioè il silenzio della critica. Lo vediamo ogni giorno: nel conformismo dei giornali e dell’università, nella trasformazione della cultura in intrattenimento, nello svuotamento della scuola. Qual è il ruolo, quale lo spazio, del pensiero critico nel suo rapporto con il potere, con la comunità della conoscenza, con la comunicazione, con la scuola, con quella che chiamiamo “cultura”? Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia. Dire la verità lega alla politica, intesa come arte del costruire la polis, la comunità: ma, al tempo stesso, non si può fare politica attiva dicendo la verità.
Price: 12,00 €
Tomaso Montanari (Firenze 1971) insegna Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli Federico II. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e sui beni comuni. È presidente di Libertà e Giustizia. Tra i suoi libri: Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum fax, 2013), Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016).
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Edizioni GRUPPO ABELE (Scheda editoriale).
SUL TEMA, EL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA"
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
Raniero La Valle risponde a Michele Serra: Votare “sì” non è di sinistra
di Raniero La Valle *
Sulla “Repubblica” di domenica scorsa Michele Serra ha ripreso il mio intervento pubblicato su MicroMega dal titolo: “Il vero quesito: approvate il superamento della democrazia parlamentare?”. Egli si mostra d’accordo con la mia “spiegazione” secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lui definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lo stesso Serra si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto.
Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione di votare “sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.
È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata sulla pagina più autorevole della “Repubblica”. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica. Ma nel passaggio dello scettro dal popolo ai signori del Mercato non c’è solo la sconfitta della sinistra, c’è la sconfitta di tutto il costituzionalismo moderno e dello stesso Stato di diritto: il popolo sovrano è il cardine stesso della democrazia e della Costituzione.
Mettere super partes la nuova realtà per cui esso è tolto dal trono, sottrarre questo mutamento alla lotta politica, accettarlo come un fatto compiuto e finale, non è solo un efficientismo da quarantenni, è una scelta. E se a farlo è la sinistra, non è solo una sconfitta, è una caduta nella “sindrome di Stoccolma”, è un suicidio, ma col giubbotto esplosivo addosso, che distrugge insieme alla sinistra la politica, la democrazia e la libertà.
Dopo Mattarella Scalfari ci dirà che anche il papa vota Sì
di Valentino Parlato (il manifesto, 25.10.2016)
È bene che i lettori di la Repubblica lo sappiano: il giornale che comprano tutti i giorni sostiene Matteo Renzi e il Sì al referendum del 4 dicembre. Eugenio Scalfari, fondatore del giornale, ha iniziato da tempo questa campagna a favore di Renzi con i suoi attacchi all’amico Zagrebelsky.
Esaltando l’«oligarchia democratica» e l’utilità e necessità che «pochi siano al volante». Tutto questo era già chiaro da quando Scalfari scriveva (una tattica efficace, bisogna riconoscerlo) di non avere ancora deciso tra il Sì e il No anche se era facile capire la sua scelta per il Sì.
Poi, con l’editoriale di domenica scorsa 23 ottobre ha messo in gioco per il Sì anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrivendo: «Il Presidente è favorevole al referendum istituzionale che pone fine al bicameralismo perfetto». E mi pare ovvio che il Presidente non può far altro che tacere, poiché una sua eventuale smentita potrebbe significare che intende votare No e Mattarella, con il suo silenzio, ha voluto tenersi fuori da questa brutta faccenda della nostra sofferente democrazia.
Così, dopo Obama, Scalfari schiera anche Mattarella tra i sostenitori del Sì e del nostro Renzi, attivo rottamatore della Repubblica democratica. Ci manca solo che Scalfari, che ama raccontarci delle sue telefonate con personaggi di primo piano, non ci venga a dire che anche il Papa lo ha confortato dicendogli che voterà Sì.
Dobbiamo prendere atto di questa impegnata campagna di Repubblica a favore di Renzi e del Sì al referendum, chissà cosa ne pensano i lettori del quotidiano.
Per concludere vorrei dire che come giornalista del manifesto e antico lettore dell’Espresso e di Repubblica, questi ultimi due una volta non governativi, faccio appello alla resistenza (questa parola ci torna in mente) contro questa deriva antidemocratica e autoritaria: «Solo pochi al volante» e tutti gli altri passeggeri che pagano il biglietto, ma non hanno voce in capitolo.
Presidente Napolitano, abbiamo il diritto di sapere se andremo a votare una riforma targata JP Morgan
di Tomaso Montanari Vicepresidente di Libertà e Giustizia (The HuffingtonPost - 05/10/2016)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano non risponde a Salvatore Settis. Il presidente del consiglio scientifico del Louvre (un archeologo con due lauree ad honorem in diritto costituzionale) gli aveva chiesto di confermare o smentire un articolo del Corriere del 2014 in cui si diceva esplicitamente che la strada della riforma costituzionale era quella indicata dalla banca d’affari americana JP Morgan. Napolitano ha scritto che si tratta di "domande insinuanti e aspre", e non ha risposto. Eppure la domanda era non solo legittima, ma urgente.
Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che dopo due mandati alla guida del governo farà come lui: andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.
La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che Tony e Matteo hanno cenato insieme (a Palazzo Corsini, a Firenze) l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana.
Sarebbe del più alto interesse sapere quali politici italiani siano attualmente sul libro paga della banca: e in questi giorni Ferruccio De Bortoli ha mostrato come tali nessi abbiano pesantemente condizionato, e rischiano di continuare a condizionare, la sorte del Monte dei Paschi di Siena. Ma proprio perché questo grado di trasparenza è, da noi, inimmaginabile, una risposta di Napolitano avrebbe reso decisamente più chiara la partita referendaria.
Dobbiamo infatti ricordare che la JP Morgan ha scritto (in The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) che "Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione. [...] Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche".
Era esattamente questo il passo citato nell’articolo del Corriere del 1° aprile 2014: "Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi "improrogabile", dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro "la persistente inazione del parlamento". Spiegando che "la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata" (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale.
A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella "debolezza dei governi rispetto al parlamento" e nelle "proteste contro ogni cambiamento" alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace".
Ora, due anni dopo e in piena campagna referendaria, Napolitano trova "insinuante" la domanda di Settis: ma gli italiani hanno il diritto di sapere se stanno votando su una riforma targata JP Morgan. La vita politica italiana è malata: su questo concordano tanto i sostenitori del Sì che quelli del no. Ciò su cui si dividono è la diagnosi: e, dunque, la terapia.
La riforma costituzionale Napolitano-Renzi-Boschi è una "cura" motivata dalla convinzione che il male dell’Italia sia un eccesso di democrazia. I cittadini conterebbero troppo, il parlamento sarebbe troppo incisivo, i diritti dei lavoratori troppo garantiti, gli enti locali più vicini al territorio (le Regioni) troppo potenti. Ecco dunque la ricetta: far votare meno i cittadini (per esempio togliendo loro il potere di eleggere il Senato, che tuttavia continuerà a fare le leggi), far contare meno i loro voti (a questo serve l’Italicum), accentrare tutti i poteri in capo al governo di Roma (ecco il nuovo Titolo V della Costituzione), e così via. Nel momento in cui gli italiani sono chiamati a decidere se dar corso o meno a questa cura da cavalli, hanno il diritto di conoscere i titoli e il curriculum dei medici che la propongono.
Ora, la domanda è: possiamo fidarci del medico JP Morgan, e della sua ricetta? Davvero dobbiamo cambiare il sistema di garanzie democratiche costruite dopo il fascismo perché ce lo chiede una banca condannata a pagare una multa da 13 miliardi di dollari per aver piazzato pacchetti finanziari inquinati, ed aver quindi contribuito ad innescare quella stessa crisi che ora ci spinge a cambiare la Costituzione?
Io non credo. Sono d’accordo, invece, con ciò che un perfetto coetaneo e compagno di partito di Napolitano -Alfredo Reichlin- ha scritto sull’Unità del 30 settembre: "A me questo non sta bene. È chiaro? Io ho preso le armi per dare all’Italia un parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più "avanzato" nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il Pci vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il parlamento funziona male? Sì, ma solo il parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo "ricchi e poveri, borghesi e proletari". Non è la privativa di nessuno. Di nessuno: nemmeno della JP Morgan. O dei suoi consulenti.
Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum.
Ricorso al Tar contro il quesito del referendum: "è uno spot". Grillo: "Non ho dubbi vinca no"
Lo hanno presentato Sinistra Italiana ed M5s
di Redazione *
E’ di nuovo scontro sul referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali. Sinistra Italiana ed M5s hanno fatto ricorso contro il quesito referendario che, ad avviso dei ricorrenti si tradurrebbe in "una sorta di spot". I ricorrenti, tra l’altro, chiamano in causa il decreto della presidenza della Repubblica di inidizione della consultazione popolare ma il Colle replica che la formulazione è stata ammesso dalla Cassazione. Intanto Beppe Grillo lasciando Roma parla con i cronisti e si dice certo della vittoria del no.
IL RICORSO AL TAR - Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum. A parere dei ricorrenti, infatti, "il quesito così formulato finisce per tradursi in una sorta di ’spot pubblicitario’, tanto suggestivo quanto incompleto e fuorviante, a favore del Governo che ha preso l’iniziativa della revisione e che ora ne chiede impropriamente la conferma ai cittadini, che non meritano di essere ingannati in modo così plateale".
Il ricorso al Tar Lazio è dunque contro il Decreto del Presidente della Repubblica con cui, indicendo il referendum per il prossimo 4 dicembre, "è stato tra l’altro stabilito il quesito che dovrebbe comparire sulla scheda di votazione". A presentarlo sono stati gli avvocati Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi (che attualmente difendono i ricorrenti messinesi dinanzi alla Consulta nel giudizio per l’incostituzionalità dell’Italicum), nella loro qualità di elettori e di esponenti del Comitato Liberali x il NO e del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, e i senatori Vito Claudio Crimi (M5S) e Loredana De Petris (Sinistra Italiana-SEL).
LA REPLICA DEL COLLE - In relazione a quanto affermato in una nota di ricorrenti al Tar Lazio, in cui impropriamente si attribuisce alla Presidenza della Repubblica la formulazione del quesito referendario, negli ambienti del Quirinale si precisa che il quesito che comparirà sulla scheda è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, in base a quanto previsto dall’art 12 della legge 352 del 1970, e riproduce il titolo della legge quale approvato dal Parlamento.
GRILLO E LA VITTORIA DEL NO - "Non ho dubbi, vincerà il ’No’, leggete il Financial times e vedete chi vince. Io la penso come il Financial Times, perché siamo in mano a dei bluffisti, dei giocatori d’azzardo". "Dire ’No’ - ha aggiunto - è bellissimo, anche voi dovete dire di ’No’".
* Redazione ANSA ROMA 05 ottobre 2016 (ripresa parziale).
’Rischio oligarchia’. ’Offende Italia’, duello Zagrebelsky-Renzi
Il premier: ’Riforma dà credibilità. Ho accettato di fare un passo indietro sull’Italicum. Vorrei cambiare sistema capilista’
Renzi: ’Come Pd prenderemo iniziativa di modifica Italicum’
"Io ho accettato di fare un passo indietro"
di Serenella Mattera (ANSA, 01 ottobre 2016, 10:49)
ROMA La "palude" da superare e la credibilità da difendere, per Matteo Renzi. Il "rischio per la democrazia" e lo spettro di una "oligarchia", per Gustavo Zagrebelsky. E’ una visione "culturale" di fondo inconciliabile, a separare profondamente il presidente del Consiglio e il professore. I due capifila del Sì e del No al referendum costituzionale si confrontano per la prima volta nello studio tv di La7. Ed è subito scontro, in un continuo botta e risposta, tra battute, punzecchiature e divergenze inconciliabili nel merito. Le oltre due ore di confronto si aprono con un insolito scambio di ruoli: Renzi difende i punti cardine di una riforma "voluta dal Parlamento e non solo da me", Zagrebelsky esordisce con una punzecchiatura.
"Sono contento che abbia ripensato ai discorsi su parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo con uno di loro...", sorride il costituzionalista. E il premier si indigna: "Non mi sono mai permesso di chiamarla parruccone. Io ho studiato sui suoi libri: prof, venga al merito". Da qui in poi, inizia uno scambio che passa spesso (e all’inizio Renzi se ne lamenta) dal piano costituzionale a quello politico.
Anche perché, afferma Zagrebelsky: "Le istituzioni vanno calate nel contesto. La Costituzione di Bocassa, dittatore centroafricano, è molto simile a quella Usa". "Lei dice che la riforma costituzionale non tocca in nessun punto i poteri del presidente del Consiglio. Ma molti di noi sono preoccupati per rischi di derive autoritarie o di concentrazione al vertice delle istituzioni: rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia", attacca il costituzionalista. E Renzi ribatte: "L’appello di ’Libertà e Giustizia’ da lei firmato, che parla di svolta autoritaria, offende l’Italia. Tra l’altro, ricorda il premier, Zagrebelsky ha firmato anche l’appello dei 56 costituzionalisti che "dice esattamente il contrario". "Non è vero. E io comunque non mi sono preparato sulle sue contraddizioni...", è la replica.
Il rischio, sottolinea l’esponente del No, non è il governo Renzi ma "quelli che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti": mentre in Europa avanzano le estreme destre "dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie". Il leader Dem però sul punto dell’Italicum ha un asso nella manica: "L’Italicum non è un rischio e il referendum non è sulla legge elettorale ma come Pd prenderemo un’iniziativa per cambiarla e togliere ogni dubbio".
Il prof però non si fida: "Lei diceva che era la legge più bella del mondo, ora i sondaggi dicono che al Pd al ballottaggio perde e volete cambiare, ma non basta: serve un accordo sul come". Non solo l’Italicum, però. Lo scontro è anche sul nuovo meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, sulle competenze e sui poteri del nuovo Senato. "Le garanzie aumentano - afferma Renzi - più poteri alla Corte costituzionale, quorum più alto per l’elezione del presidente della Repubblica e statuto delle opposizioni. Invece il presidente del Consiglio non ha poteri in più". "Se lo Statuto delle opposizioni lo scrive la maggioranza - replica Zagrebelsky - dov’è la democrazia? E la maggioranza potrà eleggersi da solo il presidente della Repubblica".
"Dico che c’è un pericolo per la democrazia pensando non al suo governo ma ai governi che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti. Dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie e bilanciato", rilancia Gustavo Zagrebelsky . "Lei ha sostenuto - prosegue - che l’Italicum era la legge più bella del mondo e sarebbe stata invidiata da tutti. Invece poiché cambiano le condizioni e non siamo più in un sistema bipolare ma tripolare e i sondaggi dicono che quando il Pd si presenta contro qualcun altro vince qualcun altro, il ballottaggio non è più nel cuore del Pd, forse è nel suo...". "E la rottura del Nazareno fa sì che venga imposta da un parte e il nostro è un Paese diviso in due, il suo partito è diviso in due". Ma il presidente del Consiglio ribatte colpo su colpo, citando anche il maestro di Zagrebelsky, Leopoldo Elia: "La riforma semplifica, a partire dai poteri delle Regioni. E dire che taglia i costi non è demagogia. I poteri del premier non aumentano: non posso neanche rimuovere un ministro. La sua parte culturale si è sempre preoccupata di andare contro Berlusconi ma adesso lei ora vota No come Berlusconi. Noi abbiamo smosso la palude, perché non volete parlare di futuro? Un No rischia di pregiudicare il nostro recupero di credibilità in Europa e nel mondo. Quest’occasione perduta non tornerà per i prossimi venti anni".
L’undicesima domanda a Silvio Berlusconi
L’ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un’altra
di Ezio Mauro (l’Espresso, 26 settembre 2016)
L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare.
Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia.
Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla "Stampa", l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo.
Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno "Specchio dei tempi", la rubrica di dialogo coi lettori della "Stampa". Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese».
Una sorta di "Bum!" silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari.
Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta.
Eppure, il Cavaliere senza accorgersene mi aveva consegnato il bandolo, la scintilla identitaria con quell’aggettivo buttato sul tavolo dopopranzo: reaganiano. Non democristiano, o moderato, o conservatore o liberale. No: reaganiano. Qualcosa di sconosciuto alla politica italiana, ma qualcosa che contiene il vero elemento fondante dell’intera operazione. L’outsider che in Italia come in America viene da un altro mondo, e guarda caso è il mondo dello spettacolo che dà la temperatura del rapporto con la folla, abitua ai riflettori, evoca intorno a sé un’avventura più che un progetto, in un paesaggio smart di successi, denaro e sorrisi.
La politica - per Reagan come per il Cavaliere - scoperta in età matura, come un’incursione estranea, senza l’imprinting originario dei professionisti. Proprio per questo, il tocco permanente del grande dilettante che non conosce il vocabolario istituzionale ma sa sfiorare perfettamente i tasti (basta leggere Lou Cannon, il biografo del presidente americano) dell’emozione popolare in ogni occasione, presentandosi come uomo nuovo, estraneo ai professionismi degli apparati. E infine, il nocciolo duro di quell’aggettivo: il profilo reaganiano disegnava fin dall’origine un progetto di destra, destra popolare ma destra vera, che dopo la mediazione democristiana puntava direttamente al comando, più che al governo.
La “rivoluzione conservatrice” non c’è stata. E anche la sinistra non è stata all’altezza del suo compito storico Naturalmente i denti d’acciaio (con cui il vecchio Gromiko misurava la durezza dei candidati alla guida del Cremlino) erano ben nascosti dentro il sorriso televisivo del Cavaliere, la cui iniziazione è insieme una grande dissimulazione. Deve nascondere i debiti che pesano come una macina al collo dell’azienda («ci vogliono vedere sotto un ponte», diceva allora Confalonieri), il debito politico dell’impero televisivo al Psi per le leggi che hanno consentito alla tv privata il volo nell’etere di Stato, la filiazione diretta del personaggio pubblico Berlusconi dal Caf, l’alleanza d’agonia della Prima Repubblica tra Craxi, Andreotti e Forlani, la macchia imprenditoriale nascosta (i tribunali l’accerteranno più tardi) del grande furto della Mondadori, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978, e soprattutto le obbligazioni sotterranee che ne derivano. Proprio queste fragilità e queste ambiguità celate dietro i mausolei berlusconiani auto-eretti consigliavano prudenza ai personaggi più vicini al Cavaliere, secondo un modello democristiano teorizzato da Confalonieri: non vale la pena di gettarsi in politica in prima persona correndo il rischio di rompersi l’osso del collo, anche perché con tre televisioni basta avere pazienza, verrà la politica a cercare il becchime nella tua mano.
E invece proprio qui c’è il rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento delle convenienze. Il Cavaliere si dimostra uomo d’avventura, l’egolatria fino a quel momento tenuta a bada lo trascina ad un protagonismo diretto e gli fa puntare l’intera posta su una nuova partita, dopo quella immobiliare, quella editoriale, quella televisiva: la politica, o meglio il comando, soprattutto il potere. La politica vista come il cuore del potere, ben più che il cuore dello Stato, qualcosa da conquistare più che da governare. C’è in questo la "pazzia" di cui parla Giuliano Ferrara, che tradurrei con l’azzardo di pensare l’impensabile, crederci costringendo gli altri a credere nell’incredibile realizzandolo prima ancora di renderlo plausibile. Farlo senza adattare la propria natura estranea alle regole auree e comunemente accettate del sistema, ma anzi deformando quelle regole e quelle modalità secondo la propria natura. Siamo a un passo - magari senza saperlo - da Carl Schmitt, secondo cui il vero sovrano non è il garante dell’ordinamento esistente ma è colui che crea un nuovo ordinamento decidendo sullo stato d’eccezione.
Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, quanto tutto ciò fosse puro istinto di destra - destra reale, realizzata, come c’era il socialismo reale - e quanto invece progetto teorico dissimulato nel rifiuto del "culturame", ma in realtà accumulato con cura. Certo, l’istinto di classe ha convinto fin dall’inizio il Cavaliere a puntare sul ceto medio emergente proponendogli di mettersi in proprio per diventare finalmente soggetto politico, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato. Il progetto lo ha spinto a evocare un vero e proprio sovvertimento della classe dirigente, quasi una ribellione dei garantiti, perché c’è sempre un’élite più o meno ristretta contro cui mostrarsi ribelle. Il calcolo gli ha suggerito di infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite, nel solco della prima seminazione di antipolitica della Lega, e di radunare queste incoerenze sotto il doppiopetto miliardario, paradossalmente credibile proprio perché rivestiva un outsider rispetto all’aristocrazia delle grandi famiglie industriali cresciute nel fordismo e nell’acciaio, che lo consideravano imprenditore dell’immateriale e lo tenevano in fondo al tavolo. Ancora l’istinto barbaro e redditizio lo ha spinto a consigliare al cittadino di disinteressarsi dello Stato cercando un demiurgo, nascondendogli che su questa strada lo Stato avrebbe finito per disinteressarsi di lui, perché quando la sua libertà non si combina con la vita degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta esclusivamente individuale, separato, lui diventa un’entità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.
Ma questo paesaggio misto, abitato da solitudine e ribellione, era in realtà lo scenario perfetto di un esperimento del tutto nuovo per l’Italia e per le democrazie occidentali. Era nella mia stanza il direttore di un grande giornale europeo, a dicembre del 1994, mentre sul video subito dopo il telegiornale scorrevano riflessi negli addobbi rotondi e lucenti di un gigantesco albero di Natale le immagini di un Berlusconi sorridente, magnanimo, circondato dai bambini su un prato, mentre accarezzava i cani, o alzava le coppe vinte dal Milan. Mascherati da innocenti auguri di Natale erano i primi spot subliminali di un’avventura politica del tutto nuova. «Il solito italiano», disse il mio amico, «manca soltanto la chitarra o il mandolino». Naturalmente arrivarono, insieme all’iperrealismo di una bandana sulla fronte. Ma era tutt’altro che il volto di un arcitaliano, quello che stavamo vedendo: piuttosto l’inizio di un esperimento che l’Europa non aveva ancora conosciuto, e che in questi anni non ho saputo chiamare altrimenti che neo-populismo, qualcosa di modernissimo e primitivo insieme, con la sua neolingua e una dilatata dismisura.
Ottimismo ad ogni costo, poiché le mani del demiurgo sono sul timone, soluzioni semplici davanti a problemi complessi (l’efficacia del "puerilismo", come lo chiamava Huizinga), invulnerabilità assoluta, tanto che le sconfitte sono sempre colpa di una truffa o di un inganno sopraffattore, in modo che il leader esca comunque dalla prova innocente, magari ferito ma superstite, nel cerchio intatto del carisma perenne. È un investimento sull’indebolimento dello spirito critico, a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura eroica. Il cittadino viene autorizzato a farsi i fatti suoi, elevati a cifra privata della nuova dimensione pubblica. In cambio il leader gli parlerà direttamente saltando ogni intermediazione partitica, istituzionale, politica, e mentre provvederà alla guida del Paese gli chiederà soltanto una vibrazione costante di consenso, e una delega elettorale periodica e fissa. Principio e fine di tutto questo, l’evocazione di una destra che il Paese nel dopoguerra non aveva conosciuto, perché il filtro democristiano drenava al centro gli istinti post-fascisti del Paese. Berlusconi ha fatto l’opposto, radicalizzando a destra una propensione politica sconosciuta a se stessa, camuffata e scusata dal doroteismo di potere, liberandola nella sua vera natura. Una destra sdoganata con un progetto puramente elettorale e non culturale, senza chiedere revisioni e abiure, con la complicità dell’intellettuale italiano strabico, che per vent’anni (fino al declino del nuovo potere col calcio dell’asino) non ha usato a destra la pedagogia liberale impiegata giustamente a sinistra con il Pci.
Il mix ha funzionato tre volte, perché il fuoco in pancia del Cavaliere lo ha trasformato in uno straordinario campaigner (salvo quando ha incontrato Romano Prodi), tanto quanto è risultato sempre un pessimo uomo di governo. A Palazzo Chigi quel fuoco si è ogni volta spento e tra le ceneri brillavano fisse le quattro anomalie del Cavaliere rispetto a qualsiasi moderna destra occidentale: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi, lo strapotere economico che gli consentiva di comperare i deputati a grappoli, lo strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso. A un certo punto l’uomo della grande avventura diventava un avventuriero, fino al punto di usare l’esecutivo per piegare il legislativo a fermare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. Le coalizioni assemblate senza il crogiuolo di una fusione culturale capace di dare al Paese una destra moderna, ogni volta si sfaldavano perdendo prima Bossi, poi Casini, quindi Fini, con gli intellettuali che se n’erano già andati. Infine la vicenda giudiziaria prese il sopravvento. Lui teorizzò la decapitazione per via processuale. In realtà aveva imposto una tale torsione al sistema che eravamo giunti al dubbio estremo: se la legge era ancora uguale per tutti, oppure no, nel suo unico caso.
Anche qui, la concezione carismatica del populismo era perfettamente coerente con il rifiuto di essere giudicato, anzi con la giustizia vista come sopruso. Il leader unto dal Signore col voto popolare infatti risponde solo al popolo, ed è per questa sua stessa speciale natura insofferente ad ogni controllo, costituzionale da parte delle autorità di garanza, politico da parte del parlamento, di legalità da parte della magistratura. La legittimità dell’investitura assorbe la legalità fino a soffocarla nell’irrilevanza, l’annulla subordinandola. Ma proprio la specialità di questa eccezione - ecco il punto - rende oggi impossibile sciogliere il nodo gordiano del dopo-Berlusconi. Politicamente, la sua creatura è ancora irrisolta così com’è nata per conquistare il potere e non per cambiare il Paese, ferma al bivio tra moderatismo e radicalità. Leaderisticamente, bisogna prendere atto che ogni successione nel senso democratico e moderno del termine è nei fatti impossibile perché Crono divora ogni possibile figlio tanto che si è davvero pensato al passaggio dinastico come unica soluzione, in quanto avrebbe trasmesso integrale il conflitto d’interessi insieme con il dna familiare, perpetuando l’anomalia berlusconiana nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Siamo davanti alla metafisica di sé, con un’avventura straordinaria che consuma se stessa replicandosi ogni giorno in sedicesimo, come una condanna infernale, ormai fuori dal tempo. E guardando quel poco che resta, da qui nasce l’undicesima domanda: Cavaliere, ne valeva la pena?
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
ESATTAMENTE COME IN CILE NEL 1988 ***
Ahime’, sono la persona che da tempo sostiene che al prossimo referendum costituzionale occorre votare No esattamente come in Cile nel 1988, "senza odio, senza violenza, senza paura".
Il paragone con il Cile del 1988 e’ tutto li’, e mi sembra che sia difficile negare l’analogia: in Cile nel 1988 votando No la popolazione abbatte’ la dittatura di Pinochet; in Italia votando No al prossimo referendum si difendera’ la Costituzione democratica e antifascista da un vero e proprio golpe che ne distrugge le fondamenta stesse.
Non sono certo io, povero vecchierello (anzi: vecchierello povero), che ho voluto trasformare il referendum in un plebiscito sul Presidente del Consiglio dei Ministri, ma il Presidente stesso, e tardi si e’ accorto dell’errore commesso.
Ma occorre votare No alla riforma costituzionale non (non solo) per la torsione plebiscitaria voluta dal Presidente del Consiglio, ma precisamente per respingere la sostanza della riforma.
E se posso riprodurre il testo di un "appello nonviolento per il No" che con alcune persone amiche abbiamo elaborato e diffuso nelle scorse settimane, i motivi sono i seguenti.
E’ tutto qui. Per questo al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.
Senza odio, senza violenza, senza paura.
*
Dimenticavo: io me lo ricordo bene il golpe cileno, ero gia’ un militante politico della sinistra italiana allora, e naturalmente prendevo parte alle iniziative del movimento che cercava di aiutare le vittime. Continuo ancora oggi, cercando di aiutare le vittime delle dittature e delle guerre, di tutte le dittature e di tutte le guerre, anche quelle di cui il governo italiano e’ criminale complice.
***
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani"
Viterbo, 13 settembre 2016
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani", strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
Italicum fatto e disfatto, con la regia dell’ex
Legge elettorale. Napolitano adesso vede i difetti della «sua» legge. Renzi è pronto a cambiarla. Guardando alla Consulta. L’ex capo dello stato ha nominato cinque giudici costituzionali, compresi presidente e relatore
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 11.09.2016)
ROMA Il giorno in cui il suo successore al Quirinale Sergio Mattarella firmò, molto velocemente, la nuova legge elettorale, Giorgio Napolitano dal suo studio di senatore a vita commentò: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno». Tutti i giornali riportarono con evidenza questa benedizione dell’ex capo dello stato e nessuno ci trovò niente di strano. Era stato lui con i suoi discorsi pubblici contro le «zavorre», le «paralisi» e i «frenatori» a spingere il parlamento ad approvare questa riforma elettorale assieme alla legge di revisione costituzionale.
Era stato lui a voltarsi dall’altra parte quando il governo forzava i lavori parlamentari, sostituiva parlamentari «dissidenti» in commissione e quando le opposizioni salivano al Colle per protestare o gli rivolgevano pubblici appelli. Ed era stato ancora lui, nel gennaio 2015, ad aiutare il governo ritardando di due settimane le sue annunciate dimissioni, in modo da consentire - prima dell’elezione di Mattarella in seduta comune e prima dunque della rottura tra Renzi e Berlusconi - il decisivo e delicato passaggio dell’Italicum in senato.
Ieri Giorgio Napolitano ha spiegato al direttore di Repubblica che ci sono diversi aspetti dell’Italicum che «meritano di essere riconsiderati». Non solo. Ha invitato Renzi ad assumere un’iniziativa, «una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche alla legge elettorale». Ha sottolineato il difetto secondo lui principale dell’Italicum: «Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti». E ha indicato una possibile soluzione: «C’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto, è di esponenti di minoranza del Pd tra i quali Speranza». Si tratta di una proposta per modificare il vecchio Mattarellum in senso ulteriormente maggioritario. Ma si tratta della stessa minoranza Pd che aveva contrastato all’epoca l’Italicum, sentendo il presidente della Repubblica Napolitano tuonare contro le «spregiudicate tecniche emendative» in difesa dell’integrità dei testi del governo.
Durante l’ultimo passaggio dell’Italicum alla camera dei deputati, tra l’aprile e il maggio dello scorso anno, i bersaniani del Pd tentarono di introdurre nella legge elettorale un quorum minimo per accedere al ballottaggio, di recuperare gli apparentamenti al secondo turno, di cancellare le pluricandidature. Con l’appoggio delle opposizioni avrebbero potuto farcela. Il momento era delicato. Il senatore a vita Napolitano si fece risentire con poche parole: «Guai se si ricomincia da capo». Il governo mise la fiducia - mossa clamorosa e secondo molti costituzionalisti illegittima - la legge elettorale passò nella forma che Napolitano, oggi, vuole modificare.
E vuole modificare perché, ha spiegato a Repubblica, «rispetto a due anni fa lo scenario politico è mutato... nuovi partiti in forte ascesa hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti» si rischia «che vada al ballottaggio chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare». Ed è così: la legge pensata per il bipolarismo e sull’onda del Pd al 40% alle elezioni europee del 2014, può essere sperimentata per la prima volta (perché è applicabile da appena un paio di mesi, malgrado sia stata imposta al parlamento a tappe forzate) in un quadro pienamente tripolare. Ha ragione l’ex capo dello stato, solo che il bipolarismo che era fortissimo all’epoca della sua prima elezione al Quirinale, nel 2006, era già completamente svanito all’epoca della sua seconda, nel 2013. I 5 Stelle erano una realtà forte quanto e anzi molto di più del centrodestra anche prima che Napolitano inaugurasse la sua regia sulle riforme, con il Letta e con Renzi. Napolitano non se n’era accorto? Può darsi, del resto era stato lui stesso a negare l’evidenza del successo grillino alle amministrative precedenti. «Non vedo nessun boom» fu la sua frase celebre.
L’intervento di Napolitano, malgrado tutto, potrebbe essere ancora una volta decisivo. Il presidente del Consiglio, che fino a qui aveva aperto timidi spiragli, concede immediatamente la sua piena e «sincera» disponibilità a cambiare la legge. Lo fa con un’intervista al TgNorba (era a Bari, a inaugurare la fiera del Levante). «L’Italicum non piace? E che problema c’è - dichiara lo stesso Matteo Renzi che sull’Italicum ha messo la fiducia - discutiamolo, approfondiamola, ma facciamo una legge elettorale migliore di questa». Dietro di lui, e dietro Napolitano, è come se si aprissero le cateratte del cielo. Un po’ tutti gli esponenti di maggioranza che l’anno scorso giuravano sulla perfezione dell’Italicum, sono prontissimi a cambiarlo - si notano in particolare i ministri Franceschini e Alfano - e tutti lo fanno raccomandando un dibattito «non strumentale». Ma è evidente l’interesse del governo, che di certo non riuscirà a cambiare la legge elettorale prima del referendum, ma che in questo modo offre l’impressione di una disponibilità che può aiutarlo a recuperare consensi per il Sì.
E poi c’è un altro aspetto: il punto che - adesso - Napolitano critica della legge elettorale è proprio uno dei due che la Corte costituzionale sarà chiamata a giudicare il 4 ottobre. Se le questioni di incostituzionalità avanzate dagli avvocati coordinati da Besostri dovessero essere accolte dalla Corte, la legge sarebbe migliorata eppure resterebbe una brutta legge. Il compromesso è evidentemente appoggiato da Napolitano, che quando era al Quirinale ha nominato cinque degli attuali giudici costituzionali (un terzo), compresi presidente (Grossi) e relatore (Zanon).
La sinistra sotto le macerie e la libertà del futuro
Morte della politica. Solo scampoli di vecchi rancori e slogan ripetuti. Ma non è morta la politica. Anzi, bisogna fare l’operazione opposta a Fukuyama: spostare lo sguardo su ciò che può cominciare
di Bia Sarasini (il manifesto, 07.09.2016)
Tutto è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare di morte della politica. Mentre certamente è stata consumata una fine, la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche, anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo.
Una fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione. Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche, la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non c’è.
La novità è che ora, forse perché non c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti sensi possibili. Economico e politico.
Un aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie.
L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra. Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza, la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment.
L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione mediatica. Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le socialdemocrazie europee.
Senza dimenticare i segni di inversione, basti pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna, quest’ultima una partita tuttora aperta.
In Italia Renzi ha radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili, non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel sostanziale silenzio sociale?
Una prima risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere, conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so, sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come? Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio, perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico internazionale?
Quale rovesciamento, del progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è rinchiudersi nei propri ambiti. Movimenti, associazioni, gruppi. Donne, uomini, generi diversi.
Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni battaglia.
Referendum, Giovanni Maria Flick: "Renzi ha sbagliato a personalizzare il voto, ora non basta la scolorina"
di Barbara Acquaviti (L’Huffington Post, 17/08/2016)
Molte cose da dire in punta di diritto costituzionale, qualche reticenza in più se la si butta in politica. Quando parla del ddl Boschi, e del referendum di novembre, Giovanni Maria Flick preferisce più vestire i panni del giudice della Consulta indossati per nove anni che quelli di ministro della Giustizia del governo Prodi, carica ricoperta dal ’96 al ’98. "Questa riforma - sostiene - è sbagliata nel metodo e nel merito".
Ma ci sono un paio di cose, meno tecniche e più politiche, che proprio non gli vanno giù. La prima, spiega, è stato il tentativo di Renzi di "trasformare in plebiscito" la consultazione: fatto che ormai ha condizionato il dibattito nonostante - dice - la "scolorina" che in un secondo tempo il presidente del Consiglio ha usato.
E poi, c’è la posizione assunta da alcuni giornali economici internazionali "espressione del mercato" che considerano l’eventuale vittoria del no peggiore della Brexit: "Sconcertante", è l’aggettivo che sceglie. Ma se gli si chiede se questa non può essere considerata una "riforma dell’Ulivo", Flick torna subito molto istituzionale: "quello che esprimo - ci tiene a sottolineare - è il parere di un normale cittadino". Il che non gli impedisce di notare come Romano Prodi sia "tirato per la giacchetta".
Lei dice che questa riforma è sbagliata nel metodo e nel merito. Cominciamo dal metodo, cosa non va?
Questa è una riforma fatta in modo disorganico, con una maggioranza ’pur che sia’, con soluzioni work in progress, con eccessiva fretta. Stesso errore che fu commesso con la riforma del Titolo V nel 2001: alla fine era talmente sbagliata che è stato necessario un intervento correttivo, che alla fine si è rivelato eccessivo in senso opposto.
Passiamo alle questioni di merito. Non è vero che con questa riforma si semplifica il processo legislativo?
Ora anche taluni fautori del sì ammettono che alcune correzioni sono necessarie, ma dicono che si possono fare dopo. Io penso sia sbagliato. Se ci sono errori non capisco come si possa chiedere di votare prima per il sì. Quanto al procedimento legislativo, e alla presunta semplificazione che ne deriverebbe, dico solo una cosa: attualmente in Costituzione quel procedimento è spiegato in una riga e mezzo, nella nuova formulazione servono due colonne in gazzetta ufficiale per descrivere sette-otto procedimenti diversi.
Cos’altro non va?
La nuova struttura e identità del Senato è ambigua e confusa. Il meccanismo di designazione è affidato ai consigli regionali e a una indicazione popolare che non si sa bene come sarà regolata . Inoltre, se prima si è decentrato troppo oggi si riaccentra troppo sullo Stato. E’ facile prevedere molti conflitti al pari di quelli che vi saranno tra Camera e Senato sul nuovo procedimento legislativo.
C’è una parte della minoranza Pd che lega il suo sì alla riforma alle modifiche dell’Italicum. Secondo lei cambiare la legge elettorale è dirimente?
È indubbio che il collegamento con l’Italicum peggiora i problemi di una riforma che però è già sbagliata nel suo contenuto. Vedremo cosa dirà la Corte costituzionale sull’Italicum, se si eliminasse il nodo delle soglie troppo basse per il premio di maggioranza, dei capilista bloccati e della soglia per il ballottaggio, di certo si diminuirebbero i problemi di funzionamento. Ma i guasti della riforma rimarrebbero tutti. Riforma e legge elettorale sono due cose diverse, anche se reciprocamente funzionali.
L’opposizione, compresa quella interna al Pd, sostiene che ci sia anche una informazione, soprattutto quella della Rai, troppo schierata a favore del sì? E’ d’accordo?
Non ho il cronometro per contare i secondi. Posso dire che finora sono stato intervistato soltanto da Rainews24 e una volta da un Tg regionale. Ma certo, io sono un professore noioso, capisco che non mi chiamino. Per il resto, mi sembra che ci sia una preferenza per le ragioni del sì piuttosto che del no. Il problema davvero importante è che la gente non conosce il contenuto e il merito del referendum, l’accavallarsi della polemica politica impedisce un discorso serio.
Si riferisce a Matteo Renzi?
All’inizio il governo ha trasformato la consultazione in un plebiscito sulle sue sorti. Ora è stata fatta una marcia indietro e io dico meno male. Però gli strascichi restano. Anche perché ora la verve è quella di dire che se non passa il referendum è un cataclisma. Io dico che se la riforma non passa si può lavorare a una riforma che possa passare, come le altre trenta varate con successo nei 70 anni di vita della Costituzione.
Secondo i retroscena Renzi potrebbe annunciare le sue dimissioni prima, a prescindere dall’esito. Questo aiuterebbe a svelenire il clima?
Ben venga la spersonalizzazione. Ma una volta che il referendum è stato personalizzato non basta la scolorina. A me pare che continuare a legare la riforma alle sorti del governo, anche in questo modo, sia sbagliatissimo. Però mi lasci dire una cosa: leggere che alcuni giornali economici internazionali ci dicono che la vittoria del no sarebbe peggio della Brexit è singolarmente curioso. Io comprendo che gli altri Paesi siano interessati alla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione o alle leggi contro la corruzione, ma che ci debbano dire come dobbiamo cambiare la Costituzione a me sembra sconcertante. Ed evito di dire offensivo.
In tutto questo dibattito, chi tace è Romano Prodi. Lei lo conosce da tempo. Che idea si è fatto?
Questo dovete chiederlo a lui. Io mi limito a constatare che lui non ha detto una parola, nè in un senso nè nell’altro, nonostante qualcuno lo tiri per la giacchetta e sebbene alcuni autorevoli esponenti dell’Ulivo, come Parisi, si siano schierati per il sì.
Insomma, per lei questa è o non è una riforma ’dell’Ulivo’?
Io sono stato ministro nel primo governo Prodi e poi per nove anni giudice della Corte costituzionale. Parlo in base all’esperienza che ho fatto in questi anni, ma parlo soprattutto da semplice cittadino. E voglio ribadire una cosa: la Costituzione prima di cambiarla, bisogna rileggerla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla.
Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 07.06.2016)
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare.
Per cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a sinistra - così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano, presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act, poi il Migration compact, adesso si annuncia un Social act: ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact, dicevo, ha ricevuto un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo avanti.
Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» - peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd - gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere.
Per cambiare il Paese - come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza - non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è.
Se la democrazia è incompatibile con il mercato
di Andrea Colombo (il manifesto, 27.05.2016)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
Questione immorale
di Norma Rangeri
(il manifesto, 05.05.2016)
Almeno il fatto che in Italia c’è una questione morale, che poi, profanamente, potrebbe essere la traduzione del settimo comandamento (non rubare), è una banale constatazione. La diagnosi di una malattia grave sulla quale è difficile non convenire anche se poi si può chiamare in tanti modi.
Buttarsi in politica per fare affari, è, purtroppo un malcostume nazionale. Lo ha spiegato bene Stefano Rodotà scrivendo di «una proterva controetica esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari». Lo ripete il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in un’intervista all’Unità quando sostiene che «va evitata la commistione, specie a livello locale, tra attività economiche e attività politiche». Forse sarà per questo che in Italia non si riesce a fare una legge sul conflitto di interessi mentre si piazzano imprenditori al ministero dello Sviluppo. E dire che abbiamo avuto al governo, per vent’anni, il conflitto di interessi in persona (altra semplice constatazione, difficilmente confutabile). Conflitto di interessi, familismo amorale, cronica carenza di senso civico disegnano un quadro d’insieme disastroso. Specialmente se il politico ricopre un ruolo istituzionale, alla periferia come al centro del potere. Lo stiamo verificando nella vicenda delle recenti nomine del governo, con gli amici del premier candidati a ruoli di governo delicati e importanti.
Una volta diagnosticato il pessimo stato di salute dell’articolo 54 della Costituzione a proposito delle funzioni pubbliche da adempiere con «disciplina e onore», di tutto il resto si può discutere. Si può discutere se finire in galera perché si è un po’ taroccato un appalto per una piscina comunale sia eccessivo. Sicuramente lo sembra, probabilmente anche perché siamo un paese dove su una popolazione carceraria in crescita i detenuti per reati fiscali o finanziari nessuno li ha visti.
Sull’arresto del sindaco di Lodi è anche arrivato puntuale l’autogol del Pd con la richiesta dell’apertura di una pratica contro le magistrate che hanno mandato in carcere il sindaco piddino. Non stupisce che a chiedere un provvedimento disciplinare sia stato un componente del Csm iscritto al Pd, Giuseppe Fanfani, esponente di un blasonato casato politico aretino (salvo poi, scaricato da Renzi, fare marcia indietro). Tutta acqua al mulino dei 5Stelle.
Con un fenomeno di corruzione strutturale che investe la politica come la società, è difficile non arrivare ai ferri corti tra politici e magistrati. Ai rappresentanti del popolo non fa piacere ricevere l’accusa di essere i protagonisti del brutto film sul vasto mondo di corrotti e corruttori. Ed è vero che, fatalmente, i magistrati incontrando sulla loro strada professionale così tanti politici, finanzieri e imprenditori difficilmente riescono ad evitare collisioni di interessi e di poteri.
Il fatto è che tra un mese gli italiani di molte città saranno chiamati alle urne per decidere chi le deve amministrare. E il buon senso consiglia a Renzi di tenersi lontano dagli zelanti alleati del gruppo di Verdini. Che parlano di “complotto dei magistrati” mentre si coprono di ridicolo nel vano tentativo di smentire la loro partecipazione alla riunione di ieri con il ministro Orlando per definire la linea del governo sulla prescrizione. Renzi getta acqua sul fuoco («il complotto? ma de’ che»), ma se il Pd non si cura della qualità della sua classe dirigente (come ha fatto a Roma dopo Mafia-Capitale) rischia l’autocomplotto.
Il presidente-segretario, che già annuncia di schierare diecimila renziani per i porta a porta referendari, sa che ben prima, solo tra qualche settimana, deve affrontare le insidiose urne del 5 giugno. E l’unico boato che si ascolta per strada di questi tempi è l’intenzione di andare al mare.
Se delinque un politico il danno è doppio
Legalità. La corruzione dominante nel nostro paese non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti e tra queste mafia, camorra e ’ndrangheta, per i capitali e il territorio che controllano
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28.04.2016)
Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Pier Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo.
Sono in disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Davigo, nell’intervista ad Andrea Fabozzi (il manifesto, 24 aprile). Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente (interessano a pochi). « Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi», afferma Canepa nell’intervista, usando un motivo retorico per ridurre Davigo al rango del Grande Repressore.
Ma come si può attribuire una convinzione del genere non dico a un magistrato dell’intelligenza di Davigo, ma una qualsiasi persona di media cultura? Chi può non essere d’accordo su questo punto? Ma il fatto è che se manca la repressione, il resto (l’ amministrazione efficiente, un giustizia più rapida, la cultura della legalità, ecc) non tiene.
Senza la certezza della sanzione, la tendenza a delinquere appare incomprimibile. Soprattutto, per svariatissime ragioni storiche, in Italia.
Non dimentichiamo che nel nostro paese sono ancora vive e vegete due forme di criminalità organizzate che risalgono a prima dell’unificazione nazionale, la mafia e la camorra, mentre una terza, meno antica, la ‘ndrangheta, ha un raggio d’azione a scala mondiale.
Capisco bene quanto ha dichiarato Raffaele Cantone, in un’intervista sul Corriere della Sera (23 aprile): «Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano». Certamente, non sono bastate e non bastano, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Ai magistrati spettano altri compiti, altrimenti in questo modo, per difendere il governo Renzi capovolgiamo la verità dei fatti e con una capriola retorica gettiamo la croce su Mani Pulite.
Un po’ di storia non tanto per Cantone - magistrato prezioso per l’ opera che svolge nel nostro paese - ma soprattutto per il presidente del Consiglio. Le parole polemiche di Davigo sui politici che continuano a rubare, come in passato, ma ora non se ne vergognano - che certo non sono formalmente ineccepibili in chi rappresenta un sindacato - nascono nell’atmosfera tossica creata dalla dichiarazione di Renzi al Senato il 20 di questo mese.
In quella occasione ha detto testualmente che negli ultimi 25 anni sono state scritte «pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». 25 anni? Ora lasciamo da parte Mani Pulite, che di sicuro eccessi ne ha commessi, ma senza i quali non avrebbe scoperchiato un sistema di corruttela così pervasivo e onnipotente. Chi ha governato in Italia dopo quel terremoto giudiziario?
Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista?
Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L’intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi?
Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l’urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A.Floridia (il manifesto, 14 aprile) - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello?
Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto un’altra affermazione: «La classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi».
Ed è questo il punto, il vero punto da discutere.
Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, ‘ndrangheta e camorra, sia per l’imponenza dei capitali che muovono, che per l’ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com’è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione.
Più di quanto non si creda essa è legata strettamente alla dissoluzione dei grandi partiti di massa, i quali formavano e selezionavano i quadri politici destinati alle amministrazioni locali, al Parlamento, alla loro stessa gestione in centro e in periferia.
Erano questi che operavano i primi filtri e controlli sulla qualità, innanzi tutto morale, dei propri esponenti. Oggi tale lavoro di selezione e filtro non esiste più. I presidi politici della legalità sono stati sciolti. E chi decide di fare politica lo fa per pura ambizione personale, entrando in un agone competitivo interpersonale, anche con i propri compagni e in cui tutto è permesso.
Ma la scomparsa dei grandi partiti popolari, nel nostro caso del Pci, e l’emarginazione crescente del sindacato, hanno anche un altro esito rilevantissimo per il dilagare della corruzione. Perché in mancanza di un grande antagonista organizzato, capace di opposizione, vigilanza e controllo, le classi dirigenti italiane, i nostri ceti dominanti e quei politici che li rappresentano, sono da 20 anni impegnati in un’azione predatoria del bene pubblico di un’ampiezza senza precedenti.
Un’opera imponente di manomissione che solo il vigore delle leggi riesce in parte a contenere e limitare. Oltre all’azione generosa di pochi movimenti. La predazione, tramite soprattutto le Grandi opere, riguarda il territorio, l’acqua, il patrimonio urbano, i beni artistici , le città, il paesaggio. Anche spesso i nostri diritti.
Allora, caro Cantone, è evidente che «le manette non bastano». La legge e la vigilanza dei magistrati servono solo a contenere parte di quella predazione di classe che scivola nell’illegalità, la punta dell’ iceberg. Non il resto. Perciò non solo non è giusto, ma è un grave danno criticare i magistrati intransigenti. Perché oggi, quanto meno, costituiscono l’ insufficiente argine in difesa del bene pubblico.
Piercamillo Davigo: "I politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi"
Ansa *
I politici "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: "Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare". Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti".
Lo afferma al Corriere della Sera, Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, spiegando che "prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura".
Alla domanda se quindi si ruba più di prima, Davigo spiega: "Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata".
Dopo Mani Pulite, prosegue Davigo, "hanno vinto i corrotti, abbiamo migliorato la specie predata: abbiamo preso le zebre lente, le altre sono diventate più veloci".
A fermare quel pool "cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un pò genuflessi sì".
Il governo Renzi? "Fa le stesse cose - dice Davigo -. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito".
Sulla responsabilità civile dei magistrati, il presidente dell’Anm parla di norme ridicole: "L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano". Sul rapporto tra toghe e Palazzo, Davigo osserva: "I magistrati avendo guarentigie non sono abituati al criterio di rappresentanza: per questo sovente sono pessimi politici".
La democrazia senza morale
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 8 aprile 2016) *
Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”.
Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.
Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari).
Comincia stabilendo che «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» . Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: « i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Parola, quest’ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule «non vi è nulla di penalmente rilevante», «non è stata violata alcuna norma amministrativa». Si cancella così la parte più significativa dell’articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.
Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un “ valore aggiunto”, che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all’interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l’onore rileva verso l’esterno, « n’agit qu’en vue du public », mentre «la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza».
Ma da anni si è allargata un’area dove i “servitori dello Stato” si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d’essere della politica e dell’amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell’articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l’impunità, e si ripresenta la concezione «di una classe politica che si sente intoccabile», come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l’effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all’interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo “così fan tutti” che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti.
Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell’uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l’incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l’elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).
Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare.
In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la “constitutional morality”.
In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella “controsocietà degli onesti” alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L’accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell’einaudiano “conoscere per deliberare”, ma anche dell’ancor più attuale “ conoscere per controllare”, ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la “democrazia di appropriazione” spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull’accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v’è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti.
Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull’accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d’Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.
Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l’amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah, dice, ma non sono in triplice copia!”». Non basta più l’evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.
I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all’italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d’interesse, evasione fiscale, collusioni d’ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l’uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l’attacco alla magistratura e l’esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l’attingere i nuovi “salvatori della patria” proprio dalla magistratura, così ritenuta l’unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all’esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.
SALVO RIINA DA BRUNO VESPA
Il figlio di Riina a Porta a Porta
«Amo mio padre e non lo giudico»
La mafia cos’è? «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia»
di Salvatore Frequente (Corriere della Sera, 06.04.2016) *
«Sono figlio di Totò e non del capo dei capi». Si presenta così Salvo Riina, 38enne e una condanna per mafia (già scontata) alle spalle, nella contestata puntata di Porta a Porta. Da Bruno Vespa il figlio di Totò, capo di Cosa Nostra, racconta la vita della famiglia del padre-boss in occasione dell’uscita del suo libro «Riina, family life».
Falcone e Borsellino? «Ho rispetto per tutti i morti»
«Io ho sempre rispetto per i morti, per tutti i morti», dice Salvo quando parla dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riina Junior osserva con sguardo impassibile le immagini storiche di quelle stragi ordinate dal padre. «Io non giudico Falcone e Borsellino, qualsiasi cosa io dico sarebbe strumentalizzata», dice da Bruno Vespa il figlio di Totò Riina che ricorda così il 23 maggio del 1992 giorno dell’attentato a Falcone: «Ricordo il fatto, avevo 15 anni, eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene - aggiunge Riina Jr. - abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c’era mio padre e non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell’attentato».
«La mafia non so cosa sia»
Lui che la condanna per associazione mafiosa a 8 anni e 10 mesi l’ha interamente scontata, con un papà e un fratello condannati all’ergastolo (e al «41 bis») alla domanda «La mafia cos’è?» risponde così: «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia». Nato mentre il padre era ricercato, ha vissuto anche lui cambiando sempre abitazione ma quando parla della sua famiglia la descrive solamente come «diversa»: «A casa nostra - dice Riina Jr. a Porta a Porta - abbiamo vissuto sempre nella massima tranquillità. Non ci siamo mai chiesti perché non andavamo a scuola. Mai fatto queste domande, la nostra era una sorta di famiglia diversa». «C’era - prosegue - una sorta di tacito accordo familiare, noi eravamo bambini particolari, il nostro contesto era diverso, abbiamo vissuto anche in maniera piacevole, nella sua complessità è stato come dire un gioco».
«Amo mio padre». L’arresto? «Non lo condivido»
Quel Totò Riina che, per la sua ferocia sanguinaria, è stato soprannominato «la belva», dal figlio viene descritto come un padre affettuoso: «Amo mio padre e la mia famiglia, al di fuori di ciò che gli viene contestato, giudico ciò che mi hanno trasmesso: il bene e il rispetto, se oggi sono quello che sono - dice Salvo da Bruno Vespa - lo devo ai miei genitori. Perché devo dire che mio padre ha sbagliato? Per questo c’è lo Stato, non tocca a me». E lo Stato? «È l’entità in cui vivo» di cui «magari non condivido determinate leggi o determinate sentenze»,dice il figlio di Totò Riina, rispondendo ad una domanda di Bruno Vespa. «Rispetta la condanna contro suo padre?», gli chiede il conduttore: «No, perché è mio padre. A me ha tolto mio padre». Nessun riferimento ai crimini commessi dal padre, nessuna condanna da parte del figlio: «Il quarto comandamento dice: "onora e rispetta sempre i tuoi genitori", e io così faccio», ha detto Salvo. Ma quando Bruno Vespa ribatte citando il quindi comandamento «Non uccidere», Riina ribadisce: «Non devo essere io a giudicare».
L’attacco ai pentiti
Ma il figlio di Totò Riina si spinge anche a parlare dei collaboratori di giustizia. «Negli altri Paesi democratici non accade. Solo in Italia un pentito, che dice di aver commesso centinaia di omicidi, non fa neppure un giorno di carcere, mandano gli altri in carcere e poi loro tornano in giro a fare quello che facevano». I pentiti di mafia, aggiunge Riina Jr., «sono stati sicuramente usati dallo Stato. Non si accusano le persone solo per un tornaconto, ci sarà sempre un giorno in cui dovrai pentirti davanti a Dio».
Le polemiche
Un’intervista che ha fatto discutere prima della messa in onda. A sollevare le polemiche per la presenza di Riina jr. era stata proprio Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia. «Mi auguro che in Rai ci sia un ripensamento. Ma se questa sera andrà in onda l’intervista al figlio di Totò Riina, avremo la conferma che Porta a Porta si presta ad essere il salotto del negazionismo della mafia e chiederò all’Ufficio di Presidenza di convocare in Commissione la presidente e il direttore generale della Rai», aveva detto Bindi. Poco dopo, l’annuncio di Pier Luigi Bersani di non partecipare alla trasmissione. E dopo ore di polemiche incalzanti arriva la conferma: la puntata andrà in onda. «Tra poco trasmetteremo l’intervista a un mafioso. È Salvo Riina, il figlio di Totò Riina, il capo dei capi della mafia», dice Bruno Vespa lanciando all’inizio del programma Porta a Porta l’intervista del figlio di Totò Riina e sottolineando: «Un ritratto sconcertante, certo, ma per combattere la mafia bisogna conoscerla. E per conoscerla meglio c’è bisogno a nostro avviso anche di interviste come questa».
Maria Falcone: «Fatto indegno»
«La Rai ha deciso di andare avanti e di mandare in onda il figlio di Totò Riina? Vuol dire che non ha avuto la forza di tornare indietro. La sua presenza nel servizio pubblico è un’offesa per tutti, un fatto indegno», ha commentato Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. E la Commissione parlamentare Antimafia ha convocato per domani, giovedì 7 aprile, alle ore 16, la presidente della Rai, Monica Maggioni e di direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, per un’audizione urgente sulla vicenda.
Salvatore Borsellino
Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia guidata da Totò Riina, affida a un post di Facebook il suo sfogo: «Noi familiari delle vittime di mafia eventi di questo tipo significano ancora una volta - scrive - una riapertura delle nostre ferite, ove mai queste si fossero chiuse, ma ormai purtroppo questo, dopo 24 anni un cui non c’è stata ancora né Verità né Giustizia, è una cosa a cui ci siamo abituati, ma mai rassegnati».
Il no di Fnsi e Usigrai
Anche l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini, e la Federazione nazionale della stampa sono contrari alla messa in onda dell’intervista: «Dopo i Casamonica, stasera a Porta a Porta la famiglia Riina. La Rai Servizio Pubblico non può diventare il salotto di famiglie criminali. Chi strumentalmente vuole invocare presunte volontà censorie, ci dica perché non si dedica almeno lo stesso spazio alle giornaliste e ai giornalisti minacciati». Scrivono così il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani.
I familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili
Interviene nella polemica anche l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: «Possibile che siamo costretti a subire una offesa così grave, senza poter far nulla? Ma che Paese è quello che consente a conduttori televisivi di emittenti di Stato di insultare le vittime di Cosa nostra per mere ragioni che ci rifiutiamo di prendere in considerazione?», chiede la presidente Giovanna Maggiani Chelli.
Grasso: «Non guarderò Porta a Porta»
Sulla questione è intervenuto anche Pietro Grasso. Il presidente del Senato commenta su Twitter: «Non mi interessa se le mani di #Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò @RaiPortaaPorta».
«In 20 anni di Porta a Porta Vespa non si è mai occupato del delitto di Piersanti Mattarella e non ha mai invitato in studio il fratello, oggi presidente della Repubblica. Adesso invita il figlio del carnefice. È questo il nuovo servizio pubblico?», si chiede il deputato del Pd e segretario della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi. Interviene anche Ernesto Magorno, deputato Pd e componente dell’Antimafia: «La Rai ascolti l’appello della presidente Bindi e ci ripensi. La presidente e il direttore generale della Rai intervengano. C’è il rischio che proprio dalla prima rete del servizio pubblico il figlio del boss mandi messaggi e segnali di natura inquietante e inaccettabile. Siamo sicuri che sia questo il tipo di giornalismo di cui ha bisogno il servizio pubblico?».
* Corriere della Sera, 6 aprile 2016 (modifica il 7 aprile 2016 | 07:50) (ripresa parziale - senza video).
Riforme, Zagrebelsky: “Siamo quasi al punto zero della democrazia”
Il costituzionalista è intervenuto nel dibattito "Meno democrazia?" organizzato dalle associazioni "Libertà e giustizia" e "I popolari" a Torino: "Bisogna interrogarsi sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato"
di F. Q. *
“Un degrado, quasi il punto zero della democrazia”. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha commentato così la discussione delle riforme in Parlamento e le polemiche sulla decisione del presidente del Consiglio di andare avanti nonostante le polemiche dell’opposizione. “Bisogna interrogarsi”, ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale, “sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato”. Dubbi simili a quelli espressi dal costituzionalista Alessandro Pace che, in un’intervista al Fatto Quotidiano, ha detto che “le Camere si trovano sotto ricatto”.
Zagrebelsky è intervenuto nel corso del dibattito organizzato dalle associazioni “Libertà e Giustizia” e “I Popolari” sul tema “Meno democrazia? e ha rivelato le sue perplessità sulla situazione politica e sul dibattito in Parlamento. “Sono 40 anni”, ha detto, “che si parla di riforme costituzionali, chiediamoci in che direzione vanno quelle che sono in cantiere: in quella di aprire spazi alla politica e alla democrazia o piuttosto di valorizzare il momento esecutivo, che non è compatibile con l’ampliamento della democrazia?”.
Secondo Zagrebelsky, che nel suo intervento ha ammonito la politica a lavorare in un “clima costituente“, bisognerebbe porsi la domanda se siano più importanti “le regole costituzionali o la qualità di chi le fa funzionare perché una cattiva Costituzione nella mani di una buona politica produce comunque risultati accettabili, mentre la migliore Costituzione nelle mani della cattiva politica produce risultati cattivi”. Riferendosi, infine, all’eventualità del referendum confermativo, il giurista ha invitato a fare attenzione perché, ha detto, “qui ci si gioca moltissimo. Se è richiesto dal Governo sarà un plebiscito e sarà un voto di schiacciamento da una parte o dall’altra. Si sta giocando una partita che può essere terribile”.
Nei mesi scorsi Matteo Renzi aveva liquidato i commenti dei costituzionalisti dicendo di “aver giurato sulla Costituzione e non sui professoroni“. E lo stesso Zagrebelsky, in occasione della festa del Fatto Quotidiano “Partecipa” ha rivelato di aver ricevuto una telefonata del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che cercava di scusarsi per l’equivoco: “Abbiamo a che fare con la stampa, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”, gli ha detto al telefono per giustificare le espressioni usate dal presidente del Consiglio. Ma secondo il costituzionalista sarebbe stato solo un modo per dimostrare che il governo stava cercando di sentire più esperti possibili sulle riforme.
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In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
Il governo della nazione
Il premier e l’ampia maggioranza per vincere la sfida di ottobre
di Francesco Verderami (Corriere della Sera, 30.01.2016)
È nato il governo della nazione, retto alle Camere da una maggioranza per la nazione, che non darà vita al Partito della nazione ma (forse) all’Alleanza per la nazione.
Il rompicapo è più semplice di quanto appaia, così come il rimpasto è più importante di quanto non appaia. Perché è dalla «ristrutturazione» dell’esecutivo che si comincia a delineare la strategia del premier, due anni dopo la presa di Palazzo Chigi e due anni prima dell’esame elettorale. Gli innesti nella squadra di governo, intanto, sono stati il modo in cui il leader del Pd ha instaurato una sorta di «pax renziana» nel vasto territorio che controlla: ha rinsaldato il patto con la minoranza dialogante del suo partito, ha soddisfatto un pezzo di mondo cattolico progressista legato alla comunità di Sant’Egidio, ha lanciato un segnale alla Cgil tenendo ai margini la «ditta», ha dato un upgrading a Scelta civica, e soprattutto ha riconosciuto un ruolo da alleato ad Alfano ma senza impegnarsi sul futuro.
Il risultato è la nascita del governo della nazione, se è vero che nello stesso gabinetto ora convivono l’erede di una famiglia liberale come il neoministro Costa, e un eretico della Rifondazione comunista come il neosottosegretario Migliore. Un melting pot che per gli avversari di Renzi ha i caratteri di un’operazione trasformista, ma che per Renzi è un tentativo di veder remare tutti i coalizzati nello stesso verso in vista del referendum costituzionale. E poco importa se i dubbi sulla composizione dell’equipaggio non hanno smesso di tormentarlo, se non è mai profondamente convinto delle scelte: dall’inizio della sua avventura al governo va così, anche stavolta c’è stato un rimpasto nel rimpasto.
Il governo della nazione serve ai suoi obiettivi e in fondo rispecchia l’immagine della maggioranza alle Camere, che è cambiata da quando ottenne la fiducia. Perché non c’è dubbio che il baricentro si stia sempre più spostando da sinistra verso il centrodestra, che al Senato - dove i voti non si pesano ma si contano - i parlamentari provenienti dal disciolto Pdl sono ormai la metà di quelli espressi dal Pd. E a fronte di una lenta emorragia nelle file democratiche si assiste a un travaso di ex e post-berlusconiani, «che fanno la fila» come ha detto Renzi nell’ultimo discorso a palazzo Madama, e che «aumenteranno» come ha preannunciato Verdini.
È vero che il capo del gruppo Ala - primo esempio di adozione politica a distanza - non è stato ancora accolto in casa. Ma è come se già ci fosse, sta lì sul pianerottolo: è con lui che in Parlamento ha preso corpo la maggioranza per la nazione. Toccherà al premier decidere se questa formula di Palazzo sarà proposta un giorno al giudizio del Paese. Di certo non è nelle intenzioni del premier dar vita al Partito della nazione, come ieri ha ripetuto il ministro Boschi, sebbene Verdini teorizzi che «Renzi potrebbe essere costretto dagli eventi a cambiare i propri piani». In prospettiva resta comunque valida un’altra opzione, che diventerebbe realtà se il leader del Pd accedesse all’idea di cambiare la legge elettorale e di restituire il premio di maggioranza a una coalizione, non più a una lista. È lì che nascerebbe l’Alleanza per la nazione e il cerchio si chiuderebbe in modo clamoroso.
Renzi finora ha fatto muro sull’Italicum, o meglio non ha mostrato le sue carte. La scelta peraltro arriverà solo alla vigilia del voto, sarà il frutto di un’analisi del risultato referendario, sarà l’effetto di un calcolo costi-benefici, dovrà scontare variabili che al momento non possono essere valutate. Il percorso è troppo lungo, se davvero le urne si aprissero nel febbraio del 2018, così come il premier non smette di ripetere in pubblico e in privato.
L’Alleanza per la nazione resta dunque sullo sfondo, mentre in Parlamento si consolida la maggioranza per la nazione. La quotidianità dei voti nelle Aule del Parlamento, insieme alla battaglia referendaria, potrebbero fare da innesco al cambio di sistema. Rimane da capire come si assesterà l’area che un tempo era nel centrodestra, «e che resta di centrodestra», sottolinea Schifani: «Noi non saremo una nuova Margherita».
La scommessa contempla una sola puntata, e proprio l’uomo dei numeri di Berlusconi avvisa che «non possiamo sbagliarla»: «Studio i flussi elettorali, conosco il rapporto che c’è tra un leader e l’opinione pubblica di riferimento. Perciò - dice Verdini - sono il primo a non farmi illusioni. Ma ritengo che questa area, garantendo l’elettorato di centrodestra sulla bontà delle scelte di governo di Renzi, possa arrivare al 10%».
«Giocatevi le vostre carte poi si vedrà»: così ha detto il premier che non dà garanzie sull’Alleanza per la nazione. Ma intanto si tiene stretti il governo della nazione e la maggioranza per la nazione.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Per il consenso si abdica al bene comune
di Luigi La Spina (La Stampa, 15.01.2016)
È vero che la democrazia è fondata sul consenso, ma il modo con il quale i nostri politici interpretano questa esigenza corre il rischio di danneggiare gravemente gli interessi degli italiani, tradendo il mandato per cui hanno ottenuto i voti dai cittadini, cioè la ricerca del «bene comune».
Sia la rinuncia all’abolizione del reato di immigrazione clandestina, sia la vicenda della riforma costituzionale costituiscono i più illuminanti esempi di come sia così assoluta l’ossessione per quel consenso, così prevalente lo scrupolo di non turbare l’alleato di turno, così esasperata la valorizzazione dell’immagine mediatica del leader da travolgere qualsiasi razionale esame sul merito delle questioni che si affrontano. Con l’implicita e, qualche volta persino esplicita, ammissione della resa al fondamentale compito di un politico, quello di indirizzare l’opinione pubblica verso quelle soluzioni che si ritengono più efficaci e più giuste.
Clamoroso sintomo della consapevolezza di tale incapacità a esercitare il ruolo che dovrebbe competere a un politico sono state le dichiarazioni di due ministri, Boschi e Alfano, sul reato di immigrazione clandestina. Tutti e due, con una sciagurata confessione pubblica, hanno ammesso candidamente di condividere l’opinione generale di coloro che, magistrati e forze dell’ordine, tutti i giorni si trovano ad affrontare il difficilissimo problema dell’immigrazione di massa nel nostro territorio: lo sbandieramento dell’accusa di reato davanti a questo esodo della disperazione non solo è inutile, ma è un ostacolo grave a una accoglienza più controllata di tali flussi immigratori. Ma all’abolizione di questo reato non si può provvedere «perché gli italiani non capirebbero», interpretando il provvedimento come un’apertura incondizionata e senza regole delle nostre frontiere.
A parte l’offesa immeritata alla generale maturità intellettiva dei connazionali, i due ministri hanno avuto il merito di non nascondere ipocritamente i motivi di una precipitosa marcia indietro rispetto a un’abolizione opportuna e urgente, ammettendo la loro inadeguatezza a spiegare agli italiani le buone ragioni di tale mossa e, con ciò, la loro scarsa credibilità e autorevolezza rispetto all’elettorato. Risultato: agli italiani è stato arrecato il danno della rinuncia a un provvedimento utile a fronteggiare meglio l’immigrazione per l’incapacità di esercitare i compiti propri di una classe politica in democrazia.
Un uguale sprezzo della ragione e del merito delle questioni si è manifestato nella vicenda della riforma costituzionale e nell’avvio della campagna elettorale per il referendum sulla nuova legge che dovrebbe tenersi in autunno. Con l’aggravante di una questione di grande rilevanza per il buon funzionamento delle nostre istituzioni.
I parlamentari di Forza Italia, dopo aver votato in prima lettura la nuova legge imperniata sulla riforma del Senato, hanno cambiato idea solo perché, dopo la fine del cosiddetto patto del Nazareno col Pd, «si deve mandare a casa Renzi». Con l’incredibile conseguenza di trovare buona compagnia tra i promotori del referendum, proprio gli storici, acerrimi nemici di Berlusconi. Una ammucchiata sconcertante di «no», tenuta insieme evidentemente solo dal desiderio di cacciare il leader Pd da Palazzo Chigi e aiutata dallo stesso Renzi, voglioso di trasformare un giudizio su una legge in un plebiscito a favore o contro di lui.
Gli esempi citati del «malo modo» con il quale si fa politica in Italia potrebbero facilmente moltiplicarsi. Basti pensare alla legge Fornero sulle pensioni, approvata da un largo schieramento parlamentare durante il governo Monti come l’unica, benché molto amara, medicina per garantire il salvataggio dei conti dell’Inps e, ora, senza un partito che riconosca di averla votata. Oppure al ridicolo balletto sull’abolizione della tassa sulla prima casa, con una inversione del giudizio di volta in volta, solo secondo chi l’ha decisa.
La distorsione strumentale e miope, ormai senza più limiti, di un serio esame del merito delle questioni e, soprattutto, della valutazione dei concreti risultati delle leggi che sono state approvate dal Parlamento si è allargata anche fuori dal recinto della politica per invadere tutto il discorso pubblico nazionale. Un esempio, tra i tanti, la vicenda della riforma del mercato del lavoro. Sintomatici i commenti dei sindacati dopo la diffusione, da parte dell’Istat, degli incoraggianti dati sull’occupazione in Italia. Invece di accogliere con compiacimento i risultati del cosiddetto Jobs Act, magari esprimendo un condivisibile timore per le possibili conseguenze negative della futura riduzione degli incentivi alle aziende per le assunzioni, i leader delle confederazioni sono sembrati quasi dispiaciuti che la realtà sconfessasse le loro funeste previsioni sui concreti effetti del provvedimento.
Gli italiani avrebbero il diritto di non vedere così sacrificati i loro interessi da un mediocre gioco politicista in Parlamento, in tv e sulle piazze. Come il diritto di conoscere il contenuto delle leggi che si propongono per poter giudicare sul merito delle questioni e non sui vantaggi elettorali di chi le approva. Così potrebbero premiare la coerenza delle posizioni invece che la prontezza con cui le si cambiano. Soprattutto, avrebbero il diritto di pretendere il rispetto della loro intelligenza.
"QUI, QUA, Quo!": "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE. Note su "Quo vado? (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Checco Zalone)->":
La commedia del comico pugliese supera i 52 milioni di euro di incassi. Ripercorriamo alcuni momenti del film
di Simona Santoni *
Checco Zalone supera Checco Zalone. Ad oggi e in soli 12 giorni Quo vado?, di cui il comico pugliese è sceneggiatore e pieno mattatore, diretto da Gennaro Nunziante, ha superato i 52 milioni di euro di incassi, soglia che era stata sfiorata dal suo precedente Sole a catinelle (fino a ieri il secondo maggior incasso italiano di sempre dopo i 67,7 milioni di Avatar).
I motivi del successo di Quo vado? abbiamo cercato di analizzarli qui. Tanto va alla simpatia di Zalone e alla sua cinica capacità (più o meno scontata) di ritrarre i difetti degli italiani. Ai numeri record avranno però contribuito anche l’invasione delle sale cinematografiche (il film è stato distribuito in oltre mille copie, affollando anche i cinema più piccoli di solito riservati a film d’essai) e l’immotivata maggiorazione dei prezzi del biglietto (un esempio? 9 euro anziché 8,20 nella sala Uci Cinema di Jesi).
Ma... "ce ne fossero tanti che incassano come Zalone!", come ha detto Giuseppe Tornatore presentando il suo nuovo film La corrispondenza.
Ripercorrendo Quo vado?, ecco le 10 battute che ci hanno fatto ridere o sorridere di più (con ovvio rischio di spoiler):
1) Checco (ovvero Luca Medici in arte Checco Zalone), di fronte alla riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province e mina il suo fantomatico posto fisso, si reca a Roma al Ministero per ridefinire la sua posizione. Entra in un ufficio dove ci sono due scrivanie, una occupata da un signore, l’altra da una signora, e si avvicina a quella con l’uomo.
L’uomo alla scrivania: "Deve conferire con la dottoressa".
Checco: "Ho visto che era femmina, ho detto ’è la segretaria’".
Dottoressa Sironi: "E invece sono la dirigente".
Checco: "E tu segretario? ’Do caz’ siamo arrivati!".
2) La dottoressa Sironi (Sonia Bergamesco) spedisce Checco a lavorare nei posti più impensati d’Italia, per indurlo a dimettersi, ma lui ha un estremo spirito di adattamento. Dalla Sardegna chiama Fanelli, il suo ex superiore, per raccontargli del nuovo lavoro.
Checco: "Fanelli, sto da Dio! Praticamente i colleghi mi hanno organizzato questo trattamento che se c’è da fare una cosa, anche una fotocopia, ti dicono ’no, tu non sei capace, lo deve fare il tuo collega’. Come si chiama?".
Fanelli: "Il mobbing...".
Checco: "Il mobbing! Fanelli, come mi rilassa".
3) Trasferito al Polo Nord, accanto alla ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), Checco viene aggiornato sullo stato di salute dell’orso polare. Il krill, una delle più grandi fonti alimentari dell’oceano, purtroppo è sempre più inquinato e Valeria e il suo socio Massimo sono preoccupati. Checco non capisce.
Massimo: "Di krill chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di una foca).
Checco: "Le foche".
Massimo: "E di foche chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di un orso polare, sotto cui è affissa la foto del presidente della Repubblica).
Checco: "Mattarella?".
4) Checco è innamorato di Valeria, che lo invita nella sua abitazione norvegese per il weekend. Qui Checco scopre che Valeria è una donna molto aperta. Gli fa vedere un album fotografico: in ogni missione in giro per il mondo ha stretto relazioni con ragazzi autoctoni e da ognuno ha avuto un bambino (ha un figlio di colore, una di origini filippine, uno biondissimo norvegese). Sfogliando l’album gli mostra anche una sua precedente fidanzata. Checco rimane basito e continua a sfogliare da solo l’album, finendo tra tante immagini di cavalli. Valeria intanto da un’altra stanza lo chiama.
Checco: "Sì, finisco il periodo equino e vengo".
5) Prima di mettersi a tavola, a casa di Valeria, è di rito la preghiera. Ogni figlio di origini etniche diverse intona a turno una sua preghiera. Quando tocca al più piccolo, il biondissmo norvegese:
Checco: "Tu?".
Il bambino: "Io sono ateo".
Checco: "Ringraziamo a Cristo!".
6) Checco prepara per la famigliola di Valeria ghiotte specialità culinarie del sud italiano. Le porta a tavola ma i bambini stanno per intonare le loro preghiere.
Checco: "No no, questi vanno mangiati caldi. Ve li ho già pregati io".
7) Con alle spalle anni di servizio all’Ufficio Caccia e Pesca in Italia, Checco è un mago nell’aggiustare il distributore automatico del caffè.
Checco: "15 anni di impiego pubblico. Sono le basi. Poi vi spiego come fare a prendere le merendine senza pagare".
8) Checco ha imparato ad ammirare il civilissimo stile di vita norvegese. Ma dopo sei mesi di solo giorno, si succedono sei mesi di sola notte che minano l’umore degli abitanti. In un ufficio pubblico (dove un funzionario si è appena suicidato buttandosi dalla finestra), una signora dagli occhi lucidi e sconsolata dà appuntamento a Checco per l’indomani.
Checco: "Una domanda, signora, lei a che piano abita?", "Primo piano", risponde lei. "Allora vengo domani", conclude Checco.
9) In Africa, lontana da Checco, Valeria dà una grande notizia al suo uomo.
Valeria: "Sono incinta".
Checco: "Sai già l’etnia?".
10) La neonata di casa Zalone si chiama Ines.
Valeria: "Bello, significa purezza".
Checco: "Anche Istituto Nazionale Ente Statale".
Checco Zalone, dagli sms con Matteo Renzi al pranzo con Silvio Berlusconi: "Zalone starebbe sulle palle anche a me"
di Redazione (L’Huffington Post, 15/01/2016 - ripresa parziale)
Un successo trasversale, senza colori politici. Lo dimostrano gli sms con il premier Renzi e il pranzo a casa Berlusconi.
Forse, come racconta lui stesso in un’intervista a "Sette", Checco Zalone ha un solo difetto, un’eccessiva indulgenza verso gli italiani e i loro vizi. "È vero - dice a Vittorio Zincone - Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo".
Eppure, ormai, Zalone con Quo Vado?, è entrato prepotentemente nell’Olimpo del cinema italiano, quantomeno per i numeri strabilianti registrati ai botteghini, numeri che fanno da cassa di risonanza a un talento ormai appurato, attirando anche l’interesse del premier, che non nasconde di essere un suo fan.
Ma nella vita di Zalone non ci sono solo sms da Palazzo Chigi, ma anche un pranzo ad Arcore.
Poi il racconto della sua "storia" con Gennaro Nunziante, il regista con cui hai realizzato i suoi film.
Inevitabile un rapido passaggio sugli incassi delle pellicole: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? più di 60.
Infine i complimenti da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini e del regista Gabriele Muccino, entrambi concordi sul fatto che Zalone serviva al cinema italiano perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli. Il pugliese si diverte.
Il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella *
«Buonasera, un saluto molto cordiale a quanti mi ascoltano e gli auguri migliori, altrettanto cordiali, a tutte le italiane e a tutti gli italiani, in patria e all’estero; e a coloro che si trovano in Italia e che amano il nostro Paese. A tutti un buon 2016». Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha aperto il tradizionale messaggio di fine anno.
«L’anno che sta per concludersi - ha proseguito il Capo dello Stato - ha recato molte novità intorno a noi: alcune positive, altre di segno negativo. Questa sera non ripeterò le considerazioni che ho fatto, giorni fa, incontrando gli ambasciatori degli altri Paesi in Italia sulla politica internazionale, e neppure quelle svolte con i rappresentanti delle nostre istituzioni. Stasera vorrei dedicare questi minuti con voi alle principali difficoltà e alle principali speranze della vita di ogni giorno.
Il lavoro anzitutto. L’occupazione è tornata a crescere. Ma questo dato positivo, che pure dà fiducia, l’uscita dalla recessione economica e la ripresa non pongono ancora termine alle difficoltà quotidiane di tante persone e di tante famiglie.
Il lavoro manca ancora a troppi dei nostri giovani. Sono giovani che si sono preparati, hanno studiato, posseggono talenti e capacità e vorrebbero contribuire alla crescita del nostro Paese. Ma non possono programmare il proprio futuro con la serenità necessaria. Accanto a loro penso a tante persone, quarantenni e cinquantenni, che il lavoro lo hanno perduto, che faticano a trovarne un altro e che vivono con la preoccupazione dell’avvenire della propria famiglia. Penso all’insufficiente occupazione femminile. Il lavoro manca soprattutto nel Mezzogiorno. Si tratta di una questione nazionale. Senza una crescita del Meridione, l’intero Paese resterà indietro.
Le diseguaglianze rendono più fragile l’economia e le discriminazioni aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà. Come altrove, anche nel nostro Paese i giovani che provengono da alcuni ambienti sociali o da alcune regioni hanno più opportunità: dobbiamo diventare un Paese meno ingessato e con maggiore mobilità sociale.
Il lavoro e la società sono al centro di un grande processo di cambiamento. L’innovazione è una sfida che riguarda tutti. La competizione richiede qualità, creatività, investimenti. Impresa privata e settore pubblico, in particolare scuola, università e ricerca, devono operare d’intesa.
La condizione economica dell’Italia va migliorando: questo va sottolineato. Anche le prospettive per il 2016 appaiono favorevoli. Senza dimenticare l’azione svolta dalle istituzioni, va detto - e tengo a dirlo - che moltissimi nostri concittadini hanno operato con impegno e con senso di responsabilità, in settori diversi e con compiti differenti. Hanno contribuito in questo modo, malgrado la crisi, a tenere in piedi l’economia italiana. A tutti loro desidero render merito ed esprimere grande riconoscenza. Così come intendo inviare un messaggio di sostegno e di speranza alle famiglie particolarmente in affanno: non vanno lasciate sole, e chiedo l’impegno di tutti perché le difficoltà si riducano e vengano superate.
Un elemento che ostacola le prospettive di crescita è rappresentato dall’evasione fiscale. Secondo uno studio, recentissimo, di pochi giorni fa, di Confindustria, nel 2015 l’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Vuol dire 7 punti e mezzo di PIL. Lo stesso studio calcola che anche soltanto dimezzando l’evasione si potrebbero creare oltre trecentomila posti di lavoro: gli evasori danneggiano la comunità nazionale e danneggiano i cittadini onesti. Le tasse e le imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero. In questi giorni avvertiamo allarme per l’inquinamento, specialmente nelle grandi città.
Il problema dell’ambiente, che a molti e a lungo è apparso soltanto teorico, oggi si rivela concreto e centrale. Mi auguro che lo si affronti con un comune impegno da parte di tutti. Sono utili le diverse opinioni - e non si può certo comprimere il confronto politico - ma siamo di fronte anche alla natura, e ai suoi mutamenti, che contribuiscono a provocare siccità e alluvioni. In presenza di una sfida così grande, che coinvolge la salute, è necessario che prevalga lo spirito di collaborazione.
Dobbiamo avere maggior cura dei nostri territori. Da quelli montani a quelli delle piccole isole, dove nostri concittadini affrontano maggiori disagi. Occorre combattere contro speculazioni e sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. E’ confortante vedere la formazione di molti movimenti spontanei, l’impegno di tanti che si mobilitano per riparare danni provocati dall’incuria e dal vandalismo, e difendono il proprio ambiente di vita, i parchi, i siti archeologici. L’Italia è vista all’estero come il luogo privilegiato della cultura e dell’arte, e lo è davvero. Questo patrimonio costituisce una nostra ricchezza, anche economica.
Abbiamo il dovere di farlo apprezzare in un ambiente adeguato per bellezza. L’impegno delle istituzioni, nazionali e locali, deve essere in questo campo sempre maggiore. Un esempio: si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così.
Il compito di difendere l’ambiente, peraltro, ricade in parte su ciascuno di noi. Molto della qualità della nostra vita dipende dalla raccolta differenziata dei rifiuti e dal rispetto dei beni comuni. Non dobbiamo rassegnarci alla società dello spreco e del consumo distruttivo di cibo, di acqua, di energia. Passando ad un altro argomento su cui c’è grande attenzione, tutti sappiamo che il terrorismo fondamentalista cerca di portare la sua violenza nelle città d’Europa, dopo aver insanguinato le terre medio-orientali e quelle africane.
Realizzare condizioni di pace e stabilità per i popoli di quei Paesi è la prima risposta necessaria, anche per difendere l’Europa e noi stessi. La prosperità, il progresso, la sicurezza di ciascuno di noi sono strettamente legati a quelli degli altri. Non esistono barriere, naturali o artificiali, che possano isolarci da quel che avviene oltre i nostri confini e oltre le frontiere dei nostri vicini. In questi decenni di pace e di democrazia abbiamo sempre dispiegato un impegno costante in difesa di questi valori, ovunque siano minacciati.
La presenza diffusa dei nostri militari all’estero lo testimonia. A loro - e ai tanti volontari - va grande riconoscenza. Il terrorismo ci vuole impaurire e condizionare. Non glielo permetteremo. Difenderemo le conquiste della nostra civiltà e la libertà delle nostre scelte di vita. Con questo spirito abbiamo sentito, tutti, su di noi la sofferenza dei parenti delle vittime di Parigi e ci siamo stretti intorno alla famiglia di Valeria Solesin.
Le nostre Forze di polizia e i nostri servizi di sicurezza stanno agendo con serietà e con competenza per difendere la tranquillità della nostra vita. Il pericolo esiste ma si sta operando con grande impegno per prevenirlo.
Agli altri Paesi dell’Unione Europea abbiamo proposto di aumentare la collaborazione e di porre sollecitamente in comune risorse, capacità operative, conoscenze e informazioni per meglio contrastare e sconfiggere il terrorismo di matrice islamista. In questo periodo masse ingenti di persone si spostano, anche da un Continente all’altro, per sfuggire alle guerre o alla fame o, più semplicemente, alla ricerca di un futuro migliore. Donne, uomini e bambini: molti di questi muoiono annegati in mare, come il piccolo Aylan e, ormai, purtroppo anche nell’indifferenza.
Il fenomeno migratorio nasce da cause mondiali e durerà a lungo. Non ci si può illudere di rimuoverlo, ma si può governare. E si deve governare. Può farlo con maggiore efficacia l’Unione Europea e la stiamo sollecitando con insistenza.
Occorrono regole comuni per distinguere chi fugge da guerre o persecuzioni e ha, quindi, diritto all’asilo, e altri migranti che vanno invece rimpatriati, sempre assicurando loro un trattamento dignitoso.
L’Italia ha conosciuto bene, nei due secoli passati, la sofferenza e la fatica di chi lascia casa e affetti e va, da emigrante, in terre lontane. Il nostro è diventato, da alcuni anni, un Paese di immigrazione.
Molte comunità straniere si sono insediate regolarmente nel nostro territorio, generalmente bene accolte dagli italiani. Tanto che affidiamo spesso a lavoratrici e a lavoratori stranieri quel che abbiamo di più caro: i nostri bambini, i nostri anziani, le nostre case.
Sperimentiamo, giorno per giorno, sui banchi di scuola, al mercato, sui luoghi di lavoro, esperienze positive di integrazione con cittadini di altri Paesi, di altre culture e di altre fedi religiose. Il 70 per cento dei bambini stranieri in Italia, lo dice l’Istat, ha come migliore amico un coetaneo italiano. Bisogna lavorare per abbattere, da una parte e dall’altra, pregiudizi e diffidenze, prima che divengano recinti o muri, dietro i quali potrebbero nascere emarginazione e risentimenti.
Serve accoglienza, serve anche rigore. Chi è in Italia deve rispettare le leggi e la cultura del nostro Paese. Deve essere aiutato ad apprendere la nostra lingua, che è un veicolo decisivo di integrazione. Larghissima parte degli immigrati rispetta le nostre leggi, lavora onestamente e con impegno, contribuisce al nostro benessere e contribuisce anche al nostro sistema previdenziale, versando alle casse dello Stato più di quanto ne riceva. Quegli immigrati che, invece, commettono reati devono essere fermati e puniti, come del resto avviene per gli italiani che delinquono. Quelli che sono pericolosi vanno espulsi. Le comunità straniere in Italia sono chiamate a collaborare con le istituzioni contro i predicatori di odio e contro quelli che praticano violenza.
Negli ultimi anni è cresciuta la sensibilità per il valore della legalità. Soprattutto i più giovani esprimono il loro rifiuto per comportamenti contrari alla legge perché capiscono che malaffare e corruzione negano diritti, indeboliscono la libertà e rubano il loro futuro. Contro le mafie stiamo conducendo una lotta senza esitazioni, e va espressa riconoscenza ai magistrati e alle forze dell’ordine che ottengono risultati molto importanti.
Vi è, poi, l’illegalità di chi corrompe e di chi si fa corrompere. Di chi ruba, di chi inquina, di chi sfrutta, di chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, come accade purtroppo spesso dove si trascura la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La quasi totalità dei nostri concittadini crede nell’onestà. Pretende correttezza. La esige da chi governa, ad ogni livello; e chiede trasparenza e sobrietà. Chiede rispetto dei diritti e dei doveri. Sono numerosi gli esempi di chi reagisce contro la corruzione, di chi si ribella di fronte alla prepotenza e all’arbitrio.
Rispettare le regole vuol dire attuare la Costituzione, che non è soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori. Tengo a ribadirlo all’inizio del 2016, durante il quale celebreremo i settant’anni della Repubblica.
Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica.
Cosa vuol dire questo per i cittadini? Vuol dire anzitutto farne vivere i principi nella vita quotidiana sociale e civile. Nell’anno che sta per aprirsi si svolgerà il maggior percorso del Giubileo della Misericordia, voluto da Francesco, al quale rivolgo i miei auguri ed esprimo riconoscenza per l’alto valore del suo magistero. E’ un messaggio forte che invita alla convivenza pacifica e alla difesa della dignità di ogni persona. Con una espressione laica potremmo tradurre quel messaggio in comprensione reciproca, un atteggiamento che spero si diffonda molto nel nostro vivere insieme.
Sappiamo tutti che quando si parla di noi italiani le prime parole che vengono in mente sono genio, bellezza, buon gusto, inventiva, creatività. Sappiamo anche che spesso vengono seguite da altre, non altrettanto positive: scarso senso civico, particolarismo, individualismo accentuato.
Ricevo ogni giorno molte lettere e, in questo mio primo anno di presidenza, in giro per l’Italia e al Quirinale, ho incontrato tante persone e conosciuto le loro storie. Parlano di coraggio, di impegno, di spirito d’impresa, di dedizione agli altri, di senso del dovere e del bene comune, di capacità professionali, di eccellenza nella ricerca. E non si tratta di eccezioni. Nei miei colloqui con i rappresentanti di altri Paesi, in Italia e all’estero, ho sempre colto una considerazione e una fiducia nei confronti dell’Italia e degli italiani maggiori di quanto, a volte, noi stessi siamo disposti a riconoscere.
L’Italia è ricca di persone e di esperienze positive. A tutte loro deve andare il nostro grazie. Sono ben rappresentate da alcune figure emblematiche. Ne cito soltanto tre: Fabiola Gianotti, che domani assumerà la direzione del Cern di Ginevra, Samantha Cristoforetti, che abbiamo seguito con affetto nello spazio, Nicole Orlando, l’atleta paralimpica che ha vinto quattro medaglie d’oro. Nominando loro rivolgo un pensiero di riconoscenza a tutte le donne italiane. Fanno fronte a impegni molteplici e tanti compiti, e devono fare ancora i conti con pregiudizi e arretratezze. Con una parità di diritti enunciata ma non sempre assicurata; a volte persino con soprusi o con violenze. Un pensiero particolare alle persone con disabilità, agli anziani che sono o si sentono soli, ai malati. Un augurio speciale, infine, a tutti i bambini nati nel 2015: hanno portato gioia nelle loro famiglie e recano speranza per il futuro della nostra Italia.
Vi ringrazio, e a tutti buon 2016!».
Politica e impegno
Perché su Matteo Renzi gli intellettuali italiani stanno zitti?
In prima linea contro il berlusconismo, oggi gli intellettuali tacciono imbarazzati di fronte al giovane premier. E lasciano il monopolio della critica alla generazione dei “vecchi”
di Marco Damilano (l’Espresso, 29 dicembre 2015)
Parlo all’Italia riformista. Perché stiamo perdonando a Matteo Renzi quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere il popolo renziano per il raduno annuale.
Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un decreto del governo.
Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda «un’accolita che difende i malversatori». Ma esaurita l’indignazione di giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore, bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là della singola questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo principe venuto da Rignano.
Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti Scrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima fila nella firma di appelli e manifesti. Pronti a ingaggiare il corpo a corpo delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali. Con parole e opere: romanzi, film, canzoni, articoli. E ora, invece, stretti tra due accuse. Quella di Renzi e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco «professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione». «Un giorno si parlerà finalmente delle responsabilità delle élite culturali nella crisi italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014. «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda.
E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella avanzata dall’autore di “Gomorra”. La timidezza verso il nuovo potere renziano nell’ambiente culturale «riformista». Gli intellettuali di sinistra che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione.
«Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in “Mia madre”, anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire cose generiche o banali... Sono contento se il governo è di centrosinistra, facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso». Nanni Moretti ha interrotto di recente con un’intervista a “Oggi” e poi a “Le Monde” la sua distanza dalla politica. Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla.
Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci e della sinistra, da “Palombella Rossa” a “Aprile”, gli psicodrammi di militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di partito. L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse” di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli. E poi “Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e televisioni. E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003, quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica dei partiti di centro-sinistra.
Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantenni-sessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa. «A me Renzi sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e mezzo”. In continuità con quanto l’ex direttore di “Cuore” aveva scritto su “l’Espresso” (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua».
De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto merito suo, se con facilità impressionante ha conquistato il potere, scalato la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il pantheon dei miti fondativi. Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei partiti, più forti e resistenti delle ideologie.
Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo trionfante. E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche perché, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi».
C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità e senza farsi troppi problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi, aveva già ben rappresentato la felicità di un intellettuale di sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca.
Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci. Sono loro i «famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà o come Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la «leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là senza alcun costante e maturo impegno per un’opera degna della parola politica».
Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano. Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore delle riforme del governo Renzi.
Perché in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle, piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà infinite volte nelle zone grigie della storia». Un modello di potere post-democratico nell’Europa attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridare di accelerare».
Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti all’ultima edizione della Leopolda. Nelle precedenti kermesse aveva colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da muovere per primi, navi da bruciare alle spalle.
Ma questa volta non si è fatto vedere, né lui né altri artigiani dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal premier. Forse perché almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e “Youth - La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente renziani. O forse perché, semplicemente, Sorrentino è un outsider che vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano.
Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà il compito di formare la classe dirigente di domani. A dirigere “Volta” sarà Giuliano Da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già assessore alla Cultura con Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio. Il suo “La prova del potere” (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i Renzi e i Saviano, e già, c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina.
La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio, 2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua.
C’è anche questo, la difficoltà per gli intellettuali di professione di interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato. In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari. In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”. Forse per questo Moretti è confuso. E anche gli altri non stanno tanto bene.
Saviano: “La Boschi deve dimettersi”
“Abnorme conflitto di interessi”.
Guerini (Pd): “Interventi così non aiutano”
di F. S. (la Repubblica 12.12.15)
ROMA. «Il ministro Boschi deve dimettersi». Roberto Saviano chiede al ministro per le Riforme di lasciare, in un video messaggio pubblicato da Repubblica Tv. Lo scrittore giudica «abnorme» il conflitto di interessi rappresentato da un membro dell’esecutivo che decide sul destino di una banca, la Popolare dell’Etruria, di cui il padre è stato dirigente e il fratello dipendente. «Il governo non doveva occuparsi della banca, oppure deve chiedere al ministro di dimettersi», sostiene Saviano. Il fatto che Boschi non abbia partecipato al voto sul “salva-banche” è solo una «dissimulazione»: «Una struttura politica ha compiuto l’ennesimo atto autoritario».
Dalla Leopolda sono arrivate le reazioni di diversi esponenti del Pd. «Il governo ha fatto quello che era necessario, non capisco la richiesta di dimissioni», ha detto il sottosegretario Scalfarotto. «Servono equilibrio e attenzione, non credo che questo aiuti», ha aggiunto il vice segretario Guerini. E per il sindaco di Firenze Nardella, Saviano è «fuori dal mondo».
