La politica dell’intimità
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 23/6/2009)
Non son pochi, in Italia, gli esasperati di quel che sta avvenendo nel Paese: fuori casa l’attenzione delle democrazie si concentra sulla crisi economica, sui meno protetti che ne patiranno, su governi che per decenni hanno omesso di vigilare, sui rapporti di forza che mutano nel mondo, mentre da noi i giornali si riempiono di storie laide che hanno il premier come protagonista e i suoi patemi, i suoi impulsi, le sue libertine sregolatezze come trama. Si vorrebbe parlare d’altro, ma quest’altro è introvabile.
L’altro è il bene pubblico, è lo spazio dove il cittadino scopre il mondo esterno e vi si adatta, ma precisamente questo spazio si è liquefatto. Il casalingo soverchia ogni cosa, il privato inghiotte il pubblico, perfino il tempo è deformato. Si vorrebbe avere un’idea del nostro oggi, si vorrebbe pensare il domani, ma un solo presente e un solo futuro occupano la scena: il presente e il futuro del leader, il destino della sua personalità, della sua dimora privata, delle sue donne, del suo corpo, delle sue emozioni. È come se vivessimo in pantofole, senza mai infilare le scarpe per uscire all’aperto. Il leader politico è il primo a vivere nel chiuso, dando l’esempio: quel che conta è la sua vestaglia, la sua toilette, la sua camera da letto. È da quasi un ventennio che l’Italia è ammaliata da questo modello casalingo, edificato sulla negazione dello spazio pubblico e delle sue istituzioni. Chi ha forgiato tale modello è irritato, perché il golem che ha fabbricato si scaglia ora contro di lui: rivelando com’è avvenuta la messa a morte della cultura pubblica, denunciando un regime che ha strappato la tenda divisoria tra privato e pubblico.
Questa tenda, non sono i giornali che l’hanno strappata ma il presidente del Consiglio. Il mondo che per decenni ha voluto, trasformato in show, è un mondo dove scompare il corpo durevole della regalità - il corpo mistico che secondo Kantorowicz incarna le istituzioni che non muoiono - e non resta che il corpo del re deperibile, sublimato in un presente eterno. Nasce il tal modo la politica del corpo, il fotoromanzo che eroicizza il capo: Marco Belpoliti ha scritto su questo un libro importante, Il corpo del Capo (Guanda 2009). I giornali non possono ignorare la forma che il potere ha assunto in Italia, perché la forma s’è fatta sostanza. Se l’attore premia sull’azione, se la personalità è tutto, la sostanza della politica cambia. Berlusconi agisce, ma le emozioni messe in scena occultano l’agire oppure lo simulano se non c’è. Il consenso stesso non si forma attorno alle politiche, ma alla personalità. Tanto più essenziale è indagare la forma di simile dominio, svelandone le non più segrete pornografie.
È un potere che, mettendo il privato in cima a tutto, punta a saccheggiare e abolire la cultura pubblica. La strategia è moderna, se non rivoluzionaria. Più volte, negli ultimi due secoli, le avanguardie si sono ribellate alla separazione tra privato e pubblico, tra personalità e azione, in nome dell’anticonformismo e dell’originalità. Il romanticismo esaltò la soggettività radicale, in polemica con il primato che la cultura classica dava all’opera. Nella seconda metà del ’900 il modernismo architettonico progetta quartieri residenziali senza più piazze dove s’incontra il diverso, e uffici open space dove le pareti divisorie diventano trasparenti. La tirannide dell’intimità descritta da Richard Sennett nel 1974 comincia così: con la politica personalizzata, con la comunità casalinga o clanica opposta alla società, alla res publica. L’intimità è tirannica perché i muri trasparenti separano anziché unire: per sfuggire allo sguardo che ti spia, non resta che il silenzio. Nell’open space «siamo tutti visibili e isolati» (Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori 2006). Di questa cultura Berlusconi è artefice, utilizzatore finale, e infine vittima.
Si potrebbe anche parlare d’altro: di cose serie. Ma è difficile, quando il governo che oggi invoca la sacralità del bene pubblico è guidato da chi ha fatto saltare ogni barriera tra pubblico e privato. Berlusconi vorrebbe ora riagguantare il corpo mistico del re, ma non può farlo senza ricorrere al vocabolario con cui l’ha distrutto. Non può parlare di crisi economica, visto che s’ostina a annegarla nell’esaltazione ottimistica del carattere e a rifiutare ogni cifra veritiera. Nelle Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, Mario Draghi aveva parlato di 1,6 milioni di lavoratori che perdendo il lavoro resterebbero senza sostegno. Berlusconi ha replicato: «I dati sono falsi». Difficile parlare della sostanza, quando essa è nulla e l’illusionista tutto.
Quando scoppiano le crisi la tirannide dell’intimità vacilla, è inevitabile. È a questo punto che il leader torna al carisma che lo portò inizialmente al potere. Fu una sua forza, negli Anni 90, sedurre con lo spettacolo della personalità e lo svuotamento dello spazio pubblico: il suo carisma è sempre quello e non smette di apparire anticonformista, a molti. È il carisma del politico deciso a mimetizzarsi con il piccolo uomo che si fa da solo una carriera, che fatica a esser cittadino; che si sente minacciato da poteri forti, impersonali. Sennett dice che il leader carismatico di questo tipo, modernamente svincolato dalla religione, diventa un «impresario del risentimento» e dell’invidia sociale. La lettera che Deborah Bergamini - ex segretaria di Berlusconi, ex dirigente Rai, oggi deputata Pdl - ha scritto il 18 giugno sul Corriere della Sera è significativa. Il leader del Pdl è eguagliato a Catilina: un aureo parvenu, un piccolo uomo che sogna di esser grande ed è umiliato da magistrati e establishment: «Gli optimates che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici; gli optimates che violentano le regole di oggi sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori si presentano all’appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili».
La politica del corpo è essenziale per i moderni Catilina, perché consente di rovesciare la favola di Andersen. Non è l’imperatore a trovarsi nudo, ma il cittadino che a forza di imitarlo perde il senso della società ed è gettato nella solitudine. Scrive Belpoliti: «Siamo noi ad apparire nudi, non l’imperatore \, il re è nudo, ma ci convince che siamo noi a non avere i vestiti. Un capolavoro di rovesciamento dello sguardo. Questo è il glamour».
In realtà Berlusconi è stato sempre l’imperatore nudo. Sulla nudità ha costruito la propria ascesa. È in continuo strip-tease psicologico, come scrive Sennett dell’uomo pubblico in declino. Il problema non è più lui, né il suo show: anche se imbalsamato nel presente, lo spettacolo per sua natura finisce. Il problema siamo noi, cittadini spogliati di cittadinanza. È la destra, che dovrà uscire un giorno dall’ubriacatura di molti anni. Le soubrette, le escort che ottengono seggi parlamentari o dicasteri. Un ministro, Michela Brambilla, che fa il saluto romano e resta ministro. La corruzione impunita. Tutto questo è forma che imprigiona l’Italia e che incide sulla sostanza. Il consenso basato sul risentimento e sulla preminenza del privato è uno dei più formidabili ostacoli alle riforme.
Lo spazio pubblico cancellato rinvia l’ora delle responsabilità nell’animo dei cittadini. Un ricominciamento è necessario, a sinistra ma soprattutto a destra visto che è quest’ultima ad avere la maggioranza. Fini dice: «È a rischio la fiducia dei cittadini nelle istituzioni». In realtà non è a rischio. La sfiducia c’è già, il capo della destra non ha mai cessato di nutrirla e ancora se ne nutre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AL DI LA’ DEL PARTO MASCHIO (O FEMMINA) DEL TEMPO. La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica... *
Mitologia
L’eros senza maschio di Leda e il cigno
Il dipinto ripropone il simbolo della donna che dall’antichità ai grandi artisti del Rinascimento afferma la propria indipendenza
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 20.11.2018)
Ed ecco che a Pompei la sempre imponderabile cabala dei crolli e dei controlli fa riemergere una variante ancora più antica, pittorica, di un episodio amoroso da sempre simbolo, nella storia della pittura e della letteratura, dell’autoerotismo femminile: del piacere che la donna può darsi senza la cooperazione del maschio, anzi, di alcun umano. Nella scultura adrianea, copia di un originale ellenistico, il corpo di Leda, completamente nudo, è contratto nell’amplesso, la mano celata nel grembo premuto alle piume, stretto fra le unghie di un onirico cigno dotato di doppio fallo, dove quello proteso nel lungo collo, cui le labbra si accostano in un’appena dissimulata fellatio, prevale sull’altro che si insinua fra le cosce tremanti - per citare i versi di Yeats - della ragazza che è in piedi e barcolla. Nell’altrettanto esplicito erotismo dell’affresco pompeiano, Leda, i drappeggi dell’abito appena scostati, ancora cinta di diadema e calzari, è abbandonata su una sedia ed è al seno scoperto che si protende il becco del bianco fantasma erotico avvinghiato alle sue cosce.
Nelle grandi Lede della storia dell’arte successiva c’è sempre qualcosa di ineffabile dipinto sul viso della donna da cui non a caso nascerà Elena, e con lei la guerra di Troia, e dunque Roma, con la fuga di Enea. Perfino il sorriso leonardesco del dipinto della Galleria Borghese è solo uno dei tanti misteriosi, allusivi, indecifrabili sorrisi che Leda, moltiplicata nel suo sogno in infinite immagini pittoriche, regala prima, durante o spesso dopo l’amplesso all’empatia dei pittori.
Del resto, della meno censurata tra le Lede dei grandi maestri, quella di Michelangelo, non sopravvive l’esecuzione finale, smarrita o censurata in un giro di corti che dalla committenza estense si arenerà in quella di Francia, ma la copia di Rosso Fiorentino della National Gallery dà un’idea di quanto meno pudica della Leda post coitum di Leonardo fosse l’idea che Michelangelo aveva di quell’amplesso.
Il cigno non è una bestia. È la figurazione simbolica dei desideri repressi e insieme delle paure erotiche femminili. Tutta l’imponderabilità e irrefrenabilità dell’erezione maschile è richiusa e dischiusa in quelle grandi ali frementi, che nell’iconografia assumono, come sempre le immagini dei sogni, proporzioni vertiginosamente variabili, ora ridotte alla sensualità del passer della Lesbia di Catullo, ora talmente gigantesche da far intravedere nel corpo a corpo erotico delle Lede avviluppate nelle loro piume qualcosa di simile alla lotta di Giacobbe con l’angelo. In effetti, se a qualcosa la loro tradizione iconografica può essere accostata, è quella di una vertigine del volo - pensiamo allo slancio di Icaro - che il mondo greco, attingendo alla tradizione orientale, consegnerà all’angelologia cristiana e islamica.
