RIPENSANDO AD AXEL SPRINGER
Lettera di Federico La Sala (l’Unità, 15.01.2003, p. 30)
Caro Direttore
probabilmente avrà letto ai tempi il formidabile lavoro a cura di Giorgio Backhaus, Springer: la manipolazione delle masse (Serie politica 4 - Einaudi 1968).
Questo era l’inizio della sua Introduzione: “L’impero giornalistico di Axel Caesar Springer è, nelle sue dimensioni più significative, un fenomeno tipicamente tedesco, come risulterà dalla lettura di tutto quello che segue. Ciò nonostante la vicenda di questo editore merita di essere presa in considerazione come un problema che ci riguarda tutti, non solo per il peso che le sorti della Germania hanno nel contesto europeo, ma anche e soprattutto per individuare le linee tendenziali della manipolazione degli individui in una società di massa, vale a dire in tutti i paesi a capitalismo maturo.
Sotto l’involucro ideologico del liberalismo, dell’economia concorrenziale nella Germania occidentale del secondo dopoguerra si sono vigorosamente riaffermate ... le tradizionali tendenze alla concentrazione industriale che avevano caratterizzato il paese sin dalla seconda metà del scorso(...) (p. 13).
[Parole di] Axel Springer (1959): “Sin dalLa fine della guerra mi è stato chiaro che il lettore tedesco non voleva in alcun caso una cosa: pensare. Di questo ho tenuto conto nell’impostazione dei miei giornali” ( cit., p. 22).
“Springer usa il suo potere per creare i sudditi ideali dei nuovo regime ... Con strumenti infinitamente più moderni ed efficienti... Il suo ruolo è qúello di massimo battistrada del nuovo autoritarismo, eg1i sta infatti svolgendo l’opera che costituisce la premessa essenziale di una sua adozione sistematica: sta generando uno strato sempre più largo di persone per le quali l’impegno politico individuale, l’assunzione di una responsabilità personale è cancellato anche dall’ambito delle potenzialità” (pp. 39-40).
Forse è troppo tardi, ma ora che viviamo “con un piede sul tubo dell’ossigeno”, e in un clima di asfittico e sofistico “tradimento degli intellettuali”, non è male riprenderlo e ... riattivare la memoria [15.01.2003].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.0720,18)
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone.
Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
CULTURA E CRITICA.
di Marina Beer
Proiettato nelle sale in Italia solo per tre giorni nel 2016 (dopo il 25 aprile), il film satirico di David Wnend Er ist wieder da. Lui è tornato non è la semplice traduzione cinematografica dell’omonimo bestseller satirico dello scrittore tedesco-ungherese Timur Vermes (2012, tradotto in italiano da Francesca Gabelli per Bompiani nel 2013). Il film è stato prodotto dalla Costantin Film, la stessa casa che ha prodotto Der Untergang (2004) di Oliver Hirschbiegel (La caduta, gli ultimi giorni di Hitler) - con un memorabile Bruno Ganz - e del film sul neonazismo Die Welle di Dennis Gansel (L’onda, 2009, presentato al Festival di Torino). Uno dei due produttori del film, Moszkowicz, è figlio di due sopravvissuti ai campi.
In entrambi i testi un Adolf Hitler in carne e ossa si risveglia incolume, benché intriso di benzina e bruciacchiato (dalle fiamme della cremazione nel bunker? da quelle dell’Inferno?), il 30 agosto del 2011 proprio a Berlino, nei cespugli di un parcheggio tra la Potsdamer Platz e la Brandenburger Tor. Il dittatore fa ripulire la sua divisa in una per lui sorprendente lavanderia turca, si avventa su un chiosco di giornali alla ricerca dell’ultima copia del Völkischer Beobachter, il quotidiano del suo partito, si stupisce di non trovarla nel 2011 (ha cessato le pubblicazioni il 30 aprile 1945!) e quindi si istalla nell’edicola per documentarsi freneticamente sull’attualità - come d’altra parte aveva sempre fatto. E dall’edicola parte alla scoperta del mondo in cui è precipitato, allo scopo di impossessarsene di nuovo carpendone il consenso.
Così, intercettato dal cameraman di una rete televisiva che lo crede un attore che "fa" Hitler, viene risucchiato nel mondo dei media. Lo strano personaggio ha carisma, sa comunicare e, dietro una maschera subliminalmente familiare a tutti, parla con una voce e con un linguaggio insoliti: ma soprattutto dice quello che il pubblico vuole sentirsi dire. E Hitler-showman seduce non tanto perché è un ottimo oratore ed entertainer, ma proprio perché prende posizione, con opinioni nette, magari "bizzarre", estreme come la lingua e il gergo aulico in cui sono espresse (è uno dei pregi maggiori del libro e del film) - e questo salto linguistico è ciò che fa di lui un "comico", uno showman, agli occhi degli addetti ai lavori, che lo considerano un clown e non il vero Führer. Certo, si dicono i producers televisivi, costui è vestito e truccato come Hitler: ma nella cultura tedesca 2.0 anche un Hitler "comico" è diventato una sorta di gadget anestetizzato, non è più neppure troppo politicamente scorretto; anzi, ridotto a goffo idiota nelle commedie satiriche su di lui e nelle manipolazioni di film e documentari in chiave farsesca che circolano online, il dittatore non è quasi più un tabù: e allora per fare audience lo si può anche mandare in onda.
Dunque l’Hitler revênant si impadronisce delle forme di comunicazione del nuovo millennio così come si era impossessato di quelle del secolo precedente - non solo della televisione, definita da lui «straordinario strumento di propaganda», dove si presta a interviste, ospitate, siparietti - ma anche di internet e dei social, diventando rapidamente una star del web. Avendo capito che gli europei del XXI secolo sono ormai assuefatti alla spazzatura trasmessa dai media e da essa completamente anestetizzati e resi ottusi, impara a disprezzarli e si predispone a dominarli di nuovo da uomo forte con una comunicazione diversa che li risvegli dalla loro inerzia.
Nella finzione comica, i cittadini consumatori della democrazia tedesca (solo tedesca?), ormai del tutto privi di capacità di comprensione storica, hanno dimenticato ogni cosa, salvo il loro benessere e il timore di perderlo. Della "memoria" del nazismo e della Seconda guerra mondiale qui non è questione: se qualcuno dei personaggi l’avesse, si domanderebbe dov’è che il revênant vuole arrivare - e invece nessuno se lo chiede. Automatizzata dalle ripetizioni rituali, questa memoria - che la Germania cerca meticolosamente da decenni di rielaborare attraverso la scuola, l’architettura, la letteratura, l’arte, i musei - sarebbe ormai soltanto una funzione fàtica del conformismo politicamente corretto. Nel romanzo, tanto per mettersi la coscienza a posto, una donna fa osservare a Hitler: «Sa, la questione degli ebrei non è uno scherzo», e lui risponde, serafico e ambiguo: «Ha perfettamente ragione!», poi i due passano disinvoltamente a un altro argomento. Perché sanno di avere molte idee e "valori" in comune: l’odio per stranieri, profughi e Asylanten che li stanno invadendo, per le classi dirigenti corrotte e senza identità, lontane dal "popolo"/"gente", indistinguibili nell’essere immerse nei sondaggi e a caccia di consensi; la paura della povertà, l’amore identitario per la loro terra la loro lingua e il loro popolo, il sospetto verso gli altri europei, l’amore per la natura. Insomma, sono nazionalisti e razzisti e antisemiti... «La gente non può ancora avercela tanto con Hitler!». Davanti a lui ormai si aprono tutte le porte!
Ma il film di Wnend non è la semplice trascrizione del romanzo. Nel passare da un medium all’altro cambiano finale e piano del racconto. Il vero protagonista infatti non è Hitler, ma il pubblico che lo accoglie e che è stato fatto entrare direttamente in molte scene dove è semplicemente se stesso con effetto di candid-camera: la turista che si scatta un selfie con il bravissimo Hitler-Oliver Masucci davanti alla porta di Brandeburgo (gli italiani condiscono il selfie di saluti romani), gente qualunque in pellegrinaggio wagneriano sulla piazza di Bayreuth che si fa ritrarre da lui, ancora una volta artista di strada, famigliole che salutano al suo passaggio in macchina scoperta, gente che davanti a un bicchiere di birra confida all’attore (che improvvisa a partire da frammenti del romanzo) le sue preoccupazioni rispetto agli immigrati e al lavoro, gente dell’Est che teme la perdita del benessere dopo la riunificazione. A quanto si vede il post-Hitler è stato accolto quasi ovunque (tranne che da alcuni neonazi veri, ma non da tutti) con spontanea e spaventosa tolleranza. Sono pochi i passanti che si voltano dall’altra parte. Nessuno, a quanto pare, si è sentito preso in giro dalla troupe: uomini e donne ormai assuefatti a digitalizzazioni di ogni genere hanno perso quasi immediatamente ogni inibizione a familiarizzare con il finto Führer. D’altronde l’unico personaggio che smascheri il dittatore è la nonna ebrea della segretaria di Hitler, una sopravvissuta che lo riconosce come "vero" e mette a nudo il suo irrefrenabile razzismo antisemita.
Così questo film inquietante finisce per dirci molto di più sui tedeschi e sulla democrazia del 2015 (l’anno dei profughi) e del 2016 (l’anno di Trump) che su Hitler. E non sulla memoria del passato, ma sulla memoria nel presente. «Lei è un mostro!», dice a Hitler il giovane cameraman che l’ha scoperto e che cerca di ucciderlo nella scena finale. «E allora lei deve condannare anche quelli che hanno votato questo Mostro ... erano tutti mostri? - risponde Hitler - Non erano piuttosto persone qualunque che hanno deciso di votare un uomo straordinario e di affidargli il destino di una nazione? E allora lei vorrebbe proibire le elezioni?». E conclude: «Non potete liberarvi di me. Io sono una parte di voi... e poi ... non tutto era così cattivo!».