Due giorni fa Boschi ha preso le difese del padre Pier Luigi, vice presidente della Popolare fino a febbraio del 2015, data del commissariamento: «È una persona perbene, non sento nessun disagio».
Un gesto nobile, secondo Saviano, ma che ricorda le frasi di Marina Berlusconi sul padre. «Questo governo deve essere criticato con lo stesso rigore con cui abbiamo criticato il governo Berlusconi», continua lo scrittore. «Per molto meno siamo scesi in piazza. Non possiamo introiettare l’accusa di disfattismo con cui Renzi reagisce alle critiche».
Secondo Saviano sulla vicenda restano «troppe opacità» a cui Boschi deve rispondere: «Se resterà al suo posto è solo perché questo è il Paese del conflitto di interessi».
La moglie di Cesare e il padre di Maria Elena Boschi
di Roberto Saviano (il post, 11.12.2015)
Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.
Perché la Banca sia fallita - dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni - è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.
Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?
Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?
All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno - e i potenti ancor di più - facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.
Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin - amici dichiarati del nostro ex Presidente - perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano Repubblica un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?
Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione cosi importante e oggettiva?
Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente - questa la narrazione dei media di centrodestra - potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.
O forse le ragioni della attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.
Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.
Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.
Un saggio di Sergio Flamigni denuncia la collaborazione tra ex Br ed esponenti del potere democristiano
Segreti e bugie
quel patto occulto sul caso Moro
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 26.10.2015)
“Patto di omertà“(Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto (1979-‘83).
Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto “La tela del ragno”), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti. Perché - ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.
C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).
Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono:
(1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne;
(2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni;
(3) non vi furono trattative occulte.
Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).
La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.
Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.
Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.
Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.
Metamorfosi nel Pd
di Franco Cordero (la Repubblica, 22.10.2015)
LA stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori. L’Italia berlusconiana deperiva a vista d’occhio in gaudioso marasma.
Le istantanee d’epoca presentano figure d’atlante antropologico. Vedile in Repubblica , 30 agosto 2011. Da sinistra siedono al tavolo Marcello Dell’Utri, Flavio Carboni, Pasquale Lombardi, Arcangelo Martino, gentiluomini P3: Dell’Utri, ora recluso in espiazione d’una lunga pena, scambia pensieri profondi col crinito leonino Denis Verdini, già macellaio, allora triumviro forzaitaliota e banchiere d’avventura (ivi, 2 settembre); l’ancora più avventuroso Carboni possiede discariche tossiche dalle quali cavare oro muovendo pedine politiche (ivi, 3 settembre). L’arte del corrompere è motore immobile del Brave New World: Berlusco Magnus vi regna; inter alia, ha bandito una crociata contro gl’inquirenti intercettatori, affinché gli affari delicati corrano sicuri nei telefoni.
Tali essendo i virtuosi fondamenti, non stupisce il sèguito. L’ Egomane cade, dimissionario, indi sfiora una clamorosa rivincita elettorale, ancora favorito dalla pantomima che riporta al Quirinale Neapolitanus Rex; ma nemmeno i santi possono salvarlo da una condanna irrevocabile (frode fiscale), perciò decade dal Senato nel quale aveva asilo, e sbaglia varie mosse: esigeva la grazia motu Praesidentis (sarebbe gesto irresponsabile); imponeva le dimissioni ai suoi ministri, stavolta disubbedienti; ogni tanto cambia idea e sostiene l’esecutivo.
Dovendo scegliersi un successore, designerebbe l’ex sindaco fiorentino, ingordo boy scout rivelato dalla Ruota delle Fortuna su Canale 5, ma non è ancora rassegnato a farsi da parte e rimangia il consenso al governo. Colpo rischioso: l’opposizione offre poche chances; i gregari marciavano nel deserto; la fedeltà era già incrinata da una secessione. Stava nel probabile che alcuni o molti cambiassero seggio, in cerca d’un futuro meno avaro. Offeso, li marchia felloni.
Era forse meno prevedibile che guidasse gl’infedeli lo scudiero Denis Verdini: triumviro eminente, interloquiva nelle questioni capitali, impersonando l’establishment d’Arcore, dove pulpiti, turiboli, boiardi genuflessi governano masse adoranti (intervista al Corriere della Sera , 15 luglio 2010); organicamente devoto, nella triste notte 4-5 novembre 2011 consigliava a Sua Maestà d’eclissarsi (c’erano anche Gianni Letta e Angelino Alfano); lo sapevamo intento a ritessere l’unità del partito.
Dev’essere stato un trauma in casa B. il voto sull’art. 2 del ddl relativo al futuro Senato. Forte gesto politico. In primo luogo conferma quel che sapevamo su Matteo Renzi: i discorsi d’ideologia gli entrano da un’orecchia ed escono dall’altra; dopo il famoso colloquio al Nazareno (santuario Pd) dichiarava «profonda sintonia» col decaduto, cultore d’idee singolari sulla legalità.
Stavolta parla scozzese: Verdini non è il mostro di Lochness; porta nove voti al nascente «partito nazionale» e i dissidenti cantano fuori tempo. I valori della sinistra? Dopo il bagno nel postcomunismo dalemiano a stento esisteva come nome vuoto. L’Olonese liquida gl’idoli ma ha punti deboli nella storia privata: colossali interessi gl’imbrogliano i passi in politica; ottant’anni pesano; commette gaffes; perde i carismi e quando appare il sindaco in pose d’ultimo grido, l’agnizione è fulminea. Ecce homo novus. Non lo sarebbe se conservasse maniere, icone, parole d’ordine, riti. Se n’è disfatto senza scrupoli. Il suo futuro è nel polimorfo schieramento postberlusconiano: forzaitalioti rimasti nella vecchia casa, gli esitanti, precursori «diversamente berlusconiani» e l’appena nata Alleanza liberalpopolare.
Verdini, già legato alla famiglia R. ratione loci et negotiorum, è insostituibile alchimista, arruolatore, Gran Visir. Da questo lato Renzi ha poco o niente da temere, mentre sarebbe inquieta la gestione d’un partito nel quale contino qualcosa esponenti della soi-disant sinistra. Il predecessore deve rassegnarsi ed è abbastanza scaltro da capire che rischio corra giostrando solo o male accompagnato. Lo junior resta in «profonda sintonia », quindi non lesina i corrispettivi: supponendo vacante il Quirinale, gliel’offre senza pensarvi due volte; l’abbiamo visto risoluto e cinico. L’incognita sta negli elettori disgustati, non essendo infallibili i trucchi studiati nell’Italicum. Insomma, s’è premunito, diversamente dal quasi omonimo tribuno romano.
Va meno bene all’Italia. Sotto i mirabilia quotidianamente annunciati, il «partito nazionale» ha pesanti contropartite in politica interna: la chiamano moderna democrazia liberale ma i «moderati » consorti esigono una linea lassista, anzi criminofila. Vedi lo scempio dei giudizi: assurdi termini mandano in fumo processi e delitti; la procedura diventa fuga dall’equazione penale.
In lingua poetica, abitiamo una «terra desolata» (T.S. Eliot, The Waste Land): sviluppo economico, sensibilità etica, tasso intellettuale presuppongono una società le cui risorse siano equamente divise; in misura patologica qui se le divorano i parassiti. La Corte dei conti lo ripete invano. Lobbies intanate tra governo e parlamento lavorano sotto indecenti eufemismi.
Il premierato assoluto
di Ida Dominijanni, giornalista *
Un parlamento delegittimato dal pronunciamento della corte costituzionale sulla legge elettorale dalla quale è nato, un parlamento non rappresentativo degli attuali rapporti politici, ignorante e presuntuoso quant’altri mai e uso a comunicare attraverso la volgarità delle parole e dei gesti, ha approvato la più sgrammaticata, sgangherata e regressiva riforma costituzionale che sia mai stata concepita nei vari tentativi che si sono susseguiti dagli anni ottanta in poi. L’ha fatto nel disprezzo dichiarato delle competenze - i “professoroni” dileggiati dalla ministra Boschi - che via via ne hanno denunciato i difetti. L’ha fatto in un rapporto meramente competitivo con le generazioni precedenti, all’insegna del “noi riusciremo in tutto ciò in cui voi non siete riusciti”, l’insegna più significativa dei rottamatori al potere. L’ha fatto spacciando per riforma del senato quella che è in realtà una riscrittura di tutta la seconda parte della costituzione e uno stravolgimento della forma di governo e dell’equilibrio tra legislativo ed esecutivo, motivato con le magnifiche sorti di una “democrazia decidente” contrapposta alla democrazia rappresentativa (a sua volta fatta uguale a una supposta “democrazia consociativa” che avrebbe caratterizzato l’intero passato repubblicano). L’ha fatto su iniziativa e per conto del governo, che ha scandalosamente avocato a sé una materia parlamentare per eccellenza come quella costituzionale. L’ha fatto, infine, con la complicità di una sedicente opposizione interna al principale partito di governo, il Partito democratico, che ha preferito siglare un farraginoso compromesso su un singolo punto della riforma - il metodo di elezione dei senatori - piuttosto che mettersi di traverso alla sua intera filosofia.
Sulla quale bisognerà essere molto chiari almeno da qui al referendum al quale la riforma sarà comunque sottoposta. In questione non è solo il bicameralismo, che da perfetto diventa imperfetto - ma non per questo semplificherà l’iter di approvazione delle leggi, vista l’immensa confusione che vi introduce. In questione non è nemmeno la riduzione - anzi “l’asfaltamento”, come promise Matteo Renzi neoeletto presidente del consiglio, mani in tasca, nella sua prima performance a palazzo Madama - del ceto politico, visto che il numero complessivo dei parlamentari resta il più alto d’Europa. In questione non è infine, checché ne dica Giorgio Napolitano, il completamento di un disegno federalista dello stato, visto che il senato delle regioni si realizza nel momento di massima corruzione del regionalismo e di massima crisi delle forze politiche che del federalismo avevano fatto, nel ventennio scorso, la loro bandiera.
Come in tutto quello che va facendo, l’innovatore Renzi non apre un’epoca radiosa ma chiude un ciclo grigio
In questione, grazie al combinato disposto tra questa riforma costituzionale e l’Italicum, è l’istituzione, per giunta non dichiarata e dunque non discussa come tale né in parlamento né nel paese, di un premierato assoluto, senza contrappesi e senza controlli, che affida le sorti del governo e della democrazia all’arbitrio di una minoranza. Basta un quarto dei voti del corpo elettorale per incassare il premio di maggioranza, insediarsi al governo e decidere su tutto - non solo sulla materia delle leggi ordinarie, ma sui diritti fondamentali, le eventuali ulteriori revisioni costituzionali, lo stato di guerra eccetera - con il conforto di una camera di nominati e senza strumenti istituzionali di freno o di contrasto. Non si tratta dunque di un semplice rafforzamento del governo, ma di una rottura dell’equilibrio dei poteri e dei dispositivi di garanzia che nel ridisegnare la seconda parte della costituzione mette a rischio anche la prima - a conferma che prima e seconda parte sono intimamente connesse, come il costituzionalismo insegna.
Voltare pagina davvero
Ha ragione chi sostiene, nell’esigua minoranza contraria a questa controriforma, che siamo così arrivati all’approdo di una vicenda trentennale - cominciò con Craxi - in cui la riforma della costituzione è stata brandita per coprire con la presunta inadeguatezza delle istituzioni il progressivo deficit di stoffa e di capacità politica della classe dirigente e dei partiti: è il ben noto trucco in base al quale più si è impotenti più si attribuisce la propria impotenza a un vincolo esterno, invocandone lo scioglimento. È altresì vero che nel corso di questa vicenda molti sono stati gli errori ripetuti, per primo quello di cambiare la carta costituzionale secondo la convenienza della maggioranza di turno, di sinistra - la riforma del titolo V voluta dall’Ulivo nel 2001 - e di destra - la riforma della costituzione varata dal governo Berlusconi e sepolta dal referendum nel 2006.
Di questa lunga vicenda vanno, tuttavia, sottolineate anche alcune discontinuità. La bozza di riforma varata dalla bicamerale nel 1998, alla quale l’opinione corrente a sinistra attribuisce la colpa di avere dato la stura alla “svendita” e alla delegittimazione della carta del 1948, non solo brillava al confronto di quella che rischia oggi di diventare effettiva, ma rispondeva all’esigenza di contenere la spinta violenta alla decostituzionalizzazione di cui la “nuova destra” del 1994 era portatrice, e che minacciava di scatenare convocando un’assemblea costituente in cui sarebbe stata con ogni probabilità maggioranza. Le cose oggi appaiono tragicomicamente invertite. Per paradosso, quella spinta alla decostituzionalizzazione si realizza nel momento in cui quella destra è storicamente sconfitta; e a farla propria è un partito nato nell’alveo del centrosinistra e trasformatosi in partito della nazione per portare a compimento la controrivoluzione neoliberale in Italia. Come in tutto quello che va facendo, l’innovatore Renzi non apre un’epoca radiosa ma chiude un ciclo grigio. Forse spetterà alla sinistra del futuro, se e quando nascerà, convocare una nuova assemblea costituente, se e quando sarà il momento di dichiarare finita questa controrivoluzione e di voltare pagina davvero.
Lo spirito incostituente
di Norma Rangeri (il manifesto, 14.10.2015)
Il vicepresidente della Lombardia, arrestato ieri per corruzione, è stato davvero sfortunato. La magistratura è intervenuta, purtroppo per lui, prima che il nuovo Senato dei consiglieri regionali diventasse realtà. Perché tra i tanti obbrobri che il governo del “fare” vorrebbe regalarci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Parlamento formato dalla classe politica più squalificata del nostro paese. Ma protetta, domani, dall’immunità.
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica. Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo. Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
La prima pagina del manifesto di ieri, con il documento firmato dai sei illustri costituzionalisti (Rodotà, Villone, Azzariti, Carlassare, Pace e Ferrara) è entrata nell’aula di palazzo Madama grazie alla senatrice di Sel, Loredana De Petris, che ne ha illustrato il senso davanti all’assemblea.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto». Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.
Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
di Fabrizio d’Esposito (Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015) *
Il professore Alberto Asor Rosa, icona degli intellettuali di sinistra, è stato il primo a usare la definizione di mutazione genetica nel linguaggio politico. Accadde nella Prima Repubblica, con il Psi di Bettino Craxi. Trent’anni dopo la stessa metafora scientifica accompagna, nella vulgata giornalistica, il Pd renziano nel suo grottesco viaggio verso la destra peggiore di questo Paese, quella degli ex berlusconiani Denis Verdini e Angelino Alfano, futuri inquilini o alleati del Partito del la nazione.
Professore, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?
«Un partito nuovo che non ha più una base di massa, rispon de al comando di un leader in contrastato e ha un gruppo dirigente conservatore di destra».
È una perfetta definizione accademica, senza fronzoli. Un partito di destra, nemmeno di centro.
«È un dato di fatto che l’attuale vertice del Pd ha escluso dal gruppo dirigente ogni erede della tradizione comunista, ma anche progressista o riformista. Sono tutti ex democristiani».
Una nuova Dc.
«No, perché ai vecchi democristiani non sarebbe mai venuto in mente di proclamare il Partito della nazione. L’obiettivo del Pdn è l’ulteriore perfezionamento in termini di destra di questa tradizione centrista, che non ha ritegno a considerare interlocutori Alfano e Verdini».
Risultato: Verdini non è il mostro di Loch Ness (Renzi dixit) ma Marino sì.
«La liquidazione di Marino può essere annoverata tra le molteplici iniziative di Renzi e del renzismo di avere sull’Italia un controllo totale. Quando questo controllo non c’è si ricorre all’aggressività».
Marino ci ha messo del suo.
«Il sindaco di Roma non ha rivelato quella tempra di condottiero necessaria, ma non ho dubbi che abbia prevalso, contro di lui, una spinta eversiva e catastrofica proveniente da tante parti».
Com’è possibile che il Partito di Loch Ness nasca a sinistra, anziché a destra?
«La risposta è facile. Per mettere in moto questo processo occorreva che la forza trainante fosse una parvenza di sinistra dietro cui nascondersi, altrimenti ci sarebbe stato un coro di sghignazzamenti, se non di manifestazioni di piazza».
Quindi il berlusconismo è stato meno pericoloso del renzismo.
«Sì, “Silviuccio” non era in grado di elaborare culturalmente una simile invenzione. E politicamente la piazza glielo avrebbe impedito».
A Renzi no, invece.
«Può fare quello che sta facendo perché il Pd è mutato nelle sue radici e la mutazione genetica ha investito anche i suoi elettori. Non dimentichiamo che lui arriva dopo una sequela pluridecennale di fallimenti del centrosinistra e la gente ha pensato: “Almeno questo fa qualcosa”».
Il fatidico 40 per cento alle Europee.
«Renzi ha un consenso vasto anche se il punto culminante del suo successo è già alle nostre spalle».
All’orizzonte c’è però l’autoritarismo della nuova Costituzione.
«Qualsiasi atto del presidente del Consiglio mira al restringimento della democrazia, in termini di spazi e di base del consenso. Contano solo i vertici del potere, dalle rappresentanze politiche al presi de-manager della scuola. Per renzismo, intendo questo».
Combattere il renzismo dall’interno del Pd non sembra possibile.
Sulla minoranza del Pd, in questi giorni, mi sono venute in mente solo due parole».
Quali?
«Ridicola e penosa. Ridicola perché ha fatto ridere la battaglia su alcuni particolari della riforma Boschi. Penosa perché il risultato ha dimostrato che la minoranza non conta nulla. Poi ha superato anche il limite etico-politico perché non si è vergognata di votare con Verdini».
Fuori dal Pd c’è un deserto a sinistra?
Deserto mi pare eccessivo. Ci sono tanti pezzetti sparsi ma non c’è nessuno in grado di convogliare queste forze verso la stessa direzione.
Un effetto collaterale della mutazione genetica?
«Dalla crisi dei grandi partiti di massa nati dall’antifascismo e dalla Resistenza non c’è stata nessuna vera scintilla».
Come si qualifica una mutazione?
«Quando cambiano natura, vocazione e cultura».
Nel Pd renziano?
«Si parte dall’idea che i conflitti sociali siano dannosi per cui i sindacati diventano il nemici. Così la cultura della nazione impone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grande finanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito della nazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e i berlusconiani, non solo Verdini e Alfano» .
* EDDYBURG. Nell’intervista di Fabrizio D’Esposito ad AAR un’illustrazione ineccepibile della parabola discendente e del definitivo approdo del più grande partito della sinistra italiana del secolo scorso. Un errore nel titolo: la destra autoritaria c’è già.
Editoriale
Il neopopulismo di governo
Un "Renzime" democratico. Il nostro paese si sta trasformando in un deserto nel quale crescono solo varietà diverse di una stessa pianta, tutte germogliate da un ceppo originario, il berlusconismo, che sta malinconicamente rinsecchendosi
di Aldo Carra (l manifesto, 08.10.2015)
Il paesaggio politico italiano si sta ridisegnando sempre di più attorno alla figura del presidente del Consiglio. Più che parlare di regime autoritario si potrebbe parlare di renzime democratico, una forma nuova di integrazione tra populismo, comunicazione e governo che supera la tradizionale distinzione tra destra e sinistra, ma conservando uno zoccolo duro nel popolo di sinistra da cui nasce, un populismo di nuova generazione che rimodella sistema politico e competitors.
Di populismi ne abbiamo avuti e ne abbiamo tanti oggi in Europa.
In genere essi si collocano a destra dall’opposizione e a questo modello si ispira la Lega. Ma in Italia ne abbiamo partoriti altri.
Anche il M5S si è affermato grazie a un forte populismo antisistema, ma con alcune novità importanti: una forte attrazione nel popolo di sinistra su temi come la partecipazione, l’ambiente, la moralizzazione della politica, una innovativa capacità di comunicazione e di spettacolarizzazione della politica e del rapporto con i cittadini.
M5S e Lega nascono, comunque, come forze antisistema ed esterne al sistema dei partiti storici.
Il neopopulismo renziano si presenta, invece, con due peculiarità:
nasce come forza di governo, anzi solo per governare (non potrebbe esistere senza); nasce come rottura/evoluzione/trasformazione dall’interno di un partito, anzi dell’ultima forza politica storica organizzata.
Adesso che, a metà legislatura e col completamento delle riforme, si sta concludendo la prima fase di questa esperienza, può essere utile analizzare i principali filoni che ne hanno ispirato l’azione. Il filone anticasta
Dopo quanto emerso a partire dall’omonimo libro, la lotta contro la casta era stata il principale cavallo di battaglia del M5S. Un tema così pregnante non poteva non essere cavalcato e così è stato: due tra le più importanti modifiche del nostro assetto istituzionale - Province e Senato - sono state affrontate utilizzando come motivazione principale la necessità di ridurre gli eletti, la casta.
Non si è compiuta una analisi delle funzioni e dei livelli istituzionali proliferati, dai municipi delle grandi città, ai comuni, alle comunità montane, alle province, alle regioni, per ristrutturarli in un disegno organico, ma si è scelta la via della semplificazione eliminando gli organi elettivi e dando vita in ambedue i casi ad organismi pasticciati e pressoché inutili.
La chiave contro la casta e i costi della politica è stata fondamentale ed è servita a accrescere la concentrazione dei poteri nell’esecutivo.
Il filone governabilità
Strettamente connesso a questo processo è il modello elettorale delineato con lo slogan «sapere la sera delle elezioni chi ha vinto», problema appena sentito dall’opinione pubblica ed esasperato volutamente per far passare un modello che cozza con la nostra cultura costituzionale e con l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.
Si è nascosta, così, dietro al messaggio della governabilità, la sostanza di accentramento nelle mani di una sola persona dei poteri decisionali e di nomina senza contrappesi.
Una scelta gravissima e carica di rischi futuri che assegnerà il 55% dei seggi a un partito che avrà il consenso del 30% dei votanti e del 15% degli elettori passata col consenso della minoranza di sinistra che, di fronte a tanta gravità, si trastullava con le preferenze.
Il filone antiprivilegi
Anche la lotta ai privilegi non poteva non essere un cavallo di battaglia del neopopulismo. Spostando il concetto di privilegio dagli strati sociali ricchi a tutti coloro che stanno meglio degli ultimi, si è arrivati ad additare come privilegiati quelli che hanno un lavoro tutelato a fronte dei tanti precari e disoccupati. Tutto questo per arrivare a colmare l’ingiustizia eliminando l’articolo 18 a vita per i nuovi assunti. Un caso esemplare di eliminazione di una ingiustizia per alcuni eliminando la giustizia per tutti.
Il filone antiburocrazia
A questo filone, anch’esso molto sentito dalla popolazione, si è ispirata la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione, che ha partorito finora solo slogan e banalità elevati a principi, ma tanto basta per far sfogare sui fannulloni il malessere dei cittadini.
Anche la riforma della scuola con la concentrazione di poteri nei presidi promossi a manager per decreto, si colloca in questo filone.
Il filone antisprechi
E’ stata cavalcata con nomine e contronomine la riduzione della spesa pubblica ed enti locali e sanità sono stati additati come i responsabili da dare in pasto all’opinione pubblica. Conseguenze immediate: gli enti locali deperiscono e tassano di più i cittadini. Conseguenze future: alcune analisi saranno rese più difficili a meno di non pagarsele, chi può.
Il filone distributivo
Casta, privilegi, burocrazia, sprechi: fin qui niente di diverso dagli altri populismi. Ma trattandosi di neopopulismo di governo si sono potuti attivare anche altri canali.
Uno in chiave compensativa nella scuola: a condizione che accettassero sedi lontane e la nuova organizzazione si è offerta la sistemazione a una parte dei precari.
Altri in chiave distributiva: gli 80 euro, i consistenti finanziamenti alle imprese che trasformano i precari in stabili per tre anni e adesso la promessa di detassare le prime case rientrano in questo filone. Giocati al momento opportuno per far passare provvedimenti indigesti e soprattutto nei tempi giusti, essi costituiscono l’altra faccia delle politiche renziane.
Naturalmente non si tratta di una redistribuzione volta a ridurre le disuguaglianze: se gli 80 euro sono andati ai redditi medio bassi, gli incentivi sono andati alle imprese e la detassazione della casa favorirà i ricchi. Gli effetti economici concreti saranno difficili da calcolare, ma i consensi elettorali facili da raccogliere.
Da questa schematica rivisitazione delle politiche del governo emerge una strategia che ha una sua organicità e che risponde a una visione.
In queste condizioni ambientali stiamo svolgendo un dibattito ampio sulla sinistra e sul suo futuro.
In presenza di due populismi di opposizione e di uno di governo il compito non è affatto facile. E forte può essere la tentazione di importare le piante che crescono in altri paesi, o provare a ripiantare i semi originari.
Ma se questa è la situazione occorre ben altro. Dovremo scavare in profondità, arrivare alla sorgente, rigenerare il terreno, creare le condizioni perché nuove piante attecchiscano e crescano.
E’ probabile che incassate le riforme la prima fase analizzata si chiuda e se ne apra un’altra.
Essa dovrà fare i conti con una ripresa tanto strombazzata quanto inferiore a quella, pur fragile, dell’Europa. I problemi finanziari ed economici non potranno sempre essere rinviati e molto dipenderà dalla capacità di sinistre e sindacati di rimetterli al centro dell’agenda politica.
Se posso permettermi una sollecitazione forse, dopo questa prima fase del nostro dibattito, dovremmo avviarne un’altra.
Potremo seguire anche noi un filone referendario per tentare di cancellare alcune leggi e dovremmo farlo insieme, convincendo e costruendo unità e consensi.
Ma non possiamo limitarci a questo. Penso che dovremmo aprire una nuova fase di discussione incentrata fortemente sui contenuti, per mettere a punto un preciso programma di governo rivolto a quella parte ampia della popolazione che sta pagando il prezzo della crisi e soprattutto alle nuove generazioni.
Qui forse abbiamo qualcosa da riprendere da quanto si muove in Spagna, in Grecia, in Gran Bretagna: in questi paesi le forze di sinistra sono impegnate ad affrontare il problema del governare e di come gestire da sinistra una fuoriuscita dalle politiche di austerità.
Questo sì che sarebbe un metodo di lavoro da importare per dare un nostro contributo ad una battaglia che non può che essere europea.
Reati al Colosseo, o i rischi delle iperboli
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 25 settembre 2015)
L’onorevole Francesca Barracciu, sottosegretaria ai Beni culturali, ha definito l’ormai celebre assemblea sindacale dei custodi del Colosseo un reato e, a fronte delle rimostranze di chi le faceva notare che le assemblee sindacali in orario di lavoro sono perfettamente legali, ha replicato affermando di considerarla un reato in senso lato. Dunque in senso tecnico la sottosegretaria avrebbe usato la figura retorica dell’iperbole. Ora, per la mia modesta esperienza di scriba, l’iperbole è una figura molto pericolosa, che va impiegata con parsimonia perché nasconde diversi trabocchetti logici.
Infatti l’iperbole non può essere usata in tutti i casi: per esempio utilizzare il termine di reato funziona solo se attribuito a fattispecie non previste esplicitamente dalla legge, altrimenti è un errore logico. D’altronde l’iperbole è usata alquanto spesso solo nei poemi epici, nella pubblicità e nelle dichiarazioni di alcuni presidenti del consiglio. Questi tre generi di discorso hanno in comune non soltanto il fatto di proporsi di edulcorare o abbellire una determinata situazione o prodotto, anziché di denunciarla, ma anche di avere come oggetto delle proprie affermazioni iperboliche cose o fatti che il pubblico non può facilmente verificare tramite fonti indipendenti. Le iperboli devono essere perfettamente calcolate anche nel loro grado di superfetazione, altrimenti si ritorcono contro il loro stesso autore, come dimostra il fatto che le parodie dei tre generi di discorso indicati sopra si basano su iperboli così forzate da risultare ridicole o totalmente fuori luogo.
E tuttavia l’errore dell’onorevole Barracciu è ampiamente scusabile non solo perché la retorica, inutile materia umanistica, non fa parte del corso degli studi, ma perché, nella sua scompostezza, l’errore dell’onorevole è l’espressione di un senso comune oggi diffuso o per meglio dire di un senso mediatico oggi diffuso. Infatti, nella narrazione neoliberale del mondo i diritti collettivi, quali quelli sindacali, sono descritti come privilegi di casta, che dovrebbero essere vietati per legge, esistendo solo quelli individuali. E qui però dovrebbe scattare per tutti un campanello d’allarme non solo in quanto è del tutto evidente che in assenza di alcuni diritti collettivi è impossibile godere di diritti individuali, ma anche perché quella narrazione prende l’abbrivio agli inizi degli anni ottanta da un’apertura di credito di un celebre caposcuola come Von Hayek alla dittatura di Pinochet, anche se ormai nessuno si ricorda più di questo fatto.
A costo di essere scambiati per gente noiosa o peggio convinta che esistano ancora i telefoni a gettoni nell’era degli smartphone, è bene nella comunicazione pubblica esprimersi con lentezza e ponderazione altrimenti si corre il rischio di venire parlati dalla superlingua mediatica. Certo i vecchi politici centristi della DC o del PRI, che pure non dovevano avere in grande simpatia le assemblee sindacali, non avrebbero mai fatto un errore del genere.
Proprio per questo mi permetto di rivolgere ai compagni del partito democratico, specie a quelli che hanno un ruolo più importante nella comunicazione pubblica, un appello analogo a quello che a suo tempo Nanni Moretti rivolse a D’Alema. Io sarò però più moderato e mi accontento di chiedere loro, quando parlano di diritti sociali, di dire qualcosa di centro.
IN ITALIA
Renzismo e berlusconismo
La vera “riforma epocale”
di MICHELE DI SCHIENA*
Gli sviluppi della politica italiana dimostrano come il renzismo non sia altro che la riedizione, rinfrescata e emendata da certi eccessi, del berlusconismo dal quale ha mutuato anche quel modus operandi fatto di annunci spettacolari che puntano tutto sul futuro per distogliere l’attenzione dal presente, di allettanti promesse e di un ostentato ottimismo che non è “ottimismo della ragione” e neppure “della volontà”, ma lo strumento di una spiccata abilità comunicativa inteso ad alimentare una perenne “fata morgana”.
Il patto del Nazareno è quindi destinato a sopravvivere a tutte le sue morti apparenti perché Renzi non ha in alcun modo “cambiato verso” alla politica del nostro Paese ma sta facendo il “verso” dell’ex Cavaliere con le sue riforme istituzionali ed elettorali che rischiano di alterare i connotati della nostra democrazia, con una politica in materia di lavoro (Jobs act e art. 18) che precarizza ulteriormente il lavoro stesso senza promuovere una vera lotta alla disoccupazione, con la nuova legge sulla scuola che accresce a dismisura i poteri dei vertici dirigenziali e riduce quello degli organi collegiali e con le riforme della Rai e della PA anch’esse guidate dall’idea che occorre accentrare le funzioni di comando a scapito delle forme di partecipazione di base.
In linea con il berlusconismo si palesa anche l’inadeguatezza della lotta alla corruzione e all’evasione fiscale; talune scelte rivelatrici dell’insofferenza al controllo di legalità della Magistratura e certi ricorrenti tentativi di mettere a freno il controllo sociale dei sindacati e quello democratico degli organi di informazione. Per non parlare poi del grande annuncio della riduzione delle tasse, la cui compatibilità con le disponibilità finanziarie e i vincoli di bilancio è tutta da verificare, mentre il Senato ha già approvato pesanti tagli della spesa sanitaria tali da mettere a rischio ricoveri ospedalieri ed esami strumentali necessari con un grave ridimensionamento della prevenzione.
E ciò mentre nulla si muove per la lotta alla povertà. Né può sfuggire che le affinità tra l’ex Cavaliere e Renzi investono anche la politica estera: in Europa la supina giocosità berlusconiana ha ceduto il posto alla non meno accondiscendente seriosità renziana baldanzosa solo a uso interno.
Renzismo e berlusconismo sono quindi due facce della stessa medaglia ma il fatto è che le maggiori forze di opposizione non si dimostrano in grado di elaborare credibili progetti alternativi improntati a criteri di giustizia e di equità: una considerazione che nulla toglie ai meriti di alcune battaglie del movimento pentastellato centrate su problemi specifici e scandalose vicende.
Le sensibilità alternative al patto del Nazareno (che Berlusconi sembra intenzionato a risuscitare anche formalmente in vista dell’ipotizzato Partito della Nazione) premono indubbiamente a sinistra dentro e fuori il Pd ma non sembrano in grado di svolgere un ruolo di rilievo nell’interesse dei ceti sociali più deboli e soprattutto della nostra zoppa democrazia che rischia di languire nell’angosciante recinto degli equilibri consolidati e degli squilibri accettati.
Occorre quindi il risveglio di una sinistra che, ispirandosi alla cultura socialista e al solidarismo cristiano, ponga al primo posto, nella politica economica, non la generica “crescita” ma una lotta senza quartiere alle inaccettabili disuguaglianze sociali.
Ma occorre che facciano la loro parte anche le forze di tradizione illuminista e di cultura liberal-progressista che nei momenti difficili hanno sempre contribuito al rilancio della democrazia.
È necessario insomma il concorso di tutte quelle espressioni politiche e di quei movimenti che si riconoscono, per dirla con il grande giornalista Jan Daniel, nei valori universali che sono «il dato comune tra la saggezza greca, la cultura romana, il messaggio dei 10 comandamenti, il sermone della montagna, l’eredità delle rivoluzioni americana e francese, la morale universale di Kant, la dichiarazione dei diritti dell’Uomo e la Carta delle Nazioni Unite».
E, non ultima, l’esortazione del papa che nell’Evangelii Gaudium denuncia le iniquità del modello economico dominante e della cultura dello «scarto» che lo sostiene affermando che non si tratta più del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione ma di qualcosa di nuovo, perché con l’esclusione resta colpita l’appartenenza alla società in cui si vive.
Abbiamo quindi un inestimabile patrimonio di valori che hanno anche ispirato e dato corpo alla nostra Costituzione la quale ha saputo tradurli in istituzioni democratiche, modelli di comportamento, direttive politiche e precetti volti a fare del nostro Paese una “grande potenza” di solidarietà, di giustizia e di pace.
Un tesoro di saggezza al quale si fa riferimento solo in occasione di talune ricorrenze o per sostenere questa o quella tesi ovvero questa o quella polemica senza mai ricorrere ad esso per farne la stella polare di progetti il cui metodo sia la partecipazione democratica e gli obiettivi la tutela della dignità della persona, la promozione del diritto al lavoro e una economia indirizzata a fini sociali.
* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
* Adista/Segni nuovi, 12 SETTEMBRE 2015 • N. 30
Il silenzio (del presidente Mattarella) genera mostri
di Antonio Padellaro (il Fatto, 27.06.2015)
Certe volte (e con molto rispetto) viene da chiedersi: ma dov’è il presidente Mattarella? Nel senso di un sommesso appello: perché resta in silenzio, perché non fa qualcosa? Attenzione, non siamo certo noi a rimpiangere i tempi del Quirinale interventista, quando Giorgio Napolitano faceva, disfaceva, suggeriva, orientava, accompagnato da una sinfonia di moniti.
Ma c’è una misura in tutto e pensiamo che il pur flemmatico successore sarà saltato sulla sedia alla lettura del maxi-emendamento sulla Buona Scuola, imposto da Renzi all’approvazione del Senato con l’ennesimo voto di fiducia, prendere o lasciare.
Una legge in 25 mila parole, ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera , denunciando il mostro legislativo in 209 commi e nove deleghe al governo, che in una concentrazione abnorme di poteri fa tutto lui: propone, emenda e approva. Ricordate come si stracciavano le vesti i mandarini di Re Giorgio, di fronte ai maxi eccessi di Prodi, Berlusconi, Monti, Letta?
Eppure, forse mai un governo aveva agito con tale prepotenza, umiliando il Parlamento ridotto a bottonificio e su una riforma che suscita timori in milioni di insegnanti, alunni, famiglie. La speranza è che Mattarella si prepari a un gesto forte che la Costituzione gli consente, quando riceverà sul tavolo questo maxisgorbio dopo il previsto sì di Montecitorio. Non lo firmi Presidente, lo rimandi indietro. Il silenzio genera mostri.
Il fiume di denaro verso Ostia
di Roberto Galullo (Il Sole-24 Ore, 06.06.2015)
Un fiume di denaro verso Ostia ha arricchito politica e mafie. Questa è la convinzione dei pm di Roma con il secondo atto di Mafia Capitale. E questa è anche la preoccupazione del Comune che il 29 aprile ha nominato l’ex pm Alfonso Sabella commissario del litorale laziale.
I soldi erano principalmente quelli destinati alle gare pubbliche, a partire dalla manutenzione del verde pubblico e della pulizia nelle spiagge (nell’ordinanza si legge di un bando per 1,2 milioni), intercettati dalla rete di cooperative riconducibili agli indagati Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Nel corso della perquisizione effettuata nei confronti di un altro indagato il 2 dicembre 2014 è stata individuata la “gara di Ostia” relativa all’alberatura nei “Lavori a somma urgenza per indagini sulla stabilità delle alberature stradali e conseguenti interventi di potatura. Via di Castel Fusano - via del Mare (tratto Ostia Lido) - Cineland”.
Nell’ordinanza firmata il 29 maggio dal Gip Flavia Costantini si legge di un accordo per convogliare fondi regionali assegnati al Comune verso il X Municipio «presidiato da amministratori compiacenti con Buzzi, perché da lui remunerati» e perché proprio lì, secondo l’accusa, Buzzi «era sicuro di potersi appropriare di tali risorse con l’aiuto del presidente da lui corrotto». Per far capire quanto Ostia sia diventata un crocevia di traffici politico/criminali, i pm della procura capitolina si soffermano sulle difficoltà incontrate sul litorale dall’organizzazione riferibile a Buzzi e al presunto boss Carminati. L’operazione per piegare la discrezionalità degli amministratori si scontrava, infatti, con gli appetiti economici di altri rappresentanti del consiglio comunale che rivendicavano un potere d’interdizione sull’assegnazione dei lavori, il cui mancato esercizio andava remunerato, cosa, secondo Buzzi, avvenuta.
Il primo, secondo la ricostruzione, a cadere nella catena corruttiva è Andrea Tassone che, dimettendosi dalla carica di presidente del X Municipio il 18 marzo, quando l’onda lunga del primo atto dell’indagine “Mondo di mezzo” stava già travolgendo Ostia, dirà «non ci dimettiamo per lotte intestine o perché abbiamo ricevuto avvisi di garanzia o altro, ma io azzero oggi la mia esperienza amministrativa e rimetto il mio mandato per lanciare un appello al sindaco Ignazio Marino, quello di avere la consapevolezza che Ostia non è come tutti gli altri Municipi». Per la procura, Tassone ricorreva «ad un faccendiere che agiva e operava in nome e per suo conto».
Anche nel secondo atto delle indagini su Mafia Capitale, Carminati entra a pieno titolo nelle vicende del litorale. Una mano alla Procura per ricostruire il profilo del “cecato” e il suo «legame con il clan Fasciani di Ostia» la dà il collaboratore di giustizia Roberto Grilli nell’interrogatorio del 17 dicembre 2014.
Grilli ha riferito ai pm di essere rimasto «un attimino sconcertato» dal fatto che sin dal 2008 Massimo Carminati, con il quale «al tempo» non aveva rapporti diretti, si mostrasse al corrente («ah, so che hai incontrato un nostro comune amico, quello che sta al mare») di un tentativo fatto da Carmine Fasciani di coinvolgere lo skipper in un’importazione di stupefacente dalla Spagna (e del rifiuto che quest’ultimo aveva opposto).
L’interpretazione data all’episodio da Grilli («come se Fasciani si fosse rivolto ad altri, cioè avesse fatto sapere a Carminati la sua non contentezza») gli rinsaldava la convinzione dei legami che Carminati vantava nell’ambiente criminale e gli instillava il dubbio di poter essere identificato come «uomo a disposizione» del gruppo da questi rappresentato, privandolo così della sua autonomia («il fatto che alle mie spalle quello (Fasciani. ndr) avverte Carminati...è come se io fossi in dovere di dovere qualcosa a qualcuno che sinceramente non dovevo dà niente a nessuno») e magari rischiare di essere oggetto di interferenze da parte di quel gruppo nell’organizzazione del trasporto di stupefacente.
Grilli - arrestato ad Alghero il 26 settembre 2011 - nell’interrogatorio ha fornito alla Procura ulteriori elementi sul coinvolgimento di Carminati, come intermediario, nell’organizzazione, nell’estate del 2011, dell’importazione di 503 chilogrammi di cocaina dal Sudamerica con l’imbarcazione Kololo II.
La capacità di interlocuzione di Carminati con la criminalità organizzata insediata a Ostia ha trovato nelle parole di Salvatore Buzzi una conferma. Il 6 ottobre 2014, a partire dalle 18.14, gli investigatori captano un dialogo presso la Coop 29 giugno, nel corso del quale Buzzi - nel riepilogare le gare che si erano aggiudicati - parla della possibilità di prendere in concessione uno stabilimento di Ostia ed evidenzia la necessità di parlare con Carminati allo scopo di evitare problemi con la criminalità locale: «Ne devo parlare con Massimo per stà assicurato contro la malavita».
Lo Stato vittima e complice
di Alberto Mingardi (La Stampa, 06.06.2015)
«Mafia Capitale» sta tutta in un’intercettazione di Salvatore Buzzi. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». Metafora leggermente imperfetta: a mangiare, più che la mucca (lo Stato), sono i pastori (la classe politica). Ma ci siamo capiti.
Parlando ai Giovani Industriali, il presidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Cantone ha detto che «la classe imprenditoriale italiana si nasconde dietro la corruzione per creare un sistema anti concorrenziale». Per fortuna la classe imprenditoriale italiana è anche e soprattutto altro: una galassia di aziende (piccole, medie, grandi) che giorno dopo giorno si guadagnano la fiducia dei consumatori. E tuttavia, non c’è dubbio che se a qualcuno viene garantita una rendita di posizione, farà quanto possibile per «mungerla» fino in fondo. La concorrenza è faticosa, dura, perennemente incerta. Dedicarsi alla mucca è tanto più facile.
Torniamo a un’altra intercettazione di Salvatore Buzzi, formidabile teorico del sistema, uscita sui giornali qualche mese fa. «Con gli immigrati si guadagna più che con la droga». Sottinteso: la droga è un mercato concorrenziale. Esistono multinazionali della droga e artigiani dello spaccio. I clienti sono fedeli fino a un certo punto. Prezzi più bassi o prodotti nuovi possono convincerli a cambiare fornitore. Che fatica.
Il «mondo di mezzo» funziona in un’altra maniera, una maniera che conosciamo sin troppo bene. E’ un mondo più semplice. La classe politica ha a disposizione risorse (che ha prelevato dai nostri redditi con le tasse) per svolgere tutta una serie di funzioni. Le può svolgere attraverso organizzazioni sottoposte direttamente al suo controllo: la burocrazia, nelle sue diverse articolazioni. O le può svolgere facendo ricorso ai privati. Questo accade non perché la pubblica amministrazione abbia sperimentato negli ultimi anni una svolta «liberista». Almeno in Italia, lo Stato non ha «esternalizzato» per sudditanza psicologica nei confronti del privato. Semmai è vero il contrario. La classe politica ha stabilito di essere il miglior fornitore possibile di tutta una serie di servizi. Ha dovuto coinvolgere i privati semplicemente per stare al passo delle sue promesse.
Questi privati stabiliscono col pubblico un rapporto perverso. Non vendono «prodotti» che il consumatore può portarsi a casa o lasciare sugli scaffali. La vita o la morte delle loro imprese è appesa alle decisioni discrezionali di pochissime persone, che peraltro spendono denaro non loro. La loro priorità diventa allora convincere quelle persone a spendere a loro vantaggio i quattrini del contribuente.
Di soluzioni semplici non ne esistono. Non è immaginabile che lo Stato faccia, «in house», tutti i servizi che è andato monopolizzando con gli anni. E nemmeno si può pensare che bastino più controlli e più controllori. E’ difficile sostenere che l’Italia sia un Paese in cui mancano le norme per sanzionare certi comportamenti.
Si può cercare, certamente, di automatizzare quanto più possibile i processi. Se un’autorizzazione me la dà un essere umano in carne ed ossa, gli posso allungare una bustarella. I computer pare siano impermeabili a queste lusinghe. Riducendo gli spazi di discrezionalità dei decisori, le regole somigliano di più ai computer: non ammettono eccezioni. Bisognerebbe soprattutto far dimagrire la mucca: che dia latte solo quando assolutamente necessario. L’accoglienza agli immigrati è probabilmente una funzione pubblica insopprimibile. Si può però provare a ridurre l’intermediazione. Anziché dare i soldi a chi poi da da mangiare agli immigrati, tanto varrebbe darli all’immigrato che poi provveda a nutrirsi come vuole. Piuttosto che affittare le case per i richiedenti asilo, si potrebbe dar loro un voucher per scegliersi il padrone di casa che preferiscono.
Tante altre funzioni pubbliche non è affatto detto debbano essere tali. Il «mondo di mezzo» si è abituato a rifornirsi alla mangiatoia in cinquant’anni di para-Stato. Per fargli passare l’abitudine, bisogna restringere il perimetro pubblico: lo spazio in cui quel «sistema anticoncorrenziale» di cui parla Cantone mette radici, si sviluppa, prospera.
Così seppelliscono la questione morale
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 30.05.2015)
Una grave anomalia del nostro Paese consiste nel valutare gli interventi sul versante dell’osservanza delle regole non in base a criteri di correttezza e rigore, ma in base al parametro di utilità. In sostanza il messaggio è: se applicando le regole si fa qualcosa che danneggia me o qualcuno della mia cordata, metti in conto che tu che applichi le regole dovrai subire attacchi, aggressioni e denunce. È la solita difesa “contro” le regole, uscendo dal circuito delle regole stesse.
Un classico è accusare chi fa il suo dovere di uso distorto della funzione per fini politici di parte, appioppando etichette fasulle di appartenenza a questa o quell’altra fazione. Sta succedendo anche alla presidente della Commissione Antimafia Rosi Bindi, accusata ingiustamente di voler favorire una componente del suo gruppo politico a scapito di altre.
Lo scopo è quello di sempre: denigrare e svalutare il lavoro che si sta facendo, parlando di altro rispetto al merito. È successo a Falcone e Borsellino quando si occupavano di Vito Ciancimino e dei fratelli Salvo, è successo alla Procura di Palermo quando si occupava del dopo stragi, di Andreotti e Dell’Utri. Succede oggi a Rosi Bindi, quando si occupa, non di un insieme di parole vuote, ma di rompere la cortina di silenzio che sta cancellando la questione morale.
Regionali:Antimafia, 16 ’impresentabili’
Quattro sono candidati in Puglia, il resto in Campania
di Redazione ANSA, 29 maggio 2015 - 20:44
(ANSA) - ROMA, 29 MAG - E’ formata da 16 nomi la lista dei candidati "impresentabili" alle prossime regionali resa nota oggi dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, al termine dell’Ufficio di presidenza e della seduta plenaria della Commissione.
I nomi appartengono a candidati nelle regioni Puglia (4) e Campania. Nella lista c’è anche il candidato presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.
Ecco i nomi segnalati come impresentabili dalla Commissione parlamentare Antimafia.
Casi di giudizio pendente in primo grado per reati rientranti nel codice di autoregolamentazione: Ambrosio Antonio, Passariello Luciano, Ladisa Fabio, Nappi Sergio, De Luca Vincenzo, Errico Fernando, Lonardo Alessandrina, Plaitano Francesco, Scalzone Antonio, Viscardi Raffaele.
Casi di prescrizione per reati rientranti nel codice con giudizio definitivo: Elefante Domenico, Palmisano Enzo, Copertino Giovanni.
Casi di assoluzione per reati rientranti nel codice con giudizio ancora pendente: Oggiano Massimiliano, Grimaldi Carmela. -Casi di condanna per reati rientranti nel codice con giudizio ancora pendente: Gambino Alberico.
Impara a comunicare: prendi a schiaffi una categoria a caso
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 23.05.2015)
Quelli che hanno fatto buoni studi e che ora di mestiere fanno i rampanti comunicatori del consenso, la chiamano “disintermediazione”. Esistendo in questo paese più “scienziati della comunicazione” che salumieri (un vero peccato) dovreste più o meno sapere cos’è. Erano “disintermediazione” i videomessaggi di Silvio Berlusconi, così come lo sono i videclip, con o senza lavagna, di Matteo Renzi. Si tratta di una disintermediazione un po’ farlocca, perché se non hai a disposizione giornali e tg che rilanciano il tuo spettacolino funziona un po’ meno, ma insomma... Esempio. C’è lo sciopero dei ferrovieri. Mediazione è parlare con le rappresentanze sindacali dei ferrovieri, capire il problema e cercare una soluzione. Disintermediazione è rivolgersi a tutti i cittadini (basta un tweet) per dire: i ferrovieri cattivi, privilegiati, maledetti, viziati, disfattisti vi impediscono di andare a Bologna.
Uguale con la riforma della scuola: essendo la stragrande maggioranza di insegnanti e studenti contrari alla riforma in votazione, ci si rivolge a tutti gli altri con una serrata propaganda, nella speranza che i cittadini tutti se la prendano con gli insegnanti che non sono d’accordo con una cosa così bella e moderna. Insomma, possiamo dire in soldoni che la disintermediazione serve a usare gli italiani per picchiare altri italiani, a mettere tanti contro pochi. Utenti dei mezzi pubblici contro tramvieri, italiani contro insegnanti, cittadini contro sindacati, eccetera, eccetera. Un giochetto che paga nell’immediato, ma che alla lunga rischia di finire a schiaffoni tutti contro tutti.
Ci sono però alcuni problemi: la disintermediazione funziona poco quando il numero di italiani da tramortire usando il consenso di altri italiani è molto alto. Potrete convincere un pendolare che il capotreno in sciopero è uno schifoso privilegiato che limita la sua libertà di prendere il treno. Più difficile sarà convincere un nipote che la nonna, dall’alto della sua succulenta pensione ai limiti della sopravvivenza, gli ruba lavoro, o futuro, o prospettive. E questo perché un ferroviere in casa ce l’hanno in pochi, e una nonna (o genitori anziani) invece in molti. E così le cose si complicano: nel caso delle pensioni (e di un obolo una tantum concesso al posto del rimborso) la propaganda e la disintermediazione non hanno funzionato benissimo. E di questi tempi per sapere se una mossa propagandistica funzione basta guardarne il nome: se funziona si chiama Renzi (gli ottanta euro), se non funziona si chiama Poletti (o Giannini, o...).
Altro problemino, il fatto che la disintermediazione tende sempre a guardare in basso. Servono soldi? Blocchiamo gli stipendi agli infermieri, o l’indicizzazione ai pensionati. Basterà far credere a tutti gli altri che infermieri, o pensionati sono di ostacolo a un immaginario bene comune. Mai, dico mai, si addita ai cittadini qualche cassaforte ben fornita, che so, i manager pagati come mille lavoratori, o i grandi e grandissimi patrimoni, o le grandi rendite o le grandi aziende che portano la sede fiscale all’estero. Non a caso all’ultima Leopolda a scagliarsi ferocemente contro i pensionati non fu un giovane precario di Catanzaro, ma un finanziere milionario di Londra (Davide Serra, oggi Commendatore).
Un po’ come il lupo che dice alle pecore “attente alle altre pecore! Brucano la vostra erba!”. Insomma la disintermediazione è un trucco furbetto, a volte funziona e si basa sulla certezza che le pecore litigheranno tra loro e non si mangeranno il lupo. Un vero peccato.
Giorgio Galli
Sbloccare il Paese da speculatori e parassiti
di Giuseppe Oddo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.04.2015)
Il malgoverno, l’illegalità, il saccheggio delle risorse pubbliche sono divenuti in Italia una condizione permanente realizzatasi a partire dagli anni ’70 con un “golpe invisibile” che ha segnato la storia della prima repubblica, condizionato lo svolgersi della seconda e che lascia appese a un filo di speranza le sorti della terza. Gli artefici di questo degrado materiale, morale e civile del Paese, che hanno reso la democrazia un “simulacro”, sono, a giudizio di Giorgio Galli, la borghesia finanzario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari che già quarantinque anni fa si erano impadroniti della Dc.
Il politologo ottantasettenne autore di una produzione saggistica tra le più vaste ed originali osserva come a metà degli anni ’70 si fossero create le condizioni per una svolta che sbarrasse la strada alla finanza d’assalto dei Sindona e dei Calvi e all’avanzata della borghesia di Stato allora rappresentata da Eugenio Cefis. Alle politiche del 20 giugno 1976 il Pci aveva raggiunto il massimo storico del 34,4 per cento. La Dc, al 38,7%, non disponeva più di una maggioranza. Il responso delle urne rendeva attuale una svolta riformista.
I ceti produttivi e la borghesia industriale erano pervasi da una corrente di cambiamento che aveva contagiato la parte di elettorato cattolico che due anni prima si era espressa per il divorzio. Si sarebbe potuto costituire, dice Galli, un governo di programma presieduto da Ugo La Malfa, sostenuto da una robusta rappresentanza comunista, insieme a socialisti, repubblicani e socialdemocratici e con qualche ministro Dc ancora presentabile.
Purtroppo mancarono gli interpreti di quella stagione. Il Pci «consentì il formarsi di un governo monocolore democristiano presieduto da Andreotti, per la cui maggioranza fu inventata la formula della “non sfiducia”»; e lo consentì «gratuitamente», annota lo studioso, «condizionato da una campagna mediatica che indicava nel “terrorismo” (comprendente ogni forma di contestazione) il maggior problema da fronteggiare».
Fu così che il partito guidato da Enrico Berlinguer cominciò a perdere consensi, replicando le politiche di austerità dei governi democristiani proprio mentre l’alta inflazione erodeva i salari dei lavoratori che lo avevano votato in massa.
La finestra di opportunità per un ricambio, che s’era aperta nell’estate 1976, si chiuse diciotto mesi più tardi, quando lo scudocrociato «ritenne giunto il momento di ricollocare all’opposizione un Pci che perdeva voti in parziali elezioni amministrative..., mentre ne riguadagnava la...Dc».
Negli anni ’70 e ’80, i fenomeni di arricchimento si ingigantirono. La corruzione divenne epidemica. Ai Michele Sindona e ai Nino Rovelli, che avevano il loro garante in Giulio Andreotti, subentrò la P2 di Licio Gelli, «stanza di compensazione dell’economia della corruzione di matrice politico-affaristica». Emersero imprenditori dalle «rapide fortune personali» come Silvio Berlusconi, «espressione della continuità del sistema». L’intreccio mafia-politica assunse carattere strutturale. La spesa pubblica lievitò. I ceti improduttivi e parassitari che avevano conquistato la Dc catturarono il Psi di Bettino Craxi per poi trovare rappresentanza, nel 1994, nel partito-azienda di Berlusconi. Il berlusconismo diede vita, secondo Galli, a «un regime politico-affaristico-mediatico» che «un’opposizione di centro-sinistra evanescente e condiscendente» evitò di riconoscere e di definire tale.
La sinistra geneticamente modificata, divenuta ormai maggiornza in Parlamento, sventolò trionfante la bandiera delle privatizzazioni. Ma la vendita delle imprese di Stato, attuata prima da Romano Prodi e poi da Massimo D’Alema, ebbe l’effetto di rendere ancora più famelico il ceto speculativo-parassitario e di consegnare a una “razza” non più “padrona”, ma predona, società strategiche come Telecom. Il Pds-Ds, oggi Pd, «aveva l’occasione di stabilizzare il sistema, affrontando l’oligarchia finanziario-speculativa a partire da uno dei suoi baluardi: l’impero mediatico berlusconiano basato sull’illecito monopolio della tv privata».
D’Alema, invece, accantonò il conflitto d’interesse e con una ottusità «tanto spregiudicata quanto miope, aprì la strada a quella involuzione del partito ex comunista della quale l’avventurista Matteo Renzi sarà l’approdo terminale».
Galli si rifà in conclusione alle teorie del politologo Usa Robert Dahl, secondo il quale la democrazia dei nostri successori sarà diversa da quella dei nostri predecessori: «O si restringerà in una oligarchia...; oppure evolverà verso una democrazia più partecipata». E anche se vede l’Italia incamminata verso una «postdemocrazia autoritaria», l’ottimismo della ragione lo induce a non escludere la possibilità di un moto di indignazione che modifichi il corso degli eventi: un’ondata di sdegno con forti ricadute elettorali che spinga Renzi ad abbandonare il sentiero dell’«involuzione oligarchica» per rimettere al centro della sua iniziativa politica «lo Stato di diritto e l’economia produttiva».
La scelta della Corte costituzionale: il busto del presidente antisemita resta qui
Respinta la richiesta di rimuovere l’opera che ricorda Gaetano Azzariti. Perché? Non si può sapere
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 29.03.2015)
I l busto non si tocca: si sono proprio arroccati, i giudici della Corte costituzionale, in difesa del «loro» Gaetano Azzariti, il fascistissimo presidente del Tribunale della Razza riciclato da Togliatti e poi premiato nel 1957 (tutti smemorati) con la presidenza della Consulta. No, no e no: nessuna revisione. Nonostante spunti fuori una lettera dell’ex vicepresidente della Corte che due anni fa chiedeva già la rimozione del busto. Un atto d’accusa durissimo.
Scriveva Paolo Maria Napolitano il 16 novembre 2012 che l’uscita del libro di Barbara Raggi «Baroni di razza» imponeva che la figura di Azzariti fosse rivista. Per cominciare ricordava il giudizio di Renzo De Felice, il massimo studioso del fascismo, su quel «tribunale» infame voluto dal Duce per concedere a capriccio la patente di quasi ariano o di ebreo che avrebbe poi separato i salvati e i sommersi ad Auschwitz: «Se tutta la legislazione antisemita era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra; essa infatti non si fondava che sull’arbitrio più assoluto...».
Più ancora, in quegli «anni tragici e grotteschi», la «Corte» guidata da Azzariti che da oltre un decennio era l’uomo forte del ministero della Giustizia fascista (e le leggi razziali non poteva scriverle certo un maestro elementare come Mussolini) finì per diventare «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro. E ciò mentre il rigore della legge e delle innumerevoli disposizioni ad essa connesse si abbatteva sempre più pesante su quegli ebrei che non volevano o non potevano piegarsi alla sopraffazione e al ricatto» .
Insomma, scriveva ai colleghi il giudice Napolitano nella scia di De Felice, a prescindere dal funzionamento del «tribunale» (i cui atti guarda caso sono tutti spariti) Azzariti «presiedette, fino alla caduta del fascismo, una commissione di natura politica, pienamente integrata della logica della persecuzione degli ebrei». E certo il Duce non gliel’avrebbe affidata se lui non fosse appartenuto alla «ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime e se non avesse condiviso, almeno nelle linee generali, l’aberrante logica della “difesa della razza”».
Ora, chiedeva in quella lettera il giudice della Consulta, se Azzariti avallò l’«orrenda mutilazione dei diritti» di chi non poteva dimostrare di non essere ebreo e se presiedendo quel «tribunale» condivise «la folle e vergognosa logica» della legislazione razziale perché mai il suo busto deve avere l’onore di restare esposto nel corridoio nobile della Corte costituzionale? Non c’è neppure «un motivo di carattere generale» perché «non vi sono i busti di tutti i presidenti». A farla corta, chiedeva Napolitano, togliamolo. Richiesta respinta. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto...
L’uscita mesi fa del saggio di Massimiliano Boni «Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale», ha però riacceso sotto la cenere la brace della polemica. Tanto più grazie a certe citazioni. Come un discorso del futuro presidente della Corte tenuto molto prima che Palmiro Togliatti, scegliendolo come braccio destro, gli desse una ripulita col detersivo di marca Pci: «La diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». E non era una sbandata giovanile: aveva allora 61 anni .
Così, dopo aver raccontato la storia ai lettori del Corriere , quando abbiamo saputo della lettera di Napolitano per due anni tenuta sotto silenzio, abbiamo chiesto ufficialmente alla Consulta il verbale, in teoria pubblico, della riunione della Corte amministrativa in cui la proposta di togliere il busto fu respinta. Risposta gentilissima del Segretario generale: il verbale c’è, ma occorre «sottoporre all’Ufficio di Presidenza della Corte la questione per l’autorizzazione necessaria». L’altro giorno, finalmente, ecco la risposta definitiva: «La Corte costituzionale corrisponde volentieri alla Sua richiesta di informazioni e Le conferma di essersi in effetti espressa, nella seduta del 12.12.2012, sulla proposta del giudice Paolo Maria Napolitano, decidendo di non rimuovere, allo stato, il busto di Gaetano Azzariti».
Grazie dell’informazione che avevamo già, ma il misterioso verbale? Boh...
Cosa sia successo nella riunione che ha partorito quella striminzita risposta, ovviamente, non si sa. Ma la Corte manda a dire: il busto del giudice fascista e razzista, troppo tardi demolito dagli storici, sta bene dove sta. Perché? Perché sì.
Non è vostra proprietà
di Sergio Mattarella
Signor Presidente, tra la metà del 1946 e la fine del 1947, in quest’aula, si è esaminata, predisposta ed approvata la Costituzione della Repubblica. Con l’attuale Costituzione, che vige dal 1948, l’Italia è cresciuta, nella sua democrazia anzitutto, nella sua vita civile, sociale ed economica. In quell’epoca, vi erano forti contrasti, anche in quest’aula. Nell’aprile del 1947 si era formato il primo governo attorno alla Democrazia cristiana, con il Partito comunista e quello socialista all’opposizione. Vi erano contrasti molto forti, contrapposizioni che riguardavano la visione della società, la collocazione internazionale del nostro paese. Vi erano serie questioni di contrasto, un confronto acceso e polemiche molto forti. Eppure, maggioranza e opposizione, insieme, hanno approvato allora la Costituzione. Al banco del governo, quando si trattava di esaminare provvedimenti ordinari o parlare di politica e di confronto tra maggioranza e opposizione, sedevano De Gasperi e i suoi ministri. Ma quando quest’aula si occupava della Costituzione, esaminandone il testo, al banco del governo sedeva la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione.
Il governo di allora, il governo De Gasperi, non sedeva ai banchi del governo, per sottolineare la distinzione tra le due dimensioni: quella del confronto tra maggioranza e opposizione e quella che riguarda le regole della Costituzione. Questa lezione di un governo e di una maggioranza che, pur nel forte contrasto che vi era, sapevano mantenere e dimostrare, anche con i gesti formali, la differenza che vi è tra la Costituzione e il confronto normale tra maggioranza e opposizione, in questo momento, è del tutto dimenticata.
Le istituzioni sono comuni: è questo il messaggio costante che in quell’anno e mezzo è venuto da un’Assemblea costituente attraversata - lo ripeto - da forti contrasti politici. Per quanto duro fosse questo contrasto, vi erano la convinzione e la capacità di pensare che dovessero approvare una Costituzione gli uni per gli altri, per sé e per gli altri.
Questa lezione e questo esempio sono stati del tutto abbandonati. Oggi, voi del governo e della maggioranza state facendo la “vostra” Costituzione. L’avete preparata e la volete approvare voi, da soli, pensando soltanto alle vostre esigenze, alle vostre opinioni e ai rapporti interni alla vostra maggioranza. Il governo e la maggioranza hanno cercato accordi soltanto al loro interno, nella vicenda che ha accompagnato il formarsi di questa modifica, profonda e radicale, della Costituzione.
Il governo e la maggioranza - ripeto - hanno cercato accordi al loro interno e, ogni volta che hanno modificato il testo e trovato l’accordo tra di loro, hanno blindato tale accordo. Avete sistematicamente escluso ogni disponibilità a esaminare le proposte dell’opposizione o anche soltanto a discutere con l’opposizione. Ciò perché non volevate rischiare di modificare gli accordi al vostro interno, i vostri difficili accordi interni.
Il modo di procedere di questo governo e di questa maggioranza - lo sottolineo ancora una volta - è stato il contrario di quello seguito in quest’aula, nell’Assemblea costituente, dal governo, dalla maggioranza e dall’opposizione di allora. Dov’è la moderazione di questa maggioranza? Non ve n’è! Dove sono i moderati? Tranne qualche sporadica eccezione, non se ne trovano, perché la moderazione è il contrario dell’atteggiamento seguito in questa vicenda decisiva, importantissima e fondamentale, dal governo e dalla maggioranza. Siete andati avanti, con questa dissennata riforma, al contrario rispetto all’esempio della Costituente, soltanto per non far cadere il governo. Tante volte la Lega ha proclamato e ha annunziato che avrebbe provocato la crisi e che sarebbe uscita dal governo se questa riforma, con questa profonda modifica della Costituzione, non fosse stata approvata. Ebbene, questa modifica è fatta male e lo sapete anche voi.
Con questa modifica dissennata avete previsto che la gran parte delle norme di questa riforma entrino in vigore nel 2011. Altre norme ancora entreranno in vigore nel 2016, ossia tra 11 anni. Per esempio, la norma che abbassa il numero dei parlamentari entrerà in vigore tra 11 anni, nel 2016! Sapete anche voi che è fatta male, ma state barattando la Costituzione vigente del 1948 con qualche mese in più di vita per il governo Berlusconi. Questo è l’atteggiamento che ha contrassegnato questa vicenda.
Ancora una volta, in questa occasione emerge la concezione che è propria di questo governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al governo e di chi è all’opposizione. La cosa grave è che, questa volta, vittima di questa vostra concezione è la nostra Costituzione.
In attesa del referendum ecco il Ddl Boschi
il Fatto 11.03.2015
ADDIO AL BICAMERALISMO perfetto e largo a un senato di nominati (con indennità). In più, corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. Sono i punti principali della riforma costituzionale approvata ieri in prima lettura dalla Camera, che ora dovrà tornare in Senato per la votazione che chiuderà il primo passaggio.
In base all’articolo 138 della Carta, la riforma va votata in doppia lettura dalle due Camere, e nella seconda votazione dovrà essere approvata con la maggioranza assoluta (maggioranza dei componenti). Alla fine dei passaggi parlamentari si terrà un referendum. I cittadini potrebbero esprimersi su un ddl che abolisce il bicameralismo perfetto. Non più due rami del Parlamento con eguali poteri, ma una Camera “forte” che potrà approvare da sola gran parte delle leggi. Il Senato diventa un organo per lo più consultivo, con “funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica".
Soprattutto, diventa un ente ad elezione indiretta, ovvero composto da 100 senatori (prima erano 315): 95 scelti tra consiglieri regionali e sindaci, votati dai Consigli regionali, a cui questi si aggiungono i 5 senatori nominati dal Capo dello Stato, in carica per 7 anni, ed eventualmente gli ex presidenti della Repubblica. I membri del nuovo Senato non percepiscono indennità parlamentari, ma godono dell’immunità. Palazzo Madama può chiedere di esaminare i ddl approvati dalla Camera, e suggerire modifiche, ma il via libera definitivo lo darà comunque Montecitorio.
Rimangono alcune materie per cui è obbligatorio il sì delle due Camere: le riforme e le leggi costituzionali, le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali e le leggi sui referendum popolari. Previsto il voto a data certa, grazie a cui il governo può chiedere un ddl essenziale per l’attuazione del programma venga approvato entro 70 giorni dalla delibera della Camera. Cambiano i quorum. Quello per l’elezione del Capo dello Stato, dopo il quarto scrutinio, prevede la maggioranza dei tre quinti dei parlamentari (prima bastava la maggioranza assoluta) e quella dei tre quinti dei votanti dopo il settimo. Referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila cittadini, può passare con la maggioranza dei votanti alle ultime Politiche (e non più degli aventi diritto al voto).
A verbale
Ecco i 357 che distruggono la Costituzione
il Fatto, 11.03.2015
Alle 12:33 di ieri, l’aula di Montecitorio ha approvato il ddl costituzionale sulla riforma del Senato. Al momento della votazione erano presenti in 489. Hanno votato in 482: 347 hanno detto “sì”, 125 “no”, 7 si sono astenuti. Di seguito i nomi di chi ha voluto modificare la Costituzione.
AP (NCD/UDC) Ferdinando Adornato, Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Dorina Bianchi, Paola Binetti, Antonino Bosci, Raffaele Calabrò, Luigi Casero, Giuseppe Castiglione, Andrea Causin, Angelo Cera, Fabrizio Cicchitto, Enrico Costa, Giampiero D’Alia, Nunzia De Girolamo, Vincenzo Garofalo, Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi, Antonino Minardo, Dore Misuraca, Alessandro Pagano, Vincenzo Piso, Sergio Pizzolante, Eugenia Roccella, Gianfranco Sammarco, Rosanna Scopelliti, Paolo Tancredi, Raffaello Vignali.
FI Gianfranco Rotondi
GRUPPO MISTO Aniello Formisano, Edoardo Nesi, Renata Bue-no, Daniel Alfreider, Renate Gebbhard, Mauro Ottobre, Albrecht Plangger, Manfred Schullian, Marco Di Lello, Oreste Pastorelli.
PD Luciano Agostini, Roberta Agostini, Luisella Albanella, Tea Albini, Maria Amato, Vincenzo Amendola, Sesa Amici, Sofia Amoddio, Maria Antezza, Michele Anzaldi, Ileana Argentin, Tiziano Arlotti, Anna Ascani, Pier Paolo Baretta, Cristina Bargero, Davide Baruffi, Lorenzo Basso, Alfredo Bazoli, Teresa Bellanova, Gianluca Benamati, Paolo Beni, Marco Bergonzi, Marina Berlinghieri , Giuseppe Berretta, Pier Luigi Bersani, Stella Bianchi, Rosy Bindi, Caterina Bini, Franca Biondelli, Tamara Blazina, Luigi Bob-ba, Sergio Boccadutri, Gianpiero Bocci, Antonio Boccuzzi, Paola Boldrini, Paolo Bolognesi, Lorenza Bonaccorsi, Fulvio Bonavitacola, Francesco Bonifazi, Francesca Bonomo, Michele Bordo, Enrico Borghi, Ilaria Borletti Dell’Acqua, Maria Elena Boschi, Luisa Bossa, Chiara Braga, Giorgio Brandolin, Alessandro Bratti, Gianclaudio Bressa, Vincenza Bruno Bossio, Giovanni Mario Salvino Burtone, Vanessa Camani, Micaela Campana, Emanuele Cani, Salvatore Capone, Sabrina Capozzolo, Ernesto Carbone, Daniela Cardinale, Renzo Carella, Anna Maria Carloni, Elena Carnevali, Mara Carocci, Marco Carra, Pier Giorgio Carrescia, Floriana Casellato, Franco Cassano, Antonio Castricone, Marco Causi, Susanna Cenni, Bruno Censore, Khalid Chauki, Eleonora Cimbro, Laura Coccia, Matteo Colaninno, Miriam Cominelli, Paolo Coppola, Maria Coscia, Paolo Cova, Stefania Covello, Filippo Crimì, Diego Crivellari, Magda Culotta, Gianni Cuperlo, Luigi Dallai, Gian Pietro Dal Moro, Cesare Damiano, Vincenzo D’Arienzo, Alfredo D’Attorre, Umberto Del Basso De Caro, Carlo Dell’Aringa, Andrea De Maria, Rogeder De Menech, Marco Di Maio, Vittoria D’Incecco, Titti Di Salvo, Marco Di Stefano, Marco Donati, Umberto D’Ottavio, Guglielmo Epifani, David Ermini, Marilena Fabbri, Luigi Famiglietti, Edoardo Fanucci, Davide Faraone, Gianni Farina, Marco Fedi, Donatella Ferranti, Alan Ferrari, Andrea Ferro, Emanuele Fiano, Massimo Fiorio, Giuseppe Fioroni, Cinzia Maria Fontana, Paolo Fontanelli, Filippo Fossati, Gian Mario Fragomeni, Dario Franceschini, Silvia Fregolent, Gianluca Fusilli, Maria Chiara Gadda, Giampaolo Galli, Guidi Galperti, Paolo Gandolfi, Laura Garavini, Francesco Saverio Garofani, Daniela Matilde Gasparini, Federico Gelli, Manuela Ghizzoni, Roberto Giachetti, Anna Giacobbe, Antonello Giacomelli, Federico Ginato, Dario Ginefra, Tommaso Ginobile, Andrea Giorgis, Gregorio Gitti, Fabrizia Giuliani, Giampiero Giulietti, Marialuisa Gnecchi, Sandro Gozi, Gero Grassi, Maria Gaetana Greco, Monica Gregori, Chiara Grimaudo, Giuseppe Guerini, Lorenzo Guerini, Mauro Guerra, Maria Tindara Gullo, Itzhak Yoram Gutgeld, Maria Iacono, Tino Iannuzzi, Leonardo Impegno, Antonella Incerti, Wanna Iori, Luigi Lacquaniti, Francesco La Forgia, Francesca La Marca, Enzo Lattuca, Giuseppe Lauricella, Fabio Lavagno, Donata Lenzi, Enrico Letta, Danilo Leva, Emanuele Lodolini, Alberto Losacco, Luca Lotti, Maria Anna Madia, Patrizia Maestri, Ernesto Magorno, Gianna Malisani, Simona Flavia Malpezzi, Andrea Manciulli, Massimiliano Manfredi, Irene Manzi, Daniele Marantelli, Marco Marchetti, Maino Marchi, Raffaella Mariani, Elisa Mariano, Siro Marrocu, Umberto Marroni, Andrea Martella, Pierdomenico Martino, Michela Marzano, Federico Massa, Davide Mattiello, Matteo Mauri, Alessandro Mazzoli, Fabio Melilli, Marco Meloni, Michele Meta, Marco Miccoli, Gennaro Migliore, Emiliano Minnucci, Anna Margherita Miotto, Antonio Misiani, Michele Mognato, Francesco Monaco, Colomba Mongiello, Daniele Montroni, Alessia Morani, Roberto Morassut, Sara Moretto, Antonino Moscatt, Romina Mura, Delia Murer, Alessandro Naccarato, Martina Nardi, Giulia Narduolo, Michele Nicoletti, Nicodemo Oliverio, Matteo Orfini, Andrea Orlando, Alberto Pagani, Giovanna Palma, Valentina Paris, Dario Parrini, Edoardo Patriarca, Vinicio Peluffo, Caterina Pes, Paolo Petrini, Liliana Cathia Piazzoli, Teresa Piccione, Flavia Piccoli Nardelli, Giorgio Piccolo, Salvatore Piccolo, Nazareno Pilozzi, Giuditta Pini, Barbara Pollastrini, Fabio Porta, Giacomo Portas, Ernesto Preziosi, Francesco Prina, Lia Quartapelle, Fausto Raciti, Michele Ragosta, Roberto Rampi, Ermete Realacci, Francesco Ribaudo, Matteo Richetti, Andrea Rigoni, Maria Grazia Rocchi, Giuseppe Romanili , Andrea Romano, Ettore Rosato, Paolo Rossi, Anna Rossomando, Michela Rostan, Alessia Rotta, Simonetta Rubinato, Angelo Rughetti, Giovanni Sanga, Luca Sani, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Daniela Sbrollini, Ivan Scalfarotto, Gian Piero Scanu, Gea Schirò, Chiara Scuvera, Angelo Senaldi, Marina Sereni, Camilla Sgambato, Elisa Simoni, Roberto Speranza, Nico Stumpo, Luigi Taranto, Mino Taricco, Assunta Tartaglione, Veroni Tentori, Alessandro Terrosi, Marietta Tidei, Irene Tinagli, Mario Tullo, Valeria Valente, Simone Valiante, Franco Vazio, Silvia Velo, Laura Venittelli, Liliana Ventricelli, Walter Verini, Rosa Calipari, Sandra Zampa, Alessandro Zan, Giorgio Zanin, Giuseppe Zappulla, Diego Zardini, Davide Zoggia.
PI-CD Roberto Capelli, Federico Fauttilli, Gian Luigi Gigli, Carmelo Lo Monte, Mario Marazziti, Gaetano Piepoli, Domenico Rossi, Milena Santerina, Mario Sberna, Bruno Tabacci.
SC Alberto Bombassei, Mario Catania, Antimo Cesaro, Angelo D’Agostino, Stefano Dambruoso, Giovanni Falcone, Adriana Galgano, Gianfranco Librandi, Andrea Mazziotti di Celso, Bruno Molea, Roberta Oliaro, Giuseppe Quintarelli, Mariano Rabino, Giulio Cesare Sottanelli, Pier Paolo Vargiu, Andrea Vecchio, Valentina Vezzali, Paolo Vitelli, Enrico Zanetti.
Binetti e D’Attorre Ansa, Dlm
Sinistrati
Minoranza Pd, gente senza dignità
Obbedite sempre e comunque al capo di turno
di Maurizio Viroli (il Fatto, 11.03.2015)
Persone senza dignità, senza intelligenza politica, senza senso di responsabilità repubblicana: questa è la minoranza del Pd (della maggioranza non merita neppure discorrere). Senza dignità perché dignità impone coerenza fra pensiero e azione, e dunque se avete dichiarato, come avete dichiarato, (vero Bersani?) che la riforma renziana della Costituzione, accompagnata dalla nuova legge elettorale rompe l’equilibrio democratico e poi votate l’una e l’altra siete persone indegne. Non sono affatto sorpreso del loro comportamento. Bersani e gli altri vengono dal Pci, che tutto era fuorché una scuola di schiene dritte (nobili eccezioni a parte). Li hanno abituati ad obbedire al segretario perché il segretario è il segretario. Sono ancora così.
Non avrei mai immaginato di dover giungere ad una conclusione siffatta, ma devo riconoscere che se in Italia avessero vinto i comunisti avremmo avuto un regime autoritario per la semplice ragione che i “bersani” sono servi della peggior specie, quelli che obbediscono al capo di turno perché è il capo. Senza intelligenza politica: perché non capiscono che oggi già non contano nulla e domani, a riforma approvata, conteranno ancora meno. Renzi non riconoscerà loro alcunché. Vuole servi docili, non servi che si permettono qualche mugugno . Si sente onnipotente perché sa che vincerebbe le elezioni e dunque ritiene che gli sia dovuta obbedienza assoluta. Diventato padrone delle liste elettorali, li butterà fuori e nessuno dirà una parola in loro difesa perché non lo meritano. A onor del vero un riconoscimento lo meritano. I Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e i loro corrispettivi locali una grande opera politica l’hanno realizzata, quella di distruggere la tradizione del socialismo in Italia.
Non c’era riuscito il fascismo, non c’era riuscita la Cia, non c’era riuscita la Dc, ce l’hanno fatta loro con le loro fredde intelligenze, capaci di minuziosi calcoli senza mai l’ombra di un principio, di un’idea nobile, di una visione politica. Congratulazioni vivissime. Senza responsabilità repubblicana: capisco che il concetto di responsabilità repubblicana risulti ostico per chi è passato dalle Frattocchie ai talk show. Ma provo a spiegarlo.
Responsabilità repubblicana vuol dire che voi avete soltanto un dovere, quello di servire la nazione, cioè la forma repubblicana descritta dalla Costituzione. Ogni altra considerazione è del tutto irrilevante. Se dunque con il vostro voto devastate, per vostra stessa ammissione, la forma repubblicana, venite meno al vostro primo dovere. Le vostre parole sulla lealtà di partito, o addirittura alla “ditta” fanno soltanto pena e ribrezzo.
Perché mi dimetterò da italiano se verrà stravolta la Costituzione
di Maurizio Viroli (il Fatto, 28.02.2015)
Provo a rispondere alle molte persone che hanno commentato su vari social networks l’articolo Non una riforma ma una revisione: il colpetto di Stato incostituzionale apparso sul Fatto Quotidiano del 20 febbraio. I gentili lettori e lettrici hanno concentrato le loro osservazioni soprattutto sulla conclusione: “Il capo dello Stato, quando riceverà la riforma dovrebbe rifiutarsi di firmarla. La Corte costituzionale dovrebbe abrogarla senza alcuna esitazione. Non si verificherà né l’una né l’altra ipotesi. Resta il referendum per il quale conviene cominciare a organizzarci fin d’ora, anche contro i partiti politici, come del resto abbiamo fatto nel 2006. Se poi la riforma passerà, e avremo un bel Senato di nominati, prenderò in serio esame di rinunciare alla cittadinanza italiana. Non credo che riuscirei a sopportare la vergogna di essere cittadino di una Repubblica che offende così apertamente la sua Costituzione”.
Chiarisco subito che non ho elementi certi per affermare che il capo dello Stato firmerà la riforma e che la Corte non la dichiarerà incostituzionale. La mia è soltanto una supposizione. Se il capo dello Stato avesse serie perplessità, le avrebbe manifestate in via riservata a Renzi e quest’ultimo avrebbe agito in tutt’altro modo. Stesso discorso per la Corte costituzionale.
LE MAGGIORI critiche vertono tuttavia sulla mia affermazione che rinuncerei alla cittadinanza italiana se venisse approvata la riforma renziana della Costituzione. Non è un motivo serio, hanno rilevato alcuni: gli antifascisti degli Anni 30 non lo hanno fatto, non si vede perché il sottoscritto, che gode di tutte le libertà, dovrebbe accedere a un simile passo.
Rispondo che per me la Costituzione è l’anima della Repubblica, ne definisce i principi fondativi, raccoglie l’eredità morale e politica della più alta esperienza di emancipazione politica della storia italiana, indica la via da seguire per vivere in Italia con dignità di cittadini. Una volta devastata, e per me la riforma renziana è una devastazione attuata in aperta violazione delle norme costituzionali, la Repubblica cambierà forma, non sarà più quella alla quale mi sento leale e quindi mi sentirò in diritto di rinunciare a essere cittadino.
Ma la motivazione fondamentale del mio gesto sarebbe l’incapacità di sopportare il senso di vergogna e di disgusto per una patria che lascia violare così la propria Costituzione senza un sussulto di dignità civile.
Ma insomma, com’è possibile accettare che la Costituzione sia riformata con il sostegno attivo di un delinquente? E come è possibile non vedere i pericoli che si annidano dietro il potere enorme del capo della maggioranza? Anche in passato, noi italiani, abbiamo avuto molti motivi per vergognarci, ma questa volta il metodo seguito e il contenuto della riforma sono il segno di una tale arroganza da autorizzare anche la protesta più radicale, beninteso, sempre entro i limiti della vita civile.
Il suo atto, mi hanno scritto, “non servirebbe a nulla”. Servirebbe, rispondo, a non sentirmi sottoposto a una casta arrogante e corrotta. E forse servirebbe come gesto di sdegno, a stimolare una resistenza civile. Riconosco tuttavia che molti lo interpreterebbero come una rinuncia all’impegno, anzi, una fuga di fronte alla sconfitta. Gli antifascisti che tanto ammiro non si sono mai arresi. “Lei può rinunciare alla cittadinanza italiana perché è già cittadino americano e vive all’estero; per la maggior parte di noi rinunciare alla cittadinanza è impossibile”. Verissimo, e se deciderò di non rinunciarvi, nonostante la riforma, sarà soprattutto perché voglio continuare a impegnarmi a fianco dei tanti italiani che non possono o non vogliono andarsene.
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO: LA DIGNITA’ NON MUORE MAI. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela:
Il Re è morto, viva l’arbitro
di Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 04/02/2015)
Se i presidenti si giudicassero dai loro discorsi, Sergio Mattarella sarebbe un presidente perfetto. Si dirà che quasi tutti i politici e molti presidenti italiani, tipo l’ultimo e il penultimo che poi erano la stessa persona, parlano bene e razzolano male. Ma c’era qualcosa di non rituale e dunque di sincero nel discorso di insediamento tenuto ieri a Montecitorio dal dodicesimo presidente.
Quei richiami insistiti e competenti alla Costituzione e alla legalità andavano al di là della retorica del cerimoniale, dando l’impressione di un’ispirazione profonda, convinta e sentita, che fa ben sperare per la fisionomia che Mattarella vorrà dare al suo ruolo di capo dello Stato, dopo gli stravolgimenti che la funzione ha subìto nei nove, pessimi anni di Napolitano.
Così come il largo spazio che, nel breve discorso, hanno avuto i temi della lotta alla delinquenza organizzata, intesa non solo come mafia ma anche come sistema criminale di corruzione politico-amministrativa-finanziaria, ben oltre i confini tradizionali fra i due fenomeni.
È tutta musica per le nostre orecchie, sempreché alle parole poi seguano i fatti. Rispettare la Costituzione significa respingere al mittente le leggi incostituzionali, diversamente dal predecessore. E significa anche prestare molta attenzione al tradimento dello spirito costituzionale che emerge dal progetto di controriforma del Senato promosso dal governo (anziché dal Parlamento: un’anomalia fra le tante). Che non è, con buona pace dei turiferari, un progetto monocameralista: prevede, invece, un abortino con una Camera onnipotente formata per due terzi da nominati e di un Senato-dopolavoro di non eletti, con tanti saluti alla sovranità popolare e alla divisione dei poteri, visto che il premier diverrebbe il padrone del Parlamento, dunque del capo dello Stato e di parte del Csm e della Consulta. Ma questo attiene al futuro, e Mattarella - come tutti, almeno per noi - verrà giudicato dai fatti.
Per ora godiamoci l’esordio di un Presidente che, a differenza dell’altro, non attacca le opposizioni, anzi ne elogia la carica giovanile; non dà ordini al Parlamento, anzi esalta la separazione dei check and balances; e non blatera di guerra e pace fra magistrati e politici, cioè tra guardie e ladri, per magnificare le larghe intese.
Chissà se i mille e più grandi elettori che l’hanno interrotto con applausi 42 volte hanno colto, nelle parole del nuovo presidente, la fine della monarchia e il ritorno alla Repubblica, visto che sono gli stessi che due anni fa, nell’aprile 2013, si spellavano le mani per il Discorso della Corona di re Giorgio, che trattava la Costituzione come un ferrovecchio da stravolgere e dettava la linea al Parlamento, al governo, alle opposizioni, alla magistratura, alla stampa, ai sindacati e a chiunque respirasse. Anche l’appello di Mattarella per la libertà di stampa, tema completamente abbandonato dai vertici delle istituzioni per non disturbare sappiamo bene chi, ha un suo significato: si tratta ora di tradurlo in pratica, per liberare l’informazione dai conflitti d’interessi che la inquinano.
Chissà se quella di Mattarella è stata una reazione ai disgustosi cori di peana e le cascate di saliva che hanno accolto la sua elezione, così come l’ascesa al potere di chiunque nell’ultimo ventennio, e sempre dalle stesse penne alla bava.
Può darsi di no, ma a noi piace pensare che l’uomo da tutti dipinto come schivo e riservato sia piuttosto allergico ai servi encomi. Soprattutto se puzzano di falso distante un miglio, e nascondono retropensieri maleodoranti.
Sappiamo tutti chi c’è, fra i parlamentari che ieri facevano la ola a Montecitorio: un centinaio fra condannati, imputati e inquisiti (senza contare il pregiudicato-detenuto B. incredibilmente invitato alla cerimonia sul Colle), i 101 e più franchi traditori di Prodi nel 2013, centinaia di approvatori di leggi vergogna (comprese quelle poi bocciate dalla sua Corte costituzionale), vari amici di corruttori e mafiosi nonché praticanti del voto di scambio e di altre nefandezze denunciate dal presidente, e i 148 “abusivi” che stanno lì soltanto grazie ai premi di maggioranza incostituzionali del Porcellum incostituzionale.
Che avevano, costoro, da applaudire un personaggio e un discorso che sono la negazione delle loro biografie? Speravano, come due anni fa, di potersi nascondere un altro po’ dietro la bella faccia di un Presidente che contano diventi anche lui il santo patrono della Casta e di tutte le sue vergogne. Speriamo che li smentisca e li deluda presto.
Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento
Palazzo Montecitorio, 03/02/2015
Signora Presidente della Camera dei Deputati, Signora Vice Presidente del Senato, Signori Parlamentari e Delegati regionali,
Rivolgo un saluto rispettoso a questa assemblea, ai parlamentari che interpretano la sovranità del nostro popolo e le danno voce e alle Regioni qui rappresentate.
Ringrazio la Presidente Laura Boldrini e la Vice Presidente Valeria Fedeli.
Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al voto.
Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari.
A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani.
Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso.
Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature. Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato.
La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno.
Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.
L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze.
La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo.
Ha aumentato le ingiustizie.
Ha generato nuove povertà.
Ha prodotto emarginazione e solitudine.
Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi.
Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.
Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo.
Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione.
Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa.
E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo.
Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo - cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro - ha opportunamente perseguito questa strategia.
Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza.
L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.
Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente. Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito.
Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali.
Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.
Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana.
Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza.
Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società.
A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.
Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso.
Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese.
La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica.
La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.
Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento.
La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti.
I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare.
A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.
L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese.
Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità.
Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti.
E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.
La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi.
E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione.
Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia.
Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.
Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare. Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.
Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione.
E’ una immagine efficace.
All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere - e sarà - imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.
Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione.
La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno.
Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.
Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro.
Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale.
Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici.
Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace.
Significa garantire i diritti dei malati.
Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale.
Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi.
Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.
Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità.
Significa sostenere la famiglia, risorsa della società.
Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia.
Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.
Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva.
Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.
La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile.
Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini.
Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato.
Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci.
L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».
E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti.
Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata.
Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.
Altri rischi minacciano la nostra convivenza.
Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti.
Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.
Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.
La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa.
Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.
La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza.
Per minacce globali servono risposte globali.
Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali.
I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.
La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse.
Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione.
La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.
Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989.
Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.
L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.
Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi.
Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia.
E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale.
L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.
A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.
Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere.
Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.
Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo.
Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.
Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati, Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.
Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani: il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi.
i volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti.
Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto.
Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.
Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri.
Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto.
Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose.
Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha giurato dinanzi al Parlamento e pronunciato il discorso di insediamento *
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento riunito in seduta comune integrato dai delegati regionali.
Il Presidente Mattarella, al suo arrivo a Palazzo Montecitorio, è stato ricevuto dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, e dalla Presidente Vicaria del Senato, Valeria Fedeli.
Nell’Aula di Montecitorio la Presidente Boldrini ha dichiarato aperta la seduta ed ha invitato il Capo dello Stato a prestare giuramento a norma dell’art.91 della Costituzione. Il Presidente Mattarella ha quindi pronunciato la formula di giuramento e rivolto il messaggio alla Nazione.
Il nuovo Capo dello Stato
Colle, Panda e Ardeatine
di Carlo Tecce (il Fatto, 01.02.2015)
Il primo avvistamento di Sergio Mattarella, ancora non proclamato Capo dello Stato, è segnalato tra le dieci e trequarti e le undici: un’utilitaria proveniente dal palazzo della Consulta, forse una Panda e neanche ultimo modello, trasporta il giudice costituzionale verso piazza Venezia. I grandi elettori, muniti di valigie per l’esodo, si scambiano grandi domande: va a rendere omaggio al Milite Ignoto, non sarà troppo presto? O si scambiano piccole ironie: il politico siciliano, che viene descritto un po’ grigio, ha scelto un’automobile grigia.
Mattarella va a casa di Laura, sua figlia, lì assiste al quarto scrutinio e lì riceve la telefonata, a spoglio non finito, di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che fu il magistrato di turno che aprì le indagini sull’omicidio mafioso del governatore siciliano Piersanti Mattarella, il fratello di Sergio, il 6 gennaio di 35 anni fa.
Con la stessa macchina, Mattarella rientra verso il Quirinale. Non varca il portone che ha accolto anche trenta pontefici, ma aspetta Laura Boldrini e Valeria Fedeli per le comunicazioni ufficiali. Il vestito è di un blu scuro che richiama il grigio.
Per non essere un renziano, le misure sono corrette: “Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini”.
Così inizia il settennato di Mattarella, una dichiarazione con la forma di un telegramma che rispetta perfettamente i 140 caratteri per un cinguettio su Twitter. Il siciliano non è abituato al muro di giornalisti, non più da tempo.
Marco Damilano (Espresso) racconta che venerdì, a pallottoliere ormai in sicurezza, il protocollo quirinalizio voleva convincere il compìto Mattarella a sottoporsi a un servizio fotografico nel centro di Roma, perché i circuiti internazionali aspettavano immagini del nuovo Capo dello Stato.
Dopo la Panda rossa di Ignazio Marino che, sciagurata, finiva sempre in divieto di sosta, ieri pomeriggio a Roma c’era la caccia a una Panda grigia. Sfuggito ai cronisti, Mattarella è riapparso alle Fosse Ardeatine, dove i tedeschi trucidarono 335 italiani fra militari e civili: “L’alleanza tra nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore”.
IL MESSAGGIO non richiede traduzioni: la dolorosa memoria contro i rigurgiti fascisti o estremisti. Il luogo d’esordio, per chi assume una carica, lo caratterizza. Jorge Mario Bergoglio, appena nominato papa Francesco, andò a pregare nella Basilica di Santa Maria Maggiore.
I cattolici di destra, che temono la retorica di un Mattarella francescano e morigerato, non l’hanno votato. Mattarella è un ex democristiano di sinistra, come Giovanni Burtone, deputato dem di Catania: “Quando Pier Ferdinando Casini e Rocco Buttiglione lasciarono i Popolari per sostenere Silvio Berlusconi, in Sicilia c’eravamo soltanto io e Sergio, andavamo in giro a distribuire i volantini”.
Il c’eravamo io e Sergio è un classico di queste ore. Burtone c’era. E poi vennero i Dario Franceschini e i Francesco Saverio Garofani (caso raro di “mattarelliano”), che ieri hanno festeggiato al ristorante “Settimio”, vicino al Senato, un vecchio covo per i democristiani in epoca Ciriaco De Mita.
Come si fa un Presidente nell’Italia dell’era Renzi
di Furio Colombo (il Fatto, 01.02.2015)
A cose fatte si può dire. Tutto è avvenuto in stanze chiuse. Schede bianche, centinaia, per due giorni. Sono state come grandi tendoni calati di fronte a una scena che non è pronta. Dicono con chiarezza una cosa: nessuno deve sapere. O meglio pochi. Ma chi? Nessun estraneo comunque deve metter bocca, o avere o proporre opinioni su un delicato lavoro in corso, che è la costruzione del nuovo presidente della Repubblica.
Se siete estranei ai lavori, guardatevi i vostri programmi tv, ricchi di ipotesi e di pareri di chi non sa, o state lontani dall’argomento. Il dovere civico non è più “partecipare”. Il dovere civico è di non ingombrare. A certe cose pensano alcuni. Mentre scrivo non posso fare a meno di pensare a un celebre libro americano (1962) a cui ho rubato il titolo di questo articolo. Era la storia di come era diventato presidente John Fitzgerald Kennedy, e la fama, prima giornalistica e poi accademica di quel libro era dovuta (lo è ancora, nell’insegnamento di Scienze politiche o di “scuole di governo”, nelle Università americane) alla quantità ed esattezza di dettagli e notizie precise, e alla valutazione critica di tutti i passaggi e sviluppi, da quando Kennedy è un giovanotto gradevole e ignoto, fino all’insediamento alla Casa Bianca.
Da noi non è così. Noi non sappiamo e non dobbiamo sapere nulla. In due sensi, che vale la pena di esaminare. Il primo è che la vita politica è chiusa in una camera stagna in cui si entra con uno strano meccanismo elettorale (una sorta di cooptazione attraverso liste che erano e che restano bloccate, anche dopo una presunta riforma) che interrompe, una volta eletti, ogni rapporto e ogni responsabilità con e verso gli elettori.
Il secondo è che, nel chiuso della camera stagna non credere di sapere e non credere di contare. Teoricamente vieni eletto a far parte di un organo sovrano, che è il Parlamento, uno delle tre colonne portanti della democrazia. Nei fatti sei una frazione selezionata (più che altro secondo criteri di probabile obbedienza) che ascolta, tace ed esegue, senza alcuna autonomia o possibilità di azione indipendente. Ogni accenno a fare di testa tua viene redarguito come indisciplina non tollerabile. La pena, nell’immediato, è l’isolamento. E, appena possibile, l’esclusione da ogni altra elezione.
MA ANCHE se resti e fai il bravo, salvo cooptazione nel cerchio interno (che cosa è il cerchio interno e come ci arrivi?) non sai e non fai nulla, tranne approvare cose che non sai, oppure essere la folla giusta che applaude al momento giusto.