Che siano di chimera, di fenice o di cigno, che richiamino Eros o Ermes dal piede alato, e con lui la natura stessa del sogno, le ali, tipico oggetto di fobia sessuale femminile, sono un altro potente simbolo di hybris fallica. Creato dalla fantasia, dalla forza del sogno, dall’urgenza del simbolo, il cigno di Leda è quanto di più lontano da una concreta presenza animale.
Nulla a che fare con gli accoppiamenti bestiali della mitologia greca, come quello di Pasifae col nero, potente toro dall’immenso membro, che non a caso farà sorgere alle fondamenta dell’edificio psicologico greco una creatura - il Minotauro - che simboleggia nella mitologia l’assoluto irrazionale, la parte bestiale che è in noi, tanto avida quanto sapiente, tenuta a guardia del grande labirinto dell’inconscio.
Ma neanche quel figlio, per i greci, è il male, anzi. Sarà la sua uccisione da parte dell’infido eroe Teseo a produrre la combinazione di eventi che porterà a un’ancora più potente compensazione simbolica: a consegnare Arianna, sorella del Minotauro e suo esatto contrario, sacerdotessa della razionalità della dea Atena, a farsi sposa, abbandonata a Nasso, di Dioniso, il dio della natura scatenata e dell’ebbrezza.
Il prodotto dell’accoppiamento di Leda non sarà meno inquietante. Elena incarnerà la femminilità più potente di tutto il mito greco, quella cui non si resiste, capace di addormentare con il suo nepente il cuore degli uomini, di scatenare le loro guerre, di disseminare, con la sua forza di donna creata dal puro piacere di una donna, il massimo disorientamento nel mondo dei maschi. Elena dalle bianche braccia, candida e onirica come "il bianco tumulto" che la fa nascere, sarà la femme fatale per eccellenza, la splendida strega capace di scardinare ognuno degli aspetti dell’egemonia maschile.
Il mito di Leda è dunque il mito d’origine dell’autonomia femminile, del suo desiderio sessuale emancipato dal maschio, delle sue non solo erotiche ma anche concrete paure - poiché certo essere ingravidate da un sogno è da sempre nelle donne uno dei più irrazionali e archetipi timori, non a caso esorcizzato nelle storie di maghe e di streghe. È forse questo solo, nel mito di Leda, l’intervento di Zeus.
Per una volta assolviamolo dalla sua fama di stupratore. Quello di Leda è il contrario di uno stupro. E la vasta fortuna della sua iconografia è uno dei tanti segni nascosti, sotterranei, carsici che la psiche femminile ha lasciato, indecifrati dai molti, còlti dagli artisti e dai poeti, serbati e sussurrati nel segreto delle corti, della sua indipendenza e della sua libertà.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"PARTORIRE CON LA TESTA. Alle origini della maieutica" (Dorella Cianci, Marsilio, Venezia, 2018).
SOCRATE, "LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Parlano le donne parlano - Ida Dominijanni
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Parlano le donne parlano domenica 14 gennaio 2018
Ida Dominijanni
1.Il movimento #metoo - slogan inventato dieci anni fa da una donna nera, Tamara Burke - esplode negli Stati uniti il 15 ottobre dell’anno scorso, a seguito dello scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d’olio su scala pressoché planetaria: due settimane dopo, a inizio novembre, il Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi - ai primi posti Usa, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sudafrica[1]. L’11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini “high profile” - appartenenti ai circuiti della politica, dei media, dell’intrattenimento, dell’accademia - accusati dalle loro vittime di molestie o “cattiva condotta sessuale” (sexual misconduct) e licenziati, o sospesi, o costretti a dimettersi: tra loro sei esponenti politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l’ex comico democratico Al Franken, il caso forse più controverso e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, cha ha perso le elezioni in Alabama anche in seguito alle denunce femminili di sexual harassment e pedofilia[2]. Parzialmente diverso il quadro in altri paesi. In India ad esempio - uno dei casi di #metoo più interessanti - il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni tra gli esponenti più amati dei post-colonial studies, da cui un dibattito incentrato soprattutto sullo scarto fra ideologie rivoluzionarie professate in pubblico e comportamenti privati[3]. In Francia invece - altro esempio - il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sui rapporti fra cultura occidentale e cultura islamica[4].
Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale con contenuti sostanzialmente omogenei acquista pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e domanda perciò uno sguardo comparativo. Il mio si poserà soprattutto sulla comparazione fra Stati uniti e Italia, per una ragione precisa: molto di quanto sta accadendo nell’America trumpiana - compresa la scoperta, grazie alla presa di parola pubblica femminile, di un sistema diffuso di scambio fra sesso e potere - è stato anticipato nell’Italia berlusconiana; ma con effetti in parte simili, in parte - sembra - assai diversi. Da qui la strana sensazione di stare assistendo a un déjà vu da una parte, a qualcosa di inedito dall’altra.
2.Negli Stati uniti il #metoo è stato/è un enorme e contagioso movimento femminile di presa di parola pubblica, potentemente aiutato dai social network, appoggiato dalla stampa illuminata, sostenuto sia dall’autorizzazione reciproca delle donne coinvolte sia da una forte autorizzazione dell’opinione pubblica, che è riuscito a ribaltare una congiuntura che pareva svantaggiosa per le donne - l’elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton - in una situazione di protagonismo femminile socialmente riconosciuto e supportato. La congiuntura politica è di estrema rilevanza e dà risposta alla domanda che è imperversata sui media italiani: “Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?”.
Le donne, lo sappiamo, parlano quando possono parlare: quando si può aprire una crepa nel regime del dicibile e dell’indicibile, e l’autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso femminile necessario al mantenimento dell’ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary - una candidata che il femminismo radicale riteneva non idonea perché moderata e neoliberale, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini del suo avversario - negli Stati uniti le donne hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile fin nella women’s march del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, già annunciava un femminismo determinato a prendere in mano le redini di un movimento di opposizione più vasto. A distanza di un anno scrive infatti il NYT: “Allora non era chiaro se si trattasse di un momento o di un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le leader emergenti di una doppia scommessa: sostenere l’opposizione a Trump e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, com’è accaduto con il #metoo”[5].
La presa di parola individuale che ha fatto esplodere il caso Weinstein non sarebbe stata possibile, dunque, senza l’autorizzazione simbolica del movimento già sceso in campo contro il Presidente che si vanta di “prendere le donne per le parti intime”. Vale la pena di notare che questa congiuntura politica conquista al femminismo la generazione di donne nata e cresciuta sotto le insegne dell’individualismo neoliberale che ne era rimasta fin qui più estranea, come fanno notare nelle loro testimonianze molte protagoniste del #metoo che raccontano la loro scoperta della dimensione collettiva dell’agire politico[6]. Di questa congiuntura, infine, fa parte il “divenire minoranza” degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescata mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione declinante del tutto compatibile tanto con i colpi di coda del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza quanto con i colpi di coda dell’aggressività sessuale “virile” disvelata dal #metoo.
A fronte di questo “divenire minoranza” degli uomini bianchi, c’è il “divenire maggioranza” delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e di cui fidarsi. All’autorizzazione femminile si aggiunge quindi un’autorizzazione sociale più vasta, ben percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che del #metoo hanno fatto i media mainstream liberal: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington Post, The Nation - per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.
3.Questo sostegno dell’opinione pubblica americana è il dato che stride di più con l’esperienza italiana. L’Italia non avrebbe dovuto restare sorpresa daI #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l’analogo fenomeno di una imprevista presa di parola pubblica femminile contro il “dispositivo di sessualità” dominante. Mi riferisco, ovviamente, all’esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia, da parte di Veronica Lario e Patrizia D’Addario (e altre dopo di loro, tra le quali Ambra Battilana, che ritroviamo oggi fra le donne che negli Usa hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio fra sesso, danaro e potere che vigeva nelle residenze dell’ex premier e decideva la distribuzione di lavori e di candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Anche allora questa presa di parola si avvalse di una parte dei media, o perché contrassegnati dalla sensibilità di opinioniste femministe o perché, più semplicemente e strumentalmente, anti-berlusconiani. Ma subì anche e soprattutto una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro il #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche negli ambienti della sinistra, e perfino in quella parte del femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate al sistema berlusconiano dal suo interno. Che fosse in atto, anche allora, una scossa tellurica che investiva verticalmente i rapporti fra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni della rappresentanza, lo si capì forse solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 - le manifestazioni di piazza essendo la sola forma in cui l’esistenza del femminismo viene tuttora registrata. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream fu tuttavia, anche nel campo della sinistra, momentanea, strumentale all’abbattimento di Berlusconi e inadeguata[7]. Soprattutto, non pare abbia seminato consapevolezza alcuna della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: lo si vede benissimo oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, per ironia della storia contemporaneamente all’esplosione del #metoo, e nessuno, nei circuito mediatico, ricorda che a farlo cadere nel 2011 furono le donne prima dello spread, né associa la rivolta femminile italiana di allora a quella planetaria di oggi. Si potrebbe anzi sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui il #metoo ha goduto in Italia è figlia diretta della rimozione della vicenda del 2009-2011.
A commento dei fatti di allora e di oggi, resta vero quello che Luisa Muraro aveva scritto ben prima, in tempi non sospetti: “Ci sono numerosi indizi che il regime di verità abbia fin qui funzionato, nelle sue succcessive forme storiche, sulla mutezza femminile. Se una donna si mette a dire la verità, diventa una minaccia per l’altro sesso e per la civiltà, insieme. ‘Virilità’ è un nome, o forse il nome, di questo insieme”. La verità soggettiva femminile detta in pubblico ha una forza dirompente della quale noi stesse non siamo forse abbastanza consapevoli. La comparazione fra le due vicende dimostra però anche che questa dirompenza, per essere efficace, ha bisogno di una qualche risonanza, e deve dunque dotarsi di una strategia mediatica. La differenza fra l’Italia e gli Usa si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, fin nell’uso del linguaggio e negli stili che connotano il racconto giornalistico, e non può essere attribuita solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra ha il “dire la verità al potere”: attiene anche alla peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano, e alla capacità o all’incapacità di associare mutamento femminile e mutamento sociale, e di fidarsene. Dedicando la copertina della “persona dell’anno” alle silence breakers, il Time ha acutamente osservato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi polemici di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo “risorti”, insieme. Si può ragionevolmente sostenere che finché non avrà imparato a trattare sensatamente di donne e di femminismo, il giornalismo italiano continuerà a precipitare nell’abisso di ignoranza, pressapochismo, autoreferenzialità in cui vivacchia da anni.