Il romanzo si conclude invece con Hitler che si prepara a candidarsi alle elezioni: scritto in prima persona, per quattrocento pagine costringe il lettore ad abitare comicamente nella testa di Hitler, assordati da una voce che descrive in modo straniato il nostro mondo e insieme, in modo più surreale, racconta i propri crimini come se fossero decisioni secondo giustizia (un tòpos, nelle rappresentazioni più recenti di Hitler). In Germania l’audio-libro del testo ha avuto enorme successo.
Non è questa la prima rappresentazione comica di Hitler nell’immaginario collettivo tedesco e occidentale degli ultimi settant’anni, ma (se si eccettuano i libri di storia - la sua biografia più recente è quella di Volker Ullrich, Adolf Hitler. Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Fischer 2013) è la prima che ne descriva realisticamente le qualità di manipolatore politico e di uomo di spettacolo.
Alcune di queste doti venivano adombrate già nell’archetipo, Il Grande dittatore (ottobre 1940; del 2015 la versione in dvd restaurata dalla Cineteca di Bologna). D’altra parte Chaplin aveva definito «l’uomo che gli aveva rubato i baffi» uno dei più grandi uomini di spettacolo viventi, e già prima della distribuzione del film circolavano caricature a specchio del clown Charlot, «il giudeo Chaplin», e della sua controparte germanica. I due erano nati lo stesso anno a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Il tema del doppio e dello scambio di persona, tipico delle farse, dei vaudevilles e dello stesso Chaplin - anche del suo progetto di film mai realizzato su Napoleone - entrò così direttamente nel suo primo film parlato e nella storia delle rappresentazioni satiriche di Hitler: si scambiano di posto il dittatore Adenoid Hynkel e il suo sosia, il barbiere ebreo senza nome, «il piccolo ebreo abbandonato, pieno d’ingegno... il piccolo pover’uomo di tutti i paesi» (Arendt).
Così faranno poi Hitler e il libraio ebreo Schlomo Herzl nella pièce teatrale del grande scrittore e drammaturgo ungherese Georg Tabori Mein Kampf (1987), forse il primo a portare un Hitler farsesco e insieme tragico direttamente sulla scena del Burgtheater nella Vienna del cancelliere ex-nazista Kurt Waldheim, un anno prima del cinquantenario dell’Anschluss dell’Austria al Reich e della prima, provocatoria rappresentazione di Heldenplatz, di Thomas Bernhard, sempre al Burgtheater.
Il tema del doppio Hitler/ebreo ritorna anche nella recente fantasia satirica Mein Führer. Die wirkliche wahrste Wahrheit über Hitler (2007) di Dani Levy: nel dicembre 1944 un Hitler già stremato tira fuori da unLager un celebre attore ebreo (Ulrich Mühe, il protagonista delle Vite degli altri, qui nell’ultimo suo film prima della morte) che dovrà sostituirlo, e che verrà ucciso in un attentato al posto suo. Anche il romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt, La parte dell’altro (e/o, 2007) immagina due vite parallele, quella di Hitler non ammesso all’Accademia di Vienna e quella di Hitler che supera l’esame e diventa un vero pittore.
Al tempo stesso il film di Chaplin cristallizza alcune modalità delle rappresentazioni di Hitler: la vendetta contro il tiranno egomaniaco e anaffettivo attraverso la denigrazione caricaturale, anche in termini sessuali (e pare che Hitler, allergico a ogni forma di ironia, si fosse procurato da Lisbona una copia del Grande Dittatore, vietato nel Reich e nell’Italia fascista come d’altronde tutti i film dell’ebreo Chaplin, ma si ignora se - a differenza di Mussolini-Benzino Napoloni - l’abbia poi mai visto); la deformazione fantastica e straniante tipica della satira, che autorizza (fino all’Hitler di Inglorious Basterds di Tarantino) la libera invenzione di favole antirealistiche e paradossali, l’inserimento di slapstick e nonsense; il riuso di materiale documentario originale, frammentato e mescolato con materiali girati; l’uso ironico della musica di Wagner - il Lohengrin nella scena indimenticabile del mappamondo - come già avveniva nel cinema hitleriano della Riefensthal. La musica di Wagner, insieme alla Gazza ladra di Rossini e alla colonna sonora di Arancia meccanica di Kubrick accompagna significativamente e sinistramente anche il recente Lui è tornato, alludendo al mondo del diabolico Alex e alla sua banda di clowns.
Alexander Sokurov, regista dell’Hitler drammatico di Moloch (1999) e di altri tre film sul disfacimento del potere (Taurus, su Lenin, Il sole, su Hirohito, Faust, da Goethe), sta ora preparando un film su Mussolini. Suggerisce che «indagare la fascinazione sessuale, il vero e proprio amplesso con cui un tiranno lega a sé il suo popolo, spetta ai singoli paesi». E forse è proprio questa la chiave per leggere il recente successo in libreria della nuova edizione critica dell’ Eros e Priapo di Gadda (Adelphi, 2016, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti).
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato
di Francesco Fiorentino (alfapiù, 13 gennaio 2017)
«Abbiamo appena salvato la cultura», scrive Brecht a George Grosz dopo aver preso parte al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, che si tenne a Parigi nel giugno del 1935. «Ci abbiamo messo 4 (quattro) giorni, e abbiamo deciso di sacrificare tutto piuttosto che far morire la cultura. In caso di necessità di sacrificare anche 10-20 milioni di persone».
È l’ideologia della cultura che chiude gli occhi davanti ai crimini, che è essa stessa criminale perché collusiva con le condizioni economiche e sociali che rendevano possibile il nazismo. Portatore e beneficiario - ma anche vittima - di questa ideologia è il tui, come Brecht chiama ironicamente «l’intellettuale dell’epoca delle merci e dei mercati, il noleggiatore dell’intelletto». Su questa figura progetta di scrivere un Romanzo dei tui, cui lavora tra il 1930 e il 1942 senza concluderlo. Ora L’orma lo propone per la prima volta in italiano, insieme ad altri scritti - racconti, trattati, appunti, schizzi - che ne hanno accompagnato la stesura.
È un libro che contiene molti libri; che usa e mischia satira, parabola filosofica, aneddoto, barzelletta, aforisma, racconto. C’è una provocatoria riabilitazione satirica di un serial killer che macella le sue vittime per mangiarne o venderne la carne; c’è un gustosissimo trattato sull’arte del leccapiedi o uno sull’arte del coito, poi il frammento di un Epos dei tui, ma ci sono anche una serie di Storie dei tui, piccoli gioielli di scrittura popolare ad alta tensione dialettica; poi diverse pagine di appunti, lacerti di quel magma già depurato da cui nasce la scrittura tersa di Brecht. Ma soprattutto c’è il frammento del Romanzo dei tui: un tentativo di scrivere la storia della Repubblica di Weimar in forma di una grande satira sugli intellettuali ambientata in una Cima che serve a trasportare i fatti storici nella terra di uno straniamento parabolico.
La Repubblica di Weimar è rappresentata come «la grande era dei tui», che poi è l’epoca del loro grande tradimento della «rivoluzione degli operai e dei contadini». La satira di Brecht è dolorosa; è come alimentata da una rabbia divertita, da una rabbia che non si lascia piegare dal pessimismo. Ma in certi punti rivela un’origine traumatica, come quando dipinge con tratti quasi comici l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che è il grande choc per la sinistra tedesca, il fallimento della speranza di una rivoluzione comunista in Europa. Un altro trauma dissimulato satiricamente è l’elezione democratica di Hitler: «Che la prima applicazione della democrazia provochi la sua abrograzione; che il popolo liberato imponga la propria sottomissione, questo è il paradosso comico del libro». Paradosso comico e lancinante.
L’origine del nazismo sta nella democrazia di Weimar, in un ordine economico e sociale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La grande colpa dei tui è di non averlo riconosciuto e contestato; di aver preso partito per la cultura senza opporsi ai rapporti di proprietà ingiusti su cui essa si fonda. Solo un’illusione è la libertà della cultura: lo spirito può credersi libero finché le sue critiche sono innocue o magari si prestano a essere sfruttate per far profitti, per esempio dai giornali sui quali vengono formulate.
Il mercato è capace di assorbire e sfruttare anche chi lo contesta. Perché quelle contestazioni poggiano su basi sbagliate. Idealistiche. Brecht non si stanca di mettere alla berlina la collusività tra idealismo e mercificazione. Il tui è oggetto e soggetto di mercificazione: crede di esercitare la libertà di pensiero, ma in realtà vende il proprio intelletto facendosi complice di un sistema governato dalla produzione di mancanza.
Ne ha per tutti, Brecht. Anche per quelli che trattano il socialismo come merce e traggono profitto dalle loro opinioni «sulla pericolosità sociale del fatto che tutto ormai sia una merce». Sulla Scuola di Francoforte è fulminante: «Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso».
Un altro choc è l’esilio americano: l’esperienza di una florida industria culturale in cui davvero l’intelletto è sottomesso apertamente al ritmo e all’ordine della merce: «questo paese mi manda in fumo il mio Romanzo dei tui», appunta il 18 aprile 1942 nel suo Diario di lavoro. «Qui la vendita delle opinioni non la si può svelare. Perché se ne va in giro nuda». La realtà supera la satira e la rende superflua.
Non siamo lontani dall’attuale condizione neoliberale in cui l’intellettuale è costretto sempre più a farsi imprenditore di se stesso, impegnato soprattutto a autopubblicizzarsi, a trasformarsi in marchio riconoscibile capace di garantire per i prodotti del suo lavoro, i quali però sono sempre meno richiesti. Quale satira può essere all’altezza dei tanti lamenti sulla condizione del lavoro intellettuale in quest’epoca post-salariale? In quest’epoca in cui l’intellettuale è impegnato in un marketing del sé che va fino ai limiti dell’autosfruttamento, alla disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità da spendere su un mercato sempre più ristretto? Ogni critica è metabolizzata a priori, utilizzata anzi come alimento di un sistema in cui il controllo ideologico è ormai interiorizzato, automatizzato; e che perciò non ha più bisogno di intellettuali che forniscano giustificazioni dell’ingiustizia sociale o ammantino la violenza con una retorica della libertà.