Guardando l’Italia mentre elegge il suo prossimo presidente della Repubblica, non puoi non vedere che tu, cittadino, non sai e non conti. Ma anche le persone che hai eletto perché siano il tuo Parlamento non sanno e non contano. E possono solo mettere, in proprio, un volenteroso entusiasmo. Oppure vendicarsi con il voto segreto. Come abbiamo visto prevale l’obbedienza. Essa non ha niente a che fare con il condividere una scelta. Per esempio, in questa situazione italiana non è mai stata in discussione la scelta di Sergio Mattarella for President. La discussione è stata (o meglio: sarebbe stata, se qualcuno l’avesse permessa) solo una domanda: la scelta di chi?
Questo è il punto su cui si concentra il grande indovinello della vita pubblica italiana: chi comanda, chi decide? In una bella giornata di gennaio, alle due di un pomeriggio, il primo ministro del Paese Italia, in cui c’è il vuoto della più alta carica dello Stato, che spetta al Parlamento eleggere, si presenta ai deputati e senatori che rappresentano il Partito democratico in Parlamento, per annunciare loro che, compatti e disciplinati, voteranno una persona che non hanno mai incontrato o sentito parlare e che adesso è giudice della Corte Costituzionale: Sergio Mattarella. L’annuncio non è fatto per aprire il dibattito. È una comunicazione di servizio. Infatti il Primo ministro è anche segretario del Partito democratico, e sta parlando alla rappresentanza parlamentare del suo partito.
E qui, come vedete, ci sarebbero due seri problemi. Renzi, come primo ministro, può proporre ma non imporre un candidato a una delegazione parlamentare, per giunta del partito numericamente più grande alle Camere. Renzi, come Segretario dei parlamentari del suo partito, può dire la sua convinzione (vi assicuro, Mattarella è la scelta giusta).
MA POI si suppone che apra la discussione. Non la apre. Come ho detto, si tratta di una comunicazione di servizio. È stabilito e deciso che questa persona, di ottima reputazione e di integerrimo passato, sarà il nuovo presidente della Repubblica. Tocca a voi fare in modo che neppure uno dei vostri voti vada disperso. È un ordine, non una proposta.
Come si vede, i problemi (o le domande senza risposta) si depositano a strati l’uno sull’altro. Il potere esecutivo non può far cantare e ballare il potere legislativo. Può solo proporre. Il segretario di un partito ha autorità ma non dominio. Per quanto forte sia il suo carisma e la sua credibilità, riunisce i suoi per dibattere e persino per ascoltare, non per diramare istruzioni.
Ma tutto avviene al di là di una barriera impenetrabile che separa politica e popolo. Da questa parte della barriera non potete neppure chiedere chi ha deciso o perché. Manca l’interlocutore. E da tempo i media, invece di schierarsi con l’opinione pubblica che non sa e vorrebbe sapere, si addossa alle istituzioni per fare da volenteroso portavoce. Un portavoce ti ripete doti e pregi ed esemplare passato di Mattarella, che del resto potevi trovare in rete.
Ma non ti dice perché Mattarella, e a confronto con chi. Attenzione alla camera stagna della politica che decide in isolamento, non si sa perché e non si sa per rispondere a chi. Ci darà altre sorprese.
Quirinale: il primo giorno di Mattarella presidente, a piedi in centro
Il nuovo capo dello Stato mantiene le abitudini di sempre: a messa di buon mattino e poi a piedi fino alla foresteria della Consulta, dove abita
di Redazione ANSA *
Il nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mantiene le abitudini anche dopo la sua elezione di ieri a capo dello Stato. Questa mattina ha raggiunto la chiesa dei Santi Apostoli, in centro a Roma, per partecipare alla messa. "Rivolgiamo fraterni auguri al nuovo presidente - ha detto padre Nicola Rosa durante la messa - e chiudiamo con la benedizione di San Francesco. Preghiamo affinché il Signore faccia risplendere il suo volto su ciascuno di noi, sul Paese, su chi ci Governa e su chi è chiamato ad assumere responsabilità per il bene del Paese", ha detto padre Nicola.
Al termine della cerimonia, Mattarella si è intrattenuto con alcune suoreche partecipavano alla funzione e ha anche posato per una foto con loro fuori dalla chiesa. "Pregate per me affinché io sia uno strumento per il bene del Paese", ha detto il nuovo capo dello Stato alle religiose.
Il capo dello Stato, al termine della messa, ha deciso di non prendere la ormai tradizionale Panda con la quale si è spostato in questi giorni e di raggiungere a piedi (FOTO) la foresteria della Consulta. Il presidente ha voluto così rispettare le disposizioni del blocco del traffico del centro di Roma: una passeggiata, quindi, non casuale ma una precisa scelta.
Al rientro dalla messa, il nuovo presidente della Repubblica ha telefonato al predecessore Carlo Azeglio Ciampi con il quale ha avuto una lunga ed affettuosa conversazione. "Sono grato per tutto quello che hai fatto per il Paese. Tu puoi capire bene quali siano le mie preoccupazioni", ha detto Mattarella.
ITALIA, 31 GENNAIO 2005. Le prime parole di Sergio Mattarella da presidente della Repubblica dalla Consulta, dopo aver ricevuto dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, il verbale della sua elezione:
"Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E’ sufficiente questo".
LUNGA VITA ALL’ ITALIA: "RESTITUITEMI IL MIO URLO" !!! Dalla Cina, la lezione di Huang Jianxiang. A Lui, in omaggio perenne (Federico La Sala)
Prima dei patti viene la dignità
di Maurizio Viroli (il Fatto, 30.01.2015)
Credo che non sia scritto in alcuna dichiarazione, ma per me è il più importante fra i diritti. Parlo del diritto alla dignità, quel sentimento interiore di piccola stima nei confronti di noi stessi per quel che abbiamo fatto e facciamo, e per quel che siamo. Proprio perché sentimento interiore che emerge dal dialogo con la nostra coscienza e non dall’opinione degli altri, e ancora meno dal riconoscimento delle Costituzioni e delle leggi, nessuno, tranne noi stessi, può toglierci la dignità. Ma è vero anche che ciascuno di noi porta con sé nel mondo il dato di essere italiano o italiana.
Essere italiani oggi vuol dire essere sottoposti alle decisioni prese da un delinquente cacciato dal Parlamento in combutta con un giovanotto che asseconda il suo desiderio di continuare a essere arbitro della politica italiana, con l’avallo di una pletora di servi dell’uno e dell’altro incapaci di dire semplicemente “No!, le indecenze dei vostri incontri segreti non mi riguardano, il mio solo commento è il disprezzo”.
La dignità, ecco quello che ci ha tolto e ci toglie il patto fra Berlusconi e Renzi. Con quel loro accordo ci hanno detto e dicono ogni giorno, con il sorriso sprezzante di chi sa di poter fare ciò che vuole, che l’onestà, la rettitudine, la lealtà alla Repubblica non valgono assolutamente nulla. Conta essere evasori fiscali, sodali di corruttori di giudici, sostenitori di collusi con la mafia. Queste sono le persone con le quali si può eleggere il capo dello Stato, suprema magistratura di garanzia, riformare la legge elettorale, riscrivere la Costituzione.
Se sei una persona onesta e credi nella libertà repubblicana, nell’Italia di Renzi e di Berlusconi vali meno di niente. Ti deridono. Coprono le loro ripugnanti azioni con argomenti ispirati ai triti luoghi comuni della necessità politica. “Ci vuole una legge elettorale che assicuri solidi governi mediante generosi premi di maggioranza”; “bisogna abolire il Senato elettivo per semplificare e accelerare il processo legislativo”, gridano a gran voce. Sono balle che non troverebbero ascolto in nessun consesso civile.
La prova più eloquente che non c’è alcun bisogno di togliere di mezzo il Senato per legiferare è il fatto stesso che questo governo legifera, eccome. Delle due l’una: o Renzi mente quando sbandiera che il suo governo ha “fatto” tante leggi; o mente quando proclama che con l’attuale Costituzione è praticamente impossibile legiferare. In termini di filosofia politica, quella che mi onoro di insegnare da trent’anni fuori d’Italia, ovviamente, il comportamento di Renzi e dei suoi si fonda sul presupposto di poter ingannare i cittadini a suo piacere. Tanto non la capiscono. O fanno finta di non capire?
SONO DUNQUE due i motivi per i quali ci dobbiamo vergognare: essere di fatto governati da un delinquente assecondato da un giovinotto, essere trattati come deficienti. Quel che più avvilisce e indigna è che nessuno compie un passo deciso per uscire dalla palude, formare un partito di dignità repubblicana e civile, alzare una bandiera. Cosa aspettate, persone perbene che state a soffrire nel Pd e fate ormai fatica a guardarvi allo specchio perché sapete che non valete nulla e vi trattano da poveri idioti?
In politica una delle virtù essenziali è la capacità di cogliere l’occasione. Orbene, l’occasione è adesso. Se aspettate che vada al Quirinale il burattino di Renzi e Berlusconi, e poi disfino la Costituzione, sarà troppo tardi per qualsiasi efficacie azione politica.
“Dove eravate?”, vi chiederanno, e vi chiederò, quando Renzi e Berlusconi disfacevano pezzo a pezzo la Repubblica? Non saprete rispondere e sarete finiti una volta per tutte. Perdere una lotta politica non è una tragedia; perdere la dignità sì.
Se poi, per miracolo o per un momento di illuminazione di Renzi non andrà al Quirinale un prodotto dell’accordo con Berlusconi, tanto di guadagnato per la Repubblica. Ma in questo caso bisognerebbe chiedere a Renzi perché ha aspettato tanto a rompere con Berlusconi e perché gli ha concesso tanti favori?
La foto mancante
di Massimo Gramellini (La Stampa, 29.01.15)
Continuano a vedersi, ma a non farsi vedere. Ogni amore proibito finisce per lasciare una traccia fotografica. Invece la relazione clandestina più chiacchierata d’Italia resta avvolta nel buio come un vertice del Cremlino ai tempi del Pcus. Eppure Renzi e Berlusconi non fanno della ritrosia l’elemento fondante del loro carattere.
Da sempre Berlusconi abita la vita pubblica alla stregua di un gigantesco studio televisivo in cui si muove con il celebre sorriso celentanoide stampato sopra il fondotinta. Quanto a Renzi, accetterebbe di scattare un selfie anche con un palo della luce (che non gli facesse ombra). Entrambi amano la politica a fumetti che comunica attraverso la potenza evocativa delle immagini. E sanno che l’assenza di tracce visive dei loro incontri furtivi non fa che accrescere i sospetti di chi li osserva dall’esterno pensandone tutto il male possibile.
Allora perché si rifiutano di farsi ritrarre, non dico mano nella mano, ma almeno uno accanto all’altro? Forse una risposta va cercata proprio nel ruolo sacrale che gli amanti del Nazareno affidano all’immagine. Se ormai una cosa esiste davvero solo quando viene immortalata da un flash, la coppia «Father and Son» trova più conveniente non esistere.
L’ex direttore di Canale 5, Massimo Donelli, ha suggerito ai due burattinai di farsi fotografare mentre guardano insieme davanti alla tv l’elezione del «loro» Presidente della Repubblica.
Temo resterà deluso. L’insolita riluttanza di entrambi nasconde ragioni politiche, ma anche più intime. Per Renzi potrebbe trattarsi persino di un refolo di imbarazzo. Per Berlusconi di un problema di inquadrature.
Il nuovo inquilino e la casa comune
di Guido Crainz (la Repubblica, 20.01.2015)
C’È QUALCOSA che sembra mancare, nel dibattito sul futuro presidente della Repubblica: la piena consapevolezza del ruolo che dovrà svolgere in un quadro costituzionale destinato a mutare, poiché stiamo andando verso un superamento del bicameralismo paritario.
CON questo superamento, connesso ad un sistema elettorale fortemente maggioritario, diventano ancor più importanti le figure e gli organi di garanzia: in primo luogo il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Se così è, fra l’altro, appare fondata l’ipotesi di inserire nella riforma costituzionale l’innalzamento del quorum necessario per l’elezione del presidente.
L’alternarsi dei nomi possibili non deve dunque oscurare la vera questione che è in gioco, esattamente come lo è nel dibattito sul bicameralismo: la possibilità stessa di rimodellare la Repubblica. E la assoluta responsabilità che è necessaria nel metter mano alla casa comune. In questo scenario, diverso dal passato, si colloca dunque la discussione sulla qualità e il profilo del futuro presidente, ma si colloca anche - o si do- vrebbe collocare - un mutamento radicale nella mentalità e nei comportamenti dei “grandi elettori”. Senza sciogliere questo nodo affonderebbero anche buone candidature: e il far prevalere logiche di corrente o altri fini, se non ritorsioni, sarebbe un vero attentato alla Costituzione che si pensa di riscrivere.
La partita che si è aperta è indubbiamente difficile, e qualcosa accresce il senso di insicurezza: nella tormentata transizione iniziata nel 1994 sono stati fondamentali tre presidenti che hanno respirato l’aura della fondazione della Repubblica, intrisi della cultura che ha presieduto ad essa. O meglio, delle diverse culture che l’hanno ispirata e ne hanno garantito l’attuazione: la cultura cattolica, quella laica e azionista, e quella comunista (del comunismo italiano, capace di assumere progressivamente la Costituzione come valore primario).
Oggi questa preziosa risorsa si è inevitabilmente esaurita, ed è legittimo sentirne la mancanza: tanto più che in settant’anni il ruolo del presidente è indubbiamente mutato. Certo, non ha svolto quasi mai quel ruolo di “notaio” che Luigi Einaudi aveva incarnato e che periodicamente viene invocato: non è stato così, ad esempio, in una gran parte della “prima repubblica” (da Gronchi a Pertini, per tacere di Segni o di Cossiga).
Con il suo crollo poi il quadro cambia profondamente e di fronte all’anomalo centrodestra berlusconiano, poco rispettoso e talora estraneo alle regole, è diventato sempre più importante il ruolo di garanzia del presidente. Ben lungi dal poter esser “notarile” esso ha comportato invece un impegno attivo, talora di contrasto a misure illegittime o confliggenti con lo spirito e la lettera della Carta.
Sin dall’inizio, sin dalla lettera che Oscar Luigi Scalfaro inviò nel 1994 a Berlusconi, incaricato di formare il suo primo governo: lo impegnava al rispetto della Costituzione e dell’Italia “una e indivisibile”, oltre che delle alleanze internazionali e della “politica di pace”.
Lettera senza precedenti, ma resa necessaria dagli umori secessionisti cavalcati allora dalla Lega e dalla richiesta di rompere il trattato di Osimo sul nostro confine orientale avanzata dal Movimento Sociale.
E fu provvidenziale anche il veto posto a Cesare Previti come ministro della Giustizia. Era solo l’inizio di una storia ventennale in cui presidenza della Repubblica e Corte costituzionale si sono trovate a fronteggiare le iniziative di Berlusconi che più apertamente stridevano con la Costituzione: del resto la considera scritta da «forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello» (parole sue).
Non andrebbero mai dimenticati i non lontani tempi delle leggi ad personam sul sistema televisivo e sulla giustizia (sino ai lodi di Schifani e di Alfano), e c’è proprio da sperare che non ritornino. Che non sia necessario porre continui argini ad anomalie e a pretese anticostituzionali ma sia possibile davvero rimodellare le istituzioni della Repubblica. Prendendo avvio dal primo fondamento: il senso di responsabilità istituzionale di coloro che sono chiamati a farlo. Questo Parlamento ha la possibilità di dare al Paese il segno di una svolta, dopo le pessime prove di due anni fa: auguriamoci tutti che ne sia capace.
L’identikit del nuovo presidente
di Luigi La Spina (La Stampa, 14.01.2015)
L’elezione del Presidente della Repubblica, come quella del Papa, è del tutto imprevedibile e, al contrario di un conclave, non è neanche assistita dallo Spirito Santo. È vero che, come una partita di calcio, ci sono i favoriti, ma se, come si diceva una volta, «la palla è rotonda», anche la sfera di cristallo della politica si diverte spesso a smentire i pronostici. Così, è meglio diffidare di chi, alla vigilia, azzarda due o tre nomi «sicuri», come di chi, ai nastri di partenza, suggerisce di puntare su cavalli «sicuramente» vincenti. E neanche una scrupolosa analisi del passato serve a molto, perché non esistono regole per fare un Presidente, nonostante qualcuno si affanni a cercarle e pretenda di averle trovate.
Nonostante l’assenza di ispirazioni divine, in verità, c’è forse una regola che sembra individuabile nella caotica partita che oggi scatta ufficialmente e, se vogliamo continuare nel paragone un po’ blasfemo, potremmo parlare di una provvidenza laica. Quella che, dall’urna presidenziale, fa spuntare un nome corrispondente alle esigenze della storia. Il profilo del Presidente prossimo venturo, perciò, cambia continuamente, di elezione in elezione, approfittando della benemerita vaghezza che la Costituzione disegna per il suo ruolo.
Notai, politici di professione, padri della Patria, economisti con la laurea in lettere classiche e persino costituzionalisti col piccone in mano si sono alternati al Quirinale secondo quello «spirito dei tempi» di hegeliana memoria.
Ecco perché, invece di tuffarsi nella riffa dei nomi, candidati, pseudocandidati, autocandidati, forse sarebbe meglio trovare la bussola presidenziale partendo dalle caratteristiche necessarie, oggi, per poter far fronte ai compiti che, nei prossimi sette anni, dovrà assolvere il nuovo Capo dello Stato. In una fase di profonda riforma costituzionale come quella che si annuncia, non si può pensare, innanzi tutto, a un Presidente che non abbia una competenza e una esperienza delle regole e delle procedure che stabiliscono i rapporti tra le istituzioni della Repubblica. Un garante, insomma, che i previsti mutamenti di alcuni tra i più importanti organi dello Stato non intacchino i principi sui quali è fondata la nostra Carta fondamentale.
A questa prima necessità se ne collega naturalmente un’altra, quella di una conoscenza del nostro mondo della politica, così peculiare in Italia e tale che un estraneo ai suoi costumi e malcostumi, alle sue abitudini, ai suoi meccanismi, palesi e occulti, farebbe davvero fatica a capire la nostra vita pubblica e a farsi capire dalla nostra politica, cioè a poter incidere con efficacia in una realtà molto complessa.
Le altre qualità che il prossimo Presidente dovrebbe possedere sono più legate, invece, ai cambiamenti che sono avvenuti in questi anni in due sfere più distanti dai palazzi nostrani del potere. Quella dei rapporti internazionali e quella della comunicazione con i cittadini italiani. È ormai necessario che il capo di una nazione come l’Italia abbia una certa esperienza delle relazioni che avvengono tra i leader del mondo, che sia una personalità conosciuta e apprezzata.
Non per una mera questione di prestigio, ma per poter esercitare quella funzione di una rappresentanza istituzionale che, al vertice dello Stato per un lungo periodo, possa costituire garanzia di stabilità, assicurazione di rispetto degli impegni, punto di riferimento per tutti, capi di governo, entità sovrannazionali, politiche ed economiche, ma anche leader religiosi. Infine, che possa pure impersonare quella figura dotata di autorevolezza morale e politica che sostenga l’immagine dell’Italia nel mondo. Un ruolo che Napolitano ha praticato così bene e in tempi così difficili per il nostro Paese in questi anni.
Ultima dote che il prossimo inquilino del Quirinale dovrebbe avere è proprio quella resa necessaria dalla modernità del rapporto tra Capo di Stato e cittadini. Cioè la capacità di istituire con gli italiani un legame di simpatia, spontanea e immediata, la capacità di comunicare con loro in maniera talmente diretta da supplire a quella distanza tra il mondo della politica, delle istituzioni e la sensibilità comune che, come le ultime elezioni dimostrano, si va approfondendo in modo molto preoccupante.
Ormai, tocca al Presidente della Repubblica una funzione particolare, che non era affatto richiesta ai Capi di Stato del secolo scorso, quella di rappresentare la nazione soprattutto raccogliendo i sentimenti dei suoi cittadini, le loro speranze, le loro paure, i loro disagi, i loro bisogni di rassicurazione sul futuro.
Essere, insomma, il primo difensore civico dei nostri concittadini. Ecco perché non basterà che ispiri fiducia agli oltre mille elettori delle Camere riunite, occorre che sappia ispirare fiducia agli italiani. Di questi tempi, non sarà facile.
Giochi aperti
La figura che non vorremmo
L’eredità di Napolitano al Quirinale
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 14.01.2015)
Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato.
I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti.
Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. S calfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo.
Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 - durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione.
Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo».
Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate.
Primo: contano gli accidents of personality, come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.
Secondo: contano altresì gli accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema.
Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano.
In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali.
Quirinale, la corsa al Colle. Giorgio Napolitano ha firmato la lettere di dimissioni
Il presidente del Senato Grasso svolgerà per il tempo necessario le funzioni di capo dello Stato
di Redazione ANSA *
Giorgio Napolitano ha firmato la lettera di dimissioni e lascerà, dunque, il Quirinale dopo quasi nove anni di mandato. Subito dopo si aprirà ufficialmente la corsa al suo successore, mentre il presidente del Senato Piero Grasso svolgerà per il tempo necessario le funzioni di capo dello Stato. Renzi auspica che il futuro presidente sia - ha detto - ’un arbitro di alto livello’. Il premier ha salutato Napolitano twittando #GraziePresidente.
Questa mattina al palazzo del Quirinale è stata ammainata la bandiera del presidente della Repubblica.
Il Pd ha riunito la segreteria e, al termine, la vicesegretaria del partito, Debora Serracchiani, ha fatto sapere che i Dem faranno incontri con tutte le forze politiche in vista dell’elezione del successore di Napolitano e ha confermato che si punta al quarto scrutinio per la fumata bianca.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, citato a più riprese nel toto-nomi del Colle è tornato a chiamarsi fuori dalla partita. "È un grande onore naturalmente per me essere preso in considerazione - ha detto in una intervista alla Zeit - ma non è il mio lavoro".
Napolitano e il ’ritorno a casa’
"Certo che sono contento di tornare a casa!". C’è un che di liberatorio in questa ammissione che Giorgio Napolitano ha consegnato ieri con franchezza ad una bambina che a piazza del Quirinale con candore gli chiede se non gli dispiacesse un po’ lasciare un così bel palazzo. Il presidente della Repubblica uscente non ha mai nascosto il peso dell’età e le difficoltà crescenti a portare avanti i "gravosi" compiti richiesti dalla guida del Quirinale e spiega con semplicità che al palazzo dei papi "sì, si sta bene, e’ tutto molto bello ma si sta troppo chiusi, si esce poco". "Quasi una prigione", aggiunge forse pensando alla sua amatissima casa al rione Monti dove rientrerà finalmente oggi dopo quasi nove anni passati al Colle. E a Monti (pochi passi dal Quirinale) sarà festa per il rientro del vicino illustre.
E’ stato il presidente delle riforme a tutti i costi, elegante e "pignolo", come egli stesso ha confermato. Attento ad ogni dettaglio, lavoratore instancabile, profondo conoscitore della vita parlamentare e delle dinamiche politiche dell’intera storia repubblicana, Giorgio Napolitano domani firmerà di suo pugno le dimissioni che poi viaggeranno, portate personalmente dal segretario generale Donato Marra (per nove anni l’ombra del presidente), tra il Senato, la Camera e palazzo Chigi. E il suo ultimo messaggio agli italiani non poteva che essere nel solco del suo granitico "credo": unità del paese e riforme. Gli italiani, ha ripetuto stamattina, siano "sereni" per il futuro e soprattutto "molto consapevoli della necessita’, pur nella liberta’ di discussione politica e di dialettica parlamentare, della necessita’ di un Paese che sappia ritrovare, di fronte alle questioni decisive e nei momenti piu’ critici, la sua fondamentale unita’".
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ANSA ROMA 14 gennaio 2015 11:10 - ripresa parziale.
Il Quirinale nel patto del Nazareno
risponde Furio Colombo (il Fatto, 19.12.2014)
CARO COLOMBO, quel galantuomo di Berlusconi non vuole giochi sotto il tavolo. Il 14 dicembre ha messo le cose in chiaro: il patto del Nazareno comprende anche l’accordo sul Quirinale. Vuol dire che cosa? Aloisio
VUOL DIRE MOLTO, vuol dire che quel giovanotto che ogni giorno rimprovera alcuni dei suoi di avere qualche dubbio sulla sua straordinaria qualità di giocatore politico, agisce sotto strette condizioni pattuite altrove, e prima che il gioco cominciasse e della sua strepitosa discesa in campo. Persino chi ha i pregiudizi (i miei, intendo, che i lettori conoscono) su Berlusconi ed è persuaso della sua fondamentale separazione da ogni tipo di scrupolo, sa che in questo gioco (il gioco del Nazareno) Berlusconi non ha mai bluffato e non è mai stato smentito. Non nei fatti.
Qualcuno avrebbe immaginato che l’intero Pd (meno cinque) si sarebbe messo nelle mani di Verdini e dei suoi giudizi su persone, cose, leggi, iniziative e divieti? Ma Berlusconi l’aveva detto subito e ormai lo sanno tutti che non cade foglia che Verdini non voglia.
Naturalmente anche Renzi ha i suoi poteri e ce lo fa capire con le minacce non velate di fare fuori tutti i suoi avversari. E infatti ha alle sue spalle, senza tentennamenti, tutte le sue ragazze e i suoi ragazzi. Nuovi, senza passato e senza idee che disturbano. Ma siamo all’interno di un contenitore stagno di “valori” istituito da Forza Italia e poi dal Popolo della libertà, mentre, per dirla con Renzi, l’Ulivo sprecava vent’anni nel niente.
Sarà anche vero. Ma adesso noi (noi italiani) condotti da Renzi, respiriamo l’aria di Berlusconi. E infatti sentite le parole di Berlusconi dette mediaticamente per bocca di Renzi a conclusione dell’ultima, umiliante assemblea del suo partito: “Vorrei giudici che rilasciano meno interviste e scrivono più sentenze”. Frase evidentemente minacciosa dell’esecutivo contro il giudiziario. Proprio per questo, il punto fermo di Berlusconi resta. Sentite la frase, che copio in tempo reale dal cellulare: “Non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi sembri non adeguato”.
La frase non è politichese, è contrattuale. “Non adeguato” è chiunque si sia immischiato, per esempio, negli affari di Berlusconi, e li abbia descritti in tutti gli aspetti, unici al mondo (per il tipo di amici e il tipo di affari) di un capo di governo, che infatti dispone, in tutto il mondo, di una discussa reputazione. Ma quella reputazione è buona abbastanza per Renzi, che fa scenate contro chi dissente. Lui però ubbidisce.
Che il patto sia con te, gli sta dicendo Berlusconi, ma ad alta voce, perché sentano tutti. Quel patto infatti è la forza di Renzi. Una forza che rinvia ad altre forze che neppure Berlusconi, che è uno col cuore in mano, ha mai voluto indicarci.
In ogni caso il contratto prevede (articolo 1) che un antiberlusconiano (nel senso del rispetto delle regole, delle leggi, delle sentenze, della morale corrente) al Quirinale non passa. Né in alcuna altra carica o funzione pubblica (dunque anche Rai, direzione di giornale, responsabilità scientifica, rettorato universitario, primariato, direttore di banca). Chiaro?
B. e il “patto”
“Matteo ricordati: il Quirinale è nel Nazareno”
di Sara Nicoli (il Fatto, 15.12.2014)
Non vede l’ora di riconquistare la sua agibilità politica per rituffarsi nell’agone di una campagna elettorale a primavera che lui dà ormai per scontata. Ma fino a quel momento, quando saluterà gli anziani di Cesano Boscone (succederà “il 15 di febbraio - dice - e ci sarà un cambio assoluto nel modo di relazionarci con gli elettorio”) resterà fermo, ma vigile, nella sua posizione di contraente del Patto del Nazareno. Una visuale di assoluto privilegio per Berlusconi. Anche ieri ha fatto capire il perché, con una frase che è arrivata come una secchiata di acqua gelata sugli spiriti fin troppo bollenti che si stavano confrontando nel catino della direzione Pd.
Al telefono con i club dell’Emilia Romagna, riuniti a Imola, il Cavaliere ha buttato lì una frase tutta diretta a Renzi: “È logico - ha detto - che non potrà essere eletto un Capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire". Che nessuno s’immagini, insomma, che Berlusconi sia politicamente sepolto. E che, soprattutto, non voglia prendere parte attiva in una partita così importante come quella della successione a Napolitano. Dalla quale potrebbe anche dipendere la sua speranza di ricevere un giorno l’agognata grazia.
E ancora: per dare un segnale inequivocabile al suo principale interlocutore (il Pd renziano), Berlusconi ha fatto chiaramente capire - come se non fosse noto - che uno dei puntelli del Patto è proprio la condivisione di un nome per il Colle, anche se poi, per rinfrancare le sue truppe un po’ stanche, ha puntualizzato: “Non potevamo dire no al patto del Nazareno, un patto che ci dà tanto fastidio, perchè non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo? ”. Già, come si fa.
CHIARO CHE, subito dopo queste dichiarazioni, nel Pd è partita la gara alla smentita di facciata. Prima è arrivata Debora Serracchiani, subito dopo è stata la volta di Lorenzo Guerini: “Non c’è nessun accordo nel patto del Nazareno che riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Quando sarà il momento, costruiremo un percorso in Parlamento parlando con tutte le forze politiche, come abbiamo sempre detto”. Intanto, però, Berlusconi ha già messo una pesante ipoteca su quel prossimo, delicato passaggio parlamentare. E non solo con le parole di ieri. Come svelato dal Fatto il 2 agosto scorso, nel Patto del Nazareno c’è una clausula, sottoscritta da Renzi e Berlusconi, per escludere a tutti i costi la nomina di Romano Prodi.
Il Cavaliere, insomma, vuole essere assolutamente certo di non trovarsi al Colle qualcuno che pregiudichi anche la sopravvivenza stessa di Forza Italia, un partito oggi in default economico con gli ultimi 50 dipendenti messi da qualche giorno in cassa integrazione. “Oggi nessuno di noi, con quel che succede, può essere sicuro dei suoi diritti, dei suoi beni, perfino della sua libertà - ha concluso Berlusconi - dobbiamo cambiare il nostro Paese, dobbiamo uscire dall’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria in cui ci troviamo”. Frase da campagna elettorale, certo. Ma prima c’è da nominare il successore di Re Giorgio. E Silvio vuole essere uno dei protagonisti assoluti.
Berlusconi: "Patto del Nazareno? Logico che ci sia anche il capo dello Stato"
Il leader di Forza Italia: conseguenza dell’intesa è che "non potrà essere eletto un presidente della Repubblica che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire" *
ROMA - Nel patto del Nazareno è logico che ci sia anche il capo dello Stato. Lo ha detto Silvio Berlusconi intervenendo telefonicamente a una convention di Forza Italia a Imola.
Una frase che non mancherà di suscitare polemiche anche nel Partito democratico (riunito oggi in un’assemblea infuocata), dove l’intesa con Forza Italia sulle riforme è sottoposta ad un carico sempre maggiore di critiche. "Come conseguenza logica (dell’intesa sulle riforme, ndr) non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire".
"Sapete come è difficile in questo momento la posizione di Forza Italia - ha proseguito Berlusconi -. Abbiamo ritenuto di stipulare il patto del Nazareno, che ci dà tanto fastidio, perché non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo?".
* la Repubblica, 14 dicembre 2014 (ripresa parziale)
Il politologo
Gianfranco Pasquino
“Giorgio ha fallito, avremo una successione farsa”
di Emiliano Liuzzi (il Fatto, 11.12.2014)
Ha appena ascoltato il discorso del presidente Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, Gianfranco Pasquino, politologo. Lo ha ascoltato e riletto. “Conosco il presidente e l’uomo politico dal 1983, e anche questo discorso ha il limite di tutti i suoi discorsi, non va mai oltre l’approccio che storicizza e non lo sfiora mai l’autocritica, quella politica. Non affronta il tema di quello che i partiti producono, né la cultura marxista dalla quale proviene”.
L’impressione è che abbia sparato nel mucchio.
Ci può anche stare, ma se ci si mette in gioco. E mi sarei aspettato autocritica anche sull’Europa, su quella grande utopia che è l’Europa. Ma non l’ha fatto.
Se l’è presa coi populisti. Ce l’aveva con Grillo?
Soprattutto con Grillo, ma il populismo non è solo quello. E non è solo Berlusconi. Populismo è quello di Salvini, lo è stato quello di Di Pietro e il tentativo di Ingroia, sono tutti esempi di populismo.
Anche su Renzi il presidente ha cambiato idea, da un po’ di tempo a questa parte. O è solo un’impressione ?
Ha cambiato atteggiamento nei confronti di Renzi. Atteggiamento e approccio, almeno da un mese e mezzo.
È Renzi il banditore di speranza in un passaggio del discorso?
Ce l’ha con Grillo, ma indirettamente anche con Renzi. Dal quale, ripeto, il presidente da un mese e mezzo ha preso le distanze. In maniera sottile, ma assai evidente.
Lei crede che Napolitano abbia fallito?
Ha vinto nell’accettare l’incarico, forse. Quando il Paese non aveva né governo né un presidente della Repubblica, ma non ha ottenuto quello che voleva. Se per fallimento si intende essersi affidati a persone mediocri, a un manipolo di ipocriti, sì, ha fallito.
Non lascia una situazione migliore: c’è un governo che senza i numeri di Forza Italia traballa e un presidente da eleggere un’altra volta senza nessuna idea.
Lui ha provato a imporre il suo candidato.
E chi sarebbe?
Giuliano Amato. Questo credo che sia una verità incontrovertibile. Ma Amato non ha i numeri del Parlamento. E dunque non riuscirà a incidere sulla successione come in un periodo si era illuso di poter fare.
Chi sarà il prossimo presidente?
Non lo so. Non credo Amato. Vedo molta confusione, autocandidature, come quella di Pietro Grasso, che rivendica il suo essere seconda carica dello Stato, l’autocandidatura di Laura Boldrini e quella di Anna Finocchiaro, ma sono loro che giocano un’altra partita.
Difficile pensare a come possa finire.
Certo, se nel 2013 fu una tragedia, ho l’impressione che si vada verso una farsa. Proporre il nome di Riccardo Muti è una farsa. Non so come possa essere venuto in mente: il Paese ha bisogno di un politico, di un uomo delle istituzioni e che conosca la Costituzione, non di uno scienziato da esportazione.
Cosa si augura che faccia Napolitano, quando sarà il momento, come ultimo atto?
Spero che non nomini nessun senatore a vita e che lui stesso rinunci alla carica, come invece gli spetterebbe. Questo spero che lo faccia, sarebbe un atto fondamentale. Non sarà così. E non ci sarà nessuno che, invece che giocare al toto nomi, tracci il profilo di un presidente del quale l’Italia avrebbe bisogno.
Mafiosi anche senza le lupare
di Francesco La Licata (La Stampa, 05.12.2014)
Certo, non si troveranno né coppole né lupare nella cupola politico-mafiosa che gestiva i grandi affari della Capitale. Nessun giuramento con sangue e santino sarà stato imposto ai componenti il vasto e trasversale sodalizio criminale. Ma questo non vuol dire che il sistema scoperchiato dal procuratore Pignatone e dai suoi collaboratori non sia di tipo mafioso.
E i primi a crederci sembrano essere proprio i magistrati inquirenti che nei provvedimenti restrittivi non si sono limitati a fare ricorso all’«aggravante mafiosa», ma hanno addirittura ipotizzato il «416 bis», cioè l’associazione per delinquere di tipo mafioso. E questo proprio perché, per concretizzarsi il reato, non è necessario il controllo del territorio attraverso il ricorso alle bombe o alla violenza bruta. No, l’intimidazione mafiosa può funzionare anche solo in presenza di un «accordo» non scritto: tu politico sai da dove arriva la richiesta e conosci quali potrebbero essere le conseguenze di un diniego, ma soprattutto hai interesse ad esaudire ogni richiesta perché il mittente è utile al conseguimento e al mantenimento del potere. Il mafioso ed anche gli imprenditori del «sistema» avranno l’unica cosa che interessa loro, cioè i soldi, naturalmente pubblici.
C’è poco, dunque, da ironizzare sulla «mafiosità» della banda romana: non si tratta di ladruncoli né di mariuoli di antica memoria. Siamo di fronte a delinquenti che nulla hanno da invidiare ai più pubblicizzati, questo sì, colleghi siciliani.
E non mancano somiglianze e analogie con vicende archiviate, a Palermo, col marchio definitivo della politica mafiosa. Sarebbe lungo l’elenco delle storie che si potrebbero ricordare. Una su tutte, anche per il tipo di atteggiamento difensivo scelto dai protagonisti («traditi dagli amici»), potrebbe essere la vicenda che ha portato alla condanna definitiva dell’ex governatore di Sicilia, Totò Cuffaro.
All’apparenza poteva sembrare una storia di ordinaria corruzione, se non fosse che l’imprenditore della sanità coinvolto nell’inchiesta, l’ing. Michelangelo Aiello, era sospettato - con qualche motivo - di essere addirittura prestanome del boss Bernardo Provenzano. Anche in quel caso la «rete» mafiosa non ha avuto bisogno di esercitare particolare violenza: tutto andava liscio grazie alla benevola attenzione dei burocrati della sanità e di politici non di primissimo piano, ma non per questo poco efficaci. Certo c’è un abisso tra Carminati e Provenzano, ma i «piccioli», i soldi, non sottilizzano sulla portata dei boss.
Non è casuale, poi, che l’inchiesta siciliana sulla corruzione abbia avuto un risvolto di mafiosità non indifferente, visto che si è scoperto che c’erano investigatori (poliziotti, finanzieri e carabinieri) che informavano in tempo reale Aiello, e dunque Provenzano, dello stato delle indagini. Addirittura chi piazzava le microspie per conto della procura, provvedeva - immediatamente dopo - a bonificare gli ambienti, vanificando il lavoro investigativo. Proprio come i poliziotti che avvertivano Carminati delle indagini in corso. A proposito di indagini, risulta che Alemanno avesse pensato di prevenire tentativi di infiltrazioni delinquenziali affidandosi alla consulenza non gratuita del prefetto Mario Mori. Neppure lui si è accorto di nulla?
La linea nera, una storia sporca
di Gianni Barbacetto (il Fatto, 05.12.2014)
Erano esclusi dal potere. Ed erano puliti. Adesso, invece, li troviamo neri e sporchi, alla guida del “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. Sono gli eredi della destra, un tempo duri e puri, beccati oggi a manovrare un sistema criminale pervasivo e trasversale. Ma siamo proprio sicuri che ci sia stata una svolta, una rottura? “Vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni. Vent’anni dopo, il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano”: così Mattia Feltri. Ancor più forte la nostalgia di Marcello Veneziani, per “una destra che per anni si è vantata della sua diversità, che propugnava l’alternativa al sistema e ripeteva con Almirante che dalle tasche di Mussolini appeso in piazzale Loreto non è caduto un soldo”. Ma esisteva davvero la “diversità” nera? O non c’è piuttosto una sotterranea continuità criminale?
IL MITO della destra esclusa & pulita (e anche antimafia) si nutre delle storie di tanti militanti onesti, ancorché fascisti, e anche di figure limpide come quella di Paolo Borsellino. Ma non fa i conti con una realtà ben più articolata. Intanto il “polo escluso” (così il politologo Pietro Ignazi ha definito l’area politica che ruotava attorno al Msi) era in realtà un “polo occulto”. Quasi del tutto fuori dai circuiti del potere visibile, la destra di fede fascista ha in realtà sempre cogestito una larga fetta di “potere invisibile”. Il Msi è stato infatti coinvolto fin dalla sua nascita nella gestione dello Stato, dentro i suoi apparati più segreti e le sue operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini. È esistito dunque in Italia anche un invisibile consociativismo di destra, in cui i “neri” hanno gestito una parte importante di delicatissimi apparati dello Stato, assumendosi spesso il compito di fare i “lavori sporchi” del sistema.
Guardavano al Msi i generali più importanti delle Forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloja, il capo di Stato maggiore che istituisce i “corsi d’ardimento” per formare “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti e Guido Giannettini. Un uomo-chiave dei servizi segreti, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale, dopo essere stato capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973). Approdano nelle file del Msi molti altissimi ufficiali: dal generale Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo, 1964) all’ammiraglio Gino Birindelli. E quanti uomini della destra lavorano, apertamente o in maniera “coperta”, per i servizi segreti, da Miceli a Rauti, da Giannettini a Stefano Delle Chiaie, da Giano Accame a Piero Buscaroli.
I militanti neri, sempre in bilico tra Msi e gruppi extraparlamentari (principalmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), sono per decenni il serbatoio da cui attingere personale, sotto lo sguardo attento dei servizi di sicurezza, da impiegare nelle operazioni della “guerra non ortodossa”, teorizzata nel 1965 nel convegno al Parco dei Principi e passata attraverso il fuoco delle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Solo militanza politica (o politico-militare)? No. L’incrocio con gli affari, la politica e la corruzione (e anche con la mafia) è una costante di questa storia nera. Licio Gelli era già un perno della “terra di mezzo”, in contatto, sopra, con i Sindona, i Calvi, i Berlusconi e, sotto, con le bande dei neri toscani e i gruppi romani in cui s’incontravano eversione, servizi, malavita e mafia.
La banda della Magliana era già Mafia Capitale, commistione “perfetta” di affari, politica e criminalità. Altro che “cuori neri”, altro che destra dura e pura. A parole proclamava ideali alti, ancorché fascisti; in pratica li tradiva ogni giorno in un balletto di spioni, informatori, infiltrati e traditori sempre pronti a vendere i camerati.
A parole era antimassonica; ma molti esponenti di primo piano del Msi erano in segreto iscritti alla P2: Birindelli, ex presidente del partito (tessera numero 1670), i deputati Giulio Caradonna (2192) e Sandro Saccucci, il senatore Mario Tedeschi (2127), oltre a Vito Miceli (1605). A parole erano anche antimafiosi; ma la pratica, nel Paese dei patti sotterranei e delle alleanze inconfessabili, è diversa dalla teoria. Così la destra non ha esitato a trattare e collaborare con le mafie. Con Cosa Nostra in occasione del golpe Borghese; con la ’ndrangheta durante e dopo la rivolta di Reggio; con entrambe durante la trattativa del 1992-93.
P2 E MAGLIANA restano gli eterni modelli di una commistione affari/politica/criminalità/mafia che ha attraversato tutta la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Il “mondo di mezzo” di Massimo Carmina-ti, milanese, detto “er Cecato”, ora è una versione di certo innovativa di quel modello, ma dentro una tenace continuità che non riescono a vedere soltanto i nostalgici di un mitico fascismo duro e puro che in Italia non è mai esistito.
Il Paese che vive nella Terra di mezzo
di Roberto Saviano (la Repubblica, 05.12.2014)
SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma. ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.
La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.
Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa... e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.
Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d’oro.
In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga», dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.
E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.
Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.
In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall’altra parte - o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra - c’è una destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.
Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.
Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi. Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.
In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.
In mezzo c’è l’intero Paese che non riesce a reagire.
Onesto a chi?
di Antonio Padellaro (il Fatto, 23.11.2014
Maurizio Landini ha sbagliato a dire che Matteo Renzi “in questo Paese non ha il consenso delle persone oneste”, e infatti se n’è scusato. Non ha invece fatto ammenda per l’errore davvero imperdonabile che ha commesso pronunciando la parola “onestà”, una caduta di stile insopportabile come gli fanno notare illustri editorialisti su autorevoli quotidiani, ma a nostro sommesso avviso senza la necessaria durezza. A questo sindacalista che si ostina ad alzare la voce e a gesticolare ogniqualvolta si parla di lavoratori in esubero o in attesa di nuova collocazione (lui li chiama “disoccupati”, termine dal suono piuttosto volgare) bisognerebbe insegnare oltre alla buona creanza un uso più accorto della lingua italiana.
Onestà è un’espressione intrisa di quel moralismo e di quella morale (ultimo rifugio dei farabutti parafrasando Samuel Johnson quando parlava del patriottismo) che fino dai tempi di Enrico Berlinguer hanno fuorviato intere generazioni con una visione settaria e violenta che non a caso trova le sue radici “nella mistica della ghigliottina tanto cara a Robespierre”, come acutamente ha notato Pierluigi Battista sul Corriere della sera.
Chi siamo noi, per distinguere l’onesto dal disonesto poiché se è opinabile definire qualcuno, per esempio, corrotto (anche se fosse colto mentre intasca una tangente sarebbe colpevole, ricordiamolo, solo dopo il terzo grado di giudizio e sempre che non scatti una legittima prescrizione o qualche benedetto indulto), siamo sicuri caro Landini che i suoi presunti “onesti” lo siano per davvero e non nascondano, per dire, qualche multa non pagata e che al bar richiedano sempre lo scontrino?
E poi, come opportunamente si chiede Cesare Martinetti, sulla Stampa, chi è per Landini “chi lavora? ”. “Gli iscritti alla Fiom? ”. “Tutti? ”. Eh, eh, ci siamo capiti...
Davvero intollerabile, infine, è la discriminazione quasi razzista della dicotomia landiniana tra buoni e cattivi: non siamo forse tra i paesi al mondo dove girano più mazzette (superiamo perfino il Ghana) senza contare il record planetario dell’evasione fiscale e l’impunità assicurata a tutti coloro che possono permettersi un bravo avvocato anche se, per ipotesi, avessero mandato al creatore tremila persone avvelenandole con l’amianto? E delle mafie che comunque danno lavoro a tante brave persone, che ne vogliamo fare?
Lo sa il virtuoso Landini che l’economia illegale tiene a galla gran parte della nostra meravigliosa penisola? Vuole forse le barricate per le strade in nome di un astratto concetto di etica con cui, diciamolo non si mai sfamato nessuno (caso mai è il contrario)?
Quindi caro segretario della Fiom, faccia la cortesia, riponga nel cassetto certe visioni passatiste e demagogiche. Per dirla con il pragmatico Giuliano Ferrara “la smetta di farci perdere tempo”, si rassegni al nuovo che avanza ed eviti di dare spago “a una questione morale, o meglio moralistica che autorizza il rilancio di un’atmosfera girotondina che la difficile situazione sociale sta rendendo sempre più avventuristica e drammatica” (Martinetti).
Lasci lavorare in pace il nostro amato premier che sta “rivoluzionando il Paese da sinistra” (Repubblica). E la smetta di usare parole che possono essere delle vere bombe. Dia retta, se anche gli onesti esistessero, per ragioni di alta politica e di ordine pubblico andrebbero chiamati diversamente disonesti. O meglio ancora “cosi”, come ci insegna il compagno Lotito.
Lettera agli amici,
di Giacomo Ulivi
Cari Amici,
Vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti.
Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente.
Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore.
Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica - se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo stati scaraventati dagli eventi.
Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola?
Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente. Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi.
Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo - ci dispiace sentire questa parola - è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi.
Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Stato-mafia, terminata la deposizione di Napolitano al Quirinale
Il presidente della Repubblica ha risposto a diverse domande delle parti. Mai usata la parola ’trattativa’
di Redazione (ANSA ROMA 28 ottobre 2014) *
E’ durata tre ore e mezza, comprensive di una breve pausa, la deposizione al Quirinale del presidente Giorgio Napolitano, nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Iniziata alle 10.05, l’udienza è terminata intorno alle 13.35. A metà mattinata si è fatta una breve pausa di circa un quarto d’ora. Napolitano, che indossava un vestito blu, è apparso sereno ai legali che vi hanno preso parte e che al termine si sono fermati a parlare con i cronisti.
Il presidente della Repubblica - secondo quanto reso noto da un legale - ha risposto a diverse domande delle parti, anche ad alcune domande poste dal legale di Totò Riina, Lica Cianferoni.
Il Quirinale ha fatto sapere che Napolitano "ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa. Il Quirinale "auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica" dell’udienza.
"La Corte - riporta Cianferoni - non ha ammesso la domanda più importante, quella sul colloquio tra il presidente Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il famoso "non ci sto!". Il presidente - ha detto ancora il legale di Riina - ha tenuto sostanzialmente a dire che lui era uno spettatore di questa vicenda. Il capo dello Stato - riporta infine Cianferoni - ha consultato delle carte durante la deposizione: lui ha avuto modo di avere quelle carte che il 15 ottobre sono arrivate dai pm di Firenze e che a noi parti private hanno richiesto una certa attività. Questo un teste normale non può farlo".
In alcuni casi Napolitano si è avvalso della facoltà di non rispondere in base alle prerogative del Capo dello Stato. "La parola ’trattativa’ - ha riferito un legale della difesa - non è mai stata usata". Nel corso della deposizione - ha detto Giovanni Airò Farulla, avvocato del Comune di Palermo - Napolitano ha riferito che, al’epoca, non aveva mai saputo di accordi" tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi.
"Il clima è stato più che sereno - ha raccontato l’avvocato Giuseppe Di Peri, legale di Marcello Dell’Utri - ed il presidente della Repubblica disponibilissimo. Come prevedevo, tanto che avevo chiesto la revoca della testimonianza - ha aggiunto - non credo che questa testimonianza sia stata tanto utile come ritenevano i pm".
Per l’avvocato Ettore Barcellona, legale di parte civile, "nessuno ha fatto una domanda specifica sull’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia".
"Il presidente - ha spiegato l’avvocato Nicoletta Piergentili della difesa di Nicola Mancino - ha riferito di non essere stato mai minimamente turbatodelle notizie su presunti attentati alla sua persona nel 1993. Questo perchè faceva parte del suo ruolo istituzionale".
Il legale dell’ex generale Mario Mori non ha posto domande al presidente della Repubblica "per rispetto istituzionale".
La testimonianza è stata resa nella sala del Bronzino
Localizzazione della sala del Quirinale e indicazione delle persone presenti alla deposizione di Napolitano
Il procuratore di Palermo Leonardo Agueci e i pm del pool che sostiene l’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia erano arrivati stamani verso le 9.30 al Quirinale. I magistrati sono entrati dalla porta dei Giardini in via del Quirinale. Alla spicciolata, sono entrati dalla porta principale del palazzo, anche gli avvocati degli imputati e delle parti civili. Arrivata anche la Corte d’Assise di Palermo. Oltre al presidente Alfredo Montalto e al giudice a latere Stefania Brambille, sono presenti i sei giudici popolari (quattro titolari e due supplenti).
Nella piazza antistante il Quirinale, si sono radunati giornalisti e curiosi.
*
Che cosa vuol dire partito-nazione
di Piero Ignazi (la Repubblica, 21.10.2014)
PER ora il segretario Renzi non rottama il partito. Anzi. Demitizzando le primarie a strumento tra i tanti per scegliere candidati e dirigenti il segretario re-introduce un elemento cardine di qualsiasi organizzazione politica che si voglia stabile: il ruolo centrale della classe dirigente. Ora che Matteo Renzi e la sua corrente (del resto, che cosa è la Leopolda se non una classica riunione di corrente, per quanto smart e cool nella forma) sono alla barra del timone si rendono conto che più un partito è “liquido”, più è contendibile.
PERCHÉ oggi non ci sono competitor al segretario, ma se domani le cose dovessero andare male tutto può succedere. Come ricordava domenica Eugenio Scalfari, nessuno è insostituibile: non per nulla, anche dopo De Gaulle non ci fu il paventato diluvio. Quindi, seguendo il motto degli antichi romani, meglio essere pronti ad ogni evenienza. E se si dispone di una organizzazione, ramificata, efficiente e coesa, i momenti critici si attraversano indenni. Ricordino i dirigenti Pd che intonano ossessivamente il mantra salvifico e beneaugurante del risultato elettorale delle elezioni europee di giugno che, in ogni paese e per tutte le elezioni per il parlamento di Strasburgo, la relazione tra voto europeo e nazionale è assai labile... Del resto, cosa rimase del primato conquistato dal Pci alle europee nel 1984? Nulla. Per questo, ritornare ai fondamentali organizzativi di ogni grande partito europeo è cosa saggia e prudente.
Poi, lo spazio per le innovazioni è enorme, tanto che, in Europa, le formazioni politiche più importanti studiano e sperimentano nuove forme di partecipazione interna, di trasmissione delle domande dal basso all’alto, di coinvolgimento dei cittadini, di responsabilizzazione e gratificazione dei dirigenti locali, e così via. Anche il Pd deve rinnovarsi e ripensarsi abbandonando alcune velleità inserite al momento della sua fondazione, e affrontando soprattutto il problema del buon uso della rete (quello cattivo lo fa già Beppe Grillo).
Il segretario ha rimandato la discussione su questo punto ad un momento di maggiore approfondimento. Segno che il tema merita riflessione. Ma alcune indicazioni sono già emerse anche perché ogni partito si struttura in rapporto agli obiettivi che si propone. Il Pd, oggi, ama definirsi “partito della nazione”, sul modello britannico: un partito che rappresenta interessi e valori trasversali al punto da ambire, potenzialmente, alla maggioranza assoluta dei consensi.
In effetti, il vuoto politico che attualmente circonda i democratici consente loro di porsi obiettivi così ambiziosi: solo una catastrofe economica - come auspica Grillo - può cambiare radicalmente le prospettive. Un partito della nazione recluta a destra e a sinistra, attrae imprenditori e operai, laici e cattolici, dipendenti pubblici e partite Iva.
Proprio come voleva fare il Berlusconi del 2001 quando incombendo da quei manifesti giganti con il suo migliore sorriso a 32 carati si rivolgeva a tutte le categorie sociali. Forza Italia non aveva problemi a porsi come un partito “pigliatutti” perché il suo moderatismo (apparente) e il suo benpensantismo condito da qualche fremito anti-establishment si riassumevano nella figura del leader. Il Pd è (ancora) refrattario a ridursi interamente ad un PdR, ad un “Partito di Renzi” secondo il brillante conio di Ilvo Diamanti. Per quanto il segretario-premier domini la scena, il partito sul territorio esiste ancora; e se i circoli languono, le feste dell’Unità resistono bene, a riprova che qualcosa nell’organizzazione politica tradizionale va cambiato.
Il “partito” per quanto un po’ ammaccato - ma non è reponsabilità di Renzi - (r) esiste ancora ed i suoi riferimenti ideali si rifanno tuttora alla tradizione della sinistra di classe e del cattolicesimo democratico. Non è emerso ancora nulla di nuovo e di trasversale, al di là di alcune provocazioni e battute. Non esiste un profilo ideologico del partito della nazione. La stessa debolezza progettuale del partito a vocazione maggioritaria veltroniano rischia di riverberarsi sul progetto renziano.
Tra l’altro, le ricerche effettuate dopo le primarie del dicembre 2013 indicano una divaricazione tra iscritti, votanti alle primarie ed eletti all’Assemblea nazionale: gli iscritti sono più sinistra dei votanti che, a loro volta, sono più sinistra dei delegati. Cosa cementa allora questa “comunità” politica, come la chiama il segretario? Su quali valori si fonda per attrarre sostegno da ogni dove? O è solo il profumo del potere che oggi seduce e domani, una volta svanito, allontana? Un grande partito seduce per la forza delle sue idee, dei suoi progetti, delle sue convinzioni. Il resto è contorno, utile per vincere (come accadde a Berlusconi), inutile per costruire.
La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti (il Fatto, 11.10.2014)
Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare.
E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque - per analogia - si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l’imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell’imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma - dice la Corte - l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.
“Voi giudici dovete andare avanti”. Quando Pertini pianse per le mazzette al Psi
L’embergo dei Paesi arabi e l’Italia senza riscaldamento. E’ il 1973 e il magistrato racconta: "La guerra del Kippur è il velenoso boccone propinato agli italiani per nascondere l’aumento dei prezzi della benzina".
Il collaudato sistema di corruzione del Parlamento consegnato nelle mani dell’allora presidente della Camera che dà coraggio ai "pretori d’assalto"
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2014)
“Voi giudici dovete andare avanti”. Quando Pertini pianse per le mazzette al Psi
È l’inizio dell’inverno del 1973. Gli ospedali, le scuole, gli uffici pubblici e privati, le abitazioni di mezza Italia sono privi di riscaldamento. Un inverno durissimo, le pompe di benzina vuote, le case e gli ospedali senza riscaldamento, le auto in garage. Dopo la guerra del Kippur, i Paesi arabi produttori di petrolio avevano iniziato la corsa al rialzo dei prezzi e il 10 novembre 1973 avevano decretato l’embargo. I petrolieri fanno sapere che i loro depositi sono quasi vuoti (...) La situazione, insomma, è drammatica e i mass media attribuiscono tutte le colpe agli sceicchi del petrolio (...) Pubblicità
La mia abitazione si trova in viale Des Geneys a Quarto (...) In lontananza, ogni giorno scorgo delle navi ormeggiate al largo (...) Qualche giornale scrive che si tratta di petroliere che non possono scaricare perché i depositi della raffineria di Riccardo Garrone sono strapieni (...) Per saperne di più decido di sottoporre a intercettazione telefonica alcune utenze degli uffici della Garrone Spa12. (...) Grazie alle intercettazioni (...) Scopro che Garrone e gli altri petrolieri hanno i depositi “a tappo”e che la guerra del Kippur è il velenoso boccone propinato al popolo italiano - con la compiacenza dei mass media - per nascondere il vero obiettivo che è quello dell’aumento del prezzo della benzina e di tutti gli altri prodotti petroliferi. (...)
Mi precipito a Roma con al seguito 60 finanzieri e sottopongo a perquisizione tutti gli uffici centrali delle multinazionali e delle compagnie petrolifere italiane (...) Torno a Genova con un camion pieno di documenti. Leggi e decreti predisposti dai petrolieri e pagati con tangenti miliardarie ai partiti di governo pari al 5% dei profitti ricavati dall’applicazione di quelle leggi e di quei decreti. Ma questa è solo la punta dell’iceberg.
Le reazioni sono pesanti (...) Intercettiamo una conversazione in cui l’avvocato Arcidiacono, braccio destro di Garrone, parla con una persona che ha un ufficio importante in via Arenula, la sede del ministero della Giustizia; di quel ministero, che dovrebbe costituire il supporto logistico della funzione giudiziaria; che dovrebbe controllare la responsabilità dei magistrati che non fanno il loro dovere; che, certamente, non dovrebbe solidarizzare con chi si trova a essere sottoposto a una indagine penale. (...) Nei giorni successivi, Garrone si precipita a Roma a incontrare “le persone che contano”.
Al mio rientro a Genova (...) chiedo e ottengo dal pretore dirigente di essere affiancato da altri due colleghi. Faccio i nomi di Carlo Brusco e Adriano Sansa (...) Anche noi pensiamo che sia necessario incontrare almeno “una persona che conta”. Pensiamo a Sandro Pertini. (...) L’appuntamento è per le nove del mattino del 9 febbraio ’74 (...) Ci viene incontro il Presidente della Camera. Ci sorride. Dietro gli occhiali, i suoi occhi lampeggiano una vitalità impressionante e, insieme, una dolcezza infinita. (...) Pertini porta il dito indice della mano destra a fianco del naso e, sottovoce, ci dice: “Non parlate, state in silenzio e seguitemi”. Si ferma dinanzi a una porticina, gira la maniglia e ci fa accomodare (...) Si tratta chiaramente di un locale adibito a lavanderia.
“Finalmente qui possiamo parlare anche a voce alta: dovete sapere che questo palazzo è pieno di micro-spie. La democrazia della nostra Italia sta attraversando un momento delicatissimo. (...) Comunque, ditemi, ditemi, quali sono le ragioni per cui mi avete chiesto questo incontro?”. “Abbiamo avvertito il bisogno di incontrarla perché stiamo per trasmettere a lei, nella sua qualità di presidente della Camera dei deputati, documenti relativi a reati che potrebbero coinvolgere non solo parlamentari, ma anche alcuni ministri”. “Ma la cosa più grave”, aggiunge Adriano Sansa, “è che dalle carte sequestrate risulta l’esistenza di un collaudato sistema di corruzione del Parlamento...”. (...)
Pertini ci ascolta in silenzio e poi passa a leggere alcune delle carte (...) “Vedo che tra i partiti che hanno ricevuto denaro c’è anche il Partito socialista...”. A quel punto, Pertini interrompe la frase, si toglie gli occhiali e si asciuga due lacrime che lentamente gli scorrono sul viso da sotto gli occhiali. “Questo mi addolora (...) Ma la forza della democrazia, siete anche voi. Dovete andare avanti. Continuate a fare il vostro dovere. Coraggio. Io starò al vostro fianco, così come nel corso della mia vita sono sempre stato a fianco dei valori della democrazia e della legalità”(...) Ci allontaniamo da via dell’Impresa, raggianti di felicità.
Di Mario Almerighi
Da Il fatto quotidiano del 4 ottobre 2014
Falsificazioni progressive
di Gianni Ferrara (il manifesto, 30.09.2014)
Mercoledì 24 settembre il direttore del «giornale della borghesia italiana» ha voluto informarci che Renzi quella borghesia non la rappresenta. La notizia, al di là di quello che non esplicita e potrebbe preannunciare (vedi Vincenzo Comito sul manifesto del 26 settembre) solleva comunque una questione di sicura rilevanza. Quella di chi, di cosa rappresenti Renzi. Mi riferisco, prima ancora che a quella parlamentare, a quella rappresentanza che si acquisisce mediante l’attività di governo e risultante come consenso all’indirizzo e al prodotto dell’azione governativa.
La risposta non può essere certo data da Renzi maestro indiscutibile di comunicazione e manipolazione politica. Può risultare solo da un’analisi obiettiva dell’orientamento espresso nei suoi confronti delle forze organizzate ed istituzionalizzate. Abbiamo saputo che la borghesia italiana della finanza e dell’industria non sente che i suoi interessi siano rappresentati nell’azione del governo.
All’editoriale di Ferruccio de Bortoli si sono aggiunti i giudizi espressi da autorevoli esponenti dell’imprenditoria italiana (De Benedetti, Della Valle). La Confindustria, da parte sua, non sembra particolarmente entusiasta di questo governo pur se arruolatasi come portabandiera degli abrogatori dell’articolo 18.
Notizie di tal tipo dovrebbero allietarci se, per converso, ad essere rappresentati nell’azione di governo fossero gli interessi dei lavoratori. Il che proprio non è. A dimostrarlo è l’opposizione dei sindacati, iniziata in contemporanea alla costituzione del governo Renzi e provocata dallo stesso Renzi con le dichiarazioni sprezzanti e programmaticamente antisindacali che pronunziò. Opposizione divenuta via via più acuta e oggi durissima con la mobilitazione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970, mobilitazione che potrebbe condurre a uno sciopero generale. Alla critica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede a Renzi di «ridisegnare l’agenda politica» e di non ridursi agli slogan.
Non è poco. Perché non è da niente la sottoposizione, l’asservimento, il ricatto continuato cui una lavoratrice o un lavoratore sarebbe assoggettato dalla decisione di Renzi di abrogare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Su quale rappresentanza dunque può poggiare Renzi ? Se non gli interessi di quanti dimostrano di avergliela revocata, Renzi rivendicherebbe quella del 40,81 per cento dei cittadini italiani. Una rappresentanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Perché questa rappresentanza del 41 per cento è quella ottenuta per l’elezione del parlamento europeo in sede, in forma e ai fini che nulla hanno a che fare con l’indirizzo politico di governo, con la maggioranza parlamentare, con la legislazione italiana e con i diritti dei cittadini della Repubblica. Una maggioranza che non lo legittima affatto in sede nazionale. L’irrilevanza di quel voto per il governo la aveva affermata più volte lui stesso prima dei risultati elettorali.
Una maggioranza che tanto meno potrebbe rivendicare nel caso specifico della modifica dell’articolo 18. È del tutto evidente che a comporre quel 41 per cento dei votanti per il Parlamento europeo abbia contribuito, in misura determinante e maggioritaria, il 25 per cento degli elettori che votarono per il Pd nelle elezioni politiche del 2013. Sottraendo al 41 per cento il 25 dei voti che ottenne il Pd nel 2013, la quota rappresentativa di Renzi si riduce al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone perciò solo di questa quota di consenso elettorale. È quindi del tutto evidente che, con la divisione determinatasi nel Pd sulla questione dell’articolo 18, a rappresentare gli elettori del Pd sia la minoranza, non la maggioranza attuale della Direzione di quel partito. Quella minoranza che, tra l’altro, ottenne proprio quei voti che consentono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prioritaria, fondamentale che non andrebbe mai dimenticata, elusa, disconosciuta. La composizione delle due camere del Parlamento italiano è illegittima. Lo ha riconosciuto e sancito la Corte costituzionale come tutti sanno. In un paese civile una sentenza del genere avrebbe comportato almeno lo scioglimento delle due Camere. In Italia dovrebbe impedire o almeno condizionare presidente del consiglio, governo, parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle primarie di un partito, voti quanto mai occasionali e media-dipendenti, si ottiene la leadership di tale partito che, con 8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei consensi alle elezioni politiche, conquista la maggioranza dei seggi (assoluta alla Camera, relativa al Senato).
Un sistema quindi delle falsificazioni progressive. E che, pur dopo la declaratoria della incostituzionalità del meccanismo che costituisce la rappresentanza e la maggioranza che ne deriva, permette che, acquisita la leadership di partito, si possa disporre del potere di far strame della Costituzione, dei principi della democrazia, dei diritti dei cittadini.
Come ti interrogo un presidente
di Bruno Tinti (il Fatto, 30.09.2014)
C’è una gara tra molti giornalisti italiani. Napolitano non deve testimoniare nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Non ha nulla da dire, non sta bene che sia sentito come testimone, trattasi della consueta arroganza di pm e giudici... Non è vero niente ma non importa: la ritrosia di Re Giorgio a sottomettersi all’articolo 1 della Costituzione e ad accettare il principio di separazione dei poteri deve essere sostenuta a prescindere; tanto più se fondata sul timore che, testimoniando testimoniando, qualche scheletro salti fuori da qualche armadio e spieghi ai cittadini perché, per lui e solo per lui, si è inventato un codice di procedura penale nuovo di zecca (nella parte relativa alle intercettazioni telefoniche).
L’opportunismo è incompatibile con la memoria; almeno con quella scomoda. Il precedente di Cossiga che, nel 1990, rifiutò di testimoniare avanti al giudice Casson nel processo Gladio se lo ricordano tutti. Anche perché Cossiga piantò un casino furibondo. Ma quello, rispettoso delle istituzioni e collaborativo, di Ciampi al tempo dell’indagine Telekom Serbia non lo ricorda nessuno.
Era il 2004 e noi (la Procura di Torino) ci trovavamo alle prese con una commissione di inchiesta parlamentare che si era fatta portare in giro da un millantatore e calunniatore di nome Igor Marini. Alcuni deputati si fecero perfino arrestare in Svizzera, dove si erano recati per prendere imprecisati documenti custoditi negli uffici pubblici di Lugano; il tutto da turisti, senza rogatorie e senza accordi con le autorità svizzere: una cosa imbarazzante. La polizia li fermò e li trattenne per qualche ora; poi li riaccompagnò alla frontiera con le orecchie rosse per la vergogna.
CERCAMMO di ricostruire la vicenda dell’acquisto di una quota di Telekom Serbia da parte di Telecom. Fu abbastanza difficile, anche per via del plotone di esecuzione parlamentare che aveva deciso di fucilare Prodi, Dini e Fassino, opportunamente accusati da Marini di aver percepito tangenti. Invece noi lo incriminammo per calunnia, reato per cui fu poi condannato.
Nel corso delle indagini, saltò fuori che l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, poteva fornire informazioni preziose. Così Marcello Maddalena (il procuratore capo di Torino) telefonò a Loris D’Ambrosio, il magistrato che già allora era consigliere giuridico al Quirinale, e gli disse di questa nostra necessità: “Indaghiamo sull’affaire Telekom Serbia, avremmo necessità di interrogare il presidente come testimone. Si può combinare? Quando e dove vuole lui, naturalmente”. Un paio di giorni e arrivò la risposta: “Va bene tra... a Castel Porziano? ” “Certo, come no. Ringrazi il presidente da parte nostra”.
Così, in una bella giornata di luglio, arrivammo (Maddalena e io) al cancello della tenuta. Un signore ci fece strada con la sua automobile fino alla residenza del presidente. Un posto bellissimo, una casa bassa, immersa tra i pini, arredata con una raffinatezza semplice e preziosa. Ciampi ci ricevette subito; era insieme allo storico segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. Tanto era grosso, diffidente e un po’ altezzoso Gifuni, tanto era piccolo, gentile e semplice Ciampi.
Ci fece accomodare e ci offrì un caffè. Poi si sistemò su una poltrona e si disse a nostra disposizione. Io aprii il portatile e cominciai a scrivere. Rispose a ogni domanda, senza chiederne il motivo, in maniera chiara ed esauriente. Qualcuna di esse - era evidente - avrebbe potuto metterlo in imbarazzo: era in atto uno scontro politico senza precedenti e senza esclusione di colpi. Ma il presidente non apparve mai turbato; mai reticente, mai in cerca di risposte equivoche, raccontò quello che sapeva.
Lesse con attenzione il verbale che avevo redatto; non trovò nulla che richiedesse modifiche e pregò Gifuni di leggerlo a sua volta. In verità non era una procedura prevista dal codice ma, con uno sguardo, Maddalena e io ci trovammo d’accordo nel non sollevare obiezioni. Nemmeno Gifuni trovò nulla da ridire ma, forse per giustificare il suo ruolo, mi impegnò fastidiosamente sulla sostituzione di due o tre parole e sulla modifica di un paio di frasi che, all’esito, non mutarono affatto di significato.
PRIMA che ce ne andassimo, il presidente ci chiese se gradivamo un tè, un succo di frutta, un altro caffè. Poi ci fu una piccola conversazione nel corso della quale Maddalena gli rimproverò di aver preso una posizione pubblica a favore della Fiorentina; gli disse: “Presidente, perché non lo fa anche per il Bologna? ”, squadra di cui lui è tifoso. Ridemmo tutti (io un po’ meno perché di calcio non capisco niente) ; e poi ce ne andammo. Tempo dopo, non so chi disse a Maddalena che in effetti Ciampi aveva detto qualcosa anche sul Bologna, cosa che lo riempì di soddisfazione.
Il verbale della deposizione di Ciampi è agli atti del processo Telekom Serbia. Che non fu indolore per la politica: dimostrammo la pochezza dell’indagine e delle conclusioni (colpevoliste, ça va sans dire) della commissione parlamentare di inchiesta; gli onorevoli commissari fecero una figura barbina; e il complotto della destra nei confronti degli uomini politici di riferimento della sinistra fu smascherato. Anche, ovviamente non solo, a seguito della deposizione di Carlo Azeglio Ciampi. Esempio concreto, sarebbe bene ricordarlo ora, di un capo dello Stato garante delle istituzioni e rispettoso della Costituzione e delle leggi.
Il testimone Napolitano
La Corte d’Assise di Palermo ha deciso: il Capo dello Stato dovrà chiarire sugli “indicibili accordi” solo accennati dal suo consigliere Loris D’Ambrosio
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 26.09.2014)
Il Pd Luciano Violante, oggi in corsa per uno scranno alla Consulta con la benedizione del Quirinale, l’aveva definita una trovata “originale” dei giudici di Palermo, ma ora la Corte d’Assise lo ha stabilito con chiarezza: la citazione del presidente della Repubblica, in qualità di testimone, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, non è “né superflua né irrilevante”, dunque “deve darsi corso alla testimonianza”. E Napolitano, con una nota diffusa dall’ufficio stampa del Colle, ha dato prova di grande aplomb istituzionale: “Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza - ha fatto sapere - secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”.
SI CHIUDE COSÌ una controversia politico-giudiziaria che per circa un anno ha tenuto col fiato sospeso la diplomazia del Quirinale e ha arroventato il processo che fa fibrillare il cuore delle istituzioni. Ieri mattina, alla riapertura del dibattimento dopo la pausa estiva, il presidente Alfredo Montalto ha respinto le istanze di alcuni difensori che chiedevano un ripensamento sul coinvolgimento diretto del capo dello Stato nel dibattimento, e ha annunciato che la Corte di Palermo è pronta alla trasferta sul Colle: Napolitano deporrà in un salone ovattato del Quirinale, in base all’articolo 502 del Codice di procedura penale, che disciplina i casi di testi impossibilitati a recarsi in udienza e che sono ascoltati a domicilio. Per questo motivo, nella sala che verrà adibita alla testimonianza, scatterà “l’esclusione della presenza, oltre che del pubblico, anche degli imputati e delle altre parti, che saranno rappresentate dai rispettivi difensori”.
“Prendiamo atto della decisione”, commenta il pm Nino Di Matteo, “d’altra parte noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo rilevante la testimonianza del capo dello Stato, e la Corte d’assise aveva già ammesso la prova”’. Prima delle vacanze estive, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva ribadito l’istanza di sentire Napolitano, osservando che “la lettera inviata dal presidente alla Corte non può essere intesa come sostitutiva della sua testimonianza”.
L’ALLUSIONE è alla lettera spedita il 31 ottobre 2013 con la quale il capo dello Stato fece sapere che sarebbe stato “ben lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità processuale”, indipendentemente dalle riserve sulla costituzionalità dei suoi predecessori, “ove ne fosse in grado”. Nella missiva, praticamente, Napolitano faceva capire che non intendeva sottrarsi alla deposizione, ma nello stesso tempo raffreddava notevolmente le aspettative, esponendo quelli che definiva “i limiti delle sue reali conoscenze”.
Ieri, però, la Corte ha deciso che “il contenuto rappresentativo” di quella lettera “non è utilizzabile nel processo, in assenza di un accordo delle parti, accordo che nella fattispecie non è intervenuto”. Montalto ha poi concluso che anche se si volesse “prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste”, non è venuto meno “l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza, anche soltanto per acquisire la dichiarazione negativa di conoscenza”. Il capo dello Stato, in sostanza, deve deporre perchè “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di interrogare un testimone su fatti rilevanti, solo perché quel testimone ha escluso di essere informato su quei fatti”.
A nulla sono valsi, insomma, i “limiti” preventivi posti dall’inquilino del Quirinale, che nei prossimi giorni sarà chiamato a rispondere su un tema ben preciso: le preoccupazioni che il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio riversò nella lettera a lui indirizzata il 18 giugno 2012, poco prima di morire stroncato da un infarto, alludendo a “indicibili accordi” che lo avrebbero visto agire come un “utile scriba”, tra l’89 e il ’93. L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ‘93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni.
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D’Ambrosio
di Nino Amadore (Il Sole-24 Ore, 26.09.2014)
PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l’accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (morto d’infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D’Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano.
C’è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D’Ambrosio - turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia - scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi».
A quali indicibili accordi si riferisce D’Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d’assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell’anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L’essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l’ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell’udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all’esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell’udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».
Renzi tema soprattutto se stesso
Il nemico allo specchio
di FERRUCCIO DE BORTOLI (Corriere della Sera, 24 settembre 2014)
Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.
Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.
L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra.
Patto del Nazareno, Corriere: “Odore di massoneria, siano pubblici i contenuti”
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2014)
Una squadra di governo “in qualche caso di una debolezza disarmante“, in cui “la competenza appare un criterio secondario“, composta da ministri “scelti per non fare ombra al premier”. Ma sopratutto un patto del Nazareno che eleggerà il nuovo capo dello Stato e che è in “odore di massoneria“. Nel giorno in cui il Corriere della Sera lancia il restyling della versione cartacea, il direttore Ferruccio de Bortoli esprime un giudizio netto sul premier, sul suo operato e sull’accordo alla base delle riforme istituzionali stretto con Silvio Berlusconi. Il direttore affida il proprio pensiero all’editoriale che inaugura il nuovo corso grafico, un editoriale in cui l’eleganza delle espressioni non nasconde un giudizio negativo sulla scelta dei ministri e il modo in cui Matteo Renzi concepisce e affronta il proprio mandato.
La sentenza è contenuta nelle prime battute dell’articolo: “Devo essere sincero: Renzi non mi convince“, esordisce De Bortoli che ha avverte il premier: “Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso”. Perché se è vero che “una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader”, quella del presidente del Consiglio “è ipertrofica”. E non tanto questione di personalità, quanto di contenuti: la sua “muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan”. Perché “l’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa” e “un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto”. ”In Europa - avverte il direttore del Corriere - meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti”.
I tratti della personalità del presidente del Consiglio non sono il suo unico limite. Secondo il direttore del quotidiano di via Solferino, a pesare negativamente è la composizione della squadra di governo, infarcita di fedelissimi e composta in base al criterio della toscanità: “Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito - continua De Bortoli - lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato“. Una gestione applicata anche al Partito Democratico: “Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere”.
Ma “l’interrogativo più spinoso”, come lo chiama De Bortoli, sorge qualche riga dopo: “Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria”. De Bortoli parla di “sospetti”, ma l’accusa è netta e il giudizio impietoso: alla vigilia dei decisivi passaggi parlamentari delle riforme costituzionali e della legge elettorale che costituiranno il nuovo architrave istituzionale dello Stato, il direttore del Corriere punta i fari contro le molte contraddizioni alla base dell’accordo tra il Partito Democratico e Forza Italia. Un termine forte “massoneria”, difficilmente usato da De Bortoli soltanto per indicare la natura segreta dell’accordo. Un patto che, è il secondo interrogativo sollevato, riguarderebbe anche la televisione pubblica, primo produttore culturale del Paese, storicamente al centro degli interessi della politica e ora oggetto di un’intesa dai contenuto opachi tra il capo del governo e quel Silvio Berlusconi già padrone incontrastato dell’offerta televisiva privata.
Il Corriere affonda Renzi: puzza di massoni dietro il patto con B.
Editoriale durissimo del direttore De Bortoli che denuncia l’arroganza del premier e la debolezza dei ministri
di Stefano Feltri (il Fatto, 25.09.2014)
Perché il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli attacca così frontalmente il premier Matteo Renzi? Perché evoca la troika, i segreti del patto del Nazareno e, a questo proposito, sente lo “stantio odore della massoneria”? Spiegazione giornalistica: ieri il Corriere ha cambiato formato e grafica, ci voleva un editoriale del direttore e De Bortoli è riuscito a scriverne uno che ha reso imperdibile la lettura del giornale.
Ma il Corriere è anche il giornale dei poteri (un tempo) forti, quello che la loggia P2 comprò con i soldi del banco Ambrosiano di Roberto Calvi e nel cui azionariato tormentato tuttora si scontrano gli ultimi frequentatori dei salotti della finanza, Diego Della Valle contro Giovanni Bazoli di Intesa e la Fiat di Sergio Marchionne e John Elkann. E se il Corriere sfiducia il governo - a cui non ha mai riconosciuto grandi meriti - nei palazzi romani si passa la giornata a cercare il mandante o almeno un’interpretazione.
DE BORTOLI PARLA di “muscolarità che tradisce debolezza” e di una squadra di ministri “di una debolezza disarmante” (tranne Pier Carlo Padoan all’Economia), uomini e donne scelti in base alla fedeltà invece che alla competenza. Osservazioni molto condivise in quei settori di impresa e finanza che hanno accolto con entusiasmo Renzi ma ora non vedono alcun miracolo.
Basta leggere il Sole 24 Ore di Confindustria o gli editoriali di Wolfgang Munchau sul Financial Times. Soltanto Sergio Marchionne, che si prepara ad accogliere Renzi alla Chrysler a Detroit e invoca la riforma dell’articolo 18, rimane decisamente renziano: “L’editoriale del Corriere? Normalmente non lo leggo”. Parole che evocano quelle che usò Silvio Berlusconi nel 2008 quando suggerì a Giulio Anselmi della Stampa e a Paolo Mieli del Corriere di “cambiare mestiere”. I due direttori furono cacciati. De Bortoli non corre lo stesso rischio perché è già stato licenziato, se ne andrà in primavera come da accordi con l’azienda, dopo ripetuti scontri con l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane. Per lunghi mesi, quindi, De Bortoli sarà al comando ma libero - più del solito - di dire quello che vuole.
E allora avanti con le suggestioni, a metà tra fantapolitica e analisi. Renzi aveva attaccato in Parlamento, con toni intimidatori, proprio il Corriere, reo di aver dato notizia dell’indagine per corruzione internazionale su Claudio Descalzi, il manager scelto dal governo per la guida dell’Eni. E il premier, il 16 settembre, alla Camera attacca: “Non permettiamo a un avviso di garanzia citofonato sui giornali o a uno scoop di cambiare la politica industriale nazionale”. E allora, zac, De Bortoli risponde alle minacce con l’editoriale “Il nemico allo specchio”. Il sito Dagospia riferisce anche che il premier avrebbe protestato perché da via Solferino avevano mandato un inviato nell’albergo delle vacanze presidenziali a Forte dei Marmi.
Ma queste sono minuzie che non appassionano chi preferisce vedere disegni più vasti dietro l’attacco del Corriere. Tipo: Mario Draghi ha ormai deciso di lasciare la Bce l’anno prossimo per andare al Quirinale, dove Renzi non lo vuole perché si troverebbe commissariato, De Bortoli supporta Draghi e asseconda quei poteri che sarebbero rassicurati dal vedere il banchiere centrale al vertice della politica italiana (peccato che non è affatto detto che Draghi voglia e possa andarsene da Francoforte senza destabilizzare i mercati mondiali). Infine l’ipotesi più ardita: il direttore del Corriere pensa alla politica, ma non come sindaco di Milano (ipotesi di cui si discute da anni), bensì come portabandiera di uno schieramento alternativo al Pd renziano. I salotti non hanno più un loro uomo, visto che l’ambizioso Corrado Passera convince poco.
FANTAPOLITICA a parte, resta quel riferimento sorprendente alla massoneria. Forse De Bortoli ha indiscrezioni su indagini fiorentine? Siti e personaggi dalla discutibile attendibilità sostengono che ci siano legami tra Tiziano Renzi, il papà, Denis Verdini (Forza Italia) e logge toscane. Illazioni mai dimostrate. Dall’America Renzi commenta solo così: “Auguri al Corriere per la nuova grafica”. In privato si limita a dire: “Se c’è una cosa che è lontana da me e da mio padre è la massoneria”. Vedremo se De Bortoli e i suoi cronisti produrranno elementi per smentirlo.
Larghe intese
Antiberlusconi “viscerale”. Una nuova carica a vita
di Furio Colombo (il Fatto, 07.09.2014)
Non ci saranno più i senatori a vita. Subentra un altro titolo e ruolo che, data la situazione politica italiana, non può finire. È “l’antiberlusconiano viscerale a vita”. Come tutti sanno, “viscerali” sono coloro che non hanno mai rinunciato a denunciare la collezione di reati di Berlusconi, oltre ai continui attentati alla Costituzione. Mossa imprudente, che molti hanno notato in tempo, predisponendosi sempre di più “al dialogo” e inserendo sempre più accenni cordiali. Ma per provare questa affermazione dovrò condurvi in uno strano gioco dell’oca.
Per esempio ogni mattina, oppure ogni sera di ogni giorno, Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, si incontra con Denis Verdini, un banchiere in bancarotta con qualche imputazione, però molto simpatico e di Firenze. Devono mettere a punto alcune cose, in piena intesa, come sanno fare loro, sia su questa o quella riforma. Sia sulle “nomine”. Ecco la zona calda, le nomine. Sono uno strano rito della nostra Repubblica. Si dividono in nomine dirette del governo ad enti o agenzie. E in liste blindate che, una volta formulate da uomini con il potere di Renzi e Verdini saranno inviate al Parlamento, e mitemente votate.
SI TRATTA di giudici della Corte costituzionale, o di membri del Csm, e di molte altre agenzie e Istituzioni. Non temete, non sto sopravvalutando il fenomeno che è sempre accaduto, in Italia. La ragione è che qui, adesso, stiamo parlando di qualcosa di nuovo. Le nomine avvengono in un periodo politico in cui il Partito democratico è in piena ebollizione di energia e iniziativa. E mentre Berlusconi, nel frattempo, non solo non più ha vinto le elezioni che lo avevano portato a governare e dominare per la maggior parte degli ultimi due decenni, ma è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione (da scontare con opere di bene) per una grande truffa fiscale (dunque ai danni dello Stato).
Eppure fra il leader Pd e Berlusconi viene stipulato uno strano patto, detto “del Nazareno”, che produce alcune conseguenze. Eccole:
a) Berlusconi co-dirige il governo a causa di quel patto che lo lega a Renzi e, attraverso di lui, a ciò che resta della sinistra italiana;
b) Berlusconi non è capo di niente, eletto a nulla, trascina un partito disastrato. Ma gli viene riconosciuta pari dignità e pari autorità. Anzi, diciamo pure che, nelle condizioni descritte, la situazione non è di parità, ma di supervisione e controllo. c) Berlusconi fa le nomine, nel senso che nessuna nomina può essere fatta che non sia sua o di suo gradimento.
Da questo punto cruciale discendono due conseguenze. La prima è che - qualunque cosa si pensi di Renzi, pregi e difetti - lo Stato si sta riplasmando a immagine e somiglianza di Berlusconi. Perché nessuna figura direttiva può comparire o scomparire senza la sua partecipazione, suggerimento o approvazione, e non si vede alcuna fessura da cui possa infiltrarsi un italiano diverso (fate conto Rodotà, per fare un esempio eccessivo ma efficace). La seconda conseguenza è che l’intero mondo delle nomine, dal giornalismo alle aziende, a cominciare dalle televisioni (chi dirige, chi conduce, chi partecipa) viene determinato restando rigorosamente dentro il recinto tracciato da Renzi e Verdini, a nome e per conto di Berlusconi.
Questo non vuol dire che Renzi non abbia o non possa avere i suoi preferiti. Li ha, e si vedono. L’importante è che adesso, o a suo tempo, abbiano detto e fatto la cosa giusta, ovvero tenersi ben lontani dal fenomeno detto (allora e adesso) “antiberlusconismo viscerale”.
Per meritarlo, fin dall’inizio del regime, bastava un riferimento inequivoco dei rapporti fra il capo del governo e la mafia. Ma a quel tempo nessuno sapeva che “l’antiberlusconismo viscerale” sarebbe diventato un titolo di esclusione a vita, perché si pensava che, prima o poi, Berlusconi sarebbe andato a casa o in prigione. E qui siamo alla scoperta più interessante e più nuova di alcune conseguenze del “Patto del Nazareno” che sarà difficile spiegare in futuro a quelli che non c’erano.
È PER QUESTO che vale la pena di soffermarci un momento sul sistema delle nomine. È qui che si capisce che è giusto ma anche immensamente prudente “essere come tutti”, cioè zitti, come insegna il libro-guida del nostro tempo, autore il bravo scrittore Francesco Piccolo, giustamente vincitore del Premio Strega.
Esaminate con cura ogni curriculum di “nominati” nella serie Renzi-Verdini e trovatemi un gesto, un atto, una frase nella vita degli interessati, che sia stata di repulsione del regime, di rivelazione dell’atto illegale, di denuncia delle abituali dichiarazioni false e truffaldine. Poi cercatele nella Rai e in tutte le altre reti, a tutti i livelli. Infine esplorate l’albo di coloro che sono invitati ai talk show anche dieci volte in una settimana. Ma non escludete gli inviti alle feste dell’Unità (che si celebra allegramente senza Unità). E domandatevi se tutto ciò non avrà, per forza, un riverbero sull’intera vita sociale (dalle omesse citazioni dei nomi dei “viscerali” da articoli o libri su eventi che li riguardano, agli omessi inviti a ricordare e discutere fatti e ricorrenze di fatti a cui, nel tempo, sono stati protagonisti o testimoni).
Il punto è: non c’è e non potrà mai esserci un dopo Berlusconi. Infatti, insieme, ma un po’ al di sopra di Renzi e Verdini, Berlusconi governa e nomina, irrorando l’Italia di “gente come tutti”. Ovvero gente come lui. Ci invitano ad apprezzarli perché la guerra è finita. Non sentite che profumo di legalità?
di Roberto Mancini (Altraeconomia.it, 04 settembre 2014)
Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.
Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.
Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media;
5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.
Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.
La vittoria di Pirro
di NORMA RANGERI (il manifesto, 25 luglio 2014)
Chi sono i veri filibustieri? Quelli che si oppongono alle riforme costituzionali della maggioranza renzian-berlusconiana, o i partiti di governo che impediscono al parlamento di discutere come cambiarle?
In un regime parlamentare, l’ultima carta di una democrazia è l’ostruzionismo e la storia della nostra repubblica è ricca di pagine che raccontano personaggi e interpreti del filibustering nei momenti di maggior contrasto politico. Con i nuovi regolamenti oggi è molto più difficile praticarlo, ma decidere di troncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale mai realizzata dal dopoguerra, scegliendo un rigido contingentamento dei tempi perché l’8 di agosto il presidente del consiglio deve portare a palazzo Chigi il bottino di guerra è, innanzitutto per lui, il segno di una vittoria di Pirro.
Chi vuole vincere senza convincere, chi mostra i muscoli per nascondere la confusione, in realtà rivela la propria debolezza. Non si possono approvare riforme cruciali senza il necessario, faticoso, esercizio del compromesso e della mediazione politica...
Se ancora c’era qualche dubbio sulla natura post-democratica del leader che ci governa, da ieri sarà più difficile sostenerlo. E del resto queste pessime riforme costituzionali per come erano originate, appunto da un’iniziativa legislativa del governo anziché del parlamento, non potevano che precipitare in una esautorazione del parlamento stesso.
Con il sostegno e l’approvazione del Presidente della Repubblica che così espone l’alta carica che rappresenta al ruolo di giocatore anziché di arbitro. Il Capo dello Stato non ha neppure ricevuto personalmente la delegazione di deputati e senatori che ieri sera, in corteo, si è recata al Quirinale per rappresentargli la contrarietà verso una decisione sconcertante.
Napolitano è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?
Berlusconi assolto, Forza Italia si ricompatta: “Il giorno più bello in ultimi 20 anni”
Il centrodestra di nuovo tutto unito intorno al leader, da Minzolini a D’Anna fino a Fitto e Alfano: "Eravamo convinti della sua innocenza".
Tutti ora invocano la prosecuzione delle riforme.
E molti anche la grazia
di Redazione (Il Fatto Quotidiano,18 luglio 2014) *
Una sentenza allunga la vita. Come nei giorni peggiori - delle inchieste, delle intercettazioni e delle condanne -, anche questa volta Forza Italia vive l’assoluzione della corte d’appello di Milano come un pieno di carburante. Un partito crollato alla metà dei voti che aveva, diviso, stordito dalla bufera grillina e poi da quella renziana, si ritrova ora di nuovo, improvvisamente, nella stessa foto di gruppo. A gridare al complotto per un governo caduto sotto i colpi di inchieste finite nel nulla, a chiedere la riforma della giustizia, a rilanciare la leadership, a spingere un po’ di più le riforme: ritrovano tutti i loro vecchi sapori. Tra questi, ovviamente, anche la grazia. “I tempi sono maturi”.
Sarà un caso, ma la prima dichiarazione data alle agenzie di stampa dopo la pronuncia della sentenza di assoluzione è stata di Augusto Minzolini, l’alfiere dei forzisti contrari alla riforma del Senato: “Finalmente giustizia. E’ la dimostrazione che ci sono dei giudici anche a Milano. Resta un problema su cui dovrebbero riflettere tutti in questo Paese: i danni che un processo, che non doveva neppure tenersi, e una condanna di primo grado ingiusta hanno provocato all’uomo e al Paese”. Vincenzo D’Anna, il senatore “cosentiniano” con il quale Berlusconi due giorni fa si era quasi mandato a quel paese, dice che la sentenza ora permetterà di riprendere un confronto sereno. Daniele Capezzone rispolvera la riforma della giustizia. Tra la folla si scorge perfino Raffaele Fitto: “L’assoluzione di Silvio Berlusconi in Appello costituisce alla fine di una troppo lunga vicenda una pagina di giustizia. Ma la soddisfazione di oggi non cancella l’amarezza per anni di aggressione - dichiara l’europarlamentare, mister preferenze, peraltro condannato in primo grado a 4 anni per corruzione - A questo punto, si pongono domande enormi sull’immane campagna politica, mediatica e giudiziaria condotta per anni contro Berlusconi su basi così inconsistenti. Ora, spero che questa sentenza possa restituire a Silvio Berlusconi almeno un poco della serenità che gli è stata ingiustamente tolta per tutto questo tempo”.
Alla festa si aggiungono anche i vecchi amici. “Noi del Nuovo Centrodestra - dice Angelino Alfano - esprimiamo grande soddisfazione e compiacimento per l’assoluzione del presidente Berlusconi nel processo Ruby. Viene confermata un’innocenza della quale non abbiamo mai dubitato”. Una sentenza, spiega, che ora “chiede una rilettura storico politica di quel terribile anno 2011 che si concluse con la caduta dell’ultimo governo di centrodestra, dopo mesi di logorante polemica nascenti proprio dal caso Ruby, esploso nel gennaio di quell’anno”. D’altra parte da oggi ”si rafforza certamente la strada intrapresa per cambiare con coraggio il Paese sia sul fronte delle riforme istituzionali e legge elettorale sia su quello del rilancio economico, della diminuzione della tassazione, della lotta alla burocrazia”.
Gianfranco Rotondi lo definisce “il giorno più bello degli ultimi vent’anni”. Di certo questa volta sembrano fuori strada sia Laura Ravetto sia Nunzia De Girolamo (Ncd): “Questa sentenza vanifica ogni recondita illusione di certa sinistra di poter vincere a tavolino” dice la prima, Aspettiamo la sinistra alla prova dei fatti - aggiunge la seconda - per capire se si è finalmente liberata dell’ossessione di Berlusconi”.
In realtà l’assoluzione dell’ex Cavaliere non delude il Pd, tutt’altro. Matteo Renzi è colui che è uscito più rafforzato dalla camera di consiglio del collegio della corte d’appello di Milano. I giudici hanno pronunciato una sentenza di lunga vita al patto del Nazareno e alle riforme su cui si sono accordati il presidente del Consiglio e il suo predecessore pregiudicato. E’ così, per esempio, che la sintetizza Altero Matteoli, senatore ormai veterano (parlamentare dal 1983), ex missino, poi An che tra Fini e Berlusconi - quando ci fu da scegliere - non ebbe neanche l’ombra del dubbio. La sentenza, dice, “restituisce serenità al nostro leader e a Forza Italia. Ne beneficierà il clima politico ed il Paese”. Praticamente un editoriale. E’ un giorno di liberazione anche a sinistra, forse. “Forse smetteremo di frugare nell’alcova di Berlusconi per chiederci cosa preveda il patto del Nazareno” twitta uno dei senatori “dissidenti” del Pd, Corradino Mineo. “Rubygate: l’assoluzione di Berlusconi che fa comodo a Renzi”. Così la corrispondente del settimanale francese Nouvel Observateur, Marcelle Padovani, intitola il suo commento alla sentenza d’appello per Berlusconi. L’ipotesi di un’assoluzione, racconta la giornalista francese sul sito del magazine, “era difficile da credere ancora venerdì mattina”, eppure “è successo”. E tra le reazioni spiccano quelle “più politicizzate”, che “arrivano a dire che questa assoluzione ‘dà una mano importante a Matteo Renzi’”, nel suo irto percorso di riforme istituzionali. “In questo scenario, la magistratura italiana, che non è certamente a servizio dei partiti, dimostra comunque di poter giocare un ruolo eminentemente politico - scrive la Padovani - Perché è vero che la sentenza di assoluzione è come una ruota di scorta per Matteo Renzi: arriva al momento giusto, proprio quello in cui il suo governo si affanna per restare a galla”. In quest’atmosfera si riscopre “quasi renziano” perfino Gasparri: “Ed allora, andiamo avanti per portare a compimento le riforme, ma anche per liberare la magistratura dai condizionamenti che ne minano la credibilità”.