4.La rimozione dei fatti del 2009-2011 spiega anche la ripetizione, in Italia, di molti argomenti contro le silence breakers di allora e di oggi. Riassumo qui brevemente i principali, maschili ma anche femminili, talvolta presenti in modo ben più pacato anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un rovesciamento di prospettiva.
a) L’(auto)vittimizzazione. Si va dal “fanno le vittime, ma sono state conniventi per anni”, scagliato contro Asia Argento soprattutto ma non solo da uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa risolversi in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma a mio avviso è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza a una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subìta piuttosto che sull’affermazione di un desiderio positivo, com’è stato invece per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, nonché di riportare indietro il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell’oppressione femminile. Ma nel caso del #metoo a me pare che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia decisamente inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di allegria. Faccio inoltre notare che in Italia il fronte che accusa di vittimismo ritardato le attrici oggi, è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi come vittime e di rivendicare il loro lavoro come una scelta: a dimostrazione che il victim blaming è sempre attivo, nell’un caso e nell’altro.
b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il panico da rischio di reazione “maccartista” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e altrove. Il ricorso alla evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di una caccia agli orchi ha qualcosa di comico, e dice quanto sia radicata la fantasia di una simmetria fra i sessi e di una vocazione ritorsiva della rivoluzione femminista. Storicamente, la caccia alle streghe (donne) l’hanno fatta gli uomini, e oggi, casomai, sono di nuovo uomini a farla su altri uomini. Con modalità talvolta violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino a ieri osannati, o la “maledizione” di opere d’arte che dovrebbero sopravvivere ai comportamenti sessuali dei loro autori. Queste modalità però segnalano che una crepa si è davvero aperta nell’omertà maschile, e questo è un fatto positivo.
c) Invocazione/scongiuro della legge e delle regole. Vasta e contraddittoria gamma di posizioni. Da una parte il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria dei comportamenti maschili, impedendo così l’esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo - come di recente Margareth Atwood[8] - la sostituzione dello stato di diritto con di una giustizia “immediata” o con quello che in Italia chiamiamo “giustizialismo”. Oltre a non tener conto della storica - e giustificata - diffidenza femminile per l’esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezioni occulta quello che è il pregio, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e sulla solidarietà collettiva, e non sull’uso dei tribunali. La questione che il #metoo pone è politica, non penale.
Dall’altra parte però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte paventa che l’esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralista e normativo dei comportamenti sessuali[9] - esito peraltro da non escludere, data la tendenza alla codificazione dei comportamenti propria della società americana. Va detto però che questa regolamentazione, talvolta fin troppo rigida, negli Usa vigeva già prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, casomai, ne segnala l’inutilità. C’è un eccesso della sessualità maschile che sfugge, evidentemente, a ogni regola e a ogni codice di comportamento: merito del #metoo è l’averlo messo in luce, riportando il fuoco del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.
Più in generale, l’altalena fra invocazione e scongiuro delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolamentare le pulsioni: le invoca mentre le scongiura, e le scongiura mentre le invoca. Vale sulla sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di comportamento quello che non riescono a regolare relazionalmente, come vale, lo sappiamo bene, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.
d) Il fantasma della fine della seduzione e della morte della sessualità, con la correlata confusione fra seduzione e violenza, “avance” e molestia. Su questa confusione, impugnata come una bandiera in Italia dal Foglio e dalla stampa di destra e fatta propria in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è parlato, ho poco da dire: a differenza di Deneuve non conosco donna alcuna che non sappia distinguere fra l’una e l’altra cosa, mentre mi arrendo alla constatazione che tale confusione c’è davvero nella testa di molti uomini, che infatti la rivendicano come se il confine fra sesso e violenza fosse effettivamente poroso e facilmente valicabile.
Il punto tuttavia a me non pare questo, palesemente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che puntare il discorso sul terreno della sessualità significa evadere la questione principale posta dal #metoo, che a suo avviso riguarda la ricattabilità delle donne nel lavoro più che il sesso[10]. Si tratta a mio avviso di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, la ricattabilità delle donne nel lavoro attraverso il sesso, ovvero l’uso della sessualità come moneta di scambio nel mercato del lavoro. E dunque il #metoo, esattamente come in Italia gli “scandali sessuali” di qualche anno fa, dice qualcosa del “dispositivo di sessualità” della nostra epoca. Esattamente come allora, anche stavolta colpisce la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto un accappatoio o una masturbazione all’aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e più felice. Nella ricontrattazione dei rapporti fra i sessi che la presa di parola femminile domanda, io credo che ci sia anche la rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale.
(Via Dogana 3, 30 gennaio 2018)
[1] www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world
[2] www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein
[3] www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi
[4] www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france?
[5] www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment
[6] www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html
[7] Per la ricostruzione dell’intera vicenda e dei suoi effetti rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.
[8] www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo
[9] www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale
[10] www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html
FEMMINISMO
Je ne suis pas Catherine Deneuve
di Ida Dominijanni, giornalista *
La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.
Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.
Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.
Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico.
È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.
Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.
Stupisce di più - ma in fondo neanche tanto - che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi - intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve - le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.
Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakers americane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato.
Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione.
Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.
* Internazionale, 10 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
CULTURA E CRITICA.
di Marina Beer
Proiettato nelle sale in Italia solo per tre giorni nel 2016 (dopo il 25 aprile), il film satirico di David Wnend Er ist wieder da. Lui è tornato non è la semplice traduzione cinematografica dell’omonimo bestseller satirico dello scrittore tedesco-ungherese Timur Vermes (2012, tradotto in italiano da Francesca Gabelli per Bompiani nel 2013). Il film è stato prodotto dalla Costantin Film, la stessa casa che ha prodotto Der Untergang (2004) di Oliver Hirschbiegel (La caduta, gli ultimi giorni di Hitler) - con un memorabile Bruno Ganz - e del film sul neonazismo Die Welle di Dennis Gansel (L’onda, 2009, presentato al Festival di Torino). Uno dei due produttori del film, Moszkowicz, è figlio di due sopravvissuti ai campi.
In entrambi i testi un Adolf Hitler in carne e ossa si risveglia incolume, benché intriso di benzina e bruciacchiato (dalle fiamme della cremazione nel bunker? da quelle dell’Inferno?), il 30 agosto del 2011 proprio a Berlino, nei cespugli di un parcheggio tra la Potsdamer Platz e la Brandenburger Tor. Il dittatore fa ripulire la sua divisa in una per lui sorprendente lavanderia turca, si avventa su un chiosco di giornali alla ricerca dell’ultima copia del Völkischer Beobachter, il quotidiano del suo partito, si stupisce di non trovarla nel 2011 (ha cessato le pubblicazioni il 30 aprile 1945!) e quindi si istalla nell’edicola per documentarsi freneticamente sull’attualità - come d’altra parte aveva sempre fatto. E dall’edicola parte alla scoperta del mondo in cui è precipitato, allo scopo di impossessarsene di nuovo carpendone il consenso.
Così, intercettato dal cameraman di una rete televisiva che lo crede un attore che "fa" Hitler, viene risucchiato nel mondo dei media. Lo strano personaggio ha carisma, sa comunicare e, dietro una maschera subliminalmente familiare a tutti, parla con una voce e con un linguaggio insoliti: ma soprattutto dice quello che il pubblico vuole sentirsi dire. E Hitler-showman seduce non tanto perché è un ottimo oratore ed entertainer, ma proprio perché prende posizione, con opinioni nette, magari "bizzarre", estreme come la lingua e il gergo aulico in cui sono espresse (è uno dei pregi maggiori del libro e del film) - e questo salto linguistico è ciò che fa di lui un "comico", uno showman, agli occhi degli addetti ai lavori, che lo considerano un clown e non il vero Führer. Certo, si dicono i producers televisivi, costui è vestito e truccato come Hitler: ma nella cultura tedesca 2.0 anche un Hitler "comico" è diventato una sorta di gadget anestetizzato, non è più neppure troppo politicamente scorretto; anzi, ridotto a goffo idiota nelle commedie satiriche su di lui e nelle manipolazioni di film e documentari in chiave farsesca che circolano online, il dittatore non è quasi più un tabù: e allora per fare audience lo si può anche mandare in onda.
Dunque l’Hitler revênant si impadronisce delle forme di comunicazione del nuovo millennio così come si era impossessato di quelle del secolo precedente - non solo della televisione, definita da lui «straordinario strumento di propaganda», dove si presta a interviste, ospitate, siparietti - ma anche di internet e dei social, diventando rapidamente una star del web. Avendo capito che gli europei del XXI secolo sono ormai assuefatti alla spazzatura trasmessa dai media e da essa completamente anestetizzati e resi ottusi, impara a disprezzarli e si predispone a dominarli di nuovo da uomo forte con una comunicazione diversa che li risvegli dalla loro inerzia.
Nella finzione comica, i cittadini consumatori della democrazia tedesca (solo tedesca?), ormai del tutto privi di capacità di comprensione storica, hanno dimenticato ogni cosa, salvo il loro benessere e il timore di perderlo. Della "memoria" del nazismo e della Seconda guerra mondiale qui non è questione: se qualcuno dei personaggi l’avesse, si domanderebbe dov’è che il revênant vuole arrivare - e invece nessuno se lo chiede. Automatizzata dalle ripetizioni rituali, questa memoria - che la Germania cerca meticolosamente da decenni di rielaborare attraverso la scuola, l’architettura, la letteratura, l’arte, i musei - sarebbe ormai soltanto una funzione fàtica del conformismo politicamente corretto. Nel romanzo, tanto per mettersi la coscienza a posto, una donna fa osservare a Hitler: «Sa, la questione degli ebrei non è uno scherzo», e lui risponde, serafico e ambiguo: «Ha perfettamente ragione!», poi i due passano disinvoltamente a un altro argomento. Perché sanno di avere molte idee e "valori" in comune: l’odio per stranieri, profughi e Asylanten che li stanno invadendo, per le classi dirigenti corrotte e senza identità, lontane dal "popolo"/"gente", indistinguibili nell’essere immerse nei sondaggi e a caccia di consensi; la paura della povertà, l’amore identitario per la loro terra la loro lingua e il loro popolo, il sospetto verso gli altri europei, l’amore per la natura. Insomma, sono nazionalisti e razzisti e antisemiti... «La gente non può ancora avercela tanto con Hitler!». Davanti a lui ormai si aprono tutte le porte!