Il romanzo dei tui suscita continuamente domande sulla possibilità di pensare la figura e la funzione dell’intellettuale al di fuori della logica della merce e dell’ideologia dell’inelluttabilità del mercato. La risposta che sembra prospettare Brecht, insieme a Benjamin, è l’utopia di un’espansione del «sapere sociale generale» (Marx) che facesse evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale. Svanirebbe allora la figura dell’intellettuale di professione, cioè di un individuo che mette a frutto il proprio intelletto nella competizione economica; svanirebbe per lasciar posto a un’intellettualità diffusa, anonima, non più legata a nomi, titoli, riconoscimenti. Quindi svincolata dalla doppia morsa della mercificazione e del narcisismo che sottrae all’intelletto la sua potenza critica. È un’utopia che la rivoluzione digitale sembra rendere una possibilità concreta: l’unica, forse, sulla quale potremmo e dovremmo puntare.
Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe *:
"Degli scritti che,
quasi
contemporaneamente
al mio, si occuparono
dello stessa argomento
[5], solo due sono, degni
di
nota:
Napoléon le Petit
di
Victor Hugo
e il
Coup d’Etat
di Proudhon
[6].
Victor Hugò si limita a un’invettiva
amara e piena di sarcasmo,
contro l’autore
responsabile del
colpo di stato.
L’avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede
in esso altro che
l’atto di violenza di un
individuo. Non si accorge che ingrandisc
e questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli
attribuisce
una
potenza di iniziativa personale
che non avrebbe
esempi nella storia del
mondo.
Proudhon, dal canto
suo, cerca
di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una
precedente
evoluzione storica;
ma la ricostruzione storica dei colpo
di stato si trasforma
in lui in una
apologia
storica dell’eroe del colpo di stato. Egli
cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta d
i classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe".
* K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869].
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
by Karl Marx, Giorgio Giorgetti (Editor), Palmiro Togliatti (Translator)
Vittorio Ducoli’s Reviews (Goodreads, 16 marzo 2013)
Attualità di Marx
L’altro giorno, 14 marzo, ricorreva il 130° anniversario della morte di Karl Marx.
Per puro caso, nello stesso giorno ho finito di leggere Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che ritengo uno dei testi fondamentali per addentrarsi nelle idee di questo grandissimo pensatore e per apprezzarne appieno l’attualità, a dispetto della vulgata interessata che vorrebbe il pensiero marxiano solo un retaggio del passato.
Un primo elemento a favore di questo testo è il tema. Non si tratta di un trattato filosofico o di critica all’economia politica, la cui lettura spesso richiede un sostrato culturale molto solido, ma dell’analisi di Marx degli avvenimenti che tra il febbraio 1848 e il dicembre 1851 videro la Francia passare dalla fase rivoluzionaria che aveva portato alla caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orleans al trionfo della più bieca reazione con il colpo di stato attuato da Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III. Si tratta quindi di un’analisi storica di fatti che hanno avuto conseguenze importantissime sull’intera storia europea, e non solo, dei decenni successivi.
Ho messo in corsivo l’aggettivo storica perché Marx scrive i testi che formano il libro pochissimo dopo, nel 1852: eppure la sua analisi è così compiuta, così lucida, così minuziosa e supportata da dati ed elementi oggettivi da assumere il carattere pieno dell’indagine storica.
Un altro elemento che caratterizza il 18 brumaio è la brillantezza della scrittura. A differenza di quanto si possa pensare, Marx non è affatto un autore pesante, ma una delle più brillanti penne del XIX secolo. Basta pensare a quante sue frasi, aforismi, paradossi facciano parte del nostro bagaglio culturale per rendersi conto di ciò; purtroppo, molti dei suoi testi riguardano argomenti ostici, trattati ed approfonditi con rigore, e questo ovviamente genera complessità: pregio di questo volume è di offrirci un Marx sicuramente non leggero ma scorrevole, per molti tratti appassionante, laddove gli avvenimenti si susseguono incalzanti e Marx ce ne disvela le ragioni vere e ultime.
Sì, perché il senso di questo libro è far capire, anche a noi oggi, la distanza che esiste tra le cause ideologiche dei conflitti e le loro cause vere che, ci dice Marx, vanno sempre ricercate nei conflitti tra le classi e i loro diversi interessi.
Marx, pagina dopo pagina, ci narra gli scontri di piazza e le lotte tra le diverse fazioni parlamentari che caratterizzarono il biennio, individuando oggettivamente le motivazioni vere che ne erano alla base. Così, l’acerrima lotta avvenuta nell’Assemblea legislativa tra Partito dell’Ordine (monarchici) e Montagna (repubblicani), lungi dall’essere una lotta sulla forma dello stato è una lotta tra gli interessi della grande borghesia e quelli dei borghesi medi e piccoli. Leggendo questo testo è quindi agevole comprendere in pratica la tesi marxiana per cui la storia è il risultato della lotta tra le varie classi sociali.
Forse però l’aspetto del libro che affascina di più è l’analisi delle motivazioni che portarono al colpo di stato di Luigi Napoleone. Marx parte dalla constatazione che la Repubblica è la forma di stato con cui la borghesia esercita direttamente il potere (come insegna la prima rivoluzione francese); eppure, favorendo oggettivamente ed anche attivamente il colpo di mano del Napoleone piccolo consegna questo potere ad altri, ai militari e ad una consorteria di avventurieri che aveva la sua base sociale nel lumpenproletariat rurale. Perché questa abdicazione?
La risposta di Marx è lucidissima, e si sarebbe purtroppo dimostrata vera molte altre volte nella storia. La borghesia si era accorta che la Repubblica borghese era il terreno di lotta ideale per il proletariato, che poteva progredire ed organizzarsi grazie alle libertà civili e politiche: aveva quindi preferito consegnare il potere a chi, pur non organico alla sua classe, potesse garantire ordine e tranquillità agli affari, piuttosto che rischiare una emancipazione proletaria. Quante volte, nel secolo successivo, questa logica avrebbe prevalso in varie parti dell’Europa e del mondo!
Quante volte la borghesia avrebbe consegnato interi popoli nelle mani di mascalzoni e di buffoni pur di salvaguardare la roba.
Fortunatamente Marx morì 130 anni fa, perché credo che altrimenti avrebbe dovuto nel tempo istituire una sezione d’analisi specificamente dedicata al nostro paese, dove la borghesia ha sempre assunto questo atteggiamento, sia pure in modi diversi, da Mussolini a Berlusconi.
Resta da spiegare il titolo, che è una delle grandi invenzioni di Marx: il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone I abbatté il direttorio ed instaurò la sua dittatura, come farà il 2 dicembre 1851 il nipote Luigi Napoleone. Ma, ci avverte Marx nella prima pagina di questo libro, con una delle sue frasi fulminanti ”Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Oggi noi sappiamo che i grandi fatti possono presentarsi più e più volte; sappiamo inoltre che anche quando si presentano come farsa spesso sono causa di grandi tragedie. Fortunatamente in Italia l’abbiamo imparato, e (almeno per ora) riusciamo a mantenerci sul terreno del burlesque.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
LE GENERALIZZAZIONI NON AIUTANO PIU’. RIPENSARE TUTTO: "DIO, UOMO, MONDO", RIPENSARE L’EUROPA...:
I giovani maschi non vogliono più essere dei Pascià
Dietro le aggressioni a Colonia per molta gente c’è quel genere di “uomo arabo”, che anche al Cairo insulta, brancica, stupra le donne. Ma non è così semplice.
di Andrea Backhaus (Die Zeit online, Hamburg - 13 gennaio 2016) *
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Il Presidente aveva portato fiori. Con viso rattristato Abdel Fattah al-Sisi fissò lo sguardo sulle telecamere disposte accanto al letto della giovane donna. “Sono venuto qui per dire a voi e a ogni donna egiziana che questo mi addolora”, sussurrò ai microfoni. Il giorno prima la donna era stata abusata e gravemente ferita da un’orda di uomini sulla piazza Tahrir, al Cairo. Con la sua visita in ospedale al-Sisi voleva dare un efficace segnale mediatico. La violenza sessuale non trova posto nel suo Paese, voleva significare il suo intervento nell’estate 2014. Era un tentativo di salvare l’immagine dell’Egitto. Infatti la situazione non potrebbe essere peggiore.
La piazza Tahrir, un tempo sinonimo di libertà e pace, oggi ha fama di luogo del terrore. Viene citata con frequenza in questi giorni, presumibilmente per dare agli avvenimenti di Colonia un quadro di riferimento culturale, e simbolicamente sta per violenza organizzata contro le donne, sia egiziane che straniere, ciò che avviene in Egitto da alcuni anni.
Questa violenza contro le donne è arrivata all’attenzione internazionale durante le sollevazioni contro l’allora presidente Hosni Mubarak. L’11 febbraio 2011, mentre gli egiziani festeggiavano le dimissioni di Mubarak, circa 200 uomini si gettarono sulla reporter sudafricana Lara Logan e la stuprarono “con le loro mani”, come raccontò più tardi la stessa Logan. Poco dopo la giornalista Mona Eltahawy fu abusata sessualmente da poliziotti e la reporter francese Caroline Sinz infastidita da un gruppo di uomini. Dopodiché il brutale sistema si è diffuso. Dozzine di donne, malgrado le loro proteste, furono braccate, circondate, spogliate e violentate da uomini.
Molti vedono negli abusi di Colonia un parallelo diretto. Il passo verso il rancore non è molto lontano. Anche se non è chiaro che cosa è accaduto precisamente nella notte di San Silvestro, chi ha aggredito le donne e perché, molti commentatori ostentano sicurezza: deve essere stato quel tipo di “uomo arabo” che anche al Cairo insulta, afferra e violenta le donne, perché là, nel “mondo musulmano”, gli uomini fanno proprio una cosa simile. Qui il discorso è sui macho, che non sanno fare altro se non umiliare le donne - e proprio donne velate, timorose, che più di ogni altra cosa vogliono restare invisibili. Ma non è così semplice. Né a Colonia né al Cairo.