Così Renato Brunetta arriva presto al principale degli obiettivi: “Un minimo di risarcimento crediamo debba essere versato subito dallo Stato (e dal suo Capo) a Berlusconi e al popolo che si identifica con lui: ed è la grazia, adesso, senza tergiversazioni” scrive su Il Mattinale, il foglio pubblicato dal gruppo parlamentare di Forza Italia a Montecitorio. “L’innocenza di Berlusconi - si legge - è stata sin da principio palese anche a cento chilometri di distanza. Vale per noi che lo conosciamo bene, ma a occhi sgombri dalla trave del pregiudizio, avrebbe dovuto dir qualcosa di orribile sulle indagini il madornale travisamento di fatti, il dispiegamento completamente abnorme di forze in funzione della violazione della privacy delle persone, la loro esposizione senza rispetto, come se fossero pupazzi da squartare in pubblico”.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/18/berlusconi-assolto-forza-italia-si-ricompatta-e-il-giorno-piu-bello-degli-ultimi-20-anni/1064806/
La Costituzione come statuto di una maggioranza
di MASSIMO VILLONE (il manifesto, 17 Luglio 2014
Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
Re Giorgio
Napolitano, un presidente interventista oltre i limiti della decenza istituzionale
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 12.07.2014)
Il presidente Napolitano ripetutamente interferisce sulle prerogative del Parlamento intervenendo mentre è in corso il processo deliberativo in palese violazione del principio cardine dell’ordinamento repubblicano in base al quale “quando il Parlamento parla, il presidente tace” come dichiarò a suo tempo Arrigo Levi, consigliere di Ciampi. Più grave ancora è stata l’offesa inflitta alla Repubblica quando ha accettato il secondo mandato.
Quattordici anni configurano un mandato più lungo di quello (nove anni) che la Costituzione assegna ai giudici di Corte costituzionale. In un ordinamento repubblicano più alta è la funzione di garanzia, più lungo è il mandato, come attesta ad esempio il caso americano ove i giudici della Supreme Court sono nominati a vita. Un presidente con mandato più lungo dei giudici pone il presidente in questione al di sopra dei giudici della Corte costituzionale.
Anche in questo caso si vede bene la differenza fra un presidente di formazione comunista (Napolitano ) e un presidente di formazione azionista (Ciampi). Invitato a servire per un secondo mandato Ciampi rispose infatti(cito a memoria) “mal si confà in ordinamento repubblicano il rinnovo di un mandato già così lungo come quello del Presidente della Repubblica. Per Napolitano (altro segno della sua formazione comunista) lo Stato è in primo luogo governo, all’esistenza di un governo, possono essere sacrificate le più elementari considerazioni di decenza. Né è prova l’invenzione e il sostegno ai governi di larghe intese con delinquenti conclamati quali Berlusconi, senza che nessuna situazione d’emergenza lo imponesse.
Al quale Berlusconi, in spregio del principio del governo della legge, Napolitano non ha mancato di esprimere comprensione dichiarando, l’indomani della sentenza definitiva di condanna, che era opportuna la riforma della giustizia.
Più dell’etica conta la politica: ecco allora la lettera di solidarietà alla vedova Craxi nella quale il presidente parla addirittura(cito a memoria e devo verificare, di ‘accanimento giudiziario’ contro lo ‘statista’ morto latitante. Ed ecco pure lettera alla moglie di Almirante elogiato per la sua lealtà costituzionale.
La democrazia autoritaria
di Marco Travaglio (il Fatto, 06.07.2014)
Ecco cosa accadrà se le “riforme” di Renzi, Berlusconi & C. entreranno in vigore: un regime da “uomo solo al comando” senza opposizioni né controlli né garanzie.
1. CAMERA. Con l’Italicum e le sue liste bloccate, sarà ancora composta da 630 deputati nominati dai segretari dei partiti più grandi. Quelli medio-piccoli saranno esclusi da soglie di accesso altissime. Il primo classificato (anche col 20%) avrà il 55% e potrà governare da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coinciderà con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO. Con la riforma costituzionale, sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale. Sarà dominato dal primo partito e comunque non potrà più controllare il governo: niente fiducia né voto sulle leggi (solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali).
3. OPPOSIZIONE. I partiti di opposizione saranno decimati dall’Italicum. I dissenzienti dei partiti governativi potranno essere espulsi e sostituiti in commissione (vedi Mauro e Mineo). La “ghigliottina” entra in Costituzione: corsia preferenziale per le leggi del governo da approvare in 2 mesi, con divieto di ostruzionismo e emendamenti strozzati.
4. CAPO DELLO STATO. Se lo sceglierà il capo del governo e del primo partito dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Col 55% dei deputati, gli basteranno 33 senatori. Dopo il precedente presidenzialista di Napolitano, il Colle potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE. Il governo controllerà 10 dei 15 “giudici delle leggi”: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le supreme magistrature). Difficile che la Consulta possa ancora bocciare leggi incostituzionali o dar torto al potere politico nei conflitti con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI. Anticipando la pensione delle toghe da 75 a 70 anni, il governo decapita gli uffici giudiziari. I nuovi capi li nominerà il nuovo Csm, con 1/3 di laici vicini al governo e un presidente e un vice fedelissimi al governo, previo ok del Guardasigilli. Progetto di dirottare i giudizi disciplinari dal Csm a un’Alta Corte per 2/3 politica, cioè governativa.
7. PROCURATORI E PM. Dopo la lettera di Napolitano e il voto del Csm sul caso Bruti-Robledo, il procuratore capo diventa padre-padrone dei pm, privati dell’autonomia e dell’indipendenza “interne”. Per assoggettare Procure e Tribunali, basterà controllare un pugno di capi, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ. Superata dai tempi e screditata dagli abusi, l’immunità parlamentare da arresti e intercettazioni rimane financo per i senatori non più eletti. Il voto a maggioranza semplice consente al governo di mettere in salvo i suoi uomini alla Camera e di nominare senatori “scudati” i sindaci e i consiglieri regionali nei guai con la giustizia.
9. INFORMAZIONE. Senza abolire la Gasparri né toccare i conflitti d’interessi, la tv rimane proprietà dei partiti: il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni e indebolita dall’evasione del canone) e B. controlla Mediaset. I giornali restano in mano a editori impuri: aziende perlopiù ricattabili dal governo e bisognose di aiuti pubblici per stati di crisi e prepensionamenti.
10. CITTADINI. Espropriati del diritto di scegliere i deputati e di eleggere i senatori, oltreché della sovranità nazionale (delegata a misteriose autorità europee), non avranno altre armi che i referendum abrogativi (sempre più spesso bocciati dalla Consulta) e le leggi d’iniziativa popolare: ma per queste la riforma costituzionale alza la soglia da 50 a 250 mila firme.
Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio De Michelis *
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch’esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
Trattativa e “Romanzo Quirinale”
Napolitano dovrà dire la verità
Al processo Stato-Mafia testimonieranno la prossima settimana Grasso, Marra, Ciani e Vitaliano Esposito
Poi, alla ripresa a settembre, sarà convocato il Presidente
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 03.07.2014)
Palermo. Nell’aula bunker di Palermo comincia la marcia di avvicinamento dei giudici al Colle più alto di Roma: il processo sulla trattativa Stato-mafia è pronto a sfogliare le pagine cruciali del Romanzo Quirinale. A settembre, subito dopo la pausa estiva, è prevista l’audizione di Giorgio Napolitano dopo che sul pretorio, a partire da venerdì 11 luglio, sfileranno i protagonisti del ‘giallo’ istituzionale più imbarazzante della storia repubblicana: le pressioni telefoniche esercitate da Nicola Mancino sul Colle, nelle conversazioni con Loris D’Ambrosio, consulente giuridico di Napolitano (di quelle con il capo dello Stato non si sa nulla perché sono state distrutte), per evitare di essere sottoposto a confronto con l’ex ministro Claudio Martelli nel processo agli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, accusati (e poi assolti con il dubbio) di avere fatto fuggire Bernardo Provenzano dal covo di Mezzojuso nell’ottobre del 1995.
Ma non è ancora detto che l’inquilino del Quirinale debba realmente aprire il portone al plotone di giudici, pm e avvocati palermitani pronti a volare a Roma per raccogliere la sua deposizione sui timori espressi da D’Ambrosio, poco prima di morire stroncato da un infarto, in una lettera nella quale si diceva preoccupato di essere stato usato come “utile scriba” per fare da scudo a “indicibili accordi” nel periodo tra l’89 e il ’93.
Sulla deposizione di Napolitano deve ancora pronunciarsi, infatti, il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto, dopo che nel novembre scorso il capo dello Stato ha voluto esporre con una missiva ai giudici di Palermo “i limiti delle sue reali conoscenze in relazione al capitolo di prova testimoniale ammesso”. Pur dicendosi pronto a farsi interrogare, infatti, Napolitano ha informato le parti processuali che sul tema del capitolato relativo alla sua audizione - e cioè sui tormenti di D’Ambrosio - non sa più di tanto. In attesa di Napolitano i primi a sfilare sul pretorio saranno l’ex Procuratore nazionale antimafia, oggi presidente del Senato, Pietro Grasso e il segretario generale del Quirinale Donato Marra.
Il primo, rinunciando alle sue prerogative istituzionali, qualche giorno fa dalla Palestina ha scelto di deporre a Palermo (“L’aula bunker - ha detto - è un pezzo della mia vita, per me resta il tempio della verità”) e insieme al segretario del Colle dovrà ricostruire le conversazioni e le richieste giunte dalla Procura generale della Cassazione per indurlo a “coordinare” e forse, come egli stesso ha scritto, ad avocare l’inchiesta sulla trattativa condotta dalla Procura di Palermo.
Il secondo dovrà spiegare, invece, le fibrillazioni dell’intero staff del Quirinale sottoposto a un autentico pressing telefonico da parte di Mancino nel periodo tra la fine del 2011 e la primavera del 2012, fino a spingere il capo dello Stato a stilare una lettera indirizzata al Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito per indurre Grasso a intervenire. Ed è proprio Esposito, insieme al suo successore, il Pg Gianfranco Ciani, e all’aggiunto Pasquale Ciccolo , il teste che sarà sentito a Palermo giovedì 17 luglio: anche loro dovranno ricostruire in aula la catena di sollecitazioni istituzionali approdate a piazza Cavour su input di Mancino.
Nell’aula bunker, intanto, si riprende stamane con l’audizione del pentito catanese Maurizio Avola, tra i primi a citare la sigla “Falange Armata”, utilizzata da Cosa Nostra per rivendicare gli attentati di natura terroristico-eversiva della stagione ‘92-‘94.
La prossima udienza è fissata per giovedì 10 luglio e in quella data verranno ascoltati l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita e il pentito Antonio Galliano. Leader della ‘sinistra’ Dc, la stessa corrente di Mancino e dell’ex senatore Calogero Mannino (entrambi imputati del processo, anche se il secondo viene giudicato con il rito abbreviato), De Mita dovrà riferire, tra l’altro, delle preoccupazioni di Mannino sulla necessità di concordare una versione comune tra esponenti della stessa corrente, dopo le accuse di Massimo Ciancimino.
Preoccupazioni timidamente confermate, nella scorsa udienza, da Giuseppe Gargani, altro big della sinistra Dc, che per la prima volta ha ammesso in aula come l’intero Parlamento fosse a conoscenza della revoca dei provvedimenti di 41 bis per 334 detenuti mafiosi da parte del Guardasigilli Giovanni Conso nel novembre ’93 (circostanza sempre negata da Mancino, che disse di aver saputo tutto da un giornalista). Per la Procura è una delle “prove regine” dell’esistenza della trattativa.
il Fatto 3.7.14
Il dietrofront di “Repubblica”: ora il bavaglio va bene
ERA il 2010, ma sembra passata un’epoca. Berlusconi tentava di cambiare la legge sulle intercettazioni, proibendo ai giornali di pubblicarle. Ma sulla sua strada trova un avversario tosto: la Repubblica. Il quotidiano lancia la campagna dei post-it: gli articoli sono accompagnati dalla scritta “Con la legge bavaglio non leggerete più questo articolo”.
Segue un’innovativa campagna 2.0, chi vuole può inviare una foto con un post-it appiccicato addosso, che verrà pubblicata. L’iniziativa è un successo, per questo ogni volta che un governo ci prova la campagna riprende.
Sul giornale di ieri invece c’erano due interviste entrambe pro bavaglio. Questo il titolo di quella a Vietti: “Filtrare le intercettazioni e distruggere quelle irrilveanti”. Sotto, parla il garante Antonello Soro: “Sulla pubblicazione dei nastri serve una svolta”. Solo un eccesso di pluralismo o il bavaglio ora va bene?
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
Confessioni politiche. Corrotti e contenti
Io rubo, ma lo faccio per far del bene al Paese
di Pino Corrias (il Fatto, 07.06.2014)
Io rubo. Pago tangenti, sigillo buste, movimento contante. Lo faccio ovunque, dove serve: nelle aree di servizio, per strada, in discoteca, al ristorante. Mi tengo la mia cresta, diciamo il 10 per cento più le spese per il disturbo, abbastanza per tirarci fuori una casa, un attico al mare, una seconda moglie, la governante, due auto, una barca, una ragazza di prima classe per le serate che mi sento solo, un po’ di bambagia esentasse in Lussemburgo per la vecchiaia e un cane. Il cane è l’unico che mi vuole bene.
IO RUBO E HO LA COSCIENZA A POSTO. Muovo l’economia. Compro terreni che non valgono un cazzo, do la sveglia agli uffici tecnici, ai geometri indolenti, agli assessori in fregola. Ingaggio due imprese di malavita per semplificare i permessi e un’azienda buona che fa il lavoro in nero, al ribasso, ed ecco che saltano fuori cento villini vista pioppi e autostrada. E se poi nessuno li compra prendetevela con i dilettanti delle agenzie e con questa maledetta recessione. Io cosa c’entro?
Scavo dighe in fondo al mare, un portento di ingegneria che il mondo ci invidia, lubrifico in dollari, euro, cene, escort, cocaina, vacanze, fondi pensione. Combatto le maree e finanzio il Carnevale, salvo Venezia da tutti i metalli pesanti che scarica in laguna quell’altro capolavoro di Petrolchimico che astuti ingegneri hanno costruito nel posto più bello del mondo, piantando ciminiere d’altiforni sulla schiena delle sogliole e sulle rime di Lord Byron. È colpa mia se poi ai cristiani e alle vongole gli viene il cancro?
Io rubo e innalzo pale eoliche in cima a delle stupide colline d’Appennino dove volano stupidi uccelli e mosche. Le pale fanno schifo, lo so, ma un architetto scemo che dice che invece sono belle si trova sempre. E anche un artista controcorrente. Muoiono le api? Chissenefrega, apriamo il dibattito, facciamo sei convegni pieni di hostess bionde sulle energie rinnovabili, foraggiamo il ministro e la sua corrente di arrapati, adottiamo una coppia di lontre sul Trebbia, due ecologisti in Amazzonia e vedrete che prima o poi il vento arriva.
Io rubo e fabbrico corsie d’ospedali in linoleum ad aria condizionata, sale operatorie in acciaio inox, non è colpa mia se poi l’energia elettrica non arriva, piove dal tetto, gli zingari si fregano il rame e il polmone per la ventilazione meccanica va in malora. Nella Sanità bisogna stare attenti, c’è così tanta malavita che neanche nell’infermeria ad alta sicurezza di Poggioreale: sottosegretari che allattano primari, primari che si scopano le infermiere, infermiere che si vendono i letti, tutto sovrinteso dalla politica, benedetto dal vescovo, ci mancherebbe, purché le infermiere, i primari e i sottosegretari siano dei buoni obiettori di coscienza.
Io rubo e faccio pil. Dicono 60 miliardi di euro l’anno, che poi sarebbe la metà della corruzione di tutta l’Unione europea messa insieme, una bella soddisfazione per il Made in Italy, la professionalità paga. La creatività pure. Se poi la cifra sia vera o falsa non lo so. Se è tutto nero, tutto sommerso, come si fa a vedere? Con le cimici dentro i piatti di astice e spigola da Assunta Madre? Pedinando i commercialisti? Perquisendo le fondazioni bancarie? Oppure mettendoci a contare le mignotte su via del Babbuino?
Io rubo e non capisco tutto questo scandalo. Scandalo a orologeria, dico io. Uso politico dello scandalo, dico io. Gogna mediatica. Che a essere dei veri garantisti ogni scandalo andrebbe considerato innocente fino al terzo grado di giudizio di un giusto processo, diminuito di ogni attenuante. E per quel che ne so con Ilva, Malagrotta, Montepaschi, Expo, Carige, Mose, non siamo neanche ai preliminari. Quindi calma e gesso.
CHE POI DOVREMMO avere un po’ più di orgoglio patriottico, visto che gli scandali li abbiamo pure esportati - come l’olio, la pasta, il concentrato di salsa - specie ai tempi d’oro del socialismo riformista e altruista, con le bananiere dirette in Somalia, le autostrade dirette a Tripoli, gli ospedali nel deserto. Io rubo e la chiamo economia reale, condivisione, socialità. La chiamo adrenalina, dinamismo, gioia di vivere. Guarda la faccia triste di un sindaco finlandese senza tangente e quella allegra di uno dei nostri che incassa mozzarelle e cozze pelose a ogni ordinanza. Guarda le pance e le mandibole dei nostri consiglieri regionali, che sposano figlie, festeggiano amanti, volano in business, visitano Padre Pio e i Caraibi. Ascolta le risate. Lasciati andare, ce n’è per tutti. Io rubo e ruberò fino alla morte. Pensa che noia senza.
La Repubblica è fondata su una stella
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 02 Giugno 2014)
Oggi è la festa della Repubblica: il due giugno di 68 anni fa i nostri nonni scelsero di non avere più un re. E un anno e mezzo dopo la Costituzione disse una volta per tutte che «la sovranità appartiene al popolo»: cioè ad ognuno di noi, non importa quanto sia piccolo o povero. La nuova Italia repubblicana aveva bisogno di un emblema: quello che oggi vedete sulle vostre pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all’ingresso dei musei e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell’artista Paolo Paschetto.
E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L’emblema dello Stato, approvato dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica italiana"».
La stella è il più antico simbolo dell’Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano l’Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo ’stellone’ è stato sempre raffigurato sulle figure dell’Italia: e ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell’inizio, oltre che della fine.
La ruota dentata d’acciaio è l’ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: e ci ricorda come dovremmo essere. L’ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: e che speriamo ripudi anche le spese per i bombardieri.
Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d’arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è proprio bellissimo. Ma sbaglia chi, ciclicamente, lo vorrebbe cambiare: perché si è ormai avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro». E soprattutto perché ancora non ne abbiamo attuato il programma: quando la nostra Repubblica sarà davvero forte e pacifica, davvero fondata sul lavoro, beh, allora magari ne riparleremo.
“Italian disaster”
The London Review Of Books: “Napolitano, anomalia italiana”
di Caterina Soffici (il Fatto, 22.05.2014)
La vera anomalia italiana? Giorgio Napolitano. Sull’ultimo numero della prestigiosa London Review of Books, lo storico britannico Perry Anderson analizza la crisi europea in un lungo saggio dal titolo: The Italian Disaster.
Non c’è bisogno di traduzione ed è interessante che per parlare del futuro dell’Europa e delle falle nel sistema della democrazia del vecchio continente, si parli del disastro italiano, raccontato con la secchezza degli storici inglesi: una sequenza di fatti, date, pochi commenti e molti argomenti. Quello che Denis Mack Smith ha fatto con i suoi saggi sul Risorgimento e la nascita del fascismo, Anderson, storico di formazione marxista, lo fa con gli anni recenti della storia patria. Secondo Anderson è il capo dello Stato la vera minaccia della democrazia italiana.
Visto in patria come il salvatore, “la roccia su cui fondare la nuova Repubblica”, Napolitano è invece una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore. Così da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d’un pezzo: nel 1956 plaude l’intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l’espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che “solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo”.
Fedele alla linea del più forte, vota sì all’espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa “il comunista favorito di Kissinger”, perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti. Gli Usa e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che “non avrebbe tirato fuori scheletri dall’armadio”.
Ma il meglio Napolitano lo dà da presidente della Repubblica: nel 2008 firma del lodo Alfano, che “garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l’immunità giudiziaria”, dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel “legittimo impedimento”, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011.
E poi una gragnuola di fatti: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l’entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo - secondo Anderson - “completamente incostituzionale”.
Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato (“a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita”) e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta.
Napolitano, che dovrebbe essere “il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione”, scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. “La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell’Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale”.
E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l’invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce “Nixon-style”, termine che evoca scandali come il Watergate. Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo.
Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 27 aprile 2014)
I versi del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia “L’incontro de li Sovrani” che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l’attualità politica ci presenta.
Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale. Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest’anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.
Se tuttavia l’occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell’Irap e alcuni interventi per l’occupazione dei giovani.
Seguono : il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l’Iva.
Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell’anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l’intervento è piuttosto uno “spot” che un vero e strutturato programma. Quest’ultimo è allo studio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento deiconsumi.
Andrà così? Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand’anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l’attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell’edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l’amministrazione e a modificare l’architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica. Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l’innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.
Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell’anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015. Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici. In che modo e con quali prospettive?
* * *
Berlusconi non starà fermo e l’ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di “Porta a Porta” di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.
Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d’un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent’anni è il leader d’un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all’opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d’interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l’obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.
Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi “ad personam”, altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.
Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d’Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.
Ebbene, io provo vergogno per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell’etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.
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Ed ora veniamo all’attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).
Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all’Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d’occhio agli alfaniani e ai centristi.
Una tattica di galleggiamento che ha l’obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.
Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent’anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le “larghe intese”.
Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall’abolizione del “Porcellum” offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell’Europa. Dell’Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.
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Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall’Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l’altro è stato Dell’Utri.
Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.Se i consumi restassero al palo la manovra di rilancio sarebbe fallita Quand’anche riprendessero la nuova occupazione tarderà a venire
La mostruosa normalità di un sistema corruttivo
di Paolo Favilli (il manifesto, 25 aprile 2014)
L’uso senza limiti del linguaggio iperbolico in un dibattito politico quasi sempre privo di spessore analitico ci sta privando della possibilità di orientarci. Se la politica finanziaria connessa all’attuale gestione dell’euro diventa "Auschwitz". Se ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza (spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti d’interessi) diventa "colpo di stato". Se la reale tendenza al progressivo concentrarsi del potere in ristrette oligarchie diventa "ritorno al fascismo", ebbene la specificità e il peso di ogni fenomeno scompaiono ed orientarsi in «"una notte in cui tutte la vacche sono nere" è impresa assai difficile.
In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile,Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.
Luigi Pintor diceva che dopo mezzogiorno con il quotidiano si potevano incartare le patate. Visto con quanta facilità si dimentica, mi si scuserà se faccio riferimento all’articolo citato. I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante.
Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
La triade suddetta è stata il fulcro, il soggetto agente della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti.
Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.
Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana i gangli fondamentali della vita politica si trovano ad essere intrinsecamente legati a una operazione criminale. Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di "normalità mostruosa", come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo "dolorante dietro l’eterno sorriso (...) un uomo che merita rispetto", un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una "guerra giudiziaria" finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile).
E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo "status particolare" che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla "necessità" di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via "quasi obbligata" (Massimo Giannini, 16 aprile).
L’espressione "non ci sono alternative", non casualmente una delle preferite da Margaret Thatcher per giustificare la durissima repressione sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze. Nel nostro caso non si tratta di "necessità» bensì di una conclamata «sintonia» per una prospettiva di bipartitismo forzoso su cui Renzi e Berlusconi giocano il futuro delle loro fortune politiche.
Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.
Il dilemma, in fondo, è piuttosto semplice: le sentenze dicono il vero o sono il frutto della falsificazione di una magistratura politicizzata? La seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai condannati, ma da aree politiche e d’opinione relativamente ampie. Gli autorevoli devono dirci se la condividono o meno. Penso di sì, perché è l’unica ipotesi in perfetta coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno che Berlusconi ha i voti e il loro è semplicemente realismo politico. Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della condivisione di quello stato di necrosi che caratterizza il tessuto connettivo civile in Italia.
Ovviamente è del tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il recinto, in vari e articolati modi, di assumere il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi essenziali delle iniziative politiche in corso.
Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.
I compagni, i professoroni, i professori qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che anche questa via d’uscita dal berlusconismo, e da tutti gli affinismi col berlusconismo, è una «via maestra». La battaglia difficile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras non può ignorare il problema. L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.
L’incognita di essere ancora legati al Cavaliere
di Marcello Sorgi (La Stampa, 05.04.2014)
Dopo i rispettivi incontri con Berlusconi al Quirinale e con Letta e Verdini a Palazzo Chigi, Napolitano e Renzi si sono ritrovati ieri mattina per fare il punto della situazione. Sulle scadenze più prossime, il Def e i provvedimenti economici che il governo deve portare all’attenzione dei severi controllori europei, la situazione è sotto controllo.
Bruxelles ha accettato l’impostazione renziana, secondo la quale il taglio delle tasse che consentirà di dare ottanta euro al mese in più a tutti quelli che guadagnano fino a mille e cinquecento euro sarà coperto quest’anno da un lieve peggioramento del rapporto tra deficit e pil (dal 2,6 al 2,8 per cento) e con i benefici del calo dello spread (ieri a quota 160) e degli interessi dei titoli di Stato. I conti veri occorrerà farli l’anno prossimo, quando la Ue pretenderà che le coperture nel bilancio diventino strutturali, cioè siano assicurate con tagli alla spesa.
Sul fronte riforme, invece, la prospettiva resta legata a Berlusconi. A Napolitano, che gli aveva parlato per quasi due ore mercoledì sera, Renzi è apparso fin troppo ottimista sulle effettive intenzioni del leader di Forza Italia, dopo le turbolenze che anche ieri sono venute dal centrodestra. Il consiglio del Presidente al premier è stato di affrontare il difficile percorso parlamentare al Senato con atteggiamento flessibile, cercando un’intesa che possa reggere anche nelle votazioni successive al primo passaggio in aula del nuovo testo costituzionale. Napolitano insomma è prudente, ma confida che questa sia la volta buona.
Lo scontro vero, ormai senza esclusione di colpi, è quello tra Renzi e Grillo. Ieri contro il leader del Movimento 5 stelle s’è mosso anche il vicesegretario del Pd, e stretto collaboratore del premier, Lorenzo Guerini, in pratica il reggente del Nazareno. Grillo ha risposto a stretto giro. La verità è che, come dimostrano ormai in modo inequivocabile i sondaggi, il muro contro muro quotidiano tra Palazzo Chigi e il maggior partito d’opposizione conviene a tutti e due. Ma se il 25 maggio l’ex-sindaco e l’ex-comico dovessero fare il pieno di voti a scapito di tutti gli altri, anche la stabilità del governo potrebbe risentirne.
Il pifferaio magico
di Antonio Padellaro (il Fatto, 29.03.2014)
Siamo consapevoli che, se passano le “riforme” di Renzi, l’Italia avrà un uomo solo al comando, cioè lui? Abbiamo capito bene che, con la trasformazione del Senato in un ente inutile (lunedì in Consiglio dei ministri), le leggi saranno approvate esclusivamente dalla Camera, senza più la garanzia di una seconda lettura che spesso, nella storia repubblicana, ha evitato pericolosi colpi di mano di questo o quel governo?
È chiaro a tutti che, con la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) frutto dell’inciucio tra l’ex sindaco e l’ex Caimano, il partito che vince anche per un solo voto avrà un premio di maggioranza da dittatura parlamentare?
Stando a tuttii sondaggi, quella super maggioranza sarà appannaggio del PR, il Partito di Renzi che avrà nel frattempo trasformato il Pd nel proprio scendiletto (già qualcosa si è visto nel voto bulgaro della Direzione di ieri). Il turbo premier, a quel punto, potrà far votare dalla Camera qualsiasi cosa desideri: dallo stravolgimento della Costituzione alla “creazione di un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”.
Parole contenute nel documento di Libertà e Giustizia sottoscritto da un gruppo di giuristi e intellettuali tra i più autorevoli e indipendenti (da Zagrebelsky a Urbinati, da Rodotà a Carlassare, Pace, Azzariti, Settis, De Monticelli, Bonsanti) che ha trovato spazio solo sulla prima pagina del nostro giornale. Un silenzio che non può certo sorprendere.
Con furbizia fiorentina Renzi sta infatti propinando agli italiani la favola di un taglio netto alla casta dei politici inetti e forchettoni, come se sacrificando gli emolumenti di 315 senatori (mantenendo però le monumentali spese dei relativi uffici) qualcosa potesse cambiare nella voragine dei conti pubblici.
Ma gli italiani, ormai troppo esasperati dalla mala politica, preferiscono credere al pifferaio magico, indifferenti o rassegnati. È difficile andare contro vento e pur tutta via bisogna provarci, perché sono in gioco i fondamenti della nostra democrazia.
Possibile che nel Pd e nella sinistra abbiano tutti portato il cervello all’ammasso? Come disse il presidente Scalfaro nel 2006 guidando il fronte del No al referendum che cancellò la controriforma di Berlusconi: “Meglio perdere in piedi che vincere in ginocchio”.
Il trionfo elettorale di B.
27 marzo ’94: il Caimano mostra i denti all’Italia
di Pino Corrias (il Fatto, 27.03.2014)
Il 27 marzo 1994, poche ore prima che l’Italia voltasse pagina per sempre, ipnotizzata dalla perpetua colonna sonora di Forza Italia, musica di Renato Serio, parole di Silvio Berlusconi, per infilarsi in un ventennio ad alta intensità lisergica e banditesca, soffiava, sulle impolverate macerie della politica, un venticello che annunciava tempesta. Specie a Milano, dove noi cronisti annotavamo, dopo i 5 mila arresti di Tangentopoli, la quotidiana carognata degli automobilisti che riconoscendolo per strada sputavano in faccia al giovane Bobo Craxi, colpevole di niente. E assistevamo increduli alla irresistibile ascesa di Umberto Bossi che sputava anche lui, ma solo ire secessioniste, contro “i porci di Roma”.
Di quasi nulla si accorgevano gli eleganti narratori della bella primavera romana, politici e giornalisti protetti dagli eterni velluti dei Palazzi, che avevano già assorbito gli sfracelli del Nord con un’alzata di spalle, archiviandoli come suoni gutturali dei barbari. E il nuovo potere dei magistrati neanche li impensieriva, persuasi com’erano che il vuoto in politica non poteva esistere: le foto segnaletiche dei vecchi politici non sarebbero state sostituite, semmai truccate con qualche artificio, la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto avrebbe perfezionato il compromesso storico, la Dc e i socialisti erano pronti a cambiare pettinatura, qualche mariuolo si sarebbe offerto di pagare il conto, e tutto sarebbe tornato come prima.
Il mio ex direttore Paolo Mieli, appena passato al Corriere , pronosticava che Berlusconi avrebbe incassato al massimo il 10 per cento dei voti per poi affidarli a Francesco Cossiga esperto di labirinti romani: “Cosa volete che ne sappia Berlusconi di Palazzo Chigi?” diceva in riunione, rasserenando tetre avvisaglie di imminenti sfracelli che filtravano dal mondo reale. Il suo giovane allievo Marcello Sorgi, responsabile romano de La Stampa, aspettava “il sicuro ritorno di De Mita”, o al massimo del suo amato Nicola Mancino. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica , si limitava a prevedere l’insuccesso del “ragazzo Coccodè”. Mentre l’altro genio della politologia, Ernesto Galli della Loggia, rassicurava che quello di Berlusconi “era un partito di yuppies” che non conteneva nulla delle speranze, dei bisogni, delle idealità “della politica nobile”.
Come le tre scimmiette
Facevano tutti finta di non vedere, non sentire, non capire. Otto mesi prima, Raul Gardini, l’uomo più riccod’Italia,sierasparatoallatempiaalle9delmattino, in accappatoio, dopo avere bevuto il succo d’arancia preparato dal suo maggiordomo. Avrebbe dovuto andare a Palazzo di giustizia, dove Di Pietro lo voleva interrogare sulla tangente Enimont destinata al penta partito e sulla valigia di soldi consegnata al Pci in via delle Botteghe Oscure. Lo sparo era riecheggiato nei saloni di Palazzo Belgioioso, a pochi isolati dalla chiesa di San Babila dove in quei minuti si stavano officiando i funerali di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, che si era suicidato nella sua cella a San Vittore, soffocato dai rimorsi e da un sacchetto di plastica. Per salvare Gianni Agnelli, la Fiat aveva consegnato alle manette dei magistrati una modica quantità dei suoi manager maggiori, e pure Cesare Romiti si era genuflesso nella contrizione. Carlo De Benedetti era stato addirittura arrestato, anche se solo per una manciata di ore.
E l’impero di Silvio su quale cornicione stava? Sul più alto, sul più pericoloso. Nel tetro villone di Arcore, dove ancora aleggiava come una premonizione il fantasma della marchesa Casati Stampa distrutta dalle ossessioni sessuali del marito, Berlusconi stava respirando da molti mesi il rischio incombente. Fininvest stava per crollare sotto il peso dei debiti: 7 mila miliardi di lire, 4,2 lire di debito per ogni lira di capitale. Le banche più esposte - Monte Paschi, Banca di Roma, Bnl, Cariplo, Comit - avevano imposto Franco Tatò al vertice del Biscione, come garanzia del debito. E Tatò, dopo aver dato un’occhiata alla voragine dei conti aveva sentenziato: “Dobbiamo portare i libri in tribunale”. Berlusconi, che sa tutto di quello che c’è scritto e (specialmente) non c’è scritto sui libri contabili, non ci pensa proprio.
Nei 24 mesi appena passati ha visto il fuoco di Tangentopoli divorare uomini, carriere, aziende, patrimoni, partiti. Ha visto la macchina del Palazzo di Giustizia di Milano inghiottire un mondo e restituirlo in pezzi. Il suo mondo. Quello di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti che lo hanno coccolato nella bambagia. Di Oscar Mammì, repubblicano che gli ha cucito una intera legge televisiva a sua misura, tre reti Fininvest contro tre reti Rai. Di tanti altri soldatini - da Giorgio La Malfa a Francesco De Lorenzo - che pretendevano e incassavano come fossero generali.
Da sei mesi aveva visto con chiarezza le alternative: consegnarsi alle indagini dei magistrati, sperando di uscirne vivo. Ma per farlo avrebbe dovuto sciogliere fin troppi misteri di bilancio del suo impero, a cominciare dai primi miliardi spuntati dalla Svizzera a metà degli anni Settanta, quando Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, veniva a fargli visita, con quell’altro mafioso, Vittorio Mangano che si sarebbe installato per anni nel villone a guardia dei soldi e della incolumità dei figli, Marina e Pier Silvio. Oppure resistere, consegnare una rete alla sinistra postcomunista, come gli consigliavano Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo, per poi trattare la sopravvivenza con il nuovo potere politico. “Si è sempre fatto così, guarda la Rai” gli ripetevano i suoi colonnelli nei consigli di guerra del lunedì pomeriggio. Tranne uno, che da molti mesi gli diceva: “E noi faremo diverso”.
L’uomo chiave è Dell’Utri. Si tratta di Marcello Dell’Utri, palermitano, che da un decennio guida i mille venditori di Publitalia, organizzati regione per regione, città per città, riempie di spot le reti, fattura 2.500 miliardi di lire l’anno, organizza convention con migliaia di imprenditori, conosce i gusti, i sogni, i bisogni, le idealità degli italiani molto meglio di tutti i Galli della Loggia che galleggiano nel loro inchiostro. Dice: siamo lo scrigno dei desideri, abbiamo i soldi, le star televisive, i nostri capi area, i club del Milan che sono il doppio delle sedi Dc. Se siamo orfani dei partiti che ci proteggevano le spalle, è venuto il momento di tutelarci da soli. Propone l’impensabile, trasformare la Fininvest in un partito e il pubblico televisivo in un elettorato. Il Dottore mette in scena un ponderoso tormento, o almeno ce lo racconterà: “Non dormivo la notte. E qualche volta, sotto la doccia, piangevo”. Poi decide, si parte. La rumba comincia a gennaio, con il messaggio urbi et orbi “Questo è il Paese che amo”. Incassa la benedizione di Craxi e quella di Agnelli: “Se perde, perde lui. Se vince vinciamo tutti noi”, dirà l’Avvocato, credendo di essere un dritto.
Gli avversari in campo sono già metà della sua vittoria. Mino Martinazzoli, fuoriclasse della vecchia guardia democristiana, fuma, legge, fa politica, Berlusconi nessuna delle tre cose, gli italiani non hanno dubbi a scegliere tra i due. Achille Occhetto, traghettatore del post comunismo, veste giacchette di tweed marroncine. Ha i baffi, il ciuffo, ma passando (e parlando) non lascia traccia. Bossi lo chiama “paperello”. Nell’unico confronto tv con Berlusconi inciampa parlando della sua piccola barca a vela. Silvio (che di barche ne ha una dozzina) lo trafigge: “Meno male che lei ha il tempo di andare in barca. Io lavoro”.
Il quieto Segni, che pure era il trionfatore del referendum per il maggioritario e l’abolizione delle preferenze, ha il suo destino nel nome: Mariotto; fatta la legge elettorale non la capisce, come gran parte dei suoi alleati. Berlusconi invece la capisce eccome e la incorpora nel suo imbroglio di nuovo marketing politico: alleanza al nord con la Lega secessionista che “si pulisce il culo” col tricolore, e al centro-sud con gli orfani di Almirante, i post camerati guidati da Gianfranco Fini, che davanti al tricolore fanno ancora finta di lacrimare per l’emozione.
Una certezza per tutti
Durante la campagna elettorale Berlusconi orienta le sue parole d’ordine secondo la bussola dei sondaggi macinati dalla Diakron di Gianni Pilo. Parla male dei vecchi politici, tanto non gli costa niente. E benissimo dei magistrati, anche si gli costa moltissimo. Promette il taglio delle tasse sotto “la soglia naturale” del 33 per cento. E un milione di nuovi posti di lavoro: “In Italia ci sono 4 milioni di aziende. Basta che una su quattro assuma almeno un giovane e il gioco è fatto”. Con lui sembra tutto facile, tutto a portata di mano. È monopolista, ma predica il liberismo. Gli va bene l’Europa, il federalismo, l’autarchia. È massone, ma anche unto del Signore. È filo americano, ma fa affari in Russia. È libertino e credente. Ha due famiglie e tre zie suore. Ai suoi alleati dice: “Se vinciamo ce ne sarà per tutti”. Agli italiani: “Sono ricco, non ho bisogno di rubare”.
Tante ragioni preparano il suo trionfo. Offre sogni invece che sacrifici. Conosce la pancia degli italiani, le loro debolezze, la loro insofferenza alle regole: lui la pratica e se ne vanta. È nuovo, o almeno sembra. È allegro, o almeno sembra, in un’Italia cupa, che in 15 anni è diventata la nazione più anziana d’Europa. Che contiene la guerra strisciante delle tre mafie: 5 mila morti ammazzati nell’ultimo decennio in Sicilia, 3 mila in Calabria, altrettanti in Campania. Fino alla nuova stagione delle stragi, aperta con il boato di Capaci, durante la quale la mafia e lo Stato ridisegnano le loro reciproche compatibilità. Una classe dirigente corrotta. Una università a pezzi e una scuola in malora. Lui se frega, mostra tutti i denti del sorriso e dice: “Abbiamo il sole in tasca”.
Quando si apre il cristallo elettorale, ecco il portento: Forza Italia incassa il 21 per cento dei voti, Alleanza nazionale il 13,5, la Lega supera l’8. Il Polo è maggioranza. La sinistra esce annichilita e sconfitta. Come Napoleone, Silvio è sceso in campo e in tre mesi ha conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile, gli italiani. Il governo nascerà a maggio, con il voto decisivo di tre senatori a vita - Agnelli, Cossiga, Leone - a dire che il nuovo potere sì è già alleato con quello vecchio e peggiore. Comincia l’era delle grandi bugie. E della finta opposizione guidata da Massimo D’Alema, la volpe del Tavoliere e della Bicamerale. Qualche anno dopo persino l’inno di Forza Italia verrà accusato di plagio per aver copiato un brano americano, This Is The Moment, tratto dal musical Dottor Jeckyll & Mr Hide. La verità si nasconde nei dettagli.
Berlusconi, il mondo capovolto
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 17.03.2014)
Quale che sia il governo, la funabolica girandola della politica italiana ruota sempre intorno a Silvio Berlusconi. Come prima, più di prima. Perché nel carniere del cacciatore vi è ora anche l’accordo che ha siglato la veloce approvazione alla Camera della riforma elettorale, il miracolo che ha rimesso in circolo il reo e leader di Forza Italia.
Forte del titolo di padre della patria, Berlusconi si lancia ora nell’affondo finale: la richiesta vox populi della grazia e infine la candidatura alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Invece dei servizi sociali l’aula di Strasburgo. L’Italia rappresentata da un reo fatto eroe dalla politica nazionale. Una saga dai contorni surreali eppure recitata con la pomposità e la retorica della grandi manovre.
Da quando la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per frode fiscale ai danni dello Stato italiano (la vittima), il reo Berlusconi, cacciato dal Senato in accordo ad una legge votata qualche mese prima anche dal suo partito e applicata dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta, ha manovrato abilmente per realizzare uno scopo e uno solo: salvare se stesso e i suoi interessi dal prevedibile danno che l’esclusione dalla politica istituzionale comporterebbe. È chiaro che Berlusconi potrebbe continuare a fare politica stando fuori dalle istituzioni: non è forse Beppe Grillo un grande trascinatore senza essere un eletto?
Ma evidentemente a Berlusconi non interessa tanto trascinare le masse, quanto trascinarle con lo scopo di meglio soddisfare i suoi interessi ovvero a proprio vantaggio, un obiettivo che può essere raggiunto stando dentro le istituzioni, non fuori. Non si spiega diversamente il suo amore per l’investitura istituzionale, per quell’immunità che gli è stata utilissima per tanti anni e che ha perso lo scorso novembre. È questa la politica che interessa a Berlusconi. Il resto sono solo chiacchiere ben cucinate per imbonire l’audience.
La mobilitazione dei Berluscones si è intensificata quando pochi giorni fa al loro capo fu impedito di recarsi al congresso del Ppe in programma a Dublino. Berlusconi, che ha dovuto riconsegnare il passaporto dopo la condanna definitiva per la frode fiscale sui diritti tv del gruppo Mediaset, non ha avuto il permesso chiesto al tribunale di Milano per poter partecipare alla riunione in vista delle elezioni europee.
La mobilitazione si fa ancora più accesa in prossimità della decisione del 10 aprile prossimo, quando i giudici di Milano dovranno decidere, come Berlusconi stesso ha detto «se dovrò andare in carcere, ai domiciliari o ai servizi sociali». A lui l’ipotesi dei servizi sociali suona come la soluzione «più ridicola »: lui, una persona «della sua età», che oltretutto ha il merito di essere anche «una persona di stato, di sport e di impresa»! «Ridicolo », dice l’uomo più ricco e più potente d’Italia (ancora Cavaliere del Lavoro), che debba pagare per aver violato la legge come capita a un qualunque normale cittadino. La soluzione che egli vuole è ben altra, è fare un altro tipo di servizio, quello al Parlamento europeo.
Quello che si prospetta davanti ai nostri occhi è un mondo rovesciato, nel quale il condannato diventa un perseguitato e la legge una «grave lesione al diritto» perché mette un fermo al suo «diritto di rappresentare i moderati italiani». In questa condizione surreale, Berlusconi e i suoi lanciano una nemmeno poco velata minaccia: chi si provasse a impedirlo si «assumerebbe una grave responsabilità davanti a milioni di italiani».
La politica italiana sembra non riuscire a fare a meno di Berlusconi, a liberarsi dai suoi ricatti, se è vero che perfino per attuare la politica della rottamazione c’è stato bisogno di lui. Il Pd di Matteo Renzi ha una responsabilità non piccola, e ora dovrà mostrare se quell’accordo sulla legge elettorale è venuto senza costi aggiuntivi.
Le parole di Maurizio Gasparri sono sibilline: perorando la causa del suo capo come una causa «di democrazia e di libertà» (sperando magari in una legge che consenta a Berlusconi di candidarsi alle prossime elezioni europee) il senatore di Forza Italia mette sul piatto il regalo fatto, ovvero l’argine che grazie alla nuova legge elettorale è stato messo ai “partitini”, ostacoli a sinistra e a destra nel progetto comune a Berlusconi e a Renzi di controllare i voti dei rispettivi campi per muovere verso una soluzione compiutamente bipolare, con poco pluralismo e molto consenso.
Non è un caso se proprio dal Ncd di Angelino Alfano vengano le bordate più forti al progetto di Forza Italia. «Quando Berlusconi parla dei piccoli partiti - ha detto Alfano - si trova in una condizione paradossale, il suo è un partito più grande ma non sa dove andare, il nostro è più piccolo ma sa benissimo dove andare». Parole che fanno intuire quanto questa legge elettorale e il destino politico di Berlusconi siano intrecciati. Il surreale di una rottamazione che si vorrebbe attuare a condizione di non rottamare mai l’icona della politica del privilegio.
Berlusconi: “Mi candiderò alle Europee”
Il Pd insorge: non può, è un condannato
Il dem Pittella, presidente vicario del Parlamento Ue: la legge Severino lo vieta
FI: «Il leader deve rivolgersi agli elettori». Ma la partita si gioca il 10 aprile.
davide lessi (nexta)
La Stampa, 14/03/2014
«Sarò felice di essere in campo nelle cinque circoscrizioni che sempre mi hanno dato tra i 600 ed i 700 mila voti ciascuna. Spero di poter avere velocemente una risposta dalla Corte europea». Silvio Berlusconi rompe gli indugi e conferma la provocazione anticipata dall’intervista a Giovanni Toti pubblicata oggi su La Stampa. Il consigliere politico del Cavaliere aveva ribadito la determinazione del suo “consigliato” per le elezioni europee di fine maggio. La campagna elettorale può cominciare. «Servono dodicimila club “Forza Silvio» perché, spiega Berlusconi in un collegamento telefonico con una iniziativa di Forza Italia a Montecatini Terme, «bisogna convincere almeno il 50% degli italiani delusi dalla politica». L’ex premier ammette che i messaggi televisivi non bastano più. «Ci sono 24-25 milioni di persone che non sono raggiungibili con la tv e che non leggono i giornali», ha aggiunto spiegando la necessità di un rapporto diretto con i cittadini attraverso internet. Grillo docet.
IL PD: «È INCANDIDABILE»
«N-o-n s-i p-u-ò». Scandisce bene le lettere Gianni Pittella, già candidato alle primarie per la segreteria Pd. «Sì che si può, è una questione di democrazia», ribatte Deborah Bergamini, responsabile della comunicazione degli azzurri. Ma netta è l’alzata di scudi dei democratici. Pittella spiega: «Capisco che gli amici di Forza Italia abbiano problemi nell’accettare la legge e rispettare le sentenze. Berlusconi e Toti si rassegnino. Esiste una legge dello Stato italiano - art.4 della legge Severino - che prescrive chiaramente che i condannati in via definitiva non possono essere candidati né al Parlamento italiano né tantomeno a quello europeo». Dal Pd si fa riferimento ad altri esempi “virtuosi”. «In Germania il presidente della squadra di calcio del Bayern Monaco Hoeness è stato condannato a tre anni e sei mesi di carcere per frode fiscale e ha anche rinunciato all’appello», commenta il senatore del Partito Democratico Vannino Chiti.
IL CENTRODESTRA AGITA LO SPAURACCHIO
Ma nel centrodestra si continua ad agitare lo “spauracchio” di un Berlusconi nelle liste . «Un leader che si rivolge agli elettori per chiedere se vogliono che sia lui a rappresentarli. Nonostante le polemiche del Pd, a quanto ci risulta questa si chiama democrazia», afferma la responsabile comunicazione di Forza Italia Deborah Bergamini . «Valuteremo, ci sono una serie di problemi giudiziari ma anche legali dopo le ingiuste persecuzioni a Berlusconi. Limitare Berlusconi significa penalizzare un intero Paese a livello politico, violare i principi di democrazia. C’è stata una persecuzione ingiusta, che noi vogliamo denunciare anche con questa eventuale candidatura. Sarà un momento di raccolto di consensi intorno a Berlusconi, contro le ingiustizie che lui sta subendo», afferma Maurizio Gasparri, vice presidente del Senato in un’intervista radiofonica a Qlub Radio.
IL 10 APRILE SI DECIDE SU SERVIZI SOCIALI O ARRESTI DOMICILIARI
La strategia di Silvio Berlusconi sarà più chiara quando i giudici di Milano decideranno sul suo futuro: servizi sociali o arresti domiciliari? «Attendo la decisione», ha detto questo sera il premier, spiegando che quella dei servizi sociali è la soluzione «più ridicola per una persona della mia età, una persona di stato, di sport e di impresa: è ridicolo riabilitarla attraverso l’assistenza sociale». La data da cerchiare in agenda è il 10 aprile. Ma il messaggio lanciato oggi deve essere chiaro sia all’esterno di Forza Italia che all’interno del litigioso centrodestra: Berlusconi non ha nessuna intenzione di farsi da parte. E annuncia: «Tra poco più di un anno si andrà al voto». Non per Bruxelles, ma per Roma.
Politica
Padoan al Tesoro, Alfano al Viminale
Esteri-Mogherini, Orlando-Giustizia
Renzi svela i ministri: domani si giura
Governo a 16, metà sono donne. Il premier: «Il Paese non ha alternative» *
Roma. Dopo quasi tre ore di colloquio con Napolitano Matteo Renzi presenta la lista dei ministri per il nuovo governo. All’Economia c’è Piercarlo Padoan, alla Giustizia Andrea Orlando. Alfano confermato al Viminale. Agli Esteri Federica Mogherini. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è Graziano Delrio.
LA LISTA
Ministeri con portafoglio:
Economia - Pier Carlo Padoan
Interno - Angelino Alfano
Esteri - Federica Mogherini
Difesa - Roberta Pinotti
Giustizia - Andrea Orlando
Lavoro - Giuliano Poletti
Istruzione - Stefania Giannini
Sviluppo economico - Federica Guidi
Cultura - Dario Franceschini
Ambiente - Gianluca Galletti
Sanità - Beatrice Lorenzin
Infrastrutture - Maurizio Lupi
Agricoltura - Maurizio Martina
Ministeri senza portafoglio:
Riforme e Rapporti con Parlamento: Maria Elena Boschi
Semplificazione e Pa: Marianna Madia
Affari Regionali: Maria Carmela Lanzetta
L’ACCORDO CON ALFANO E LA CLAUSOLA ANTI-VOTO ANTICIPATO
L’accordo sulla squadra è stato trovato nel vertice notturno Renzi-Alfano. All’incontro c’erano anche Graziano Delrio, Dario Franceschini e Maurizio Lupi. Un incontro durato un’ora e mezzo, in cui secondo notizie di agenzie il premier incaricato avrebbe posto al leader Ncd una sorta di aut aut: «O resti vicepremier o ministro dell’Interno». Ma per la verità questo era già un punto superato, quantomeno Alfano sapeva già che avrebbe dovuto scegliere e aveva già scelto per la prestigiosa carica apicale al Viminale. L’accordo vero strappato da Ncd è una clausola di salvaguardia che congelerà la legge elettorale in attesa della riforma costituzionale del bicameralismo. Un passaggio al quale Alfano tiene moltissimo perché sarebbe la polizza sulla durata del governo fino al 2018.
BERLUSCONI ALL’ATTACCO
Silvio Berlusconi intanto, dopo i toni morbidi e i complimenti al «giovane Matteo»degli ultimi giorni, va all’attacco: «Renzi ha la maggioranza nel suo partito, ma non ha la maggioranza in Parlamento. Molti deputati Pd sono bersaniani e dalemiani». Per il Cavaliere dopo Monti, Letta e Renzi, «si può dire che la sinistra si sia data ai giochi di palazzo. Spero che in questi quattro anni si possano fare le riforme»ha concluso il numero uno di Forza Italia. Alfano oggi ha partecipato al congresso dell’Udc, insieme a Mario Mauro dei popolari. «Ncd e i Popolari sono i nostri interlocutori», ha spiegato Lorenzo Cesa aprendo i lavori e confermando che i centristi appoggeranno l’esecutivo. Più cauto il gruppo dei Popolari. «L’unica certezza è che a oggi il presidente incaricato non ha la maggioranza al Senato», ha detto il vicepresidente del partito, Tito Di Maggio. «La fiducia non c’è - ha confermato invece Vendola - ma spero di ricredermi nei prossimi mesi, l’auspicio che faccio a me stesso è di poter esprimere un ripensamento su Renzi».
Mafia e politica, qui si continua a negare tutto
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 04.02.2014)
Il problema della corruzione per il nostro Paese costituisce una priorità assoluta. Per varie ed evidenti ragioni.
Primo. È una vergognosa tassa occulta, che secondo alcune stime arriva a 60 miliardi di euro l’anno, vale a dire mille euro per ciascun cittadino italiano, neonati compresi.
Secondo. A causa dell’enormità della corruzione il futuro dell’Italia è gravemente compromesso. Ed è una rapina perpetrata sulla pelle dei giovani, a parte il fatto che gli stranieri prima di investire in un sistema così corrotto ci penseranno mille volte.
Terzo. È un impoverimento delle risorse e incide pesantemente sulla qualità della vita di ciascuno di noi.
Se ci fosse meno corruzione ci sarebbero più campi sportivi per i ragazzi, ospedali e scuole meglio attrezzati, strade meglio asfaltate, periferie più illuminate, terreni meno dissestati, meno inondazioni e disastri ambientali. In sostanza si vivrebbe molto meglio. Partendo da questa base, nell’allarme e nelle denunce del report dell’Ue si riscontrano significative conferme.
MOLTI suggerimenti di questo report dell’Ue, per quanto riguarda il nostro Paese, li ritroviamo spesso identici, come contenuti, nell’agenda con cui Libera e il Gruppo Abele hanno sostenuto la campagna “Riparte il futuro”, che ha come obiettivo prevenire e contrastare la corruzione.
Se leggiamo questo documento troviamo tutta una serie di intelligenti e utili proposte. Innanzitutto la riforma del 416-ter (e qualcosa in Parlamento si muove rispetto allo stallo che si era determinato per questioni formalistiche, inserendo finalmente nella previsione di legge non soltanto la dazione di denaro ma anche il concetto di altra utilità, perché il mafioso che paga cash il politico corrotto esiste soltanto nella fantasia di qualche romanziere).
Poi bisogna riformare la prescrizione in generale e per i reati di corruzione in particolare, perché finché ci sarà troppo spazio, come attualmente c’è, per strumenti dilatori che allungano all’infinito i tempi del processo in modo da arrivare alla prescrizione che azzera tutto, la corruzione rimane uno strumento “conveniente”, anche processualmente, per il fatto che i rischi di condanna effettiva sono decisamente ridotti.
Serve un’anagrafe dei candidati alle elezioni nazionali e locali, accompagnata da test di integrità per politici e funzionari, oltre ai codici di comportamento di cui sempre si parla ma con scarse conseguenze operative che invece dovrebbero essere robuste sul piano disciplinare e politico. Occorre introdurre il reato di auto-riciclaggio (siamo l’unico Paese europeo che non ce l’ha), ripristinare il falso in bilancio, reprimere seriamente vari “reati civetta”, ad esempio l’evasione fiscale e certi illeciti societari.
Non meno importante è la riforma del “conflitto di interessi”. Fondamentale è incoraggiare i comportamenti che servono a scoprire e punire le situazioni illecite in ambito di corruzione. Qui si tratta di estendere le norme dei collaboratori di giustizia ai settori che dalla corruzione sono maggiormente interessati, pubblici e privati.
Serve anche garantire più trasparenza riducendo di molto le restrinzioni che oggi caratterizzano l’accesso ai documenti pubblici, rendendo più incisivo il controllo sugli atti della pubblica amministrazione. Le grandi opere, decisive per la crescita del Paese, esigono una normativa ad hoc che aumenti la visibilità delle procedure, essendo imponenti le risorse in gioco.
Infine, come non rallegrarsi che l’Europa ci bacchetti sui rapporti tra mafia e politica, mentre noi continuiamo a negare persino quelli tra Andreotti e Cosa nostra.
risponde Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta *
Pur di fare le riforme è lecito parlare anche col diavolo, figuriamoci se Renzi non avrebbe dovuto parlare con Berlusconi che diavolo non è. È vero, per raggiungere un fine buono è lecito ricorrere ad un mezzo cattivo, nel caso del colloquio di Renzi con Berlusconi, però, occorre dimostrare non solo che il fine (le riforme) è assolutamente necessario. ELISA MERLO
Molto al di là delle malignità più o meno strumentali sul «soccorso rosso» ad un condannato, il progetto di Renzi si propone oggi, con grande chiarezza, come un progetto di disinfestazione radicale della scena politica italiana. Sconfitto solo sul piano giudiziario, Berlusconi sarebbe rimasto una mina vagante per l’equilibrio del nostro Paese.
Sconfiggerlo con il voto significherebbe (significherà) togliergli l’alibi (la legittimazione popolare) dietro cui sempre lui così abilmente ha nascosto, finora, insieme ai reati che ha commesso il grandioso conflitto d’interessi alla base del suo arricchimento spropositato e del suo potere personale.
Aprendo una fase nuova della nostra storia recente nel momento in cui, in Parlamento e nel Paese, ci si confronterà fra uomini di destra e di sinistra senza la presenza ingombrante di un uomo sceso in politica per difendere se stesso e la sua ricchezza dal rischio della concorrenza leale e dal controllo dei magistrati.
Quello che finirà con Berlusconi se il disegno di Renzi andrà in porto, infatti, è il tempo in cui un numero importante di elettori si è lasciato ingannare da un uomo che basava il suo carisma sulla presunzione malata di poter gestire il Paese come un’azienda. Dei cui profitti lui è stato, in gran parte, il padrone. O l’utilizzatore finale.
* l’Unità, 03.02.2014
Berlusconi e Renzi, perché?
di Furio Colombo (il Fatto, 22.01.2014)
PENSANDOCI BENE la “missione impossibile” e dunque molto celebrata quasi da tutti di Matteo Renzi, che incontra pubblicamente Silvio Berlusconi, associandolo al ruolo di salvatore della Patria, non è così estranea a una consolidata tradizione del Pd ricevuta in eredità dagli ex e dagli “ex ex” di una parte e dell’altra (Pci e Dc ).
Il Pd, infatti, ha continuamente guardato con tolleranza e mitezza a venti anni di berlusconismo, di conflitto di interessi, di compravendita di giudici e parlamentari. Parlo di un Pd che, per dirla con Francesco Piccolo, ha sempre voluto essere come “tutti”, cioè garantista e tollerante verso uno che sarà anche un po’ fuori legge, ma piace. E comunque ha potere. Chi si è trovato nella fossa Pd, vuoi perché aveva a che fare con“l’Unità”, vuoi perché faceva parte del gruppo parlamentare alla Camera o al Senato, veniva regolarmente pregato di non sollevare certe questioni di “berlusconismo viscerale” sul quotidiano Pds, Ds, Pd, o di non fare certi interventi in aula.
Non si trattava di questioni politiche complicate. Si trattava di decidere se, per un partito che vuole avere un rapporto leale con i cittadini, è bene dire la verità, fattuale, politica e giudiziaria su Berlusconi (che stava creando stupore nel mondo di amici e alleati) oppure era doveroso fingere che il perenne imputato (dal traffico di prostituzione minorile all’abbordaggio della Mondadori, con acquisto, quando necessario, di giudici e senatori e -intanto- frode fiscale continuata e amicizia dichiarata con il pluriassassino Mangano) fosse un normale statista da cui, di tanto in tanto, mitemente si dissente. Certo, “tutti” preferivano Berlusconi o per affari o per prudenza (perché si poteva anche perdere il posto mettendosi contro, come Biagi alla Rai, come me e Padellaro a “l’Unità”). Invece, essere come “tutti” (ovvero smettere di sollevare grane dette pomposamente “denunce”) è un sentimento naturale, a giudicare dalle reti Rai e dall’eroico conformismo di tanti nostri colleghi che si sono mantenuti rigorosamente dalla parte di “tutti” per un tempo così lungo.
Ma l’evento Renzi è forse un caso a parte, come lo è quasi ogni iniziativa del Supergiovane fiorentino. È accaduto tra una sentenza passata in giudicato per reato grave, e la decisione del giudice di sorveglianza sulla pena accessoria (domiciliari o servizi sociali?) e dopo l’espulsione di B. dal Senato.
Possibile che il nuovo Pd di Renzi intenda aprire il futuro con uno “storico incontro” con il condannato che arriva scortato dalla polizia, che intanto svuota le strade, invece di arrestarlo come da sentenza? Voi potete sgridare il Pd per la mite tolleranza sempre dimostrata da tutto l’apparato dirigente verso Berlusconi e i suoi reati, prima della condanna definitiva.
Ma dovete ammettere che Renzi è stato molto più audace: ha nominato Berlusconi interlocutore unico e co-autore dell’unica soluzione giusta e vera che salverà il Paese, dopo la condanna. Depone bene sul carattere vitalistico e impulsivo, capace di decisioni rapide, del ragazzo. Ma che roba è politicamente? E giuridicamente? E moralmente?
La fiaba moderna della grande trattativa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 22.01.2014)
DIFFICILE pensare che un politico accorto, abituato a vincere, usi le parole a casaccio. Che si spinga fino a dire, come Renzi dopo l’incontro con Berlusconi al Nazareno, che nel colloquio è emersa «profonda sintonia». Sintonia si ha quando il suono che emetti s’accorda perfettamente con un altro. Se poi è addirittura profonda, ogni incongruenza diventa schiuma delle cose. Schiuma la condanna giudiziaria del Cavaliere; schiuma l’imperio della legge.
Armonia regna. La Grande Trattativa può iniziare. Se fosse una fiaba, e non un pezzo emblematico di storia italiana, le incongruenze sarebbero normali: la montagna che scali è in realtà una pianura, i sassolini bianchi che raccogli nel bosco ti fanno dimenticare che la madre ti ha scacciato e gettato nella notte. Stoffa delle fiabe è anche il ripetersi del perturbante, che risbuca uguale a se stesso finché l’incanto si spezza.
Non così in politica, dove il perturbante stride: per alcuni insopportabile, per altri incomprensibile. Quando la politica prescinde così platealmente dalla giustizia, quest’ultima evapora. Negoziare non solo la legge elettorale ma anche la Costituzione con un pregiudicato è difficilmente giustificabile perché gli italiani si diranno: ma come, Berlusconi non era interdetto? incandidabile? Che ne è, della maestà della Legge?
La fiaba, dice Cristina Campo, è una professione di fede; è «incredulità nella onnipotenza del visibile». Non fidarti di quel che vedi, credi piuttosto nell’invisibile, nel sotterraneo. Non è successo nulla nei tribunali, Berlusconi s’è candidato alle europee e nessuno inarca il sopracciglio. Quel che hai visto al Nazareno, la favola lo rende possibile: la politica più che autonoma è sconnessa dalla giustizia, Berlusconi ha milioni di elettori e solo questo conta. Lui l’ha sempre preteso.
La sintonia affiorò subito, quando il manager entrò in politica col suo enorme conflitto di interessi e gli fu condonato. A più riprese fu poi protetto; in momenti critici Napolitano gli diede tempo per rialzarsi; ogni volta lo scettro gli fu restituito. Lo stesso accade oggi, sei mesi dopo la sentenza: il condannato s’accampa sugli schermi come cofondatore, addirittura, di nuove Costituzioni. «La pacificazione che non è riuscita a Letta è andata in porto con Renzi», si compiace Forza Italia.
La pacificazione copre punti cruciali, a cominciare dalla legge elettorale. Per Berlusconi l’Italia deve essere bipolare, perfino bipartitica: sempre ha detto che l’esecutivo non va imbrigliato. Solo di recente ha accettato, per convenienza, larghe intese. Renzi gli fa eco: l’accordo «garantisce la governabilità, il bipolarismo, ed elimina il ricatto dei partiti piccoli». La rappresentatività neanche è menzionata. Forza Italia recupererà Alfano, ma il Pd chi recupererà? Non solo: Berlusconi ha sempre voluto Camere di nominati, e con le liste boccate (sia pur piccole) i nominati torneranno. Forse Renzi ci ripenserà. Al momento, anch’egli sogna deputati controllabili. Ha tirato fuori il doppio turno: che evita gli inciuci, non i parlamenti blindati.
Una minoranza del Pd s’indigna («Mi sono vergognato », ha detto Fassina, e Cuperlo si è dimesso da Presidente). Ma anche qui regna l’infingimento fiabesco. Chi s’offende ha fatto le stesse cose, per vent’anni, senza vergogna in eccesso. Agì nell’identico modo Veltroni, quando nel gennaio 2008 proclamò a Orvieto che il Pd rompeva le alleanze e «correva da solo» contro Berlusconi. Meno di quattro mesi dopo il governo Prodi cadeva, Berlusconi saliva al trono. Né furono meno corrivi D’Alema, Violante, che ignorarono la legge sul conflitto d’interessi aprendo le porte al capo d’un impero televisivo. Dicono alcuni che Renzi può patteggiare, essendo «nato-dopo» questa storia di compromessi. Ma i nati-dopo sono responsabili della Storia (compresa la non elezione di Prodi e Rodotà al Quirinale, compreso il tradimento dei 101) anche se personalmente incolpevoli. Da quando guida il Pd, l’incolpevole risponde del passato, e di un’autocritica storica che tarda a venire.
Sostiene Renzi che tutto è diverso, oggi: la sintonia è semplice accordo, obbligato e «fatto alla luce del sole». La consolazione è magra. Berlusconi esce dalla notte ed entra nel giorno, con lui si rifanno leggi elettorali e anche costituzioni. Smetterà d’essere considerato un pregiudicato e dunque infido. Già ha smesso: è il senso simbolico-fatato dellaGrande Trattativa.
Conta a questo punto sapere l’oggetto del patto. Per alcuni è la salvezza del boss dai giudici, vil razza dannata. Più nel profondo, è la consacrazione di nuovi padri costituenti. Tra loro ha da esserci chi, anche se condannato, s’ostina a definire desueta la Costituzione del ’48. L’ha ribadito l’11 gennaio: «Abbiamo fiducia, con una legge elettorale che dia il premio di governabilità del 15%, di arrivare da soli ad avere la maggioranza in Parlamento, per poter fare quello di cui l’Italia ha bisogno dal 1948 a oggi». Il ’48, in altre parole, fu un inizio nefasto. Non si sa se la sintonia profonda copra anche questo. Renzi parla solo di Senato e regioni, ma quel che succederà dopo non è chiaro. Chiaro è però l’approdo: l’Italia deve essere bipolare, bipartitica, e i governi non destabilizzabili da coalizioni insidiose.
Un’ambizione legittima, se l’Italia politica fosse davvero divisa in due. Ma è divisa in tre: la crisi ha partorito Grillo. Semplificare quel che è complesso è la molla di Berlusconi, di Renzi, di Letta, anche del Colle. Il fine è un comando oligarchico, non prigioniero delle troppo frammentate volontà cittadine. La soglia elettorale dell’8 per cento per i partiti solitari è una mannaia. Grillo non temerà concorrenti.
Nel suo ultimo libro, Luciano Gallino dà un nome alla nuova Costituzione cui tanti tendono: la chiama costituzione di Davos. Il termine lo coniò in una riunione a Davos Renato Ruggiero, ex direttore dell’Organizzazione mondiale per il commercio: «Noi non stiamo più scrivendo le regole dell’interazione tra economie nazionali separate. Noi stiamo scrivendo la costituzione di una singola economia globale».
Un obiettivo non riprovevole in sé (anche Kant l’immaginò), se lo scopo non fosse quello di «proteggere un’unica categoria di cittadini, l’investitore societario globale. Gli interessi di altre parti in causa - lavoratori, comunità, società civile e altri i cui diritti duramente conquistati vennero finalmente istituzionalizzati nelle società democratiche - sono stati esclusi» (Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi 2013).
Non stupisce che 5 Stelle (o altri movimenti alternativi) disturbino i semplificatori. Sia pure caoticamente, la società civile - quella vera - s’interessa alla politica perché vede minacciati non interessi di parte ma il pubblico bene, come definito da Machiavelli: proprio il bene ignorato dalla costituzione di Davos.
Non stupisce nemmeno che nelle mappe raffiguranti l’odierno Parlamento, lo spicchio di 5 Stelle perda spesso il nome: è occupato da «Altri». Era così nelle mappe del decimo secolo. Dove cominciavano terre sconosciute, specie asiatiche, si scriveva: Hic abundant leones, qui abbondano i leoni. Questo forse intendeva il capo dello Stato, dopo le amministrative del ‘12, quando di Grillo disse: «Non vedo boom».
I leoni sono ora in Parlamento, e ci torneranno. Possono dire qualcosa, difendere la Costituzione del ’48, la legalità. È grave che non agiscano, lasciando che la Sintonia sia ancor più vasta. Il loro sbigottimento di fronte all’incontro che ha rilegittimato un politico condannato lo si può capire. È vero, «l’Italia è in preda alle allucinazioni e ai déjà-vu». Ma lo stato di stupore non è sufficiente. Alla lunga paralizza. La Grande Trattativa non è scongiurata: davanti a tanti volti trasecolati, può proseguire nei più imprevedibili dei modi.
Con il condannato non si discute
di Marco Politi (il Fatto, 18.01.2014)
Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014? Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di Stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale. I media italiani - t elevisione e carta stampata - stanno banalizzando l’evento in maniera imbarazzante. Quasi si trattasse della normale prosecuzione dell’uso del potere, che Berlusconi ha accumulato negli anni, e delle inevitabili (o evitabili) trattative politiche che si fanno con chi detiene una fetta di potere. Non è così.
Come diceva un diplomatico francese, “le forme non sono importanti, salvo quando vengono meno”. In certi quartieri di Palermo, se ti occupano abusivamente la casa, puoi andare dalla polizia e dai giudici - e l’esito sarà lungo, forse incerto - oppure ti rechi dal capomafia di quartiere. Entro ventiquattr’ore l’abusivo sparisce. Ma non è gratis. Non perché lo ‘zu ti chiede soldi, non è mica un poveraccio... quando sarà ti presenterà il conto.
Berlusconi è un personaggio condannato e interdetto. C’è un prima e un dopo, sebbene un’insistente ondata propagandistica tenti di confondere le acque. Prima della condanna definitiva era una personalità che a buon ragione risultava repellente a molti e - in nome del libero arbitrio - poteva piacere ad altri. Dopo la sentenza della Cassazione il suo status è mutato per una sentenza emessa in nome del “popolo italiano”, che ha - dovrebbe avere - una valenza nazionale. È una persona caratterizzata da una “naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del (proprio) disegno criminoso”, come hanno sancito i giudici del processo Mediaset.
CON LA FRESCA arroganza di chi è pervenuto a un posticino di potere per grazia del sovrano, l’economista Filippo Taddei membro della segreteria del Pd ha dichiarato l’altra mattina a Omnibus a chi gli chiedeva dei dubbi sull’incontro Renzi-Berlusconi: “Francamente non capisco il senso della questione”. Peccato, perché è ipotizzabile che abbia viaggiato in Europa e si sa per certo che ha vissuto negli Stati Uniti.
L’incontro tra un politico incensurato e un pregiudicato è inconcepibile in qualsiasi capitale democratica dell’Occidente. Un evento del genere è escluso a Washington come a Berlino, a Parigi come a Londra. Nixon era stato eletto nel 1972 con 47 milioni di voti. Nel momento in cui fu riconosciuto responsabile dei reati connessi allo scandalo Watergate, non fu più un interlocutore per nessuno. Punto. I democratici americani hanno continuato ovviamente a trattare e fare politica con i repubblicani, ma il colpevole di reati era pubblicamente fuori gioco. Perché c’è un confine invalicabile tra l’onorabilità pubblica prima e dopo una condanna.
Anzi nei paesi anglosassoni e a democrazia matura c’è anche un secondo confine, quello della condotta “appropriata” o “inappropriata”, che riguarda la correttezza del comportamento pubblico e prescinde dai procedimenti penali. Per cui il politico, beccato con lo scontrino delle mutande messo in conto al contribuente, sparisce subito dalla circolazione e nessuno dei suoi sodali di partito grida al complotto. Semplicemente perché “non si può”.
In Italia la classe politica rimuove costantemente questo discrimine di etica pubblica per cui i più grandi cialtroni possono gridare che non sono indagati, facendoci ridere dietro all’estero. Ma pazienza. La maggioranza paziente si accontentava di aspettare le sentenze definitive della magistratura, augurandosi che avessero un senso erga omnes.
Il fatto che da noi si voglia ora platealmente varcare il limite tra chi ha la titolarità di buona fede per stare sulla scena pubblica è chi è interdetto per gravi reati costituisce un ulteriore allontanamento dell’Italia dallo standard dei paesi europei e occidentali. Dove “ulteriore” significa ammettere con tristezza che l’ultimo ventennio ha visto il nostro paese scendere sempre più in basso, ma c’era la speranza piccola, flebile, che il novembre 2011 e l’accertata criminalità con sentenza definitiva dell’agosto 2013 potesse segnare un piccolo, graduale passo verso il ritorno all’Europa.
DICIAMO, a scanso di equivoci, che a milioni di cittadini delle beghe interne del Pd non interessa niente. E meno che mai interessa il politichese con cui il vertice imminente (o avvenuto) viene ammantato. Ci sono invece milioni di cittadini, che pagano le tasse, e tanti milioni che a destra, centro e sinistra sentono il valore della legalità e vorrebbero uscire dal degrado istituzionale. E c’è quell’umanità pulita vista due anni fa in Piazza del Popolo nel giorno di “Se non ora, quando? ” .
Questa Italia capisce perfettamente il “segno” di questo vertice voluto da Renzi, che cancella il confine tra ciò che è sostenibile nel costume democratico e ciò che non lo è. Che mette sullo stesso piano della presentabilità l’evasore e chi non lo è.
Raccontava Piercamillo Davigo che nei dibattiti, quando il discorso scivolava sul “tanto rubano tutti”, lui si fermava e domandava: “Lei ruba? Io no. Allora siamo già in due”. Tanto per rimarcare la frontiera. Da oggi, nella società di comunicazione visiva in cui siamo immersi, il messaggio è chiarissimo. Tra Davigo e Berlusconi non c’è nessuna differenza.
La partita finale
di Franco Cordero (la Repubblica, 17.01.2014)
L’analisi retrospettiva aiuta a capire cos’avvenga. Torniamo alla primavera 2008, quando S.B. rimette piede a Palazzo Chigi, forte d’una strepitosa vittoria elettorale: ha due Camere ubbidienti; l’avversario gli rende ossequio; finti neutrali cantano mirabilia. Niente sembra impedire la conversione della Repubblica italiana in signoria (Casa d’Arcore) ma i fasti nascondono due grossi tarli.
Primo: pendono pericolosi giudizi penali, relitto d’una pirateria esercitata a mansalva e niente esclude che emerga altro.
Secondo: formidabile nel combinarsi affari in spregio alle norme, l’uomo non sa da che parte cominci l’arte del governo; in lingua d’Esopo o Fedro, è come affidare la gestione del pollaio alla volpe; dottrina e prassi berlusconiane implicano corruzione, falso, frode, parassitismo, fisco evaso, giustizia truccata, e tale marasma devasta l’economia. Francis Drake predava l’oro spagnolo dei galeoni, mentre costui dissangua l’Italia a beneficio suo e dei furbi (vedi P2, P3, P5 e simili compagnie).
Dalla Corte dei conti sappiamo cosa succhi allo Stato l’attuale regime vampiresco, almeno 60 miliardi annui: continuando finiamo in bancarotta; qualunque ragioniere calcola tempi e misura del rendiconto. Oscura le prospettive una crisi planetaria. Lui la nega raccontando quanto siano ricchi gl’italiani: viaggiano in aereo; frequentano i ristoranti; hanno appartamenti il cui valore sale a vista d’occhio; «le mie aziende vanno a gonfie vele».
Due punti gravemente vulnerabili. Padrone delle Camere, vuol diventare immune dalla giurisdizione penale, riuscendovi. Peccato che fosse legge invalida. Se la fa riacconciare, sicuro dell’esito perché vi mette mano un presidente della Repubblica insistente nel chiedere «larghe intese»: parlando chiaro, definiamole «concerto subalterno degli oppositori»; è al potere un plutocrate stregone dei media, in terrificante conflitto d’interessi. Tutt’e due cadono dalle nuvole quando l’antipatica Corte ribadisce il verdetto.
Nel terzo tentativo chiede qualcosa in meno: che le udienze slittino ogniqualvolta dichiara d’essere impedito da affari governativi; e siccome anche qui emergono aspetti d’invalidità, operai volenterosi s’accingono alla quarta fatica. Nella parte in cui vale, la norma ad personam gli viene comoda. La sua strategia è elementare: implacabile perditempo, finché scadendo i termini della prescrizione (se li era accorciati), svaniscano i delitti; cadono le braccia davanti a simili spettacoli.
Assorbito dagli affari penali e privati interessi, figura poco alla ribalta d’haute politique. Perdeva i colpi, ritrovando l’aureola sotto Natale 2009, quando un matto gli scaglia nei denti il Duomo milanese in miniatura: i soliti pulpiti maledicono chi inquina le teste; don Luigi Verzè, imprenditore decotto, rievoca la salita al Calvario; tra i morbidi oppositori qualcuno sta compunto, quasi ammettendo colpe collettive. Poi espelle dal partito l’antagonista interno, possibile leader d’una destra pulita (aprile 2010), ed è l’ultimo exploit, applaudito dal Corriere della Sera. L’anno dopo l’Italia cammina gobba: ha la crisi nelle ossa; e lui perde importanti elezioni amministrative, persino a Milano; ma forte dei numeri in parlamento, sarebbe inamovibile se non lo rovesciassero le borse. Distavamo due dita dal disastro.
Sabato 12 novembre 2011 esce ingloriosamente. L’augusto stratega, però, gli salva un futuro tenendo artificialmente vive le Camere. Nei 15 mesi del governo cosiddetto tecnico, la cui formula clinica era «salasso senza riguardo ai socialmente deboli», l’Olonese defenestrato ripiglia in mano i fili, sfiorando la vittoria, col relativo premio garantito dal Porcellum (se l’erano grugnito nell’anno 2006, affinché l’avversario, presumibile vincitore, trovasse un paese ingovernabile).
Tale l’Italia 2013: tre schieramenti hanno basi elettorali quasi pari; e dal Quirinale incombe quel malaugurato disegno d’alchimia governativa, ovviamente ben visto dal redivivo; al Pd l’acquiescenza costa i 2.045.190 voti persi in 5 anni ed era già sconfitto allora. Stride il monito con cui l’imperioso demiurgo chiede tregua a favore del fuggiasco dalle aule giudiziarie: Deo gratias, commentano spettatori inquieti; tra poco compie i sette anni e sloggia dal Colle; ma tra le quinte complotta un partito delle «larghe intese». Sapiunt Dalemam le mosse che tra sabato 20 aprile e domenica reinsediano l’uscente, evento senza precedenti.
Appena reincoronato, installa un governo bicefalo: una testa appartiene al nipote del plenipotenziario berlusconiano in mille missioni; l’altra sta sul collo d’Angelino Alfano, prediletto da Re Lanterna, sebbene gli manchi «un quid»; alla giustizia va la signora ex prefetto, ministro degl’Interni nel governo tecnico, protetta dal Colle, e questa scelta ha dei sottintesi. Giochi fatti, se Dike patisse i venti. Ha del miracoloso che a Milano Tribunale e Corte d’appello conducano in porto i dibattimenti su una frode fiscale americana: caso lampante; e nelle due sedi Re Lanterna incassa la condanna a 4 anni. La difesa ostruzionista aveva speso ogni espediente. S’era anche chiuso al San Raffaele lamentando noie agli occhi.
In Cassazione la causa sarà chiamata al 30 luglio. Tutta da vedere la pantomima d’un evangelico ministro berlusconiano: presumibilmente ignaro delle questioni (non erano affare suo: gestisce trasporti e infrastrutture): torce viso e mani, parla a fiotti, ruota gli occhi, spiegando convulso come non sia pensabile una decisione negativa sul ricorso; sarebbe attentato alla democrazia. La discussione avviene in due giorni. Opinanti à la page prevedono l’annullamento con rinvio, motivato da qualche piccolo difetto, nel qual caso il processo torna a Milano e Kronos lo inghiotte. L’avverbio latino è utinam: “Dio voglia”; salviamo la “stabilità”, valore supremo. Il dispositivo li lascia esanimi: è res iudicata la condanna a 4 anni; e in questo scenario vedremo come equazioni giuridiche incidano nella storia d’Italia. Forse siamo alla rumorosa partita finale.
Da D’Alema a Veltroni così il dialogo col Cavaliere ha “incantato” la sinistra
E ora tocca a Renzi sfidare l’Ammaliatore
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 17.01.2014)
NESSUNO potrà mai dubitare che Berlusconi sia il più grande incantatore. Non si dice qui di serpenti, ma solo per rispetto riguardo ai leader della sinistra che lo hanno sempre sottovalutato come antagonista e perciò si sono fatti da lui regolarmente ammaliare nel corso di incontri, cene, crostate bipolari, commissioni bicamerali, bla-bla istituzionali ed elettorali, tele-smancerie, presentazioni di Vespa e quanto ha reso suicida qualsiasi forma di collaborazione.
TOCCA adesso a Matteo Renzi, la cui audacia è indiscutibile come la baldanza che accompagna il suo esordio alla guida del Pd. Rispetto ai suoi predecessori, ha qualche vantaggio: il Berlusconi di oggi è più vecchio, alcuni dei suoi l’hanno tradito, ha diverse condanne sulle spalle, lo stanno per spedire ai servizi sociali, insomma quanto mutato dal Berlusconi che tre anni orsono lo invitò ad Arcore, pure congedandolo con una lusinga che davvero deve averlo fatto pensare: «Ti apprezzo perché mi assomigli».
Nel grande gioco del potere la magia dell’incanto si risolve più spesso di quanto s’immagini nell’arte del raggiro. Da Rutelli a Fassino, da Amato a Bersani l’hanno certamente avvertita. Ma gli annali della Seconda Repubblica, pur nella loro spumeggiante contraddittorietà, dicono che ogni tentativo di circonvenzione d’incapace ai danni di Berlusconi è destinato a fallire per il semplice motivo che questi è tutto fuorché incapace.
E infatti ha attratto a sé prima D’Alema, in un periodo che va dall’inverno del 1997 alla primavera del 1999 (elezione di Ciampi al Quirinale); e dopo aver infinocchiato il machiavellico leader Maximo, circa dieci anni dopo, tra l’autunno del 2007 e l’inverno 2008 (caduta di Prodi bis), ha nuovamente e con fredda efficacia dato fondo alla sua virtù abbindolatrice nei riguardi di Veltroni, leader buonista, che nella susseguente campagna elettorale, sia pure con nobili intendimenti, nemmeno voleva chiamare il Cavaliere per nome e allora usava una lunga e complessa formula, «il leader della parte a noi avversa». Che, stravinte le elezioni, fece puntualmente del-l’Italia carne di porco.
Magari a Renzi andrà bene, ma prudenza vorrebbe che ripassasse un po’ di storia e di psicologia, individuale e sociale. Forse proprio perché figlio di un Pci ormai morto e sepolto, a un certo punto della sua vita e della sua carriera D’Alema fu attratto da quello stesso Berlusconi di cui pure per qualche tempo aveva detto le peggio cose. Il destino delle tv del Biscione e l’eccessivo potere dei giudici divennero le basi di un accordo che si cementò in Bicamerale.
Ma poi i due si trovarono anche vicendevolmente simpatici. «Il mio più intimo nemico» scherzava Silvione. In una interminabile intervista Emilio Fede mostrò ai telespettatori la collezione di civette di Max, che intanto cominciò a pubblicare con Mondadori. Un giorno si disse che Veronica avesse confezionato con le sue mani delle marmellatine per la famiglia del leader pds. Non era vero, ma non molto prima che il Cavaliere buttasse tutto all’aria, ci fu la crostata costituzionale ed elettorale a casa Letta, venne al mondo il grazioso termine «inciucio», mentre si deve a Giampaolo Pansa il battesimo di una creatura invero poco rassicurante, «Dalemoni».
Nell’immaginario di questo tempo visionario l’ibridazione è sintomatica costante, per cui si rinvia brevemente a un irresistibile, impressionante e come tale assai diffuso fotomontaggio on line, il «Renzusconi». Anche «Uolter» Veltroni, d’altra parte, ebbe il suo morfologico incrocio, addirittura sulla copertina di Newsweek, «Veltrusconi».
A differenza di D’Alema, il primo leader del Pd conosceva talmente bene il Cavaliere da avergli perfino dedicato in gioventù un libro dal titolo «Io e Berlusconi(e la Rai)» (Editori riuniti, 1990). Dunque questioni di tv. Sull’argomento catodico e gli accordi anzitempo vedi, assai bene informato, «Il baratto» di Michele De Lucia (Kaos, 2008). Ma non appena Veltroni fu eletto leader del Pd, insieme a tante pregevoli intenzioni stabilì che per il bene dell’Italia era di capitale importanza aprire, tanto per cambiare, un bel tavolo istituzionale ed elettorale. Con tutti. Quindi con Lui. Solo.
E in pompa magna si videro, alla Camera, accordandosi quindi su una specie di Vassallum con correttivo di Quagliariellum, o forse no, comunque erano le europee - e Vendola ancora oggi protesta. A distanza di sette anni la conferenza stampa del lieto evento, tenuta fianco a fianco su un podietto con eleganti fregi dorati, restituisce a chi c’era la magia delle happy hours: due leader cortesi, sorvegliati nel linguaggio, ispirati da spirito costruttivo e compresi nel loro ruolo di rifondatori della democrazia italiana.
Particolare significativo, o meglio maliziosa coincidenza: sia nell’incantesimo con D’Alema che in quello con Veltroni a Palazzo Chigi c’era Prodi, il povero Prodi, l’unico che di Berlusconi non s’è mai fidato. Adesso, guarda caso, c’è un suo allievo, Enrico Letta. Che Qualcuno lo protegga dalle ricorrenze e dalle regolarità di un potere purtroppo sempre abbastanza uguale a se stesso.
La strategia di Matteo legata al Cavaliere
di Marcello Sorgi (La Stampa, 17.01.2014)
Alla fine di una direzione per forza di cose interlocutoria, nella quale i dissensi della vigilia non hanno realmente pesato, Renzi ha chiesto al Pd un rinvio sulla legge elettorale, legato evidentemente all’incontro con Berlusconi previsto per sabato. Va da sé che se riuscirà a chiudere l’accordo con il Cavaliere, il previsto dibattito sul sistema elettorale che il partito dovrebbe scegliere non si riaprirà. Se invece l’ex-premier prenderà tempo, o rilancerà, com’è nel suo metodo, ancorando l’eventuale intesa allo sbocco elettorale anticipato nella prossima primavera, le cose diventeranno più complicate.
Tra le file dei dirigenti del Pd, a bassa voce, erano in molti ieri a chiedersi cosa possa aver convinto Renzi ad ancorare in modo così stretto la sua strategia a Berlusconi. È possibile che gli incontri con Verdini, plenipotenziario del Cavaliere, lo abbiano persuaso che l’accordo è a un passo e tanto vale cominciare a preparare il partito a questa eventualità. Ma se poi Berlusconi, come ha fatto tante altre volte, si ritira o cambia idea? Era questo l’interrogativo che aleggiava nella sala della direzione democratica.
Il segretario ha spiegato che la sua proposta si articola in tre parti: nuova legge elettorale sì, ma all’interno di un quadro istituzionale che prevede, entro il 2015, anno in cui si dovrebbe tornare a votare per eleggere il nuovo Parlamento, anche la riforma, praticamente l’abolizione, del Senato, che verrebbe trasformato in una Camera non più elettiva ma composta dai rappresentanti delle autonomie locali, e la riscrittura del Titolo V, cioè il trasferimento di gran parte delle competenze statali alle regioni che tanti problemi ha sollevato in questi anni, dopo il primo ritocco, frettolosamente approvato dal centrosinistra nel 2001.
Se questa settimana si concluderà questa è almeno la previsione con l’appuntamento tra Renzi e il Cavaliere da cui dipendono le sorti della riforma elettorale, è nella prossima in realtà che dovrebbe sciogliersi l’intreccio tra questa trattativa, aperta, e l’altra sul nuovo patto di governo per il 2014 a cui ha ripreso ha lavorare ieri il premier Letta, appena tornato dal Messico.
Renzi si accorda con Berlusconi
Lo sconcerto della sinistra D’Alema uscendo lo gela “Ormai siamo alle comiche”
di Carlo Bertini (La Stampa, 17.01.2014)
Lo scontro più aspro si consuma nel finale di questo primo round di Direzione che avrà la sua resa dei conti lunedì prossimo. Quando Renzi nella replica liquida «la tripartizione governo-gruppi parlamentari-partito proposta da Speranza», dicendo «non è uno che tratta col premier e poi con i capigruppo, perché questa è la sede delle decisioni», il segnale arriva forte e chiaro. E ai bersanian-dalemiani annidati in sala non piace affatto quello che considerano il messaggio implicito, e cioè che a queste decisioni poi tutti si dovranno allineare. Così come non piace il rischio di rivitalizzare Berlusconi, «immaginate l’impatto simbolico di Berlusconi che entra nella sede del Pd mentre ancora non è chiuso l’accordo con gli altri», avverte il bersaniano D’Attorre.
Ma è sulle liste bloccate che, vieppiù se decise in accordo con Berlusconi, si rischia una spaccatura del partito. Perché il timore è che poi siano solo i leader a scegliere quali debbano essere i candidati e a scartare i non graditi. E invece il doppio turno di collegio o le preferenze svincolerebbero di più le minoranze dal pugno di ferro dei leader. «Se si deve tentare di forzare nel voto finale alla Camera, devono seguirti pure quelli della minoranza del Pd, mentre se è il solo segretario a decidere della tua sorte e non gli elettori, l’intendenza potrebbe non essere motivata a seguirti», è la minaccia dei bersaniani. Ed era stato proprio Speranza a invitare Renzi a puntare sul «doppio turno, un modo per unire il Pd e in quel caso tutto sarà più facile...».
E anche se il voto in Direzione si conclude con una vittoria schiacciante di Renzi, 150 sì e 35 astenuti sulla sua relazione, lo scontro potrebbe scaldarsi nel redde rationem parlamentare di questa partita cruciale sulla legge elettorale, che il leader si gioca sapendo di rischiare «il tutto per tutto». È giocata «con azzardo, non si gestisce un partito così, nei gruppi la maggioranza l’abbiamo noi, non può pensare di travolgerci tutti», sibila un dalemiano uscendo infastidito dal salone al terzo piano del Nazareno.
Insomma lo sconcerto della sinistra è palpabile, «siamo alle comiche», è il commento gelido di D’Alema con un compagno di partito, dopo la relazione del segretario. Un primo assaggio del fuoco amico va in scena dal palco, anche se in platea il sospetto è che un minuto dopo il varo di una nuova legge elettorale, il leader Pd staccherà la spina al governo. «Quella non può essere una clava su cui costruire un tranello per l’esecutivo», attacca l’ex responsabile giustizia Danilo Leva. Ma la sinistra parla con una voce sola, le stesse cose chiedono Cuperlo, i bersaniani Fassina e D’Attorre, e cioè sì al doppio turno, no al tandem con Berlusconi e un sostegno pieno e «convinto» ad un esecutivo da rinnovare però totalmente, sempre a guida Letta.
Ma dietro le quinte c’è pure chi ammette che «comunque Renzi è stato abile. Ha smontato la critica che lui vorrebbe far cadere il governo, chiedendo un mandato sul pacchetto di riforme che comporterebbe un anno di lavoro ed è chiaro che sta alzando il tiro nella stretta finale della trattativa».
Fatto sta che Cuperlo fa notare che «è impossibile proseguire con l’elegante retorica del Bruto è uomo d’onore», perché «non è dato in natura un governo che non abbia un sostegno visibile e convinto del primo partito della coalizione. E non basta la formula “ok se fa bene, se no si stacca la spina”. Di fronte al rischio di un logoramento progressivo del governo, sarebbe saggio valutare le ragioni non di un rimpasto, ma di una vera ripartenza, verificando l’ipotesi di un nuovo esecutivo presieduto da Letta per un recupero di autorevolezza e prestigio». Ci pensa Fassina ad usare toni più tranchant, perché «questo governo sembra figlio di nessuno e non esiste che un governo sia sostenuto da chi ha perso il congresso».
L’incredibile ritorno del Cavaliere
di Marcello Sorgi (La Stampa, 16.01.2014)
Qualche anno fa, parlando di ben altri personaggi come Fanfani e Andreotti, si sarebbe detto: rieccolo! La grande sorpresa del nuovo anno appena cominciato, infatti, è il ritorno di Berlusconi. Condannato definitivamente ad agosto 2013 dalla Cassazione, espulso dal Senato a novembre per effetto della decadenza prevista dalla legge Severino, e in attesa di sapere se dovrà scontare la pena agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, il Cavaliere è stato riportato in scena, nientemeno, da Renzi, che ieri ha reso esplicito, alla sua maniera spiccia, quel che da giorni era nell’aria: l’intenzione, cioè, di chiudere con il leader di Forza Italia un accordo sulla nuova legge elettorale.
Certo, ci vuole coraggio. Chi si ricorda come andò a finire 16 anni fa, all’epoca della Bicamerale, la lunga trattativa tra D’Alema e Berlusconi - conclusa con il famoso «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta e smentito il giorno dopo in Parlamento dallo stesso Cavaliere -, non può non vedere un azzardo eccessivo nel percorso scelto dal giovane segretario del Pd.
La minoranza del partito, tra l’altro con in testa dalemiani e bersaniani, è in subbuglio. L’antiberlusconismo, sopito per la progressiva emarginazione del Cavaliere, improvvisamente s’è risvegliato. La direzione di oggi, convocata ad appena un mese dalle primarie che hanno incoronato il sindaco di Firenze, potrebbe riservare qualche sorpresa, con il Pd pronto a dividersi come ha fatto in tutti i frangenti importanti di questa tormentata legislatura, a cominciare dall’assalto dei franchi tiratori nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.
Ma Renzi non sembra affatto turbato dai mugugni interni del suo partito, né disposto a cambiare idea, privilegiando prima un accordo interno alla maggioranza che sostiene il governo, e solo successivamente la trattativa con Forza Italia. A suo giudizio non basta mettersi d’accordo con Alfano, che in caso contrario minaccia la crisi di governo, e dopo di lui con Monti e Casini. Conti alla mano, il sindaco di Firenze spiega che la maggioranza di governo, al Senato, può contare solo su sette voti di vantaggio: otto senatori dissidenti basterebbero ad affossarla. Di qui l’insistenza sulla necessità di assicurarsi anche l’appoggio del Cavaliere.
Ma le ragioni vere che spingono Renzi ad accelerare, anche a rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, come capitò a suo tempo a D’Alema, sono due. La prima, sembra incredibile, è che il segretario sente più aria di fregatura dalle parti di Palazzo Chigi, che non da quelle di Palazzo Grazioli. Lo ha detto chiaramente che lui e Letta non si prendono e il presidente del Consiglio non si fida. Inoltre, avendo scommesso sulla sua capacità di realizzare le riforme, a partire proprio da quella elettorale, non può permettersi di fallire al primo esordio.
La seconda è che il Berlusconi di oggi non è quello di ieri, e nei panni in cui si trova dovrebbe pensarci quattro volte prima di portare in giro Renzi, per buttarlo fuori strada all’ultima curva. Ridotto com’è ridotto, il Cavaliere in sostanza ha davanti l’ultima vera occasione di rientrare al centro del gioco, persa la quale, il suo destino politico e quello giudiziario non potrebbero che coincidere.
Resta da capire se una strategia come questa, specie se messa in pratica con il metodo e alla velocità di Renzi, porterà alla crisi di governo, perché Alfano e gli altri partners di Letta non accetteranno di farsi scavalcare, o se invece alla fine produrrà una nuova legge maggioritaria e bipolare e un riordino delle forze politiche, magari con la riunificazione dei due tronconi separati del centrodestra e con l’archiviazione conclusiva di ogni ipotesi centrista. Nell’un caso e nell’altro, va detto, il rischio di elezioni anticipate torna ad essere alto. Anche per questo nei prossimi giorni sarebbe utile, necessario, forse perfino indispensabile capire cosa davvero passa per la testa di Berlusconi. In altre parole: Cavaliere, se ci sei, batti un colpo!
Atto d’accusa. Salvatore Borsellino:
“Dal Csm un preoccupante schiaffo a Di Matteo e ai pm”
intervista
di Sandra Rizza (il Fatto, 22.12.2013)
Palermo Salvatore Borsellino, l’associazione culturale Libertà e Giustizia, presieduta da Gustavo Zagrebelski e Sandra Bonsanti, definisce “indecorosa” la trasferta del Csm che venerdì a Palermo ha snobbato Nino Di Matteo e il pool della trattativa, e sostiene che il risultato è l’esatto contrario di quello declamato: nessuna solidarietà ai pm minacciati da Cosa nostra. Lei che ne pensa?