Ma il film di Wnend non è la semplice trascrizione del romanzo. Nel passare da un medium all’altro cambiano finale e piano del racconto. Il vero protagonista infatti non è Hitler, ma il pubblico che lo accoglie e che è stato fatto entrare direttamente in molte scene dove è semplicemente se stesso con effetto di candid-camera: la turista che si scatta un selfie con il bravissimo Hitler-Oliver Masucci davanti alla porta di Brandeburgo (gli italiani condiscono il selfie di saluti romani), gente qualunque in pellegrinaggio wagneriano sulla piazza di Bayreuth che si fa ritrarre da lui, ancora una volta artista di strada, famigliole che salutano al suo passaggio in macchina scoperta, gente che davanti a un bicchiere di birra confida all’attore (che improvvisa a partire da frammenti del romanzo) le sue preoccupazioni rispetto agli immigrati e al lavoro, gente dell’Est che teme la perdita del benessere dopo la riunificazione. A quanto si vede il post-Hitler è stato accolto quasi ovunque (tranne che da alcuni neonazi veri, ma non da tutti) con spontanea e spaventosa tolleranza. Sono pochi i passanti che si voltano dall’altra parte. Nessuno, a quanto pare, si è sentito preso in giro dalla troupe: uomini e donne ormai assuefatti a digitalizzazioni di ogni genere hanno perso quasi immediatamente ogni inibizione a familiarizzare con il finto Führer. D’altronde l’unico personaggio che smascheri il dittatore è la nonna ebrea della segretaria di Hitler, una sopravvissuta che lo riconosce come "vero" e mette a nudo il suo irrefrenabile razzismo antisemita.
Così questo film inquietante finisce per dirci molto di più sui tedeschi e sulla democrazia del 2015 (l’anno dei profughi) e del 2016 (l’anno di Trump) che su Hitler. E non sulla memoria del passato, ma sulla memoria nel presente. «Lei è un mostro!», dice a Hitler il giovane cameraman che l’ha scoperto e che cerca di ucciderlo nella scena finale. «E allora lei deve condannare anche quelli che hanno votato questo Mostro ... erano tutti mostri? - risponde Hitler - Non erano piuttosto persone qualunque che hanno deciso di votare un uomo straordinario e di affidargli il destino di una nazione? E allora lei vorrebbe proibire le elezioni?». E conclude: «Non potete liberarvi di me. Io sono una parte di voi... e poi ... non tutto era così cattivo!».
Il romanzo si conclude invece con Hitler che si prepara a candidarsi alle elezioni: scritto in prima persona, per quattrocento pagine costringe il lettore ad abitare comicamente nella testa di Hitler, assordati da una voce che descrive in modo straniato il nostro mondo e insieme, in modo più surreale, racconta i propri crimini come se fossero decisioni secondo giustizia (un tòpos, nelle rappresentazioni più recenti di Hitler). In Germania l’audio-libro del testo ha avuto enorme successo.
Non è questa la prima rappresentazione comica di Hitler nell’immaginario collettivo tedesco e occidentale degli ultimi settant’anni, ma (se si eccettuano i libri di storia - la sua biografia più recente è quella di Volker Ullrich, Adolf Hitler. Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Fischer 2013) è la prima che ne descriva realisticamente le qualità di manipolatore politico e di uomo di spettacolo.
Alcune di queste doti venivano adombrate già nell’archetipo, Il Grande dittatore (ottobre 1940; del 2015 la versione in dvd restaurata dalla Cineteca di Bologna). D’altra parte Chaplin aveva definito «l’uomo che gli aveva rubato i baffi» uno dei più grandi uomini di spettacolo viventi, e già prima della distribuzione del film circolavano caricature a specchio del clown Charlot, «il giudeo Chaplin», e della sua controparte germanica. I due erano nati lo stesso anno a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Il tema del doppio e dello scambio di persona, tipico delle farse, dei vaudevilles e dello stesso Chaplin - anche del suo progetto di film mai realizzato su Napoleone - entrò così direttamente nel suo primo film parlato e nella storia delle rappresentazioni satiriche di Hitler: si scambiano di posto il dittatore Adenoid Hynkel e il suo sosia, il barbiere ebreo senza nome, «il piccolo ebreo abbandonato, pieno d’ingegno... il piccolo pover’uomo di tutti i paesi» (Arendt).
Così faranno poi Hitler e il libraio ebreo Schlomo Herzl nella pièce teatrale del grande scrittore e drammaturgo ungherese Georg Tabori Mein Kampf (1987), forse il primo a portare un Hitler farsesco e insieme tragico direttamente sulla scena del Burgtheater nella Vienna del cancelliere ex-nazista Kurt Waldheim, un anno prima del cinquantenario dell’Anschluss dell’Austria al Reich e della prima, provocatoria rappresentazione di Heldenplatz, di Thomas Bernhard, sempre al Burgtheater.
Il tema del doppio Hitler/ebreo ritorna anche nella recente fantasia satirica Mein Führer. Die wirkliche wahrste Wahrheit über Hitler (2007) di Dani Levy: nel dicembre 1944 un Hitler già stremato tira fuori da unLager un celebre attore ebreo (Ulrich Mühe, il protagonista delle Vite degli altri, qui nell’ultimo suo film prima della morte) che dovrà sostituirlo, e che verrà ucciso in un attentato al posto suo. Anche il romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt, La parte dell’altro (e/o, 2007) immagina due vite parallele, quella di Hitler non ammesso all’Accademia di Vienna e quella di Hitler che supera l’esame e diventa un vero pittore.
Al tempo stesso il film di Chaplin cristallizza alcune modalità delle rappresentazioni di Hitler: la vendetta contro il tiranno egomaniaco e anaffettivo attraverso la denigrazione caricaturale, anche in termini sessuali (e pare che Hitler, allergico a ogni forma di ironia, si fosse procurato da Lisbona una copia del Grande Dittatore, vietato nel Reich e nell’Italia fascista come d’altronde tutti i film dell’ebreo Chaplin, ma si ignora se - a differenza di Mussolini-Benzino Napoloni - l’abbia poi mai visto); la deformazione fantastica e straniante tipica della satira, che autorizza (fino all’Hitler di Inglorious Basterds di Tarantino) la libera invenzione di favole antirealistiche e paradossali, l’inserimento di slapstick e nonsense; il riuso di materiale documentario originale, frammentato e mescolato con materiali girati; l’uso ironico della musica di Wagner - il Lohengrin nella scena indimenticabile del mappamondo - come già avveniva nel cinema hitleriano della Riefensthal. La musica di Wagner, insieme alla Gazza ladra di Rossini e alla colonna sonora di Arancia meccanica di Kubrick accompagna significativamente e sinistramente anche il recente Lui è tornato, alludendo al mondo del diabolico Alex e alla sua banda di clowns.
Alexander Sokurov, regista dell’Hitler drammatico di Moloch (1999) e di altri tre film sul disfacimento del potere (Taurus, su Lenin, Il sole, su Hirohito, Faust, da Goethe), sta ora preparando un film su Mussolini. Suggerisce che «indagare la fascinazione sessuale, il vero e proprio amplesso con cui un tiranno lega a sé il suo popolo, spetta ai singoli paesi». E forse è proprio questa la chiave per leggere il recente successo in libreria della nuova edizione critica dell’ Eros e Priapo di Gadda (Adelphi, 2016, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti).
Sessualità senza tabù, visita al museo del sesso di Ny
Gadget, sex toy e mostre. Primo in America e a visitarlo sono soprattutto le donne
di Gina Di Meo *
(ANSA) - NEW YORK Si occupa di proteggere e preservare oggetti della sessualità’ che altrimenti sarebbero andati persi o distrutti. A New York c’e’ un museo un po’ ’sopra le righe’, il Museo del sesso, (Mosex) che dalla sua sede sulla Quinta Strada a pochi passi dal Flatiron District, cerca di offrire prospettive diverse su argomenti che in America in fondo sono ancora tabù: la sessualità’ e il sesso. Il museo ha aperto i battenti nell’ottobre del 2002, e’ stato il primo negli Stati Uniti e da allora, nonostante lo scetticismo iniziale, registra ogni anno migliaia di visitatori, sia americani che stranieri. "All’inizio - ha spiegato all’ANSA Mark Snyder, direttore mostre del museo - la gente considerava strano l’accoppiamento sesso e museo, poi ha capito che il nostro scopo e’ meramente educativo nonché’ di preservazione".
Il museo del sesso ha infatti una collezione di oltre 15 mila pezzi alla quale fanno da corredo delle mostre non permanenti che offrono appunto spunti di riflessione su sesso e sessualità’. "L’America - continua Snyder - ha ancora difficolta’ a parlare di sesso, a volte non si usa la parola esplicitamente ma i riferimenti sono ovunque. Nonostante ciò’ preferiamo che non sia un cosiddetto ’public discorse’".
E’ il pubblico femminile quello più’ interessato al museo, mentre sul totale dei visitatori il 40% sono turisti il resto proviene principalmente dalla Tri-State Area, ossia New York, New Jersey e Connecticut.
Al museo si ha accede passando attraverso il negozio dove si vendono gadget e sex toys di ogni tipo oltre a materiale letterario. "Qui i clienti chiedono di tutto - continua Snyder - non e’ un posto dove vergognarsi di niente. Vogliono sapere soprattuto di più’ sulle posizioni".
Il viaggio nel museo inizia con la mostra ’Hardcore: un secolo e mezzo di immagini oscene’ in cui si cerca di sottolineare come anche se il termine ’hardcore’ sia un’invenzione contemporanea, il desiderio di travalicare i confini a livello sessuale ha una lunga storia. "Anche se soggetti a censura - spiega Snyder - i nostri antenati non erano affatto ’asessuati’ come la visione della storia dell’epoca voleva farci credere. E anche se molto materiale e’ andato distrutto o perso, molte collezioni venivano tenute nascoste e ’smerciate’ segretamente". Punti forti della mostra sono una guida ai bordelli di una New York del 1855, un manuale sessuale illustrato a mano del 19/mo secolo, diverse foto di sesso di gruppo e sex toys.
Le altre mostre attualmente in calendario sono ’Splendor in the Grass: Kinesthetic Camping Ground’, e ’Sex Lives of Animals’, con l’obiettivo di dimostrare che anche il mondo animale ha una propria sessualità’ e non e’ finalizzata solo alla riproduzione ma anche al piacere (http://www.museumofsex.com.)