La risposta alla domanda perché in Egitto e altrove avvengono aggressioni contro le donne si articola su diversi piani. Dagli studi fatti risulta che quasi tutte le egiziane intervistate dichiarano di essere state molestate almeno una volta, indifferentemente se fossero velate o no. Gli sviluppi della situazione dopo il 2011 hanno ricacciato indietro di secoli la lotta per l’emancipazione femminile, scrive il Direttore del Centro per i Diritti delle donne, Nehad Abdul-Komsan, nelle sue relazioni. L’oppressione è praticata da tutti i settori politici. E con ciò definisce quello che i corrispondenti occidentali non si curano volentieri di vedere: le aggressioni organizzate nell’Egitto frammentato costituiscono anche una dimensione politica. Molti attivisti sono convinti che lo Stato organizzi gli attacchi come misure di dissuasione.
Gli oppositori politici strumentalizzano i rapporti sugli episodi di violenza per dimostrare la superiorità delle loro tesi: i soprusi rispecchierebbero la degenerazione morale degli appartenenti all’esercito, tuonano i Fratelli musulmani. Gli islamici vorrebbero così vendicarsi delle donne scostumate, ritengono i sostenitori di al-Sisi. Del resto fu il generale al-Sisi che, dopo la caduta di Mubarak, introdusse i “test di verginità” sulle dimostranti, effettuati dalle forze armate e stigmatizzati come torture dai sostenitori dei Diritti umani. L’avvertimento per le donne era chiaro: pagate un prezzo, se volete dimostrare, quindi state lontane dalla sfera pubblica.
Le aggressioni ordinate dallo Stato sono la drastica espressione di un onnipresente discredito della donna. Lo schioccare delle dita [in segno di disprezzo] passando loro accanto, la mano sul sedere in metropolitana: tutto questo ha meno a che fare col sesso e molto più con la sensazione di avere il controllo, almeno in un ambito. Questo è un’altra dimensione che si finge di non conoscere. I giovani sono resi insicuri dai cambiamenti e frustrati per la crescente povertà e disoccupazione. Le tensioni sociali collidono con la levatura mentale di una società disuguale: l’idea che la donna sia subordinata all’uomo è ampiamente diffusa in Egitto. E non soltanto in Egitto.
Quando la vittima stessa dovrebbe essere colpevole
In Marocco milioni di donne sono regolarmente vittime di violenza - anche di stupri in pubblico. Poiché la legge punisce il sesso extramatrimoniale, le stesse vittime di abuso sessuale sono spesso perseguite penalmente. Anche in Arabia Saudita accade che le donne, dopo uno stupro di gruppo, siano punite a frustate, poiché hanno avuto un rapporto sessuale fuori dal matrimonio. Negli Emirati Arabi Uniti le vittime di stupro sono prima di tutto condannate e poi - anche a causa della pressione internazionale - amnistiate. Le organizzazioni per i diritti delle donne stigmatizzano da anni che nelle società patriarcali non gli autori dei reati, ma le vittime sono soggette a punizione.
Quanto sia diffusa la convinzione che le donne provochino gli abusi si verifica in Egitto nella vita di ogni giorno. La perturbazione sessuale, così suona il mantra di molte madri e nonne, non esisterebbe in Egitto. Se si verifica, ne sono causa le ragazze: per i vestiti succinti, per i profumi seducenti.
Tabù
Questo incrementa l’estraneità fra i sessi. Infatti in Paesi come l’Egitto nella vita quotidiana uomini e donne possono liberamente incontrarsi molto raramente, perché i loro spazi vitali sono troppo separati gli uni dagli altri. Il sesso senza il contratto matrimoniale è impensabile, il matrimonio serve da fondamento della società. Tuttavia le cerimonie nuziali sono costose e quasi nessuno può permettersi pomposi festeggiamenti. Questo è problematico in un Paese nel quale manifestazioni d’amore pubbliche, contraccezione e aborti sono tabù, dove non vi è né informazione né educazione sessuale. E nel quale il tipico ruolo esige che le donne debbano essere arrendevoli e gli uomini [le] sovrastino.
Tuttavia questo si fonda meno sulla religione che sulla tradizione. In Egitto ci sono anche donne cristiane che escono di casa soltanto con il permesso del marito e tengono sempre coperta la loro persona. Anche in molte famiglie di religione copta l’emancipazione femminile e l’autodeterminazione sessuale fanno parte dei tabù più grandi.
Chiamata a una rivoluzione sessuale
Per questi motivi molte donne chiamano a una rivoluzione sessuale. A esempio, la giornalista egiziana-americana Mona Eltahawy, che si definisce e promuove come “musulmana laica, radicale, femminista”, definisce la violenza contro le donne come una forma di terrorismo. O la giornalista Shereen El Feki, che nel suo libro Sesso e cittadella scrive che lo sviluppo politico-sociale ristagnerebbe se l’approccio con la sessualità non fosse più libero. Negli Stati arabi il cambiamento deve essere anche sessuale.
Eppure il cambiamento si è stabilito. Le “donne arabe” non sono in assoluto oggetti che subiscono passivamente, come molti commentatori in questo Paese vogliono far credere. Nel mondo arabo le donne non sono soltanto vittime, ma anche soggetti che agiscono. Nei loro Paesi hanno sempre portato avanti movimenti di protesta. In Egitto, dopo la Prima guerra mondiale, le nazionaliste hanno combattuto contro gli occupanti inglesi. Dopo il colpo di Stato contro il re Faruk, negli anni ’50, le donne sono scese in strada e hanno chiesto parità dei diritti e giustizia sociale.
Nel 1956 avevano ottenuto lottando il diritto di voto, nel 1962 la prima donna entrava nel Parlamento. In Tunisia dal 1956 le donne hanno imposto il divieto della poligamia, il diritto di voto e il diritto al divorzio. E più tardi con la rivoluzione del 2011 si annunciò un profondo riordinamento: le donne lottarono qui con gli uomini per la loro dignità e libertà. Per le strade del Cairo e di Tunisi scandirono parole d’ordine contro i despoti, organizzarono sit-in, infiammarono le masse con slogan scottanti. Con enorme potenza d’urto le donne hanno catapultato le loro richieste nella percezione a livello mondiale.
Anche gli uomini lottano per la parità dei diritti
Oggi si avverte il risveglio dappertutto, fra i sessi, ma anche fra le generazioni. Molte ragazze discutono oggi con i loro padri e fratelli di politica, naturalmente. Non si fanno imporre più dalla famiglia colui che dovrebbero sposare. Vogliono fare da sole le loro scelte. Oppure, come scrive la blogger egiziana Ghada Abdelaal nel suo Voglio sposarmi: “Noi non cerchiamo soltanto un compagno tranquillo o uno che protegga sua moglie, ma un uomo che prenda parte alla sua vita, che la rispetti e che lei possa rispettare.
Soprattutto le donne si difendono con grande veemenza contro la violenza sessuale, come mai accaduto prima. Le egiziane hanno condotto campagne su Facebook, scrivono articoli e dirigono campagne di protesta nelle loro città. Molte nuove iniziative cercano di fare luce, come Anti-sexual harassement o Shayfeencom (“Noi vi vediamo”). Sul sito Internet harassmap.org le donne possono indicare i luoghi nei quali sono state importunate. E molti giovani sostengono le donne, condividendo con le loro amiche i volantini, accompagnandole alle manifestazioni di protesta per proteggerle od organizzando flashmob contro la violenza sessuale.
Mai la separazione fra “femminile uguale a privato, maschile uguale a pubblico” è apparsa tanto superata. Infatti anche molti giovanotti battono su un nuovo ruolo tipico, nel quale non spetta più a loro la parte del pascià. Molti s’impegnano per la parità dei diritti. Uomini come il giovane egiziano Fathi Farid, che per collera contro le aggressioni alle donne ha fondato al Cairo il gruppo Shoft Ta7rosh (“Ho visto importunare sessualmente”) e che distribuisce incessantemente in strada fogli informativi sulla violenza sessuale. O che sale su un palco improvvisato e grida: “Importunare sessualmente è un reato”.
Le generalizzazioni non aiutano più
Il presunto tipo, valido in generale, di “maschio arabo” non c’è più. La mancanza culturale di idee è salita al livello di pericolosa isteria, che offusca le realtà della vita e impedisce le differenziazioni. Questo intorbidisce la vista sulla questione centrale, ovvero perché vi è violenza contro le donne e che cosa possiamo fare noi per contrastarla. E per fare luce non aiuta fare campagne persecutorie contro i migranti dal Nord africa. Sarebbe molto più necessario un dibattito sulla corporeità, sui tabù e la (doppia) morale. Qui [in Germania]. E anche nei Paesi arabi. Perché la violenza contro le donne in molti Paesi è un tema discusso. Anche in quelli del Vicino Oriente.
* http://www.zeit.de/politik/2016-01/tahrir-gewalt-frauen/seite-1
Noi tedeschi in crisi d’identità
di Peter Schneider (la Repubblica, 26.09.2015)
LEGGENDO le drammatiche notizie sul caso Volkswagen, mi sembra che una parte dell’anima tedesca oggi appartenga ai colossi dell’auto made in Germany.
E QUINDI l’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo - lo dico per Vw, non so quanti e quali altri produttori mondiali siano coinvolti - è fondata da tempo sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità attendibile che a fatica il Paese si era ricostruito.
Il caso colpisce al cuore l’anima tedesca, anche perché abbiamo sempre pensato che tutti gli altri paesi sono corrotti, ma noi no: addio all’illusione di essere diversi, migliori rispetto agli altri, in Europa e nel mondo.
Inutile illudersi, noi tedeschi e il resto d’Europa e del mondo, che sia in gioco solo la reputazione di Vw: è in gioco l’immagine del Made in Germany quale sinonimo costitutivo della ricostruzione postbellica, e della fierezza di se stessi, delle virtù tedesche - onestà, serietà, affidabilità - che dopo il 1945 ci fu così arduo ritrovare. Sono spesso in America, sento spesso dire dagli amici americani che per loro i sinonimi della Germania nel loro immaginario collettivo sono “Hitler and good engineering”. Ora purtroppo quel primo orrendo sinonimo resta, ma il secondo diventa “cheating engineering”, tecnologia imbrogliona. Truffa con cui Vw si è creata un vantaggio illegale e scorretto rispetto alla concorrenza mondiale, e questa sua truffa pesa oggi sulla coscienza della nazione.