Altro che trasferta indecorosa. È stato uno schiaffo vero e proprio ai pm della trattativa Stato-mafia, uno sgarbo istituzionale estremamente grave. L’opinione pubblica dovrebbe reagire.
Ora Libertà e Giustizia chiede che il Csm ripari a questo “gravissimo errore istituzionale” con una dichiarazione pubblica di sostegno al pool della trattativa. È d’accordo?
Sì, ma questa vicenda è una farsa. Ho letto che Vietti a Palermo ha dichiarato: “Se Di Matteo fosse qui, l’avrei abbracciato”. Ma che vuol dire? Di Matteo doveva passare di lì per caso? Se voleva abbracciarlo, perché non lo ha chiamato nell’aula magna dove avvenivano le audizioni? È ridicolo. È la farsa dentro la tragedia. Quello che spero è che ora almeno il Csm archivi al più presto il procedimento disciplinare su Di Matteo, accogliendo la richiesta del pg Gianfranco Ciani. Voglio ricordare che anche mio fratello Paolo fu sottoposto a procedimento disciplinare del Csm prima di essere ammazzato.
Totò Riina dal carcere viene intercettato in diretta mentre ordina un attentato contro Di Matteo. E l’allarme ignorato del ministro Alfano ricorda quello di Scotti, all’inizio del ’92, che fu disatteso in Parlamento dopo che Andreotti ne sminuì la portata con una battuta. Eppure in quell’occasione Scotti aveva visto giusto. Si ripropongono nel Paese scenari già vissuti?
Sì, sento un’aria troppo simile a quella degli anni Novanta. Sono in ansia per Di Matteo, isolato delle istituzioni e delle minacce di Cosa nostra. Ho le stesse paure che avevo vent’anni fa per mio fratello e che poi purtroppo sono state tragicamente confermate. Ma su Alfano, facciamo attenzione: non dimentichiamo che è un allievo di Berlusconi, che ha fatto sempre una politica di annunci fasulli. Quando nei giorni scorsi è venuto a Palermo, Alfano mi ha detto che aveva già concesso il bomb-jammer a Di Matteo. Era una menzogna.
Antonio Ingroia sostiene che “in un momento come quello attuale, un attentato mafioso avrebbe l’effetto di stabilizzare il governo delle larghe intese, soprattutto quando c’è un vicepremier come Alfano che dice di essere dalla parte della magistratura”. Condivide?
Non posso non essere d’accordo. Il nostro è un momento di assestamento politico, e la storia recente del nostro Paese ci insegna che, proprio in momenti come questi, le stragi sono servite a orientare gli equilibri istituzionali.
Come valuta l’atteggiamento di Napolitano che, durante la Cerimonia dello scambio degli auguri di Natale, si è limitato a esprimere una generica solidarietà ai magistrati vittime di minacce, senza mai nominare Di Matteo o i pm della trattativa?
Non mi stupisce. L’ho detto varie volte e lo ripeto: Napolitano è il garante di quella trattativa Stato-mafia, sulla quale oggi è in corso un processo che si vuole fermare.
Come è possibile che nel Paese delle stragi Falcone e Borsellino, Di Matteo - il nemico numero uno del capo della mafia stragista - sia diventato un “innominabile”?
È possibile proprio perché abbiamo un capo dello Stato che da più di vent’anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa nostra e le istituzioni.
Attenti all’icona
Benvenuti al circo dell’antimafia
di Nando dalla Chiesa (il Fatto, 21.12.2013)
E allora facciamolo scoppiare, il bubbone. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca.
Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire.
Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate - ‘ndrangheta, camorra, mafia ma ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona.
Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato...) ; ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto.
COSÌ IL PUBBLICO milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia.
E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io...), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra.
Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno...). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli.
Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare...) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali.
CHE COSA sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un’accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili.
I riflettori che essi invocavano avevano - come oggi per Di Matteo - la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta.
Lettera al Presidente
Di Matteo, nemico della mafia e inviso allo Stato
di Angelo Cannattà (il Fatto, 21.12.2013)
Ci sono cose che si sanno ma delle quali non si ha piena consapevolezza. Un esempio: a) Sappiamo che Totò Riina “vuole la morte” di Nino Di Matteo; b) Sappiamo che lo stesso magistrato è sotto procedimento disciplinare al Csm; c) Abbiamo capito (anche) l’indecenza della coesistenza di questi fatti? L’intervista di Travaglio a Di Matteo evidenzia la dimensione umana del magistrato: “Se mi guardo intorno e rifletto, mi dico che non vale la pena sacrificare tanti momenti di libertà miei e delle persone che mi stanno accanto. Poi però prevale la passione per la bellezza del lavoro di magistrato”. La bellezza. È la parola che mi ha colpito di più. Siamo di fronte a un uomo minacciato di morte. Eppure parla della bellezza del suo lavoro. Si può sorvolare su una frase così?
Soprattutto: si può non capire (ancora) che un uomo così è sotto procedimento disciplinare al Csm? Il Presidente della Repubblica è contestato da tempo - anche da chi scrive - per molte prese di posizione. Improvvisamente mi è apparso chiaro, tuttavia, che la sua colpa maggiore è diametralmente opposta: il silenzio. Non mi riferisco alla Trattativa Stato-mafia. Penso al silenzio, assordante, sulla tragica situazione vissuta da Di Matteo.
Insomma, non c’è dubbio che Di Matteo debba sottostare alla legge scritta (e al procedimento disciplinare del Csm) ; è altrettanto vero, però, che questo procedimento è vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani.
Che cosa ha fatto di così grave Di Matteo? Nulla. Mi si “accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate... fra lui e Mancino. È la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista”. La prima volta. E la si esercita, pensate un po’, contro chi da vent’anni lotta la mafia, rischia la vita, è al primo posto nelle premurose attenzioni di Toto Riina. Situazione tragica e assurda. Perché il magistrato espone se stesso al pericolo per difendere la legge; e la legge - un certo modo da azzeccagarbugli - lo persegue, delegittimandolo.
Presidente Napolitano - lo dico col massimo rispetto - è sicuro che non possa far nulla per sanare una situazione così anomala? Pensa davvero che tenere “sotto procedimento disciplinare” (per un’intervista), un magistrato che Riina vuole uccidere, dia lustro allo Stato? Ritiene che i fatti qui evidenziati aumentino la fiducia nelle Istituzioni? E sicuro, Signor Presidente, che Lei non debba adesso, subito, senza indugio, far ritirare quell’“atto di incolpazione”?
Si può servire lo Stato in mille modi, anche favorendo le non condivisibili larghe intese. Ciò che non è possibile è chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: e l’evidenza qui è la “non colpevolezza” di Di Matteo. Quale “colpe” si vogliono trovare, da parte di quali giudici, di quale corte, se - in realtà - l’imputato è innamorato della “bellezza del suo lavoro” nonostante la condanna a morte decretata da Riina. Ci pensi, Presidente. Eviti che il magistrato Di Matteo venga percepito da tutti - con plastica evidenza - come perseguito, contemporaneamente, dalla mafia e dallo Stato.
Nelle nebbie della seconda Repubblica: Diario di un naufrago
Nel testo di Crainz il ritratto di un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo
di Oreste Pivetta (l’Unità, 18.12.2013)
LA CRONACA DEGLI ULTIMI DIECI ANNI POTREBBE APRIRSI SULLA SCENA DI PIAZZA NAVONA, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici?
Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
LA CRITICA AL PD
Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese.
Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
LA MALATTIA DEL BELPAESE
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?
Asse 5 Stelle-FI contro il Quirinale
Napolitano: “Parlamento legittimo”
Il Colle risponde alla critiche di FI e M5S: «Lo Stato deve sopravvivere».
Ma Brunetta lo attacca: «Non ha né poteri né competenze al riguardo» *
Roma. «Le Camere pienamente legittime». Il presidente della Repubblica da Milano replica all’asse M5S-Forza Italia contro i «parlamentari abusivi» dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato il Porcellum.
Neanche il tempo di raggiungere Roma e si materializza l’inedita alleanza tra Berlusconi e Grillo. L’obiettivo di entrambi è quello far cadere il Governo e tornare alle urne al più presto.
«Spero che tutti dimostrino sensibilità per gli interessi del Paese», avverte profeticamente il capo dello Stato dando forma alle proprie preoccupazione sulla tenuta del Governo alla vigilia delle primarie del Pd e a pochi giorni dalla fiducia all’esecutivo. A guidare le danze dell’attacco al Colle è ancora una volta Beppe Grillo che oggi ci va giù duro: «Napolitano dal Quirinale non lo smuove nessuno e il fatto che sia stato eletto due volte con il Porcellum e sia un presidente incostituzionale al quadrato non lo turba, Sciolga le Camere e se ne vada», ha tuonato l’ex comico.
Fin qui è quasi routine: quel che si osserva con attenzione al Quirinale è invece la strada che intende prendere Silvio Berlusconi nel suo nuovo ruolo di opposizione. Per adesso a fare la voce grossa contro il Quirinale ci pensa Renato Brunetta che si allinea a M5S nella vivacità del linguaggio. «A forza di sopperire e sostituirsi sta completamente scardinando la Costituzione», ha detto l’ex capogruppo alla Camera del Pdl. E ha aggiunto: «non ha poteri né competenze circa la legittimazione del Parlamento e non spetta al Quirinale - aggiunge - interloquire sulla validazione degli eletti e la completa composizione delle aule».
Ma che aveva detto Giorgio Napolitano da suscitare la nuova reprimenda di Grillo-Brunetta? Il capo dello Stato, conversando con i giornalisti, aveva spiegato di aver letto bene gli interventi di due professori quotati in materia. «Apprezzo molto la risposta di Zagrebelsky oggi e di Onida ieri: gli argomenti dal punto di vista politico e istituzionale sono inoppugnabili e vanno nella direzione opposta” di chi dice che il Parlamento è delegittimato, si era limitato ad osservare il presidente. Gustavo Zagrebelsky al quotidiano `La Repubblica’ aveva sottolinea come «lo Stato sia un ente necessario e l’imperativo la sua sopravvivenza per non cadere nel caos». E che «perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla repubblica o dallo zarismo al comunismo». Convinto della legittimità del Parlamento anche Valerio Onida, ex presidente della Consulta, che ieri dalle pagine di alcuni quotidiani aveva detto: «la pronuncia di incostituzionalità colpirà la legge elettorale, non gli atti che hanno condotto alla formazione delle Camere».
Netta la difesa del capo dello Stato venuta dal Pd: di «attacchi scomposti e volgari» ha parlato il capogruppo alla Camera Roberto Speranza spiegando che «quando populismi ed estremismi di saldano contro tutte le istituzioni nasce un vero e proprio partito dello sfascio. E l’alleanza tra Grillo e Berlusconi è una miscela esplosiva che può fare molto male all’Italia”.
* La Stampa. 08/12/2013
NOTE DI PREMESSA SUL TEMA:
di Roberto Napoletano (Il Sole-24 Ore, 01.12.2013)
A portare Platone in prima pagina sulla Domenica del Sole è il genio didascalico di Giovanni Reale. Il giorno dopo il suo allievo e successore, Roberto Radice, in un’aula della Cattolica di Milano, si rivolge a un gruppo di studenti e formula la seguente domanda: «Chi ha letto il pezzo di filosofia sul Domenicale?». Radice non attende risposte e chiosa: «Chi non legge il Domenicale è un pirla». Per capire fino in fondo che cos’è la Domenica del Sole, ribattezzata dai suoi affezionati lettori Domenicale, bisogna partire da qui. L’Accademia italiana e i giovani. Vittore Branca e un quarantenne prefetto della Biblioteca Ambrosiana che risponde al nome di Gianfranco Ravasi. Ludovico Geymonat, filosofo della scienza e marxista, che dice a Cossutta di avere trovato sulle pagine della cultura del Sole «il mio luogo di libertà», una giovanissima Elena Loewenthal che scrive di cose ebraiche, e un Federico Zeri che attribuisce alcuni dipinti di Assisi alla mano di Cavallini e non di Giotto.
I pesi massimi Eugenio Garin, Giovanni Pettinato, Alvar González-Palacios e le "giovani scoperte" dell’epoca Massimo Firpo, Carlo Ossola e Angela Vettese, critici teatrali e cinematografici del calibro di Renato Palazzi e Roberto Escobar. L’ironia amara di Peppo Pontiggia: «I narratori dovrebbero realizzare l’unica etica che appartiene a loro, l’etica del racconto. Potrà apparire cinica, tragica, disperata. Ma l’occhio che guarda il male è più prezioso di quello che si chiude» (18 aprile 1999). Tutto ciò, e molto altro, festeggia questa settimana il suo trentesimo compleanno. Un patrimonio che si riconosce nelle sue firme storiche e in tante altre che individua e alleva di settimana in settimana. Noi ci siamo portati avanti e abbiamo cominciato a festeggiare poco più di due anni fa quando abbiamo caparbiamente voluto restituire alla Domenica del Sole la forza espressiva del suo certificato di nascita, fatto di un formato tradizionale che combina in un unicum inscindibile testi, foto e disegni che appartengono alla storia della cultura italiana.
Un unicum, concepito e realizzato da un giornale finanziario, che è diventato materia di studio per tante tesi di laurea. Ne avvertiamo il peso e la responsabilità, c’è da custodire qualcosa che merita rispetto e unisce antico e nuovo. La mescolanza tra lettere e scienza, ma ancora di più tra i mille saperi della cultura, nessuno escluso, resta il principio guida, la base su cui poggiare la sfida culturale per eccellenza: aiutare questo Paese a riconciliarsi con il suo (grande) capitale dimenticato. Prima il Manifesto, poi due edizioni degli Stati generali della cultura, un nuovo indice elaborato dagli esperti del Sole 24 Ore che misura come il brand Italia perda terreno nel mondo. Non ci stancheremo mai di ripetere che la cultura, per come la intendiamo noi, arte, musei, lettere, ma anche ricerca scientifica e tecnica, innovazione e università, moda e design, talento della manifattura e dell’artigianato, deve essere collocata al centro della politica economica di sviluppo e di internazionalizzazione.
Sappiamo che la consapevolezza nella coscienza del Paese è aumentata e crediamo, in questo, di poter rivendicare un piccolo merito. Faremo la nostra parte selezionando e formando con una primaria banca i progetti giovanili di innovazione culturale che riterremo più convincenti e con un sito bilingue che si propone di ricordare al mondo il patrimonio italiano, i suoi talenti spesso abbandonati a se stessi, la forza e la suggestione di una bellezza e di un’identità uniche. Non ci rassegniamo all’idea che a tutto ciò si debbano negare non solo le risorse pubbliche (non ci sono) ma anche quegli stimoli fiscali (detraibilità e credito d’imposta per chi investe in cultura) che permetterebbero di attrarre risorse private, italiane e estere, necessarie per valorizzare un grande capitale dimenticato. Per non parlare dei vincoli che rischiano di soffocare istituzioni di qualità che ci si ostina a considerare come un ufficio dell’anagrafe e non per quello che sono: aziende culturali che reclamano (pensate) la libertà di muoversi sul mercato degli investitori.
Ricordo l’entusiasmo degli occhi e il sorriso sornione con cui Vincenzo Cerami accoglie la mia proposta di inventarsi critico cinematografico della Domenica e di regalarci un elzeviro al mese. Gli piace (tanto) l’idea di entrare nell’Accademia italiana e ci scherza su, a modo suo, con l’umiltà del grande cronista autore di Un borghese piccolo piccolo e sceneggiatore de La vita è bella, senza mai perdere la capacità di cogliere i segreti di uomini e donne e di restituirti luoghi, fatti e persone mai in posa. Anche per uomini come lui che non ci sono più (quanto ci manchi Vincenzo) vale la pena di impegnarsi perché la Domenica del Sole resti la bandiera di un’Italia che vuole (deve) riconquistare il suo primato culturale nel mondo chiedendo solo di non essere ostacolata e di potere contare su una parità di incentivazione fiscale con Paesi (molto) meno ricchi culturalmente e (molto) più lungimiranti.
Il duce semidio e l’amnesia italiana
La storica assenza nel paese di anticorpi verso gli avventurieri
di Franco Cordero (la Repubblica, 28.11.2013)
Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista.
Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio.
Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro.
Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando.
Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse».
Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi.
A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale.
Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti.
L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte.
Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i conti Benedetto Croce.
Silvio Berlusconi e’ fuori dal Parlamento. L’aula del Senato vota per la decadenza
’E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia’, aveva detto Berlusconi parlando alla folla di sostenitori che si sono riuniti nel pomeriggio davanti a palazzo Grazioli *
Il Senato ha dichiarato decaduto Silvio Berlusconi da senatore. Lo ha annunciato in Aula il presidente Grasso subito dopo che l’Assemblea aveva respinto tutti e nove gli ordini del giorno presentati.
"Essendo stati respinti tutti gli ordini del giorno presentati in difformità dalla relazione della Giunta per le Immunità che proponeva di non convalidare l’elezione di Berlusconi la relazione della Giunta deve intendersi approvata". Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso confermando la decadenza del Cav da senatore. A prendere il posto di Silvio Berlusconi al Senato è il primo dei non eletti in Molise per il Pdl Ulisse Di Giacomo.
"E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia": cosi’ Silvio Berlusconi aveva parlato in piazza del Plebiscito a Roma ai suoi sostenitori.. ’’Il Senato di sinistra con il suo potere ha ordinato al tempo di fare freddo’’, aveva detto Berlusconi aprendo il suo comizio davanti palazzo Grazioli. La magistratura vuole "la magistratura via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese", aveva aggiunto Berlusconi ai militanti di Forza Italia a via del Plebiscito. "Quando la sinistra non è al potere la magistratura fa di tutto per farla tornare al potere". ’’Noi siamo moderati. Si sono scagliati contro questa manifestazione ma vogliamo tranquillizzarli: questa è una manifestazione legittima e pacifica’’.
’’La sentenza sui diritti Tv è una sentenza che grida vendetta davanti a dio e agli uomini’’: così Silvio Berlusconi nel suo comizio in via del Plebiscito. Quella sentenza, ha aggiunto, ’’è basata solo su teoremi e congetture e su nessun fatto o documento o testimone’’. "Sono assolutamente sicuro che il finale di questi ricorsi sarà il capovolgimento della sentenza con la mia completa assoluzione", ha detto Berlusconi ai militanti di Fi a via del Plebiscito ribadendo la volontà di presentare domanda di revisione del processo Mediaset.
’’Non ci ritireremo in qualche convento, noi stiamo qui, restiamo qui, resteremo qui’’: così Silvio Berlusconi dal palco. "Nessuno di noi può stare più tranquillo sui propri diritti, sui propri beni e la propria libertà. E allora restiamo in campo. Non disperiamoci se il leader del centrodestra non sarà più senatore: ci sono altri leader di partito che non sono parlamentari e mi riferisco a Renzi e Grillo che dimostrano che anche da fuori si può continuare a battersi e combattere per la nostra libertà". Lo ha detto Silvio Berlusconi al comizio davanti a Palazzo Grazioli. ’’Oggi brindano perché sono riusciti a portare l’avversario davanti al plotone d’esecuzione: sono euforici, lo aspettavano da venti anni... ma non credo abbiano vinto la partita della democrazia e della libertà’’: così Silvio Berlusconi.
"Ci diamo un appuntamento preciso: l’8 dicembre ci incontriamo per festeggiare i primi mille club che si stanno fondando in Italia": cosi’ Berlusconi ai militanti di Forza Italia che manifestano a Via del Plebiscito.’’Altri se ne sono andati... ma noi siamo rimasti qui, siamo sicuri di essere la parte giusta, sicuri che non tradiremo mai i nostri elettori’’, ha detto il Cavaliere che ha fatto un implicito riferimento ad Alfano e al Nuovo centrodestra. La folla ha rivolto un lungo buuuuu agli alfaniani e il Cavaliere ha chiosato: "Interruzione ruvida ma efficace".
Secondo gli organizzatori della manifestazione di Forza Italia in Via del Plebiscito, i militanti presenti erano 20 mila.
I senatori di Forza Italia hanno cominciato a invocare il nome di Silvio Berlusconi nell’aula del Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla sua decadenza. Dopo l’intervento di Annamaria Bernini, i senatori di Forza Italia si sono tutti alzati in piedi, gridando ’Silvio, Silvio’, ritmando il nome con il battito delle mani.
"L’ex premier italiano Silvio Berlusconi è stato espulso dal Senato". La notizia della decadenza del Cavaliere fa in una manciata di minuti il giro del mondo e irrompe come "breaking news" sui siti dei principali media internazionali: dalla Bbc al Wall Street Journal, dalla tedesca Faz allo spagnolo El Pais.
“Napolitano mi dia la grazia
io non la chiederò mai”
Berlusconi: “La decadenza un colpo di Stato”. Ma non parlerà in Aula
di Ugo Magri (La Stampa, 24/11/2013)
Roma Berlusconi ci ripensa, forse rinunzia a pronunciare in Senato l’ultimo disperato fiammeggiante discorso della sua carriera parlamentare. Si va convincendo che presentarsi mercoledì in aula, e rovesciare contro la magistratura tutto quanto gli passa per la mente, sarebbe un doppio boomerang. Suonerebbe come provocazione sfrontata nei confronti delle Procure, specie di quelle che un’ora dopo potrebbero spiccare un mandato di carcerazione domiciliare.
Già non mancano i rumors, specie da Milano come effetto dell’inchiesta «Ruby ter». Andarsi a cercare il martirio, per quanto invocato dai pasdaran, non è gesto compatibile con gli interessi aziendali in gioco. Ma c’è dell’altro. Il Cavaliere riflette sull’immensa vergogna che gli causerebbe l’espulsione fisica dal Parlamento. Berlusconi rischia, una volta passata la decadenza, di essere allontanato dall’emiciclo come un intruso, in base alla spietata formula: «Preghiamo il dottor Berlusconi di uscire dall’aula per consentire la prosecuzione dei nostri lavori». Le immagini dell’ex-premier che guadagna furibondo l’uscita, magari accompagnato dagli sberleffi della sinistra e dal ludibrio dei Cinque stelle, forse addirittura (questo si spingono a ipotizzare certi «berluscones» nel delirio delle ultime ore) con i carabinieri in attesa giù davanti al portone, farebbero all’istante il giro del mondo segnando, esse sì, il crepuscolo di un’epoca...
Dunque al momento, quando il conto alla rovescia segna «meno tre giorni», e ormai tutti danno scontato che il 27 pomeriggio si voterà sulla decadenza senza ulteriori «traccheggiamenti» (come li definisce il presidente del Senato Grasso), l’orazione berlusconiana contro la giustizia ingiusta sembra destinata ad altre platee. Tipo quella dei giovani forzisti, che all’Eur hanno udito il Cavaliere lanciarsi nell’elogio del mafioso Mangano, «un eroe» perché non accettò di chiamarlo in causa a Palermo (diversamente dall’ex senatore De Gregorio «convinto dai pm di Napoli ad accusarmi»). I giovani «falchi» sono rimasti interdetti dalla definizione del «Corsera» quale «organo della Procura milanese».
Ma hanno convenuto con Silvio che sarebbe «ridicolo» scontare i servizi sociali da Don Mazzi «il quale dice “Presidente, venga a pulire i cessi qui da noi”, credete che io possa umiliarmi così?». E infine, sono stati testimoni del primo minaccioso attacco al Presidente della Repubblica. Berlusconi (ecco la novità) ormai lo sfida pubblicamente. Napolitano, alza la voce, «non dovrebbe avere un attimo di esitazione a dare, senza che io presenti la richiesta, in quanto ho la dignità di non chiederla, un provvedimento di grazia». L’ex-premier sa che il Capo dello Stato mai lo farà a comando (e forse nemmeno dietro cortese domanda). Ma in realtà Berlusconi non mira alla clemenza presidenziale. Semplicemente, dicono i suoi, vuole marcare l’addio al Parlamento con un rombo assordante di tuono, intende sottoporre la Repubblica a uno stress senza precedenti. Non a caso già grida al «golpe» e minaccia con toni giudicati eversivi dal Pd: «La sinistra non pensi che il colpo di Stato si realizzi senza una reazione da parte nostra...».
Sembra l’avvio di un’«escalation» che punta a sommergere il Colle, senza risparmiare le altre istituzioni. Ormai espulso dal Parlamento, Berlusconi già si comporta come un leader extra-parlamentare. Manifestazione convocata per mercoledì pomeriggio davanti a Palazzo Grazioli, stavolta senza obiezioni dal sindaco Marino. Sarà una sorta di veglia intorno al leader, ma con l’intento di trasferirsi tutti quanti davanti a Palazzo Madama (cordoni di sicurezza permettendo) qualora alla fine il Cavaliere decidesse ugualmente di presentarsi in Senato. Domani, conferenza stampa per mostrare certe carte in arrivo dagli Usa, annunciate come la prova del fisco americano «che io non c’entro niente» con le società off-shore di Agrama, per le quali gli è piovuta addosso la condanna. Sempre domani, assemblea dei gruppi forzisti, deputati e senatori superstiti, per formalizzare un ormai scontatissimo passaggio all’opposizione.
.Maglia nera nei 27 .Europa, undici bocciature in un giorno .L’Italia campione di indisciplina .Dalla scuola (soprattutto) ai medicinali, una lunga serie di infrazioni: siamo i peggiori .E intanto si aprono altre sei procedure, come quella della gestione dei rifiuti radioattivi
di Marco Zatterin (La Stampa, 21.11.2013)
Un record di cui non si può andare fieri. L’Italia, in appena 24 ore, è stata destinataria di ben 11 infrazioni da parte della Commissione Ue: le procedure riguardano scuola, sanità e ambiente. Tra i rilievi di Bruxelles c’è anche un ricorso alla Corte di Giustizia per il mancato recupero di aiuti di Stato illegali concessi negli Anni 90.
Ne abbiamo mancate 11, questa volta, noi della Repubblica Italiana. Per esempio, non trattiamo i precari della scuola pubblica come gli assunti a tempo pieno, ma siamo anche in ritardo nell’adeguarci alle norme contro la tratta degli esseri umani. I nostri medicinali sono privi della tutela dal rischio falsificazione e i passeggeri che viaggiano in treno non possono contare su un’autorità che tuteli i loro diritti, cosa che invece l’Italia ha promesso a Bruxelles. Per questo la Commissione ci richiama, ci minaccia e in un caso ci manda alla Corte di Giustizia. È successo 11 volte, ieri, in un giorno solo. Roba da primato anche nella storia infinita di un Paese da sempre maglia nera nel recepire il diritto Ue.
I numeri sono contro di noi. L’ultimo rapporto sull’applicazione del diritto comunitarie pone l’Italia in testa alla classifica delle infrazioni, erano 99 alla fine del 2012, comprese 17 procedure da ritardato recepimento. Per fare il confronto, la Francia ha 63 contenziosi aperti, la Germania 61, l’Olanda 41. La differenza è palese, come pure si evince dalle denunce dei cittadini, altra graduatoria su cui il sistema italico svetta: ne abbiamo incassate 438; la Spagna, seconda, è quota 309.
Sono statistiche pessime, eppure stiamo facendo meglio di un tempo. In febbraio il quadro di valutazione del mercato interno segnalava come «degna di particolare nota» la prestazione dell’Italia, capace di ridurre il deficit di recepimento delle normative europee dal 2,4 allo 0,8% in sei mesi. Un passo avanti che impone ulteriori sforzi. «È una priorità accelerare, perché non è sopportabile avere record negativi di infrazioni», ha ribadito a più riprese il premier Enrico Letta. L’impegno è di arrivare al semestre di presidenza italiano di Ue, nel giugno prossimo, con un recupero, netto e consolante.
Sinora ha avuto la meglio la lentezza delle Camere e una qualche disattenzione ad ogni livello per le questioni comunitarie. Il meccanismo della legge omnibus comunitaria ha dimostrato parecchie carenze e solo di recente si è cominciato ad accelerare. Ciò non toglie che il mostro mostri la sua faccia peggiore ogni mese, quando la Commissione apre il dossier infrazioni. Ora ci ritroviamo gli undici «pareri motivati», seconda fase della procedura europea, che guarda caso non vengono da soli. Ieri ne sono state aperte altre sei, con lettere di messa in mora, in teoria confidenziali. Fra queste, secondo quanto risulta a La Stampa, ce n’è anche una per l’inadeguata gestione delle scorie radioattive sul territorio nazionale. Il fantasma di Caorso, per intenderci.
Il resto è una bestiario normativo. Rischia di costarci salato il rinvio alla Corte di giustizia Ue per la mancata esecuzione di una precedente sentenza con cui la Corte confermava che certi sgravi degli oneri sociali concessi alle imprese dei territori di Venezia e Chioggia costituivano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, dovevano essere recuperati presso i beneficiari.
È una questione che risale agli Anni Novanta, soldi sociali erogati a chi non ne aveva diritto. Bruxelles propone una mora giornaliera di 24.578 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza della Corte e la piena conformità da parte dello Stato o la seconda sentenza della Corte. Nonché il pagamento d’una penalità decrescente di 187.264 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza fino all’attuazione.
C’è poi che entro gennaio dovevamo recepire le norme per proteggere i farmaci. Che entro marzo erano da attuare quelle in materia di stoccaggio del mercurio metallico considerato rifiuto. Che abbiamo due mesi per rendere uguale part-time e assunti a tempo indeterminato nella Pubblica istruzione. Che è aperta anche la norma sulla prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.
E via dicendo, così non è forse un caso se stamane il Consiglio dei ministri deve esaminare otto norme di attuazione comunitaria. La tratta degli umani è compresa. Sarebbe una di meno. Un passo avanti, importante non solo in nome dell’Europa.
Quanto costa non essere credibili
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 21.11.2013)
Ciò che colpisce, accanto al numero degli inadempimenti dell’Italia agli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea, è la grande varietà dei campi in cui essi si verificano. Ciò significa che il problema che affligge il nostro Paese è generalizzato e non riguarda questo o quello specifico settore in sofferenza, questo o quel ministero competente.
È quindi lecito domandarsi se non vi sia un problema di fondo nel rapporto tra l’Italia e l’Unione, una certa noncuranza, una certa svogliatezza come atteggiamento generale. Se la lettura delle informazioni fornite ieri dalla Commissione Europea giustificasse una simile conclusione, il commento dovrebbe essere molto amaro. E in effetti l’impressione che se ne ricava è sconsolante. Sconsolante ma non sorprendente.
Anche in altri campi risulta una certa facilità dell’Italia nel sottoscrivere impegni internazionali, salvo poi penare ad adempiere. C’è da chiedersi se, come fanno altri governi, quello italiano segua adeguatamente e preventivamente i lavori preparatori delle varie norme europee. E’ nota la difficoltà in cui, per la mancanza di preventive direttive politiche, si trovano spesso i funzionari italiani che si recano a Bruxelles o a Strasburgo per seguire la preparazione di ciò che diverrà una normativa dell’Unione o una convenzione. In quell’attività, a me è capitato con una certa frequenza, in anni andati, di sentire il collega rappresentante francese o britannico chiedere un rinvio, nel corso della discussione, per l’indiscutibile ragione di «non avere direttive sul punto» e di attendersi di riceverle. Ma una volta ottenuta la direttiva politica ed espresso il voto conseguente, il governo di quel funzionario avrebbe senza discussione o tentennamenti data esecuzione a quanto convenuto, poiché l’accordoerastatoraggiuntodopoapprofonditavalutazionedell’interesse nazionale e della pratica possibilità di adempiere gli obblighi assunti.
Vi sono poi esempi negativi dell’atteggiamento dell’Italia anche fuori dell’ambito dell’Unione Europea. Fin dal 1988 l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura impegnandosi a introdurre tale gravissimo reato nel suo sistema penale. Ma ancora, dopo venticinque anni, non l’ha fatto. Il Comitato europeo contro la tortura l’ha ancora richiamata nel suo rapporto di pochi giorni orsono. Intanto gli atti di tortura che anche in Italia si commettono (in occasione del G8 di Genova, ad esempio) vanno in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, con le pene adeguate alla sua gravità. E l’Italia si espone a una ripetuta e grave stigmatizzazione da parte della comunità internazionale.
Naturalmente le carenze e violazioni rispetto agli obblighi internazionali e, più particolarmente, europei non riguardano solo l’Italia. Ma dal comunicato della Commissione Europea risulta che l’Italia, tra tutti i ventotto Stati membri dell’Unione, è quello contro il quale è stato aperto il maggior numero di procedure.
E poiché i numeri e le statistiche contano, ed anche le classifiche, essere anche questa volta in testa (o in coda) aggiunge a tutto il resto argomenti di tristezza. In Italia, se non l’opinione pubblica, di questi tempi, almeno il governo non lesina dichiarazioni di fede europea. Ma gli sforzi fatti per adeguarsi ai grandi e severi parametri economici imposti dall’Unione non bastano ad assicurare all’Italia la credibilità generale, come Paese. E la credibilità vale come diversi punti di Pil.
Facciamoci del male
La sinistra, B. e la sindrome del “che sarà mai?”
di Furio Colombo (il Fatto, 17.11.2013)
A quanto pare è accaduto qualcosa di strano, pericoloso, forse di mostruoso a sinistra. Sentite:
“Una metamorfosi psicologica prima ancora che ideologica ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di purezza morale, capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che avere trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento. Questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato impulso finale con l’avvento di Berlusconi.
Noto con piacere che entra nella lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo ‘resistere’ svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. (...)
La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi vent’anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte di quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi persuaso di vivere sotto il tallone di una dittatura”.
HO CITATO Emanuele Trevi, che recensisce Francesco Piccolo (il Corriere della Sera, 28 ottobre 2013) che ha scritto un libro, molto citato e molto lodato che si intitola Il desiderio di essere come tutti (Einaudi). “Tutti”, ci spiega il saggio-romanzo di Piccolo, sono coloro che non si fasciano la testa per Berlusconi.
Voglio essere preciso. La recensione è cattiva (non una cattiva recensione; cattivo, aggressivo, sprezzante è il sentimento). Il libro è lieve, elogia la spensieratezza, è molto ben scritto, ma con un curioso intreccio tra “lasciatemi in pace” e “purezza”, dove la “purezza” è la pretesa di superiorità della sinistra.
Superiorità su che cosa? Le origini della ricchezza di Berlusconi? Gli amici di Berlusconi? I reati di Berlusconi? Le vanterie private di Berlusconi? Qui mancano dettagli che sarebbero preziosi.
Comunque, letto da uno svedese, Berlusconi, in questo libro, è simpatico, apre e riempie di luce la Reggia di Caserta (così l’autore ricorda la prima apparizione del leader), induce una ragazza, davanti al televisore acceso della notte elettorale e in mezzo alla folla vociante di “menagrami e moralisti” (le parole sono di Trevi, nella recensione, ma il senso è nel libro di Piccolo) a dire, forte, allegra, sorseggiando il suo vino “va bene, che sarà mai, Berlusconi ha vinto le elezioni e governerà, cosa può succedere?”.
Seguendo la narrazione, avete l’impressione che in mezzo alle scenate isteriche e collettive di una sinistra “la cui principale occupazione è stata sempre quella di tracciare confini”, stesse formandosi un piccolo gruppo sereno di persone normali che, Berlusconi o non Berlusconi (che sarà mai), sceglie la vita, la felicità.
Il fatto è che quasi all’istante tutto ciò che restava della sinistra si è schierata con la ragazza “che sarà mai”. Posso testimoniarlo, avendo partecipato a tre legislature: Ero fra i contaminati dalla “purezza”, perché i reati di Berlusconi e il suo prevalere con truffa, evasione, rapporti oscuri (le contiguità e convivenze mai spiegate) compravendita di giudici e senatori, non mi piacevano.
E mi è subito stato detto - prima con bonarietà, e poi con severa esclusione da ogni discorso a nome del gruppo Pds, poi Ds, poi Pd - di smetterla con l’antiberlusconismo viscerale, ovvero ogni “attacco manicheo” ai nostri avversari che, dopo tutto avevano vinto.
La frase chiave del Pds, Ds, Pd (ovvero dei gruppi parlamentari di cui facevo parte) è stata subito “Che sarà mai?” nella nuova e più severa versione: “Non lo vedi che lui ha catturato lo spirito della modernità e voi (menagrami e moralisti) la menate ancora con questa storia della superiorità morale?”.
Quando dirigevo l’Unità (2001-2005) ricevevo una lettera al giorno di autorevoli personaggi che erano stati nella direzione politica prima del Pds, ed erano nella direzione politica dopo la nascita del Pd, con frasi pedagogicamente severe come questa: “Sentir parlare di regime mi fa venire l’orticaria”.
Tutto il resto sull’umore delle gerarchie Pd, irritate da ogni sintomo di opposizione e decise a convivere serenamente con il “regime”, lo trovate nel libro di Francesco Piccolo, da pag. 159 a pag. 261.
Gli argomenti, non la storia, che nel libro di Piccolo è gradevole. Ma gli argomenti me li sono sentiti ripetere quasi alla lettera per un intero periodo di direzione dell’Unità (che evidentemente appariva troppo aggressiva) e per tre legislature. Adesso capisco che il libro di Piccolo è il manifesto della maggioranza di ciò che al momento puoi chiamare, per convenzione (almeno in Parlamento), tutta la sinistra.
Due eventi guastano un po’ la festa Piccolo-Trevi, improvvisata per non dover sentire, neppure da lontano e senza microfono, le voci, ormai in disuso, di “menagrami e moralisti”.
Uno è l’insistenza con cui Stefano Meni-chini, direttore di Europa, vuole sapere chi e come ha organizzato da un momento all’altro l’aggregazione detta “grandi intese” al punto da mettere in scena, compatti, i 101 che abbattono Prodi (che sarà mai) e aprono la strada al governo Letta-Alfano, ovvero Pd-Berlusconi.
L’altra è il grido del presidente della Repubblica che, il giorno della visita del Papa, manda un messaggio, che rivela il peso di una grande tensione. Grida “Dialogo, dialogo, dialogo”, rifacendo, non so se con intenzione, in versione opposta, l’esortazione del procuratore Borrelli di Milano che concluse il suo discorso di commiato con le parole (tanto irrise da Trevi) “Resistere, resistere, resistere”.
Tutto ciò per dire che - tranne Francesco Piccolo e il suo recensore Trevi - “tutti” non sono felici, benché sollevati dalla “superiorità” e dalla “purezza” e, finalmente, alleati di Berlusconi. I leader Pd lottano tra loro (ma ai piani bassi), i militanti sfollano. E gli altri, che si credevano di sinistra, sono incerti, confusi, ribelli senza causa, senza lavoro e senza partito. Si sentono abbandonati in strada come i cani di Ferragosto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Chi ci governa incide sui nostri stati d’animo
Napolitano e il potere sulla nostra felicità
di Ferruccio Sansa (il Fatto 11.11.13)
Presidente Napolitano, presidente Letta, la nostra felicità dipende - anche - da voi. Presi da crisi, moniti, alleanze forse ve ne siete dimenticati. No, non parliamo della felicità come benessere collettivo. Ma dell’aspirazione individuale che ognuno coltiva nel recinto della propria vita. La Dichiarazione di Indipendenza americana riconosce i diritti "alla Vita, alla Libertà e al perseguimento della felicità". Parole, viene da pensare.
Poi ti capita in mano un libro: "Il coraggio della felicità" di Marina Valcarenghi. La psicanalista descrive ciò che spinge i pazienti a suonare alla sua porta: "Quel motivo negletto, di cui ci si vergogna, per il quale ci si sente ridicoli e infantili, e che pure sopravvive con tenacia, relegato in un angolo della mente: "Vorrei essere felice"". Valcarenghi premette: "Come si può prendere contatto con l’inconscio di un essere umano senza sapere dove questo vive... come se fosse segnato solo dal proprio romanzo personale, come se l’analista fosse esonerato dal pensare il mondo... con ciò intendo il diritto, la politica, l’economia, il costume, la cultura che sono alla base della personalità".
Allora viene da chiedersi: come ci sentiremmo se Napolitano concedesse la grazia a Berlusconi? No, non parliamo della sorte della persona. Parliamo della firma del Capo dello Stato su un documento che sancisce l’ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Perché il sentimento di giustizia, la fiducia nella comunità cui apparteniamo, sono fondamentali per la nostra felicità. Come possiamo essere sereni pensando alla Cancellieri, il ministro che dovrebbe garantire la Giustizia e invece pare ispirarsi a principi più particolari che universali?
Pensiamo ad Adro dove il sindaco toglie il cibo ai bambini immigrati e poi è arrestato per turbativa d’asta. Allo scandalo di Roma dove i biglietti dei bus non servono per il servizio pubblico, ma per foraggiare i partiti. Alla Regione Liguria dove quasi metà consiglio è indagato, ma vota bilanci da miliardi.
Tutto ciò induce rabbia, umiliazione. E ostacola la felicità. Certo, poi toccherà a noi definire che cosa essa sia. Valcarenghi la associa a un’altra parola: coraggio. Serve forza per non abbandonare quella ricerca. Aristotele e Seneca hanno tentato definizioni universali. Anche Trilussa a suo modo: "C’è un’ape che se posa sopr’un botton de rosa, l’annusa e se ne va... In fonno la felicità è una piccola cosa". Valcarenghi propone: "Una manifestazione della bellezza che la vita può offrire senza per questo estraniarci dagli altri e da noi stessi". La felicità non dimentica il dolore, la morte, è immersa nel destino comune che ci lega al mondo, alla società.
La felicità dipende davvero da chi governa. Anche questo ne rende enorme il compito. E così gravi le mancanze.
Un insulto a tutta l’Italia
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 7 novembre 2013)
L’uomo che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati.
Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. n
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar.
Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia.
Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico.
Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano.
Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive.
Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare.
C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre.
Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento.
Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo?
In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoi devoti.
Barbara Frank
di Massimo Gramellini (La Stampa, 7 novembre 2013)
I figli di B si sentono perseguitati come gli ebrei ai tempi di Hitler. La fonte della rivelazione è estremamente autorevole: B. In un libro di Vespa, tra l’altro. E allora perché ne parli? (Me lo domando da solo). Per analizzare il meccanismo che ha cambiato l’informazione e un po’ le nostre teste. Funziona così: da vent’anni, quasi ogni giorno, B pronuncia una sciocchezza terrificante, contraria al buonsenso e al buongusto. La sciocchezza ha lo scopo di ribadire l’unica idea forte su cui B ha costruito il suo successo in politica: il vittimismo. Gli italiani adorano i vittimisti.
Perciò un uomo che ha fatto affari con tutti i regimi e tutti i governi adora raccontarsi al suo popolo come il capro espiatorio di un’oscura macchinazione. B come i pellerossa, come gli ebrei, prossimamente come i migranti di Lampedusa. La scempiaggine provocatoria rimbalza sui siti e in tv, suscitando il commento divertito dei comici e quello indignato delle vittime vere. Ci cascano tutti. Ci cascano sempre. Per pigrizia, rabbia, automatismi strani. E la reazione alimenterà nel popolo di B il convincimento che lui sia veramente una vittima.
La tempesta di sabbia sollevata dalle panzane del Grande Incompreso è violenta ma breve, al pari di ogni altra emozione nella civiltà delle immagini. Il giorno dopo è già svanita nel nulla, lasciando un vuoto nevrotico che la prossima sparata provvederà a riempire. È una malattia di cui abbiamo inoculato il morbo. Non so chi perseguiti i figli di B. Ma mi sono fatto un’idea di chi, da vent’anni, perseguita noi.
Smuraglia, Anpi: il 24 in piazza contro la modifica del 138 *
Il presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia invita tutti i cittadini a mobilitarsi il 24 novembre, nelle piazze italiane, per opporsi alla riforma dell’art. 138 della Costituzione. Smuraglia denuncia: «Si vuole togliere l’ultima parola ai cittadini su una norma di garanzia costituzionale» e che «In una situazione di diffusa indifferenza, ci si appresta a compiere uno strappo vero e proprio alla nostra Costituzione».
«Fra poco più di un mese - conclude -, la Camera voterà, in terza ed ultima lettura, le modifiche dell’art. 138 della Costituzione; e se lo farà con una maggioranza che superi i 2/3 non ci sarà la possibilità di promuovere un referendum».
* l’Unità, 06.11.2013
Una violazione macroscopica
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 06.11.2013)
Beppe Beppe Grillo è un formidabile attore e demagogo. Probabilmente anche Masaniello lo era nella Napoli del suo tempo, del 1600. Ma Masaniello non aveva l’elettricità (intendi: microfoni, televisioni, Internet e bambini derivati). Masaniello arrivava a Napoli, Grillo arriva a tutta l’Italia. Poteva essere fermato? Può ancora essere fermato?
L’Italia pullula di giuristi e anche di giuristi davvero insigni. Eppure a nessuno di loro è venuto in mente, a quanto pare, l’articolo 67 della nostra Costituzione, per il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Questa disattenzione è spiegabile? Forse sì, perché le nostre facoltà di Giurisprudenza si sono chiuse in un «formalismo» così introverso da ignorare una norma inserita in tutte le costituzioni delle liberal democrazie europee sin da quando fu stabilita dalla Rivoluzione Francese.
Nelle nostre facoltà di Legge si insegna storia del diritto italiano (come è giusto che sia) ma non si insegna storia del costituzionalismo. Incredibile ma vero. Il risultato è che ai nostri costituzionalisti sfugge che il divieto del mandato imperativo istituisce la rappresentanza politica dei moderni. Perché la rappresentanza esisteva anche nel Medioevo e nell’antichità, ma era appunto una rappresentanza assoggettata al vincolo del mandato imperativo, e quindi di delegati o ambasciatori che presentavano al Sovrano le richieste dei loro mandanti. Il divieto del mandato imperativo è dunque vitale per un sistema di democrazia rappresentativa. Se togli questo divieto la uccidi. E il grillismo costituisce di fatto una violazione macroscopica di questo principio.
Non c’è dubbio che il grillismo sia un movimento politico; e, secondo la dottrina, un movimento che riesce a fare eleggere suoi candidati al Parlamento, è un partito politico. Ma questi eletti hanno titolo per entrare e votare in Parlamento? Secondo l’articolo 67 della Costituzione, no. Perché gli eletti del Movimento 5 Stelle sono appunto vincolati da un mandato imperativo di agire, parlare e votare solo su istruzioni di Grillo e del suo guru; una sudditanza che li obbliga, senza istruzioni, al silenzio o alla inazione.
Come ne usciamo? L’articolo 67 sopracitato suggerisce - mi pare - che questi eletti non possono essere accolti in Parlamento senza prima sottoscrivere uno ad uno il loro ripudio del mandato imperativo. So immaginare gli strilli e i «vaffa» dei grillini e di chi li vota. Il che non toglie che i giuristi della Corte costituzionale non possano ignorare il problema e nemmeno lo dovrebbe ignorare, mi sembra, il presidente della Repubblica. Perché Scalfari ha davvero ragione quando, su la Repubblica di domenica scorsa, dice di temere, con il grillismo, il definitivo sfascio di un Paese già sfasciatissimo.
Verrò ricoperto di «vaffa», ma poco male sarebbe un male minore. Non posso invece dargli ragione sul rimedio del federalismo europeo. È comprensibile che questa tesi sia cara a Barbara Spinelli, figlia di un padre illustre che ne è stato grande animatore. Ma non si è mai visto un sistema federale senza una lingua comune. Nemmeno l’India fa eccezione, perché l’élite che la domina parla l’inglese. Ma vorrei vedere un povero votante italiano al quale vengono sottoposti, per l’elezione federale, candidati finlandesi (dei quali non saprebbe nemmeno pronunziare il nome); e così per una diecina e passa di altri Paesi che parlano per noi un linguaggio indecifrabile. Il federalismo di Bossi per fortuna è morto; e potremmo senza danno (lo sussurro e basta) sopprimere anche le Regioni. Ma lo dico di sfuggita. Una scarica di «vaffa» alla volta.
L’Unità contro l’Anpi, ossia l’imbarbarimento della politica *
di Il Comitato nazionale ANPI (14 Aprile 2016) *
In relazione al commento di Fabrizio Rondolino, pubblicato nei giorni scorsi sull’Unità, dopo la presa di posizione della Segreteria nazionale dell’Anpi, ecco ora un documento del Comitato nazionale dell’Associazione partigiani riunitosi il 13 aprile 2016.
"Il Comitato Nazionale dell’ANPI rileva che ancora una volta siamo di fronte ad un episodio rivelatore dell’imbarbarimento della politica.
I fatti: il Presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, in occasione della sua presenza al Congresso provinciale di Palermo, riceve la richiesta, da un corrispondente de “Il Fatto Quotidiano”, di concedere una breve intervista. Essa si svolge nei tempi rapidi disponibili e il giorno seguente viene pubblicata tale e quale, senza ulteriori commenti e con l’aggiunta di un “profilo” del Prof. Smuraglia, a lato.
Questa semplice pubblicazione provoca l’indignazione del giornalista Fabrizio Rondolino, che scrive un articolo, sull’Unità, chiaramente diffamatorio per il presidente Smuraglia e per l’ANPI; l’articolo viene pubblicato, senza intervento alcuno del Direttore. A quest’ultimo si rivolge la Segreteria nazionale con una lettera, di cui si chiede la pubblicazione.
Il Direttore risponde privatamente cercando di dissipare gli interrogativi posti nella lettera, ma non la pubblica. La lettera apparirà, in seguito, solo sul sito del quotidiano, in cui verrà ospitata anche una sorta di replica di Rondolino, che - senza fare alcun passo indietro - tenta di impartire una vera e propria lezione di “politica” all’ANPI. Viene anche proposta a Smuraglia, dal Direttore, un’intervista (ma su cosa? Per difendersi dagli insulti?), oppure un incontro; soluzioni palesemente improponibili se non precedute da un esplicito e pubblico chiarimento.
Intanto, praticamente tutta l’ANPI (impossibile riportare gli innumerevoli e appassionati messaggi: citiamo per tutti gli ordini del giorno approvati nei Congressi provinciali di Milano, Genova e Roma e i comunicati del Comitato regionale della Sardegna e dei Comitati di Torino, Pisa, Palermo, Reggio Emilia, Varese e Bruxelles) insorge, protesta per l’attacco, non solo al suo Presidente, con cui solidarizza, ma all’ANPI nel suo complesso. Innumerevoli sono le manifestazioni di solidarietà, anche personali, a Smuraglia.
Importante il fatto che alcune di queste come quella che proviene da un Istituto dell’Università di Milano, giungano anche da docenti in dichiarato dissenso rispetto alle opinioni del Presidente dell’ANPI in tema di riforme. Ma l’Unità continua a tacere, non formula scuse per il vergognoso attacco e non pubblica altro.
A questo punto il quadro è chiaro; gli interrogativi posti nel comunicato della Segreteria trovano tutti una risposta evidente. Non si tratta di un episodio casuale; vi è stato e vi è un inqualificabile attacco alla persona del Presidente Smuraglia, per conoscere il quale basta uno sguardo al suo curriculum; ma l’attacco non è di un singolo, è sostanzialmente condiviso dalla testata giornalistica che un tempo fu gloriosa e che ancora si permette di richiamarsi alla figura di Gramsci. Ed è un attacco a tutta l’ANPI.
A tutto questo rispondiamo, con estrema fermezza, che nessuno riuscirà a frenare e tanto meno ad intimidire la nostra Associazione, che procederà per la via intrapresa, quella della difesa e della applicazione dei valori nati dalla Resistenza e trasfusi nella Carta costituzionale, oltreché dei valori morali tipici di una società civile.
Ringraziamo tutti coloro che hanno manifestato solidarietà ed indignazione (non tutti e solo appartenenti all’ANPI), oltretutto perché ci confermano l’idea che sono ancora in tanti a non piegarsi e sottostare al conformismo e al degrado. Lavoreremo, dunque, anche per loro, per risanare l’Italia e per restituirle quella dignità e quella correttezza che troppo spesso appare smarrita.
Perché tutti possano giudicare e valutare, abbiamo pubblicato sul nostro sito, sulla nostra pagina Fb e sull’odierna newsletter l’intervista del Presidente Smuraglia a “Il Fatto Quotidiano”, l’articolo di Rondolino sull’Unità e la lettera della Segreteria nazionale. Non abbiamo pubblicato la risposta del Direttore visto che la stessa Unità ha ritenuto di non farlo. Con ciò, per quanto ci riguarda, la polemica è chiusa. Anche se non la dimenticheremo. Continueremo ad impegnarci nella campagna referendaria e nella intransigente difesa dei valori e dei principi costituzionali, con fermissima determinazione e nella convinzione altrettanto ferma che la dialettica politica debba sempre ispirarsi a criteri e metodi di democrazia e civiltà.
Roma, 13 Aprile 2016
Caso Berlusconi, Anm in campo: “Incandidabilità questione etica”
Il segretario Carbone: l’introduzione della norma per legge dimostra debolezza della politica italiana
«L’incandidabilità di un condannato a una pena definitiva superiore ai due anni «è un principio di etica». Il fatto che ci sia voluta una legge per introdurre questa norma «dimostra la debolezza della politica». È il segretario dell’Associazione nazionale magistrati Maurizio Carbone a porre in questi termini il problema che sta arroventando il clima politico, facendo traballare il governo delle larghe intese.
Nel suo intervento al XXXI Congresso dell’Associazione Carbone non fa mai il nome di Silvio Berlusconi ma il riferimento alla vicenda che lo riguarda direttamente è chiaro: «a stabilire il principio dell’incandidabilità dovrebbero essere i partiti nei propri codici etici» , dice, lamentando come sia proprio l’impotenza della politica a «costringere» i magistrati a interventi di «supplenza», con il risultato di vedersi poi accusati di aver «invaso il campo» altrui.
Il rapporto tra politica e giustizia è il tema centrale della seconda giornata del Congresso del sindacato delle toghe. Il vice presidente del Csm Michele Vietti bacchetta l’una e l’altra parte in un intervento in cui lega all’abolizione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari «l’affievolimento della linea di confine tra giustizia e politica». Basta «invasioni di campo», che «portano con sé il rischio di una generalizzata delegittimazione» dell’ordine giudiziario, dice alle toghe, invitandole a «evitare la tentazione di sostituirsi alla legge» e a «sottrarsi alla logica del conflitto». Ma ce n’è anche per la politica: «si è asserragliata nel Palazzo, gridando ai complotti persecutori»; ora smetta di «fare la predica» «abbandoni gli atteggiamenti vittimistici e faccia il proprio mestiere»: se ritiene che le regole entro cui i magistrati si muovono non corrispondano alle esigenze collettive, le modifichi.
Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato attribuisce al «conflitto che dura da 20 anni» lo stallo sulla giustizia. All’origine per il presidente dei senatori del Pdl Renato Schifani c’è proprio l’abolizione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari: è «impossibile» ora reintrodurlo, ma si può ragionare con «approccio laico» su soluzioni per «bilanciare lo squilibrio che si è creato».
Ma tra i magistrati c’è chi rifiuta si possa parlare di scontro tra toghe e politica: «c’è stata l’aggressione di un potere sull’altro» dice il pm milanese Armando Spataro. E comunque, rispetto alla politica, le colpe della toghe sono «marginali», nel senso di errori limitati a pochi, osserva l’ex presidente dell’Anm Antonio Patrono, che punta l’indice contro quei colleghi che sono passati alla politica «contrapponendosi ai loro stessi accusati». «I magistrati possono e devono partecipare al dibattito politico, ma non sono tollerabili protagonismi, scorciatoie e la ricerca del consenso» dice l’ex consigliere del Csm Ezia Maccora, che pure con la politica non è tenera: «dopo le leggi ad personam speravamo in un cambio di passo, ma il pessimismo è forte». Mentre Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica, lamenta gli «attacchi ignobili» di cui è stata oggetto la sua corrente, che «hanno ignorato la nostra storia e il ruolo essenziale svolto per l’uguaglianza dei cittadini’’.
* LA STAMPA, 26/10/2013
IL FINTO TERMIDORO DI BERLUSCONI
di BARBARA SPINELLI (la Repubblica, 23 ottobre 2013)
SI FA presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: "Il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella" (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra in fiamme alle nostre spalle.
Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo! Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.
La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso "in modo politico": al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano "ha vinto"? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.
O la menzogna su quel che è stato il ventennio. Non la provincia che gonfia il petto in Europa, non l’Italietta di Fellini-Amarcord (memorabile l’uomo accusato d’aver detto: "Se Mussolini va avanti così ... io non lo so ...") ma stando a quel che dice Ernesto Galli della Loggia, "la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni (ha riempito) il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti" (Corriere, 20 ottobre). Solo chi falsifica la storia può credere che questo sia stato il berlusconismo, e non uno Stato-marionetta che ripete, all’infinito, l’incompiuta liberazione del dopo-Mussolini.
Non c’è bisogno della permanenza in Senato del leader, per la messinscena che secondo Gustavo Zagrebelsky sfascia la politica. Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance.
A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.
Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito "truffaldino" il formulario: "Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr), necessari a evitare "l’instabilità politica derivante" da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre". Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.
Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione di sacre unioni che fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al New York Times del 15 ottobre). Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ’93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è la diminutio dei Parlamenti, non degli esecutivi.
Il cosiddetto fiscal compact (Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli. Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie (A Democratic Solution to the Crisis, Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). Il Trattato di stabilità, nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni "automatiche", al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori.
Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una "perdita, un furto della sovranità". In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sue unions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio.
Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche "un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea".
Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, "tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente". Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta di Amarcord: "Se il governo va avanti così ... io non lo so ...".
Londra choc:
"Fra 10 anni dell’Italia non resterà nulla"
La London School of Economics traccia un’analisi a tinte fosche della situazione italiana *
“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà". Così Roberto Orsi, italiano emigrato a Londra per lavorare presso la London School of Economics, prevede il prossimo futuro del Belpaese.
IVA AL 22% SCELTA MIOPE - E le ultime mosse del governo, innalzamento dell’Iva al 22% su tutte, non sembrano la via migliore per invertire la pericolosissima tendenza: "Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile - prosegue Orsi nella sua disamina -, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione".
UN SETTORE DISTRUTTO - Il termometro più indicativo della crisi italiana, secondo orsi, è lo smantellamento del sistema manufatturiero, vera peculiarità del made in Italy a tutti i livelli: "Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse.
Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza, l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa".
RESPONSABILITA’ POLITICHE - Quando si tratta di individuare le responsabilità, Orsi non ha dubbi nel puntare il dito contro la politica: "L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica , che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale.
L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi. L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia".
* ECONOMIAVirgilio, 18/10/13:
http://economia.virgilio.it/diritto/londra-shock-fra-10-anni-italia-non-restera-nulla.html
Il giorno degli sciacalli
Pubblichiamo un brano del primo capitolo del libro di Damilano in uscita oggi
Il lettiano disse: “Salta Prodi, Napolitano avrà il bis e darà l’incarico a Enrico”
di Marco Damilano (il Fatto, 17.10.2013)
La carica dei 101 suona tenero e disneyano, ma questi non sono simpatici cuccioli dalmata, è stato il giorno degli sciacalli al riparo del voto segreto (...) Nei mesi successivi solo una parlamentare ha sollevato la questione nell’assemblea del partito: la deputata Sandra Zampa, portavoce di Prodi. E solo un giovane deputato di Forlì, Marco Di Maio, ha formalmente chiesto con una lettera al segretario Epifani l’apertura di un’inchiesta interna. La reazione? Nessuna risposta. Sono stati i dalemiani, i giovani turchi, i franceschiniani, i fioroniani, i veltroniani, i renziani? Impossibile inseguire le voci e le complicate geografie correntizie del partito (...) Nessuno dei 101 ha sentito nei mesi successivi il bisogno di assumersi pubblicamente la responsabilità del suo gesto, di spiegarlo di fronte ai suoi elettori (...).
“NON ESISTONO i traditori: è un concetto integralista che non condivido. Ed è vergognoso fare una distinzione nelle votazioni tra Marini e Prodi. Quando si è scelto Prodi, al di là delle ovazioni e delle alzate di mano, avrei voluto discutere con quale maggioranza si andava ad eleggerlo, visto che Scelta civica non ci stava e il M5S non si sarebbe spostato da Rodotà. Avremmo potuto votare Rodotà forse, ma nel frattempo la valanga era partita”, ha detto la deputata calabrese Enza Bruno Bossio, dalemiana, in un’assemblea dei deputati Pd qualche settimana dopo il voto per il Quirinale. Ma certo, figuriamoci, non esistono i Traditori, nel girone infernale del Pd. Ci sono però i Dubbiosi. Gli Scettici. I politicamente Lucidi. Come il senatore Nicola Latorre, già braccio destro di D’Alema, due ore dopo il misfatto, uscendo dal teatro Capranica dimostrava una serenità invidiabile e idee molto chiare: “Che succede ora? Che saremo nelle condizioni di completare il lavoro iniziato in questi giorni eleggendo un nuovo presidente della Repubblica... ”. Una deputata, la romana Fabrizia Giuliani, dalemiana, è stata sentita dire all’ingresso in aula: “Se Prodi per caso non dovesse farcela, cambia tutto”. Come lei un’altra dalemiana, la romana Micaela Campana.
Un deputato della corrente di Letta, il campano Guglielmo Vaccaro, è stato ancora più preciso. Incontrando alcuni colleghi il 19 aprile in Transatlantico prima del voto si lasciò andare a una previsione: “Come finisce? Stasera salta Prodi, sarà rieletto Napolitano che incaricherà Letta di fare il nuovo governo”. Nel girone dei Delusi la più delusa di tutti in quella giornata era la dalemiana Anna Finocchiaro, prima stoppata nella corsa verso il Colle dall’attacco di Renzi, poi bloccata mentre stava per parlare per candidare il suo leader D’Alema. Ma delusi, molto delusi erano anche i mariniani (...). E gli uomini di Dario Franceschini. Nel girone degli Speranzosi, almeno in apparenza, si agitavano i sostenitori di Stefano Rodotà. I deputati più giovani, più a sinistra, più spostati su posizioni vicine al Movimento 5 Stelle, che preferivano votare il giurista laico rispetto al cattolico Prodi, ma anche i parlamentari dalemiani. Alla quarta votazione Rodotà aveva raccolto 213 voti, 51 in più del previsto: uno su due, la metà dei 101 aveva votato per lui (...) alla quinta votazione scese a 210, due voti in meno della somma 5 Stelle-Sel che era tornato a sostenerlo, 217 nell’ultimo scrutinio. Insomma, Rodotà fu usato per eliminare Prodi. Nel girone degli Ostili c’erano i gruppi regionali: gli emiliani spingevano per Prodi, i toscani al contrario volevano frenarlo, temevano che con la sua elezione si sarebbe rafforzato eccessivamente Renzi, il suo king maker, preoccupazione che tormentava il presidente della Regione Enrico Rossi. Per fermare o rallentare la corsa di Prodi (e di Renzi) i toscani si riunirono e si consultarono. Il segretario regionale Andrea Manciulli, il numero due della corrente di Dario Franceschini, il pratese Antonello Giacomelli, il fedelissimo di Manciulli Luca Sani, deputato di Grosseto, poi nominato presidente della Commissione Agricoltura della Camera, la deputata di Campiglia Marittima Silvia Velo, bersaniana, che prima delle votazioni confidò ai colleghi, compresi alcuni deputati e senatori leghisti, che lei non avrebbe mai votato per Prodi. E dire che era appena stata nominata vice-presidente del gruppo Pd. Sicuramente ci avrà ripensato e nel segreto dell’urna si sarà allineata alle direttive del partito.
COME i parlamentari del Sud fedeli a D’Alema: il deputato pugliese Michele Bordo, che comunicò la sua ostilità ai suoi capicorrente, poi promosso presidente della Commissione Politiche europee, oppure il molisano Danilo Leva, nominato in seguito responsabile Giustizia del Pd. Tutti si sono sfogati prima del voto sulla scelta di Prodi. Tutti, poi, non c’è nessun motivo di dubitarne e nessuna prova del contrario, avranno certamente obbedito alla linea ufficiale. Ci sono poi quelli che in seguito non hanno dimostrato particolare dispiacere per l’affondamento del Professore per motivi personali (...) Però il senatore bolognese Gian Carlo Sangalli, noto disistimatore della famiglia Prodi (qualcuno dice che il voto per Vittorio Prodi porta la sua firma), di certo non si è messo in lutto. Anche lui ha replicato ai sospetti: “La mia è stata perfetta disciplina di partito”. (...) “Prodi chi? ”, rideva in Transatlantico già il giorno dopo Michele Anzaldi, deputato di prima nomina in quota Renzi, a lungo portavoce di Francesco Rutelli negli anni degli scontri più duri con il Professore.
Domani la manifestazione a Roma per la difesa e per l’attuazione della Costituzione
Quando Calamandrei consacrò il nuovo inizio dell’Italia antifascista
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 11.10.2013)
La Costituzione, un traguardo storico da tutelare Nel famoso discorso che Piero Calamandrei fece nella seduta dell’Assemblea costituente del 4 marzo 1947 c’è, nel finale, un passo severo e insieme commosso che fa riflettere amaramente se si confronta quel passato al nostro presente: «Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne (...). Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene, che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda». Presa a modello nel mondo civile per il suo respiro, il suo coraggio nella tutela dei diritti dei cittadini, la Costituzione non ha avuto una sorte fortunata. La storia non si è «trasfigurata nella leggenda», come sognò il grande giurista. La Carta della Repubblica, il suo Vangelo, ha avuto e seguita invece ad avere nemici implacabili che allora come oggi, soprattutto in questi ultimi vent’anni, seguitano a considerarla «la nemica», un inciampo, un ostacolo da rimuovere, una legge arcaica ritenuta responsabile della mancata modernizzazione del Paese.
Le Edizioni di Storia e Letteratura hanno pubblicato in un aureo libretto quel discorso di Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione (pp. 67, e 9), con un’appassionata introduzione di Carlo Azeglio Ciampi che fa rivivere lo spirito della giovinezza, la fiducia e le speranze di allora, nonostante le inaudite difficoltà dell’«Italia, sfiancata da anni di totalitarismo e di isolamento culturale. (...) Avvertivamo l’impegno e la responsabilità di contribuire con le nostre idee e con il nostro lavoro a restituire dignità all’Italia e a noi stessi».
Le speranze caddero presto. La guerra fredda e l’eterna compromissione nazionale impedirono una rottura radicale col passato. Gli anni 50-60, il periodo del centrismo democristiano, non furono per nulla da rimpiangere, come invece ha sostenuto nel suo discorso in occasione della fiducia al Senato il presidente del Consiglio Enrico Letta. L’epurazione fu una burletta, i fascisti, «i fantasmi della vergogna», come li definì Calamandrei in una sua celebre epigrafe, tornarono a dettar legge in posti di responsabilità, la discriminazione nei confronti della sinistra fu ferrea, gli operai comunisti e socialisti furono isolati nei reparti-confino delle grandi fabbriche, il centrosinistra originario, anni dopo, andò a gambe all’aria alla svelta, i tentati colpi di Stato, come quello del generale De Lorenzo, nel 1964, inquinarono ogni fervore.
Calamandrei - morì nel 1956 - fu profondamente deluso. Definì l’amata Costituzione L’incompiuta , dalla famosa Sinfonia in si minore di Schubert. In effetti istituti fondamentali previsti nella somma Carta tardarono decenni: la Corte costituzionale fu istituita nel 1955, il Consiglio superiore della magistratura nel 1958, le Regioni nel 1970, i codici sono mantelli di Arlecchino, corretti via via da interventi parziali, con l’eccezione del Codice di procedura penale rifatto nel 1988.
Il revisionismo degli anni 90 è diventato la carta vincente di una certa cultura politica del berlusconismo. Scrive Ciampi nella sua introduzione di aver giudicato con ammirazione i propositi dei costituenti di far sì che la Carta avesse come fondamento gli ideali e i valori comuni: «Mi riferisco proprio a quelle stesse soluzioni che oggi una saggistica e una storiografia mediocre pretendono di “rivedere” abbassandole a compromessi, frutto di opportunismo e di scambi inconfessabili». Bisogna tener conto che i costituenti del 1947 erano di livello intellettuale e politico assai alto: Luigi Einaudi, De Gasperi, Moro, Togliatti, Terracini, Dossetti, La Pira, Concetto Marchesi, Di Vittorio, Giorgio Amendola, Antonio Giolitti.
Come dimenticare la famosa costituente della baita di Lorenzago, nel Cadore, dove Roberto Calderoli, Francesco D’Onofrio, Domenico Nania e Andrea Pastore compilarono in 5 giorni (20-25 agosto 2003) 56 articoli della seconda parte della Costituzione che stravolgeva proprio quello spirito unitario del 1947? Furono puniti dagli elettori - esiste anche un’altra Italia - che al referendum del 25-26 giugno 2006 bocciò col 61,32 per cento dei voti quel dissennato progetto di legge costituzionale. Ma anche adesso, in un momento di grave crisi finanziaria, era davvero necessario dar vita a comitati e comitatini, più o meno lottizzati, per proporre riforme costituzionali? Non è sufficiente, per un governo di transizione, preoccuparsi di riformare la grottesca legge elettorale e tentare di risolvere i problemi economici e sociali?
Provoca sussulti rileggere quel testo di Calamandrei del 1947. Spiega, come un buon maestro, spiritoso, tra l’altro, chiaro, le sue idee di Stato e di società, il lavoro, la legalità, i partiti, l’articolo 7, la tutela delle minoranze: «La Costituzione deve essere presbite, deve veder lontano, non essere miope». Dobbiamo fare, disse citando Dante: «come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte». Una Costituzione non deve illuminare la strada soltanto ai presenti ma anche a coloro che vengono dopo, i posteri. Fedeli, infedeli?
Ecco l’amnistia di Napolitano, svuota le celle e salva B.
Il Colle scopre che l’Italia verrà condannata dalla Ue per le carceri affollate (anche per le leggi firmate da lui) e chiede clemenza
Sono già pronti tre ddl salva-Silvio
di Antonella Mascali (il Fatto, 09.10.2013)
La ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri, che per prima, a giugno, lanciò la proposta di amnistia e indulto, respinge l’opinione di chi pensa che in questo modo Silvio Berlusconi si potrebbe salvare dalla condanna per frode fiscale al processo Mediaset. “È una falsa idea, è il Parlamento che decide per quali reati prevedere l’amnistia e non è mai successo che si occupasse di reati finanziari”. Ma se non sarà così, a Berlusconi verrebbe cancellata totalmente la pena per frode fiscale, compresa l’interdizione dai pubblici uffici: l’amnistia, secondo il codice, “estingue il reato e fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie”.
Ovviamente per il leader del Pdl resterebbero in piedi gli altri procedimenti in corso, a cominciare da Ruby, per tipo di reato ed entità della pena. Per quanto riguarda il processo Mediaset, Berlusconi potrebbe cavarsela anche in caso di indulto, nonostante solitamente cancelli la pena principale ma non quella accessoria.
In Parlamento, infatti, ci sono disegni di legge, due al Senato e uno alla Camera, che prevedono proprio il salvataggio del leader del Pdl: in caso di indulto scatta la cancellazione delle pene accessorie temporanee. Un progetto è stato presentato dai senatori democratici Luigi Manconi, Paolo Corsini e Mario Tronti nonché da Luigi Compagna, senatore del gruppo misto. Già nella precedente legislatura, Compagna, come senatore del Pdl, provò a inserire un emendamento “salva Silvio” alla controversa modifica del reato di concussione contenuta nella legge Severino.
Il disegno di legge su amnistia e indulto, presentato al Senato il 15 marzo scorso, prevede l’amnistia per tutti “i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”. Per quanto riguarda l’indulto “è concesso nella misura di tre anni in linea generale e di cinque per i soli detenuti in gravi condizioni di salute”.
Ed ecco la postilla fatta a misura di Berlusconi, per la condanna Mediaset: “È concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte l’indulto”. Un altro ddl fotocopia è a sola firma Manconi-Compagna. Anche alla Camera c’è un progetto di legge che prevede le pene accessorie temporanee indultabili, l’ha firmato il deputato del Pd, Sandro Gozi.
Dunque, se dovesse esserci l’indulto, così come previsto da questi testi, per Berlusconi la pena per frode fiscale sfumerebbe. Non solo quella principale, già ridotta all’osso dal-l’indulto del 2006 (dei 4 anni inflitti ne dovrà scontare solo 9 mesi) ma anche la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici, inizialmente stabilita a 5 anni, ma che, dopo la sentenza della Cassazione, dovrà essere ricalcolata dalla Corte d’Appello di Milano il prossimo 19 ottobre: potrà infliggere da un minimo di un anno a un massimo di tre anni, sulla base della normativa tributaria. L’interdizione sarà definitiva probabilmente entro l’anno, amnistia e indulto permettendo. Berlusconi, già nel 1990 ha beneficiato di un’amnistia che ha azzerato un procedimento per falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla P2 di Licio Gelli.
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Dizionario
L’amnistia estingue il reato. L’indulto condona la pena
L’AMINSTIA estingue il reato (129, 531, 578 Codice Procedura Penale) e, se vi è stata condanna (648 cpp) fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie (672 e succ. cpp).
L’INDULTO condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita della legge (672 e succ. Codice Procedura Penale). Non estingue le pene accessorie (19 cpp) salvo che il decreto disponga diversamente, neppure gli altri effetti penali della condanna. Sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge (articolo 79 della Costituzione).
Lo spirito della Costituzione
di BARBARA SPINELLI
Forse è venuta l’ora di dire in termini chiari che l’imperatore è nudo: in Italia, e in tutti i Paesi dell’Unione europea immersi nella crisi. Non ha più scettro né manto.
E non è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano alla trojka di Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi.
Quel condizionale - saremmo - va sostituito con l’indicativo. L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente.
Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che "esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)". Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.
Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sul Corriere, un mese prima di divenire Premier: "Siamo già oggetto di "protettorato": tedesco-francese e della Banca centrale europea". Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: "Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?" In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?
Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni. Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: "Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo, la sovranità è già ceduta". Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo "immediatamente".
Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che "il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico". Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.
Gli effetti già li vediamo, li viviamo. La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata, motu proprio, la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi. È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli.
Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono "da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo". Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie: cioè delle consorterie, o cricche.
Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri.
Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste. La Carta sta lì a dirci le forme della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente.
Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa.
Prima del voto tedesco, su Spiegel online, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel. Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma - come per Blair, per il Pd - adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta "contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee". Simile la lotta in Italia: il fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.
Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.
* la Repubblica, 02 ottobre 2013
Berlusconi, uno e due, virtuale e reale
di Mons. Giuseppe Casale
in “Adista” - Segni nuovi - n. 30 del 7 settembre 2013
Ma chi è il personaggio Berlusconi, che tiene in agitazione un intero Paese, che suscita accesi contrasti, che mette a rischio la tenuta stessa del governo, mentre ben altri e gravi problemi (crisi economica, disoccupazione giovanile, criminalità organizzata, immigrazione) esigono interventi urgenti e indilazionabili?Non è una domanda retorica. Perché il caso Berlusconi va ben al di là del fatto di cronaca riguardante una persona. È il termometro che segna una grave anomalia nella vita della democrazia italiana.
Si fa presto a descrivere il Berlusconi reale: un imprenditore che ha accumulato un’enorme ricchezza, non si sa con quali metodi; un uomo politico che ha suscitato forti critiche e riserve da parte di tanti onesti cittadini e numerosi interventi della magistratura per una condotta che è apparsa a coloro che indagavano su di lui riprovevole, in contrasto con le leggi dello Stato e l’etica pubblica, sia quando Berlusconi vestiva i panni di uomo di governo sia quando dirigeva, direttamente o indirettamente, le sue aziende. Alla fine di uno dei tanti procedimenti giudiziari che lo hanno visto indagato o imputato è stato condannato in maniera definitiva dalla Cassazione. Non è un perseguitato. È, tecnicamente, un condannato. La sentenza della Cassazione doveva perciò bastare per chiudere questo triste e avvilente capitolo della storia italiana recente.
Non è così. Perché se cade Berlusconi, cade tutta una costruzione pseudo-politica che ha in lui sostegno e spinta propulsiva. Ecco quindi che a fianco del Berlusconi reale c’è il Berlusconi virtuale, quello che ha fatto dimenticare ad un’intera generazione il rispetto delle leggi, della Costituzione e dei poteri dello Stato, assieme alle stesse norme minime di comportamento che vigono in una società organizzata. E che continua ad alimentare suggestioni collettive e un fitto reticolo di interessi. Ci sono ancora milioni di persone che vedono in Berlusconi il “salvatore della patria”, il politico che fa sognare e dispensa dal pensare. Vi sono, inoltre, altre centinaia di persone alle quali Berlusconi assicura potere, posti di lavoro, carriera politica, posizioni di rilievo nell’apparato dello Stato.
E allora la condanna? Per tutte queste persone non conta. È solo il frutto di una magistratura di sinistra che perseguita "l’unto del Signore. Gli insuccessi nel governo della cosa pubblica? Solo la conseguenza di una democrazia che impedisce al “capo” di governare con rapidità e decisione. Bisogna quindi salvare Berlusconi - si dice - perché è stato eletto da milioni di italiani. Come se l’essere eletti comporti non la responsabilità, ma l’impunità. Bisogna salvare Berlusconi, perché - si insiste - altrimenti tutto crolla. È vero. Però crolla una costruzione che non si basa sull’apporto responsabile dei cittadini, ma sulla verbosità, spesso menzognera, di chi pensa e decide per tutti.
Bisogna resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, di accettare gli italici compromessi. Il bene comune non esige l’acquiescenza, il salvacondotto, la tortuosità di pseudo giustificazioni. La condanna di Berlusconi è l’uscita di sicurezza da un populismo mistificatore verso una democrazia sana, costruita ogni giorno con l’apporto intelligente e responsabile di tutti i cittadini. Che ne pensano i tanti cattolici “berluscones”? Non è giunto il momento per fare un serio esame di coscienza e... convertirsi?
* Arcivescovo emerito della diocesi di Foggia-Bovino
L’eversione bianca
di Ezio Mauro (la Repubblica, 27.09.2013)
ADESSO Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare “l’inquietante” strategia della destra, l’“inquietante” tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la “gravità e l’assurdità” di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.
La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l’emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo - istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome - la progressione di un’avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell’impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.
Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l’estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c’è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata.Chi non la combatte è complice.
Qualcuno risponda al ricatto
di Antonio Padellaro (il Fatto, 19.09.2013)
Le domande sono molte. Come possono il presidente della Repubblica e le più alte istituzioni tollerare che un individuo, condannato in via definitiva per aver frodato il fisco, si rivolga da tutti gli schermi alla Nazione intera accusando la magistratura di essere il braccio armato dei suoi nemici politici (peraltro alleati)? Ed è accettabile che lo stesso pregiudicato inciti i propri sostenitori alla rivolta di piazza contro gli organi giudiziari (“reagite, protestate, fatevi sentire”) senza che lassù i garanti della Costituzione si facciano sentire?
Certo è che da ieri sera diventa assurda qualunque ipotesi di concessione della grazia o di pene alternative a chi si è divertito a sputare sulle sentenze e a minacciare i giudici. Come può il Partito democratico restare in maggioranza con il Pdl il cui proprietario resuscita la vecchia Forza Italia con la evidente intenzione di far cadere il governo Letta alla prima occasione propizia (per lui e i suoi accoliti), per poi andare a elezioni anticipate e chiudere la partita? E come può Enrico Letta fare finta di niente, pur sapendo che d’ora in poi avrà il nemico in casa disposto a sfasciare i già malconci conti pubblici per un pugno di voti in più?
Il video vaneggiamento di ieri ha chiarito una volta per sempre l’essenza deleteria delle larghe intese. Create per risolvere i gravi problemi della nostra economia, di problemi ne hanno risolti pochi. Ma come arma di ricatto hanno funzionato eccome.
Del resto, sono vent’anni che la storia è sempre la stessa. Quella di un Paese ostaggio di un signore che ha fondato le sue fortune su comportamenti illeciti e delinquenziali, approfittando dell’assenza di un’opposizione sempre pronta, del resto, a correre in suo soccorso. Adesso il segretario Pd Epifani definisce “irresponsabili e sconcertanti” le affermazioni del pregiudicato. Forse ha capito in quale trappola lui e i suoi compagni si sono cacciati. Forse è troppo tardi.
Agli ordini del Colle
di Antonio Padellaro (il Fatto, 11.09.2013)
Atteso, puntuale il monito dell’uomo del Colle sui “pilastri della convivenza nazionale” da “tenere fermi e consolidare” ha dato la linea ai pd della Giunta del Senato: prendere tempo e perderlo meglio ancora. Con il beneplacito del presidente ‘de sinistra’ Stefàno (Sel), le larghe intese hanno dunque accantonato ogni proposito di votare subito la decadenza di Berlusconi pensando bene di dedicarsi alla più rilassante pratica dei preliminari che si preannunciano lunghi e approfonditi. È vero che solo gli ingenui potevano pensare a una rapida e indolore applicazione della legge Severino nei confronti del condannato per frode fiscale, ma l’intervento di Napolitano lascia francamente sconcertati, pur se scaturito dalla esigenza di tenere in piedi il governo Letta. A questo punto, infatti, c’è da domandarsi se ai 23 membri della Giunta se ne sia aggiunto un ventiquattresimo che conta più di tutti gli altri messi insieme. I berluscones hanno ragione a esultare poiché ieri sera il loro padrone ha dimostrato ancora una volta la forza del suo potere ricattatorio. Quante altre interferenze dobbiamo aspettarci prima che la legge possa essere finalmente rispettata?
«Vogliamo cambiare il Paese ripartendo dalla Costituzione»
Rodotà, Zagrebelsky, Landini, Don Ciotti e Carlassare contro la riforma dell’articolo 138
Il 12 ottobre la protesta in piazza a Roma
di Andrea Carugati (l’Unità, 09.09.2013)
Per il momento si sa che si troveranno in una grande piazza di Roma il 12 ottobre. E che l’obiettivo è riempirla di centinaia di migliaia di persone, un po’ come quella piazza San Giovanni dei girotondi nel 2002. Per stoppare il processo di revisione della Costituzione, innanzitutto. Per dire no alla guerra in Siria e soprattutto per rianimare una sinistra dispersa, che non si riconosce nel Pd e neppure nel M5S, ma che è pure stufa dei fallimenti come l’Arcobaleno e la Rivoluzione di Ingroia.
Alla guida di questo nuovo movimento, che non vuole farsi partito, ma diventare una «massa critica», sono in cinque: Stefano Rodotà, Maurizio Landini e la professoressa Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky e don Luigi Ciotti (gli ultimi due assenti ieri). «Nessuno di noi ha ambizioni politiche», mette subito in chiaro Carlassare, seguita a ruota dal leader Fiom che, quanto a candidature, punta solo a quella per succedere a se stesso alla guida dei metalmeccanici. La folla radunata al centro congressi Frentani di Roma, è quella dei grandi occasioni: sala strapiena, maxischermi, gente in piedi. I reduci non mancano, da Ingroia a Ferrero e Cesare Salvi, Casarini e Agnoletto. Vendola fa un salto, con Fratoianni e Migliore, ma più per un gesto di cortesia: Sel non è in prima fila in questa operazione. «Ma siamo attenti a quello che succede», dice il governatore pugliese. Corradino Mineo e Vincenzo Vita sono i due dem che tentano di fare da pontieri: ma basta che Vita citi il Pd che partono i fischi. E non è un caso che l’applauso più fragoroso arrivi quando Paolo Flores D’Arcais spiega che «come Blair è stato la vera vittoria della Thatcher, così se Renzi sarà l’unica alternativa Berlusconi avrà vinto ancora». Rodotà tra le righe benedice i grillini sul tetto di Montecitorio, e se la prende con chi «li accusa di eversione e intanto cerca di sabotare lo Stato di diritto per salvare Berlusconi». Il riferimento è al Pdl, ma nel mirino ci sono le larghe intese, il governo e anche il Quirinale quando, come dice Guido Viale, «c’è uno scambio tra la manomissione della Costituzione e il tentativo di garantire stabilità a questo governo».
Rodotà non usa giri di parole: «Questa maggioranza non ha legittimità per cambiare la Costituzione. E il governo stesso è figlio di un grave azzardo politico. Il fatto che si stia proponendo una sospensione temporanea del 138 non è un’attenuante. Di sospensione in sospensione non si sa dove si arriva. Chi poi invoca il cronoprogramma sulle riforme istituzionali mi fa sorridere. Qui non si sa neppure se il governo arriva a domani...». «No, non si può più girare la testa dall’altra parte», spiega il Professore, fotografato come una star, «ci vuole coraggio e dobbiamo prenderci qualche rischio: dobbiamo rimettere in moto la politica, che può voler dire anche preparare il terreno per un nuovo soggetto, senza ripetere gli errori della Sinistra Arcobaleno e di Ingroia, come la lottizzazione dei posti».
Per il momento, l’obiettivo minimo è «indurre a un ripensamento» il Pd che vuole cambiare la Costituzione. «La Carta va cambiata, non deve prevalere lo spirito conservatore», manda a dire il premier Letta da Cernobbio. E Rodotà replica tra gli appalusi: «Qui da noi non troverà conservatori, semmai nella sua maggioranza. E se l’obiettivo è cambiare il bicameralismo non c’è bisogno di stravolgere il 138». Insiste Rodotà: «Non saremo una zattera per naufraghi, ma una casa per una sinistra vincente su temi come i referendum sui beni comuni».
«Un soggetto politico? La nostra ambizione è molto maggiore», dice Landini. «È cambiare questo Paese ripartendo dalla Costituzione. Ci sono milioni di persone che non votano più e si sentono sole. Vogliamo costruire un movimento di pressione». Il leader Fiom va ben oltre lo stop alle modifiche alla Carta. «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche», dice dal palco tra gli applausi. «Metteremo in campo gesti di difesa totale delle fabbriche e dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche». «Il lavoro deve avere una nuova rappresentanza politica», incalza il giuslavorista Piergiovanni Alleva.
Dal palco Carlassare parla di un «risveglio delle coscienze» e dice che «a qualcuno fa comodo guidare un gregge ignorante». Flores parla di un «golpe bianco strisciante» in corso e avverte: «Nelle prossime settimane ci giochiamo la chiusura del ventennio berlusconiano. E se la piazza sarà inferiore a quella del 2002 saremo sconfitti». Si parla anche dell’ipotesi di grazia per il Cavaliere, «un insulto alla democrazia», secondo Landini. Ingroia è in prima fila: «Sono con i partigiani della Costituzione».
Rodotà e Landini, il “partito” della Carta
Insieme a don Ciotti, Carlassare e Zagrebelsky danno appuntamento al 12 ottobre: Tutti in piazza a Roma
di Sandra Amurri (il Fatto, 09.09.2013)
Il primo intervento in una sala gremita è di Stefano Rodotà, promotore assieme a Maurizio Landini, don Luigi Ciotti, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky dell’assemblea in difesa della Costituzione “La via maestra” svoltasi ieri a Roma, presieduta da Sandra Bonsanti. “Questa giornata non è una zattera per profughi, e non è la conclusione ma l’inizio di un lungo cammino che avrà come tappa la manifestazione del 12 ottobre a Roma. Le quasi 500 mila firme raccolte da Il Fatto raccontano un forte bisogno di partecipazione. Dobbiamo essere tutti meno autoreferenziali contro il vuoto di una politica appesa ad una dichiarazione che da un momento all’altro può far cadere il Governo”. Per Carla Carlassare l’emergenza è la crisi di valori: “Oggi assistiamo ad un disastro morale, deve tornare in primo piano l’art. 54 della Costituzione: coloro a cui sono affidate pubbliche funzioni debbono esercitarle con disciplina ed onore. Deve emergere la presenza di un’altra Italia che non sta in queste miserie indecenti. Costituzionalismo vuol dire porre limiti e regole al potere e noi siamo qui per imporgliele”. Raniero La Valle cita il digiuno contro la guerra in Siria promosso da Papa Francesco: “Quelle 1000 persone ieri a Piazza San Pietro, in silenzio nella società del rumore, difendevano la Costituzione oltraggiata da governanti infedeli come ricorda l’art. 11 scritto su un capitello: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli....”. Antonio Ingroia ricorda che il piano di Licio Gelli “viene attuato paradossalmente con una maggioranza di governo e il garante della manomissione della Costituzione è il Presidente della Repubblica”. Dice no all’autoreferenzialità, invoca la costruzione di un movimento dal basso, aperto. “Le tante presenze qui oggi, le quasi 500 mila firme de Il Fatto chiedono che venga restituito l’onore alla nostra Carta”. La partita cruciale si giocherà a breve ricorda Paolo Flores d’Arcais “l’establishment ha creato una situazione manichea: due prospettive, affossare la Costituzione come vuole il Governo o realizzarla. La manifestazione di piazza deve essere così grande da determinare un nuovo protagonismo per dare voce ad una politica di realizzazione della Carta”.
NICHI VENDOLA resta fuori dalla sala, rilascia interviste, stringe mani come quella che gli porge con un sorriso una signora arrivata da Taranto: “Ci ha traditi, abbandonati, l’Ilva ci ucciderà tutti”. Vendola spiazzato: “Ci penso sempre” La signora: “Sì ci pensi, mi raccomando” e se ne va. Ad Enrico Letta che da lontano definisce i difensori della Carta “i nuovi conservatori”, senza citarlo risponde Maurizio Landini: “Il 12 ottobre la manifestazione ci sarà a prescindere da ciò che accadrà nel frattempo”. E se c’è chi dice che per uscire dalla crisi bisogna cambiare la Costituzione “noi diciamo che per uscire dalla crisi bisogna applicare la Costituzione. Non vogliamo sostituirci alla politica ma riportare le persone alla politica affinchè i principi costituzionali tornino ad essere la guida del-l’agire. Crediamo che il Paese si possa cambiare rimettendo al centro la partecipazione. Questo è il momento della responsabilità soggettiva, ognuno deve fare ciò che dice”.
Il giudice non risponde agli elettori ma alla legge uguale per tutti
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 05.09.2013)
Nel 2002 il governo Berlusconi d’epoca decise di far scomparire dalle aule dei tribunali la scritta «La legge è uguale per tutti» che poteva intimidire, così aggressiva. Fu sostituita da una frase più morbida e amichevole, «La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano». Gli ignari e i distratti non ci fecero caso, ai pochi che protestarono fu risposto: che cosa c’è da scandalizzarsi? Le sentenze non vengono emesse dai giudici «in nome del popolo italiano»?
Il nodo dell’attuale conflitto sull’agibilità politica di B., inimmaginabile almeno da due secoli in un Paese civilizzato del mondo occidentale, è proprio legato alla sostanziale diversità di quelle due frasette. «La legge è uguale per tutti» è un motto ben chiaro, senza ambiguità. I cittadini, come è scritto anche nell’articolo 3 della Costituzione, forse il più importante della somma Carta, sono uguali davanti alla legge: l’uguaglianza è il fondamento dello Stato di diritto.
L’altra dizione, invece, ha non casualmente il significato opposto trasformando in giudice il popolo, privo di sovranità. È quel che B. e i suoi fedeli vorrebbero anche oggi. Come si può condannare, sostengono infatti, un leader politico, come escludere dal Senato di cui fa parte un capopartito che anche alle ultime elezioni ha ricevuto milioni di voti? Deve essere il popolo, il «suo» popolo, il vero giudice: un giudice amico che l’ha già assolto. Si cancellano in questo modo intere biblioteche di scienza giuridica. La legge è uguale per tutti ma non per B., anche se condannato con una sentenza definitiva a una grave pena dalla Suprema Corte per un’«enorme evasione fiscale realizzata con società off-shore».
Non è una variante filologica quella scritta apposta nelle aule dei tribunali che il governo Prodi cancellò nel 2006, ma il cuore della politica dell’ex presidente del Consiglio e dei suoi fedeli, l’avallo della caduta di ogni regola. L’opinione pubblica d’Europa di cui l’Italia ha non poco bisogno è esterrefatta e irridente di fronte alle grandi manovre degli azzeccagarbugli di B. che si stanno agitando come anguille per salvarlo da questa pesante sentenza senza scampo. In quei Paesi è costume infatti che un uomo politico si dimetta anche per le più minute illegalità, come qualche giorno fa il presidente della Repubblica federale tedesca Christian Wulff accusato di aver ricevuto piccoli favori da imprenditori amici.
Qui da noi, invece, si sostiene che B. dovrebbe essere graziato, la sua pena abrogata o almeno commutata anche se non esistono le necessarie ragioni umanitarie, il suo scranno rosso al Senato conservato in nome del bene comune, della crisi economico-finanziaria e soprattutto delle «larghe intese». (Ma forse l’ex presidente ha compreso che quel ricatto, la tenuta di Letta in cambio della sua salvezza - anche ieri ha minacciato di «staccare la spina» - non gli conviene: è il governo la sua vera guardia del corpo).
Non conta, sembra di capire, il principio di legalità, essenziale in uno Stato di diritto, non importa che B. non sia neppure un «pentito» ma si senta solo un perseguitato. Tra l’altro l’ex presidente del Consiglio non ha un sereno avvenire nei tribunali della Repubblica. Lo attendono in appello a Milano il processo Ruby (sette anni in primo grado e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici) e il processo per concussione nel caso Mediaset; a Napoli il processo, forse il più grave, per la corruzione dell’ex senatore De Gregorio, reo confesso: un mucchio di denaro per far cadere il governo Prodi. Saranno necessarie in caso di condanna un’infinità di grazie? La grazia a vita, forse.
C’è qualcosa di grottesco in questo gran pasticcio. La Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato dovrà cominciare la prossima settimana a discutere sulla validità della legge Severino - l’incandidabilità di chi è stato condannato per gravi reati - concordemente votata dagli stessi che ora debbono giudicare: è retroattiva, non è retroattiva, può essere inviata alla Consulta, oppure no?
La propensione all’intrigo
di Franco Cordero (la Repubblica, 29 Agosto 2013)
Chi sia l’Olonese, lo sapevamo: falsario, circonventore d’inermi, predone fraudolento, spietato nell’arte d’inquinare le anime, estorsore, ma da 7 anni il Colle predicava un regime consortile; il Pd vi pareva incline; e sconta questo penchant mangiandosi una comoda vittoria elettorale contro la mummia pirata, il cui terzo malgoverno era rovinosamente fallito. Non che i due precedenti fossero meglio, vende fumo da 19 anni. Due elettori su tre non lo vogliono più tra i piedi, ma dalle urne esce un Parlamento a tre teste: in lieve maggioranza relativa nella Camera alta, il Pdl deve pigliarsi un socio; e non tenta accordi seri con le Cinquestelle. Qua e là resta l’idea d’un matrimonio innaturale, affievolita. Non ci sarà più lo sponsor pronubo: compiuti i sette anni, l’Inquilino ormai sloggia; l’ipotesi d’un secondo settennio, lanciata dal campo d’Arcore, è talmente assurda che l’interessato obietta d’essere troppo vecchio (88 anni e alla fine sarebbero 95, età patriarcale). Ma l’intrigo è uno dei pochi caratteri che l’Italia 2013 abbia ereditato dai fasti rinascimentali (vedi Ludovico Sforza, detto il Moro). Venerdì 19 aprile il candidato Pd al Quirinale era Romano Prodi, forte dei numeri, e sarebbe débâcle berlusconiana, ma 101 franchi tiratori l’affossano; l’indomani l’uscente rientra al Quirinale, e sull’asse dei Letta zio-nipote, uno là, uno qui, prendono subito corpo «larghe intese»: che al grosso degli elettori ripugnino, è irrilevante. Inutile dire chi abbia vinto. Va in scena il capolavoro delle frodi: avendo le marionette al governo, B. tutela interessi poco rispettabili; scarica scelte impopolari sullo sventurato consorte (Imu e Iva); accumula risorse elettorali fingendosi campione dei contribuenti; e un pubblico intronato beve.
L’unico inconveniente sta nelle pendenze penali, una prossima a sciogliersi (quante volte s’era salvato come reo non punibile, essendo estinti i delitti). Gl’interessati al vizioso equilibrio speravano che in qualche modo la condanna cadesse, ma Dike è una dea seria: Sua Maestà frodava il fisco; sconti la pena residua, d’un anno, 3 essendo coperti da indulto. Qui erompe la pantomima criminalpsicotica.