Politica
Barani e D’Anna sospesi per 5 giorni dal Senato. Grasso: “Offese le istituzioni”
L’ufficio di presidenza di Palazzo Madama ha deciso le sanzioni per i due verdiniani: il primo ha mimato sesso orale rivolto a una parlamentare grillina e il secondo ha indicato i propri genitali verso i banchi 5 stelle. Squalifica anche per Airola, censura per il gruppo Lega Nord e per il capogruppo M5S Gianluca Castaldi
di F. Q. *
Aver mimato con un gesto il sesso orale e aver indicato i propri genitali rivolti ai banchi dei grillini è costato ai senatori verdiniani Lucio Barani e Vincenzo D’Anna 5 giorni di sospensione con effetto immediato da Palazzo Madama. Fuori per un giorno invece il collega M5S Alberto Airola, accusato di aver insultato alcuni esponenti del governo e della segreteria d’Aula. I parlamentari rischiavano fino a 10 giorni di squalifica. “Gli episodi accaduti”, ha detto il presidente Pietro Grasso, “sono stati di tale gravità che hanno offeso persone e senatori e hanno minato la credibilità delle istituzioni. Da questo momento nessuna deroga al principio di correttezza verrà tollerato in Aula”. Il consiglio ha deciso anche una censura nei confronti del capogruppo M5S Gianluca Castaldi per essersi avvicinato con forza verso i banchi del governo e per il gruppo della Lega Nord per aver sventolato in aula dei soldi per denunciare la “compravendita dei senatori verdiniani” che ci sarebbe stata, secondo loro, per il ddl Boschi.
L’Ufficio di presidenza del Senato, a tre giorni di distanza dal dibattito che ha imbarazzato il Parlamento, ha fatto un processo con video, resoconti e testimonianze per decidere le sanzioni ai parlamentari. E ha annunciato che ci sarà una nuova riunione prossimamente per parlare della gravità dei fatti della seduta di venerdì 2 ottobre. Il Movimento 5 Stelle aveva chiesto che fosse comminata la pena massima: “Spero”, aveva scritto su Facebook il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, “che li sospendano per il massimo dei giorni previsti dal regolamento, ma soprattutto con decorrenza immediata. Non è accettabile che gli si consenta di scontare le sanzioni tra un mese, permettendogli intanto di modificare indisturbati la Costituzione”. Tra i precedenti c’è quello di Massimo De Rosa, deputato grillino che a inizio 2014 disse alle parlamentari Pd: “Siete qui solo perché siete brave a fare dei pompini”. In quel caso l’ufficio di presidenza aveva deciso di sospenderlo per 3 giorni e di inviargli una lettera di biasimo.
L’incontro, iniziato alle 13, è stato interrotto per alcuni minuti perché non erano presenti tutti i rappresentanti dei gruppi. All’appello mancava il referente dei fittiani (Conservatori e riformisti) e i verdiniani (Ala), di cui fa parte proprio Barani. Dopo alcune telefonate, sono arrivati Ciro Falanga per Ala e per i Conservatori e riformisti Cinzia Bonfrisco. La seduta d’aula di Palazzo Madama, convocata per le ore 15, è stata rinviata per due volte a causa del protrarsi della discussione dell’ufficio di presidenza. Il questore M5S Laura Bottici ha deciso di astenersi dal voto: “Io non ho partecipato”, ha detto, “spiegando che se la decisione era quella di dare solamente cinque giorni di sospensione, io non avrei votato. Per un fatto così grave non ha senso, è assurdo”. Bottici ha poi ricordato che per i fatti successi in aula durante l’approvazione del dl Sbocca Italia i giorni inflitti ai senatori 5 stelle furono dieci.
Il senatore Vincenzo D’Anna ha continuato a difendersi: “La prima a fare un gestaccio”, ha detto a Radio2, “è stata la senatrice 5 Stelle Barbara Lezzi“, proprio quella che ora si atteggia a vergine e a martire. Noi stavamo ascoltando il senatore Falanga che parlava, mentre il gruppo 5 stelle faceva intemperanze e boccacce, in primis a comportarsi così era proprio la senatrice Lezzi. Ecco qual è la dinamica, non è che Barani è psicopatico”. Però a quel punto Barani il gestaccio lo ha fatto? “Dicono. Vedremo se c’è il filmato, ma se ci fosse lo avrebbero già trovato”. Lei è accusato di aver fatto un gesto simile. “No, io ho indicato la Lezzi con il dito dicendo che aveva fatto un gestaccio”.
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Dominijanni, Ida.
Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi.
Roma: Ediesse, 2014. Pp. 251. ISBN 9788823019171. € 14.00 (paperback).
Nell’imponente quantità di pubblicazioni sul berlusconismo, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni , è finora l’unica solida riflessione teorica e femminista che ne analizzi gli aspetti fondativi, simbolici e strategici, mettendoli in relazione con la storia culturale e politica italiana degli ultimi quaranta anni e con la dimensione transnazionale.
Con profonda consapevolezza teorica, l’analisi della filosofa, femminista della differenza, saggista e storica editorialista del Manifesto, parte dalla nozione lacaniana dell’ “evaporazione del padre”- cioè la crisi dell’ordine simbolico incarnato dalla legge edipica - e si misura con il pensiero di Foucault, Arendt, Butler, Lonzi, Žižek, e Recalcati, per citare solo i riferimenti più eclatanti.
Ambizioso obiettivo del libro è la riconfigurazione teorica e storica del berlusconismo nel periodo che prende il via dalla stagione del “lungo sessantotto italiano” (33) e del femminismo, estenden dosi alla contemporaneità.
Dominijanni contesta le interpretazioni mainstream: la prima, che vede il berlusconismo come un’anomalia italiana del modello liberal democratico e un attacco ai principi costituzionali; la seconda, che insiste sulla realizzazion e politica della debordiana “società dello spettacolo”; la terza, infine, che denuncia una strategia politica di identificazione con un preciso blocco sociale che mira a difendere i propri interessi socio-economici, sullo sfondo del modello neoliberale e i ndividualista della postmodernità.
Queste tre linee interpretative colgono alcuni dei tratti salienti del regime berlusconiano, nota Dominijanni, ma ne offrono una visione parziale. Il trucco capovolge i discorsi sul berlusconismo, riportando al centro d ell’analisi l’azione dirompente che la sessualità, il corpo e gli affetti esercitano sulla politica. Discutendo il berlusconismo come un’“inedita forma di governamentalità biopolitica e post-patriarcale” (27) fondata sullo scambio di sesso, potere e denaro, la studiosa analizza la sfera della sessualità nella sua funzione, innanzitutto, di strumento di codificazione del “regime del godimento” (25), basato sull’autoimprenditorialità del corpo e della sua libera offerta come merce di scambio negli ambiti socio-culturali ed economici del neoliberalismo.
D’altra parte, è proprio la sessualità, sostiene Dominijanni, ad aver delegittimato il berlusconismo attraverso la denuncia dell’immagine fallace e strategica del sovrano.
Si tratta di una vera e propria ribellione all’ordine simbolico post-patriarcale che prende forma nella presa di parola delle donne del sexgate e rivela la natura del “trucco” che dà il titolo al libro, cioè la fondamentale “impotenza” (17) del sovrano.
Tesi di fondo del libro è che la ventennale egemonia del berlusconismo sia stata neutralizzata non tanto sul terreno economico, quanto per l’appunto su quello della sessualità.
Dopo una premessa metodologica e un’introduzione teorica (“ Dalla fine. Spettri di Berlusconi”), l’analisi si snoda in nove serrati capitoli che discutono i tratti fondanti del berlusconismo nella loro valenza simbolica e storica.
Il rigore dell’argomentazione e l’originale storicizzazione dei fatti si intersecano con la vivacità giornalistica e lo spirito polemico dell’au trice, che sollecita una rilettura del presente alla luce dei dispositivi di potere messi in atto dal berlusconismo. Dominijanni decostruisce i concetti-chiave, le figure e le retoriche del berlusconismo, adottando un criterio di analisi deliberatamente sp iazzante ed efficace, quello degli spostamenti strategici “che hanno consentito alle ‘guerre culturali’ neoconservatrici degli ultimi decenni di costruire egemonia sopra e contro lo stesso terreno arato dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta” (145) .
Questi spostamenti sono semantici, retorici, culturali e simbolici e comportano rilevanti conseguenze politiche.
Lo spostamento valoriale analizzato nel primo capitolo (“La partita della libertà”) investe il concetto di libertà.
Un esempio fra tutti. Allo scopo di auto-legittimarsi come “padre fondatore” (37), Berlusconi si è appropriato della Festa della Liberazione, liturgia fondativa della patria basata sull’eredità culturale e politica della Resistenza antifascista, riformulandola come “Festa della Libertà” (38), cioè una celebrazione unitaria e popolare, tesa ad includere tutte le posizioni politiche.
Con una simile deviazione semantica, Berlusconi ha trasformato il partito in “Popolo delle Libertà ,” affermando la propria identificazione con un’idea astratta di popolo e ufficializzando l’inclusione dell’Italia nell’area valoriale della politica liberale.
Dominijanni sottolinea che questo “slittamento semantico” ha condotto a uno “slittamento politico di prima grandezza” (40), in quanto Berlusconi int erpreta il termine “libertà” in modo ambivalente: da un parte, come volontà di trasgredire le norme stabilite dalla costituzione e, dall’altra, come affermazione della libertà imprenditoriale e consumistica imposta dal neoliberalismo.
In questo contesto, la libertà diviene un’esperienza negoziabile e flessibile, che si realizza ai confini della legalità e può configurarsi sia come affermazione di un diritto che come consenso servile.
Altri spostamenti sono esaminati nel libro. Centrale è la discussione co ndotta nel terzo capitolo (“Parole che contano”), in cui l’autrice discute la funzione destrutturante della parola femminile nei discorsi delle donne coinvolte nel sexgate.
La presa di parola si articola infatti in modalità che vanno oltre le retoriche e i cliché rappresentati dalle donne “parlanti,” cioè l’intellettuale (Ventura), la moglie (Lario) e la prostituta (D’Addario e le altre). Lario, ad esempio, non solo denuncia il tradimento coniugale, ma il sistema di potere che usa le donne per potenziare il corpo del capo e provocare l’identificazione con la popolazione maschile.
Perfino le conversazioni “impietose” delle Olgettine ridicolizzano il corpo del capo, rendendolo una “copia comica e farsesca di se stesso ” (85).
Dominijanni fa notare come la politica berlusconiana abbia messo in atto il “dispositivo dell’internamento” contro queste donne, stigmatizzandole, censurandole e relegandole ai margini del discorso politico.