Riflettendo ancor più a fondo, emergono altre consapevolezze amare: per anni Vw e forse altri produttori hanno mentito al mondo. Proprio loro simbolo del Made in Germany, di eccellenze di un Paese ecologista come pochi altri, hanno detto il falso, hanno sostenuto che è possibile produrre e vendere auto sempre più grandi, potenti e pesanti ma sempre meno inquinanti.
Fu soprattutto l’industria dell’auto tedesca e americana a illudere i consumatori mondiali convincendoli che i SUV, quelle orrende jeep di lusso sinonimo di visibile egoismo arrogante, erano ecologici. E’una menzogna di cui adesso paghiamo il conto.
La situazione è tanto seria, che persino la Schadenfreude (la gioia maligna per le disgrazie altrui, in questo caso gioia di altri per la disgrazia tedesca) non fa piacere. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere nella Germania più felice, migliore, più amata dal mondo che la Storia abbia mai visto. Fino a pochi giorni fa era così... anche con Angela Merkel e le sue braccia aperte ai migranti, risposta civile europea ai razzisti come Orbàn. Ma adesso ci troviamo a una cesura seria. Non siamo alla fine della Storia di questa Germania felice e in pace col mondo, ma alla fine della sua identificazione folle con i successi dell’industria dell’auto. Che tristezza, se pensiamo a come le nostre “famose capacità tecnologiche” avrebbero potuto essere usate per produrre auto sempre più pulite, anziché per imbrogliare con quei software che falsavano i test.
Ci è mancato qualcosa di costitutivo, in un comparto economico chiave e determinante. Ci è mancata, per scelta dei big dell’auto che volevano soltanto vendere ogni anno più vetture, l’immaginazione e la creatività che a volte non vediamo, a volte fingiamo di non vedere altrove. Penso per esempio agli Stati Uniti dove l’alta tecnologia è culturalmente piu legata all’innovazione in nome della curiosità e della qualità della vita. Basta l’esempio della Tesla, la supercar familiare elettrica da 500 cavalli che loro hanno pensato e costruito, e che vendono con successo. Noi avremmo la capacità tecnologica di farlo, ma i nostri grandi Autokonzern hanno scelto di rinunciarvi.
Purtroppo rimane un’altra domanda sul Dieselgate. Come spiegare il silenzio di anni del sindacato più potente del mondo, rappresentato in forza al vertice Volkswagen in nome della Mitbestimmung, la cogestione? Che cosa significa, e che cosa cela, questa armonia dei silenzi tra azienda-simbolo e sindacato- simbolo della democrazia nata dalle macerie? Finché ci mancheranno i risultati delle indagini sui responsabili, sulle aziende colpevoli e mentitrici tedesche e magari anche non tedesche, ci rimane solo etichettare ogni auto Volkswagen come un pacchetto di sigarette, con avvisi obbligatori sul pericolo dell’uso.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)
Come i media preparano un regime
di Guido Viale (il manifesto, 23 aprile 2014)
Ci si chiedeva spesso, decenni fa, nelle scuole e sui media, come fosse stato possibile che nel 1931, su oltre milleduecento docenti universitari, solo una quindicina avesse rifiutato di giurare fedeltà al fascismo; e come fosse stato possibile che con loro si fossero allineati migliaia di giornalisti, di scrittori, di intellettuali - la totalità di quelli rimasti in funzione - contribuendo tutti insieme a costruire una solida base di consenso alla dittatura di Mussolini.
Il contesto è sicuramente cambiato, ma forse il servilismo è rimasto invariato. Oggi, senza nemmeno l’alibi di un’imposizione da parte di un potere autoritario e incontrollato, a cui peraltro anche allora molti erano già ben predisposti, la corsa ad allinearsi con il potente di turno, magnificandone qualità e operato, ha assunto da due decenni a questa parte un andamento a valanga; per poi accorgersi, una volta usciti temporaneamente o definitivamente di scena i destinatari di tanta ammirazione, che i risultati del loro operare - del loro «fare» in campo economico, sociale, istituzionale e, soprattutto, culturale - erano inconsistenti, negativi, o addirittura drammatici. Ma rimaneva tuttavia, in alcuni angoli riservati del giornalismo cartaceo e televisivo, lo sforzo di un vaglio critico delle misure assunte dai governi che lasciava uno spiraglio alla legittimazione di un’opposizione.
Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi - «dà con una mano per prendere con l’altra» (e molto di più) è la sintesi del suo operato - il coro delle ovazioni si è fatto assordante; lo spazio che gli riservano giornali e tv è totalitario (come documenta l’osservatorio sulle tv di Pavia); i toni sono perentori; i rimandi alle sue poliedriche capacità incontinenti; il servilismo degli adulatori dilagante (papa Francesco copia «lo stile di Renzi» ci ha informato un notiziario).
Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento; sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un «moderno» autoritarismo. «Moderno» perché è quello auspicato dall’alta finanza, che ormai controlla la politica e le nostre vite; come emerge anche da un documento spesso citato della Banca J.P.Morgan che si scaglia contro le costituzioni antifasciste e democratiche che ostacolerebbero il proficuo svolgimento degli «affari». È l’autoritarismo perseguito dalle «riforme» costituzionali ed elettorali di Renzi, tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti - o del partito - al potere: non solo in Parlamento, ma ovunque; a partire dai Comuni, non certo aiutati a «fare», bensì paralizzati dai tagli ai bilanci e dal patto di stabilità per costringerli ad abdicare dal loro ruolo, che è fornire quei servizi pubblici locali di cui è intessuta l’esistenza quotidiana dei cittadini. Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai consigli comunali i suoi prefetti.
Una riprova non marginale di questo clima è il modo in cui stampa e media seguono la campagna elettorale europea, confinandola interamente in un confronto Renzi-Grillo (con Berlusconi ormai ai margini) privo di contenuti programmatici e tutto incentrato sulle diverse forme di «carisma» che i due leader esibiscono.
In questo contesto il silenzio calato sulla lista L’altra Europa con Tsipras, l’unica che si presenta con un programma per cambiare radicalmente l’Europa (che è l’argomento di cui è proibito parlare) e non per abbandonarla insieme all’euro, né per continuare sulla rotta di quell’austerity difesa e votata fino a ieri come passaggio obbligato per tornare alla “crescita”. Della lista L’altra Europa stampa e tv hanno seguito e ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza e sui suoi successi. La venuta di Tsipras a Palermo, con un teatro pieno, la gente in piedi e mille persone rimaste fuori ad ascoltare, con una visita all’albero di Falcone accompagnato da centinaia di sostenitori e con l’incontro con il sostituto Di Matteo, non ha meritato nemmeno un cenno o una riga. Nemmeno la consegna delle 220 mila firme raccolte per consentire la partecipazione della liste alle elezioni, un risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto, ha avuto la minima menzione. L’apertura della campagna elettorale al teatro Gobetti di Torino con la partecipazione di Gustavo Zagrebelsky e altre centinaia di sostenitori è anch’essa scomparsa nel nulla. Quando si accenna di sfuggita alla lista L’altra Europa, per lo più per denigrare o sbeffeggiare i tanti intellettuali di valore che la sostengono - ribattezzati “professoroni”; e solo per questo se ne parla - il suo programma viene assimilato a quello dei no-euro, dei nazionalisti o addirittura dei fascisti. Perché “se non si è con Renzi non si può che essere contro l’Europa”.
Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’Europa diversa da quella che c’è; che è quella di Renzi, come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo. Eppure non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del “nuovo” (il 14°) partito comunista fondato da Rizzo, della presentazione della lista elettorale Stamina, della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale anche senza aver raccolto le firme (mentre chi le ha raccolte non ha meritato nemmeno una riga).
Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle tv di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti. Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a “orientare” e a manipolare la realtà. Giornali occupati dalla stigmatizzazione della casta non fanno un cenno del fatto che siamo l’unica lista ad affrontare questa campagna elettorale senza un euro di finanziamenti di stato o di pubblicità. E così via. Poco per volta, e a volte impercettibilmente, si scivola verso un nuovo regime e in questa temperie persino le critiche all’operato di Renzi vengono proposte come ragioni per un sostegno dovuto e ineluttabile.
Tipico da questo punto di vista, perché riassume una parabola che coinvolge un po’ tutti i commentatori politici che in qualche modo devono misurarsi con numeri e dati che contraddicono frontalmente le dichiarazioni del leader, è l’editoriale (l’omelia settimanale) di Eugenio Scalfari comparso sul numero pasquale di Repubblica. In sostanza, vi si dice, gli 80 euro di Renzi sono una bufala senza copertura finanziaria, che gli servirà per stravincere le elezioni europee, anche se è basata un una serie di imbrogli contabili che presto verranno alla luce. Ma - scrive Scalfari, che pure, in margine a una critica alla riforma del Senato proposta da Renzi manifesta, senza sottolinearla, la consapevolezza che la sua riforma elettorale stravolgerà completamente l’assetto democratico del nostro paese - c’è da augurarsi comunque che quell’imbroglio funzioni; perché così il governo si rafforzerà, recupererà anche in Europa il prestigio perduto e la crescita potrà ripartire. Il che mostra in che conto Scalfari tenga “questa Europa”: quella a cui stiamo sacrificando le ormai molte “generazioni perdute” del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vecchiaia e la vita stessa di un numero crescente di cittadini, di lavoratori e di imprenditori, e l’intero tessuto produttivo del nostro e paese. E mostra anche che idea abbia - e non solo lui - della crescita (il “flogisto” del nostro tempo, come lo chiama Luciano Gallino: tutti ne parlano e nessuno sa che cosa sia).
Ma soprattutto mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiaggia”. Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro. È per questo che bisogna fermarlo qui e ora, a partire da un rovesciamento dei pronostici - meglio sarebbe chiamarli auspici di regime - tutti a favore delle destre nazionaliste e razziste mascherate dietro la campagna anti-euro, o delle larghe intese tra Ppe e Pse, con le quali la politica economica, fiscale e monetaria dell’Unione dovrebbe proseguire indisturbata il suo cammino di distruzione.