L’Unico sputa su Carta, leggi, sentenze, ed esige misure extra ordinem che gli restituiscano l’«agibilità politica»: guai se Palazzo Madama lo dichiara decaduto (applicando norme votate dai suoi); lì salta il banco, povera Italia; e pretende un salvacondotto dai rischi futuri, perché restano gravi pendenze. In lingua penalistica «estorsione»: caso classico; la commette chi «mediante violenza o minaccia» costringa «taluno a fare od omettere» qualcosa, procurandosi «ingiusto profitto con altrui danno» (art. 628 c.p.). Scende in campo il circo. Le colombe tubano muovendo il collo, munite d’un rostro: «l’Italia non uscirebbe indenne» se Lui fosse escluso dal Senato, sussurra Gaetano Quagliarello, mellifluo-furente ex radicale, cattolico-forzaitaliota, quirinalista, architetto ministeriale delle riforme costituzionali. Che soffi aria da «guerra civile», è tema farfugliato dall’ex comunista, arcivescovo primate del culto berlusconiano. Maurizio Lupi, guerriero mistico Cl, gestisce trasporti e infrastrutture: qui vanta i mirabilia pronti nel cilindro governativo; sarebbe imperdonabile mandarli in fumo quando basta un gesto distensivo. Professa Cl anche Mario Mauro, ex Pdl, ora Scelta civica, ministro della Difesa; e gli vengono idee luminose: amnistia, affinché rinasca «il senso dello stare insieme», da cui «germoglia l’armonia» sine qua non fit iustitia. Memorabile analisi filosofica, segnala uno stomaco foderato in ghisa. La stessa via indica Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, trasformata in guardasigilli. Sgrana gli occhi Angelino Alfano, intellettuale vicepremier, ministro dell’Interno, segretario Pdl: è «incostituzionale» escludere B. dal Senato; ipse dixit 24 agosto, uscendo dal summit a Villa San Martino. Dominus aveva convocato i più o meno dignitari. Vuol arrembare lo Stato. S’era svelato qualche giorno fa: al diavolo le regole elettorali; ha in serbo lobotomie davanti alle quali spariscono le messinscene allestite da Joseph Goebbels nelle campagne hitleriane; e se vince qualificandosi vittima d’un complotto giudiziario, davvero stavolta non fa prigionieri; alternando lo scudiscio ai buoni bocconi, domerà il terzo potere; a quel punto la nave va (all’inevitabile bancarotta, con grasso profitto dei bancarottieri). Dodici anni fa chi cantava guerra senza prigionieri (in messicano, degheio)? Cesare Previti, nello staff berlusconiano addetto alla corruzione delle toghe.
Letta nipote difende la premiership con le unghie: la ripresa dista appena due passi; e svanirà se il governo cade. Pochi gli credono: 3 anni fa considerava giusto schivare i processi, né riteneva anomala una piccola legge immunitaria. Quel che avviene era molto prevedibile, perché i caimani non sono cagnolini da salotto. Lo schieramento pro Silvio batteva varia grancassa: la palude pseudomoderata (disinvoltamente incline alla mano piratesca), anime ministeriali, praticoni, canonici in cerca d’ingaggio, chierichetti rampanti; e i pulpiti conficcavano un dogma nelle teste, che sia notte fuori delle «larghe intese» (in latino, «extra pactum cum divo Berluscone nulla salus»). Non siamo ancora alla fine; i forzaitalioti guardano stupiti la metamorfosi giacobina nel Pd; possibile che, così duttile, d’un colpo diventi inesorabile legalista? Sarà tutto chiaro post 9 settembre, appena la questione della decadenza arrivi all’assemblea: il voto è segreto e fanno precedente i 101 antiprodiani 19 aprile. Sua Maestà dissemina esche: l’ultimatum è anche bluff; che tripudio nella reggia d’Arcore, stile Eliogabalo, se tutto finisse in appeasement.
La restaurazione proprietaria
di Paolo Berdini (il manifesto, 30 Agosto 2013)
I principi di equità e di solidarietà sociale sono alla base della nostra Costituzione. Lo stesso governo «dei professori» li aveva citati tra i suoi obiettivi: non ci credeva affatto - si è visto dai provvedimenti approvati - ma almeno formalmente si poneva all’interno di quella cultura. Con la cancellazione dell’Imu per tutti i proprietari di prime case, il governo Letta rompe l’ultimo tabù: si governa per rafforzare e perpetuare disuguaglianze e privilegi.
Con la riforma dell’Imu i proprietari di un solo alloggio di 80 metri quadrati di categoria catastale usuale, risparmieranno 4-500 euro all’anno. Quelli di 4 o 500 metri quadrati di maggior pregio ne risparmieranno 10-15 mila. Ma non basta! I grandi costruttori non pagheranno l’Imu 2013 e 2014 per il gigantesco numero di alloggi invenduti che popolano le desolate periferie urbane. Un regalo misurabile in decine di milioni di euro. Soldi con cui si possono acquistare o potenziare giornali (Caltagirone e Bonifaci - Messaggero e Tempo - ne sono il più noto esempio) utili a cantare le lodi al governo di turno. O ad aiutare nelle strepitose rimonte berlusconiane in campagna elettorale. Sociologi ed economisti di ogni corrente di pensiero concordano nell’affermare che il ventennio che abbiamo alle spalle è quello in cui si sono prodotte le più impressionanti differenze sociali a tutto vantaggio dei ceti benestanti. Il governo Letta ha aumentato la forbice.
Ma oltre ai numeri contano ancora di più i fatti simbolici e strutturali. L’Italia, come paventava La voce.info, è diventata l’unico paese sviluppato a non tassare la proprietà edilizia. Sono soggette a Imu soltanto le abitazioni di lusso: in tutto 73 mila immobili su 20 milioni di alloggi. Tutti gli altri sono stati equiparati e azzerati alla faccia della Costituzione. Tanto è vero che nascerà la «service tax», un’imposta legata all’erogazione dei servizi urbani che verrà pagata in gran parte dagli inquilini invece dei proprietari com’era con l’Imu.
In buona sostanza con la novità introdotta i proprietari di una sola abitazione perderanno immediatamente i benefici della cancellazione dell’Imu, mentre gli inquilini vedranno crescere notevolmente il prelievo fiscale. Un altro regalo alla rendita immobiliare. Un altro colpo micidiale all’equità.
Non stupisce dunque la felicità del centro destra. Ha cancellato il principio fondante della progressività della tassazione, chiudendo con un suggello impensabile il ventennio della restaurazione proprietaria. Stupisce invece la serafica indifferenza del primo ministro Letta che sembra non aver colto la rilevanza di questo micidiale colpo. Eppure dovrebbe essere culturalmente erede di quel Fiorentino Sullo che aveva compreso cinquant’anni fa - pagando un prezzo personale pesantissimo - che il nodo scorsoio che strangola l’Italia è il dominio della rendita speculativa. Evidentemente i cattolici «democratici» alla Letta non appartengono a questo importante filone di pensiero. Ma stupisce di più la sconcertante sudditanza dell’intero Pd che ha messo sullo stesso piatto della bilancia 500 milioni per la cassa integrazione, che dovevano essere comunque trovati se non si volevano acuire le tensioni sociali del prossimo autunno caratterizzato dalla crescente disoccupazione, con la cancellazione di uno dei pilastri che reggeva lo stato.
Il trionfo di Berlusconi sta qui, nell’aver lasciato senza rappresentanza i due terzi della popolazione italiana. Una ristretta élite sociale governa per interposta persona e continua a colpire ciecamente le classi più sfavorite. Può contare su una maggioranza dei due terzi del parlamento cui impone ogni tipo di provvedimento legislativo: articoli come quelli approvati ieri l’altro sono scritti da chi conosce alla perfezione i meccanismi, come ad esempio l’ufficio studi dei costruttori.
Ridare voce e rappresentanza a questa Italia senza più fiducia è il compito sempre più urgente che ha la sinistra in cui crediamo. La proposta di Micro Mega ripresa da Pierfranco Pellizzetti mercoledì su queste pagine di lavorare per un governo di «legalità repubblicana» formato da personalità impermeabili alle pressioni delle lobby, è l’unica strada per ridare speranza al paese.
Siamo la nazione che cresce di meno perché siamo in perenne ostaggio di una rendita parassitaria che non ci permette di diventare un paese realmente libero e moderno. Non ci si può meravigliare se mancano investimenti stranieri. O se molti imprenditori non investano nei comparti produttivi: meglio giocare all’eterna tombola della speculazione immobiliare improduttiva e intascare plusvalenze gigantesche. Il trucco funziona sempre, anche grazie al governo Letta.
L’ULTIMO ATTO DEL BERLUSCONISMO
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 29 Giugno 2013)
EMULSIONE di liberalismo e populismo, dunque, il berlusconismo. Ma liberalismo di un certo tipo. Più precisamente: un liberalismo di estrema destra. (da "Il berlusconismo nella storia d’Italia" di Giovanni Orsina-Marsilio, 2013-pag. 129)
La pesante sentenza con cui il Tribunale di Milano ha condannato Silvio Berlusconi a sette anni per concussione e prostituzione minorile, accompagnata dall’interdizione perpetua dai pubblici uffici, segna virtualmente la fine di quella ventennale stagione della vita politica e sociale italiana che va sotto il nome di berlusconismo. Una cultura o sottocul-tura inoculata, tramite il messaggio della tv commerciale, dall’individualismo, dall’edonismo e dal consumismo esasperato. Una mentalità collettiva, diventata senso comune e codice di comportamento.
Quale che possa essere il giudizio definitivo della magistratura sui reati addebitati all’ex presidente del Consiglio, e anche indipendenteménte da questo, le responsabilità di Berlusconi nel degrado civile del nostro Paese sono già palesi ed evidenti. Innanzitutto, il fallimento di una "rivoluzione liberale" più volte promessa e annunciata, ma mai realizzata. E in secondo luogo, una progressiva disgregazione di principi e valori per definire la quale non basta neppure la sfera morale.
Sarebbe un errore ridurre questo complesso fenomeno solo all’influenza della televisione. Qui non l’abbiamo mai fatto né tanto meno lo faremo adesso. Ma è certo comunque che la tv commerciale è stata prima lo strumento principale per plasmare e forgiare una nuova "coscienza comune" e poi per aggregare e raccogliere il consenso poli-tico. Il nostro è diventato così un popolo di teledipendenti, narcotizzati dall’imbonimento pubblicitario e ipnotizzati dalle suggestioni propagandistiche del berlusconismo d’assalto e di governo.
Lo stesso Cavaliere, passando finora come una salamandra nel fuoco degli scandali e delle vicende giudiziarie ha incarnato il prototipo dell’italiano medio: l’arci-italiano che tende a non rispettare le regole, a evadere o eludere le tasse, a cercare favori o privilegi, a truffare o frodare l’apparato statale. È stata - diciamolo senza alcun moralismo - un’opera di corruzione generalizzata, dissimulata dietro un programma di "liberazione nazionale" che in realtà ha provocato un’involuzione e un regresso. Con la complicità più o meno inconsapevole delle forze che non sono state capaci di proporre un’alternativa valida e convincente, la retorica berlusconiana ha potuto perciò dilagare contagiando perfino una parte dello schieramento opposto.
Oggi il Paese esce stremato e disfatto da questo ventennio, non meno infausto di quello del regime fascista. Privo di un’etica pubblica, indebolito nel suo senso di appartenenza, fiaccato nelle ragioni della convivenza civile. Un Paese più povero e insicuro, allo sbando, senza un orizzonte e un futuro da offrire alle giovani generazioni.
A questo punto, nell’attesa di un improponibile scambio fra politica e giustizia, poco importa in fondo se Berlusconi verrà condannato definitivamente all’interdizione a vita dai pubblici uffici. Sotto il peso delle accuse e delle sentenze finora emesse, dalla concussione alla prostituzione minorile, dalla corruzione alla frode fiscale, la sua legittimazione politica di capo partito è irrimediabilmente compromessa. Né possono essere più sufficienti a riscattarla le testimonianze dei suoi adepti o i consensi elettorali dei suoi fans. Ormai è una questione di onore e di decoro istituzionale: per il Cavaliere è arrivata l’ora di uscire di scena. (sabato@repubblica. it)
Le ragioni di una sentenza pesante
di Carlo Federico Grosso (La Stampa, 25.06.2013)
Con la sentenza Ruby i nodi, per Berlusconi, vengono finalmente al pettine. E il Presidente, dopo una prima condanna aquattroannidireclusione confermata in appello, è stato ieri condannato a sette anni dalla IV sezione del Tribunale di Milano. Sentenza giusta? Sentenza ingiusta? Non mi si chieda, su tale profilo, una valutazione. Non avendo studiato gli atti del processo, ma avendo soltanto letto le cronache giornalistiche, non sono in grado di formulare un giudizio che vada aldilà dell’impressione personale. E sulle impressioni personali non è consentito esprimere giudizi o valutazioni. Non sarebbe serio.
Piuttosto, mi sembra utile commentare, in punto di diritto, il ragionamento che, stando al dispositivo letto in aula ieri pomeriggio, devono avere fatto i giudici per giungere alla pesante condanna pronunciata.
Nel dispositivo i giudici hanno innanzitutto scritto di ritenere «Berlusconi responsabile dei reati a lui ascritti»; qualificato quindi «il fatto di cui al capo “a” dell’imputazione come concussione per costrizione» (dando quindi al fatto «una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione», come consentito dalla legge), e «ritenuta la continuazione», lo hanno condannato «alla pena di anni sette di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali». Hanno infine soggiunto che «visti gli artt. 317 bis sulle pene accessorie, 29 e 32 del c. p. (rispettivamente in tema di interdizione dai pubblici uffici e di interdizione legale) », si dichiara l’imputato «interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, nonché in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena». Entrambi i profili così enunciati meritano una spiegazione tecnica.
Berlusconi era imputato di due reati: del delitto di concussione previsto dall’art. 317 c. p. per avere telefonato in Questura da Parigi la sera del fermo di Ruby pretendendo il suo rilascio (avvenuto secondo le modalità ormai ampiamente note), del delitto di prostituzione minorile nella forma meno grave prevista nel comma 2 dell’art. 600 bis c. p. («atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o altra utilità»).
Il Tribunale ha giudicato il Presidente responsabile di entrambi i reati. Con riferimento alla concussione è interessante rilevare che il collegio ha ritenuto di dovere specificare di avere assegnato al fatto una definizione giuridica diversa da quella originaria, qualificandolo come «concussione per costrizione». Questa precisazione è conseguenza della circostanza che, nelle more del processo, la disciplina del delitto di concussione (oggetto dell’imputazione originaria) è cambiata, in quanto la riforma Severino della corruzione ha«spacchettato» tale delitto in due diversi reati: la «concussione per costrizione», mantenuta nell’art 317 c. p. con pena invariata, e la «induzione a dare o promettere» (sostitutiva della originaria «concussione per induzione»), spostata in un articolo autonomo e considerata reato meno grave assimilabile alla corruzione piuttosto che alla concussione (tanto che è stata prevista anche la punibilitàdel soggetto «indotto»). Il Tribunale avrebbe, a questo punto, potuto qualificare il fatto come concussione per costrizione, ovvero secondo la nuova, meno grave, configurazione di «induzione a dare o promettere».
L’avere optato per la prima configurazione significa, evidentemente, che ha ritenuto che nel comportamento dell’allora Presidente del Consiglio non fosse ravvisabile una mera«induzione», cioè una«spinta» più o meno forte della Questura ad agire in conformità ai propri desideri, bensì una pressione più intensa, qualificabile come una, sia pure implicita, minaccia. Il che, sul terreno della ricostruzione del fatto, mi sembra alquanto significativo.
Ma non solo. Nella configurazione giuridica del fatto come concussione per costrizione si ritrova anche la spiegazione della misura della pena concretamente inflitta. La concussione per costrizione continua ad essere punita dal codice penale con la pena della reclusione da quattro a dodici anni. Ebbene, a fronte di una pena edittale così elevata, sette anni di pena concretamente irrogata (che tiene oltre tutto conto anche della pena inflitta per la prostituzione minorile), appare assolutamente ragionevole, in linea con i criteri usualmente utilizzati nel commisurare in concreto la sanzione penale.
Come si è rilevato, il Tribunale ha altresì «ritenuto la continuazione» fra i due reati contestati (ha cioè ritenuto che essi sono stati commessi «in esecuzione di un medesimo disegno criminoso»). Il che, da unpuntodivistapratico, significache, anziché sommare materialmente le pene previste per i due reati, il giudice ha determinato la pena per il reato più grave (la concussione), aumentandola di una mera percentuale in ragione del secondo reato. A rigore, un vantaggio per il condannato.
Quanto, infine, all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’interdizione legale, vi è poco da discutere: si tratta di conseguenze che seguono ex lege alla condanna pronunciata: l’art. 317 bis c. p. dispone infatti che la condanna per il reato di cui all’art 317 c. p. comporta automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (e l’art. 29 c. p. soggiunge che essa segue comunque di diritto ad ogni condanna non inferiore a cinque anni) ; l’art. 32 c. p. prevede a sua volta l’interdizione legale a chi è stato condannato per un tempo non inferiore a cinque anni.
La sindrome CFMP che ammala l’italia
di Franco Cordero (la Repubblica, 11 giugno 2013)
Gli affari italiani propongono al patologo un quesito diagnostico: cos’abbia la paziente; malattia grave, a lungo termine letale; e l’esperienza esclude una regressione spontanea. Il nome, formato dalle iniziali, è sigla quadrilettera, CFMP. Sciogliamola e viene fuori una quaterna d’Apocalisse: corruzione, frode (includiamovi l’incretinimento d’una massa mediante ipnosi mediatica), mafia, parassitismo; e il tutto presuppone una politica gaglioffa.
La malattia ha qualche lontana radice organica (l’anamnesi chiama in causa potere ecclesiastico, Comuni, Signorie, Controriforma, una cultura vuota e megalomane, abiti cortigianeschi) ma il fattore degli ultimi trent’anni è un caimano allevato dal malaffarismo governativo: viene su dal niente abissale; istupidisce le platee con l’arnese televisivo, del quale diventa duopolista disgregando pensieri, sentimenti, gusto; e caduta l’oligarchia i cui favori venali lucrava gonfiandosi, raccoglie la successione. Presiede il Consiglio in tre legislature, otto anni e mezzo e negli altri sette era egemone: profondamente volgare, ignorante, bugiardo, istrione, circonventore degl’indifesi, clown sguaiato, estorsore senza complimenti, sfoga un’acuta nomofobia; le norme esistono affinché lui le vìoli impunito; non tollera poteri separati; sfida tribunali e corti; compra sentenze; allunga i piedi nel piatto legislativo dissestando l’ordinamento. Insomma, esercita la pirateria da Palazzo Chigi, arricchendosi ancora (ai tempi della lira vantava quarantamila miliardi), patrono del malaffare in colletto bianco. Rispetto alla gang che gli gira intorno, i politicanti facili d’una volta erano eremiti. L’ideologia è prassi nichilistica: enrichissez vous,ma l’Italia è alquanto meno florida della Francia sotto Luigi Filippo; e siccome l’economia ha equazioni non mistificabili sine die, viene il collasso.
Diciotto mesi fa, ignobilmente costretto a dimettersi, era mummia torva: gli restava qualche stalliere senza futuro (fuori della compagnia piratesca); chiunque s’illudesse d’averne, indossava maschere miti, qualificandosi colomba; e un ex ministro, poi coordinatore del partito, credente bellicoso, prendeva nota degl’infedeli. Come sia riemerso, è argomento da discutere a parte. Sparito l’Olonese, un governo cosiddetto tecnico aveva dissanguato i meno benestanti sferrando nel mucchio misure draconiane intese a ridurre il debito (che paghino i poveri diavoli, è vecchia storia, vedi l’imposta sul macinato). Adesso stiamo peggio. Ultima in Europa, l’Italia continua a indebitarsi perdendo colpi, e non c’entrano congiunture planetarie, destino baro, influssi siderali. È questione d’elementare economia: quante volte la corte dei Conti l’ha formulata calcolando in 60 o più miliardi il prelievo annuo clandestino CFMP; i «fondamentali» tenderanno al basso finché: il vampiro succhi; e sappiamo con quanta cura intransigente Re Lanterna se lo covasse sabotando ogni tentativo serio d’un risanamento.
Se poi lo sguardo passa dal quadro economico al politico, lo scenario taglia il fiato: la mummia d’allora (12 novembre 2011) tiene al governo uomini suoi, nel senso più possessivo; lo spirituale Angelino Alfano, vicepremier, comanda gl’interni; alle riforme costituzionali provvede tubando la colomba Gaetano Quagliarello; sotto la stessa figura ornitologica vola Maurizio Lupi (trasporti e infrastrutture). Inutile dire chi muova i fili: appena lui fischi, le colombe mettono rostro e artigli diventando falchi; li abbiamo visti e uditi in parti davanti alle quali lo spettatore rimane allibito.
Il divus Berlusco gioca su due tavoli: governativo finché gli conviene, schiera 17 mila teste, rigorosamente non pensanti, pronte all’azione qualunque cosa lui comandi, fosse anche una scalata alla luna; e giurano, «lo difenderò nella guerra dei vent’anni» (qui 2 giugno).
È dogma che sia vittima d’una magistratura assatanata: «uso politico della giustizia», farfugliano i dignitari, monotona filastrocca; almeno tentino qualche variante. Tribunali e corti decidono in base alle prove, sicché arrivano delle condanne. Tanto tempo fa s’era presa una laurea in legge ma, assordato dall’ego, ha dimenticato i rudimenti, quindi strepita: «il Quirinale deve difendermi»; e la Consulta stronchi «l’accanimento» persecutorio (4 giugno).
Tale sarebbe mandare a giudizio chi, secondo i reperti, frodava il fisco, imboscando milioni a centinaia, o gestiva un harem mercenario, o, presidente del Consiglio, ha buttato in pasto al pubblico un segreto d’ufficio contro l’avversario. Viste le norme, ovvia la condanna qualora i fatti constino. Eventuali errori sono rimediabili in appello e Cassazione. La Pasionaria chiama otto milioni d’elettori allo sciopero fiscale, se mercoledì 19 p. v. la Consulta non accoglie il ricorso. Parliamone perché l’aneddoto fa lume sulle tecniche berlusconiane: lunedì 1 marzo 2010 era fissata da un mese e mezzo una delle tante udienze del dibattimento Mediaset diritti tv; è affare acrobatico condurle; pretende d’esservi ma non può quasi mai, carico d’impegni. Intenti al perditempo strategico, i difensori chiedono il rinvio perché l’imputato ha un consiglio dei ministri: il tribunale risponde picche; s’era affatturato l’impedimento aggiornando una seduta 26 febbraio. Ma fosse anche motivo plausibile, solo i cultori d’una procedura asinina pensano che svanisca l’intero processo, se in quell’udienza non è avvenuto niente d’influente sulla decisione; le testimonianze ivi acquisite sono parole al vento; vizio innocuo, dunque.
Con questi architetti il Pd s’accinge a demolire le strutture costituzionali fondando un regime del presidente dai larghi poteri, eletto dal popolo (cavallo di battaglia berlusconiano): bel disegno, come se una neoplasia comandasse i sistemi immunitari; quando vuol colpire qualcuno, Iupiter gli toglie il senno.
Trattativa Stato-mafia, Mancino: “Non posso stare a processo con boss”
Prima udienza del processo contro boss, politici e funzionari delle istituzioni. L’ex ministro dell’Interno chiederà lo stralcio: "Ho combattuto Cosa nostra. Che uno per falsa testimonianza debba stare qui non lo accetto". E comunque il patto con la mafia "non c’è stato". Ma i pm sono pronti a contestargli una nuova aggravante. Tra le richieste di parte civile c’è anche il Comune di Firenze di Matteo Renzi. Udienza rinviata al 31 giugno
di Redazione Il Fatto Quotidiano *
Il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, all’inizio dell’udienza del processo per la trattativa tra Stato e mafia, ha preannunciato una nuova aggravante per l’imputato Nicola Mancino, l’ex presidente del Senato, accusato di falsa testimonianza. Ma il presidente della Corte d’appello, Alfredo Montalto lo ha bloccato, dicendo che non era ancora il momento per procedere alla contestazione. A quanto si è potuto comprendere dallo sviluppo del dibattimento, l’aggravante sarebbe di aver detto il falso per coprire altri imputati, ma il pm potrà formalizzarla solo nella prossima udienza.
”Io ho sempre combattuto la mafia, non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia. Chiederemo uno stralcio”. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino annuncia la sua strategia prima dell’inizio dell’udienza sulla trattativa Stato-mafia che prende il via a Palermo e in cui l’ex politico è imputato di falsa testimonianza. “Ho fiducia e speranza - ha aggiunto - che venga fatta giustizia e che io possa uscire al più presto dal processo”. E al termine dell’udienza, ai giornalisti ha detto: “La trattativa? Non c’è stata proprio per niente”.
Sull’ipotesi di stralcio, la risposta del procuratore di Palermo Francesco Messineo non si fa attendere: “Quella di Nicola Mancino è una posizione che già era stata espressa nel corso dell’udienza preliminare e sulla quale c’è stata già una pronuncia provvisoria. Ritengo che la difesa di Mancino saprà svolgere egregiamente il suo compito proponendo quei temi che ritiene adeguati per il cliente”.
“Qualora si dovessero accertare elementi di colpevolezza dello Stato, lo Stato non potrebbe nascondere eventuali responsabilità sotto al tappeto”, ha detto il pm Nino Di Matteo nell’aula bunker ‘Pagliarelli’ di Palermo. Gli imputati sono dieci: ex politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino, ex ufficiali dell’Arma, come il generale Antonio Subranni, il pentito Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino. Sono tutti accusati di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, tranne Mancino, che risponde di falsa testimonianza, e Ciancimino, imputato di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro.
“Io non rappresento lo Stato, sono l’ex ministro dell’Interno. Io rappresento me stesso con una imputazione diversa da quella degli altri imputati. Io sono imputato di falsa testimonianza perché la mia parola è stata ritenuta inadeguata rispetto a qualche collega che all’epoca era ministro”, ha detto ancora Mancino prima di iniziare l’udienza.
Tra le tante richieste di costituirsi parte civile contro boss e rappresentanti dello Stato che avrebbero cercato l’abboccamento con Cosa nostra, anche il Comune di Firenze, nella persona del sindaco Matteo Renzi. Poi l’associazione Libera di don Ciotti, l’Associazione nazionale antimafia presieduta da Adriana Musella, l’associazione Addio Pizzo, Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso.
Tra i testimoni convocati c’è l’attuale presidente del Senato Pietro Grasso, ex magistrato: “Sono testimone, non posso che dichiarare al processo quello che so”, ha annunciato. L’udienza è stata rinviata al prossimo 31 maggio. In quella occasione la Procura spiegherà qual è l’aggravante annunciata per Nicola Mancino.
LIBERTA’ E GIUSTIZIA. Il manifesto 18 maggio 2013
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un’altra. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.
Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico. Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. L’incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione - rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta - è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.
Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. E’ già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?
Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l’armatura del potere di chi ne dispone. La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?
Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.
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Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.
Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.
Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.
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La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. Ma oggi se ne immagina un’altra, farraginosa e facente capo a un’assemblea, chiamata “convenzione”. Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell’architettura della politica.
L’odierna procedura - da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce - è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento. Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l’ostilità del Senato), per concludersi con l’approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s’immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l’accaduto.
Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex post non è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s’è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse - come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni - che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent’anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l’umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?
Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L’argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l’azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l’obbligo di fedeltà alla Costituzione che c’è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?
Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.
Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche.
Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell’azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl’interessi.
La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge. Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze.
I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati”) sono nell’interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d’una legge sulla democrazia nei partiti, anch’essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo. Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorrere poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell’una, e la sua sconfitta nell’altra.
Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare - ma chi presta più attenzione a questi dettagli? - che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale).
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E allora? C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni.
Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.
La Procura di Palermo cita Napolitano al processo sulla trattativa Stato-mafia
I pm hanno depositato questa mattina in cancelleria la lista testi in vista della prima udienza che si terrà il 27 maggio davanti la corte d’assise di Palermo. Gli imputati sono dieci: sul banco degli imputati ci sono boss del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, ma anche uomini delle istituzioni come Nicola Mancino, Mario Mori e Antonio Subranni
di SALVO PALAZZOLO *
C’è anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fra i 176 testimoni che i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi vogliono ascoltare al processo per la trattativa Stato-mafia. In ordine "alle preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio nella lettera del 18-6-2012 (pubblicata su “La Giustizia. Interventi del Capo dello Stato e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. 2006 -2012”) concernenti il timore del dottor D’Ambrosio “di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, e ciò nel periodo tra il 1989 e il 1993". Così hanno scritto i magistrati nella lista testi depositata nella cancelleria della Corte d’assise.
La Procura di Palermo chiama a testimoniare anche il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani: "In ordine alle richieste provenienti dall’imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate".
I pm vogliono ricostruire il contesto in cui maturarono le telefonate fra Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, che sono finite agli atti del processo per la trattativa perché l’ex ministro dell’Interno era intercettato dai magistrati di Palermo. Mancino si lamentava per "il mancato coordinamento" delle indagini sulla trattativa. Dopo una lettera del segretario generale della Presidenza della Repubblica, il procuratore generale della Cassazione convocò il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Adesso i pm del processo trattativa chiedono alla corte d’assise di Palermo che venga convocato anche Grasso, oggi presidente del Senato. Così spiegano i magistrati nella lista testi depositata in cancelleria: "Il dottor Grasso dovrà riferire in ordine alle richieste provenienti dall’odierno imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate".
Nella lista dei testimoni ci sono 30 pentiti, ma anche ex ministri come Giovanni Conso, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti e Giuliano Amato. La Procura di Palermo cita anche l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
La lettera di D’Ambrosio
Il consigliere D’Ambrosio aveva scritto una lettera al capo dello Stato dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle intercettazioni. Il 18 giugno dell’anno scorso spiegava: "I fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente". E ribadiva: "Come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei vari procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze".
La lettera a Napolitano si concludeva con un riferimento a un testo scritto da D’Ambrosio su richiesta di Maria Falcone: "Lei sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi".
Loris D’Ambrosio concludeva: "Non Le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato, ucciso dai terroristi".
Dunque, anche il consigliere D’Ambrosio avrebbe avuto dubbi su quella terribile stagione del 1992-1993. I magistrati di Palermo vogliono chiedere al presidente Napolitano se abbia mai raccolto altri sfoghi di D’Ambrosio su questo argomento.
Sarà la corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, a decidere sull’ammissibilità dei testimoni citati dalla Procura.
Caso Ruby, il Csm censura l’unica persona che fa il suo dovere
di Bruno Tinti *
Personaggi. Annamaria Fiorillo: sostituto procuratore presso la Procura dei minori di Milano. Ingiunge a Giorgia Iafrate di affidare a una comunità la minorenne marocchina Ruby. Giorgia Iafrate: commissario presso la Questura di Milano. Viola le direttive ricevute e affida Ruby alla igienista dentale di B., Nicole Minetti. Pietro Ostuni: capo di gabinetto. “Consiglia” a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Silvio Berlusconi detto B.: presidente del Consiglio. “Consiglia” a Pietro Ostuni di ingiungere a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Roberto Maroni: ministro dell’Interno. Afferma pubblicamente che la Polizia aveva affidato Ruby alla Minetti obbedendo alle direttive impartite da Annamaria Fiorillo. Edmondo Bruti Liberati: procuratore della Repubblica di Milano. Emana un comunicato stampa in cui afferma che l’affidamento di Ruby si è “svolto correttamente”. Monica Frediani: procuratore della Repubblica per i minori di Milano. Vieta ad Annamaria Fiorillo di parlare con i giornalisti per smentire le affermazioni false di Maroni e Bruti Liberati. Consiglio Superiore della Magistratura, detto Csm, composto da membri togati (magistrati nominati dalle correnti) e da membri laici (persone nominate dai partiti). Rifiuta di aprire una pratica a tutela richiesta da Annamaria Fiorillo al fine di smentire le menzogne di Maroni e Bruti Liberati; poi condanna disciplinarmente la stessa per aver spiegato ai giornalisti che Maroni e Bruti Liberati avevano mentito.
Trama della tragicommedia (farsa/tragedia?). La minorenne Ruby è accusata di furto, fermata durante la notte. Si accerta che è senza fissa dimora. Il Pm minorile Fiorillo ordina alla polizia di affidarla a una comunità (così prescrive la legge). Il potente B., probabilmente amante di Ruby, teme che costei lo “sputtani” e “ordina” di consegnarla alla sua fida “igienista dentale”. Ostuni e Iafrate, lieti di compiacere il potente ovvero spaventati da lui, obbediscono. Molti cantastorie raccontano il trionfo del vizio; forte è l’indignazione dei benpensanti. Maroni, compagno di governo di B., spontaneamente o sollecitato, li rassicura con una menzogna: la Polizia ha fatto il suo dovere, obbedendo agli ordini del pm. Bruti Liberati gli fa eco, non si sa se con consapevole menzogna o superficiale accertamento: la Polizia ha agito “correttamente”.
Fiorillo si incazza: mi fanno passare per ignorante o, peggio, serva di B.; chiede al Csm di valutare i fatti e intervenire a sua tutela perché sia chiaro che ella ha fatto il suo dovere, applicando la legge. Il Csm (che di pratiche a tutela ne ha fatte qualche migliaio) si dichiara non competente. Bruti Liberati si guarda bene dal correggere il suo falso comunicato. Fiorillo, abbandonata da tutti e additata come incompetente professionista al pubblico disprezzo, racconta a giornalisti cartacei e televisivi come sono andate le cose.
Bugiardi colposi e dolosi si arrabbiano e il Csm condanna Fiorillo per aver trasgredito all’ordine esplicito del suo capo Frediani. Per scaricarsi la coscienza, il Csm affetta virtuosa integrità: condanno perché la legge è legge; ma sento il bisogno di affermare che la vicenda si è svolta così come ha dichiarato Fiorillo. Qualche anno dopo, uno scriba ignoto, indignato per lo strazio arrecato alla virtù e per l’omaggio offerto al vizio, riprende la storia e ne immagina un confortante sviluppo. Annamaria Fiorillo si ricorda della favola del panettiere, del Re di Prussia Federico II e del giudice di Berlino; e presenta un ricorso alla Corte di Cassazione. Racconta che il sostituto procuratore generale che chiese la sua condanna al Csm era Elisabetta Cesqui, personaggio di spicco di Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è stato a lungo presidente ed è vera e propria icona. Sommessamente lamenta che ragioni di opportunità (anche i pm debbono essere e apparire imparziali) avrebbero consigliato di affidare l’accusa a persona meno legata al procuratore di Milano, il cui comunicato stampa sarebbe stato platealmente smentito dalla sua assoluzione.
Invita la Corte a valutare l’incoerenza del Csm che sollecitamente incolpa lei per aver disatteso l’ordine del procuratore dei Minori Frediani; e che però non assume alcuna iniziativa nei confronti del procuratore di Milano Bruti Liberati. Eppure costui non solo ha emesso un comunicato obiettivamente falso (questo sì indice di scarsa professionalità e colpevole ingenuità) ma ha omesso, una volta noti i fatti, di emetterne altro, a correzione del primo, a tutela dell’immagine pubblica e professionale di lei stessa Fiorillo e della Procura dei minori. Ricorda infine che lo stesso Csm (Sezione Disciplinare del Csm n. 52/99) aveva ritenuto “giustificate le dichiarazioni alla stampa, fatte per rispondere ad accuse già pubblicate su una certa testata giornalistica, e che esigevano il diritto di ripristinare la rappresentazione reale del proprio operato, contro rovesciamenti di prospettiva distorti e/o offensivi per sé e/o per l’ufficio giudiziario di appartenenza”. La Corte di Cassazione si rende conto dell’oltraggio patito da Fiorillo e applica l’esimente della legittima difesa: in linguaggio paragiuridico (per l’occasione preso in prestito da Marco Travaglio) scrive in sentenza che mandare impuniti funzionari pavidi o compiacenti e magistrati disattenti ed eccessivamente prudenti, “censurando” l’unica persona che ha fatto il proprio dovere, è un vero schifo.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Un monito pericoloso
di Furio Colombo (il Fatto, 10.05.2013)
Ieri, 9 maggio, commemorando al Senato le vittime del terrorismo, il Presidente della Repubblica ha pronunciato questa frase: “La violenza, anche solo verbale, può portare all’eversione. Va fermata”.
Se la frase fosse stata detta al Congresso degli Stati Uniti sarebbe stata giudicata una grave violazione del Quinto emendamento, la libertà di opinione.
L’Italia è un Paese più complicato per la sua Storia, la sua memoria e il suo presente, in cui si svolgono scene dell’assurdo. Ma prendiamo la memoria, perché quella era la ragione del discorso: celebrare nel modo più solenne il ricordo di tutte le vittime di tutti i terrorismi. Questa ambientazione però non basta a chiarire. Al punto da suggerire a Grillo di interpretare le parole di Napolitano come una sgridata a uno dei più rissosi portaborse di Berlusconi, Renato Brunetta. È possibile.
Come è possibile che il Capo dello Stato abbia inteso rivolgersi a coloro che liberamente e impunemente stanno mettendo in scena una sorta di aggressione verbale continua contro Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione. Per esempio una stupida deputata del Pdl ha detto, apprendo dal Tg3 (ore 19) che “ora la Kyenge ci forzerà ad adottare le sue leggi sulla poligamia”. Ciò che sta accadendo intorno e contro la prima persona nera diventata ministro in Italia fa davvero pensare a una violenza verbale così feroce che può diventare rapidamente violenza fisica.
E poi c’è il dramma di Berlusconi. Il poveretto comincia a collezionare serie condanne, e nuove incriminazioni, dopo avere buttato nel disastro un intero Paese per sfuggire alla Giustizia. E dà l’impressione di non prenderla bene. Gli alleati del Pd e delle “larghe intese” annunciano marce e dimostrazioni, comprese le invasioni di tribunali. Lo hanno già fatto senza essere neppure sgridati. Perché non dovrebbero farlo ancora, e peggio? Ma la domanda resta.
La frase del Presidente riguarda i furori ribelli e fuorilegge del berlusconismo (lo so, è una parola proibita, adesso) oppure la risposta appassionata di chi non sta al gioco e non intende permettere che il Paese precipiti nel disordine organizzato degli imputati di lotta e di governo? Meglio chiarire, prima che sia tardi.
Benigni riparte da Silvio
"È tornato: Signore, pietà"
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Neanche cinque minuti e già pronuncia la parola "Silvio". Benigni entra in scena come d’abitudine sulle note di Il partito del pinzimonio, la marcetta di Nicola Piovani, gioca con i ringraziamenti, il pubblico, la Rai, Napolitano "che ha telefonato al Papa che mi ha detto di ringraziare nostro Signore, e invece pure lui mi ha detto che dovevo ringraziare qualcuno di più importante: grazie, Silvio". L’avevamo lasciato un anno fa con Berlusconi - nello show di Fiorello #ilpiùgrandespettacolo, quando definì quelle dell’allora premier "le più belle dimissioni degli ultimi 150 anni" - e da Berlusconi riparte. "Due brutte notizie in questo mese, una è la fine del mondo, l’altra è terrificante: s’è ripresentato, è la sesta volta. Ma ha detto che la settima si riposa. È come i sequel dei film dell’orrore, lo Squalo 6, la Mummia, Godzilla contro Bersani...". Poi arriva al cuore della storia: "I nemici della Costituzione sono l’indifferenza alla politica che è amore per la vita, e il non voto. Non ti tirare fuori, se ti tiri fuori è terribile, dai il potere alla folla che sceglie sempre Barabba".
È La più bella del mondo, atteso ritorno di Benigni in tv, celebrazione della Carta preceduta da una visita al Colle dove Napolitano gli ha consegnato proprio una copia della Costituzione. Per lo show costi da kolossal tv, quasi - pare - sei milioni di euro nei quali rientrerebbero anche le 12 puntate di Tutto Dante previste su RaiUno in primavera. Quanto agli ascolti, fanno fede i precedenti: da Fiorello picco di 16 milioni di spettatori e oltre il 50% di share; a Sanremo, per il 150esimo dell’Unità d’Italia, è entrato all’Ariston su un cavallo bianco e è uscito con picchi del 60%; il 35,68% di Il V dell’Inferno, su RaiUno nel novembre 2007, il 46% di L’ultimo del Paradiso, su RaiUno nel dicembre 2002.
Nel Teatro 5 di Cinecittà Benigni ha davanti cinquecento invitati (moltissimi giovani, niente vip, solo i vertici Rai). Schema collaudato, un monologo sull’attualità poi l’esegesi dei princìpi fondamentali, i primi dodici articoli. L’inizio è tutto per Berlusconi. "Oggi è uscito da Palazzo Grazioli, c’era la folla, metà fischiava e metà applaudiva quelli che fischiavano. E quello che ha scritto la stampa estera...".
"L’avete visto a Canale 5? Credevo che fosse un’intervista del ’94, diceva che doveva salvare l’Italia dai comunisti, vi levo l’Ici, vi levo l’Imu, pensavo ’ma guarda nel ’94 la gente come ci cascava’. Ora ha una nuova fidanzata, una sola: è bello vedere che sta cercando di smettere". "Silvio ha un sogno, vuol diventare presidente della Repubblica, in tutti i luoghi pubblici ci sarebbe una sua foto, sarebbe l’unico modo di vederlo in una caserma dei carabinieri". "Ha detto che se Monti si candida lui fa un passo indietro e allora Mario, facci questo favore, poi magari dopo due giorni smentisci, come fa lui".
Risate e applausi e si passa al tema della serata. "Nella Costituzione - dice - c’è la strada per risolvere tutti i problemi, si proclama la dignità umana. È la nostra mamma, ci protegge da qualsiasi cosa". Si schiera dalla parte della politica, "l’indifferenza è un grave errore, io vi dico di amare più che rispettare la politica, è la cosa più alta per organizzare la pace, la serenità e il lavoro. Non avere interesse per la politica è come dire di non avere interesse per la vita". C’è il ricordo dei padri costituenti e dei padri della patria, i nomi, le persone, "autore di passaggi fondamentali della Costituzione è stato un pugliese di 29 anni, Aldo Moro". Applausi quando pronuncia la parola "partigiani". L’articolo 3, che prescrive l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, "l’hanno scritto a Woodstock, è Imagine di John Lennon trent’anni prima. Me li immagino a Montecitorio, come fricchettoni, che si passano il cannone...".
Insiste sull’articolo 4, "se non c’è il lavoro crolla tutto, la Repubblica e la democrazia che sono il corpo e l’anima delle nostre istituzioni. Quando non c’è lavoro perdiamo tutti perché quando lavoriamo modifichiamo noi stessi, è quella la grandezza del lavoro. Nella busta paga troviamo noi stessi: quella paga non è avere, è essere". Sottolinea i verbi degli articoli, laddove la Costituzione "riconosce", "garantisce", "promuove", "tutela", "sentite come suona forte e delicato". All’articolo 6 non trattiene la battuta, "la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche: è fatta apposta per Di Pietro".
Vola alto all’articolo 7, Chiesa e Stato, "fu Gesù Cristo, il primo laico, a dire date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". All’articolo 9, "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", cita la sindrome di Stendhal "che arrivò a Firenze e svenne per tanta bellezza. Noi abbiamo avuto la sindrome di Bondi: invece di svenire l’uomo, venivano giù i monumenti". Si arriva all’articolo 11, "l’Italia ripudia la guerra". "È l’unico che comincia con ’l’Italia’, non con ’la Repubblica’: perché sia chiaro che tutti, anche i conigli d’Italia, ripudiano la guerra. ’Ripudia’, un no definitivo, perché la guerra deforma la gente. Nessuna guerra ha mai prodotto un beneficio maggiore del dolore che ha provocato". "Sentite: ’promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’: è un confronto di sogni, sembra che ci dicano che l’Italia come patria non ci basta, bisogna diventare mondo, rimanendo italiani. È grazie ad articoli come questi, che in Europa c’è la pace da sessant’anni. L’idea dell’Unione europea è un sogno. Noi, prima generazione della storia del mondo, stiamo unendo un continente in pace. Non bisogna chiudersi nel proprio guscio, i nostri costituenti ci dicono di non tornare indietro, di mantenere la nostre radici ma non che sprofondino nel buio della Storia ma che vadano in su, come mani che si stringono".
Il lungo excursus si conclude con l’articolo 12, il tricolore. E con un monito. "Tutto questo, noi lo abbiamo ereditato. Ma per farlo davvero nostro, lo dobbiamo conquistare. Qui ci sono le regole per vivere tutti insieme, in pace, lavorando. Dico una cosa - continua Benigni - che solo un Papa o un buffone possono dire: domattina dite ai vostri figli che sta per cominciare un giorno che prima di loro non ha mai vissuto nessuno, ditegli di andare a testa alta, di essere orgogliosi di appartenere a un popolo che ha scritto queste cose fra i primi nel mondo. E che abbiano fiducia e speranza". Il saluto è sulle note di Beautiful that way di Piovani, dal tema principale di La vita è bella, che Benigni canta nella versione italiana. Parole di pace che l’israeliana Noa ha cantato in tutto il mondo e con le quali Benigni saluta e abbraccia il pubblico in piedi e augura buon Natale. E si commuove.
* la Repubblica, 17 dicembre 2012
Inno, è obbligatorio impararlo a scuola
Senato dà ok: 17 marzo giornata Unità d’Italia
ROMA - D’ora in poi sarà più difficile notare sportivi che rimangono in silenzio o persone che inseriscono parole a caso mentre suona l’inno di Mameli: impararlo a scuola è obbligatorio. Il Senato, infatti, tra le accese proteste della Lega, ha dato il via libera definitivo al ddl che prevede l’insegnamento dell’inno tra i banchi. La norma, che è passata con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, istituisce inoltre il 17 marzo giornata nazionale dell’Unità d’Italia, della Costituzione, dell’inno nazionale e della bandiera.
In base al testo approvato oggi, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati "percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul significato del risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’unità nazionale, alla scelta dell’inno di Mameli, alla bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione della storia europea".
Lo scopo che si prefigge la legge con l’istituzione di questa nuova festività (che non avrà comunque effetti civili, non sarà insomma un giorno di vacanza o di ferie) è quello di "ricordare e promuovere" nella giornata del 17 marzo, data della proclamazione nel 1861 a Torino dell’unità d’Italia, "i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica".
Le reazioni. Accese le proteste della Lega prima dell’approvazione del testo. Alcuni senatori hanno lasciato l’Aula prima del voto. "Senatori del Parlamento italiano, magari ex ministri, non possono affermare di non sentirsi italiani. È vergognoso", ha detto il senatore Udc Achille Serra intervenendo in Aula. Attribuisce ’grande valore storico’ alla decisione presa dal Senato il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Da oggi - ha detto - il 17 marzo diventa il giorno di tutti gli italiani che, attraverso una memoria finalmente condivisa, avranno la possibilità di riaffermare i valori dell’identità nazionale". Per il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa, l’inno è parte integrante della nostra storia: "È importante che proprio a scuola, culla dell’insegnamento e della cultura, i giovani possano imparare non solo il testo, ma ciò che esso rappresenta per tutti gli italiani". "Con questo ddl - ha detto il senatore del Pd Antonio Rusconi - alle scuole è affidato un compito importante: recuperare e rinnovare le radici di una Nazione, dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme’’.
«Mafia sopravvissuta grazie alla trattativa fatta con lo Stato»
I pm: 20 anni di amnesie istituzionali
di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 6.11.2012)
PALERMO - C’entra la caduta del Muro di Berlino, «la "grande madre" di una catena di eventi». C’entrano «l’eccesso di tassazione e l’utilizzazione distorta della spesa pubblica», che provocò la «rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria» al Nord. C’entrano le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua «inusuale collaborazione giudiziaria» contribuì alla «eliminazione politica» del ministro Martelli, «percepito come un ostacolo».
Fu anche a causa di questa concatenazione di fatti che prese forma la «scellerata trattiva» tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, divisa in tre distinte fasi: cominciata nel ’92 all’indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa nostra, quando governavano ancora Andreotti e la Dc; proseguita nel 1993 durante il governo «tecnico» presieduto da Carlo Azeglio Ciampi; culminata nel ’94 con l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, quando si realizzò la «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica».
La sintesi dell’indagine della Procura di Palermo è contenuta in una memoria di 22 pagine inviata ieri al giudice dell’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, l’ultimo atto d’accusa sottoscritto dal procuratore aggiunto Ingroia prima di partire per il Guatemala. Insieme alla sua firma ci sono quelle dei quattro pubblici ministeri che restano a sostenere l’accusa: Lia Sava, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Il documento riassume il processo e chiarisce i singoli capi d’imputazione per i dodici imputati di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio (più qualche indagato nell’inchiesta stralcio). E che conferma che restano vaste zone d’ombra, dovute ai «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale».
Scrivono i pm: «Questo ufficio è consapevole che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca, durata vent’anni, che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile ’92-93, quanto meno di fronte alle risultanze che confermavano l’esistenza di una trattativa ed il connesso, seppur parziale, cedimento dello Stato».
Dopo il delitto Lima (12 marzo ’92), «prima esecuzione della minaccia rivolta verso il governo e in particolare il presidente del Consiglio Giulio Andreotti», con le stragi il ricatto si estende dai singoli uomini politici alle istituzioni in generale. «È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa, e perciò mai dichiarata, Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali», accusano i pm. Che rivendicano il lavoro svolto citando una frase dell’attuale presidente del Consiglio Mario Monti, pronunciata nel ventennale dell’eccidio di Capaci: «L’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare».
Gli imputati si dividono in due grandi gruppi. Da un lato i mafiosi (Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e il «postino» Nino Cinà), che dopo l’omicidio Lima recapitarono il famoso «papello» con le richieste per interrompere le stragi. I loro «minacciosi messaggi» proseguirono con le bombe del ’93, finché nel ’94 «fecero recapitare al governo presieduto dall’on. Berlusconi l’ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-mafioso». Così «la lunga e travagliata trattativa trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi».
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell’Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) «sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia» per aver svolto «il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un’estorsione. Con l’aggravante che il soggetto "estorto" è lo Stato e l’oggetto dell’estorsione è il condizionamento dell’esercizio dei pubblici poteri». Di qui l’imputazione, per loro come per i boss, di «violenza o minaccia a un Corpo politico».
All’appello mancano almeno due imputati che nel frattempo sono morti: Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio, all’epoca capo della polizia e vice direttore generale delle carceri, «che agendo entrambi in stretto rapporto con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis». Il riferimento è alla mancata proroga del trattamento del «carcere duro» per oltre trecento detenuti, tra i quali alcuni mafiosi. Secondo la Procura l’impulso arrivò proprio da Di Maggio «uomo fidato dei Servizi di sicurezza e da sempre legato al Ros dei carabinieri, con l’avallo che gli derivava anche dai rapporti con il capo dello Stato Scalfaro, a sua volta influenzato da Parisi». L’ex capo della polizia e Mori vengono dipinti come «gli uomini-cerniera che divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l’adempimento degli accordi presi».
Sempre nella ricostruzione della Procura Scalfaro è considerato il regista di altri passaggi-chiave: dall’avvicendamento tra Scotti e Mancino al Viminale a quello tra Martelli e Conso alla Giustizia, fino al cambio della guardia al vertice dei penitenziari, tra Nicolò Amato e il duo Capriotti-Di Maggio. Su Conso e Mancino, accusano i pm, «si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza». Il primo sulla sua nomina a ministro dell’Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti «41 bis» nell’autunno 1993.
L’inganno della cultura al servizio del potere
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 03.11.2012)
NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte.
Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse dagli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità.
Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura? Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore.
Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica.
Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro.
La cultura - per parafrasare un’espressione triviale - non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva.
Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento), cose utili ma in ambito diverso. Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia.
Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori.
La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzacorsi re le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.
La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.
L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA, ANCHE IL 4 NOVEMBRE
L’Italia ripudia la guerra, anche il 4 novembre
Ricordare le vittime delle guerre, costruire la pace e la sicurezza attraverso il disarmo *
Il 4 novembre non e’ un giorno di festa: e’ un giorno di lutto per le vittime delle guerre e d’impegno per il disarmo. Non festa ma lutto, perche’ si ricorda la fine di una "inutile strage", come Benedetto XV defini’ la prima guerra mondiale, e non si puo’ non ricordare che tutte le guerre sono "inutili stragi" e tutti gli eserciti ne sono gli strumenti.
Non festa ma impegno, perche’ per ricordare davvero - e non retoricamente e ipocritamente - le vittime delle guerre l’unico modo e’ "ripudiare la guerra" e costruire la pace, attraverso la via realistica del disarmo.
Eppure il 4 novembre - unica celebrazione traghettata dal fascismo alla Repubblica - si continuano a "festeggiare" le forze armate, cioe’ gli strumenti di guerra. Ed e’ una festa che si prolunga tutto l’anno: nelle varie manovre finanziarie, qualunque siano i governi in carica, si continuano a dilapidare preziose risorse in spese militari e di armamenti (23 miliardi nell’ultimo anno), si continua a finanziare l’acquisto di terribili strumenti d’attacco come i caccia F-35 (15 miliardi previsti) ed a condurre operazioni di guerra come l’occupazione militare in Afghanistan, atti contrari alla Costituzione italiana. Si lascia invece quasi privo di risorse il Servizio Civile Nazionale, strumento di difesa civile della Patria prevista dalla legge e coerente con la Costituzione.
Del resto, le forze armate e i loro armamenti non sono solo strumenti di guerra potenziale, che diventano attuali solo quando entrano in azione. Le armi sono strumenti e mezzi di guerra in atto anche quando non sparano, perche’ la quantita’ enorme di risorse pubbliche che vengono destinate alle spese militari, alla preparazione della guerra contro minacce ipotetiche o pretestuose, lasciano la Patria senza difesa ed insicura rispetto alle reali minacce alle quali sono gravemente sottoposti, qui ed ora, tutti i cittadini, sul proprio territorio: la disoccupazione e la precarieta’ del lavoro, la poverta’ e l’analfabetismo, la fragilita’ edilizia in un paese sismico e i disastri idrogeologici...
Svuotare gli arsenali e riempire i granai, diceva il Presidente Pertini, ed invece abbiamo riempito gli arsenali e svuotato i granai, offrendo la peggiore delle risposte possibili alla crisi economica e sociale che stiamo vivendo.
Ricordare davvero le vittime delle guerre e costruire la pace puo’ dunque avvenire solo avviando un serio disarmo, attraverso la riconversione dalla difesa militare alla difesa civile; liberando le risorse necessarie per l’affermazione dei "principi fondamentali" sanciti nei primi dodici articoli della Carta costituzionale, quelli che offrono la sicurezza della cittadinanza - il lavoro, la solidarieta’, l’uguaglianza, la cultura, la difesa del patrimonio naturale - attraverso il ripudio della guerra e degli strumenti che la rendono possibile. Il 4 novembre, come tutto l’anno.
Per questo il nostro Movimento, insieme a Peacelink e al Centro di ricerca per la pace di Viterbo, ha lanciato per il 4 novembre la campagna "Ogni vittima ha il volto di Abele", affinché in ogni città si svolgano commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre.
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[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an@nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo]
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 1082 del 3 novembre 2012
LE MAPPE
La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa
Una volta l’arena politica era occupata dai partiti e i politici erano, di conseguenza, gli eletti dai cittadini. Ora i parlamentari si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo verametne. Così sono divenuti sempre più impopolari
di ILVO DIAMANTI *
LA DISSOCIAZIONE fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare "come se". Tutto fosse come prima. Quando l’arena "politica" era occupata dai partiti e i "politici", di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini. Nelle liste promosse e proposte dai "partiti". Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito "politico" in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "intercettato" durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell’inchiesta, dall’altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell’intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell’inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di "abusi" nell’ambito delle intercettazioni. E, ancora, l’Anm, intervenuta a sostegno dell’azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all’economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l’attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l’assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. "Eletti" in assemblee "elettive". Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.
Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri "costitutivi" della democrazia. Che concorrono a "garantire" e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell’Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa. A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al "campo politico" in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall’importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l’immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I "politici", cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.
Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i "politici" si sono presentati come "antipolitici". Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti. Un’altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo "tecnologico". Questa, infatti, è l’epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L’economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull’andamento dei Mercati. Ed essa stessa, a sua volta, è un "mercato".
Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D’altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato. Conservato in archivi immateriali. Siamo nell’era dell’Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l’eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e WikiLeaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l’Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il "ridicolo" diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione "pop". Pardon: punk.
In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico - portata alle estreme conseguenze da quasi vent’anni di berlusconismo - hanno minimizzato il ruolo e l’importanza dei "politici di partito". E dei "partiti politici". Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all’inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro.
Personalmente, mi preoccupa l’eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla. Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa "senza" partiti. Ma neppure "con questi" partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.
* la Repubblica, 20 agosto 2012
Così non usciamo dalla crisi
di Paolo Berdini (il manifesto, 10.08.2012)
Il processo di vendita dei beni immobiliari pubblici era iniziato nella metà degli anni ’90, ma i numerosi provvedimenti bipartisan hanno prodotto risultati modesti. Oggi la vendita annunciata dal governo Monti si farà perché la crisi economica favorisce l’efficacia dei provvedimenti.
I beni da vendere appartengono a quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato all’intangibilità delle radici culturali dell’Italia.
Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica. Si tratta di servizi scolastici, sanitari e sociali, di uffici che formano la sempre più debole trama pubblica delle nostre città. È evidente che la loro alienazione provocherà un ulteriore passo indietro per milioni di cittadini che vedranno cancellati preziosi servizi e la rete civica di convivenza. Il terzo gruppo appartiene ai (non tantissimi) beni non in uso: caserme dismesse, ospedali già soggetti alla forbice dei ragionieri, scuole ubicate in aree in cui la popolazione giovane è merce rara. Beni su cui in linea generale è difficile non convenire sul fare cassa. Ma non a tutti i costi. Le pubbliche amministrazioni spendono ingenti quantità di denaro per affitti di immobili privati. Alcune scuole sono vecchie e fatiscenti. Decine di migliaia di famiglie nelle grandi città vivono in grave disagio abitativo. Perché non si redige un piano di rientro dalle esposizioni per affitti passivi utilizzando anche a fini sociali gli immobili pubblici dismessi? Rischiamo una nuova beffa, come per la vendita degli alloggi degli enti pubblici, appannaggio a quattro soldi anche di ministri in carica.
L’ultimo gruppo è un’ulteriore sottolineatura della natura non tecnica del governo in carica. Un anno fa la stragrande maggioranza dei cittadini italiani si è espressa sul mantenimento di alcune prerogative in capo ad aziende pubbliche: questo è il senso inequivocabile del referendum sull’acqua.
Ma il quarto segmento della svendita è rappresentato proprio dai beni di proprietà della aziende municipalizzate. Un colpo micidiale alla cultura dei beni comuni. La folle dottrina liberista, dopo aver provocato la crisi a partire dai mutui subprime statunitensi e averla aggravata con la bolla immobiliare spagnola, vuole continuare a guadagnare sulle macerie. La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.
Messaggio del Presidente Napolitano in occasione del 20° anniversario dell’uccisione del giudice Borsellino
"Al fianco di quanti continuano l’opera di Paolo Borsellino e di tutti coloro che come lui sono caduti in nome della legge" *
"Desidero far giungere in quest’Aula nella quale si commemora e si onora la figura di Paolo Borsellino, l’espressione - innanzitutto - della mia rispettosa e affettuosa vicinanza alla signora Agnese". Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato, in occasione del 20° anniversario del tragico attentato in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti addetti alla sua tutela, alla odierna commemorazione promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati a Palermo.
"Il 23 maggio scorso - ha continuato il Capo dello Stato - ella volle - nell’impossibilità di partecipare di persona alla grande cerimonia nell’Aula Bunker - indirizzarmi una lettera di commovente, generoso apprezzamento per il mio operato di Presidente della Repubblica, e dirmi il suo conforto per aver visto diventare Borsellino e Falcone dei ’simboli per i giovani e le persone oneste di buona volontà’. E la lettera si concludeva con un riferimento a ’quello Stato in cui mio marito ci ha insegnato a credere malgrado tutto e tutti’, volendo che io sapessi come ella ’fino all’ultimo giorno della sua vita attenderà con pazienza di conoscere le ragioni per cui suo marito morì e i motivi per i quali nei primi anni dopo la strage è stata costruita una falsa e distorta verità giudiziaria’. Quale secondo terribile dolore è stata per lei e per i suoi figli, signora Agnese, quella contraffazione della verità! E quale umiliazione è stata per tutti noi che rappresentiamo lo Stato democratico!"
"Si sta lavorando - ha proseguito il Presidente Napolitano - si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio. Si deve giungere alla definizione dell’autentica verità su quell’orribile crimine che costò la vita a un grande magistrato protagonista con Giovanni Falcone di svolte decisive per la lotta contro la mafia. Questo è l’imperativo oggi a distanza di vent’anni ; questo è il nostro dovere comune, anche verso Agnese, Lucia, Manfredi, Fiammetta, e verso i famigliari - che ci sono egualmente cari - di Emanuela Loi, di Agostino Catalano, di Eddie Walter Cosina, di Vincenzo Li Muli, di Claudio Traina. E tanto più si riuscirà a vincere questa dura e irrinunciabile battaglia di giustizia, quanto più si procederà sulla base di analisi obbiettive e di criteri di assoluto rigore".
"Come ha fermamente dichiarato il Presidente del Consiglio Sen. Monti - ha aggiunto il Presidente Napolitano - ’non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità’, ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia. E proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione. Su ciò deve vegliare tra gli altri il Presidente della Repubblica, cui spetta presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura : e deve farlo, come in questi anni ha sempre fatto, con linearità, imparzialità, severità".
"Signori Magistrati di Palermo - ha proseguito il Capo dello Stato - avete spesso sofferto, nel corso degli anni, per la perdita di eminenti ed esemplari colleghi, che possiamo richiamare e onorare tutti unendoli al ricordo di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone. Vissi io stesso il dramma, lo sgomento, il dolore per il brutale assassinio di quei due eroici servitori dello Stato, vissi quelle ore insieme con il più fraterno amico della mia vita, il senatore Gerardo Chiaromonte, di cui è rimasto per me indimenticabile, insieme con il fermissimo impegno di Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il rapporto di straordinaria stima e simpatia personale che aveva stabilito con Paolo come con Giovanni. E non si è mai spenta in me la traccia del cocente dolore con cui appresi la notizia dell’agguato omicida a Pio La Torre, con cui avevo strettamente condiviso passione ideale e tensione morale. Intensa era stata già prima la mia commozione per l’uccisione di Cesare Terranova, che avevo avuto fine e apprezzato collega in Parlamento".
"Vedete, Signori Magistrati di Palermo, - ha concluso il Presidente Napolitano - appartengo a una generazione che ha conosciuto la tragedia della guerra fascista e del crollo dell’8 settembre 1943, e ha giovanissima abbracciato l’impegno politico - pur da diverse posizioni ideologiche - nello spirito della Resistenza trasfusosi poi nella Costituzione. In quel contesto, la lotta conseguente contro la mafia, senza cedimenti a rassegnazioni o a filosofie di vile convivenza con essa, è divenuta parte integrante della nostra scelta civile sin da quando ci giunsero gli echi dell’eccidio di Portella delle Ginestre. Sono di recente tornato laggiù, per rinnovare un omaggio e un giuramento a cui sempre sono rimasto e sempre limpidamente rimarrò fedele. Pensando con commozione a Paolo Borsellino, a tutti coloro che sono come lui caduti in nome della legge, e sentendomi al fianco di quanti ne continuano l’opera".
* FONTE: SITO PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 18.07.2012)
Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?
Palermo non ci sta: “Regole rispettate”
I procuratori Ingroia e Messineo: ci accusano di aver violato la legge, non era mai successo
di Marco Lillo (il Fatto, 17.07.2012)
Proprio mentre Salvatore e Rita Borsellino, nel consiglio comunale di Palermo, presentavano assieme al sindaco Leoluca Orlando le celebrazioni del ventennale della strage di via D’Amelio, con un tempismo infelice il Presidente della Repubblica decideva di portare sul banco degli imputati i magistrati che stanno indagando sui moventi della strage e la trattativa Stato-mafia. A quei magistrati Giorgio Napolitano contesta davanti alla Corte Costituzionale un comportamento gravissimo: l’invasione di campo ai danni del Capo dello Stato nel-l’inchiesta sulla trattativa.
MAI IL QUIRINALE era sembrato più lontano da Palermo di ieri. Mentre la famiglia Borsellino presentava un programma di commemorazioni che è tutto un abbraccio ai magistrati “da onorare e proteggere mentre sono vivi”, il Quirinale rendeva pubblico un decreto pieno di “premesso che” nel quale si contesta formalmente un comportamento “vietato” dalla legge: avere osato ascoltare la voce del Capo dello Stato mentre parlava con il suo amico intercettato, Nicola Mancino. Il decreto della Presidenza della Repubblica nel quale si cita addirittura Luigi Einaudi come ispiratore di un atto formale che potrebbe avere conseguenze disciplinari e persino penali contro quei magistrati che si sono impegnati per anni nella ricerca della verità sugli anni più bui della Repubblica, è stata accolta come una fucilata alla schiena, un fuoco amico inatteso e ancora più pericoloso perché non arriva dalle retrovie, ma dall’alto. Dal Colle più alto.
Dopo un iniziale sbandamento, e una serie di riunioni concitate con i suoi sostituti, il Procuratore capo Francesco Messineo ha incontrato ieri la stampa per gettare acqua sul fuoco: “Prendiamo atto della posizione della Presidenza della Repubblica”, ha detto il procuratore, “ma a mio parere tutte le norme che sono poste a tutela del presidente della Repubblica sono state rispettate dalla Procura di Palermo”.
Messineo è stretto tra l’incudine del Quirinale e il martello della rivelazione di segreti d’indagine. Messineo non può ammettere l’esistenza delle intercettazioni telefoniche Mancino-Napolitano che invece spavaldamente il Quirinale afferma all’indicativo nel suo comunicato. Gli audio delle telefonate tra il presidente e il preoccupatissimo ex ministro dell’Interno non sono infatti ancora stati depositati e sono segreti perché non fanno parte dell’inchiesta chiusa, quella che riguarda Mancino, Mannino, Dell’Utri e gli altri. Bensì sono contenuti nel fascicolo dell’indagine “madre”, di cui quella appena chiusa è un ampio stralcio.
PER QUESTA RAGIONE Messineo, alla richiesta del Quirinale di notizie sull’esistenza di quelle conversazioni, non ha potuto fare altro che rispondere “ove esistessero sarebbero irrilevanti”. Non poteva scrivere di più perché avrebbe commesso una violazione del segreto, su istigazione del presidente della Repubblica e del Csm, un assurdo politico prima ancora che giuridico. Ecco perché ieri Messineo con i cronisti era costretto ai salti mortali: “Ove esistessero queste intercettazioni sarebbero occasionali e pertanto non sono state preordinate nei confronti della personalità coperta da immunità. Solo in quest’ultimo caso sarebbero certamente illegali”.
Messineo si dice sereno e quasi curioso di vedere come si risolverà il dibattito dottrinale. La questione è molto delicata. In Procura, appena spariscono i taccuini, la delusione e la rabbia si taglia col coltello: il capo dello Stato li accusa di aver violato la legge. E’ la prima volta nella storia della Procura di Palermo.
Quando Messineo comincia a spiegare che si tratta di una materia spinosa, quasi senza precedenti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, presente nella stanza e silenzioso fino a quel momento, fa notare che “un precedente c’è: nel 1997 uscì sui giornali un’intercettazione dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro che, come in questo caso, era stata intercettata su un’altra utenza. E allora fu trascritta e depositata”.
Ed è proprio questo il pomo della discordia: il caso Scalfaro. Anche se non lo cita espressamente, è chiaro che il Quirinale invoca il medesimo precedente ma per sostenere la tesi inversa: l’illegittimità dell’intercettazione telefonica Mancino-Napolitano. L’allora capo dello Stato nel novembre del 1993 fu intercettato dalla Procura di Milano, allora diretta da Francesco Saverio Borrelli, mentre parlava con l’allora presidente della Banca Popolare di Novara, Carlo Piantanida, intercettato dalla Guardia di Finanza. Quattro anni dopo, quando la trascrizione fu pubblicata da Il Giornale dei Berlusconi, scoppiò un putiferio politico.
L’ex presidente Francesco Cossiga, spalleggiato da alcuni esponenti del centrosinistra come Cesare Salvi, sostenne che il presidente non può mai essere intercettato nemmeno in via indiretta e il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick, poi nominato nel 2000 da Ciampi giudice costituzionale e dal 2008 al 2009 promosso presidente della Corte, disse in Parlamento: “I magistrati non hanno violato alcuna norma, anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica”.
Flick, con oratoria un po’ cerchiobottista, da un lato non ravvisò nella condotta dei magistrati “aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione”. Dall’altro sottolineò però che esiste nel nostro ordinamento un “assoluto divieto di intercettazione telefonica” nei confronti del presidente della Repubblica a tutela delle sue prerogative. Tuttavia aggiunse Flick, oggi presidente del San Raffaele questo principio “è frutto di un’interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica”. Dopo quella polemica politica però nessuno in Parlamento fece nulla per cambiare la legge ed è con quelle norme che la Procura di Palermo ha ritenuto di potere intercettare le telefonate di Mancino in cui si sente la voce di Napolitano.
A taccuini chiusi, in Procura si fa notare che “non esiste alcuna norma che preveda la procedura di distruzione invocata dal decreto del presidente, cioé su richiesta del pm e con l’accordo del gip, ma senza sentire le parti”.
Lo dimostra il fatto che il Presidente - fanno notare fonti vicine alla Procura non segue l’interpretazione estrema di Eugenio Scalfari. Secondo il fondatore di Repubblica, appena udita la voce del Presidente, la polizia giudiziaria avrebbe dovuto addirittura interrompere la registrazione. Per Napolitano invece l’audio poteva essere registrato, ma non trascritto e andava immediatamente distrutto con decreto del gip. Anche se la legge non lo prevede: purché nessuno lo ascolti prima.
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 17.07.2012)
Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi.
Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.
Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.
Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea.
Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino.
Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti.
Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.
Deciderà, com’è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione. Perché delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione.
Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell’istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.
La verità e le regole
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.07.2012)
IL CONFLITTO fra i poteri dello Stato sollevato dalla Presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo, e portato davanti alla Corte costituzionale, ha indubbiamente gravissime implicazioni e altissime potenzialità di crisi istituzionale. Che vanno chiarite al più presto e, se possibile, raffreddate.
Osservato che non erano né irrilevanti né infondate le perplessità sollevate a suo tempo da Eugenio Scalfari sulla vicenda delle intercettazioni indirette al capo dello Stato, e che non del tutto chiare erano state le risposte dei magistrati di Palermo, si devono primariamente operare distinzioni.
La prima delle quali è tra la persona di Napolitano e la materia processuale nel cui ambito le intercettazioni sono avvenute - che è la complessa indagine sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. La verità pubblica e ufficiale su quella trattativa - se c’è stata, per ordine di chi, in quali termini - deve essere accertata attraverso la via giudiziaria: è, questo, un dovere istituzionale della magistratura, dalla quale l’opinione pubblica democratica si attende comportamenti ineccepibili e radicali, che facciano luce piena su un passaggio oscuro, e cruciale, della storia della repubblica. La verità è interesse di tutti gli onesti; anzi, è loro diritto.
Ma nessuno può pensare che quella verità stia nelle risposte di Napolitano a Mancino, che gli telefonava. Nel merito, le parole di Napolitano non possono dire nulla di rilevante su quella vicenda. E chi chiede che vengano stralciate e distrutte non sta coprendo reati, o ombre, o opacità. Sta invece chiedendo che vengano rispettate le prerogative del capo dello Stato, che in circostanze come queste non può essere intercettato neppure occasionalmente e incidentalmente. Come appunto sostiene Napolitano, preoccupato non per sé ma per la carica istituzionale che ricopre, che vuole consegnare al successore priva di ogni lesione nei poteri e nei diritti costituzionalmente sanciti.
Poiché la questione sotto il profilo giuridico è se la magistratura sia stata corretta o abbia ecceduto nei suoi poteri, se quelle intercettazioni occasionali debbano essere distrutte subito o solo dopo una valutazione del gip, se siano irrilevanti soltanto per le risposte di Napolitano o nella loro interezza (cioè anche nelle parti di Mancino), e poiché si tratta di una questione difficile, è giusto lasciare alla Corte costituzionale il compito di decidere.
Ma - seconda distinzione - la sostanza politica della vicenda non è qui. È, invece, nei sospetti che si vogliono avanzare sul Presidente, per indebolirne l’immagine e il ruolo politico; per travolgere, con un allarmismo qualunquistico, quel che resta della legittimità repubblicana, e per confezionare un’immagine di Paese allo sbando. Sarebbe, questa, l’ultima autolesionistica risposta delle élite ciniche e riluttanti (il cinismo ha infatti molte facce, anche quella dell’oltranzistico giustizialismo) al dovere del momento: che è di salvare l’Italia nella dignità, non di farla affondare in una universale vergogna.
Una terza distinzione è poi quella fra illecito e inopportuno. Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti.
Per ultima, la distinzione fra le prerogative del capo dello Stato e il normale diritto-dovere di cronaca. Inviolabili tanto le une quanto l’altro; e neppure confliggenti. Infatti, una democrazia costituzionale vive di regole, se queste sono sostanza etica e non superficiali formalismi giuridici: la violazione di uno status - quello del presidente della Repubblica -, quando è solennemente sancito dalla Carta, non è un atto di libertà, ma uno sgarro istituzionale e un gesto oggettivamente sfascista; allo stesso modo, utilizzare pretestuosamente la vicenda delle intercettazioni del Quirinale come metro per valutare altre intercettazioni, e per varare una legislazione proibizionistica - o comunque lesiva della libertà d’informazione e del diritto dei cittadini di essere informati - è un proposito liberticida che, mettendo il bavaglio ai mezzi di comunicazione, nasconderebbe agli italiani notizie sostanziali e determinanti sulla loro condizione civile e politica, sullo stato della loro democrazia. Entrambi i diritti - quello del capo dello Stato e quello degli italiani - vanno conservati intatti, per conservare insieme a essi la sostanza della democrazia, cioè i diritti di tutti.
Mai come in questo caso la distinzione - cioè, secondo l’etimologia, la critica - è esercizio virtuoso, di giudizio, di prudenza e di verità. Come è invece esercizio vizioso quello di tutti coloro che fanno di ogni erba un fascio e, sotto il pretesto dell’interesse alla verità, la seppelliscono così in una notte in cui tutte le vacche sono nere.
Il Salone del libro di Torino vince la causa sul nome *
Il tribunale di Milano ha dato ragione al Salone internazionale del libro di Torino nel ricorso contro Mjm editore, colpevole di pubblicizzare una propria iniziativa nel capoluogo lombardo usurpando marchi e notorietà del Salone torinese e contraffacendone modulistica e sito Internet.
L’ ordinanza del giudice Paola Gandolfi ha condannato Mjm a cambiare nome alla propria manifestazione, a cancellare il dominio Internet, a distruggere e rimuovere ogni materiale che facesse riferimento in modo surrettizio al Salone di Torino.
* Corriere della Sera, 05 luglio 2012, Pagina 39
“Intervenire su Grasso”
Lo suggerisce a Mancino il consigliere del Colle, D’Ambrosio
E il Procuratore antimafia viene convocato in Cassazione
di Marco Lillo (il Fatto, 19.06.2012)
"Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva il braccio destro di Napolitano, Loris D’Ambrosio, a Nicola Mancino. Poi aggiungeva: “Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. Non erano millanterie. Alla fine le pressioni del Quirinale hanno prodotto un risultato: il procuratore nazionale antimafia il 19 aprile è stato convocato dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino.
L’assedio è fallito solo grazie al gran rifiuto di Grasso, raccontato a Sandra Amurri sotto. Ogni giorno emergono particolari inquietanti sul comportamento della Presidenza della Repubblica nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992-’93.
Sabato scorso il Colle era stato costretto a tirare fuori dal cassetto la lettera inviata al procuratore generale della Cassazione dal segretario generale della Presidenza del Consiglio, Donato Marra: “Il Capo dello Stato auspica - scriveva Marra allegando una lettera di Nicola Mancino in tal senso - che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure (...) e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate”. Ora si scopre che - dopo quella lettera pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha esaudito i voleri di Mancino e Napolitano convocando proprio Grasso. Per comprendere l’epilogo della manovra quirinalizia, bisogna leggere le telefonate dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia assieme ai sostituti Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Lia Sava, in particolare le nove intercettazioni dei colloqui tra D’Ambrosio e Mancino.
Il fidato collaboratore di Napolitano si offre senza risparmio e spende il nome del presidente. Il 25 novembre alle 21, D’Ambrosio e Mancino parlano di un possibile snodo della trattativa: la nomina del magistrato Francesco Di Maggio (poi deceduto) a numero due del Dipartimento amministrazione penitenziaria. “Perché è arrivato lì Di maggio? Chi ce lo ha mandato? Questo è il problema”, spiega D’Ambrosio a Mancino. Poi aggiunge: “C’erano due problemi: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi e lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente perché per la parte 41 bis c’erano Mori, Polizia-Parisi, Scalfaro e compagnia. Per la parte dei colloqui investigativi... Di Maggio-Mori”.
CON IL PASSARE dei mesi i discorsi si concentrano sulle ansie di Mancino, che pensa di essere nel mirino del pm di Palermo Nino Di Matteo e invoca un intervento del capo della Dna Pietro Grasso sotto la veste del coordinamento. “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (probabilmente i pm della Procura di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione? ’” Mancino prosegue: “E io gli ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. È quello l’obiettivo: spingere Grasso a intervenire sulle procure di Palermo e Caltanissetta per imporre un coordinamento che - nelle intenzioni di Mancino almeno - avrebbe potuto ridurre i danni. Si arriva al 24 febbraio. A Palermo Mancino è sentito come testimone nel processo a Mario Mori dove si parla sempre di trattativa Stato-mafia.
La deposizione non soddisfa il pm Di Matteo e il giorno dopo sui giornali esce la sua intervista: “Qualcuno nelle istituzioni mente” con l’anticipazione di un imminente confronto tra gli ex ministri Mancino e Martelli. L’ex presidente del Senato entra in fibrillazione: “Il pm Di Matteo ha detto che ci sono contraddizioni tra Mancino, Martelli e Scotti”, dice al telefono a D’Ambrosio, che replica: “Ma lui l’ha già chiesto il confronto? Io per adesso posso parlare con il presidente (con tutta probabilità Napolitano, ndr). Si è preso a cuore la questione ma non lo so. Francamente la ritengo difficile”.
D’Ambrosio e Mancino si interrogano al telefono su quale sia la persona o l’ufficio giudiziario sul quale intervenire: “Il collegio (del Tribunale di Palermo, ndr) lì è equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto con Tavormina (generale ed ex capo della Dia) potrebbe rigettare per analogia”. Non è facile: “Intervenire sul collegio”, spiega D’Ambrosio, “è una cosa molto delicata. Più facile è parlare con il pm”. Qual è il pm giusto però? Mancino spiega: “L’unico che può dire qualcosa è il procuratore capo di Palermo Messineo e l’altro che può dire qualcosa è il Direttore nazionale antimafia Grasso. Io gli voglio parlare perché sono tormentato”. Povero Mancino. D’Ambrosio lo rincuora: “Ma non Messineo... in udienza Di Matteo è autonomo. Io direi che l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale Grasso”. Poi Mancino si lamenta di “Messineo che non fa più niente”.
MANCINO e D’Ambrosio si sentono il 5, il 7 e anche il 12 marzo quando l’ex presidente del Senato chiede a D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. Loris D’Ambrosio non lo manda a quel paese ma anzi lo illude: “Lo devo vedere domani”. Si arriva così al 30 marzo. I pm Ingroia e Di Matteo chiedono il confronto in aula al processo Mori tra Mancino e Martelli. Il presidente del tribunale, per pura scelta tecnica, rigetta. Ma Mancino non si rilassa. Telefona il 27 marzo e poi ancora il 3 aprile a D’Ambrosio.
Il 4 aprile il Quirinale scrive al procuratore generale della Cassazione. Fiero di avere fatto il suo compito, il giorno dopo, il 5 aprile, il consigliere del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, legge al testimone (poi indagato per reticenza) la lettera del Quirinale al pg della Cassazione. Poi D’Ambrosio aggiunge: “Ho parlato sia con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto pg della Cassazione, ndr) che con Ciani (il pg della Cassazione, ndr), hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti”. Passano solo due settimane e Ciani, forte della lettera appunto, convoca Grasso.
L’intervista: Pietro Grasso difende i Pm di Palermo
“La Suprema Corte mi chiese di relazionare, ma a voce”
di Sandra Amurri (il Fatto, 19.06.2012)
“Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso”
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, a dicembre 2011 racconta al telefono a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica: “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione’ e io ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. L’occasione è la cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri natalizi. Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo.
Procuratore Grasso, conferma le parole di Mancino?
Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai Pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso e la mia azione è funzionale a favorire la loro attività investigativa alla ricerca della verità. Mancino lamentava valutazioni diverse da parte di talune procure rispetto a relazioni e comportamenti e omissioni a lui attribuiti. Gli ho detto che il solo strumento che può ridurre a unità indagini pendenti in diversi uffici è l’istituto dell’avocazione che, però, è applicabile solo nel caso di ingiustificata e reiterata violazione delle direttive impartite dal Pna al fine del coordinamento delle indagini. Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare.
Dunque Mancino lavora di fantasia?
Sono le parole di un uomo che dice di sentirsi perseguitato, accerchiato. Come risulta dai verbali, sono state fatte riunioni di coordinamento tra le varie Procure senza alcuna tensione come possono confermare tutti pm. Nessuno si è mai lamentato di una mia interferenza. Non vi è mai stato alcun accenno alla questione Mancino. Coordinamento significa che le informazioni di ogni procura debbono essere messe a disposizione delle altre procure affinché vi sia una circolazione di notizie. Ma, ripeto ogni Procura resta autonoma e indipendente come è avvenuto: Caltanissetta ha archiviato e Palermo, in presenza di altri elementi, ha proceduto anche nei confronti di Mancino per quello che ha detto al dibattimento.
Il 12 marzo Mancino chiama D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio risponde: “Lo devo vedere domani”. Procuratore Grasso, lei il 13 marzo ha incontrato il consigliere D’Ambrosio?
Ecco la mia agenda alla pagina 13 marzo: in una giornata densa di riunioni e consultazioni non vi è traccia di appuntamenti con D’Ambrosio. Forse prevedeva di farlo, ma non lo ha fatto.
Allora D’Ambrosio mente?
Mah! Può averlo detto per tranquillizzare Mancino che, evidentemente non era rimasto soddisfatto dalla mia risposta tranciante in occasione della cerimonia al Quirinale.
Ma D’Ambrosio in altre occasioni le ha mai parlato del caso Mancino?
Sì. Mi ha espresso l’esigenza di Mancino. Il problema, per quanto mi riguarda, non è ciò che abbia fatto o abbiano tentato di fare, ma quello che io ho fatto. È mai arrivata una richiesta di Grasso ai Pm di Palermo? Grasso ha mai compiuto un solo atto per agevolare Mancino? La risposta è: no.
Conferma che l’attuale Pg di Cassazione Ciani l’ha convocata, lasciando intendere che Mancino riteneva di subire le conseguenze di un mancato coordinamento tra le procure?
Sì. Sono stato convocato dal Pg della Suprema Corte il 19 aprile. Mi è stata richiesta una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari.
Perché Ciani non lo sapeva?
Io alle richieste del superiore ufficio rispondo per iscritto.
Alla luce delle responsabilità, alcune, per ora, sicuramente politiche, cosa auspica per il raggiungimento della verità sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi che ne sono seguite?
Che inizino a collaborare i rappresentanti delle istituzioni. I mafiosi, quelli che si sono pentiti, conoscono solo un certo livello, non sono i vertici, intendo Graviano, Riina, Provenzano. Finché avremo pentiti mafiosi di basso rango potremmo arrivare fino a un certo livello di conoscenza, per avere la verità compiuta abbiamo bisogno dei vertici di Cosa Nostra oppure di qualche apporto istituzionale che ha vissuto e sa. Io auspico la verità e credo umilmente di aver dato un contribuito determinante nel convincere Spatuzza a pentirsi, nell’aver raccolto le sue dichiarazioni sulle stragi e nell’averle messe a disposizione delle varie Procure.
A un comune cittadino indagato è dato chiedere “protezione” ad alte cariche dello Stato che prontamente si attivano?
No, ovviamente. La responsabilità è di chi chiede e di chi si attiva. Io non ho raccolto alcuna richiesta. La legge, ripeto, è e deve essere uguale per tutti.
Il Pg: “A sua disposizione” L’ex ministro: “Uè guagliò...”
Poi Esposito invita l’ex capo del Viminale:
“Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 19.06.2012)
Palermo Il dialogo è quello tra due vecchi amici, e uno parla tranquillamente in napoletano. “Sono chiaramente a sua disposizione - dice il Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito - adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo. Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”. E Nicola Mancino replica: “Guagliò come vengo, vado sui giornali”. “Ahahaha, ho capito”, commenta allegro il pg. Sono le 9.04 del 15 marzo 2012, l’ex presidente del Senato chiama per congratularsi con l’alto magistrato che ha appena ricevuto l’ordinanza del gip Alessandra Giunta su via D’Amelio.
MANCINO è contento: “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice al pg, e con lui parla a ruota libera della sua posizione giudiziaria, illudendosi di farla franca, almeno con i pm nisseni: “Resta la figura di una persona che è reticente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”. Siamo a metà marzo, e le manovre di accerchiamento sul Quirinale entrano nel vivo: venti giorni dopo, il 4 aprile, sollecitato da Mancino, il capo dello Stato invia la sua lettera al pg della Suprema Corte, in quel momento quasi pensionato. Per questo il carteggio agli atti di piazza Cavour serve di fatto a spianare la strada al neo pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, l’ultimo a muoversi in questa catena di Sant’Antonio di soccorso istituzionale. Ciani alla fine convoca il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, l’unico che ha poteri reali di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta.
Ma il capo della Dna si sfila dall’intrigo istituzionale, rispondendo per iscritto di non avere le prerogative necessarie per intervenire nella vicenda. A rivelare la conclusione delle “grandi manovre” politiche per monitorare l’indagine sulla trattativa è una fonte molto vicina a Vitaliano Esposito, il quale in una lettera di precisazione inviata al Fatto Quotidiano parla di un’altra riunione, convocata a Roma in una data imprecisata, ma certamente oltre due anni fa, visto che destinatari della convocazione furono i pg di Palermo Luigi Croce e di Caltanissetta Giuseppe Barcellona. Una riunione, dice Esposito, organizzata con Piero Grasso per accertamenti “sulle indagini, apparentemente parallele, in corso alle procure di Palermo e Caltanissetta”.
I PARTECIPANTI, secondo quanto scrive il pg, avrebbero garantito “la più ampia collaborazione, riservando la trasmissione di atti rilevanti”. Ma di questo incontro non sanno nulla né Luigi Croce, pg a Palermo fino al 20 ottobre 2011, né tantomeno Grasso: entrambi sostengono di non avere mai partecipato ad alcun vertice sul tema. Cadono dalle nuvole anche i pm di Palermo, che non sono mai stati informati e che hanno appreso dell’interesse istituzionale sulle loro indagini dall’ascolto delle centinaia di ore di intercettazioni disposte sui telefoni dei protagonisti politici di quella stagione, Mancino in testa. Nella sua lettera il pg Esposito precisa di avere chiesto l’ordinanza del gip nisseno Alessandra Giunta su via D’Amelio “senza avere avuto contatti con alcuno”, prima, cioè, di ricevere la missiva del Quirinale. L’unico contatto con Nicola Mancino è quello del 15 marzo scorso, il giorno dopo la richiesta ufficiale dell’ordinanza.
“Nell’articolo si fa riferimento a una telefonata che mi fece il senatore Mancino per complimentarsi della mia iniziativa, telefonata da me ricevuta - dice oggi il pg Esposito - e dunque per quanto mi riguarda assolutamente neutra”. E questa è solo una delle centinaia di conversazioni al telefono intercettate dai pm tra la fine dell’anno scorso e la primavera di quest’anno, quando l’inchiesta sulla trattativa entra in dirittura d’arrivo catalizzando l’interesse istituzionale. E scatenando in Mancino un’escalation di angoscia, rivolta, in particolare, ad uno dei pm: “È sempre il solito Di Matteo. È lui il guaio... mi ha convocato... Fa le domande, io rispondo e lui... non dice niente, non parla, fa solo domande”.
È IL 25 novembre 2011. Alle ore 21.07, Nicola Mancino telefona a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano, per segnalare che è stato nuovamente convocato a Palermo, e si lamenta del pm Nino Di Matteo, attribuendogli il ruolo dell’inquisitore più duro durante gli interrogatori. È la madre di tutte le intercettazioni, la prima e la più lunga di dieci telefonate - tutte partite dal cellulare dell’ex presidente del Senato - che secondo l’accusa rivelano, tra novembre 2011 e aprile 2012, l’aspettativa fortissima di Mancino di un “salvataggio” istituzionale da parte del Quirinale rispetto alle iniziative processuali della procura di Palermo, che appare intenzionata a scavare a fondo sul suo coinvolgimento nell’indagine.
Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, della corrente di Md, e il presidente dell’Unione giornalisti pensionati Guido Bossa. Mancino chiama Rossi mezz’ora dopo essersi complimentato con Esposito, il 15 marzo scorso. Quello stesso Nello Rossi che due giorni fa si è detto “incredulo e profondamente preoccupato” per il coinvolgimento nell’inchiesta dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso. Fibrillazioni che attraversano anche altri indagati della trattativa: decine sono le telefonate tra gli ex ufficiali del Ros fedelissimi di Mario Mori. Giuseppe De Donno parla più volte con Mori e scambia frenetici sms (e numerose telefonate) con “Raf”, Raffaele Del Sole, l’ufficiale che a Roma, nel processo al pm Salvatore Leopardi (accusato di avere informato i servizi dei contenuti dei colloqui in carcere dei boss ristretti al 41 bis), si è trincerato dietro il segreto di Stato.
Indagine sulla trattativa Stato-Mafia
Il Quirinale è intervenuto
Il Colle definisce “risibili” e “irresponsabili illazioni” le rivelazioni del Fatto sulle pressioni di Mancino contro i pm di Palermo Ma poi tira fuori la lettera della Presidenza della Repubblica al Pg della Cassazione: la prova dell’interferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 17.06.2012) Palermo E alla fine la lettera è saltata fuori. È firmata da Donato Marra, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ed è datata 4 aprile 2012. Destinatario: il Procuratore generale della Cassazione, nella fase di passaggio di consegne tra Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani. La rende pubblica il Quirinale in una nota emessa poco prima delle 19 di ieri: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal capo dello Stato a delle telefonate e a una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono”. A nome di Napolitano, Marra “gira” al pg della Suprema Corte le lamentele di Mancino, indagato a Palermo per la trattativa che “si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa”.
Ma il Quirinale non si limita a una semplice trasmissione: Marra informa il pg che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato e tuttora rispettabile cittadino italiano, sono condivise da Napolitano. “Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nell’Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il capo dello Stato - scrive Marra - auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione”. Spiega Marra alla fine della missiva che l’intervento del capo dello Stato è finalizzato a “dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”.
NAPOLITANO in prima persona, dunque, scavalca il capo della Dna Pietro Grasso cui compete il coordinamento tra le procure e su una materia delicata e scottante come l’indagine sulla trattativa Stato-mafia investe, in modo irrituale e insolito, direttamente il pg della Cassazione. Che non ha poteri di coordinamento tra procure, ma solo quello di decidere sui conflitti di competenza eventualmente sollevati sulle inchieste in corso. Le preoccupazioni di Mancino e Napolitano sono legate alle indagini parallele delle Procure di Caltanissetta e Firenze che, fino a questo momento, hanno ritenuto “penalmente non rilevanti” le condotte dei protagonisti di quella stagione di dialogo dello Stato con Cosa Nostra. E convergono nel senso di indirizzarle verso un unico sbocco: quello “minimalista” che salvi i politici da ogni coinvolgimento penale. La lettera di Marra si conclude con il capo dello Stato che resta in attesa di informazioni (“il presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”) dal Pg della Cassazione, per - spiega la nota del Quirinale - “pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato’’.
E se l’inchiesta di Palermo genera fibrillazioni sul Colle più alto, isolando di fatto i pm palermitani, lo stato maggiore di Magistratura democratica giura “a scatola chiusa” sull’innocenza dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, spaccando la corrente: il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi si dice “incredulo e profondamente preoccupato”. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini esterna il suo “sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. Giovanni Palombarini, tra i fondatori della corrente, “senza bisogno di conoscere il fascicolo” è pronto a giurare sulla sua innocenza. Come fa a saperlo? “Lo so”. Parole che scatenano il dibattito nella mailing list della corrente, con una stragrande maggioranza di interventi di segno opposto: cioè a favore dei pm di palermo.
Lo Stato, diceva Leonardo Sciascia, non può processare se stesso. Ma se proprio è costretto a farlo, perché i suoi più autorevoli esponenti sono accusati di avere dialogato con i boss stragisti Riina e Provenzano, il corto circuito istituzionale è assicurato.
Se a parole tutti condannarono Pietro Lunardi per il suo “con la mafia si deve convivere”, ora che un’inchiesta prospetta una vera trattativa con Cosa Nostra, tutti si chiedono: è legittimo considerare personalità come Mannino, Mancino, Conso, alla stregua di criminali comuni? Ma anche: è legittimo un comportamento sanzionato dal codice penale solo perché giustificato dalla ragion di Stato? “Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia - ha sempre sostenuto il pm Ingroia - ma spesso non lo sono. In caso di divorzio tra le due succede che la ragion di Stato può costituire movente di un reato’’. La levata di scudi che determina l’isolamento politico, giuridico e interno alle toghe di un pugno di pm illusi di poter scandagliare con un’indagine giudiziaria la cattiva coscienza della politica italiana ripropone la domanda centrale, scomoda e imbarazzante: la magistratura ha il diritto-dovere di far salire sul banco degli imputati la scelta politica di unoopiùgoverni, quandoquesta è suggerita dalla gravità del momento?
È LECITO, insomma, trattare sottotraccia con la mafia se l’intento è quello di salvare la vita di esponenti politici minacciati anche a costo di sacrificare Borsellino e la sua scorta, e poi tanti innocenti a Firenze e Milano)? Dal mondo accademico arrivano le prime soluzioni: il docente Giovanni Fiandaca, già capo della commissione di riforma del codice antimafia, è scettico sull’efficacia dell’azione penale. E propone un’exit strategyextra-giudiziale, ricordando le commissioni di verità istituite in Sudafrica per riconciliare le parti e chiudere i conti con il passato al di fuori delle aule giudiziarie: “I protagonisti direbbero la verità in un clima più sereno, non punitivo”. Ma Cosa Nostra può esser trattata alla stregua dell’apartheid? “Fino a che - è il parere di Ingroia - ciascuno non farà di tutto perché la verità venga a galla, la democrazia non potrà mai diventare matura perché resterà ostaggio dei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia”.
I vertici dello Stato sapevano
“Paolo aveva capito tutto”
Agnese Borsellino. “Alcuni potenti non hanno salvato neppure la dignità”
intervista di Sandra Amurri (il Fatto, 17.06.2012)
Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? ”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”.
A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi?
Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere.
Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone?
Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto.
Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati?
Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse.
Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi.
Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava.
Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”?
Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro.
Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra?
Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione.
Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale?
Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono.
Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire?
Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.