Questo ulteriore spostamento è strettamente con nesso a strategie retoriche e simboliche che Dominijanni analizza in altri capitoli del libro: lo “sconfinamento” (104) del pubblico nel privato , la ridefinizione in chiave libertina del conce t to di privacy (“Privato e pubblico, personale e politico”) e lo slittamento del rapporto fra morale e politica (“Penale, morale, politico”), in cui l’autrice discute lo “scarto di senso” (141) della narrazione berlusconiana, fondato sulla ridefinizione del rapporto tra libertà, potere politico e legge.
Particolarme nte originale è l’inquadramento storico del berlusconismo a partire dal Sessantotto e dal femminismo, un’intuizione che la studiosa articola nel sesto (“Papi e il nome del padre”) e nel settimo capitolo (“‘Veri’ uomini, ‘vere’ donne”).
Contestando le coordinate cronologiche del ventennio berlusconiano, Dominijanni vede nel berlusconismo la risposta “perversa” (33) e “regressiva” (175) alle istanze innescate dalla stagione del Sessantotto e del femminismo.
Il berlusconismo non ha realizzato quelle istanze, m a le ha invertite, trasformando la domanda di creatività, l’affermazione della liberazione sessuale, il bisogno di democrazia e il conflitto fra i sessi in regime del godimento, mercificazione, populismo mediatico e strategia di assoggettamento e ri- natura lizzazione dei ruoli di genere. In altre parole, il capitalismo neoliberale di cui il berlusconismo è la realizzazione italiana, ha marginalizzato le domande di ribellione e reso ambivalente la nozione di libertà femminile, secondo la quale la “vera” donna è figlia “ sia della rivoluzione femminista sia dell’egemonia neoliberale, e porta dunque sia il segno politico della libertà femminile, sia il segno della sua traduzione nella lingua economica della ‘libera scelta’ e dell’au toimprenditorialità” (194).
Un altro spostamento , quindi, forse il più rilevante sul piano socio- culturale e politico. L’analisi dei dispositivi di potere del berlusconismo elaborata da Dominijanni permette alla studiosa di interrogarsi sulla possibilità di nuovi spazi di soggettivazio ne e pratiche femministe.
Pur tralasciando la prospettiva queer, Dominijanni si confronta con una grande varietà di posizioni critiche contemporanee, fra cui il postfemminismo anglosassone, e contesta le rivendicazioni neo- femministe incentrate sulla lotta al femminicidio, la denuncia del sessismo dei comportamenti e del linguaggio e la richiesta di quote rosa (specie negli ultimi due capitoli: “Dopo il patriarcato. Femminismo e questione maschile” e “Dispositivo di sessualità, regime politico”).
Contro una riflessione critica che aspira semplicemente all’intercambiabilità di genere e non promuove pratiche diverse da quelle imposte dal post- patriarcato, Dominijanni riporta al centro del “conflitto politico fra i sessi” (27) la sfera della sessualità, che si pone come “tecnica del potere [...] decisiva per la soggettivazione” (27).
Il trucco è un libro provocatorio e coinvolgente, che sollecita nuovi interrogativi non solo sull’età berlusconiana, ma anche e soprattutto sul ruolo del femminismo nella vita culturale, sociale e politica della società contemporanea.
Dickinson College
Berlusconi assolto, Forza Italia si ricompatta: “Il giorno più bello in ultimi 20 anni”
Il centrodestra di nuovo tutto unito intorno al leader, da Minzolini a D’Anna fino a Fitto e Alfano: "Eravamo convinti della sua innocenza".
Tutti ora invocano la prosecuzione delle riforme.
E molti anche la grazia
di Redazione (Il Fatto Quotidiano,18 luglio 2014) *
Una sentenza allunga la vita. Come nei giorni peggiori - delle inchieste, delle intercettazioni e delle condanne -, anche questa volta Forza Italia vive l’assoluzione della corte d’appello di Milano come un pieno di carburante. Un partito crollato alla metà dei voti che aveva, diviso, stordito dalla bufera grillina e poi da quella renziana, si ritrova ora di nuovo, improvvisamente, nella stessa foto di gruppo. A gridare al complotto per un governo caduto sotto i colpi di inchieste finite nel nulla, a chiedere la riforma della giustizia, a rilanciare la leadership, a spingere un po’ di più le riforme: ritrovano tutti i loro vecchi sapori. Tra questi, ovviamente, anche la grazia. “I tempi sono maturi”.
Sarà un caso, ma la prima dichiarazione data alle agenzie di stampa dopo la pronuncia della sentenza di assoluzione è stata di Augusto Minzolini, l’alfiere dei forzisti contrari alla riforma del Senato: “Finalmente giustizia. E’ la dimostrazione che ci sono dei giudici anche a Milano. Resta un problema su cui dovrebbero riflettere tutti in questo Paese: i danni che un processo, che non doveva neppure tenersi, e una condanna di primo grado ingiusta hanno provocato all’uomo e al Paese”. Vincenzo D’Anna, il senatore “cosentiniano” con il quale Berlusconi due giorni fa si era quasi mandato a quel paese, dice che la sentenza ora permetterà di riprendere un confronto sereno. Daniele Capezzone rispolvera la riforma della giustizia. Tra la folla si scorge perfino Raffaele Fitto: “L’assoluzione di Silvio Berlusconi in Appello costituisce alla fine di una troppo lunga vicenda una pagina di giustizia. Ma la soddisfazione di oggi non cancella l’amarezza per anni di aggressione - dichiara l’europarlamentare, mister preferenze, peraltro condannato in primo grado a 4 anni per corruzione - A questo punto, si pongono domande enormi sull’immane campagna politica, mediatica e giudiziaria condotta per anni contro Berlusconi su basi così inconsistenti. Ora, spero che questa sentenza possa restituire a Silvio Berlusconi almeno un poco della serenità che gli è stata ingiustamente tolta per tutto questo tempo”.
Alla festa si aggiungono anche i vecchi amici. “Noi del Nuovo Centrodestra - dice Angelino Alfano - esprimiamo grande soddisfazione e compiacimento per l’assoluzione del presidente Berlusconi nel processo Ruby. Viene confermata un’innocenza della quale non abbiamo mai dubitato”. Una sentenza, spiega, che ora “chiede una rilettura storico politica di quel terribile anno 2011 che si concluse con la caduta dell’ultimo governo di centrodestra, dopo mesi di logorante polemica nascenti proprio dal caso Ruby, esploso nel gennaio di quell’anno”. D’altra parte da oggi ”si rafforza certamente la strada intrapresa per cambiare con coraggio il Paese sia sul fronte delle riforme istituzionali e legge elettorale sia su quello del rilancio economico, della diminuzione della tassazione, della lotta alla burocrazia”.
Gianfranco Rotondi lo definisce “il giorno più bello degli ultimi vent’anni”. Di certo questa volta sembrano fuori strada sia Laura Ravetto sia Nunzia De Girolamo (Ncd): “Questa sentenza vanifica ogni recondita illusione di certa sinistra di poter vincere a tavolino” dice la prima, Aspettiamo la sinistra alla prova dei fatti - aggiunge la seconda - per capire se si è finalmente liberata dell’ossessione di Berlusconi”.
In realtà l’assoluzione dell’ex Cavaliere non delude il Pd, tutt’altro. Matteo Renzi è colui che è uscito più rafforzato dalla camera di consiglio del collegio della corte d’appello di Milano. I giudici hanno pronunciato una sentenza di lunga vita al patto del Nazareno e alle riforme su cui si sono accordati il presidente del Consiglio e il suo predecessore pregiudicato. E’ così, per esempio, che la sintetizza Altero Matteoli, senatore ormai veterano (parlamentare dal 1983), ex missino, poi An che tra Fini e Berlusconi - quando ci fu da scegliere - non ebbe neanche l’ombra del dubbio. La sentenza, dice, “restituisce serenità al nostro leader e a Forza Italia. Ne beneficierà il clima politico ed il Paese”. Praticamente un editoriale. E’ un giorno di liberazione anche a sinistra, forse. “Forse smetteremo di frugare nell’alcova di Berlusconi per chiederci cosa preveda il patto del Nazareno” twitta uno dei senatori “dissidenti” del Pd, Corradino Mineo. “Rubygate: l’assoluzione di Berlusconi che fa comodo a Renzi”. Così la corrispondente del settimanale francese Nouvel Observateur, Marcelle Padovani, intitola il suo commento alla sentenza d’appello per Berlusconi. L’ipotesi di un’assoluzione, racconta la giornalista francese sul sito del magazine, “era difficile da credere ancora venerdì mattina”, eppure “è successo”. E tra le reazioni spiccano quelle “più politicizzate”, che “arrivano a dire che questa assoluzione ‘dà una mano importante a Matteo Renzi’”, nel suo irto percorso di riforme istituzionali. “In questo scenario, la magistratura italiana, che non è certamente a servizio dei partiti, dimostra comunque di poter giocare un ruolo eminentemente politico - scrive la Padovani - Perché è vero che la sentenza di assoluzione è come una ruota di scorta per Matteo Renzi: arriva al momento giusto, proprio quello in cui il suo governo si affanna per restare a galla”. In quest’atmosfera si riscopre “quasi renziano” perfino Gasparri: “Ed allora, andiamo avanti per portare a compimento le riforme, ma anche per liberare la magistratura dai condizionamenti che ne minano la credibilità”.
Così Renato Brunetta arriva presto al principale degli obiettivi: “Un minimo di risarcimento crediamo debba essere versato subito dallo Stato (e dal suo Capo) a Berlusconi e al popolo che si identifica con lui: ed è la grazia, adesso, senza tergiversazioni” scrive su Il Mattinale, il foglio pubblicato dal gruppo parlamentare di Forza Italia a Montecitorio. “L’innocenza di Berlusconi - si legge - è stata sin da principio palese anche a cento chilometri di distanza. Vale per noi che lo conosciamo bene, ma a occhi sgombri dalla trave del pregiudizio, avrebbe dovuto dir qualcosa di orribile sulle indagini il madornale travisamento di fatti, il dispiegamento completamente abnorme di forze in funzione della violazione della privacy delle persone, la loro esposizione senza rispetto, come se fossero pupazzi da squartare in pubblico”.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/18/berlusconi-assolto-forza-italia-si-ricompatta-e-il-giorno-piu-bello-degli-ultimi-20-anni/1064806/
Cronache delle baby-prostitute: la pancia (e dintorni) del Paese
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 14.11.2013)
Brutta roba la crisi dell’editoria stampata. Non è facile far concorrenza al web, ma ci si prova, eh, ci si prova con una certa tenacia. Compie un paio di settimane, per esempio, il caso delle baby-prostitute, dette anche baby-squillo (scuola ateniese), baby-escort (upgrade socioeconomico), o “lolitine” (licenza poetica).