Sull’apologia del fascismo
ANPI NAZIONALE (l’Unità, 07.04.2011)
A proposito del Disegno di Legge costituzionale, depositato alla Segreteria di Palazzo Madama da cinque senatori della destra, volto ad abolire la XII Disposizione transitoria della Costituzione Repubblicana che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista”, l’ANPI (Associazione nazionale Partigiani d’Italia) denuncia questo proposito odioso e provocatorio.
Si tratta dell’ennesima aggressione alla Costituzione, la più dissennata tentata dalla destra e dal suo governo. Sul fascismo e sui suoi misfatti di dittatura, miseria, guerra, occupazione straniera del Paese, torture, crimini e stragi, pende implacabile e incancellabile da ogni revisionismo il giudizio della storia. Sull’Antifascismo, sulla Resistenza e sulla Liberazione fondano la Costituzione, la Repubblica e la Democrazia riconquistata! Contro l’esecrabile tentativo di riaprire la porta alla costituzione del partito fascista e di abolire il reato di apologia del fascismo, l’ANPI chiede la mobilitazione unitaria in tutto il Paese dei partigiani, degli antifascisti e delle loro associazioni insieme alle forze della politica, della cultura, dei sindacati e dell’associazionismo democratico.
Nostalgia nera in Parlamento
Fascisti sì, e non per caso
Chi rimpiange davvero il partito del Duce
di Chiara Paolin (il Fatto, 07.04.2011)
L’hanno fatta grossa, e adesso tentano di riderci su. "Ma scusate un attimo: è stato Fini a proporre tante volte di abolire il reato di apologia del fascismo. Lo so bene, perché c’ero anch’io con lui. E almeno fino al 1994 se ne parlava tranquillamente: il fascismo è storia passata, possiamo metterla da parte". Parola di Achille Totaro, senatore Pdl di area An, cofirmatario del disegno di legge per la “Abrogazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione" presentato lo scorso 29 marzo e subito diventato un caso politico. Ma perché metter mano alla norma sul fascismo proprio ora? "Mah, era una proposta tra le tante, una di quelle che capita di firmare quando un collega prepara un documento e ti chiede di condividerlo spiega ancora Totaro pigiando forte sulle aspirate da toscanaccio -. Nessuno immaginava si scatenasse tutto ’sto putiferio, dico la verità".
EPPURE un po’ d’attenzione ci voleva nel maneggiare la materia ideata da Cristiano de Eccher, primo firmatario della norma revisionista e personaggio su cui si sono allungate pesanti le ombre del passato più tragico della destra italiana. Nota la sua vicinanza al terrorista nero Franco Freda, inquietante l’ipotesi formulata dal giudice Guido Salvini su un suo ruolo d’appoggio nella strage di Piazza Fontana, certa la condanna a due anni di carcere per attività eversive. Storie vecchie, e ora il senatore De Eccher non ha voglia di parlare con nessuno.
DOPO UNA NOTA con-giunta con i colleghi di firma, in cui spiega che nessuno di loro “ha mai pensato di avviare una battaglia di tipo ideologico fuori dal tempo e dalla storia”, ha deciso di tacere. Come mai? “Io ci ho parlato, ma non mi faccia dire nulla” ridacchia Francesco Bevilacqua, altro senatore che non vuole più sentir parlare di apologia del fascismo nella Costituzione italiana. “Siamo di fronte a una sceneggiata bella e buona insiste Bevilacqua -, ma forse un errore l’abbiamo fatto: siamo tutti ex An ad aver firmato, e allora può sembrare che il tema interessi solo a noi. Garantisco che non è così, potevamo sicuramente raccogliere adesioni tra altri colleghi di provenienza diversa dalla nostra. E precisiamo: a firmare siamo stati ex An, ma sia di area Alemanno che Gasparri. Quindi non era un fatto politico, ecco”.
Ma lo è diventato. Perché i firmatari si sono divisi in due gruppetti distinti: da una parte i cinque del Pdl e dall’altra un Fli, ovvero il lucano Egidio Digilio che subito dopo le prime accese reazioni ha deciso di ritirare la sua firma. “Lo hanno costretto, o comunque gli hanno fatto capire che era meglio cambiare idea infilza Totaro -. Questo sì che è un atteggiamento fascista, e per questo io preferisco stare nel Pdl”. Partito che però non ha gradito particolarmente l’iniziativa: il presidente del Senato Schifani si è dichiarato esterrefatto dopo aver letto il testo della proposta, e anche a livello locale i guai non mancano. Giorgio Bornacin, coordinatore del Pdl a Genova, è stato duramente attaccato. “Deve dimettersi immediatamente” ha detto la consigliera regionale Raffaella Della Bianca. “No, il tema è attuale e importante” ha replicato Gianni Plinio, altro collega Pdl.
La verità è che il senatore Bornacin è un uomo dai grandi slanci emotivi. Due anni fa, quando il ministro della Difesa La Russa era in visita tra i vicoli della sua città e un giovane contestatore gli si era avvicinato un po’ troppo, il Bornacin è scattato di destro: “Mi scuso per il pugno, forse ho esagerato disse allora -, ma ho avuto paura per il ministro e per i poliziotti. Ero stato avvertito che c’era un pazzo in giro con un coltello, il pugno l’ho dato perché ho visto quell’uomo rovistare tra le gambe dei poliziotti. E comunque, non mi dimetto”.
COERENZA vuole che nemmeno stavolta voglia farsi da parte, anche perché il periodo è fecondo: Bornacin ha appena lanciato l’Apired, l’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia - Repubblica Dominicana cui hanno già aderito “una trentina di parlamentari di varie formazioni politiche”, come ha informato un puntuale comunicato stampa. E certo occuparsi dei rapporti italo-domenicani sarà un buon modo per lenire le urticanti polemiche di questi giorni. Perché, a dir la verità, ora i prodi sostenitori del disegno in questione sarebbero pronti a ritirarlo pur di calmare gli animi. Ma proprio adesso che il responsabile Scilipoti fa tornare d’attualità il manifesto dei valori fascisti? “Bisogna coinvolgere Di Pietro a questo punto chiude il cerchio Bevilacqua -. Perché qui ormai è tutto da ridere. Ma se qualcuno pensa di isolare noi ex An dentro Il Pdl ha sbagliato i conti”.
In Abruzzo, dove è stato eletto il quinto firmatario Fabrizio Di Stefano, non c’è molta voglia di scherzare. Maurizio Acerbo, consigliere regionale Prc, torna alla storia ed è preoccupato: “Il fatto che il senatore Di Stefano si dichiari “né antifascista, né fascista” non è una dichiarazione di agnosticismo ma di istintiva distanza dai valori democratici della Resistenza e dell’antifascismo. La XII disposizione non è una norma anacronistica e il fascismo non è un “fenomeno storico circoscritto” visto che vi sono in tutta Europa gruppi e movimenti neonazisti dentro un contesto di crisi economica che alimenta violenze xenofobe e razzismo”.
Scilicopia e Scilincolla
di Massimo Gramellini (La Stampa, 07.04.2011)
Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto.
Responsabilità nazionale è... è... è... Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento... più in basso affiora il filosofo Gentile col manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato.
Leggiamo un po’... «Il fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto.
Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.
Scilipoti copia il manifesto fascista
Nel "programma" dei responsabili
intere frasi riprese dal testo redatto da Giovanni Gentile nel 1925 *
«Interi brani del testo programmatico dei Responsabili sono copiati di sana pianta da quello redatto nel 1925 per il partito di Mussolini. Leggere per credere»: così «l’Espresso» rivela di aver scoperto che il movimento di Scilipoti ha effettuato un vero e proprio «copia e incolla». «Quello che ha fatto il parlamentare Domenico Scilipoti, l’ex dipietrista diventato l’instancabile anima dei Responsabili, supera però ogni aspettativa», aggiunge il settimanale che poi mette a confronto i due testi.
Ecco alcuni passi del testo del movimento dei responsabili: «Responsabilità Nazionale è il movimento recente ed antico dello spirito italiano, internamente connesso alla storia della Nazione Italiana. Responsabilità è politica morale. Una politica che sappia coinvolgere l’individuo a un’idea in cui esso possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà, il suo futuro e ogni suo diritto. Responsabilità di Patria è la riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà. Responsabilità è concezione austera della vita, non incline al compromesso, ma duro sforzo per esprimere i propri convincimenti facendo sì che alle parole seguano le azioni».
Le frasi sono identiche a quelle del manifesto redatto da Giovanni Gentile: «Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre. (....) un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. È concezione austera della vita, è serietà religiosa (...) ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni».
I due testi sono chiaramente "gemelli". E l’Espresso chiosa: «Un caso? Piuttosto improbabile. Resta solo da chiedersi come sia saltato in mente a Scilipoti di prendere un manifesto fascista e di farlo diventare, con un po’ di correzioni, il testo base del manifesto dei Responsabili».
* La Stampa, 06/04/2011
Operazione banalità
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 6 aprile 2011)
Oggi si apre a Milano il processo Ruby, e qualcosa di strano sta accadendo, nonostante l’ora sia grave e parecchio miserabile. Un presidente del Consiglio è incriminato per aver abusato del proprio potere, costringendo la questura a rilasciare una ladruncola che gli stava a cuore e non esitando a spacciarla per la nipote di Mubarak. Pende anche l’accusa di favoreggiamento di prostituzione minorile, perché Karima El Mahroug (Ruby) frequentava festini a Arcore, prima della maggiore età.
E li frequentava assieme a ragazze che si prostituivano in cambio di soldi, gioielli, appartamenti, carriere. Le prove sono tali che è stato scelto il rito abbreviato. Un dramma insomma, per un uomo che addirittura anela al Quirinale: e tale resta anche se la Consulta approvasse il parere espresso dalla maggioranza dei deputati, secondo cui il premier non è giudicabile da tribunali ordinari. Un’esperienza non invidiabile, quantomeno, e chiunque si sarebbe aspettato dall’imputato, in ore così cupe, un atteggiamento adatto alla circostanza: i latini lo chiamavano gravitas, virtù di chi governa (lo è ancora, nell’articolo 54 della Costituzione). Da sempre, la calamità personale è la verifica dell’attitudine al comando.