Da via D’Amelio alle stragi del ’93 fino all’indagine di Palermo
il Fatto 17.6.12
L’omicidio del magistrato antimafia Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, sarebbe partita la trattativa tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra per far cessare la “strategia stragista”, in cambio di un’attenuazione dell’articolo 41 bis, che prevedeva misure carcerarie durissime contro i mafiosi. Due giorni dopo la strage, il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica al sedicesimo scrutinio. Un’elezione a sorpresa, visto che prima di Capaci la partita al Quirinale era giocata da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. E la conferma che la strage aveva mutato per sempre anche la politica italiana. A portare avanti il dialogo segreto fra Stato e mafia sarebbero stati i carabinieri del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Secondo il figlio di questi, Massimo, al padre fu consegnato un “papello”, ovvero il documento in cui venivano espresse le dodici “volontà” di Cosa Nostra, con una lunga serie di richieste allo Stato. La prima era appunto l’attenuazione del 41 bis, rafforzato l’8 giugno 1992 con un decreto dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e dal Guardasigilli, Claudio Martelli.
A inizio luglio, proprio Scotti viene “dirottato” alla Farnesina. Al suo posto viene nominato Nicola Mancino. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, a Palermo. Una 126 imbottita di esplosivo salta per aria, uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Pochi giorni prima, Borsellino aveva interrogato Mutolo, poi aveva incontrato Nicola Mancino. La trattativa segreta, intanto, sarebbe proseguita.
Dopo il ‘93 i boss avrebbero avuto un altro referente nelle istituzioni, l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. La trattativa avrebbe avuto il suo culmine nel 1994: lo sostengono il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Fu proprio allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, secondo gli inquirenti, “prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite del suo stalliere Vittorio Mangano e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura”.
MATERIALI SUL TEMA (nel sito):
Per la Costituzione - e il dialogo, quello vero ...
"ITALIA". AMARE L’ITALIA: RIPRENDIAMOCI LA PAROLA. VAFFA-DAY?! ONORE A BEPPE GRILLO. Contro la vergognosa confusione dell’ "antipolitica" in Parlamento e della "politica" in Piazza, l’invito ad uscire dalla "logica" del "mentitore". Una lettera (2002), con un intervento di Beppe Grillo (2004)
ITALIA, 1994-2012: POPULISMO E BAAL-LISMO DI STATO. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito. Il "popolo della libertà": "Forza Italia"!!!
LA DEMAGOGIA DI STATO E IL MESSAGGIO DELLA LIBERAZIONE. Il Presidente Napolitano richiama e sollecita a non «abbandonarsi a una cieca sfiducia», a non «finire per dar fiato a qualche demagogo di turno»
Il «chirurgo di Caporetto» e il vuoto della politica
di Ida Dominijanni (il manifesto, 31 gennaio 2012)
Non sarebbe piaciuto, a Oscar Luigi Scalfaro, essere definito come il Presidente a cavallo fra due Repubbliche, prima e seconda, come accade in molti dei commenti che gli sono stati dedicati. Non per il passaggio, s’intende, di cui egli fu effettivamente protagonista e guida, ma per la numerazione delle Repubbliche. La Repubblica, per lui, era una sola, quella della Costituzione; e non pronunciava mai il lemma "seconda Repubblica" senza premettere un "cosiddetta" o simili ("maldefinita", disse una volta in un’intervista al manifesto).
La pignoleria linguistica, va da sé, aveva una ragione politica: non solo per il fatto che soltanto una nuova Costituzione può dare luogo a una seconda Repubblica, ma perché Scalfaro non si piegò mai all’idea - e all’ideologia - dell’"eccezionalismo" di Berlusconi, ovvero al racconto della sua "discesa in campo" come inizio di un’era nuova e come riscrittura fattuale, anche se non formale, delle regole del gioco politico.
Questo spiega perfettamente la sua decisione che resta tutt’ora oggetto di controversia (e astio, da parte di Berlusconi e del Pdl), quella che lo portò nel ’94 a cercare una soluzione parlamentare della crisi del primo governo del Cavaliere (provocata dall’uscita della Lega dalla maggioranza), senza ricorrere alle elezioni come invece Berlusconi - convinto allora come adesso che l’unica legittimazione che conta sia quella popolare, e che i vincoli costituzionali non esistano - riteneva ovvio.
Del resto, non siamo ancora e sempre allo stesso punto, sospesi fra le norme del parlamentarismo scritto in Costituzione e la prassi di una quasi-investitura diretta del premier? Se due mesi fa Berlusconi ha ingoiato la soluzione Monti con minor riottosità di quanto fece allora con Dini non è solo perché allora Dini fu sostenuto da una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne (il famoso "ribaltone") e Monti oggi è sostenuto da tutti; è anche e banalmente perché stavolta un ritorno alle urne non l’avrebbe premiato, e la sua baldanza del 94 non c’è più.
La correttezza della procedura seguita allora dal Presidente nulla toglie, ovviamente, alla sua acclarata allergia politica al Cavaliere, quanto di più lontano e marziano potesse piombare sulla scena per uno che avesse la biografia di Scalfaro, e quanto di più insidioso per uno che, da costituente, la Carta del ’48 la sentiva come una creatura da difendere.
Non smise di farlo, del resto, dopo il settennato, come dimostra il suo impegno militante al referendum del 2006 contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
«Io ho dovuto fare il chirurgo a Caporetto, non in una Asl modello», disse una volta in risposta a chi lo accusava di aver favorito una deriva presidenzialista interpretando in modo troppo "interventista" la figura del Capo dello Stato. Quell’interventismo, in verità, non avrebbe fatto difetto ai suoi successori, ma non va dimenticato soprattutto che era stato ben più marcato nel suo predecessore Francesco Cossiga. Quanto alla Caporetto, come non ricordare, e come restituire a chi non può ricordare, che cosa fu la stagione che va dal ’92, anno dell’insediamento di Scalfaro, al ’94?
Non c’erano solo Tangentopoli e Mani pulite a far crollare uno dopo l’altro come birilli i pezzi del sistema politico; c’era stata Capaci, ci fu via D’Amelio, ci furono suicidi eccellenti e meno eccellenti per le inchieste anticorruzione, scoppiarono le ultime bombe non firmate. C’era, alle spalle, il sisma mondiale dell’89 con i suoi riflessi interni.
C’era, emergente, una "nuova destra" a cui nel frattempo abbiamo fatto l’abitudine, ma che allora pareva un alieno spuntato non si sa come da non si sa dove, e che nella rottura del patto fondamentale trovava il suo cemento e la sua ragion d’essere. E c’era un centrosinistra in perenne trasformazione interna, che fra il 96 e il ’99 riuscì a consumare tre presidenti del Consiglio, Prodi D’Alema Amato, uno dopo l’altro.
Scalfaro tenne la barra. Lo si accusa di essere stato troppo tenero con i magistrati e in particolare con il protagonismo della Procura milanese, quando si rifiutò di firmare i decreti Conso e Biondi schierandosi di fatto a fianco della protesta della magistratura; ma sono agli atti alcune sue dichiarazioni contro «l’esaltazione soggettiva della propria funzione da parte di alcuni magistrati che si sono sentiti gli attori principali in scena, e in un certo senso lo erano».
Ma lo erano, aggiungeva, non tanto per un loro eccesso di zelo, quanto per il difetto di moralità e di capacitàdella classe politica. Il vuoto della politica, e l’illusione ingegneristica di risolvere i problemi politici con riforme istituzionali, costituzionali ed elettorali estemporanee lo tormentavano.
"C’è un vuoto enorme di politica- disse al manifesto subito dopo la scadenza del suo mandato - e la politica non sopporta vuoti: qualcuno li occupa, varie forze e molteplici, quelli che siamo soliti chiamare ’i poteri forti’...C’è anche una rinuncia a far politica, che più che alla pace assomiglia a un mortorio». Vedeva lontano, il Presidente.
Morto l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro
Il cordoglio di Giorgio Napolitano
Capo dello Stato dal 1992 al 1999, il senatore a vita aderente al Pd si è spento nella notte a Roma *
ROMA - Oscar Luigi Scalfaro è morto questa notte a Roma. La notizia, trapelata via Twitter attraverso fonti giornalistiche molto vicine all’ex presidente della Repubblica, è stata confermata da fonti parlamentari. Nato a Novara il 9 settembre del 1918, Scalfaro fu eletto in Parlamento nel 1946, ininterrottamente deputato fino al 1992, quando, da presidente della Camera, fu eletto Capo dello Stato, carica ricoperta fino al 1999. Storico esponente della Democrazia Cristiana, attualmente era senatore a vita, aderente al Partito Democratico. Con Sandro Pertini ed Enrico De Nicola, Oscar Luigi Scalfaro ha ricoperto tutte le tre più alte cariche dello Stato, visto che fu anche provvisoriamente presidente del Senato all’inizio della XV Legislatura, fin quando non fu eletto Franco Marini. Il suo ultimo grande impegno è stata la difesa della Costituzione 1.
Appresa la notizia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha reso omaggio alla figura di Scalfaro: "E’ con profonda commozione che rendo omaggio alla figura di Oscar Luigi Scalfaro nel momento della sua scomparsa, ricordando tutto quel che egli ha dato al servizio del Paese, e l’amicizia limpida e affettuosa che mi ha donato. E’ stato un protagonista della vita politica democratica nei decenni dell’Italia repubblicana, esempio di coerenza ideale e di integrità morale".
"Si è identificato - ha proseguito Napolitano - col Parlamento, cui ha dedicato con passione la più gran parte del suo impegno. Da uomo di governo, ha lasciato l’impronta più forte nella funzione da lui sentitissima di ministro dell’Interno. Da Presidente della Repubblica, ha fronteggiato con fermezza e linearità periodi tra i più difficili della nostra storia. Da uomo di fede, da antifascista e da costruttore dello Stato democratico, ha espresso al livello più alto la tradizione dell’impegno politico dei cattolici italiani, svolgendo un ruolo peculiare nel partito della Democrazia Cristiana".
"Mai dimenticando la sua giovanile scelta di magistrato - ha concluso il capo dello Stato -, Oscar Luigi Scalfaro ha avuto sempre per supremo riferimento la legge, la Costituzione, le istituzioni repubblicane. In questa luce sarà ricordato e onorato, innanzitutto da quanti come me hanno potuto conoscere da vicino anche il calore e la schiettezza della sua umanità. Alla figlia Marianna, che gli è stata amorevolmente, ininterrottamente vicina, la mia commossa solidarietà".
Il settennato al Quirinale di Scalfaro è stato uno dei più delicati e controversi. Successo a Cossiga, Scalfaro assistette allo sgretolamento della Prima Repubblica determinato dall’inchiesta su Tangentopoli, scontrandosi ripetutamente con Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale del Polo delle Libertà nel 1994. Quando Berlusconi mise mano alla lista dei ministri del suo primo governo, Scalfaro ritenne sgraditi alcuni nomi. In particolare quello di Cesare Previti, avvocato del premier, indagato ma non ancora condannato, al Ministero della Giustizia, poi spostato alla Difesa e sostituito da Alfredo Biondi nel ruolo di Guardasigilli.
Dopo sei mesi, nel dicembre del 1994, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni. Scalfaro, invece di sciogliere le Camere, come auspicato insistentemente da Berlusconi, tentò con successo di formare un nuovo governo. Nell’occasione, il presidente richiamò il suo operato al dettame costituzionale che vuole il Parlamento sovrano, una volta eletto dal popolo. E che la Costituzione prevede che la funzione di deputati e senatori della Repubblica sia esercitata senza vincoli di mandato, onde è consentito cambiare schieramento ed appoggiare formazioni politiche diverse dalla lista in cui si è stati eletti.
Quando Scalfaro svolse le consultazioni, ricevute rassicurazioni sulle possibilità di un governo tecnico, in un famoso discorso di fine anno invitò Berlusconi a un passo indietro, promettendo che il nuovo governo avrebbe avuto un incarico a termine e un presidente di fiducia dell’ormai ex premier. Il Cavaliere individuò il suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, e assistette nell’anno successivo al progressivo spostamento dell’asse del governo così nato verso il centrosinistra, che con Prodi e l’Ulivo vinse le successive elezioni nel 1996.
Queste ed altre circostanze (tutte riconducibili al cosiddetto "ribaltone" del dicembre 1994) portarono nel centrodestra, alla nascita di una diffusa ostilità verso il Capo dello Stato, accentuata dalla sconfitta elettorale del 1996. In particolare, la legge sulla "par condicio", termine impiegato proprio da Scalfaro in più di una pubblica esternazione, per affermare l’esigenza della parità delle armi comunicative sulle reti televisive per tutti gli attori politici. Legge che fu vista come un modo per mitigare lo strapotere mediatico di Berlusconi.
* la Repubblica, 29 gennaio 2012
Grazie, Capitano
di Aldo Grasso *
Quando ci vuole ci vuole. Ci sono espressioni che, pur usurate dalla quotidianità, conservano una loro volgarità di fondo. Ma in circostanze come queste, quando l’intontito comandante della Concordia sembra non rendersi conto del disastro che ha combinato, assumono persino un che di nobile, quasi fossero l’ultima risorsa della disperazione.
La drammatica telefonata tra Francesco Schettino e il capitano di fregata Gregorio Maria De Falco della Capitaneria di porto di Livorno è forse il documento che meglio testimonia le due anime dell’Italia. Da una parte un uomo irrimediabilmente perso, un comandante codardo e fellone che rifugge alle sue responsabilità, di uomo e di ufficiale, e che si sta macchiando di un’onta incancellabile.
Dall’altra un uomo energico che capisce immediatamente la portata della tragedia e cerca di richiamare con voce alterata il vile ai suoi obblighi. In mezzo un mondo che affonda, con una forza metaforica persino insolente, con una ferita più grande di quello squarcio sulla fiancata.
Il capitano De Falco fosse stato sulla nave sarebbe sceso per ultimo, come vuole l’etica del mare. Al telefono non può che appellarsi al bene più prezioso ed esigente che possediamo: la responsabilità personale. Ogni volta che succede un dramma la colpa è sempre di un altro, persona o entità astratta non importa. Eppure la responsabilità personale - quell’insieme di competenza e di senso del dovere, di cura e di coscienza civica - dovrebbe essere condizione necessaria per ogni forma di comando, in terra come in mare. E invece le nostre miserie e le nostre fragilità ci indicano sempre una via di fuga, ben sapendo che il coraggio rende positivi anche i vizi e la viltà rende negative le virtù.
Quella frase «Vada a bordo, cazzo!» («Get on Board, Damn it!» così tradotta nei tg americani) è qualcosa di più di un grido di dolore, di un inno motivazionale, di un segnale di riscossa. Il naufragio è uno degli archetipi di ogni letteratura perché illustra i rischi dell’esistenza umana nel corso della «navigazione della vita». Esso rinvia agli atteggiamenti fondamentali che si assumono nei confronti del mondo: in favore della sicurezza o del rischio, dell’estraneità o del coinvolgimento negli eventi, del ruolo di chi sprofonda e di chi sta a guardare dalla terraferma.
Ma ci vuole un grido che scuota e ci infonda coraggio, che, ancora una volta, ci richiami alle nostre responsabilità. Ecco perché ieri su Twitter era l’hashtag più utilizzato, una sorta di mantra collettivo. Ecco perché vorremmo, in ogni occasione, per chi guida il Paese o per chi fa semplicemente il suo mestiere, ci fosse qualcuno come il capitano De Falco che ci richiamasse perentoriamente all’ordine. (Intanto, su Internet, c’è già chi vende la t-shirt con la frase. E qui torniamo all’Italia degli Schettino).
Vada a bordo, e quello non ci è andato (ora è a casa agli arresti domiciliari in attesa che la giustizia faccia il suo corso e che la coscienza gli ridesti il senso dell’onore). Due uomini, casualmente due marinai campani, due storie: l’una che ci umilia, l’altra che tenta di riscattarci. Grazie capitano De Falco, il nostro Paese ha estremo bisogno di gente come lei.
Aldo Grasso
* Corriere della Sera, 18 gennaio 2012
La Svizzera ci guarda: forza italiani, deberlusconizzatevi
di Renzo Balmelli *
Etica. Sotto il cielo di Roma non ci si salva dalla crisi economica senza curare la crisi morale. I due passaggi sono inscindibili. Se non si riapre il libro mastro dell’etica, sul quale si è posata la polvere dell’oblio, la ripresa rischia di essere una strada lastricata di buone intenzioni. Il Paese esce da un periodo segnato da un mostruoso intreccio tra politica, affari, corruzione e comportamenti devianti rispetto al decoro della funzione pubblica. Si esecrava il ” moralismo” per meglio liberarsi della moralità. Ora si avverte un grande bisogno di onestà. Cambiare la percezione che si ha del governo, guastata dal Rubygate, passa quindi anche dalla capacita di “deberlusconizzare” la società dopo il disordine e gli eccessi degli ultimi anni. I segnali sono promettenti. Sempre più spesso i cittadini avvertono il bisogno di ripulire le stanze del potere dall’aria viziata che vi si è incrostata ed esplicitano il loro anelito nel bellissimo slogan “L’Italia degna che si indigna”.
Ridicolo. Nella loro protervia i nostalgici del ventennio nemmeno si rendono conto che il ridicolo uccide più della spada. Come accogliere infatti, se non con una fragorosa risata, il loro monito “a non scatenare una guerra partigiana ad una scrivania”, quella usata a suo tempo da Mussolini e che il neo ministro degli Affari europei Moavero ha “osato” spostare per ragioni di spazio. A onor del vero il mobile in questione sarebbe più al suo posto in un museo che non in un ufficio governativo della Repubblica dove il predecessore (Frattini) non scatena certo ondate di entusiasmo. Ma, oltre a far sorridere, la sgangherata reazione ha anche un retrogusto amaro in quanto rivela quali siano le tendenze dominanti di chi è ancora convinto, come l’ex premier ebbe a dire più volte, che il confino fosse in fondo un piacevole centro benessere a cinque stelle.
Pantomina. È tanto grossa che se la raccontate a un ipotetico visitatore dello spazio non vi crederà. Invece succede. Con tutti i problemi e gli sforzi per risollevare le quotazione dell’Italia, cosa fa chi è rimasto senza auto blu’ e non l’ha digerita? Niente. Anziché collaborare alla ripresa con senso di responsabilità, si avvita attorno alla logora pantomima delle poltroncine da sottosegretario per ritagliarsi una nicchia nelle stanze del potere. È un modo vecchio di concepire la politica, del tutto inadatto a recepire le emozioni e le speranze dei cittadini. E si che svariati sondaggi confermano che il Paese, consapevole della posta in palio, è disposto a condividere un discorso fondato sui valori della coesione e la sobrietà. Che Monti sia un po’ più di destra o di sinistra per la gente a questo punto è irrilevante purché il nuovo premier, incassata la fiducia dell’Europa, abbia il tempo di fare bene il suo mestiere lasciandosi alle spalle l’aria viziata dei bagordi.
Satira. Nel mondo ci si chiede se il declino di Berlusconi sia definitivo. A tale proposito più della politica è la parodia che aiuta a chiarire alcuni dubbi. Tutti ricordano che quando il Cavaliere era all’apice del bunga bunga e delle gaffes planetarie si distingueva non tanto per le sue doti di statista, ma per il contributo dato agli scoppi di ilarità. Uscito di scena il mattatore del cucù, molti si chiedono come sarà la satira senza di lui. Gli addetti ai lavori giurano che non ne risentirà. In un periodo in cui forse più del solito la risata è un toccasana, i cavalli di razza della comicità sono pronti a raccogliere la sfida e a rinnovarsi. Anche perché - dicono - le battute su Berlusconi ormai non divertivano più. Insomma, se Silvio non fa nemmeno ridere, qualsiasi domanda sul suo tramonto è del tutto superflua
* Domani-Arcoiris, 08-12-2011
Napolitano riflessioni sul bel paese uno e indivisibile *
Il ciclo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità non può considerarsi ancora esaurito: lo dicono notizie e annunci che continuano ad affluire. Ma un bilancio sostanziale è certamente possibile, e vorrei sottolinearne alcuni aspetti. Innanzitutto l’eccezionale diffusione e varietà di iniziative, e il carattere spontaneo che molte di esse hanno presentato: non sollecitate e coordinate dall’alto, da nessun luogo “centrale”, Presidenza della Repubblica o Governo. Si è davvero trattato di un gran fiume di soggetti che si sono messi in movimento, in special modo al livello locale, fin nei Comuni più piccoli - istituzioni, associazioni di ogni genere, gruppi e persone.
È stato un gran fervore di richiami di antiche memorie, anche famigliari, e di impegni di studio, di discussione, di comunicazione. Quel che si è mosso, poi, nelle scuole è stato straordinario: quanti insegnanti, per loro conto, e quanti studenti, a ogni livello del sistema d’istruzione, si sono messi d’impegno e hanno dato in tutte le forme il loro contributo! E anche in termini quantitativi che cosa è stata la partecipazione dei cittadini anche alle manifestazioni nelle piazze e nelle strade e dai balconi delle case, in un’esplosione mai vista di bandiere tricolori e di canti dell’Inno di Mameli!
Ce lo aspettavamo? In questa misura e in questi toni, no: nemmeno quelli tra noi, nelle massime istituzioni nazionali, che ci hanno creduto di più e hanno deciso di dedicarvisi più intensamente. È stata una lezione secca per gli scettici, e ancor più per coloro che prevedevano un esito meschino, o un fallimento, dell’appello a celebrare i centocinquant’anni dell’unificazione nazionale. Soprattutto, è stata una grande conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. Si può davvero dire che le parole scolpite nella Costituzione - «la Repubblica, una e indivisibile» - hanno trovato un riscontro autentico nell’animo di milioni di italiani in ogni parte del Paese. E non in contrapposizione ma in stretta associazione - come nell’articolo 5 della Carta - all’impegno volto a riconoscere e promuovere le autonomie locali. Nello stesso tempo, si può ritenere che il così ampio successo registratosi vada messo in relazione col bisogno oggi diffuso nei più diversi strati sociali di ritrovare - in una fase difficile, carica di incognite e di sfide per il nostro Paese - motivi di dignità e di orgoglio nazionale, reagendo a rischi di mortificazione e di arretramento dell’Italia nel contesto europeo e mondiale.
L’aver fatto leva sull’occasione del Centocinquantenario, l’aver puntato su celebrazioni condivise, è stato dunque giusto e ha pagato. Non bastava però lanciare un appello generico: occorreva richiamare in modo argomentato fatti storici ed esperienze, fare i conti con interrogativi e anche con luoghi comuni, favorire quella che non esito a chiamare una riappropriazione diffusa, da parte degli italiani, del filo conduttore del loro divenire storico, del loro avanzare - tra ostacoli e difficoltà, cadute e riabilitazioni, battute d’arresto e balzi in avanti - come società e come Stato nei secoli XIX e XX. Gli interventi che ho svolto, nel succedersi delle iniziative per il Centocinquantenario, hanno segnato i momenti e i contenuti dello sforzo compiuto: spero che il leggerli, raccolti in volume, ne renda il senso complessivo, lo sviluppo coerente.
Qual è la conclusione che oggi ne traggo? Che non si è trattato di un fuoco fortuito, di un’accensione passeggera che già sta per spegnersi, di una parentesi che forse si è già chiusa. No, si è trattato di un risveglio di coscienza unitaria e nazionale, le cui tracce restano e i cui frutti sono ancora largamente da cogliere. Non ci porti fuori strada l’impressione che appena dopo aver finito di celebrare il Centocinquantenario in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, si sia ritornati alle abituali contrapposizioni, alle incomunicabilità, alle estreme partigianerie della politica quotidiana.
Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilità condivisa che ha fatto crescere le celebrazioni del Centocinquantenario continuerà a operare sotto la superficie delle chiusure e rissosità distruttive, e non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani.
Giorgio Napolitano
* Avvenire, 23.11.2011
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
Il berlusconismo è stato l’autobiografia della nazione per dirla con Croce, non un accidente della storia. Non basta certo una giornata solennemente normale per liberarcene. C’è bisogno di anni di giornate normali. E per la prima volta non saranno gli storici a mettere in ordine gli archivi di un’epoca. Ci vorranno gli antropologi per classificare il berlusconismo come involuzione della specie italiana, perché anche noi, che siamo stati contro, l’abbiamo avuto addosso (...)
Effetti collaterali
di Ida Dominijanni (il manifesto, 12.11.2011)
Mettiamo che tutto vada liscio nella road map delineata dal presidente della Repubblica, e sostenuta pure dal presidente degli Stati uniti. Mettiamo pure che tutto, oltre che liscio, vada per il meglio: che Mario Monti riesca a risollevare i conti pubblici e ad abbassare lo spread facendo il contrario di quello che è prevedibile che faccia, cioè con la patrimoniale, senza macelleria sociale, senza vendere il Colosseo e rilanciando l’occupazione, la produzione e i consumi. Mettiamoci infine l’auspicio che dal suo governo nasca una legge elettorale accettabile. Bene, anche in questo scenario fantascientifico i danni collaterali dell’operazione sarebbero, come quelli delle cosiddette operazioni di polizia internazionale, superiori ai risultati, e tali da compromettere gravemente l’uscita dal ventennio berlusconiano. Se ne contano, allo stato attuale, almeno tre, con conseguenti corollari e paradossi.
Primo danno, la fine, politicamente certificata, dell’autonomia della politica. La piramide istituzionale italiana si consegna, per mano del suo massimo vertice, alla governance economica europea e mondiale. La quale, ormai l’abbiamo capito, non avrà pace finché non piazzerà dei propri uomini alla guida dei paesi più esposti alla crisi dell’Eurozona: così in Italia con Monti, così in Grecia con Papademos. E’ ovvio che per legittimare questa situazione vengano mobilitate tutte le ragioni emergenziali possibili, e in parte indiscutibilmente reali, dall’insostenibilità del debito al crollo di credibilità dell’Italia. Il ragionamento però, come sempre quando impazza la psicologia dell’emergenza, andrebbe ribaltato: come siamo arrivati a questa situazione? E perché, mentre ci si arrivava, non è stata né tentata né concepita una strada per uscire dallo stato terminale della politica con la politica, se non per dare qualche risposta almeno per intralciare con qualche domanda le mosse rovinose dell’economia e dei cosiddetti mercati?
La risposta sta nel secondo danno collaterale, che è la resa incondizionata, e per giunta fuori tempo massimo, alla religione neoliberista. Che impera in tutto l’Occidente da oltre un trentennio, ci ha portato alla catastrofe economico-finanziaria degli ultimi quattro anni e ha ormai come obbiettivo, anche questo l’abbiamo capito, non il condizionamento ma l’asservimento, se non l’azzeramento, della politica tout court: il capitale ha deciso che deve governare direttamente, senza alcuna mediazione, né degli stati né dei governi né dei parlamenti. Però mentre negli Stati uniti la presidenza Obama ha perlomeno messo in scena, pur perdendolo, un conflitto fra primato dell’economia e primato della politica (conflitto oggi peraltro ottimamente alimentato da Occupy Wall Street), l’Europa incarna nella sua stessa architettura, monca di una Costituzione e di istituzioni politiche credibili, una forma inedita di sovranità economica assoluta.
In Italia, la congiuntura - indubbiamente assai difficile - che vede coincidere la fine del ventennio berlusconiano con la resa dei conti del trentennio liberale avrebbe potuto offrire l’occasione per uscire dall’uno e dall’altro con una sostanziale inversione di rotta. Senonché qui viene in primo piano un nodo finora sottaciuto del fronte antiberlusconiano. Nel quale hanno troppo a lungo e troppo pacificamente convissuto due tendenze opposte: quella che dal berlusconismo vuole uscire uscendo altresì dal liberismo, e quella che viceversa ne vuole uscire con un liberismo più affilato, ancorché più presentabile, di quello che Berlusconi è riuscito a praticare. Il risultato è il passaggio dal feticismo della merce (e del corpo-merce) di Berlusconi al feticismo dei mercati fatto proprio dalla sinistra liberaldemocratica. Vale allora la pena almeno di accennare, pur senza poterlo sviluppare, a un punto concettuale che oggi diventa politicamente decisivo. Solo in Italia la distinzione lessicale fra liberismo e liberalismo alimenta l’illusione di una distinzione concettuale e politica fra i due termini che oggi, e non da oggi, non si dà. Come molti - da Michel Foucault a Wendy Brown a Luciano Gallino nel suo ultimo libro - hanno ampiamente dimostrato, quello che in Italia chiamiamo neoliberismo, e che altrove si chiama neoliberalismo, non è una dottrina meramente economica che lascia immune il liberalismo politico classico o che può esserne corretta: è una dottrina economica e politica che estende la forma dell’impresa alla società e alle istituzioni, e che la liberaldemocrazia se la sta semplicemente ingoiando, su una sponda e sull’altra dell’Atlantico. Lo stato d’eccezione che a turno ci è toccato o ci tocca sperimentare - negli Usa di Bush di ieri sotto l’emergenza antiterrorismo come nella Grecia e nell’Italia di oggi sotto l’emergenza della crisi - ne sono una diretta conseguenza, prima o poi destinata all’implosione.
Il terzo danno collaterale riguarda la Costituzione italiana e riporta d’attualità il discorso, di fatto archiviato, su quella europea. Non è per caso, in questo scenario di neoliberismo trionfante, che la seconda non sia mai nata, e che la prima traballi da anni. Una ripresa di iniziativa politica continentale dal basso per la Costituzione europea sarebbe oggi l’unica risposta adeguata all’Europa della Bce e del duo Merkel-Sarkozy, e l’ultimo a essere insensibile al tema sarebbe lo stesso Giorgio Napolitano. Del quale, per venire alla Costituzione italiana, non è certo in discussione il ruolo di garante fin qui svolto. Non si può tuttavia eludere il fatto che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni, sotto l’emergenza della «anomalia» berlusconiana, una sorta di regime di coabitazione semipresidenzialista che non mancherà di lasciare traccia per il futuro, e che altri in futuro potrebbero interpretare in modo meno commendevole. Così come non mancherà di lasciare traccia l’inedito istituto delle dimissioni a tempo del presidente del Consiglio, e l’eclissarsi del ruolo del parlamento e dei partiti in una situazione straordinaria come quella attuale.
Con il che torniamo al punto di partenza, non senza enumerare i paradossi in partenza accennati. Per paradosso, all’esito di questa situazione la bandiera dell’autonomia della politica viene impugnata da chi l’ha maggiormente affossata sostenendo un regime come quello berlusconiano in cui politica ed economia erano indistinguibili (si veda la manifestazione annunciata per oggi dal Foglio, Libero e il Giornale). E la bandiera della critica all’Europa tecnocratica viene impugnata da chi, come la Lega, dell’Europa politica è sempre stato acerrimo nemico. Un rovesciamento delle parti in cui noi stessi, al manifesto, non ci sentiamo propriamente a nostro agio, ma tant’è.
Ancora un punto, quello che in queste ore appassiona di più le cronache. Giustamente, da parte delle posizioni sia Pd sia Pdl più caute nell’appoggiare la soluzione-Monti, viene la richiesta che se governo tecnico dev’essere, che lo sia davvero: che sia composto di tecnici, che non coinvolga i partiti più del necessario e del dovuto, che abbia un programma definito e un tempo limitato. E’ una cautela consapevole del big bang che questo governo può innescare nei singoli partiti e nelle coalizioni sia di centrodestra sia di centrosinistra, e nello stesso bipolarismo. Un big bang che tuttavia di tutti i danni non sarebbe certo il maggiore, e anzi forse non sarebbe un danno. Sotto di esso però, neanche tanto nascosto, c’è un altro pericolo: che il passaggio-Monti serva a ratificare definitivamente quel ruolo ancillare del Pd rispetto a un equilibrio centrista garante dei «poteri forti» al quale fin dall’89 si tenta di inchiodare il resto di quella che fu la più grande sinistra d’Occidente. E non è un affatto un caso che questo nodo torni al pettine all’uscita dall’anomalia berlusconiana, come ultimo e decisivo atto della «normalizzazione europea» del laboratorio italiano.
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
Il vuoto che affonda il Paese
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 8/11/2011)
Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio.
L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell’Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti.
I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti.
Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole.
Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio.
Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l’aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno.
In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità.
E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso.
Una ipotesi nient’affatto peregrina
Una trappola politica è stata lanciata, quella del governo di unità nazionale. Ci vogliono invece le elezioni subito e l’abbandono del neoliberismo. Ce lo chiede innanzitutto la Madre Terra che ci ricorda che non si può impunemente abusare dell’ambiente.
di Giovanni Sarubbi *
Il trappolone sembra dunque pronto. L’esca succulenta è lì in bella mostra e c’è chi è disponibile ad ingoiarla insieme all’amo e a tutta la lenza. Anche gli autori sono noti a cominciare da Giuliano Ferrara direttore del giornale semiclandestino “il foglio” nonché tribuno televisivo pro governo a spese dei contribuenti.
Ci riferiamo alla questa volta probabile caduta del governo Berlusconi, a meno di una nuova e non improbabile campagna acquisti dell’ultima ora. La caduta del governo, a lungo invocata dalle opposizioni e più volte tentata con svariati voti di fiducia, sembra essere questione di pochi giorni, o addirittura di poche ore, stando agli ultimi dispacci di agenzia, e potrebbe trasformarsi in un vero e proprio boomerang se le opposizioni sceglieranno la via del governo tecnico o di unità nazionale che dir si voglia piuttosto che quello del voto anticipato subito.
Lo schema a noi, che non ne capiamo molto di politica, lo confessiamo, ci sembra molto semplice. Il PDL e la Lega dicono che in caso di caduta del governo, o di dimissioni di Berlusconi come dichiara Giuliano Ferrara, l’unica alternativa sarebbero le elezioni anticipate a gennaio. Questa dichiarazione sembra fatta apposta per ottenere la risposta negativa delle opposizioni ed in particolare del Presidente Napolitano che è sensibilissimo agli argomenti della BCE e del FMI. Verrà dunque proposto un governo tecnico che verrà presieduto da una personalità definita di “alto profilo”, cioè gradita alle istituzioni europee ed in particolare alla BCE e al FMI. Si fa il nome di Mario Monti, il più quotato, che sarebbe l’uomo di garanzia per l’attuazione del programma lacrime e sangue che la BCE ed il FMI vogliono imporre all’Italia. In seconda battuta potrebbe esserci Giuliano Amato ma sarebbe come dire di male in peggio.
Il PD ha manifestato più volte l’intenzione di abboccare all’amo. Più volte il vicesegretario Letta ed il segretario Bersani e l’immancabile D’Alema hanno detto di “essere pronti ad assumersi tutte le proprie responsabilità”, che tradotto in linguaggio corrente è come dire alla BCE e al FMI “chiedete e vi sarà dato”, qualsiasi cosa. Casini, Rutelli e Fini con il loro Terzo Polo accoglierebbero entusiasti la soluzione che verrebbe appoggiata anche da una parte del PDL, quella che fa capo a Scajola o al sardo Pisanu. Se l’IDV accettasse tale soluzione, e Di Pietro si è dimostrato possibilista, la maggioranza parlamentare ci sarebbe ed il “governo tecnico” potrebbe approvare, anche con la benedizione e la sollecitudine del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la ulteriore manovra che dovrebbe succhiare le ultime gocce di sangue che ancora scorrono nel corpo dei lavoratori dell’industria italiani, dei pensionati, dei piccoli artigiani, dei contadini o dei dipendenti pubblici, dei disoccupati, cioè del 90% della popolazione italiana, mentre rimarrebbe sostanzialmente indenne quel 10% di ricchi che possiedono il 50% circa della ricchezza nazionale. Escluso dai tagli sarebbe solo il settore militare perché le armi, quando si programmano politiche criminali come quelle che sono in cantiere, non si toccano, sennò la repressione violenta delle inevitabili manifestazioni di piazza come la si farebbe?
E se si fa il governo tecnico con l’appoggio del PD o dell’IDV, lo ha detto chiaramente Casini proprio ieri, lo si fa perché loro rappresenterebbero quella parte di società chiamata a subire pesantemente i costi della manovra. Tutti i responsabili provinciali e regionali del PD, per quel che ci risulta, sono d’accordo con tale soluzione che viene vista senza alternative. Ma questa scelta avrà pesanti conseguenze non solo sul piano materiale per la maggioranza della popolazione, ma anche sul piano politico. Sarà inevitabile per i lavoratori dell’industria italiani, per i pensionati, per i piccoli artigiani, per i contadini o per i dipendenti pubblici o i disoccupati, individuare nel PD e nell’IDV i responsabili dei sacrifici loro imposti. Fra sei mesi o un anno quando si tornerà alle urne saranno proprio il PD e l’IDV ad essere puniti dall’elettorato perché, statene pur certi, il PDL e la Lega faranno una dura opposizione alle misure “lacrime e sangue” che il “governo tecnico”, e non più il governo PDL-Lega, ci farà ingoiare, con le buone o con le cattive.
Ed il trappolone è servito perché a quel punto è facile prevedere che PDL e Lega, epurati da chi avrà appoggiato il governo tecnico, ritornerà a vincere le elezioni.
Fantapolitica? Non crediamo, soprattutto dopo la riuscita della manifestazione del PD di sabato 5 novembre. E’ purtroppo oramai un classico di quel partito mobilitare la propria gente che risponde generosamente per poi tradirla un attimo dopo. E’ successo già altre volte con le varie primarie indette dal PD trasformatesi subito dopo per migliaia di militanti di quel partito in scoramento ed abbandono della politica. Come non ricordare, per esempio, quando è venuto fuori il tentativo del solito D’Alema di accordarsi con il PDL per la sua nomina a ministro degli esteri della Commissione Europea subito dopo le primarie per la elezione di Bersani a segretario del PD. E l’unico partito che cresce costantemente sia nei sondaggi sia nei voti reali è quello degli astenuti, quelli che a votare non ci vanno più perché hanno perso completamente la fiducia nella possibilità di cambiare perché “destra o sinistra pari sono”, come è possibile ascoltare ad ogni angolo di strada. E come dargli torto se le prospettive politiche a breve termine sono quelle prima indicate?
Il PD e l’IDV ed i partiti che sono attualmente fuori dal parlamento come SEL e la Federazione della Sinistra (PRC, PDCI, Socialismo2000, Lavoro e solidarietà) devono rifiutare l’abbraccio mortale con il terzo polo ed il trappolone che, dal nostro modestissimo punto di vista, è stato confezionato da Berlusconi e Bossi e da ben noti loro consiglieri che di politica e di manipolazione dell’opinione pubblica ne capiscono certamente molto ma molto di più dei pesci lessi che abbondano nel PD o nell’IDV (e ci scusino i pesci!).
L’unica alternativa, nel caso di caduta del governo, sono dunque le elezioni anticipate subito, con un raggruppamento unitario di centro-sinistra che escluda terzi poli parafascisti e che si liberi del pensiero unico neoliberista e faccia soprattutto pagare il debito a chi lo ha prodotto e non a quel 90% di italiani che non ne hanno colpa e su cui lo si vorrebbe scaricare. E non si illudano il PD o l’IDV di rappresentare il cosiddetto mondo del lavoro o di poterlo dirigere e orientare come meglio credono, ma la stessa cosa vale anche per i partiti di sinistra attualmente fuori dal parlamento. Non è più così da quanto quei dirigenti del PD che provengono dal vecchio PCI decisero di distruggerlo nel biennio 1989-1991, ed il 40% di astenuti alle elezioni lo dimostra al di la di ogni possibile dubbio.
E che ci voglia un ritorno ad una politica di rigoroso rispetto della nostra Costituzione lo dimostrano anche i tanti morti di questi giorni causati da alluvioni e disastri ambientali provocati dal prevalere nel mondo e nel nostro paese di una economia finalizzata non al bene comune ma all’arricchimento infinito di poche famiglie a livello planetario, anche a spese dell’intero sistema ecologico della Madre Terra che ci ospita, e scusate la ripetizione per i miei quattro lettori, come ospiti sempre più sgraditi. Il capitalismo selvaggio dei nostri tempi sta distruggendo l’intera Terra. E allora è ora il momento di cambiare e di buttare via pastrocchi indecenti che fanno venire il vomito al solo pensarli. Giovanni Sarubbi
* www.ildialogo.org/editoriali, Lunedì 07 Novembre 2011
Quelle Camere ormai bloccate
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 28 ottobre 2011)
Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s’azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d’iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po’, ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n’è più nemmeno uno da convertire in legge.
Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d’andare sotto per 94 volte (l’ultimo episodio mercoledì). E meno male che t’aiuta l’opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.
Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell’arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch’esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d’indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l’esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.
È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall’Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D’altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l’officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all’ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.
Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss’altro perché si spegne l’unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l’eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l’ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un’autopsia.
Colpevole di alto tradimento
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro (la Repubblica, o1.10.2011)
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell’incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l’attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l’Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all’opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
Alcuni ricercatori dell’università della California hanno dimostrato che certi messaggi pubblicitari riducono le capacità decisionali della mente e la "convincono": certi annunci sono irresistibili e così i consumatori acquistano senza porsi domande
Quegli spot che imbrogliano il cervello: comprare non è una scelta, ma un ordine
di Luisa Barbieri *
Viviamo nel contesto sociale della deresponsabilizzazione, ci hanno abituati a farci scegliere, piuttosto che a cercare di acquisire la consapevolezza che dovrebbe sostenere le nostre scelte, ponendole in relazione ad un bisogno personale. Del resto, in un mondo teso solamente al profitto, l’individuo modello è il consumatore impenitente, il soggetto facile al condizionamento che preferisce subire piuttosto che agire in nome proprio. Quindi l’essere corteggiati e sedotti dalla pubblicità è una ferma consapevolezza per tutti noi, purtroppo la normalità.
Siamo assoggettati ad un corteggiamento sfiancante, tanto che non facciamo più differenza tra l’acquisto consapevole e necessario, e quello dettato dall’impulso condizionato. Dobbiamo cercare di comprendere che un conto è uscire per acquistare un elettrodomestico, come potrebbe essere una lavatrice, perché la nostra è rotta e proprio non possiamo farne a meno, un altro è ritrovarci preda di un impulso, come tale incontrollabile, che ci spinge ad acquistare un mega televisore a schermo ultra piatto, ultra leggero, ultra supersonico... del quale potevamo assolutamente fare a meno. Un bisogno indotto corredato da caratteristiche precise ed identificabili che riescono a trasformare un messaggio in impulso.
I messaggi pubblicitari possono colpirci attraverso un meccanismo di persuasione logica (LP, logical persuasion) rappresentando le caratteristiche del prodotto relative al prodotto stesso, senza debordare in altro spazio immaginifico mentale; mentre, quando il messaggio aggira e raggira la coscienza (NI, non-rational influence), ad esempio stimolando fantasie che potrebbero o meno essere legate all’oggetto della pubblicità, ma che hanno il solo scopo di manipolare, allora la questione cambia e non di poco, ossia modifica in qualche modo lo stato di coscienza. Facile è comprendere come eticamente la manipolazione sia da porre nella sezione dedicata alla scorrettezza, quindi destinata all’eliminazione sociale. Le ricerche di neuromarketing vedono e prevedono i comportamenti a feed back dei consumatori, ma l’impatto sulle funzioni cerebrali procurate da queste manipolazioni nel mondo reale, non erano conosciute; oggi i ricercatori della UCLA e della George Washington University hanno dimostrato che diversi tipi di messaggi pubblicitari, evocano diversa attività cerebrale, a seconda che il soggetto venga sottoposto a LP oppure a NI.
Nell’articolo pubblicato sulla corrente edizione online di Journal of Neuroscience, Psychology, and Economics, il prof. Ian Cook (docente di psichiatria presso il Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences e il David Geffen School of Medicine at UCLA, e come ricercatore presso l’UCLA Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior e il UCLA Brain Research Institute) e colleghi asseriscono che le regioni cerebrali coinvolte nei processi decisionali e in quelli emotivi sono particolarmente sollecitate, si mostrano più attive, quando gli individui sono sottoposti a messaggi che utilizzano la persuasione logica (LP), rispetto a messaggi che utilizzano l’influenza non razionale (NI). Queste regioni cerebrali parrebbero aiutare ad inibire gli stimoli dettati da impulso.
Facendo seguito al ragionamento del prof. Cook: “tieni d’occhio il tuo cervello e terrai d’occhio il tuo portafogli”, vorrei puntualizzare il fatto, emergente dagli studi del gruppo di ricercatori californiani, che i risultati sono a favore delle capacità selettive operanti nel nostro cervello. I bassi livelli di attività cerebrali registrati invece nel corso di interazione con messaggi NI, rinforza il concetto che istintivamente prevale l’azione tesa ad evitare il condizionamento, quale meccanismo inibitorio difensivo dall’impulso.
Sono stati valutati i tracciati elettroencefalografici di 24 giovani adulti (11 donne e 13 uomini) sottoposti alla visione di immagini pubblicitarie. Ogni partecipante è stato sollecitato da 24 pubblicità apparse su riviste e giornali: gli annunci che utilizzavano immagini LP comprendevano una tabella che si riferiva a situazioni e cifre relative alle sigarette, i dettagli su come costruire uno spazzolino da denti e suggerimenti relativi ai criteri da seguire per acquistare alimenti per cani in base alla loro attività motoria; gli annunci NI contemplavano l’immagine di una bella donna in piedi con le gambe allargate a pubblicizzare dei jeans, mentre a pubblicizzare le sigarette si mostrava l’immagine di una donna che, saltando su di un idrante, veniva inondata dagli spruzzi d’acqua, sotto lo sguardo entusiasta di un uomo, con chiari riferimenti di ordine sessuale.
Sulla base di queste sollecitazioni, si è visto che le immagini LP determinano elevati livelli di attività di tutte le aree del cervello coinvolte nel processo decisionale e/o nella trasformazione emozionale. Quindi le preferenze per l’acquisto di beni e servizi possono essere modellate da molti fattori, in primis dalle informazioni logiche e persuasive, cui possono sovrapporsi, a scopo seduttivo, le immagini o i testi che intervengono nel cambiamento comportamentale senza l’intervento della coscienza, senza che si richieda il riconoscimento consapevole.
Come dice il prof. Cook: “Poiché i risultati hanno mostrato che in risposta agli stimoli sensoriali non razionali, l’attività è più bassa nelle aree del cervello che ci aiutano a inibire le risposte agli stimoli, i risultati confermano l’ipotesi che alcuni inserzionisti vogliono sedurre, piuttosto che convincere i consumatori ad acquistare i loro prodotti”, in barba all’etica.
Note di approfondimento*
UCLA newsroom
Professor Ian Cook
Semel Institute for Neuroscience & Human Behavior
Buyer beware: Advertising may seduce your brain, UCLA researchers say
UCLA Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences
New UCLA study: brain seduction from ads
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
“Mi stupisce molto il silenzio di Napolitano”
intervista a Roberta De Monticelli,
a cura di Caterina Perniconi (il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2011)
“Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità”. La descrizione fatta da Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona all’Università Vita-Salute del San Raffaele, calza a pennello sui nuovi nove sottosegretari Responsabili.
Professoressa, si riferisce a loro?
Certo. Ieri abbiamo assistito al perfezionamento di uno scambio palesemente annunciato. Sa qual è la cosa che mi stupisce di più?
Dica.
Che nessuna voce istituzionale si levi contro una pratica così difforme dal ruolo delle istituzioni stesse.
Si riferisce al capo dello Stato?
Per nessuna istituzione intendo davvero tutte quelle che hanno una voce pubblica, compresa la stampa, e che non sollevano la questione. Se poi mi chiede delle istituzioni preposte al controllo del funzionamento della democrazia, come la Presidenza della Repubblica, le dico di sì, certo, questo silenzio mi stupisce molto.
Nel suo libro “La questione morale”, lei affronta il problema della corruzione. E spiega che la maggioranza degli italiani approva e nutre quest’impresa. Non c’è più nessuno in grado di indignarsi?
Purtroppo è scomparso anche quel velo d’ipocrisia che nascondeva ciò che ormai è conclamato. E si è rotto il muro della sanzione che spetta all’opinione pubblica. In questi casi il consenso informato e legittimante dei cittadini dovrebbe esercitare una sanzione morale. Se questo non avviene siamo in un regime senza controllo. Di certo i limiti vengono travalicati di più sotto le elezioni. Ma il controllo dei cittadini non deve ridursi al solo potere elettorale. Dovrebbero levare la loro voce più spesso.
Lei, per esempio, lo ha fatto quando il rettore della sua Università offrì a Barbara Berlusconi, durante la cerimonia di laurea, la possibilità di restare a lavorare in ateneo.
In quel caso ho protestato per la mancanza di sensibilità del rettore nei confronti degli altri laureati. E per l’assenza di un criterio di merito nell’auspicio della formazione di un nuovo professore.
Quale crede sia il criterio con cui deve essere plasmata la classe dirigente di questo paese, dall’Università fino ai ruoli di governo?
Credo che ormai sia chiaro come in Italia, a qualsiasi livello, il meccanismo di una civiltà di sudditi si sia sostituito a quello di una civiltà di cittadini. Di questo fanno parte la selezione e il reclutamento, che non sono fatti in base a criteri di merito e trasparenza, ma a quelli di consorteria e appartenenze. Va invertita completamente la rotta.
Che giudizio si sente di dare allo spettacolo che ci stanno offrendo il governo e il Parlamento?
Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità. Fornire appoggi politici in cambio di posizioni di vantaggio personale è quanto di più lesivo possa esistere per l’etica pubblica. E lo estendo a tutti coloro che non reagiscono, alzano le spalle e pensano ‘è sempre stato così’. Perché non è assolutamente vero e la nostra storia ce lo insegna.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
RIFORMA DELLA GIUSTIZIA
Napolitano rassicura i magistrati
"L’autonomia delle toghe è inderogabile"
L’Anm soddisfatta dopo l’incontro al Quirinale. Il capo dello Stato ribadisce: "Riforma possibile se rispetta divisione dei poteri". Palamara: "Preoccupati per le manifestazioni davanti ai tribunali, dal presidente grande attenzione" *
ROMA - "L’autonomia e l’indipendenza della magistratura costituiscono principi inderogabili in rapporto a quella divisione tra i poteri che è parte essenziale dello Stato di diritto". Lo ha assicurato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ricevendo questa mattina al Quirinale i vertici dell’Anm. Ai rappresentanti del sindacato delle toghe, il capo dello Stato ha spiegato di sperare in "un più sereno clima istituzionale", precisando di non avere ancora ricevuto però da palazzo Chigi il testo della riforma costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 11 marzo. Puntualizzazione alla quale ha risposto a breve giro il governo, assicurando che il ddl costituzionale sarà entro oggi nella disponibilità del presidente della Repubblica.
"In termini più generali - precisa ancora una nota del Colle - il capo dello Stato ha riaffermato la legittimità di interventi di revisione di norme della Seconda Parte della Costituzione che possano condurre a una rimodulazione degli equilibri tra le istituzioni quali furono disegnati nella Carta del 1948". Rimodulazione, sottolinea ancora il presidente della Repubblica, "che in tanto può risultare convincente in quanto comunque rispettosa della distinzione tra i poteri e delle funzioni di garanzia".
"Ci sentiamo rinfrancati, abbiamo colto una grande attenzione da parte del capo dello Stato", hanno commentato al termine del faccia a faccia i vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Un appuntamento nel corso del quale i dirigenti del sindacato dei giudici hanno avuto modo di esprimere tutte le loro preoccupazioni in merito alla riforma della giustizia. Un provvedimento che, secondo l’Anm, incide profondamente sul complessivo assetto costituzionale della magistratura.
A chiedere un incontro al capo dello Stato era stato proprio il presidente del sindacato delle toghe, Luca Palamara, con una lettera inviata al Colle il 16 marzo scorso, dopo il varo della riforma Alfano in Consiglio dei ministri. Un progetto che nelle valutazioni dell’Anm "rischia di minare in radice l’indipendenza e l’autonomia" dei magistrati, facendo scattare da parte dei giudici lo "stato di agitazione". A seguire erano poi arrivate altre iniziative parlamentari della maggioranza altrettanto preoccupanti agli occhi dell’Anm, come gli emendamenti al ddl sul processo breve e alla legge Comunitaria 2010.
Ma a destare l’allarme del sindacato non ci sono solo le nuove norme. "Abbiamo espresso al presidente - ha detto ancora Palamara - la nostra forte preoccupazione anche per il clima di manifestazioni di piazza in prossimità dei tribunali e anche nelle aule di giustizia, che rischiano di minare la serenità e l’equilibrio dei giudici chiamati a decidere importanti controversie". "La posizione dell’Anm - ha aggiunto - non è di chiusura corporativa ma di volontà di mantener fermi quei principi che riteniamo capisaldi dello Stato di diritto e che sono a garanzia e tutela dei cittadini come l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che riteniamo fortemente alterata nell’eventuale approvazione del disegno di legge sulla riforma costituzionale della giustizia".
Al Capo dello Stato i rappresentanti dell’Anm hanno voluto inoltre rilanciare quelle che ritengono priorità per far funzionare meglio la macchina della giustizia e cioè la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’informatizzazione della giustizia, e maggiori risorse. "Abbiamo espresso a Napolitano - ha detto ancora il presidente dell’Anm - i nostri timori anche per la riforma per legge ordinaria che per la disorganicità rischia ulteriormente di danneggiare il processo, in particolare quello penale. Ci siamo soffermati sul tema della responsabilità civile dei giudici che riteniamo sia stato malposto ai cittadini in quanto non è vero che il magistrato se sbaglia non paga".
* la Repubblica, 05 aprile 2011
Deriva pericolosa
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 01.04.11)
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia.
Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo.
Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
"Uniti supereremo ogni difficoltà". Gli auguri di Napolitano all’Italia
Roma - (Ign) - Il presidente della Repubblica nel suo intervento alla manifestazione per la ’notte tricolore’ nella piazza antistante il Quirinale: oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. E sottolinea: "Ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia
Accompagnato dalla signora Clio, il capo dello Stato ha aggiunto: "Se fossimo rimasti divisi in otto stati come eravamo nel 1860 saremmo stati spazzati via dalla storia".
Per Napolitano oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. Perché abbiamo avuto momenti brutti, commesso errori, abbiamo vissuto pagine drammatiche ma abbiamo fatto tante cose grandi e importanti, grazie all’unità siamo diventati un Paese moderno". "Eravamo già in ritardo allora di fronte alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra che erano già dei grandi stati nazionali e stava per diventarlo anche la Germania. Per fortuna - ha detto ancora - eravamo in ritardo ma non abbiamo atteso ulteriormente. Sono state schiere di nostri patrioti che hanno combattuto e dato la vita e scritto pagine eroiche che noi dobbiamo avere l’orgoglio di ricordare e rivendicare. Perché solo così possiamo anche guardare con fiducia al futuro e alle prove che ci attendono".
"Ne abbiamo passate tante, passeremo anche quelle che avremo di fronte, in un mondo forse più difficile. Però l’importante è che ricordiamo sempre che" anche se "ognuno ha i suoi problemi, i suoi interessi e le sue idee e discutiamo e battagliamo ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia. E se saremo uniti sapremo superare tutte le difficoltà che ci attendono. Auguri a tutti gli italiani"
* ADNKRONOS. ultimo aggiornamento: 16 marzo, ore 22:18:
http://www.adnkronos.com/IGN/Speciali/Unita_DItalia/Uniti-supereremo-ogni-difficolta-Gli-auguri-di-Napolitano-allItalia_311798162589.html
La corona littoria
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 12.03.2011)
Gli italiani, tra i popoli europei, appaiono quelli che mostrano maggiore difficoltà a trovare i fili della propria storia e lo si avverte in queste settimane nelle quali sono incominciate le celebrazioni, avversate dalla maggioranza e dalla Lega in particolare, per i centocinquant’anni della nostra unità.
Ma, come era prevedibile, il problema maggiore si tocca quando si parla della dittatura fascista. Il tentativo, durato più di vent’anni di parlarne come di un incidente, o addirittura una parentesi senza conseguenze, ha avuto illustri sostenitori (a cominciare da Benedetto Croce) ma poi ha dovuto cedere il passo all’identificazione di una dittatura nuova e con tratti moderni che non è arrivata per caso, ma sulla base di antichi difetti della nostra unificazione e soprattutto dei governi liberali. Questa dittatura, se è caduta, è stato soprattutto per le vicende militari e l’azione di gruppi minoritari anche se estesi in tutto il paese che hanno lottato eroicamente contro i nazisti e i fascisti insieme con le truppe angloamericane sbarcate sulla Penisola.
SE LA GUERRA non avesse costretto le istituzioni fondamentali della società italiana, il Vaticano e la monarchia sabauda a dissociarsi dal dittatore, questi sarebbe durato altri trent’anni come avvenne puntualmente a Francisco Franco in Spagna e a Salazar in Portogallo. Del resto la Repubblica sociale italiana di Mussolini tra il 1943 e il 1945 era vissuta soltanto come stato satellite e subalterno della Germania di Hitler essendone complice nella deportazione degli ebrei e degli oppositori politici come nella crudele politica razziale. Questa considerazione pone agli storici che continuano a ragionare fuori degli stereotipi problemi di interpretazione e analisi sia del sistema di potere del regime sia del comportamento politico e culturale delle istituzioni che hanno sostenuto e condiviso il potere con il dittatore romagnolo.
Le polemiche sull’atteggiamento dei pontefici e di Pio XII in particolare sono state assai forti e nuovi documenti americani, inglesi e italiani che pubblicherò nel prossimo autunno accresceranno ancora lo sconcerto nel mondo cattolico più vicino a quel papato.
Ma c’è un’altra istituzione politica che ha avuto un ruolo decisivo nell’instaurazione e nella sopravvivenza della dittatura e ha fatto bene Paolo Colombo a dedicare un saggio analitico e puntuale a La monarchia fascista 1922-1940 (Il Mulino editore, pagine 264, 25 euro) che ricostruisce con precisione il processo attraverso il quale venne instaurata la diarchia di fatto tra il dittatore romagnolo e Vittorio Emanuele III, il funzionamento che si stabilì successivamente con le leggi fascistissime e la progressiva cancellazione di norme fondamentali dello Statuto Albertino, il contrasto sempre maggiore tra il cerimoniale monarchico e la liturgia di regime fino allo scontro aperto e al crollo della dittatura nel periodo culminante della Seconda guerra mondiale.
L’autore si ferma al 1940 quando l’Italia entra in guerra al fianco di Hitler e dimostra con pagine di grande chiarezza come Vittorio Emanuele III avesse abbracciato armi e bagagli la veste della monarchia fascista di cui restano testimonianze dirette e incontestabili come quella del fascista Giuseppe Bottai che nel 1938 scrive una considerazione difficilmente contestabile chiusa da un interrogativo in parte retorico: “Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati? “
LO STORICO delle istituzioni sottolinea “la natura profonda di un dilemma che pare difficile sciogliere in maniera definitiva: vediamo il fascismo cercare di impadronirsi dell’impianto di feste e celebrazioni costruito nel tempo dal sistema liberale con infissa bene nel centro la dinastia del padre della patria e il suo apparato simbolico: ma vediamo il re prestarsi in innumerevoli occasioni al gioco propagandistico del regime. È il fascismo che sta fagocitando la monarchia o è quest’ultima che si rivela capace di garantirsi una visibilità pubblica e l’indispensabile flusso di vitali risorse simboliche avvalendosi dei canali comunicativi approntati dal governo di Mussolini?”
L’esposizione dei fatti dimostra in maniera difficilmente contestabile che la monarchia diventa a tutti gli effetti una dinastia del fascismo trionfante dal momento in cui il sovrano sabaudo nega al presidente del Consiglio liberale Facta la firma al decreto di stato d’assedio per la progettata marcia su Roma fascista del 28 ottobre 1922 e prosegue negli anni successivi con alcuni scontri simbolici come quello che si verifica subito dopo l’impresa di Etiopia e la creazione dei primi marescialli dell’impero che vedono Mussolini e il re appaiati nella nuova carica di regime.
Ma le scaramucce tra i due giungono allo scontro mortale soltanto quando la guerra è persa, gli angloamericani sbarcano in Sicilia e nel Lazio e i gerarchi fascisti, appoggiati dal re e dal Vaticano, tolgono la fiducia nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 a Mussolini come comandante supremo delle forze armate fasciste. Ed è così che dopo ventuno anni che la complessa diarchia alla fine crolla e il regime cade clamorosamente.
La battaglia per la Costituzione
Difendere la Carta per difendere noi stessi
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 12.03.2011)
Oggi gli italiani diranno, con il linguaggio pacifico di una grande manifestazione, a Roma e in altre 80 città della penisola e milioni di tricolori alle finestre, che la difesa della Costituzione e quella della scuola pubblica sono battaglie congiunte e indivisibili. Speriamo che le tv e i giornali di proprietà del capo del governo o da lui controllati se ne accorgano.
L’articolo 64 della legge 133 del 2008 intende tagliare 87.400 posti di insegnante e non è lontano dal raggiungere l’obbiettivo previsto dal provvedimento triennale. Una distruzione sistematica della nostra scuola, fattore fondamentale di integrazione degli italiani.
Un musicista come Nicola Piovani ha ricordato che la scuola della costituzione ha il compito di difendere «la laicità dello Stato, l’antifascismo, la legalità, la Resistenza, tutte le religioni» e basta pensare alla famosa canzone di Francesco De Gregori per ricordare che «la storia siamo noi» e che una Nazione senza memoria e consapevolezza storica costruirà la sua casa sulla sabbia.
«L’educazione ha detto a sua volta il sociologo francese Edgar Morin deve contribuire all’autoformazione della persona e insegnare a diventare cittadino.Un cittadino in una democrazia si definisce attraverso la solidarietà e la responsabilità in rapporto alla sua patria. Il che suppone il radicamento in lui della sua identità nazionale».
La carta costituzionale dice con estrema chiarezza quale è il rapporto che deve esserci tra scuole pubbliche e scuole private, all’articolo 34 recita che «enti privati hanno il diritto di istituire scuole e corsi di educazione senza oneri per lo Stato». Di qui la netta incostituzionalità di disegni di legge, come quello del leghista senatore Pittoni, che vuole istituire graduatorie regionali per l’insegnamento in modo da escludere nelle varie regioni insegnanti che provengano da altre parti del Paese. E l’assurdità delle pretese, sempre della Lega Nord, che vuole sostituire il dialetto alla lingua italiana in alcune regioni. Uno scrittore come Pier Paolo Pasolini in tempi non sospetti scriveva che «il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte».
La verità è che la legge del 2008, come altri provvedimenti proposti dall’attuale maggioranza, hanno un duplice obbiettivo che diventa sempre più chiaro e preoccupante. Si tratta di favorire, attraverso l’attività legislativa di questi anni, il depotenziamento della scuola pubblica a vantaggio di quelle private e, nello stesso tempo, rendere gli italiani sempre più ignoranti, sempre più dipendenti e passivi davanti dalle trasmissioni televisive che oggi vanno in voga da Amici della De Filippi al Grande Fratello e all’Isola dei famosi che campeggiano sugli schermi Mediaset-Rai e favorire così un dominio più facile per la deriva nazionale degli ultimi vent’anni. Un progetto diabolico non c’è che dire.
Tra Stato e Chiesa chi ha vinto?
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2011)
Giovedì prossimo,17 marzo, i vertici istituzionali della Santa Sede celebreranno accanto alle massime autorità della Repubblica il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E neppure il "laicista" più incallito avrà ragione di rimpiangerlo: sarà la prova di come sia definitivamente sanata, dopo un secolo e mezzo, la ferita di un Risorgimento culminato nella sfida militare al Papato e nella breccia di Porta Pia.
In compenso, si ha ragione di chiedersi se lo scrupolo vaticano nel celebrare l’anniversario non abbia a che fare - di là dal cerimoniale e dall’etichetta - con una sconfitta storica di quell’Italia laica che gli uomini del Risorgimento cercarono di fondare. Si ha ragione di chiedersi, cioè, se l’entusiasmo risorgimentista del Papa e delle gerarchie cattoliche non corrisponda alla (comprensibile) fierezza di chi, centocinquanta anni dopo la più bruciante delle sconfitte, capisce di avere vinto.
Che quanto resta dell’Italia laica abbia buoni motivi di preoccuparsi, è ciò che emerge dalle cronache stesse di questi giorni: attacco del premier alla scuola pubblica come luogo di formazione pluralistica delle coscienze, attacco del centrodestra alla libertà costituzionale di liberamente disporre - nel fine vita - della propria vita, eccetera.
Ma di là dal fosco spettacolo del presente, c’è oggi chi ricerca in un passato anche lontano, ancora più lontano del 1861, le circostanze originarie della sconfitta di un’Italia possibile, diversa, migliore. Questo ha fatto, in un "diario intimo" intitolato La fabbrica dell’obbedienza, quel grande vecchio delle nostre patrie lettere che è Ermanno Rea. Il quale ha finito per scrivere un libro molto politico, e non sempre condivisibile (non, per esempio, nell’elogio del separatismo meridionale). Un libro, comunque, che offre spunti preziosi di riflessione sulla "lunga durata" della Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento.
Secondo Rea, il segreto dell’Italia presente è da ricercare là, lontano da noi, eppure vicinissimo. In un’unità d’Italia fatta - quattro secoli prima che da Cavour - dai tribunali della Santa Inquisizione. E fatta dentro quei confessionali dove la Chiesa cattolica ha inventato, insieme all’Italia del perdono, l’Italia del condono
Difendere la Costituzione oggi l’Italia in piazza
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12 marzo 2011)
Questo è un estratto dell’appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella
manifestazione “A difesa della Costituzione”
Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l’ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.
Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra. Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d’opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.
Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.
Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
intervista a Gustavo Zagrebelsky
a cura di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 marzo 2011)
Professor Zagrebelsky, lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi».
Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto».
Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato?
«Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica?
«Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica».
Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre lasperanza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante».
La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini».
Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l’appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E’ passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa»
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro su "La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale" nel 150 dell’Unità.
Palazzo del Quirinale, 21/02/2011 *
Questo nostro incontro non può chiudersi senza un caloroso ringraziamento, come quello che io voglio rivolgere alle prestigiose istituzioni il cui apporto ci è stato essenziale, al Presidente Amato e agli studiosi, i cui interventi hanno scandito un’intensa riflessione collettiva su aspetti cruciali del discorso sulla nostra identità e unità nazionale, e in pari tempo agli artisti le cui voci hanno fatto risuonare vive e a noi vicine pagine specialmente significative della poesia, della letteratura e della cultura italiana. Tra le figure dei primi e dei secondi, degli studiosi e degli interpreti, si è collocata - da tempo, come sappiamo, con straordinario ininterrotto impegno - quella di Vittorio Sermonti, dando voce alla Commedia di Dante.
Ringrazio dunque in egual modo tutti ; e non posso far mancare un vivo ringraziamento anche per chi ha curato la splendida raccolta, di alto valore bibliografico, da noi ospitata qui in Quirinale, di testi dei capolavori ed autori cari a Francesco De Sanctis. La cui storia ci appare più che mai rispondente al proposito - come poi disse Benedetto Croce - "di fare un grande esame di coscienza e di intendere la storia della civiltà italiana".
Non mi sembra eccessivo aggiungere - ed è il mio solo commento - che la iniziativa di questa mattina è risultata esemplarmente indicativa del carattere da dare alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la cui importanza va ben al di là di ogni disputa sulle modalità festive da osservare o sulle diverse propensioni a partecipare manifestatesi. Come tutti hanno potuto constatare, non c’è stata qui alcuna enfasi retorica, alcuna esaltazione acritica o strumentale semplificazione.
Si è discusso sulla datazione del configurarsi e affermarsi di una lingua italiana e del suo valore identitario in assenza - o nella lentezza e difficoltà del maturare - di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come lingua della poesia, della letteratura, e poi del melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia, del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama Machiavelli che "propone addirittura la costituzione di uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero" e aggiunge : "Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione". La gloria di Machiavelli - conclude De Sanctis - è "di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via".
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe determinato - è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo conclusivo della sua "Storia", - "il fatto nuovo" del formarsi "nella grande maggioranza della popolazione istruita", di "una coscienza politica, del senso del limite e del possibile" oltre i tentativi insurrezionali falliti, oltre "la dottrina del «tutto o niente»".
E se con il progredire della coscienza e dell’azione politica, si giunge a "fare l’Italia" nel 1861, fu tra il XIX e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci di proporsi "come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia". Tuttavia, la strada da fare restò lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò, si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel primo decennio del ’900 - nel decennio giolittiano - si produsse una svolta decisiva per la crescita dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola, per un progressivo avvicinamento all’ideale - una volta compiuta l’unità politica - di una lingua scritta e parlata da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché lineare - in ogni campo d’altronde, per le regressioni che il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’iscrizione nella nostra Carta del principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto (siamo - ha detto Giuliano Amato - Nazione antica e al tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non può essere presentata come un paese linguisticamente omologato nel senso di una negazione di diversità e di intrecci mostratisi vitali. E nessuno può pretendere,peraltro, di oscurare l’unità di lingua cosi faticosamente raggiunta.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci - anche presentando al mondo quel che abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo - seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto "seriamente" : perché in fin dei conti è proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti di questo incontro. Ancora grazie.
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2094
LA LETTERA
Valorizziamo ciò che ci unisce
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro direttore,
il Consiglio dei Ministri ha adottato la decisione che ad esso competeva per quel che riguarda le modalità della festa del 17 marzo 2011. Ho ritenuto di dover restare - nel mio ruolo - estraneo a ogni disputa in proposito. Ma ritengo che lo spirito della decisione presa sia apprezzabile.
Quello che conta è che ci sia piena e attiva consapevolezza, a tutti i livelli istituzionali, del significato delle celebrazioni di questo storico anniversario: e cioè, della necessità di farne occasione di riflessione seria e non acritica, e insieme di decisa valorizzazione di tutto quel che ci unisce come nazione e ci impegna come Stato unitario di fronte ai problemi e alle sfide che ci attendono.
Nelle celebrazioni così concepite confido che potranno riconoscersi tutte le forze politiche, sociali e culturali, potranno aver spazio tutte le sensibilità.
* la Repubblica, 19 febbraio 2011
UNITA’ D’ITALIA
Sì al decreto : 17 marzo sarà festa nazionale
la Lega non aderiscee: ""Follia incostituzionale"
La decisione del Consiglio dei ministri con la riserva del Carroccio: Maroni assente, Bossi e Calderoli non votano. La Russa: Non c’è rottura, solo diversità di opinione *
ROMA - Dopo le polemiche delle ultime settimane , il Consiglio dei ministri ha deciso: il 17 marzo sarà festa nazionale. Ma la decisione non è stata indolore: i tre ministri leghisti non hanno aderito. E al termine della riunione Roberto Calderoli è stato molto netto: "Fare un decreto legge per istituire la festività del 17 marzo, un decreto legge privo di copertura (traslare come copertura gli effetti del 4 di novembre, infatti, rappresenta soltanto un pannicello caldo e non a caso mancava la relazione tecnica obbligatoria prevista dalla legge di contabilità), in un Paese che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale e in più farlo in un momento di crisi economica internazionale è pura follia. Ed è anche incostituzionale".
Umberto Bossi, Roberto Maroni e Roberto Calderoli da tempo contestano la scelta di festeggiare con l’astensione dal lavoro e dalle scuole il 17 marzo. Ma con la Lega non c’è nessuna rottura, si affretta a chiarire Ignazio La Russa, solo "diversità di opinioni". E’ stata una decisione giusta, per il titolare della Difesa, "di cui siamo soddisfatti, senza trionfalismi di nessun genere". Chiediamo a tutti rispetto "ma non obbligheremo nessuno a festeggiare", aggiunge.
Maroni aveva già lasciato l’aula quando si è proceduto alla votazione, mentre Bossi e Calderoli, presenti, non hanno votato. "Se pur in modo garbato, hanno espresso una diversità di opinione", spiega La Russa in conferenza stampa al termine del consiglio dei ministri. La questione della copertura finanziaria è stata superata con il trasferimento "degli effetti economici e degli istituti giuridici e contrattuali dalla festa del 4 novembre al 17 marzo. Questo varrà solo per il 2011", aggiunge. D’altra parte "sarebbe stato quasi comico che la festa dei lavoratori si festeggiasse stando a casa e invece quella di tutti si festeggiasse andando a lavorare. Non sarà così".
E sulla riserva della Lega commenta: "Non c’è nulla di male se nel Cdm, che si è espresso a larga maggioranza, si esprime una diversità di opinione. Ho discusso con Bossi in modo tranquillo e gli ho fatto notare che dove c’è il federalismo lo spirito nazionale è più forte. Credo che le due cose possano andare di pari passo", dice La Russa. E forse, "quando il federalismo sarà compiuto chi, fra gli amici che hanno oggi votato contro, potranno aderire".
La manifestazione
Palasharp di Milano, il 5 febbraio: ingresso libero
Berlusconi dimettiti!
Libertà e Giustizia raccoglie la domanda di mobilitazione che arriva dai commenti all’appello Resignation - DIMISSIONI. Il testo ha raccolto decine di migliaia di firme in Italia, in Europa e anche negli Usa. Rilanciato dai social network, dai blogger e dai siti d’informazione, porta le prime firme di Gustavo Zagrebelsky, Paul Ginsborg e Sandra Bonsanti. Ma migliaia sono stati i commenti di chi ha lasciato un messaggio: “firmare non basta”, “facciamo qualcosa”, “Berlusconi lasci il governo del paese”. Libertà e Giustizia risponde a questa richiesta con “una prima manifestazione - spiega Sandra Bonsanti, presidente dell’associazione - per testimoniare la storia, la voce di chi non ha accettato passivamente l’imbarbarimento prodotto dalla politica e dalla cultura di Silvio Berlusconi e per gridare un ‘Basta’ allo smantellamento dello Stato”. L’appuntamento è per sabato, 5 febbraio, a partire dalle 15 (cancelli aperti dalle 13 e 30), al Palasharp di Milano (via Sant’Elia, 33 - MM Lampugnano) con Umberto Eco, Paul Ginsborg, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky, e la partecipazione di molti testimoni della società civile (*).
L’ingresso è libero fino a esaurimento posti. La capienza del Palasharp è di 9 mila posti: si consiglia di arrivare con un certo anticipo.
Liberiamoci dalle macerie e cominciamo a ricostruire: come all’alba della Repubblica. La società civile chiede di partecipare attivamente e dare voce alle preoccupazioni sulla gravissima crisi politico-istituzionale scatenata dagli interessi privati di Berlusconi.
Troveremo insieme le parole per esigere le dimissioni prima di tutto e liberarci dal potere corrotto e corruttore di Silvio Berlusconi, dal fango, dagli attacchi alla Costituzione, alla magistratura tutta e in particolare alla Procura di Milano, all’informazione, alla dignità delle donne.
Con Zagrebelsky, Ginsborg, Eco e Saviano, tutti fortemente impegnati a fianco della società civile, mobilitiamoci allora per cominciare insieme a ricostruire l’Italia, il nostro Paese e per riappropriarci di parole che la storia e il sacrificio di milioni di italiani hanno reso eterne e inviolabili: libertà, giustizia, democrazia, repubblica, uguaglianza, lavoro, COSTITUZIONE.
Troveremo insieme anche i modi per proseguire in questa mobilitazione per le dimissioni del presidente del Consiglio che sarà dopo questo primo appuntamento, l’impegno costante della società civile.
(*) Hanno confermato la loro partecipazione:
Giovanni Bachelet
Bice Biagi
Carla Biagi
Daria Bonfietti
Susanna Camusso
Lorenza Carlassare
Nando dalla Chiesa
Concita De Gregorio
Beppino Englaro
Beppe Giulietti
Irene Grandi
Maurizio Landini
Gad Lerner
Milva
Moni Ovadia
Giuliano Pisapia
Maurizio Pollini
Enrico Rossi
Elisabetta Rubini
Oscar Luigi Scalfaro
Salvatore Veca
Lorella Zanardo
* LIBERTA’ E GIUSTIZIA: http://www.libertaegiustizia.it/2011/01/27/dimettiti-per-unitalia-libera-e-giusta-tutti-al-palasharp-di-milano-il-5-febbraio/
Articolo 41 : Scelta di civiltà
di Raniero La Valle
Articolo per il prossimo numero di Rocca, rubrica “Resistenza e pace” *
Il sovversivismo delle classi dirigenti, a suo tempo diagnosticato nella analisi gramsciana, si attua oggi nell’attacco portato all’integrità e unità dell’ordinamento dello Stato. In questo senso l’azione del governo ancora in carica, anche se si è fermata un attimo prima di mobilitare la piazza contro i magistrati, si pone in obiettivo contrasto anche con il Quirinale. Il presidente della Repubblica ha infatti un ruolo peculiare come rappresentante dell’unità nazionale e garante dell’unità dei distinti poteri e delle diverse funzioni dello Stato: del potere esecutivo, che deriva dalla nomina che a lui compete del presidente del consiglio e dei ministri; del potere legislativo, condizionato dalle sue firme di autorizzazione e di promulgazione delle leggi; della magistratura, di cui presiede il Consiglio Superiore; delle Forze Armate di cui ha il comando, presiedendo anche il Consiglio Supremo di Difesa. Rompendo l’unità dell’ordinamento, sottraendosi come imputato al controllo di legalità, mettendo il governo contro l’ordine giudiziario e lanciando i ministri nell’esercizio delle loro funzioni contro il presidente della Camera, Berlusconi rompe anche l’unità rappresentata dal presidente della Repubblica e dunque obiettivamente si pone in alternativa a lui.
La prova estrema di questa volontà di disgregazione del sistema sta nella volontà, dichiarata dal governo, di cambiare l’art. 41 della Costituzione, con il falso argomento di dare maggiore libertà all’impresa privata, che dall’art. 41 non è affatto coartata e che a Pomigliano come a Mirafiori ha dimostrato di essere anche fin troppo libera di fare quello che vuole. L’art. 41 è quello che sancisce la “costituzione economica” del Paese: né liberismo assoluto, né pianificazione centralizzata. In questo sapiente articolo della Costituzione c’è una scelta di civiltà. Se è stata presentata come una scelta di civiltà quella tra liberalismo e comunismo, altrettanto è una scelta di civiltà quella tra un liberismo selvaggio, inteso solo al profitto privato, e un’economia memore della sua dimensione sociale.
Questa scelta di civiltà si fece all’assemblea costituente: il suo presupposto furono la rinuncia dei comunisti, espressa dallo stesso Togliatti, di postulare un’economia pianificata, e il rifiuto dei democristiani, dei socialdemocratici e degli altri partiti laici di un capitalismo puro alla von Hayek.
Che cosa c’è da rimproverare all’art. 41? Esso richiede che l’attività economica non si svolga “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; ma al di qua di questi confini essa è libera di determinare i propri fini; era molto più esigente e vincolante il testo che era stato proposto all’Assemblea dalla Commissione dei 75 presieduta da Ruini, il quale imponeva un dover essere all’attività economica, la quale doveva “tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo”; con questa formulazione la ricerca del puro profitto privato sarebbe stata illegittima e sarebbero state costituzionalmente precluse le speculazioni finanziarie: della globalizzazione quale è oggi non si sarebbe nemmeno potuto parlare, e perfino delle televisioni di Mediaset ci si sarebbe potuto chiedere se siano necessarie ai bisogni individuali e al benessere collettivo.
L’assemblea costituente votò invece la sobria e netta affermazione della libertà dell’iniziativa economica privata, le pose il limite di non causare nocività sociale, e quando si trattò di prevedere un intervento pubblico perché essa “fosse indirizzata e coordinata a fini sociali”, rinunziò a usare la parola “piani” (che avrebbe potuto alludere a una pianificazione centralizzata) e grazie a un accordo tra il democristiano Taviani e il socialdemocratico Arata, usò la dizione “programmi e controlli opportuni” che sarebbe stato compito della legge determinare ai fini di assicurarne l’utilità sociale; e, essendo caduta la specifica norma antimonopolistica proposta da Einaudi, fu inclusa in questa attività del legislatore il compito di contrastare i monopoli. La lotta per abbattere l’art. 41 non è dunque rivolta né a rivendicare una libertà già esistente, né a impedire una pianificazione oppressiva; serve semplicemente a cancellare ogni significato e destinazione sociale dell’attività economica, e a consegnarla, nella migliore delle ipotesi, al mercato, e nella peggiore delle ipotesi alla speculazione, allo sfruttamento e all’usura.
L’art. 41 non è solo uno dei 139 articoli della Costituzione; ne è l’architrave, al pari dell’art. 1 che fonda la Repubblica sul lavoro. Tutto l’edificio dei diritti umani fondamentali poggia su di essi; tolti quegli articoli, il resto crolla; ma crolla anche la nostra appartenenza a una comunità internazionale di diritto, e crolla anche la nostra cittadinanza europea, se l’Europa ha un ruolo da svolgere per forzare la globalizzazione a fini umani, per fondare dignità e diritti, per promuovere un’economia sociale di mercato.
Raniero La Valle
Il Dialogo, Venerdì 04 Febbraio,2011 Ore: 14:58: http://www.ildialogo.org/elezioni/dibattito_1296828002.htm
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26 gennaio 2011)
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d’esercitare l ’autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza.
Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l’autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L’autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall’elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l’obbligatorietà dell’azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l’autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s’attendevano, ma l’appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10). Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s’innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l’ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l’Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l’istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d’ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell’uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando».
Berlusconi è rimasto al di qua della linea d’ombra. La prova che dall’adolescenza ci immette nella maturità, non l’ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d’ombra è restata l’idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L’Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l’ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l’ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d’ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L’ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l’osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell’ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch’essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c’è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l ’opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C’è bisogno di porti, non fittizi. C’è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l’invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all’indegno di entrarvi, senz’aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C’è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell’88, nello stesso anno in cui denunciò l’ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.
La metamorfosi dei Presidenti nell’Italia senza regole
di Carlo Galli (a Repubblica, 28. 10.2010
Tra gli effetti del lodo Alfano c’è quello di innalzare il rango costituzionale del presidente del Consiglio, e contemporaneamente - anche se verrà corretta la previsione che il blocco dei processi sia subordinato a un voto del parlamento - di abbassare quello del presidente della Repubblica, che viene parificato al premier per la temporanea immunità davanti ai reati comuni.
In realtà, si tratta di due figure assai diverse, per significato, per legittimità, e per finalità. Il presidente del Consiglio è l’espressione di una parte che resta tale - la maggioranza (quella reale o quella resa tale dalla legge elettorale) - , poiché governa legittimamente l’Italia secondo una linea che non deve essere condivisa da tutti (esiste, altrettanto legittima, l’opposizione); il presidente della Repubblica, invece, ha nell’unità la propria cifra caratterizzante.
Infatti, il legislativo - il parlamento, che concede la fiducia al governo - è composto da "membri", ciascuno dei quali "rappresenta la Nazione" (art. 67 della Costituzione); mentre il presidente della Repubblica è il "Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale" (art. 87). L’Italia è quindi rappresentata sia da un corpo composto da membri (il parlamento) sia da un Capo al quale è associata l’idea di unità. Che il testo costituzionale, pur così moderno nelle forme e nei contenuti, utilizzi l’antichissima immagine (ecclesiastica, ma anche romana) delle membra e del capo di un corpo, significa che la compagine giuridico-politica del Paese - l’ingranarsi del potere legislativo, espressione della dialettica politica che è la vita della nazione, dell’esecutivo, che a quella dialettica dà una direzione specifica (di centro, di destra, di sinistra), del giudiziario, che amministra le norme che gli altri due poteri stabiliscono e mettono in pratica - richiede, per funzionare ordinatamente, una proiezione simbolica verticale. Ci deve essere autorità, perché ci siano i poteri legali.
Un’autorità non trascendente, e anzi democratica, che non nasce dal sangue e da Dio, come quella
che nello Statuto albertino era detenuta dal re e dalla sua "maestà".
Al contrario, la legittimità del
presidente della Repubblica, secondo la nostra Costituzione, deriva da un’elezione di secondo grado,
da parte del parlamento; questa procedura stacca il presidente dalla vita dei partiti e dalla loro
inevitabile conflittualità, e proprio per questo distacco - che non è una contrapposizione - gli
consente di simboleggiare, di rappresentare con autorità l’unità del popolo.
Di fatto, questa figura democratica dell’autorità è disegnata, nella Costituzione, come un potere neutro, come un’istituzione di garanzia che provvede a regolare - come il bilanciere di un orologio - il funzionamento della macchina delle istituzioni; a tal fine il presidente della Repubblica collabora alle dinamiche dei tre poteri dello Stato, curandone la rispondenza formale alle procedure costituzionali. È in questa distanza dai contenuti specifici dell’opera dei poteri statali la spiegazione della irresponsabilità del presidente, prevista dalla Costituzione.
Questo ruolo di garanzia, di autorità super partes, è stato interpretato - da De Nicola fino a Napolitano - da democristiani, socialisti, comunisti, socialdemocratici, laici. Vi sono stati presidenti conservatori e progressisti, notarili e interventisti; non tutti sono stati perfetti e impeccabili (basti ricordare le polemiche su Segni e il "piano Solo", nell’estate del 1964, o la richiesta comunista di mettere Cossiga in stato d’accusa nel 1991); alcuni hanno voluto imprimere alla politica certe direzioni piuttosto che altre (Gronchi favorì il centrosinistra); alcuni si sono dimessi (Leone e Cossiga), altri sono stati amatissimi e popolari (Pertini, Ciampi) o hanno ispirato molta fiducia (Napolitano).
Ma in generale, comunque si presenti, la garanzia che è fornita dal presidente della Repubblica non è formalismo; è anzi la custodia - autorevole ma non autoritaria - della democrazia, per la salvaguardia del significato autentico della Costituzione: il rispetto delle competenze e del decoro costituzionale, l’equilibrio fra le componenti storiche del Paese e fra le sensibilità e gli interessi che lo costituiscono, la pari dignità fra i cittadini e fra le forze politiche e sociali. E tutto ciò non è ipocrisia, né vuoto cerimoniale: è politica, sottratta alla politica quotidiana, e quindi più alta e più profonda di questa.
L’aspetto "politico" dell’autorità del presidente è meno evidente nei tempi "normali" della
Repubblica, mentre è molto rilevante quando, come ai nostri giorni, prevalgono le tentazioni di
forzatura costituzionale, le interpretazioni plebiscitarie della democrazia, i disegni di squilibrare i
poteri dello Stato a favore dell’esecutivo. Quando si cerca di deformare la Costituzione, il presidente
proprio per esserne custode - deve resistere, diventando così un attore, di fatto, della politica; ma
senz’altro contenuto e senz’altra finalità che di consentirne il normale funzionamento. La fiducia che
gli italiani oggi manifestano per Napolitano è quindi rivolta, oltre che alla persona, anche alla forma
democratica e istituzionale dell’autorità, e a una politica che sia rispettosa delle indicazioni della
Costituzione.
L’avventura presidenzialista
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25.10.2010)
La fuga presidenzialista, come Massimo Giannini l’ha definita, è per ora una fuga verso le ombre di un domani incerto e avventuroso. Il discredito seminato a piene mani sui riti della politica del passato e il peso dei suoi fallimenti alimentano da tempo un confuso desiderio di cambiamento: quello generazionale, per esempio. Più giovani ci vogliono, dice la vulgata giovanilista dei partiti, che non si pongono però il problema di come ringiovanire e rinvigorire la loro proposta politica. E intanto si scatena la fantasia sulle forme di svecchiamento delle istituzioni.
Per esempio, quello che si muove intorno alla riforma della giustizia è uno strano insieme dove ricompare in nuova veste e da destra l’accusa alla «giustizia di classe» di sessantottesca memoria oggi diventata ripulsa e rivolta interclassista contro ogni forma di vecchiume togato e privilegiato, nutrita dell’insoddisfazione generale per le lentezze dei riti giudiziari. E una massiccia campagna di disinformazione impedisce ai più di cogliere il fatto che questi umori diffusi vengono dirottati nel vicolo della protezione di un uomo in fuga dalla giustizia, pronto a stravolgere l’ordinamento del paese per i suoi fini personali.
Ma intanto il percorso battuto dal partito del premier è costretto dalla forza delle cose a seguire una logica eversiva del sistema costituzionale italiano: una logica che in forme nuove ripropone un meccanismo di capovolgimento dell’assetto democratico del paese di cui conosciamo un precedente importante. Proprio in questi giorni giunge in libreria un prezioso libretto dove un grande esperto dei problemi dello Stato come Sabino Cassese ha raccolto le sue lezioni agli studenti della Scuola Normale di Pisa su Lo Stato fascista (Il Mulino, Bologna).
L’analisi di Cassese è dedicata alle forme elaborate dal fascismo evitando ogni definizione astratta - regime totalitario? autoritario? corporativo? È un avvertimento da seguire. Non si tratta di definire o di catalogare niente, né il fascismo di ieri né il regime berlusconiano. È la logica istituzionale che si deve cercare di capire. E le forme analizzate da Cassese ci dicono qualcosa sul modo in cui il regime di Mussolini si inserì nella evoluzione dello stato liberale, ne riutilizzò abbondantemente i materiali, dette vita a un modello di concentrazione del potere che però si aprì anche a forme di pluralizzazione.
La scansione delle tappe di quella costruzione, che fu efficiente e funzionò a suo modo per un ventennio, ci pone davanti alle tappe successive di una legge che dette un premio di maggioranza assoluta a chi raggiungeva il 25% dei suffragi (legge Acerbo); di una trasformazione successiva del regime maggioritario in regime plebiscitario; della metamorfosi della Camera elettiva diventata una rappresentanza organica e rappresentativa ma non elettiva. L’identificazione del partito con lo stato si avvalse del rifiuto del conflitto politico come malattia da eliminare. Agli inizi di questo percorso troviamo una legge del 1925 che «mise il Presidente del Consiglio dei Ministri su un livello superiore ai ministri, nel nuovo ruolo di primo ministro e di capo del governo».
Potremmo seguire ancora l’analisi asciutta e illuminante di Cassese. Ma fermiamoci qui a riflettere sulla revisione costituzionale verso la quale si sta marciando a tappe forzate. Essa porterebbe alla affermazione di un «premierato elettivo». Sfruttando l’impulso demagogico (o meglio l’astuzia eversiva) di inserire il nome di Berlusconi nella scheda elettorale si è dato corpo all’idea erronea di una elezione diretta del presidente del Consiglio da parte del popolo.
Oggi ci si dice che all’«eletto del popolo» spetterebbe non solo la copertura del lodo Alfano ma anche il potere di impedire al presidente della Repubblica di affidare l’incarico di formare il governo a chiunque altro che non sia stato consacrato dalla plebiscitaria elezione popolare. In un colpo solo ritroveremmo dunque quella «personalizzazione istituzionalizzata del potere» che fu il carattere distintivo del regime mussoliniano. E queste considerazioni si fanno - deve essere chiaro - non per esorcizzare la minaccia con l’uso della parola «fascismo» come manganello terminologico, ma perché l’esperienza del passato va tenuta presente. Quando l’incertezza del futuro assetto del paese ci prende alla gola con un’ansia che non avremmo mai immaginato di dover provare, bisogna saper ricorrere agli strumenti della scienza, quella storiografica unita a quella delle scienze sociali e giuridico-istituzionali, per fendere la nebbia che ci circonda.
LA GIORNATA
Berlusconi, attacco ai magistrati
L’ultimatum di Maroni scuote il Pdl
Il leghista: "Diamoci 3 settimane,
o il governo tiene o si va a votare".
Il Pd: conferma che sono alla fine.
I finiani rilanciano: si vada avanti,
la legislatura arriverà fino alla fine
ROMA. Un attacco ai giudici e ai giornali della sinistra, la difesa strenua di due anni e mezzo di governo e la volontà di andare avanti con il programma, ma solo i finiani saranno leali. In caso contrario «siamo pronti a tornare davanti al popolo». Berlusconi chiude la festa del Pdl e spinge sull’acceleratore, denunciando un’eversione in atto da una frangia delle toghe contro di lui, rilanciano l’idea di una commissione d’inchiesta e lanciando strali contro il presidente emerito della Repubblica Scalfaro che, nel 1994, fu complice di «un fatto eversivo contro di noi». Rivendica il suo diritto a governare, Berlusconi, «Ho ancora il 60 per cento del gradimento degli italiani», dice bocciando il governo tecnico. «L’unica preoccupazione sarebbe cambiare la legge elettorale: a che fine? Per tornare al passato, al frazionamento che tanto male ha fatto all’Italia». L’unica soluzione, spiega, è testare la maggioranza. «Vogliamo credere alla lealtà al programma, che per noi non è carta straccia, dichiarata dai colleghi parlamentari che hanno formato un gruppo parlamentare autonomo. Li metteremo alla prova», dice il premier, ma «se questa lealtà verrà meno nei fatti non ci metteremo un minuto per tornare al popolo italiano a chiedere di nuovo la sua fiducia. Questo è il nostro sentimento, il nostro auspicio, la nostra speranza».
L’ultimatum del Carroccio
Ma l’intervista di Maroni al Corriere della Sera manda in fibrillazione la maggioranza. «Il premier - dice Maroni - ha voluto testare ancora questa maggioranza e noi abbiamo deciso di dargli fiducia e sostenerlo ancora lealmente. Ma è difficile che così si possa durare. Ora ci diamo tre settimane di tempo per vedere se questa maggioranza ha davvero la forza di sostenere l’azione del Governo. Se così non è meglio staccare subito la spina. Noi avremmo voluto farlo subito e andare ad elezioni a novembre, per essere più forti da dicembre per fare le riforme. A Berlusconi l’avevamo detto ma lui ha preferito provare ancora la maggioranza». Ora, dice Maroni, «non è più una questione di fiducia» al governo e al premier ma di risultati concreti dell’azione dell’esecutivo e di comportamenti del centrodestra nel mese di ottobre.
La Russa: "Verifica sulla maggioranza"
L’intervista dell’esponente leghista ha provocato reazioni immediate. Per il coordinatore del Pdl e ministro della Difesa La Russa bisogna «verificare se la maggioranza è veramente forte, in caso contrario, tre settimane o tre mesi, sarebbe giusto chiedere al Presidente della Repubblica di tornare a votare» . «Maroni riassume la preoccupazione di tutti, ma il premier ha recuperato l’iniziativa che gli permetterà di tenere unita la coalizione e completare la legislatura», assicura il ministro per l’Attuazione del Programma di Governo Rotondi. «All’amico Maroni dico che la legislatura arriverà fino alla fine e che si rispetterà non solo il programma, ma la volontà degli elettori che ci hanno dato un grandissimo consenso per realizzare le riforme delle quali l’Italia ha bisogno», è la convinzione del ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi. «L’Italia - afferma il finiano - ha bisogno di governabilità e stabilità e non di pericolose fughe in avanti come le elezioni». Quanto a ipotesi di terzo polo, alle quali per qualcuno Fli potrebbe aderire, Ronchi risponde in modo netto: «Siamo figli del bipolarismo, che deve essere ulteriormente rafforzato. Chiunque parli di terzo polo per ciò che mi riguarda è fuori dalla realtà ».
Il Pd: "La maggioranza non c’è più"
L’opposizione intanto coglie la pala al balzo e va all’attacco. Per Enrico Letta «le parole di Maroni dimostrano che la maggioranza del 2008 non c’è più» e che con il voto di fiducia «c’è stato solo un rattoppo». Il vicesegretario del Pd detta la linea: «Anche noi riteniamo giusto e naturale che gli elettori si esprimano, ma pensiamo che lo si debba fare in primavera dopo che legge elettorale è stata cambiata». Bersani spazza via i tentennamenti: mentre questo governo va avanti «traccheggiando», il Pd è pronto al voto, assicura il segretario democratico. E, a chi gli chiede se il Pd sarebbe in grado di ricompattarsi adesso in vista del voto anticipato, il segretario nazionale risponde: «Assolutamente sì». Per il dipietrista Belisario (Idv) «l’intevista di Maroni conferma che il governo è uno zombie, durerà ancora poco». Il capogruppo dell’Italia dei Valori al Senato attacca il premier: «Berlusconi è un presidente del Consiglio dimezzato, sotto il costante ricatto della Lega da una parte e dei finiani dall’altra, non era capace di governare prima figurarsi adesso».
* La Stampa, 3/10/2010
CRAC PARMALAT
Quirinale: "Tanzi è indegno"
Revocato titolo di cavaliere
Il presidente della Repubblica accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico ha cancellato l’onorificenza al merito del lavoro conferita all’ex patron della Parmalat nell’84
ROMA - Calisto Tanzi non è degno del titolo di Cavaliere del Lavoro. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico, ha firmato venerdì scorso il decreto di revoca "per indegnità" della decorazione di Cavaliere al Merito del Lavoro, che era stata conferita all’ex patron della Parmalat il 2 giugno 1984, con decreto firmato dall’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini.