Non c’è giornale che non abbia ogni giorno - da giorni - una sapida pagina sull’argomento. Le telefonate. I verbali. La mamma cattiva. Il pappone stronzo. Gli appartamenti. Il quartiere chic. Gli annunci. I rarissimi omissis e le numerose analisi sociologiche. I soldi. La cocaina. Le borse firmate. L’immaginario arcorian-maialesco, ascendente porco con la luna in mutande, se fosse un oroscopo. Eccetera, eccetera.
Ancora da valutare quanto tutto questo scrivere e pubblicare e titolare con malcelata malizia, strizzatine d’occhio e colpi di gomito da bancone del bar-sala-bigliardo abbia rubato spazio a Youporn o eleganti cenacoli hegeliani consimili. Con due grandi assenze in primo piano, che brillano come neve al sole.
La prima: qualche moto di umana pietà per delle ragazzine triturate da tutti (madri, sfuttatori, media). La seconda: nulla o quasi sui clienti.
Ora, lo dico da maschietto italiano né buono né cattivo, non esattamente moralista ma in qualche modo sensibile a un barlume di morale: se un adulto va a letto con una quattordicenne è un delinquente. Non lei, la quattordicenne, che è la vittima e a quattordici anni ha tutto il diritto di non capire, o di non sottrarsi o di essere un po’ scema. Ma lui, che è (scusate il francesismo) un pezzo di merda.
Dunque, a leggere la grande saga delle due ragazzine romane si ha la sensazione di leggere le cronache di una rapina, dove per giorni e giorni si parla della vittima, cosa faceva, cosa non faceva, cosa diceva al telefono, se andava a scuola, se non ci andava, se aveva la mamma scema o delinquente, se aveva la famiglia disagiata, se si comprava le scarpe da cento o duecento euro, se si truccava, se metteva gli annunci in rete. E nemmeno una riga sul rapinatore, che rimane senza nome, senza identikit, senza colpa, alla fine. E questo nonostante la legge punisca lo sfruttamento della prostituzione minorile (clienti e sfruttatori, come ben sappiamo dai tempi di Lele Mora, Emilio Fede e e nonno Silvio) e non la ragazza, che è vittima. E così ecco il florilegio di raccapriccio per le madri complici o ignare delle ragazzine, ma nemmeno una riga su quelli che (magari padri anche loro, no?) mettevano a mano al portafoglio per divertirsi con le figlie.
Leggereste un pezzo di cronaca nera in cui si dice tutto della vittima e non si spende nemmeno una parola per il colpevole? Forse no. Ma il questo caso sì. E per un motivo molto semplice: quel vago prurito che confina con la morbosità, quel voyeurismo che finge scandalo e occhieggia compiaciuto, quel “Uh, signora, son cose che non si possono vedere, ma si sposti un po’, per favore, che mi toglie la visuale”.
La grande stampa ci marcia alla grande, condisce con qualche analisi socio-qualcosa e serve caldo per il gentile pubblico. Dopo il caso Cancellieri, l’immonda situazione delle carceri italiane ha tenuto banco un paio di giorni, poi ha stufato. Due ragazzine vittime di anonimi delinquenti, invece, valgono pagine di carta, speciali, dossier, riflessioni, cronache, pruderies, ammiccamenti, doppi sensi e moralismi a basso costo. In un paese in cui la pancia è ancora molto, troppo più importante del cervello. Si intende: la pancia e zone circonvicine.
E se non fossimo tutti puttane?
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2013)
Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane. Nel senso che tutti il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio.
All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica? ” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e - all’occorrenza - come testimoniare il falso.
Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda. Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici.
La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”.
Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento). Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito.
Processo Ruby, condannato Silvio Berlusconi.
7 anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici
Il tribunale di Milano ha riconosciuto l’ex premier responsabile del reato di concussione e prostituzione minorile. Le carte riguardanti una lunga serie di testi della difesa sono state rinviate al pm per valutare un eventuale falsa testimonianza *
MILANO - Il tribunale di Milano ha deciso, dopo sette ore di camera di consiglio, di condannare a 7 anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici Silvio Berlusconi per il reato di concussione per costrizione nell’ambito del cosiddetto "processo Ruby". Il tribunale ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l’eventuale falsa testimonianza di una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
Il Cavaliere è stato condannato anche per il reato di prostituzione minorile. I giudici della IV sezione penale del tribunale di Milano hanno quindi accolto tutte le richieste della procura portando la pena complessiva ad un anno in più delle richieste. Il pubblico ministero Ilda Boccassini aveva infatti chiesto sei anni.
L’avvocato dell’ex premier Niccolò Ghedini, intercettato dai cronisti fuori del tribunale, annuncia: "Faremo appello". E aggiunge: "La sentenza non mi sorprende affatto. Sono due anni e mezzo che diciamo che qui questo processo non si poteva fare. E’ una sentenza larghissimamente attesa, faremo appello, ricorso in Cassazione. E’ una sentenza che è completamente al di fuori della realtà, fuori da ogni logica, l’accusa di costrizione è allucinante. Un fatto estremamente grave: il tribunale non ha tenuto conto della realtà processuale".
La sentenza è stata accolta con applausi e grida di esultanza da un piccolo gruppo, composto da qualche decina di manifestanti, radunato davanti al Palazzo di Giustizia di Milano.
I giudici hanno disposto anche la confisca dei beni già sequestrati in passato a Karima El Maurogh, in arte Ruby, e al suo compagno Luca Risso. Come già accennato, rischiano di essere processati per falsa testimonianza circa una ventina di testimoni. Al momento della lettura della sentenza i giudici hanno infatti annunciato di aver trasmesso alla procura le dichiarazioni rese in aula da circa venti testi, destinate ora a essere analizzate e vagliate dalla magistratura inquirente. Tra loro, oltre alla maggior parte delle cosiddette ’olgettine’ ospitate ad Arcore da Berlusconi, che che ricevono un assegno mensile dal Cavaliere, c’è l’ex consigliere per la politica estera di Berlusconi, Valentino Valentini, l’europarlamentare Licia Ronzulli, la parlamentare Maria Rosaria Rossi, il cantante Mariano Apicella e la funzionaria della questura di Milano, Giorgia Iafrate.
* la Repubblica, 24 giugno 2013
Ruby, chiesti 6 anni per Berlusconi
“Ad Arcore un contesto prostitutivo”
«Nipote di Mubarak? Balla colossale
E lo sapevano anche in Questura»
di Paolo Colonnello (La Stampa, 13/05/2013)
Milano.
Ilda Boccassini, al termine della requisitoria del processo Ruby, ha chiesto sei anni di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di concussione e prostituzione minorile nel processo Ruby. Il pm ha inoltre chiesto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per l’ex premier neppure «meritevole» delle attenuanti generiche.
SENTENZA PREVISTA IL 24 GIUGNO
Per il rappresentante dell’accusa l’ex premier è responsabile dei due reati contestati. Pertanto la procura nell’illustrare la richiesta di pena ha spiegato che 5 anni riguardano il primo reato, aumentati a 6 per il secondo reato. Tra le pene accessorie oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il pm ha chiesto, tra l’altro, l’interdizione legale per 6 anni. Ora la difesa di Berlusconi parlerà il 3 giugno mentre un’altra udienza, probabilmente per eventuali repliche e sentenza, è stata fissata per il 24 giugno.
LA POLEMICA CON IL PDL
Ruby «mente e nega di avere avuto rapporti sessuali» con Berlusconi, perché ha avuto «un tornaconto personale» quantificato in cinque milioni di euro, ha spiegato il procuratore aggiunto di Milano in uno dei passaggi della requisitoria. Secondo la Boccassini, «l’interesse» dell’ex premier per il rilascio della giovane marocchina dalla Questura nel maggio del 2010 si basava sul suo «timore» che «si potesse disvelare che quella minorenne avesse fatto sesso con lui» e ciò che «accadeva ad Arcore». Poi un passaggi più politico: «Mi sono sentita smarrita per il fatto che rappresentanti delle Istituzioni abbiano invaso il Palazzo di Giustizia lo scorso 11 marzo», ha dichiarato il pm al termine della requisitoria facendo riferimento alla manifestazione dei parlamentari del Pdl avvenuta nel corso di un’udienza del medesimo processo.
“LA BALLA COLOSSALE”
Ruby nipote di Mubarak? «Fu una balla colossale», aveva affermato questa mattina la Boccassini in un passaggio della requisitoria. «Silvio Berlusconi temeva che Ruby, rimanendo in Questura, potesse disvelare di avere fatto sesso con il Presidente del Consiglio ad Arcore. Perchè sapeva che era minorenne: lo sapeva Emilio Fede, lo sapeva la Minetti, la De Coinceicao, la Pasquino, lo sapeva Mora». Poco prima delle conclusioni, il pm aveva tirato i suoi colpi finali. È un contesto «prostitutivo», di interessi economici, di arrembaggio per una particina in tivù, di mancanza di valori culturali, quello in cui arriva la minorenne Ruby Rubacuori il giorno in cui mette piede ad Arcore per la prima volta: 14 febbraio 2010. «Non ci sono dubbi» che Ruby «si prostituisse» né che «avesse fatto sesso con l’imputato e ne aveva ricevuto benefici», ha affermato in aula Boccassini.
“IL SISTEMA PROSTITUTIVO”
Nell’introduzione della sua attesissima requisitoria il magistrato aveva ricordato che l’inasprimento delle leggi sulla prostituzione minorile furono volute proprio dal governo Berlusconi. Una premessa necessaria per spiegare anche perché di questa vicenda si è occupata lei stessa, responsabile della Procura distrettuale antimafia, proprio grazie alle competenze attribuite da queste nuove leggi. Quindi, il pm era passata ad illustrare la storia del processo e di Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori. «Il collega Sangermano vi ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio, che presso l’abitazione di Arcore del presidente del consiglio, le ragazze invitate facevano parte di un sistema prostitutivo organizzato per compiacere il piacere di silvio Berlusconi». Un “piacere” che, nonostante l’assenza di inchieste, era noto già a tutti in quell’epoca, maggio 2010, quando Ruby venne fermata e portata in Questura. «Anche i funzionari della questura erano consapevoli del pericolo che poteva rappresentare l’emergere delle frequentazioni di una minorenne con l’allora Premier, che temeva lo scandalo».