Ma nel mondo di Silvio Berlusconi non è così. Se solo proviamo a penetrarlo, vedremo che è un mondo parallelo, in tutto somigliante all’allestimento, al casting, al linguaggio delle televisioni commerciali. La realtà sfuma in irrealtà e viceversa, i protagonisti non parlano ma recitano copioni preconfezionati, il pubblico plaudente è esibito come popolo, qualche comparsa emette fandonie. Questo è il premier, specie in questi giorni: una comparsa buffonesca, che sghignazza su quel che fra poco, anzi oggi, sta per accadergli. L’Italia intera è un suo villaggio Potemkin, fatto di cartapesta colorata per occultare detriti e rovine.
Nel villaggio lui è re, e ride ininterrottamente, di tutti e anche di sé. Il sipario del processo sta per alzarsi ed eccolo che il 2 aprile racconta una delle sue lunghe barzellette. Il pubblico batte le mani, e quest’euforia non è il capitolo meno sinistro del copione. Se Karima ha un nomignolo possiamo darlo anche all’autore della sceneggiatura: chiamiamolo Ubu Re, perché come nel dramma di Alfred Jarry prende il potere per «mangiare più salsicce, comprarsi ombrelli, far soldi»; perché promuove i corrotti, elargisce denaro perché glielo consiglia Mamma Ubu, annienta i nobili e soprattutto i magistrati, condannati a vivere delle multe comminate e dei beni dei condannati a morte.
Le barzellette sul caso Ruby mancano furiosamente di sottigliezza, non di furbizia. Sono pornografia allo stato puro, e la pornografia, si sa, cancella l’oggetto del desiderio facendolo vedere così da vicino che pare troppo vero per esser vero. Succede sempre, con l’osceno: quel che ammalia è il reale in eccesso, è l’iper-realtà (la parte del corpo è ingrandita come da una lente). «L’unico vero fantasma della pornografia non è il sesso ma è la realtà stessa, assorbita in qualcosa che non è reale, ma iper-reale», scrive Baudrillard sulla seduzione. Berlusconi non nasconde nulla di quel che fa ma anzi ne dilata i dettagli, li rende derisori, li evoca anche nei momenti in cui uno magari penserebbe ad altro. Di continuo siamo trascinati nel suo set-universo parallelo dove il reale si dissolve e l’assedio svanisce: perché se è derisorio lui quanto più lo saranno magistrati e giornalisti!
Ha un suo sogno ridicolo e non sottile, l’uomo Berlusconi, ma c’è del metodo e anche una cinica conoscenza delle cose, nel suo architettare villaggi finti: c’è la rappresentazione di una gioventù scombussolata da lavori senza futuro, e di un’Italia ridanciana, indifferente alle leggi perché dalle leggi non protetta. Un’Italia con la quale Ubu s’identifica, e che s’identifica con Ubu. Basta divenire padrone delle parole e delle leggi, per storcere gli eventi e capovolgerli.
Risultato: quello di oggi non è un processo per concussione e minorenni prostituite. È un monumentale processo al desiderio, alla simpatia, alla leggerezza, alle risate. L’ironia, la più eccelsa delle arti, è usata come arma micidiale che sminuzza i fatti e li rende irriconoscibili. Niente mi minaccia, se ci rido sopra. Niente m’insidia, se come Napoleone m’impossesso dei sogni di soldati ed elettori. È il sotterfugio offerto sin dall’inizio dalle sue tv, tramite le quali conquistò le menti e l’etere. Lui ri-crea un mondo ma frantumato, e nel frammento vivi bene perché non vedi il tutto, non connetti i fatti tra loro sicché li scordi presto. Robin Lakoff, denunciando i nuovi demagoghi delle destre americane, parla di agenda dell’ignoranza.
Chi non dimentica il tutto, il contesto, è lui, il capo che sui falsi paesaggi ha idee ben chiare. Deve essere un paesaggio di emergenza e caos perenni, dove chi comanda si traveste da vittima, dove il potere continuamente deve essere espugnato, mai esercitato. Il Parlamento merita castighi, perché il leader sia solo davanti al popolo (davvero il premier ha sgradito gli insulti di La Russa al presidente della Camera?). Magistratura e Consulta hanno fame di potere politico, e vanno evirate. La Costituzione è un laccio. La politica non è manovrare, ma rimestare e smistare possibili ricatti. Gheddafi era così: ostile alle istituzioni rappresentative, incarnando il popolo si pretendeva inamovibile. Formalmente non governava lui ma i Congressi popolari. Lui, dietro le quinte, era Papà Ubu.
Resta la stranezza, il mistero. Perché tanto ridacchiare, alla vigilia del processo Ruby e di altri procedimenti? Quale spettacolo sta mandando in onda, di cui noi non siamo che ignoranti comparse? Quali leggi e stratagemmi inventerà Ubu perché ogni processo si spenga? L’obiettivo è la negazione del reale, ma c’è un più di violenza, c’è una tattica bellica preventiva presa in prestito dallo Spirito dei Tempi. Tutto è annuncio preventivo, prima che il reale si avveri, ne abbiamo conferma proprio in questi giorni nella guerra di Libia: anche qui viviamo eventi senza conoscerli, che paiono escrescenze delle tv commerciali. Ci sono stati certamente massacri, da parte di Gheddafi. Ma quanti e dove? I cronisti dicono che ci sono stati, ma non visti perché mancavano le telecamere.
La tv commerciale fa legge, prima ancora che le cose avvengano: «Lo dice la televisione», e performativamente il fatto esiste. In un blog intitolato Una Storia Noiosa leggo: «Il fact finding/checking viene sostituito da immagini che non esistono, ma che se esistessero testimonierebbero indubitabilmente la realtà di questi fatti, di cui peraltro il giornalista non è testimone diretto. Vertiginoso. Nasce il genere del "reportage preventivo". Non so dire se siamo al funerale dell’immagine o al suo trionfo: l’immagine può permettersi di non esistere fisicamente, tanto tutti diamo per buono che rappresenterebbe fedelmente quella che già sappiamo essere la realtà» (http://du57.wordpress.com/).
Nel mondo di Berlusconi, la guerra al reale si fa preventiva. Più precisamente, e in conformità al personaggio: si fa apotropaica (apotropaico è il gesto che allontana e annulla un’influenza maligna: per esempio, toccar ferro). Apotropaico è il modo in cui ha difeso, il 10 marzo, la riforma della giustizia: se si fosse fatta nel ’92-93, Tangentopoli sarebbe proseguita indisturbata, non ci sarebbero state Mani Pulite né «l’invasione da parte della magistratura della politica e l’annullamento di un’intera classe dirigente».
Una risata vi seppellirà. Lo promette Berlusconi, forse dimenticando che furono gli anarchici dell’800 e la sinistra estrema nel ’900 a coniare lo slogan. Fortuna che abbiamo Lao Tzu, che da 2.500 anni dice, della via saggia e giusta: «Quando un dotto di prim’ordine sente parlare della via, la segue rispettosamente. Quando un dotto di mezza levatura sente parlare della via, ora la mantiene ora la perde. Quando un dotto d’infimo ordine sente parlare della via, si fa una grande risata».
Un convegno per costruire una memoria comune su nazismo e fascismo
Se Italia e Germania ristudiano la storia
Lo studioso di Monaco: "Stiamo raccogliendo le testimonianze dal basso. Da noi come da voi c’è stata, a lungo, una percezione blanda dei crimini commessi"
di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 06.04.2011)
L’immagine di una Wehrmacht dalle mani pulite, non coinvolta nei massacri della popolazione civile, ha resistito in Germania fino alla metà degli anni ’90, quando 5 milioni di tedeschi visitarono la mostra itinerante Crimini della Wehrmacht 1941-44 e la verità nota agli storici cominciò a farsi strada tra l’opinione pubblica. Quella mostra riguardava il fronte orientale, dalla Serbia a Stalingrado. Sul fronte italiano, invece, la memoria di una Wehrmacht che si è "comportata bene" non è mai stata seriamente compromessa. I ricordi collettivi di occupanti e occupati restano divergenti, nonostante i fatti. Come trovare denominatori comuni di memoria? Una coscienza storica europea che si proietti nei libri di scuola è lontana. La memoria resta nazionale. Ne parliamo con Thomas Schlemmer, uno dei componenti della Commissione storica italo-tedesca che su incarico dei due governi presenta in questi giorni le conclusioni di tre anni di indagini sull’occupazione tedesca in Italia: «Che la guerra della Wehrmacht sia stata una guerra criminale la storiografia lo aveva elaborato da tempo - dice - ma c’è voluto fino agli anni ’90 perché questo si affermasse nella coscienza collettiva. Ed è successo anche perché la generazione dei veterani sta scomparendo. Anche in Italia c’è difficoltà a riconoscere il ruolo dell’esercito nella guerra fascista e i crimini nei territori occupati».
Il metodo di lavoro della commissione si basa sui racconti dei singoli, attraverso lettere, documenti: «La Erfahrungsgeschichte, o storia delle esperienze vissute, è il tentativo di coniugare la storia dal basso con quella dall’alto», spiega Schlemmer. «Sulla grande scala di migliaia di vite vissute, raccontate e interpretate si rispecchiano i preconcetti indotti dalla propaganda, i condizionamenti provocati dagli stereotipi. Sugli italiani ad esempio pesava lo stigma del "doppio tradimento". In tante lettere dal campo si vede che l’idea del tradimento provocava desideri di vendetta. Sul fronte orientale invece fu decisivo il convincimento che obiettivo dei russi fosse lo sterminio del popolo tedesco e lo stupro delle loro donne.
Insomma questo metodo permette di cogliere i collegamenti tra la Grande Politica, la propaganda, e l’azione delle unità militari; e di capire come venissero plasmati i modelli mentali che strutturavano la percezione e condizionavano l’agire. Accanto all’ordine dall’alto c’è quasi sempre un piccolo margine di manovra individuale, quello che ti fa scegliere tra uccidere sul posto il disertore o fingere di non vederlo».