Dopo le complesse vicende del crac della Parmalat e delle condotte tenute dal fondatore e presidente dell’azienda (per le quali Tanzi è già stato condannato 1 a Milano) il ministero dello Sviluppo economico aveva chiesto di cancellare l’onorificenza ritenendo che sussistessero "le condizioni previste dalla legge per la revoca". Sarà ora lo stesso ministero di via Veneto, come si afferma nel decreto presidenziale, a curare la trascrizione del provvedimento nell’albo dell’ordine, oltre che a farlo pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.
Nell’agosto scorso il presidente aveva tolto all’imprenditore responsabile del gigantesco fallimento di migliaia di risparmiatori anche il cavalierato della Gran Croce
"Nessuna ombra sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale di cui è parte integrante Roma Capitale" *
"E’ mio doveroso impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Roma Capitale al Campidoglio.
"Un ruolo - ha aggiunto il Presidente - che non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello Stato italiano".
"Questa - ha proseguito il Capo dello Stato -, con il netto riconoscimento contenuto nel riformato Titolo Quinto della Carta e con la conseguente norma di legge del 2009, chiama piuttosto voi che rappresentate e amministrate Roma a un nuovo impegno ordinamentale, d’intesa con la Regione e la Provincia, e ad una nuova prova di efficienza e modernità nell’esercizio di funzioni ben più ricche che nel passato. Portarvi all’altezza di questa prova è ciò che conta e che vi stimola, non l’invocare formalmente il rango di Roma capitale".
Il Presidente Napolitano nel suo intervento ha anche elogiato Roma e la sua capacità di accoglienza: "Mai - ha detto - mi sono sentito a disagio, pur senza dissimulare la profondità delle radici e degli affetti che mi legavano e mi legano a Napoli: ed è forse propria dei napoletani l’attitudine a integrarsi, anche in luoghi ben più lontani, così come propria di Roma, e straordinaria, è la capacità inclusiva, l’attitudine ad aprirsi, ad accogliere altri, ad abbracciare, innanzitutto, ogni italiano".
Le celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale erano iniziate questa mattina con la deposizione di una corona di alloro da parte del Presidente della Repubblica al Monumento dei caduti di Porta Pia alla presenza del Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Tarcisio Bertone, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, del Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, del Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, del sottosegretario Gianni Letta, e delle autorità di governo.
* SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Adro, "Toglierò quei simboli
Solo se me lo ordina Bossi"
Il sindaco della cittadina respinge, di fatto, la timida richiesta del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. E il leader della Lega, Bossi, lo sostiene: "Ne ha messi solo troppi". Il parroco del paese: "Esagerazioni da entrambe le parti". Durissimo attacco alla Gelmini dall’opposizione *
BRESCIA - Il simbolo della "Lega", il "Sole delle Alpi", per ora resta nella scuola di Adro, in provincia di Brescia, intitolata all’ideologo del movimento leghista, Gianfranco Miglio. Resta, anche se il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha chiesto al sindaco della cittadina di rimuovere tutti i simboli.
Resta, perché il primo cittadino di Adro ha implicitamente risposto affermando che a chiederglielo deve essere il leader della Lega, Umberto Bossi: "Se me lo dice lui, rimuovo i simboli non domani, ma ieri. Se li tolgo dalla scuola, però, farò lo stesso con gli edifici pubblici su cui è presente da secoli", ha aggiunto Oscar Lancini. "Sono sorpreso di quello che ho letto sui giornali. Io ho ricevuto comunque i complimenti dei vertici leghisti". In quanto alla lettera della Gelmini, Lancini sostiene che "Non mi è arrivato niente. Non ho letto nulla se non quello che c’è sui giornali. È da ieri che si dice che il ministro ha scritto al sindaco, è scritto su tutti i giornali ma, ad oggi, la verità è che io non ho in mano nessuna lettera".
E il "senatur" non ha perso tempo ad appoggiare, nei fatti, la posizione del sindaco del bresciano: "Forse ne ha messi troppi - ha detto Bossi a chi gli chiedeva se la Gelmini aveva sbagliato o no a chiederne la rimozione - Avrebbe potuto farne uno bello, che bastava". Per confermare poi la sua sostanziale "vicinanza" al primo cittadino, il ministro delle Riforme ha aggiunto: "Questi simboli la Lega li ha fatti diventare politici, ma sono graffiti delle Alpi. E a Brescia ce ne sono tantissimi".
A rincarare la dose c’è anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: "Condivido quanto sostiene Bossi - ha detto - Intitolare la scuola a Miglio è stata una grande idea, ma io mi sarei fermato lì. Miglio vol dire tutto: è stato l’inventore delle tre macroregioni e quindi anche della Padania".
Una parola di equidistanza, a nome della popolazione della Franciacorta, è venuta invece dal parroco di Adro, don Giammaria Fattorini, nell’intervento che è stato letto oggi in tutte le messe celebrate nel comune: "La mia idea sulla questione, che sento condivisa da molti, è che si sta esagerando da entrambe le parti. Sta esagerando chi ha oggi il potere, dato loro dalla stragrande maggioranza della gente. Ma stanno esagerando anche le minoranze politiche che, avendo dichiarato guerra all’ultimo sangue ai vincitori alle urne, non perdono occasione per dare contro".
Taglia corto il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini: "Abbiamo già preso posizione, non c’è da aggiungere altro dopo la lettera inviata al sindaco del paese". E il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini, sostiene la linea tenuta dalla Gelmini, anche se non perde l’occasione per una battuta polemica: "Ha fatto bene il ministro, ma mi sarei aspettato che intervenisse prima. I bimbi non appartengono a nessuno e vanno lasciati fuori dalla politica".
Critici verso il ministro Gelmini gli esponenti dell’opposizione. Il senatore Silvio Pedica, dell’Idv, è durissimo: "La Gelmini, costretta dall’opinione pubblica indignata, si muove con una timida lettera in cui chiede di eliminare dalla sucola di Adro la griffe leghista. Questa vicenda evidenzia come il ministro gestisce la scuola in base alle proprie convinzioni personali e ai diktat della sua coalizione politica.
"I marchi leghisti - ha aggiunto - non sarebbero dovuti restare neanche un’ora, questi episodi sono precedenti pericolosi inquadrati in un clima politico dove un partito come la Lega, a colpi di incostituzionalità, non riconosce l’unità d’Italia e ingelosendosi di Roma Capitale, dichiara di voler una capitale del nord".
Pedica ha quindi concluso: "Regalerò alla Gelmini la carta igienica con il simbolo della Lega, troppo tempo tollerata l’ assurda idea di fare di una scuola un circolo di partito: il ministro Gelmini si deve dimettere".
E Nichi Vendola è ancora più duro: "Abbiamo contato fino a diecimila per avere una parola di buon senso dal Ministro per l’Istruzione, Mariastella Gelmini. Come si può immaginare - ha proseguito - che la discussione oggi sul tappeto sia quella della prospettiva del federalismo solidale, mentre frammenti di scuola pubblica diventano frammenti di scuola padana? Vuol dire che è una presa in giro. Vuol dire che si chiama federalismo quello che in realtà è un processo di separazione e di secessione. Il problema non è solo il tappetino leghista sulla scuola padana, sotto quel tappetino c’è una semina di cultura regressiva: l’idea che il Nord si può salvare se manda alla deriva il Sud. Hanno seminato veleni in questi anni. A noi - ha concluso il governatore pugliese - toccherà fare una lunga bonifica di questa terra avvelenata".
Dello stesso avviso il responsabile giustizia dell’Idv, Luigi De Magistris: "Il ministro dell’istruzione Gelmini è intervenuta in modo debole e fuori tempo massimo. Prima ha cercato di sminuire il caso, di fatto avallando una scelta antidemocratica da parte del sindaco Lancini, poi timorosamente e in ritardo ha deciso di suggerire un ritorno alla normalità democratica. E lo ha fatto, per altro, soltanto perchè costretta dalle proteste dei genitori e della società civile di Adro, oltre che dalle critiche piovute dall’opposizione. La trasformazione di una scuola pubblica in una sezione della Lega è un atto contrario alla Costituzione, che trova origine nel fondamentalismo razzista e delirante del partito di Bossi che tiene sotto scacco questo governo. Gelmini compresa".
* la Repubblica, 19 settembre 2010
STORIA D’ITALIA(1994-2010): IL GRANDE INCIUCIO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: "LA GRANDE RECITA" COMINCIA ...
Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
I VERBALI
Nomine e missioni proibite
venti toghe a disposizione della "loggia"
di MARIA ELENA VINCENZI e EMANUELE LAURIA *
ROMA - "Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza". Venti nomi che scottano. Quelli delle toghe coinvolte nell’inchiesta sull’eolico e sulla nuova loggia "P3". Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di "interferenza" sulle istituzioni. Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giutsizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati. Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell’attività dell’associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che - per perseguire i propri obiettivi illeciti - si avvaleva della copertura offerta dal centro studi "Diritti e libertà".
Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano. Martone era stato invitato senza giri da parole da Lombardi all’incontro a piazza dell’Aracoeli: "Noi ci dobbiamo vedere all’una meno un quarto". "Ma io sono impegnato con il procuratore...". "Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi...", insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.
Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: "Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o’ buono e dove o’ malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro". Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d’Appello di Milano. Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l’esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde. Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: "L’ho chiesto trenta volte al ministro!". Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l’ispezione: "Ci vorrebbe un esposto...".
Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell’inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la "corte" del disinvolto faccendiere napoletano).
Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all’occorrenza e soprattutto in occasione dell’elezione di Marra che - secondo i carabinieri - è avvenuta proprio grazie all’interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due "amici" in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia. Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati. Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l’elezione di Marra, c’è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a "lavorarselo per bene", e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell’età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: "Che faccio dopo la pensione?".
Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio conferma all’attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra. Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe ("verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi", scrivono i carabinieri). Anzi, è quest’ultimo il 16 novembre a chiedere a Lombardi qual è l’intenzione del "comune amico" Carbone in vista del voto: "Tienilo sotto che lo tengo sotto anch’io", dice il tributarista.
Il 19 gennaio Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale "Nicola" per la Procura di Milano. A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato. A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania. Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra. Dopo l’incontro del 20 ottobre, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: "Negativo al 90 per cento". Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato. Una conferma, l’ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: "Perderemmo un amico carissimo e una persona valida". Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri. Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino "poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci".
* la Repubblica, 16 luglio 2010
UDINE
Napolitano, appello alla coesione
"Oppure il Paese si perde"
Il capo dello Stato riafferma la "lungimiranza" della Costituzione che "salda in un unico articolo inscindibilità della nazione e promozione delle autonomie". Sulla crisi economica: "Dovere di tutti ridurre debito" *
UDINE - "Senza coesione l’Italia si perde". Il presidente della Repubblica in visita a Udine rilancia un forte appello all’unità nazionale, riaffermando la "lungimiranza" della Costituzione vigente che "salda in uno stesso articolo l’inscindibilità della nazione italiana e la promozione delle autonomie". Su questo tema il presidente, incontrando il sindaco Furio Honsell, ha poi lanciato un monito: "Si riveda ciò che è necessario rivedere, si garantisca il massimo di snellezza e semplificazione nell’articolazione del nostro Stato", ha detto Napolitano raccomandando di salvare i vari livelli di autonomia regionale e locale e di riconoscere "l’importanza decisiva dei Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini e ai loro bisogni".
Oggi, ha aggiunto Napolitano, si deve proseguire sulla strada tracciata perché "un’Italia unita senza la coesione nazionale si perderebbe nel grande e tumultuoso fiume della globalizzazione. L’unità nazionale si può promuovere facendo conoscere la Costituzione e promuovendo le autonomie. Io sono profondamente impegnato nella difesa dei valori costituzionali. Ma piuttosto che usare l’espressione ’difendere la Costituzione’ amo dire che è necessario far vivere e attuare la Costituzione, attuare anche il nuovo Titolo V che ha segnato la strada per uno sviluppo anche in senso federalistico del principio autonomistico che trovò già forma felice nella prima formulazione della Costituzione".
Napolitano ha poi ricordato la tragedia che ha colpito la Regione nel ’76. "Tuttora è vivissimo nella memoria di tutti gli italiani l’esempio che le popolazioni del Friuli hanno dato dopo il terremoto", ha detto rivolgendosi al sindaco Honsell, ricordando lo sforzo straordinario, il senso civico e la capacità di autogoverno che furono dimostrati in occasione della ricostruzione e che sono state successivamente confermate e che risultano "ancora oggi capacità non diminuite".
Come aveva già fatto ieri da Trieste, Napolitano è tornato sulle difficoltà della crisi economica e la dissestata situazione dei conti pubblici: "Nessuna parte politica - ha detto il presidente - può sottrarsi alla responsabilità collettiva di alleggerire in modo decisivo e di consolidare il bilancio pubblico riducendo il debito che noi abbiamo accumulato e che è un pesante fardello sulle nostre spalle".
"Abbiamo problemi seri, dovuti a una difficoltà dell’economia internazionale" e per questo, ha ribadito, "si devono adottare misure straordinarie per consolidare i bilanci pubblici, esigenza riconosciuta in tutta Europa". In questo momento più che mai è necessario scegliere le priorità alle quali destinare le risorse e per Napolitano ai primi posti ci sono cultura, formazione e ricerca. "Sono convinto che dobbiamo credere fortemente nelle priorità da accordare a investimenti pubblici, sollecitando al tempo stesso anche quelli privati, nel campo della ricerca e della formazione", ha concluso il presidente. Il capo dello Stato ha inoltre affermato la necessità di approvare la riforma dell’ordinamento universitario all’esame del Senato.
* la Repubblica, 14 luglio 2010
L’immunità un’offesa al buon senso
di MICHELE AINIS (La Stampa, 2/7/2010)
King cannot wrong»: il re non può sbagliare, recita un’antica massima della democrazia inglese. È dunque irresponsabile, se non infallibile tal quale il Papa, come stabilì Pio IX nel 1870.
Invece nella nuova democrazia italiana irresponsabili e infallibili sono i ministri, quale ne sia il numero, il sesso, la fedina penale. Così vuole il lodo Alfano nel suo abito costituzionale. Un abito peraltro continuamente allargato e ricucito nella sartoria del Senato; o dovremmo chiamarlo lodo Brancher?
L’ultima idea - quella di estendere lo scudo processuale alle iniziative giudiziarie inaugurate prima che l’imputato giurasse da ministro - sembra in effetti tagliata su misura per il neoministro a Non si sa che cosa. Significa che è un’idea incostituzionale? No di certo: ormai è vietato concludere i processi, figurarsi i processi alle intenzioni. E d’altronde già la Carta del 1947 elenca una serie d’immunità per le alte cariche; dunque l’immunità di per sé non viola il principio d’eguaglianza, altrimenti dovremmo reputare incostituzionale la Costituzione stessa. Purché ogni immunità venga introdotta attraverso il procedimento di revisione costituzionale, non con legge ordinaria: così ha sentenziato l’anno scorso la Consulta, così effettivamente sta operando la maggioranza di governo.
No, non c’è un attentato alla Costituzione in questo lodo redivivo. C’è piuttosto un’offesa al buon senso, oltre che al buon gusto. Perché mai, difatti, l’immunità dovrebbe estendersi ai reati commessi prima del giuramento da ministro? Se la risposta è il fumus persecutionis, ossia il sospetto che l’inchiesta giudiziaria risponda a una finalità politica, allora è come dire che i magistrati italiani hanno la palla di vetro. E perché il nuovo lodo protegge i ministri con una diga più alta di quella eretta nell’art. 96 della Costituzione? Quest’ultima norma concerne i reati funzionali, compiuti guidando un dicastero; il lodo tocca viceversa i delitti comuni. Insomma d’ora in poi ogni ministro sarà più tutelato se fa una rapina in banca anziché un abuso d’ufficio. E perché infine l’autorizzazione a procedere viene affidata alla maggioranza semplice delle assemblee legislative? Siccome tale maggioranza è lo sgabello su cui poggia il governo, siccome la sua sopravvivenza in Parlamento dipende dalla sopravvivenza del governo, è un po’ come consegnare un fucile a chi ha le manette ai polsi.
Eccolo infatti il vizio (logico, prima ancora che giuridico) di questo nuovo lodo. Non è illegittimo, è inopportuno. Peggiora la qualità delle nostre istituzioni, anziché innalzarla. Infine erode sotto traccia l’autorità del Capo dello Stato. Il presidente della commissione Giustizia del Senato ha dichiarato che sarebbe ingiusto negare al premier il medesimo scudo processuale per i reati pregressi di cui potrà avvalersi il Quirinale. Errore: lì abita la prima carica dello Stato, il presidente del Consiglio è soltanto la quarta. Ma il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il Capo dello Stato: un improprio voto di fiducia, ha osservato Paolo Caretti. O altrimenti un’arma di ricatto. Meglio la maggioranza assoluta, come del resto vuole l’art. 90 della Costituzione per i reati presidenziali. O l’improcedibilità tout court, quale esiste in Francia, Israele, Grecia, Portogallo.
Ma l’opportunità è una categoria dello spirito, non della politica. A noi che non abbiamo scudi processuali sembrerà forse inopportuno tutto questo scalmanarsi attorno allo scudo dei potenti, prima con il lodo Schifani, poi con il lodo Alfano, poi con il legittimo impedimento, poi con il lodo Alfano bis. Suoneranno altrettanto inopportune le proclamazioni sui principi - la forma di governo, il federalismo, la libertà d’impresa nel nuovo art. 41 - quando le uniche riforme che poi approdano a riva sono quelle che hanno di mira la giustizia. Ci parrà infine inopportuno venire scomodati per il referendum costituzionale che giocoforza accompagnerà questo nuovo lodo. Ma ci scomoderemo.
michele.ainis@uniroma3.it
Giustizia, pronto ddl costituzionale per riproporre il lodo Alfano *
ROMA - Sarà un disegno di legge di rango costituzionale, ma non prevede nessuna modifica della Costituzione, il provvedimento messo a punto dal Pdl in sostituzione del Lodo Alfano. Il ddl, secondo quanto apprende l’ANSA, è di tre articoli e prevede lo scudo giudiziario per il Presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e i ministri. Sarà presentato ad horas e reca le firme del capogruppo Maurizio Gasparri e del vicario Gaetano Quagliariello.
Il ddl prevede che il procedimento giudiziario vada comunque avanti. Il magistrato, sempre secondo quanto si apprende, deve invece comunicare alla Camera di appartenenza (Senato o Camera) del parlamentare o del ministro l’avvio del processo. La Camera ha 90 giorni di tempo per decidere se accogliere la richiesta o disporre la sospensione del processo fino al termine del mandato. Sarà il Senato, nel caso di un ministro tecnico, la Camera di riferimento per la decisione. Dal provvedimento sono rimasti esclusi, rispetto all’originale Lodo Alfano, le figura dei presidenti di Camera e Senato per rispondere all’obiezione della Corte costituzionale secondo cui lo scudo giudiziario, a quel punto, doveva essere esteso anche ai parlamentari.
* la Repubblica, 28 aprile 2010
GIUSTIZIA
Napolitano alle toghe: fate autocritica
L’appello del Quirinale: "Evitare
delegittimazione e personalismi"
L’Anm: "Difficile se ci attaccano" *
ROMA La vera forza del magistrato dovrebbe essere quella dell’equilibrio. Non dovrebbe cedere alle lusinghe dei media, nè sentirsi investito «di missioni improprie ed esorbitanti». E soprattutto non dovrebbe avere atteggiamenti «impropriamente protagonistici e personalistici». Perchè così facendo mette in discussione l’imparzialità di tutte le toghe. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, coglie l’occasione dell’incontro con i magistrati tirocinanti al Quirinale, per invitare di nuovo politica e magistratura a non pestarsi i piedi e a stemperare i toni. «In tutti - avverte - deve prevalere senso della misura, rispetto e responsabilità istituzionale».
Napolitano augura alle nuove leve di svolgere il proprio lavoro con «animo sgombro» dalle tensioni del passato e di avere «la fierezza di appartenere a un mondo di servitori dello Stato», soggetti «solo alla legge» e «fedeli alla Costituzione». Perchè è soprattutto con loro che si potrà aprire «una pagina nuova, una nuova stagione nelle travagliate vicende della giustizia in Italia». Per quanto riguarda il presente, però, l’inquilino del Quirinale richiama le toghe alla moderazione e all’esame di coscienza. Perchè senza le necessarie «autocorrezioni» e senza che si rifugga da visioni «autoreferenziali» sarà più difficile recuperare «l’apprezzamento e il sostegno dei cittadini». Il percorso, avverte Napolitano, non sarà facile, ma si dovrà insistere riuscendo a stemperare «le esasperazioni e le contrapposizioni polemiche che da anni caratterizzano il nodo delicato e critico dei rapporti tra politica e giustizia».
I due mondi ora contrapposti, non dovrebbero percepirsi come «ostili, guidati dal reciproco sospetto». Dovrebbe «prevalere in tutti - è l’appello del presidente della Repubblica - il senso della misura» perchè si svolga un servizio efficiente nell’interesse del cittadino. Servono interventi, dice, ma «condivisi». Ed è per questo che invita il Csm a dare subito attuazione alle norme sul trasferimento nelle sedi disagiate e a conferire, di concerto con il ministro, uffici direttivi di primo piano come quelli del presidente della Cassazione e del Procuratore della Repubblica di Milano. Napolitano sottolinea anche un’altra questione: quella dell’ «oggettiva confusione dei ruoli» che si genera quando il magistrato si propone per incarichi politici laddove abbia esercitato le proprie funzioni. Il plenum del Csm esaminerà domani una risoluzione sul tema e il Capo dello Stato esprime apprezzamento. L’indipendenza e l’autonomia delle toghe, insiste, vanno difese ad ogni costo, ma per farlo non si devono avere comportamenti che generino «ingiusta delegittimazione» nè si devono tollerare «chiusure corporative», «casi gravi di inerzia o cattiva conduzione degli uffici».
Il presidente dell’Anm Luca Palamara è categorico: le toghe danno, ma chiedono anche rispetto. Ed è difficile comportarsi in un certo modo quando si è «sotto assedio». Quella di Napolitano, commenta il Guardasigilli, «è una riflessione di grande equilibrio». Ed è vasto il coro di consensi nella maggioranza: dal deputato Pdl Maurizio Paniz («si seguano sue parole») al leghista Matteo Brigandì («bene equilibrio»). Solo chi vuole sottomettere la magistratura «è cioè il Pdl», interviene il leader Idv Antonio Di Pietro, la fa «apparire politicizzata». I tirocinanti piuttosto «imparino a tenere la schiena dritta». Il legislatore, afferma Michele Vietti (Udc), «faccia tesoro delle sue parole». E analogo è il commento dei componenti del Csm e di alcuni Pm. Vincenzo Siniscalchi (Pd) parla di «alto momento di riflessione», mentre per Michele Saponara (Pdl) il capo dello Stato «ha il diritto-dovere di dire ai magistrati quali siano i loro compiti». «Spesso però - replica il Pm di Palermo Antonio Ingroia - sono i riflettori a cercare le toghe».
* * La Stampa, 27/4/2010 (17:20)
Se la verità diventa un optional
L’uso politico della menzogna
di Francesca Rigotti (l’Unità, 8.4.2010)
La libertà - scriveva Albert Camus - consiste in primo luogo nel non mentire». Proviamo a pensarci su perché qui si tratta di cose serie, mica di canzonette. Qui sono in gioco termini/concetti come libertà e verità. E la libertà è, insieme alla giustizia, una delle grandi virtù delle istituzioni politiche, come la verità è la virtù principale dei sistemi di pensiero, e chi viola il principio di verità lede anche quello di libertà. Ora, l’uso politico della menzogna viene parzialmente accettato dalla filosofia politica, per esempio da Hannah Arendt, che la giustifica nel caso di delicate operazioni di segretezza.
A una corretta pratica democratica non è invece perdonata né la torbidezza né la menzogna e tantomeno il falsificare i fatti per ragioni di immagine, quando queste attività - sempre Arendt - vengano praticate nei confronti dei concittadini e non del nemico in guerra. Se in politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, non si deve per questo farlo, né la pratica del mentire deve essere, in politica, tollerata e perdonata, o addirittura incoraggiata.
La verità è infatti una virtù preziosa - come spiega Franca D’Agostini nel dotto quanto affascinante saggio «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico» (Bollati Boringhieri). La verità del nostro mondo, che vive nella legge della terra e nella radicale pluralità degli uomini da tale legge contemplata, è la verità che percepiamo con le nostre facoltà logiche.
Poi c’è la «verità» riferita da una parte politica e magari accettata da un gruppo di persone che non hanno la coscienza attiva di partecipare a un inganno. Questa è una «verità» allestita a fini di opportunità ma lesiva della libertà dei cittadini, anche di quelli che si lasciano volentieri ingannare, per il semplice motivo che la menzogna distrugge la fiducia, anche questa una delle grandi e dimenticate virtù della vita sociale democratica.
Un punto in più per la tesi che sostiene che la destra italiana che ci malgoverna non partecipa dei principi del pensiero liberale - quelli socialisti, poi, non sa neanche dove stiano di casa - benché proclami gli uni e gli altri.
Questo perché un pensiero fondativo non ce l’ha e può perciò praticare la menzogna e il mendacio pensando che chi caninamente latra più forte e in numero più alto riesca a sopraffare anche la verità. Ma questo non è vero e mentire per non voler riconoscere l’errore può costare caro, molto più caro che dover ricorrere al trapianto di capelli per aver commesso l’errore di non aver mai usato la brillantina Linetti.❖
L’arbitro
Se l’Italia fosse un Paese normale, i risultati delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo sarebbero risultati normali: in un sistema seccamente bipolare, come quello che fa le fortune della destra italiana, un risultato di 7 regioni all’opposizione e 6 alla maggioranza sarebbe un risultato ragionevole e abbastanza equilibrato; significherebbe che il centro-destra conserva, sia pure di misura, i consensi per governare e il centro-sinistra è ancora in grado di candidarsi al potere; che il governo ha passato senza danni e senza gloria la strettoia delle elezioni “di mezzo termine” e può tranquillamente continuare a lavorare per altri tre anni; che sul risultato del voto hanno pesato non solo gli schieramenti nazionali, ma anche la qualità delle persone, che spesso ha fatto la differenza, come Vendola in Puglia che il centro-sinistra nemmeno voleva, come Renata Polverini nel Lazio che ha commosso e persuaso con la sua limpida figura femminile ed operaia, come Emma Bonino ingiustamente abbattuta dal diktat dei vescovi, come De Luca e Loiero contro cui ha votato (o non votato) mezzo elettorato di sinistra in Campania e in Calabria, come Formigoni a Milano che Comunione e Liberazione sembra aver deputato al potere per sempre.
Ma l’Italia non è un Paese normale, e perciò i risultati elettorali si prestano anche ad altre, più allarmate letture. Il Paese non ha colto quest’occasione per salvarsi dal dominio incondizionato di Berlusconi, che in forza di un diritto proprietario interpretato alla latina, esercita il potere di “usarne ed abusarne” a suo piacimento; e anche se il rimedio era a portata di mano, ha preferito rimanere sotto schiaffo della violenza contro le istituzioni che Berlusconi e la sua corte scatenano ogni giorno nel loro anarchico o sovversivo estremismo; lo scorato se non disperato astensionismo ha contribuito a questo esito.
Tuttavia Berlusconi resta al potere per il gioco di fattori che sono ormai del tutto estranei alla sua effettiva capacità di controllo. Non ha più la forza di un partito che “per amore” doveva inglobare in sé più della metà, se non tutti gli Italiani: questo suo partito personale è uscito a pezzi dalle urne (ha perso sei punti, cioè milioni di voti, rispetto alle politiche), spesso superato nel Nord dalla Lega, aborrito da Casini e quasi ripudiato da Fini. Non ha più il fascino del leader, perché la sua immagine privata e pubblica si è irrimediabilmente rotta, e nemmeno lui deve essere molto contento quando la mattina mette la sua faccia, cipria o non cipria, davanti allo specchio. Ha perso la sua lucidità perché in odio a Santoro e a Floris, ad Anno zero e Ballarò, ha dovuto rinunciare a Vespa e a Porta a porta, scatenando uno tsunami di opinione contro di lui, e ha dovuto rimediare con una “totale immersione” in TV facendo tutto da solo, per vincere il suo personale “referendum”. Ha finto un’intimità che non ha con gli Italiani, mandando loro per posta venti milioni di lettere chiamandoli grottescamente uno per uno per nome. Ha continuato a magnificare come opera del regime la ricostruzione all’Aquila, quando la città, materia ormai”inerte”, giaceva sbriciolata nelle carriole trascinate a forza dai suoi esuli abitanti. Ha tentato il dialogo diretto con la folla a San Giovanni e l’ha fatta giurare, offrendosi come paradigma di un nuovo regime assoluto in cui corpo mistico del sovrano e corpo politico del popolo si identificano, ed è bastato il confronto con Mussolini a piazza Venezia perché la cosa finisse nel ridicolo.
Se questo premier che il mondo ci invidia resta al potere, è perché la sinistra è in stato di confusione mentale, e perché dietro a lui si è alzato un arbitro, che ancora non fischia il rigore e che detta le regole del gioco. Questo arbitro è Bossi, come ha detto egli stesso di sé la sera della vittoria; e Bossi è oggi un uomo di poche, ma decisive parole. Arbitro e allenatore insieme, l’unica cosa che vuole è il “federalismo”, che una volta si chiamava secessione, e che i suoi giornali chiamano “la Padania”. Da vero politico, il capo della Lega Nord si è insinuato nelle pieghe del sistema bipolare, ma non perché voglia due partiti o due schieramenti politici, ma perché vuole due Italie, quella delle regioni ricche e quella delle regioni povere, e vuole due “proletariati”, quello degli italiani e quello degli stranieri, dei nativi e dei migranti, degli sfruttati e degli sfruttatori; due poli, geografici e sociali, uno dei quali deve innalzarsi e dominare sull’altro.
Quando Bossi cominciò, si è irriso, lo si è chiamato “folklore”. Come è stato ricordato nell’occasione, D’Alema tentò di annetterselo, come “una costola della sinistra”. Ora Bossi presenta il conto, ed è la divisione sociale ed etnica, la balcanizzazione. Se lo permetteremo.
Raniero La Valle
La porta della libertà
di Furio Colombo (il Fatto, 28.03.2010)
Nessuno di noi finora ha tenuto conto di una domanda che pure dovrebbe apparire urgente e drammatica. La domanda è questa: riuscirà la Repubblica Italiana a rientrare nella normalità democratica senza avere prima capito e detto e denunciato il grave stato di fuori gioco in cui si trovano ormai da tempo in questo Paese tutte le istituzioni? Fino ad ora ha prevalso, se non altro per l’ autorevolezza di chi l’ ha espressa, la persuasione che alcuni episodi separati, non sempre denunciati, non sempre redarguiti, non formino di per sé un comportamento grave e costante e non debbano, quindi, essere affrontati in difesa della Repubblica e della sua Costituzione, come un grave pericolo in atto. Il più delle volte, a parte il silenzio, l’invito ha queste caratteristiche: ci sono due parti che debbono riconciliarsi. Offra ciascuna il suo “passo indietro” e “ i toni bassi” e “il rispetto delle istituzioni”, senza “delegittimare l’avversario”.
Questi ammonimenti sono saggi da un punto di vista molto importante: evitare il peggio. Chi li propone, a volte in modo ripetuto e con una preoccupazione che si percepisce molto intensa, questo “peggio” deve averlo intravisto o addirittura vissuto in alcune occasioni rimaste non pubbliche. Va dunque considerato e apprezzato lo sforzo di “evitare il peggio”, tenendo conto, però, che nelle vicende politiche sia nazionali che internazionali, tale intento di scartare un pericolo ha sempre portato a un pericolo più grave. Infatti lo spazio lasciato vuoto da fatti veri non riconosciuti e non descritti ai cittadini, viene invaso, ogni volta, da fatti più gravi e letali. Il lettore può pensare che mi sto tenendo un po’ alla larga. Perciò preciso. Vi prego di notare che dirò le stesse cose che molti di coloro che si oppongono vanno dicendo tutti i giorni, durante i quindici anni di Berlusconi.
Ma questa volta lo dico nel modo formulato dalla domanda: se si possa uscire da un pericolo ormai molto grave e imminente fingendo di non vedere, ed evitando di descrivere quel pericolo. Non è ciò che è accaduto a Monaco quando normali e prudenti statisti democratici hanno accettato e avvalorato la finzione di avere raggiunto un accordo con normali e democratici statisti di parte opposta che però erano Hitler e Mussolini? Purtroppo abbiamo imparato che prudenza e saggia cautela non diminuiscono il rischio contro la democrazia.
Il modo in cui avvengono le cose oggi in Italia lo conosciamo: un esecutivo, per sua natura pronto nell’ agire e nel reagire (per questo la Costituzione circonda ogni esecutivo di verifiche, contrappesi, controlli, garanzie per i cittadini) e per giunta reso fortissimo dal doppio potere, pubblico e privato, lancia attacchi violenti, con intenzione di piena rottura contro i centri costituzionali di verifica, controllo e garanzia. Alla fine di ogni attacco, complice quasi tutta la stampa (d’ altra parte comprata o succube o spaventata) manca la descrizione di quell’attacco, la portata distruttiva. Persino le intenzioni esplicite, proclamate dal capo di quell’esecutivo che attacca le altre istituzioni, vengono omesse. Qui il problema non è l’ arbitro (mi riferisco con tutto il rispetto al Capo dello Stato) perché il problema non è il rapporto fra maggioranza e opposizione e non è l’eventuale lamentela dell’opposizione.
Qui stiamo parlando di iniziative ripetute di tipo rivoluzionario contro la Costituzione, i suoi organi di controllo, i suoi giudici e le fondamentali leggi della Repubblica tuttora in vigore. In quel punto e in quel momento dell’ aggressione, che è ogni volta un colpo duro e forse finale al muro democratico, c’è l’ ultima, estrema possibilità di difesa della Repubblica. Vi sono consiglieri, in luoghi autorevoli, che insistono nel suggerire, come unica cura, come unico intervento risolutivo di questo momento grave, una ragionevole e ben visibile equidistanza.
Ma equidistanza da che cosa? La parte offesa di questo tremendo gioco non è l’ opposizione. Il suo mestiere comprende il dare e avere, argomenti duri e aggressivi (vedi la brutalità senza riguardi che i repubblicani americani riservano al loro Presidente, vedi l’impegno senza tregua con cui Barack Obama tiene testa a quell’ offensiva) .
La parte offesa, adesso, in Italia, sono le istituzioni dello Stato, sono i magistrati (tutti), sono le Corti, fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, sono le authority di garanzia, come quella delle comunicazioni. Quando i giudici si comprano (nei pochi casi in cui si può) o si insultano con modalità di separazione definitiva dallo Stato di diritto, quando cade ogni finzione sull’ appartenenza comune alle leggi fondamentali, violandole e annunciandone la soppressione ogni volta che sono un ostacolo, la controparte è la Costituzione, sono le sue radici di libertà, la sua originaria e incancellabile natura antifascista. Questa è la descrizione di una grave e pericolosa situazione politica. Se continueremo a non riconoscerla fingendo di credere che due parti in contrapposizione debbano smettere di delegittimarsi e giungere a più miti consigli, si nega la realtà, si cancellano i fatti, si murano le porte di uscita.
Peggio del McCarthy di sessanta anni fa
di EUGENIO SCALFARI *
Tralascio per ora le consuete e querule lamentazioni del nostro pseudo san Sebastiano nazionale trafitto dalle frecce dei magistrati comunisti. Mi sembra più interessante cominciare questo articolo con un’osservazione sul comune sentire dei centristi. I centristi, quelli che non amano prender posizione neppure nei momenti in cui schierarsi sarebbe inevitabile, si rifugiano nella tecnica di mandare la palla in tribuna anziché tenerla in campo. Gli argomenti usati e ormai consueti sono: descrivere le manifestazioni di popolo come stanchi riti vissuti con annoiata indifferenza perfino da chi vi partecipa; sottolineare che "i veri problemi" non sono quelli di schieramento ma i programmi delle Regioni nelle quali si voterà il 28 marzo; infine sottolineare l’importanza di un’astensione di massa dal voto come segnale idoneo a ricondurre la casta politica sulla retta via dell’amministrazione.
Questa saggezza centrista non mi pare che colga la realtà per quanto riguarda i fatti e mi sembra alquanto sconsiderata nelle sue proposte. La piazza del Popolo di ieri pomeriggio era gremita e ribollente di passione, di senso di responsabilità e insieme di rabbiosa indignazione: niente a che vedere con l’indifferenza di un rito stanco. La proposta dell’astensione rivolta al centrosinistra mostra la corda: l’astensione sarebbe soltanto un favore alla maggioranza che ci sgoverna e non metterebbe affatto il governo sulla retta via della buona amministrazione.
Il governo sarebbe ben felice di un’astensione a sinistra che compensasse la vasta astensione che si delinea a destra. Se è vero - e gli stessi centristi lo dicono ormai a chiare note - che il governo non riesce ad esprimere una politica ma mette in opera tutti i mezzi leciti e illeciti per puntellare il suo potere annullando controlli e garanzie, lo strumento elettivo è il solo capace di punirlo affinché cambi registro o se ne vada. Gli elettori di destra in buona fede si astengano invece di turarsi il naso di fronte al pessimo odore che anch’essi ormai percepiscono; quelli di sinistra votino senza esitazioni perché è il solo modo per far rinsavire un Paese frastornato e licenziare la cricca che fa man bassa delle istituzioni.
I problemi concreti, la disoccupazione, la caduta del reddito, l’immigrazione, la sanità, il Mezzogiorno, sono tanti e gravi, ma il problema dei problemi è appunto la cricca e il boss della cricca. Se non si risolve preliminarmente quello, tutti gli altri continueranno a marcire. Ne abbiamo l’ennesima conferma dalle ultime notizie che arrivano dalla Procura di Trani e che sono su tutti i giornali di ieri. Il presidente del Consiglio ha preteso che l’Autorità garante del pluralismo nei "media" azzerasse la trasmissione Annozero, ha dato più volte indicazioni a Minzolini di come condurre il Tg1, ha imposto al direttore generale della Rai di bloccare le trasmissioni sgradite. È possibile che questi comportamenti non configurino reati gravi, ma certo raccontano una politica di sopraffazione indecente contro il pluralismo e la libertà di stampa. Per un leader di partito e soprattutto per il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo, questi reiterati interventi dovrebbero portarlo alle dimissioni immediate e irrevocabili. E i primi a reclamarle dovrebbero essere i suoi collaboratori, ivi compreso il cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini.
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Il progetto costituzionale di Silvio Berlusconi è molto chiaro: vuole riscrivere la Costituzione. Non modificarne alcuni punti ma riscriverla stravolgendone lo spirito, mettendo al vertice una sorta di "conducator" eletto direttamente dal popolo insieme alla maggioranza parlamentare da lui stesso indicata e subordinando alla sua volontà non solo il potere esecutivo e quello legislativo ma anche i magistrati del pubblico ministero, la Corte costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia. Questo progetto non è nato oggi ma è nella sua mente fin dal 2001, quando ebbe inizio la legislatura che durò fino al 2006 e si svolse durante il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Le divergenze tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio furono numerose e ebbero come oggetto soprattutto quel tema; non potendo cambiare la Costituzione nel modo da lui desiderato Berlusconi tentò di modificarla nei fatti contestando sistematicamente le attribuzioni del capo dello Stato e i poteri che gli derivano. Il capo dello Stato rappresenta il coronamento istituzionale della democrazia parlamentare così come la configura la nostra Costituzione ed è, proprio per questo il maggior ostacolo ai progetti di Berlusconi. Non è dunque un caso che i suoi bersagli costanti siano stati Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre uomini estremamente diversi tra loro, con diversi caratteri e diverse origini culturali, ma con identica dedizione ai loro doveri costituzionali. E proprio per questo sono stati tutti e tre nel mirino di Berlusconi fin da quando salì per la prima volta alla presidenza del Consiglio avendo in animo di governare da solo, senza ostacoli di sorta che controllassero la legalità delle sue azioni e ne limitassero la discrezionalità che egli vuole piena e assoluta.
Gli attriti con Ciampi furono, come ho ricordato, numerosi. Due di essi in particolare avvennero in circostanze di estrema tensione. Il primo in occasione della nomina di tre giudici della Corte costituzionale, il secondo nel momento della promulgazione della legge Gasparri sul sistema televisivo nazionale. Ho avuto la ventura di esser legato a Ciampi da un’amicizia che dura ormai da quarant’anni, sicché ebbi da lui un lungo racconto di quei due episodi poco tempo dopo il loro svolgimento. Non ho mai rivelato quel racconto, del quale ho conservato gli appunti nel mio diario quotidiano. Spero che il presidente Ciampi mi perdonerà se oggi ne faccio cenno, poiché la riservatezza che finora ho rispettato non ha più ragion d’essere al punto in cui è arrivata la situazione politica italiana.
L’episodio concernente la nomina dei tre giudici della Consulta nella quota che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica, avvenne nella sala della Vetrata del Quirinale. Erano presenti il segretario generale del Quirinale, Gifuni e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. I temi da discutere erano due: i rapporti con la Commissione europea di Bruxelles dove il premier doveva recarsi per risolvere alcuni importanti problemi e la nomina dei tre giudici. Esaurito il primo argomento Ciampi estrasse da una cartella i tre provvedimenti di nomina e comunicò a Berlusconi i nomi da lui prescelti. Berlusconi obiettò che voleva pensarci e chiese tempo per riflettere e formulare una rosa di nomi alternativa. Ciampi gli rispose che la scelta, a termini di Costituzione, era di sua esclusiva spettanza e che la firma del presidente del Consiglio era un atto dovuto che serviva semplicemente a certificare in forma notarile che la firma del Capo dello Stato era autentica e avvenuta in sua presenza. Ciò detto e senza ulteriori indugi Ciampi prese la penna e firmò passando i tre documenti a Berlusconi per la controfirma. A quel punto il premier si alzò e con tono infuriato disse che non avrebbe mai firmato non perché avesse antipatia per i nomi dei giudici ma perché nessuno poteva obbligarlo a sottoporsi ad una scelta che non derivava da lui, fonte unica di sovranità perché derivante dal popolo sovrano. La risposta di Ciampi fu gelida: "I documenti ti verranno trasmessi tra un’ora a Palazzo Chigi. Li ho firmati in tua presenza e in presenza di due testimoni qualificati. Se non li riavrò immediatamente indietro da te controfirmati sarò costretto a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. "Ti saluto" rispose altrettanto gelidamente Berlusconi e uscì dalla Vetrata seguito da Letta. In serata i tre atti di nomina tornarono a Ciampi debitamente controfirmati.
Il secondo episodio avvenne nel corso di una colazione al Quirinale, sempre alla presenza di Gifuni e di Letta. Il Parlamento aveva votato la legge Gasparri e l’aveva trasmessa a Ciampi per la firma di promulgazione. Presentava, agli occhi del Capo dello Stato, svariati e seri motivi di incostituzionalità e mortificava quel pluralismo dell’informazione che è un requisito essenziale in una democrazia e sul quale, appena qualche mese prima, Ciampi aveva inviato al Parlamento un suo messaggio. La colazione era da poco iniziata quando Ciampi informò il suo ospite del suo proposito di rinviare la legge alle Camere, come la Costituzione lo autorizza a fare motivando le ragioni del rinvio e i punti della legge da modificare. Berlusconi non si aspettava quel rinvio. Si alzò con impeto e alzò la voce dicendo che quella era una vera e propria pugnalata alla schiena. Ciampi (così il suo racconto) restò seduto continuando a mangiare ma ripeté che avrebbe rinviato la legge al Parlamento. L’altro gli gridò che la legge sarebbe stata comunque approvata tal quale e rinviata al Quirinale e aggiunse: "Ti rendi conto che tu stai danneggiando Mediaset e che Mediaset è una cosa mia? Tu stai danneggiando una cosa mia". A quel punto si alzò anche Ciampi e gli disse: "Questo che hai appena detto è molto grave. Stai confessando che Mediaset è cosa tua, cioè stai sottolineando a me un conflitto di interessi plateale. Se avessi avuto un dubbio a rinviare la legge, adesso ne ho addirittura l’obbligo". "Allora tra noi sarà guerra e sei tu che l’hai voluta. Non metterò più piede in questo palazzo".
Uscì con il fido Letta. Ciampi rinviò la legge. Il premier per sei mesi non mise più piedi al Quirinale. Venerdì scorso ho rivisto su Sky un bellissimo film prodotto da George Clooney. Si intitola "Good Night and Good Luck", Buona notte e buona fortuna, e racconta di una società televisiva che guidò la protesta dei democratici americani contro la campagna di intimidazione con la quale il senatore McCarthy, presidente d’una commissione di inchiesta del Senato, aveva intimidito e colpito giornalisti, docenti universitari, produttori ed attori, uomini d’affari, sindacalisti, scienziati e tutta la classe dirigente con l’accusa di essere comunisti o loro fiancheggiatori. Quella società televisiva, guidata da un giornalista coraggioso, mise McCarthy sotto accusa, ne documentò la faziosità e suscitò un tale movimento di opinione pubblica che il Senato aprì un’indagine e destituì McCarthy da tutti i suoi incarichi. Sky l’ha rimesso in onda l’altro ieri ed ha fatto a mio avviso un’ottima scelta: la sua attualità è stupefacente. Citerò le parole con le quali il protagonista conclude: "La televisione è uno strumento che può e deve contribuire a rendere le persone più consapevoli, più responsabili e più libere. Se mancano questi presupposti e questi obiettivi la televisione è soltanto una scatola piena di fili elettrici e di valvole". Aggiungo io: una scatola, ma a volte molto pericolosa se qualcuno se ne impadronisce e la controlla a proprio uso e consumo. Good Night, and Good Luck.
© la Repubblica, 14 marzo 2010
L’EDITORIALE
L’abuso di potere
di EZIO MAURO *
POICHE’ «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all’estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma. Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un’atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l’abuso di potere.
Non c’è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia - che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati - sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c’entra nulla il "comunismo", questa volta, e nemmeno c’entrano le "toghe rosse". È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.
Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell’avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d’Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.
Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l’altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo "no" che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell’opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l’abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma "interpretativa", che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.
Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l’hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa - a tutela di ognuno - in passaggi procedurali che valgono per tutti.
Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell’interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.
Quest’ultimo, con la falsa furbizia del decreto "interpretativo" (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può "interpretare", accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all’uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l’anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell’arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.
Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l’illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l’opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un’autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta "democrazia sostanziale" rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l’irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l’occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d’eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.
Ma c’è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.
* © la Repubblioca, 06 marzo 2010
Perché siamo un Paese sull’orlo del Baratro
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 05.03.2010)
Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un’altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All’origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c’è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c’è di un intervento urgente? Non ce n’è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell’emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l’idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell’autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di "intelligence". Proponendo una politica dell’emergenza per fronteggiare l’emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol "fare"; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l’oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi. Ma c’è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un’impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un’oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l’uso dell’espressione "birbantelli": pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali. Entrambe queste ragioni - la propaganda della moralizzazione e l’esemplarità del fare - inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un’intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei "mariuoli" di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un’oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell’opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un’opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all’uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l’acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.
Calderoli: «Serve risposta politica ai furbi». Ma Bersani: «Aspettiamo i i verdetti»
Pdl, ricorsi respinti: Berlusconi in piazza
E Napolitano: «Che pasticcio con le liste» *
Il premier giovedì a Piazza Farnese con la Polverini. Cicchitto:«Così voto falsato». Il governo valuta ipotesi dl
MILANO -«Un pasticcio». Parola di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica ha commentato così l’intricata vicenda delle liste elettorali del Pdl che non sono state ammesse alle elezioni regionali. Il presidente della Repubblica ha parlato a Bruxelles, dove si trova in visita, dopo l’incontro con i vertici delle istituzioni europee. Il capo dello Stato non ha aggiunto nulla, ma a quanto si apprende la linea del Quirinale rimane quella fissata nei giorni scorsi da una nota ufficiale, in cui si afferma che la competenza sulla questione è della magistratura. Napolitano rientrerà al Quirinale venerdì mattina e probabilmente sarà investito da nuove richieste di concorrere al chiarimento della questione. Fabrizio Cicchitto (LaPresse)
E se il caos liste è «un pasticcio» per il Colle, esplode la rabbia del centrodestra dopo il doppio stop alle liste del Pdl nel Lazio e in Lombardia. Nella Capitale è stato infatti respinto il ricorso del Pdl per la riammissione della lista della provincia di Roma a sostegno della candidata Renata Polverini. E a Milano, la Corte d’Appello non ha ammesso la «Lista per la Lombardia» di Roberto Formigoni alle elezioni regionali lombarde: anche in questo caso è stato respinto il ricorso presentato dalla stessa lista contro il precedente provvedimento di esclusione. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che mercoledì sera ha incontrato Denis Verdini e Ignazio La Russa (annullando inoltre all’ultimo minuto le interviste con alcune televisioni locali in programma proprio per la campagna elettorale delle regionali) ha deciso che parteciperà giovedì alle 17 alla manifestazione promossa dalla candidata del centrodestra alla guida della Regione Lazio Renata Polverini a piazza Farnese a Roma. Il premier, secondo quanto riferisce chi lo ha incontrato, potrebbe prendere la parola sul palco al fianco della Polverini per sostenere la sua candidatura alla luce delle polemiche per l’esclusione della lista del Pdl della provincia di Roma. «Abbiamo convocato domani un ufficio di presidenza del Pdl» a proposito dell’esclusione di alcune liste di centrodestra in Lazio e Lombardia, ha detto mercoledì sera La Russa lasciando Palazzo Grazioli. Fra le ipotesi che l’Ufficio di presidenza valuterà per superare l’impasse delle liste ci sarà anche quella di un decreto. Lo riferiscono fonti parlamentari della maggioranza al termine dell’incontro fra Silvio Berlusconi e i coordinatori del partito a palazzo Grazioli.
«DEMOCRAZIA A RISCHIO» - La maggioranza intanto parla apertamente di «voto falsato» e punta il dito contro «i furbi che vogliono vincere a tavolino». Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, non usa mezzi termini: «I ricorsi respinti sia della lista Formigoni, sia di quella provinciale del PdL del Lazio per Renata Polverini insieme all’accettazione della lista di disturbo a Cota in Piemonte, dimostrano che queste elezioni corrono il rischio di essere falsate con conseguenze gravissime per la nostra democrazia. Altro che dilettanti allo sbaraglio». Per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti, il doppio stop è una cosa impensabile: «Come si può pensare di lasciare senza scelta nel momento più alto della democrazia, quello del voto, due Regioni che insieme rappresentano più di un quarto della popolazione italiana?» ha detto Bonaiuti riferendosi al Lazio e alla Lombardia. «Voglio sentire al più presto Bossi e Berlusconi - dice Roberto Calderoli - e poi decideremo perché serve subito una risposta politica ai furbi che cercano le vittorie a tavolino». «O il simbolo della Lega sarà presente dove abbiamo deciso di candidarci o tanto vale non presentarci alle elezioni perché non sarebbero valide» ha aggiunto il ministro leghista.
«CONFIDIAMO NEL TAR» - «Vincere facile, correndo da soli, è l’opposto della democrazia» è l’affondo di Ignazio La Russa, che non sembra sorpreso dagli ultimi sviluppi del caso e appare ottimista sugli ulteriori ricorsi. «Per noi non è una sorpresa», ma ora «confidiamo nella decisione del Tar» ha detto il ministro della Difesa e coordinatore Pdl. «Per noi non è una sorpresa la decisione della Corte d’appello, perché è un’anomalia, legata alla riforma del voto regionale, il fatto che si affidi allo stesso organi la potestà di decidere su un ricorso a una decisione presa dalla Corte stessa. In ventiquattr’ore raramente il ricorso ha la forza di modificare una decisione appena presa. Questa anomalia è stata introdotta con il Tatarellum che ha istituito il listino senza indicare un organo giudicante diverso dal primo. Dunque ritenevamo molto improbabile, anche se non impossibile, un cambiamento». «A questo punto - ha aggiunto La Russa - confidiamo nel Tar. Non credo che metà Lombardia possa essere privata del diritto di esprimersi perchè un bollo è quadrato invece che tondo. Sono irregolarità meramente formali. Penso che il Tar ci darà ragione».
«MARCIA SU ROMA?» - «Ora assisteremo a una marcia su Roma da parte del neofascista La Russa?» chiede provocatoriamente il leader dell’Idv Antonio Di Pietro commentando in Transatlantico alla Camera le parole del ministro della Difesa sull’esclusione di liste del centrodestra alle regionali («siamo pronti a tutti» aveva detto La Russa). «Per fortuna - ha aggiunto l’ex pm - oggi non è come allora e se dovessero farlo ci sarebbe una rivolta sociale che metterebbe a rischio la convivenza pacifica».
«NON PUNTIAMO A TURBARE IL VOTO» - «Ci sono diversi sedi istituzionali che devono giudicare; aspettiamo serenamente che finiscano queste pratiche, e noi non cerchiamo avvenimenti che turbino la fisiologia del voto» ha detto da parte sua il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «Detto questo - ha proseguito -, ci sono regole uguali per tutti e tutti devono rispettarle. Credo che ci si debba rimettere alle procedure di garanzia che la nostra legge fissa a iosa. Di più - ha concluso - non dico».
Redazione online
* Corriere della Sera, 03 marzo 2010
Dopo la frase sui pm "talebani", lettera del presidente della Repubblica a Mancino
Il vicepresidente del Csm: "E’ necessario impegnarsi in un confronto civile e rispettoso"
Giustizia, Napolitano al premier:
"Basta polemiche e accuse pesanti"
Bersani contro Berlusconi: "Sui giudici ormai sragiona"
L’Idv: "Non possiamo accettare che i magistrati siano offesi. Siamo al golpe" *
ROMA - Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito "talebani", il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate "in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato". Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come "il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese". Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier "frasi inaccettabili".
La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il "vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse".
"Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento - sottolinea napolitano - da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare".
"Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati - conclude il Capo dello Stato - che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione".
La risposta di Mancino. "Non nasconde il Capo dello Stato - sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano - il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti"
Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. "Penso - ha detto - quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili". "Dire che ormai ci siamo abituati, no - ha aggiunto Bersani - perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati". "E questa - ha ripetuto il segretario Pd - è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni". Bersani ha ricordato che "c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri".
Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. "Non possiamo accettare - dice - che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe". "Siamo al golpe - avverte il portavoce di Idv - ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ’ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti".
* la Repubblica, 27 febbraio 2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Alfano: presto il nuovo Lodo *
Il ministro della giustizia, Angelino Alfano, assicura che per la presentazione di un lodo costituzionale per lo ’scudo’ alle più alte cariche dello stato «non passerà molto tempo». «Lo strumento- aggiunge aAfano- lo decideremo in sede politica. Stiamo valutando e non passerà molto tempo per la decisione». Il ministro spiega che nel legittimo impedimento, approvato ieri dalla Camera e atteso al Senato, c’è una norma «che postula proprio l’esistenza di una iniziativa nell’arco dei 18 mesi» per un lodo costituzionale sull’immunità e che «la Camera ha inoltre approvato un ordine del giorno, con il parere favorevole del governo, che impegna a compiere questa scelta. Noi- aggiunge il ministro- ci muoveremo in questa direzione». Il nuovo lodo, a quanto si apprende, coprirà anche i ministri. E la sponda è offerta sia dai rilievi mossi dalla Consulta in occasione della bocciatura della prima edizione dello scudo penale, sia dalla legge sul legittimo impedimento, che riguarda appunto sia il premier che i ministri.
Il ragionamento che i tecnici del centrodestra hanno applicato nella scrittura di questa norma è semplice, ma porta a quella che al premier è stata prospettata come la ’soluzione finale’. In prima istanza, verrebbe introdotta una modifica costituzionale alle prerogative del presidente del Consiglio e quindi dei ministri e del presidente della Repubblica. In tutti gli articoli che riguardano i poteri e le prerogative di queste cariche verrebbe introdotta una frase in cui si stabilisce che, nei loro confronti, non si può «nè cominciare nè proseguire l’azione penale». Questo introdurrebbe le necessarie condizioni costituzionali per porre al riparo dai processi penali sia il presidente della Repubblica che quello del Consiglio, che però, essendo ’primus inter pares’, ha le stesse specifiche degli altri membri del governo, come anche tenuto in considerazione nella redazione del legittimo impedimento. Ecco quindi l’ingresso dei ministri ma la fuoriscita dei presidenti delle Camere tra le alte cariche dello Stato tutelate.
Una volta introdotto il principio costituzionale, il resto della manovra sarà portato avanti con legge ordinaria, perchè, come spiegano sempre dal centrodestra, «la Costituzione elenca i principi, poi ci vuole una legge per applicarli». È qui che verranno introdotti concetti come la eventuale rinunciabilità della tutela offerta dallo scudo o la reiterabilità in caso di nomina o elezione ad altra carica, il tipo di copertura offerta e la durata degli effetti. Il tutto, ovviamente, per via ordinaria. In quel testo, si sta ragionando, si potrebbe prevedere di introdurre lo scudo anche per i presidenti delle Camere.
L’introduzione del principio di impossibilità a «cominciare e/o a proseguire l’azione penale», poi, otterrebbe anche un altro risultato: di fatto, renderebbe inutile la norma transitoria del processo breve, scritta di fatto per stoppare i processi a carico del premier. Berlusconi sarebbe infatti coperto prima dal legittimo impedimento (la norma-ponte) e poi dal neo-principio costituzionale che renderebbe ’improseguibilì le azioni penali contro il presidente del Consiglio. Resta ancora da definire la strategia parlamentare per arrivare a questa soluzione. Al momento, l’ipotesi più accreditata è quella di iniziare a fine febbraio, ma forse anche dopo le regionali. Entro il 28 febbraio, infatti, va approvato il dl riempi-procure, che oggi la Camera ha licenziato all’unanimità. Prima però il Senato dovrà approvare il legittimo impedimento, varato ieri da Montecitorio. Ecco quindi la finestra temporale opportuna aprirsi soltanto dopo il 28 febbraio, ovvero in piena campagna elettorale per le regionali. A quel punto, è la spiegazione che danno nel centrodestra, «fra presentare un testo il 5 marzo o il 30 non cambia niente». Al momento, infine, non è stato ancora deciso se le nuove norme costituzionali saranno proposte dal Governo o da parlamentari.
* l’Unità, 04 febbraio 2010
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
La dottrina del Quirinale
di MASSIMO GIANNINI *
Come ogni Capodanno il "cuore d’Italia", da Palermo ad Aosta, batte all’unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un’opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l’assolutoria epifania del Partito dell’Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L’Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.
Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell’occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l’assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l’ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l’alibi biblico del Qoelet (c’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d’altro.
La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell’articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all’interesse generale", cioè all’esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell’unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.
La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell’idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l’esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l’origine dell’ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l’esistenza dell’ordine politico e dove perciò l’unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino). "Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all’alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.
© la Repubblica, 2 gennaio 2010
LA POLITICA DELL’ODIO
di Alexander Stille (la Repubblica, 18.12.2009)
Dopo l’attacco contro Berlusconi si parla molto di amore e odio, del “clima di odio” che la sinistra e giornali come Repubblica avrebbero creato criticando Berlusconi e dell’amore che Berlusconi richiede al Paese e al suo popolo.
Ma il dissenso politico e il diritto di critica non sono questioni di amore ed odio. Il Washington Post non era animato da odio per il presidente Richard Nixon quando fece l’inchiesta su Watergate. La proprietaria del giornale, Katherine Graham, aveva tanti amici tra i repubblicani dell’amministrazione e il presidente non accusò mai il Post di odio. Come il New York Times non odiava Bill Clinton quando fece i primi pezzi sull’affare "Whitewater," che portò alla vicenda di Monica Lewinskye che quasi gli costò la presidenza. Il dissenso e la critica - talvolta anche aspri - sono elementi fondamentali di una democrazia sana. La mancanza di critica all’amministrazione Bush - nel clima intimidatorio dopo l’undici settembre - ha contribuito forse in un modo decisivo alla guerra disastrosa in Iraq.
Ma porre il problema in termini di amore e odio - cioè in termini personalistici - è caratteristico della politica di Berlusconi. Il momento che mi colpì di più intervistando Berlusconi nel 1995 arrivò alla fine del nostro incontro quando, cercando di convincermi che non poteva neanche esistere il problema del conflitto d’interesse, disse: «So creare, so comandare, so farmi amare». Come se farsi amare - piuttosto che gestire l’economia o riformare il sistema pensionistico - fosse il più grande requisito di un uomo politico.
Il dissenso in Italia parla di Berlusconi perché è costretto a farlo. Berlusconi si è sempre posto al centro delle cose e parlare del Popolo della Libertà senza parlare di Berlusconi è semplicemente un non-senso.
Parliamo di Berlusconi perché da quando è entrato in politica nel 1994 l’Italia è diventata ingovernabile. Ingovernabile perché i massicci conflitti d’interesse presentati da Berlusconi - un monopolista della televisione privata che ora controlla il suo competitore principale, la televisione di Stato, un indagato di reati gravissimi che gestisce il sistema della giustizia - sono macigni sulla strada di ogni governo.
Così il Paese ha vissuto colpi di spugna, lodi di tutti i tipi, leggi ad personam cucite su misura per evitare la galera a questo o quel collaboratore stretto del Cavaliere e possibili condanne allo stesso Berlusconi. Nel mezzo di questa crisi, il governo propone una legge per limitare la pubblicità alla televisione via satellite di Rupert Murdoch, il primo vero concorrente privato di Berlusconi. E subito siamo costretti a chiederci: è stata fatta per il bene del telespettatore o per il bene di Mediaset, l’azienda del premier? E così è per tutto, o quasi: lo scudo fiscale, i condoni per l’evasione fiscale, la detrazione di tasse per le aziende, l’eliminazione delle tasse di successione. Le ultime proposte di legge del centro-destra - sempre retroattive - dimostrano che Berlusconi è pronto a smantellare tutto il sistema giudiziario italiano pur di salvare sé stesso. Abbiamo il. governo di un uomo solo che si occupa esclusivamente della sua persona e delle sue aziende.
Siamo costretti a parlare di Berlusconi perché Berlusconi ha personalizzato la politica come mai era accaduto nel dopoguerra. I vecchi partiti come la Dc e il Pci, per esempio, rappresentavano delle idee e delle aree sociali del Paese, ma i loro leader erano decisamente meno importanti dei blocchi che rappresentavano: i cattolici da una parte, la classe operaia dall’altra. Berlusconi ha personalizzato la politica, presentandosi continuamente come l’unico capace di "salvare" il Paese dal pericolo del comunismo. «Sono in politica perché il Bene prevalga sul Male», ha detto nel 2005: «Se la sinistra andasse al governo l’esito sarebbe questo: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo».
Berlusconi ha creato attorno a sé il culto della personalità, nel decimo anniversario della creazione di Forza Italia ha perfino detto che la sua "discesa in campo" era stata un atto suggerito dallo Spirito Santo. Il volto di Berlusconi è su ogni manifesto politico. Ha cambiato la legge elettorale in modo che deputati e senatori servano al piacere personale del premier. Il Parlamento è pieno di veline e amiche e amici, molti impiegati o avvocati di Berlusconi. Non contento, Berlusconi propone di far votare solo i capigruppo, riducendo il ruolo dei parlamentari a quello di puro ornamento.
Berlusconi ha cambiato il lessico della politica italiana, introducendo il linguaggio privato, quello del bar e della rissa in casa nella sfera pubblica. Ha dato dei «coglioni» agli elettori del centrosinistra, ha chiamato «stronzate» le parole del suo avversario politico, Romano Prodi, «criminoso» il giornalismo di Enzo Biagi, Marco Travaglio e Michele Santoro. I magistrati sono «matti» e «mentalmente disturbati». L’ex presidente della Repubblica Scalfaro è un «serpente» e un «traditore».
Pensiamo allo spettacolo indecente in cui durante l’ultima legislatura, i senatori del Pdl, aizzati dall’attuale presidente del Senato Renato Schifani, hanno coperto di insulti e ingiurie il premio Nobel Rita Levi Montalcini per spingerla a dimettersi da senatore a vita e far cadere la maggioranza di governo. Sfido gli esponenti del centrodestra a trovare un singolo episodio in cui i principali leader del centrosinistra (Prodi, D’Alema,Veltroni) si siano lasciati andare a un linguaggio simile.
E’ stato Berlusconi ad invitare gli italiani dentro la sua vita privata: con i mille commenti sulla vita da "playboy" e le sue prestazioni sessuali («Se dormo per tre ore posso fare l’amore per altre tre»), sul suo matrimonio («Rasmussen è il primo ministro più bello dell’Europa. Penso di presentarlo a mia moglie»). E ci ha portati dentro il suo divorzio con le sue apparizioni a fianco di Noemi Letizia e le comparsate a "Porta a Porta". Se si facesse il conto di chi negli ultimi quindici anni ha parlato di più sulle televisioni italiane scopriremo, credo, che gli italiani hanno dovuto ascoltare e vedere Berlusconi almeno dieci volte di più di qualsiasi altro politico. La verità è che Berlusconi ha trasformato un intero Paese in un grande reality: "Casa Berlusconi". Chi non lo gradisce ha il diritto di protestare. Non è la politica dell’odio. È, semplicemente, la democrazia.
L’italiano dell’Ottocento e dei migranti *
◆ La lingua italiana prima dell’Unità fino a quella parlata dai « nuovi cittadini » , i migranti nel Belpaese attuale. Si intitola « Bella e perduta » la tre giorni di convegno promossa dalla Società Dante Alighieri che si apre oggi a Roma, nella sede di Palazzo Firenze, con cui si metterà a fuoco il tema « L’Italia del Risorgimento: dall’italiano dello Stato preunitario alla lingua dei migranti » .
I lavori si aprono alle ore 17 con la presentazione del libro « Bella e perduta » ( Feltrinelli) dello storico Lucio Villari, con gli interventi di Bruno Bottai, Giorgio La Malfa e Giuseppe Parlato. Venerdì verrà conferito il Premio « Dante Alighieri » al presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ai lavori prenderanno la parola, tra gli altri, Tullio De Mauro, Alessandro Masi, Antonio Maccanico, Walter Mauro.
* Avvenire, 16.12.2009.
Un editoriale del più importante quotidiano finanziario europeo
"Il premier italiano è sotto assedio e per lui i problemi sono seri"
Il Financial Times su Berlusconi
"Non può governare l’Italia"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Dopo l’editoriale di venerdì scorso dell’Economist, l’autorevole settimanale globale britannico, che gli ha chiesto di dimettersi, stamane anche il Financial Times, più importante quotidiano finanziario d’Europa, afferma che Silvio Berlusconi "non può governare l’Italia". In un commento non firmato nella pagina degli editoriali, espressione della direzione del giornale secondo lo stile della stampa anglosassone, il quotidiano della City afferma che il premier italiano è stato a lungo in grado di restare a galla a dispetto delle controversie che lo circondano; "ma le cose adesso, finalmente, stanno diventando serie per il Cavaliere", osserva l’articolo.
Il FT ricorda che nei giorni scorsi Berlusconi è stato accusato in tribunale da un mafioso pentito di avere avuto legami con Cosa Nostra nel mezzo della campagna di attentati dei primi anni ’90, accuse negate dal primo ministro ma che "ciononostante mettono in rilievo i suoi legami con Marcello Dell’Utri, un suo stretto collaboratore che sta facendo appello contro una condanna a nove anni di prigione per associazione mafiosa". Il quotidiano londinese elenca quindi gli altri processi che gravano sul leader del Pdl: quello per la corruzione dell’avvocato inglese David Mills, uno riguardante Mediaset, a cui si somma la richiesta di ancora un’altra corte di giustizia del pagamento di una garanzia bancaria sui 750 milioni di euro che la Fininvest è stata condannata a pagare come risarcimento alla Cir di Carlo De Benedetti per la controversa battaglia sull’acquisizione della Mondadori.
"Berlusconi è sotto assedio", riassume il Financial Times. Ai suoi problemi giudiziaria si aggiungono la richiesta di sua moglie di un accordo di divorzio "punitivo", la "grande dimostrazione" di protesta del No Berlusconi Day e il fatto che "perfino il suo alleato, Gianfranco Fini, un possibile successore, è stato sentito dire che Berlusconi confonde la leadership con la monarchia assoluta".
"E’ prematuro dare per spacciato questo scaltro uomo politico, ma sta pattinando su un ghiaccio sottile", conclude l’editoriale. "La lamentela da lui spesso citata secondo cui non può governare e al tempo stesso affrontare una serie di casi in tribunale contro di lui è sicuramente giusta. Il suo governo sta cominciando a trascorrere più tempo a fare i conti con i problemi di Berlusconi che con quelli del paese. Le dure decisioni necessarie per riformare l’economia e le istituzioni italiane non verranno prese finché egli rimane primo ministro".
© la Repubblica, 7 dicembre 2009
Rivoluzione viola, un milione per dire: Berlusconi dimettiti
di Mariagrazia Gerina (l’Unità, 06.12.2009)
C’è chi se l’è dipinto in faccia, chi ci scrive sopra la rabbia, chi la speranza. Chi lo sventola contro il cielo azzurro. E lo fa avanzare come una nuova bandiera, un desiderio di rivoluzione, per le vie di Roma, da piazza della Repubblica a piazza SanGiovanni. Quel colore viola, lasciato libero dai partiti in oltre sessant’anni di Repubblica. Che, nel linguaggio cromatico, sta tra cielo e terra, tra passione e intelligenza. E significa «metamorfosi, transizione, voglia di essere diversi». Nessuno l’aveva considerato fin qui. Se l’è preso il popolo del «no B. Day». E in un pomeriggio, dopo quindici anni di berlusconismo, antiberlusconismo, girotondi, lo ha fatto diventare «urlo, abbraccio, amore per questo paese », prova a prestargli le parole Roberto Vecchioni, «tutta la gamma dei sentimenti» che la politica è ancora in grado di suscitare. «Nessuna cupezza, nessuna aria di sconfitta», contempla la scena dal palco il grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli.
L’identikit più bello di quel popolo sceso in piazza a chiedere a Berlusconi di dimettersi, lo fa Francesca Grossi, da Massa Carrara, venuta a Roma con suo marito e con i suoi due bambini di 11 e 13 anni. «Siamo di sinistra, usiamo la democrazia con fiducia, non so ancora per quanto - dice -, ci diamo da fare persino nei consigli di classe, vogliamo far sentire la nostra voce, far sapere che siamo tanti, che c’è un’Italia che dà il benvenuto ai marocchini e tiene le porte aperte». E però, dice Francesca, sciarpa viola al collo: «Ci sentiamo poco rappresentati, il nostro essere presenti sventolando il colore viola di questa sinistra sguinzagliata cisembra l’unica forma di rappresentanza rimasta». Lo dice tutto d’un fiato, come si dicono le cose che stanno a cuore. Poi si ferma, guarda avanti. E si domanda: «Ci ascolteranno?».
L’altra Italia
Chissà. Ma mentre parla, alle sue spalle, prende corpo l’altra Italia scesa in piazza per essere «presente». L’Italia dell’antimafia e della Costituzione. «Abbassate le bandiere dei partiti», ripete almegafono unragazzo con i capelli biondi. Davanti a lui, un mare di agende rosse come quella del giudice Borsellino, portate in civile processione da ragazzi che quandoquell’agenda sparì erano appena bambini. Al posto delle bandiere, un gruppetto di signore sventola la Costituzione. «Bisogna ricominciare dalla base in questo paese». Su tutto giganteggiano le lettere cubitali di un verbo semplice, da rivolgere direttamente al premier, senza mediazioni: «Dimettiti». «Ridacci l’Ita- lia, vattene ad Hammamet».
E poi: «Fuori la mafia dallo stato». «Caserta non è uguale a Cosentino». «Mangano e Dell’Utri a voi, i nostri eroi Falcone e Borsellino», scandisce il popolo «no B Day». Le stesse parole che il fratello Borsellino scandisce dal palco. Un intervento durissimo e applauditissimo. «A me delle escort non importa nulla, sono qui perché la mafia esca dallo stato, la presenza di Berlusconi e Schifani nelle istituzioni è un vilipendio».
«Dovevamo essere trecentomila, siamo più di un milione», esultano gli organizzatori. Una lezione per tutti i partiti, non solo per Berlusconi. Per l’Idv che corre a prendersi la prima fila. Per le tante bandiere rosse. E per il Pd che arriva in ordine sparso». «A cui ricorda che il Pd - dice Vecchioni - è un progetto vasto, nonsolo partitico». Il popolo del «No B Day» li ha votati un po’ tutti, con delusione e speranza. C’è persino chi incoraggia l’alternativa a destra: «Meno male che Gianfranco c’è». «Guarda se in piazza oggi ci sono io vuol dire che questo paese può cambiare davvero», dice Riccardo Fabbri, 38 anni, impiegato. «Io - spiega - ero l’italiano medio, miimportava solo del calcio, della tv e delle donne, poi però a vedere come hanno distrutto questo paese mi sono inc... anche io».
di Pietro Spataro (l’Unità, 06.12.2009)
Francesco ha 17 anni, Angelica 65. Davide è disoccupato, Manuela è precaria, Amedeoè piccolo imprenditore. Violetta e Ilaria sono studentesse, Valeria un’insegnante. Storie diverse che si incontrano in questo bellissimo corteo: si toccano, si mischiano, si danno forza stando insieme. Tante persone che hanno un tratto comune: vogliono un’altra Italia. Più giusta, più uguale, più libera, più democratica. Antiberlusconismo? Forse. Ma non basta a spiegare l’esplosione di gioia e di colori, i canti, gli slogan, le parole. Questa è gente che ha voglia di futuro. Di un futuro in cui nonci sia più Berlusconi. Già si definiscono il «popolo viola» e portano la freschezza e la velocità di un movimentonato sulwebche accetta la presenza, ingombrante, delle troppe bandiere di partito. Fanno pensare ai “girotondi”masono davvero un’altra cosa.
La meglio gioventù. Gioiosi ed esuberanti, inventano gli slogan migliori e sono dappertutto. Francesco Blaganò ha 17 anni, studente, è arrivato da Lamezia Terme. Tiene lo striscione che apre il corteo: “Berlusconi dimissioni”. Dice: «Il problema è questa Italia colpita al cuore dal malaffare. Non vogliamo arrenderci, ci siamo per smuovere le coscienze». Poco distante Davide, 20 anni, romano, si fa fotografare sotto la locandina di un film intitolato «L’intoccabile» il cui attore protagonista è Berlusconi. «Che faccio? Mi chiamano inoccupato. Sono qui perché mi dissocio e non solo per Berlusconi ma per quello che ci sta dietro: le nubi chimiche, i veleni, la nostra vita rovinata». Arianna sventola una delle poche bandiere del Pd.Ha29 anni. E’ unpo’ arrabbiata. Spiega: «L’opposizione si fa in Parlamento ma anche in piazza. Noi siamo qui, speriamo che il Pd se ne accorga ». Fulvio e Giuseppe, studenti ventenni, vengono da Lecce. «Siamo qui per stanchezza, per sofferenza. Nonne possiamo più. Vogliamo vedere un’altra scena.Ce la faremo?». Violetta ha 18 anni e fa la ragazza sandwich: denuncia la disuguaglianza della vita. Dice: «Se sei figlio di papà vai avanti, altrimenti ti fermi. E’ il senso della riforma Gelmini. I miei genitori sono impiegati, indovina un po’ che speranze avrò?». Urlano, nessuno riuscirà ad ammutolirli.
Lavoratori d’Italia.
Pensi di trovare schiere di giustizialisti inferociti e invece raccogli decine di storie di lavoratori che sono qui soprattutto per difendere la loro dignità. Fabio Frati è uno di questi. Era impiegato Alitalia ora è in cassa integrazione con 850euro eun figlio invalido. «Noi siamola testimonianza della cura Berlusconi. Siamo 10 mila in tutta Italia, un vero massacro sociale». Ida ha 47 anni, lavora in un’azienda ceramica in crisi vicino Reggio Emilia. «Sono separata con due figli e sono in contratto di solidarietà. Ma secondo voi ce la posso fare con poco più di mille euro al mese?». Il lavoro che non c’è, quello che si rischia di perdere, quello precario. Nicola ha 27 anni e viene dalla Sardegna. Fa il ferroviere. «Ho un contratto precario, lavoro 12 ore per900 euro. Eloro pensano allo scudo fiscale e ai processi di Berlusconi». Dice uno striscione: “Sono casertano non sono Cosentino”. Manuela ha 34 anni, è precaria in aeroporto. «Ma tu ti fideresti di uno come Cosentino? Io però sono qui anche per altro: per unmio amico che la Gelmini ha cacciato via dalla scuola, per mia cugina che è senza stipendio da cinque mesi».
Chi ascolterà questa Italia? Protesta civile. Ci sono anche loro, quelli che pensano che il regime sia alle porte. Roberto ha 63 anni, pensionato, faceva il dirigente in un’azienda petrolifera. Marcia con un cartello che dice “Come Veronica nun te regghe più”. Spiega: «Ho finito le parole, non ce la faccio più. Non sopporto la volgarità e l’incultura di questi signori». Davide si è sistemato sulla scalinata di una Chiesa con un cartello che recita “Berlusconi vattene, per fare politica servono mani pulite”. E’ vestito di grigio e lo scambiano tutti per il parroco. Gli urlano “grazie”. Lui sta al gioco. Poi dice: «Sono semplicemente unc ittadino incazzato contro Berlusconi che vuole fare il monarca».
C’è spazio anche per la poesia. Angelica, 65 anni, viene da Milano. Innalza un cartellino sui cui sono scritti versi di Giuliano Scabia: «Svegliati Italia / scrollati dal fango che ti ammalia ». Dice: «E’ la verità: siamo immersi nel fango». Ormai è buio. Piazza San Giovanni è strapiena e il corteo è ancora in via Merulana. Si balla, si canta. Ragazzi e anziani insieme, generazioni diverse in cerca del “colore della libertà”. Una signora in unangolo tiene altoun cartello minuscolo come tanti fatti in casa. Dice: «Quando la tigre è nella tua casa non discutere come cacciarla». Il «no B day» è finito. Oggi comincia il dopo. Chi caccerà la tigre?
LA LETTERA.
Il direttore generale della Luiss avremmo voluto che l’Italia fosse diversa e abbiamo fallito
"Figlio mio, lascia questo Paese"
di PIER LUIGI CELLI *
Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l’idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.
Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E’ anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l’Alitalia non si metta in testa di fare l’azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell’orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l’unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po’, non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all’infinito, annoiandoti e deprimendomi.
Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.
Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.
Preparati comunque a soffrire.
Con affetto,
tuo padre
L’autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.
*la Repubblica, 30 novembre 2009
Procedura inusuale del capo dello Stato che ha convocato i giornalisti
al termine di una cerimonia al Quirinale: "Sento il bisogno di parlare"
Napolitano: "Le toghe non travalichino"
Anm: "Ma noi vogliamo parlare" *
ROMA - Imporre uno stop, nell’interesse della nazione, alla spirale di polemiche e tensioni sempre più drammaticizzata non solo fra partiti ma addirittura fra istituzioni, tenendo presente che "niente può far cadere un governo se ha la fiducia del Parlamento" e se conta su una maggioranza coesa. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lanciato un vero e proprio appello alla politica italiana. E lo ha fatto dal Quirinale, con una dichiarazione non priva di toni allarmati. Che provoca la reazione dell’Anm. "Non siamo in guerra ma non vogliamo aggressioni" dice il presidente Luca Palamara.
Le parole di Napolitano rispondono punto per punto alle preoccupazioni manifestate da più parti nei rapporti tra politica e giustizia e anche ai timori del premier, Silvio Berlusconi, che ieri, durante l’ufficio di presidenza del Pdl, ha lamentato che la magistratura voglia "abbattere il suo governo ".
La dichiarazione del presidente della Repubblica è avvenuta nella sala di rappresentanza del Colle con una procedura, sinora inedita, che testimonia la preoccupazione del capo dello Stato per lo scontro in atto nel Paese. Al termine dell’udienza con l’Anmil, l’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, i giornalisti vengono raccolti nella sala di rappresentanza. Pochi minuti dopo, anche Napolitano ha raggiunto la sala per leggere la sua dichiarazione. Poche parole per motivarne l’urgenza: "Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento. L’interesse del Paese richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali".
"Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. E’ indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione".
"E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Le reazioni. Di "parole sagge" parla il presidente del Senato Renato Schifani, mentre Gianfranco Fini apprezza il messaggio del capo dello Stato e sottolinea come vada letto e apprezzato "nella sua totalità". Anche Umberto Bossi accoglie l’invito ad abbassare i toni: "Bisogna stare più tranquilli". Chi, invece, si smarca è Antonio Di Pietro: "Non posso però esimermi dal riaffermare che i magistrati, quando lamentano l’impossibilità di potere svolgere il proprio lavoro per colpa di norme criminogene che vengono emanate da questo Parlamento, non possono essere zittiti". Il presidente del Pd Rosy Bindi, invece, chiama in causa chi "continua a lanciare accuse di eversione o a parlare di guerra civile". Ovvero il premier. "Berlusconi dovrebbe verificare che, dopo le parole da lui stesso pronunciate contro esponenti del suo partito, sia ancora così solida" chiude Rosy Bindi. Per il leader dell’Udc Pierferdinando Casini si tratta di "un doppio monito che vale per tutti coloro che in questi giorni ingiustamente hanno fatto polemiche dissennate contro i vertici delle istituzioni, anche contro il Capo dello Stato".
* la Repubblica, 27 novembre 2009
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
L’ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"
Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"
Ciampi: "Basta leggi ad personam
Berlusconi delegittima le istituzioni"
di MASSIMO GIANNINI *
«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell’azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l’amarezza. Un’amarezza profonda, sul destino dell’Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".
"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".
L’ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare". Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio". "Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".
* © la Repubblica, 23 novembre 2009
Chi vogliamo essere
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 22/11/2009)
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti nel regime, nei giornali interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
Norma e diritto, da Platone a Brecht
Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un’idea astratta che governa ma il rifiuto dell’ingiustizia
La Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 10.11.2009)
"Che cosa è la legge?" - chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt’altro che soddisfacente.
Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge - di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E’ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo - sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale - alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all’argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l’autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente.
Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità - lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall’altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge - intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti - è lungi dall’esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall’antico diritto alla moderna legge - di cui l’Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità - costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata.
Anche quando, nei primi secoli della modernità, l’equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell’origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all’esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente.
Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D’altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l’ha consegnata all’inferno. L’unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un’idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ingiustizia palese.
Qui l’autore torna a riproporre l’antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi - dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura - valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l’integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni.
Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht - ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all’interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell’insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l’orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d’incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall’intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall’altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.
Il presidente della Repubblica scrive all’associazione delle toghe "Servono riforme non occasionali e che siano per i cittadini"
Napolitano: "Garante della magistratura
l’Anm sia sempre aperta al dialogo" *
ROMA - "Sono e resto garante dei principi fondamentali di indipendenza ed autonomia della magistratura". Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera al Presidente dell’Anm Luca Palamara, riafferma il ruolo del Colle sul delicato tema della giustizia. E lo fa mentre le tensioni tra toghe e governo sono acuite dall’intenzione dell’esecutivo di mettere mano alla riforma. Non dimenticando "l’inquietante attacco mediatico" al giudice Mesiano. "Serve un confronto equilibrato, l’Anm sia aperta al dialogo" dice Napolitano che risponde così alla lettera che l’Anm gli aveva inviato il 16 ottobre scorso.
Quelle che servono sono "riforme nè occasionali nè di corto respiro", le stesse che si augurano quelli "che hanno a cuore un soddisfacente esercizio della fondamentale funzione di presidio della legalità, al servizio del cittadino e dei suoi diritti, nel rispetto reciproco e nella leale collaborazione tra tutte le istituzioni".
Per realizzare riforme del genere, è questo l’invito del capo dello Stato all’associazione dei magistrati, "l’Anm deve continuare a guardare a tutti i motivi e gli aspetti della crisi del sistema giustizia, offrendo,con rigore, con misura e senza scendere sul terreno dello scontro, la sua disponibilità a concreti contributi propositivi, come un interlocutore attento e credibile, fermo nella difesa dei principi fondamentali di indipendenza e autonomia".
Principi di cui Napolitano si dice "garante", non mancando di sottolineare le preoccupazioni per "l’acuirsi della tensione tra le istituzioni della Repubblica, e in particolare tra quelle in cui s’incarnano i rapporti tra politica e giustizia".
Immediata la reazione dell’Anm che si dice "impegnata" a contribuire ad una riforma per i cittadini, sottolineando "le parole chiare" di Napolitano sull’indipendenza dei giudici.
* la Repubblica, 6 novembre 2009
La patria non è lui
di Giovanni Maria Bellu *
In fondo il ragionamento non fa una grinza: io sono l’Italia, dice il premier, e dunque chi mi «sputtana», in realtà «sputtana» la patria. È giusto. La patria è sacra. Bisogna amarla in tutte le circostanze. C’è una guerra? E tu devi combattere per la patria. Un’immane catastrofe naturale? E tu devi ricostruire la patria. Mica puoi prendertela con lei. Sputtanarla, poi...
Il piano di Silvio Berlusconi per farsi patria ha avuto un’accelerazione formidabile dopo l’individuazione di alcune organizzazioni anti-italiane operanti nel territorio nazionale: la Corte costituzionale che ha vilipeso il lodo Alfano, argine giuridico creato a difesa della patria, e il presidente della Repubblica il quale si ostina a considerare patria quel territorio delimitato a nord dalle Alpi, attraversato longitudinalmente dagli Appennini e circondato dal Mar Mediterraneo.
Al contrario, per esempio, del ministro Maria Vittoria Brambilla che, rivela qua accanto il nostro Congiurato, reputa Silvio Berlusconi parte del patrimonio turistico nazionale, come il Colosseo, il campanile di Giotto e Piazza San Marco. O del ministro ombra degli Esteri Franco Frattini che, ci racconta il collega danese Mads Frese, continua a tenere impegnati i nostri sempre più imbarazzati ambasciatori nella titanica impresa di convincere la stampa estera che Silvio Berlusconi e il Canal Grande sono la stessa cosa.
Impresa, oltretutto, resa ancora più complessa dal verbo temerariamente scelto dal premier per denunciare le attività antipatriottiche. All’uditore straniero che per seguire le recenti cronache politiche italiane ha dovuto arricchire il suo vocabolario di parole che non aveva studiato nel corso di lingua, il verbo «sputtanare», più che un’attività anti-italiana, evoca le attività del premier medesimo.
Ma non illudiamoci che lo sgomento del mondo sia sufficiente a salvarci. Silvio Berlusconi non se n’è mai curato, come dimostra l’assoluto sprezzo del ridicolo con cui continua ad affrontare gli impegni internazionali. Gli basta essere patria in patria. Cioè nel luogo dei suoi interessi e dei suoi affari. Ha un piano. Rozzo ed efficace, come ci spiega Claudia Fusani: utilizzare il consenso di cui ancora gode per accelerare la svolta presidenzialista. Modificare il sistema costituzionale. Delegittimare il capo dello Stato e prenderne il posto. Fantapolitica? C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la descrizione del quadro attuale sarebbe stata liquidata come fantasia pura. La stiamo vivendo. Ed è qua che lo sbalordimento mondiale per il premier si estende a tutti noi. Leggiamo, alle pagine 4 e 5, le cronache sugli scandali in corso in Francia, Spagna, Inghilterra. Robetta rispetto alla nostra. Bazzecole. Eppure la stampa le denuncia, i politici sono costretti a dare spiegazioni, a dimettersi, a restituire il maltolto, anche quando si tratta di poche centinaia di sterline. «È un problema di diverse sensibilità», dice magnanimamente a Roberto Brunelli Michael Braun, corrispondente a Roma del tedesco Die Tagesszeitung. Già, solo la sensibilità democratica di chi ci vive può salvare la patria. Quella vera.
(Filo rosso del 14 ottobre 2009)
* Nemici Il blog a cura di Giovanni Maria Bellu 13/10/2009 09:30
Legge sulla sicurezza, Napolitano:
"Chi mi critica non conosce la Costituzione"
ROMA - "Sono stati invocati poteri e doveri che non ho" così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risponde a chi lo ha criticato per la promulgazione della legge sulla sicurezza. E in materia di intercettazioni auspica che a settembre quando il ddl verrò riesaminato al Senato vi sia "spirito di apertura e senso della misura", per arrivare ad "una riforma condivisa".
La legge sulla sicurezza. Giorgio Napolitano ribatte "a qualche fiero guerriero" che lo ha criticato soprattutto dopo la promulgazione della legge sulla sicurezza. E’ stata una promulgazione piena, e chi "invoca polemicamente poteri e doveri di intervento che non ho, mostra di aver compreso poco della Costituzione". Il Capo dello Stato torna a chiedere capacità di autocritica e dialogo da parte di governo e opposizione, e spiega che il dibattito sulle intercettazioni sarà uno dei "banchi di prova" della nuova stagione.
Le intercettazioni. "Riconoscere che esiste un problema di revisione di regole e di comportamenti in materia di intercettazioni è la premessa per cercare soluzioni appropriate e il più possibili condivise". E’ l’auspicio espresso dal presidente delle Repubblica. Soluzioni che, a suo giudizio, si possono raggiungere "cogliendo l’occasione dell’opportuno slittamento delle votazioni in parlamento sulla legge già da non breve tempo in discussione".
Per Napolitano, dunque, "occorre spirito di apertura e senso della misura da parte di tutti i soggetti interessati". Anche per questo, sottolinea il Capo dello Stato, "sarà prossimamente questo uno dei banchi di prova di quel confronto più civile e costruttivo tra maggioranza e opposizione che continuo a considerare necessario nell’interesse della democrazia e del paese".
* la Repubblica,20 luglio 2009
Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone
E sulla strage di via d’Amelio accusa i servizi e lo Stato
Riina sul delitto Borsellino
"L’hanno ammazzato loro"
di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO
TOTÒ RIINA, l’uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull’uccisione di Paolo Borsellino dice: "L’ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.
Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all’esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un’"uscita" clamorosa sull’affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.
Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l’avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D’Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.
Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L’ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l’ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L’ammazzarono loro...".
E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".
Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l’omicidio di Borsellino, per l’omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell’inchiesta Borsellino non cambierà, fra l’altro adesso c’è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".
Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l’ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E’ tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell’udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell’Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".
E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall’altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest’altra istanza".
Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".
Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".
Quando il potere teme la verità
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.07.2009)
Sono venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l’una, la verità e, l’altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l’affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l’ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere.
Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione.
Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C’è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù.
La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l’intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta - 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e ‘600 in cui l’elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura.
Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all’apparenza contraddittori: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 36) e «siate avveduti (phronimòi) come serpenti» (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall’altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto ..., ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza.
Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l’inganno è perché viviamo nell’ostilità e i regimi dell’ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l’uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d’una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento.
* * *
Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell’ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore.
Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell’altro. Quando c’è interferenza, non si può negare l’esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell’opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all’ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell’opinione pubblica?
Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l’eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti.
Ma la società civile ha scommesso su Berlusconi
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 16/7/2009)
Lo spettacolo poco edificante della preparazione delle Primarie del Pd è l’altra faccia della profonda depressione in cui è precipitata la società civile italiana. E’ ad essa infatti che vorrebbero rivolgersi gli esponenti del partito democratico per rappresentarla, ritrovarla, reinventarla. Si è fatto vivo anche Beppe Grillo, grottesca espressione di una società civile urlante.
Ma è un’impresa disperata: la società civile italiana è afona, disillusa, disorientata, incattivita. Soprattutto è divisa in pezzi e settori che tengono d’occhio esclusivamente i loro propri immediati (legittimi) interessi materiali o ideali.
Su di essa governa il berlusconismo, che mira a tenere assieme tanti singoli interessi. Non si vede nessun grande disegno. Anzi la crisi sta impietosamente mostrando i limiti intrinseci della politica. Si ingigantiscono così i problemi particolari e i loro protagonisti: i leghisti con le campagne anti-immigrati e i clericali preoccupati di blindare una cattiva legge sul testamento biologico. La politica, diventata sommatoria degli interessi più disparati, è facilitata dall’impotenza dell’opposizione politica. In compenso Berlusconi è riuscito ad indirizzare contro la sinistra l’ostilità, l’incattivimento diffuso nella società.
In questo contesto è vano continuare a evocare una idealizzata «società civile», come faceva un anno fa l’allora leader del Pd Walter Veltroni, al Circo Massimo di Roma, con l’intento di mobilitarla contro il berlusconismo. E’ successo l’opposto. Il berlusconismo ha vinto le elezioni amministrative grazie ai pezzi di società civile i cui interessi di volta in volta particolari riesce a soddisfare o promette di soddisfare.
Quanto alle sue vicende personali, Berlusconi è sopravvissuto ad una situazione, che in qualunque paese occidentale avrebbe messo alle corde qualunque politico, grazie alla tolleranza di buona parte della «società civile», perfettamente interpretata dalla cautela dei clericali.
E’ dunque vero che «gli italiani sono fatti così» - come si sente ripetere all’estero che riduce la nostra identità storico-culturale ad una inconsistente (im)moralità pubblica?
Di fatto nel caso Berlusconi si è assistito ad un calcolo politico preciso. Chi ha scommesso sui benefici che può ottenere dal berlusconismo - benefici che non ha ancora raccolto sino in fondo - non è disposto a metterli a rischio politicamente ora, a causa di veri o presunti indecenti comportamenti del leader.
Naturalmente nel frattempo si sono mostrate le contraddizioni di un tratto tipico del berlusconismo originario: la disinvolta e permissiva commistione di pubblico e privato, l’allegra trasgressione delle regole che aveva esercitato un suo fascino su settori rampanti della società civile.
Ma ad un certo punto Berlusconi ha sbagliato misura. Ha commesso una serie di errori che - fortunatamente per lui - i suoi alleati si sono affrettati a minimizzare. Ma lo hanno fatto e continuano a farlo esclusivamente nel loro interesse. In questo modo ritengono di poter controllare in qualche misura il Cavaliere. O addirittura di farsene grande debitore. Infatti come potrebbe governare senza il sostegno dei leghisti o dei cattolici clericali?
Ma è evidente che Berlusconi recalcitra davanti a questa prospettiva. «Adesso tutti sanno chi comanda» - avrebbe detto all’indomani del successo (di immagine e di ospitalità) del G8, contando sulla risonanza mediatica delle sue parole. Staremo a vedere. Qui torna in gioco la «società civile» depressa, disillusa, frammentata di cui stiamo parlando. Il berlusconismo con i suoi tratti di populismo democratico ha riempito il vuoto che si era prodotto con la crisi dei vecchi sistemi di rappresentanza partitica. Il leader populista, mediatico, crea l’immediatezza della rappresentanza, del rapporto diretto con la gente.
Ma questa situazione regge quando è onorata con l’effettiva capacità decisionale. Ed è evidente che la «politica del fare» ordinario di cui parla sempre il Cavaliere ha toccato i suoi limiti. La prossima mossa sarà la riforma o la forzatura istituzionale in direzione del rafforzamento dell’esecutivo.
A questo proposito non è un mistero che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia. Su questo sentimento Berlusconi giocherà la sua carta più impegnativa, scontrandosi con la netta opposizione della sinistra e dei moderati di centro.
Ma il gioco sarà a tre: Berlusconi, l’opposizione e ciò che resta della società civile.
E’ importante che il Partito democratico si prepari a discutere apertamente e in modo competente questa problematica - evitando sia di affidarsi ai soli professionisti dei sistemi costituzionali sia ai comprensibili allarmi di possibili scivolamenti autoritari, che da noi sono immediatamente associati all’esperienza storica del fascismo. Discutere, argomentare seriamente e serenamente su riforme costituzionali tenendo presenti i modelli e le esperienze degli ultimi decenni in Europa. E’ una sfida importante in grado di risvegliare e rianimare su temi politici forti anche la società civile.
Piazza Fontana, Napolitano: "Divergenze non sfocino in minacce alla vita civile" *
MILANO - La strage di Piazza Fontana ci ha consegnato "una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando, alla prefettura di Milano, i familiari delle vittime delle stragi terroristiche.