Attraverso le nuove fonti, si è cercato di guardare dietro l’immagine generalizzante de "i tedeschi" o della Wehrmacht, e de "gli italiani" o dei "partigiani". Continua il professore: «Abbiamo elementi che modificano alcune percezioni rispetto alla guerra contro i partigiani; così le ricerche di Amedeo Osti ci riservano molte sorprese sui rapporti tra forze armate tedesche e fasciste, ad esempio le Brigate nere: la politica del non fare prigionieri era fortemente voluta dai fascisti, e sono stati spesso gli ufficiali tedeschi a dire basta. Insomma la complessità dei rapporti tra cittadini e truppe occupanti viene fuori con maggiore chiarezza».
Le testimonianze sono state tratte da lettere dal campo, che erano censurate e quindi sono state interpretate, e poi da diari e fotografie: «Abbiamo messo un appello su uno di quei giornali gratuiti, letti soprattutto dagli anziani, che si trovano sui treni metropolitani o sugli autobus, che ha avuto grande risonanza. Abbiamo esaminato diari di soldati che avevano allora 17 anni e che parlano di una "mamma italiana" che gli dà da mangiare dicendogli: "ho un figlio soldato e spero che trovi anche lui là dov’è una mamma che lo aiuti"».
Italiani e tedeschi preparano l’atlante delle stragi naziste
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 06.04.2011)
Nel nostro Paese non se ne parla da tempo, ma la commissione storica italo-tedesca sulla Seconda guerra mondiale, istituita nel marzo 2009, ha lavorato sodo. E presenterà i risultati raggiunti oggi a Milano, in un incontro pubblico presso l’Ispi, in via Clerici 5, a partire dalle 16. La commissione è stata istituita dai governi di Roma e Berlino per dare un «contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria» , in seguito al contenzioso sollevato da parenti di vittime di stragi naziste e da militari italiani internati nel Terzo Reich (gli Imi).
La vicenda ha fatto discutere, per l’accavallarsi tra esigenze politiche e lavoro degli studiosi. Mostra perplessità sul concetto di «memoria comune» lo stesso Paolo Pezzino, storico dell’ateneo di Pisa e membro della commissione: «Secondo me bisogna parlare piuttosto del riconoscimento dei rispettivi punti di vista nel quadro di una storia complessa, fatta di relazioni non solo conflittuali tra Italia e Germania nel periodo 1940-45. Nel documento finale, da presentare nel marzo 2012, vogliamo mettere in luce le differenti ragioni degli italiani e dei tedeschi, ma anche le interazioni tra gli uni e gli altri» .
A tal scopo la commissione ha avviato un vasto lavoro di ricerca: «Abbiamo esplorato per la prima volta il fondo delle richieste che gli internati militari italiani facevano al Tesoro per fini pensionistici: oltre 200 mila fascicoli. Poi abbiamo vagliato la memorialistica degli Imi e i verbali degli interrogatori cui erano sottoposti al ritorno dalla Germania. Inoltre stiamo completando un atlante delle violenze contro i civili compiute dai nazisti in Italia. E abbiamo consultato dei fondi, finora inesplorati, contenenti le lettere dei militari tedeschi di stanza nella penisola» . Ne scaturiranno varie pubblicazioni: con tutte le riserve che si possono nutrire sul mandato della commissione, di certo la sua opera sarà utile agli studiosi.
LA MANIFESTAZIONE
Il lungo giorno della Democrazia
Bersani: "Stanno umiliando l’Italia"
Migliaia di persone in piazza a Roma a dire no all’ennesima voto ad personam per Silvio Berlusconi. Si sono ritrovate alle 14 davanti a Montecitorio, alle 18 al Pantheon per ascoltare il segretario del Pd. Poi la notte bianca di Giustizia e Libertà a piazza Santissimi Apostoli
di KATIA RICCARDI *
ROMA - No alle leggi ad personam, sì alla Costituzione e alla legalità. Mentre nell’aula di Montecitorio la maggioranza blindava il premier sollevando il conflitto di attribuzione per il processo Ruby, partiva la mobilitazione. Da subito, dalle 14, davanti a Montecitorio, in un giorno di sole e vento, aspettando dietro le transenne che l’Aula, chiusa dietro il portone, partorisse l’ennesimo strappo.
Sulle transenne, nel sit-in di Montecitorio, un megafono e un microfono a disposizione di tutti quelli che, avrebbero parlato nel corso della "manifestazione permanente". Un serpentone di volti pronto a spostarsi da Montecitorio al Pantheon, per ascoltare Bersani e finire a piazza SS Apostoli a sera, nella "notte bianca della democrazia". Il microfono, lo ’speaker corner’, è stato l’angolo da cui hanno urlato le loro voci. Come quella di Gianfranco Mascia, del Popolo Viola: "Questo è un presidio autoconvocato. Siamo qui contro le leggi ad personam che il premier continua a far votare e che continua a usare per salvare se stesso dalla giustizia. Siamo qui per chiedere giustizia. Siamo qui perché la legge sia uguale per tutti. Siamo qui e ci sposteremo seguendo il percorso della leggi. Andremo al Senato, andremo al Quirinale. Saremo qui anche domani".
Dietro le transenne, oltre il microfono, un’enorme Tricolore di sessanta metri tra la folla. Nessuna delle migliaia di persone arrivate l’ha calpestato. Signore in gonna e scarpe basse saltellavano ai bordi per raggiungere il microfono, signori con i primi giubbotti primaverili le aiutavano, nessuno ha spinto. In molti hanno spinto invece il pulsante del microfono. "Sono sfinita", ha detto Maria Evelina. "Qui non se ne può più. Io sono uscita perché bisogna fare qualcosa. Dire quello che penso, non tenermi tutto dentro. Lui non andrà mai via tanto, Berlusconi non si arrenderà mai. Ma questa non è la Libia, e non è l’Egitto. Io sono stanca". "Io pure", ha aggiunto Adriana. "Dobbiamo esserci per forza. Io ho fatto il Sessantotto, questo non è niente in confronto. Però, lo stesso dobbiamo stare qui".
"Bisogna tenere alta la guardia a difesa della Costituzione" si legge in uno striscione tra le bandiere viola, quelle di Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia e Libertà e Italia dei Valori, Pd, Fli. Al microfono, si ricorda la "lista della vergogna", "i 37 provvedimenti ad personam approvati dal 1994 ad oggi", dalla legge Biondi al falso in bilancio, dal mandato di cattura europeo al condono fiscale del 2002. Invece di poster e volantini, la gente espone fogli, piccoli, fatti in casa senza organizzazione. Ognuno il suo. "AAA pusher affidabile offresi". "La breve prescrizione sarà la tua ultima azione", "La politica deve essere fatta con le mani pulite". "Sarto subito, leggi su misura, confezioni nane". Un uomo molto vecchio stringeva il suo con mani incerte. C’era scritto solo "Ignavi".
Antonio Di Pietro esce e annuncia l’esito del voto favorevole al premier (con lo scarto di 12 deputati) al conflitto di attribuzione sul caso Ruby. La gente intona Bella ciao e l’inno di Mameli. Dall’Aula si fanno vedere in pochi. Fabio Granata, Leoluca Orlando, il leader dell’Idv più spesso degli altri. Arrampicato sulla transenna a parlare dallo stesso microfono degli altri. A spiegare e ringraziare. E a invitare tutti a votare il referendum del 12 giugno. Inutile altro. "L’unica soluzione", ha detto Di Pietro "è il referendum ’politico’ sul legittimo impedimento che si terrà a giugno. Perché Berlusconi non si dimetterà mai". E su questo punto sembrano tutti d’accordo.
Il Pd al Pantheon. "Quello che la maggioranza ha deciso oggi è che Ruby è la nipote di Mubarak! Berlusconi così ci mette in condizione di umiliazione e vergogna davanti al mondo. E è una vergogna!". Così ha cominciato il suo comizio davanti alla piazza del Pantheon Pier Luigi Bersani. Con la stessa delusione di un voto che però si aspettava e si aspettavano tutti. "Oggi erano 314! Un acquisto qui e un altro là. Berlusconi ogni giorno ha il suo shopping e così hanno fatto passare il conflitto di attribuzioni, anche senza avere titolo per farlo". "Ma siamo lontani - ha aggiunto - dai 330 che Berlusconi aveva annunciato, e con tutto il governo presente".
Oggi, ha detto con ironia Bersani, l’Aula della Camera offriva una vista spettacolare: "I banchi della maggioranza e del governo strapieni come nelle grandi occasioni, come per l’elezione del Presidente della repubblica o per il discorso di un Papa... Perché questo pieno? si discuteva del secondo anniversario del terremoto dell’Aquila? Su come la città aspetta ancora la ricostruzione? Si è parlato dell’emergenza di Lampedusa? Si è parlato di disoccupati? No, si è parlato di cassa integrazione? Si è parlato di redistribuzione dei redditi di fronte a 10 milioni di pensionati a 700mila euro al mese? Si è parlato di politica energetica o di industria? Non si discute di questo: tutta la settimana si parlerà di giustizia. E magari si parlasse di una riforma vera della giustizia. Si è parlato di giustizia per il premier, dei suoi processi".
E la maggioranza, ha aggiunto Bersani, ha votato per il conflitto di attribuzioni "senza avere titolo per farlo, perché la Corte costituzionale ha detto chiaramente che spetta alla magistratura valutare il giudice naturale". In questo modo, ha detto ancora, "il giorno prima dell’inizio del processo per Ruby, il Parlamento si mette a sostegno dei difensori di Berlusconi in una sorta di collegio di difesa allargato". Tutto questo per bloccare il processo e magari di riuscire di portarlo al Tribunale dei ministri e provocare così un ritorno alla camera per un’autorizzazione a procedere che verrebbe negata. "Lui non lascerà mai. Non molla".
* la Repubblica, 05 aprile 2011
Ripresa parziale. Vedi: http://www.repubblica.it/politica/2011/04/05/news/manifestazione_roma-14546663/?ref=HREA-1