FEDE, MINETTI E MORA
Ruby, aveva spiegato il pm, non ha una casa, vive di espedienti e si prostituisce: «E in questo contesto che arriva ad Arcore, ovvero in quel sistema prostitutivo organizzato per compiacere Silvio Berlusconi e organizzato da Fede, Minetti e Mora. È quando Ruby il 14 febbraio 2010 arriva ad Arcore, queste tre persone ci sono. E quando viene portata alla villa da Emilio Fede, il direttore del Tg4 è consapevole della sua minore età, avendo partecipato come presidente di giuria al concorso di bellezza svolto si appena qualche mese prima a Taormina». «Possiamo veramente immaginare che in quel contesto una persona che ha quel rapporto di amicizia e fedeltà assoluta con il Premier non abbia avvertito il presidente che stava introducendo nella serata di Arcore anche una minorenne?». Il pm era poi passata ad illustrare il reato di concussione, relativo alla “liberazione”di Ruby dalla questura la sera del 28 maggio 2010. Dopo aver ripercorso le conversazioni della funzionaria in servizio Giorgia Iafrate con il pm dei minori Fiorillo e ricostruito minuziosamente le telefonate di Silvio Berlusconi al capo di Gabinetto della Questura Pietro Ostuni da mezzanotte in avanti (le chiamate, attraverso il cellulare del capo scorta furono almeno 7), ha definito una “scusa grossolana” aver definito Ruby “nipote di Mubarak”, meglio, «una balla colossale».
“TUTTI SAPEVANO”
«Ora mi sembra evidente di aver potuto dimostrare ogni oltre ragionevole dubbio che quella notte i vertici Questura di Milano, a seguito dell’interferenza del Presidente del consiglio rilasciarono la minore e la consegnarono a una prostituta tramite la Minetti». Tutti sapevano, ha detto Boccassini, che Karima era una minorenne, «lo dimostra il semplice fatto che subito ne venne chiesto l’affido e l’affido si può chiedere solo per i minori».
IL CASO
Pussy Riot, sale la tensione alla vigilia della sentenza
Cinque arresti per la manifestazione a sostegno del gruppo femminista. Aumentano gli appelli di solidarietà e si preparano una serie di mobilitazioni in attesa del verdetto. Minacce al giudice. Il governo teme disordini e rafforza le misure di sicurezza. *
MOSCA - Sono accusati di aver violato la nuova legge sulle manifestazioni i cinque attivisti arrestati ieri per l’ennesima protesta a sostegno delle Pussy Riot, le tre donne, in carcere per la loro opposizione alla politica di Vladimir Putin. Lo ha reso noto via Twitter una di loro, Alexandra Anfilova, mentre di fronte all’aumento degli appelli di solidarietà per il gruppo punk, crescono anche i timori di disordini che possano dare alla polizia russa l’opportunità di nuovi arresti. Le artiste sono accusate di teppismo motivato da odio religioso, contro i credenti ortodossi, e rischiano tre anni di detenzione. Tutto questo per aver cantato, indossando un passamontagna, una "preghiera punk" contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore. La sentenza è attesa per venerdì.
"Ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo". Violetta Volkova, avvocato di Nadejda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samoutsevitch, 30 anni, e Maria Alekhina, 24 anni, ha annunciato che si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo per protestare contro "le torture subite" dalle sue assistite. "Non le fanno dormire, non le fanno mangiare in modo normale e vengono continuamente umiliate". L’avvocato ha anche denunciato il fatto che le sia stato impedito di difendere i suoi assistiti, anche impedendole di portare in aula alcuni testimoni.
La protesta. Con il passamontagna colorato, simbolo della band, e cartelli con scritto "beati i misericordiosi", ieri una ventina di sostenitori delle ragazze si sono riuniti sul sagrato della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, per protestare. Un responsabile della sicurezza della chiesa, li ha aggrediti. Secondo le nuove regole adottate la primavera scorsa, che ha inasprito le pene e le sanzioni per proteste non autorizzate, i manifestanti rischiano ora una multa fino a 20.000 rubli (630 dollari) o una sentenza di massimo 40 ore di servizi sociali.
Minacce al giudice. Il giudice che presiede la Corte che sta giudicando il gruppo punk, Marina Syrova, ha ricevuto minacce. Per questo motivo è stata decisa l’assegnazione di una scorta. Aspettando la sentenza, si moltiplicano anche le iniziative di sostegno da parte della società civile.
La mobilitazione internazionale. La vicenda del collettivo femminista russo ha suscitato scalpore e diversi politici e artisti di vari Paesi sono scesi in campo per chiederne la liberazione. L’ultimo appello è quello di Paul McCartney. In una lettera, resa pubblica oggi, l’ex Beatle ha chiesto alle autorità russe di liberare le artiste e poi si è rivolto loro incitandole "a rimanere forti". Ieri è stata diffusa una petizione di Peaches, Simonne Jones e tanti altri musicisti, artisti, attivisti che si sono uniti per produrre un video. 4Martedì un gruppo di intellettuali russi, tra cui il politico Leonid Gozman e il famoso economista Mikhail Dmitriev, hanno scritto una lettera aperta al presidente Putin con la richiesta di grazia. Anche il Consiglio europeo degli Artisti ha mandato una lettera a Poutin per chiedere la liberazione delle tre donne. Dal suo blog, lo scrittore russo, Boris Akunin ha chiamato a raccolta per domani, davanti al tribunale Khamovniki di Mosca, tutti i supporter delle pussy. Bisogna uscire dalla "protesta virtuale" su internet e scendere in strada, ha scritto.
La giornata. Domani è stata indetta una giornata mondiale a favore delle femministe arrestate. Se verrà accolta la richiesta del pubblico ministero, le tre componenti della band dovranno passare tre anni in carcere. Anche le componenti del gruppo che non sono in carcere stanno organizzando una serie di eventi per la giornata di domani. Proprio per timore di manifestazioni spontanee e disordini, la polizia ha fatto sapere di aver potenziato i controlli intorno al tribunale e nelle piazze del centro.
Il corpo delle donne come una bandiera
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 14 agosto 2012)
Usare il (proprio) corpo femminile come manifesto politico. Rovesciare l’ossessione voyeuristica per il corpo femminile che va di pari passo con la marginalizzazione delle donne come cittadine e come esseri pensanti, a vantaggio non dei propri interessi individuali, ma di obiettivi di denuncia politica. È quanto fanno gruppi di donne femministe, soprattutto dell’Est Europeo.
Usando le tecniche del flash mob, le Femen ucraine usano letteralmente il proprio seno nudo per rendere platealmente visibili le proprie denunce contro il governo, contro la trasformazione del loro paese in una sorta di bordello per consumatori internazionali in occasione degli europei di calcio, contro la Sharia, persino contro Berlusconi nel novembre 2011.
Le giovani donne russe della punk band Pussy Riot, quando irrompono con le loro canzoni di denuncia in contesti “sacri al potere” - il Kremlino, la cattedrale ortodossa - si limitano ad esibire minigonne. Ma le maschere che celano il volto alludono ironicamente alla spersonalizzazione delle donne da parte di chi le rappresenta, appunto, solo come corpi fungibili, purché attraenti per chi li guarda e consuma.
L’ultima di queste azioni - una “preghiera” anti-Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca durante una cerimonia religiosa - è costata loro molto cara, con una denuncia da parte del patriarca moscovita, e conseguente arresto. Possono essere condannate ad anni di carcere. Ahimè per loro, non avrebbero potuto essere più efficaci nel dimostrare lo stretto filo che nella Russia di oggi lega il potere politico alla Chiesa ortodossa.
L’uso del proprio corpo da parte di donne femministe, come strumento ed insieme atto comunicativo a fini di disvelamento e denuncia, non è un fenomeno nuovo, né limitato all’Est europeo. Più che l’episodio delle studentesse tedesche che attorniarono a seno nudo il filosofo Adorno durante un episodio di contestazione studentesca nel 1969, per umiliarlo alludendo in pubblico alle sue non sempre represse tentazioni di allungare le mani, è nel settore artistico che se ne può trovare ampia testimonianza.
Le artiste di quella che è stata chiamata l’avanguardia femminista degli anni settanta hanno tutte, in un modo o nell’altro, usato fotografia, film, video e performance per affermare che “il personale è politico” e contro “l’obbligo d’essere belle”. Invece di limitarsi a documentare, certo meritoriamente, l’abuso e la strumentalizzazione del corpo femminile nella comunicazione pubblica, o anche a denunciare come irrispettosa e denigratoria questa o quella pubblicità o spettacolo, queste artiste hanno rovesciato il tavolo, mettendosi esse stesse nella parte del soggetto che comunica con il corpo. Hanno riempito di un’intenzionalità insieme critica e autonoma la messa in scena del corpo femminile, a partire dal proprio.
I “corpi piatti” ed evanescenti di Francesca Woodman, le bambole di carta nell’armadio dei vestititi di Cindy Sherman, le performance di Valie Export, che, in quelle che oggi chiameremmo flash mob, provocava passanti e pubblico mostrandosi di volta in volta come un teatro ambulante da cui emergevano solo le tette o il sesso, che invitava ironicamente a toccare - queste ed altre ancora erano forme di espressione che rifiutavano la pura documentazione e andavano oltre la denuncia, per aprire ad uno sguardo, e ad una comunicazione, diversa.
Né le Femen né le Pussy Riot sono artiste sofisticate come quelle dell’avanguardia femminista. Sembra, però, che ne abbiano ereditato la lezione comunicativa: diventare soggetti anche nella comunicazione del, e con il corpo. Certo, non è l’unico modo, né necessariamente il più efficace, per contrastare il potere (le suore statunitensi, ad esempio, ne stanno mettendo in opera altri per contrastare i diktat del Vaticano).
Ma vedere delle donne che usano allegramente, anche se rischiosamente, il proprio corpo per sbeffeggiare il potere ha un che di liberatorio, specie dall’osservatorio italiano. Ove sembriamo strette tra il dover prendere posizione sul diritto a fare la escort e il perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte seriose, accollate, possibilmente anziane, meglio se nonne, comunque de-sessualizzate
[INTORNO AL ’68, AL FALSO PERNIOLA, E AL BERLUSCONISMO (1994-2012). UNA NOTA DEL 1994..., a margine della polemica tra Franco Berardi Bifo e Mario Perniola
La mente estatica e l’accoglienza astuta degli apprendisti stregoni. Il caso “Perniola”
di Federico La Sala (04.12.1994)
Del sentire (Torino Einaudi, 1991) era il tema del precedente lavoro. Con determinazione e coraggio, ora, Mario Perniola rompe gli indugi e decide di farsi sentire. Il sex appeal dell’inorganico (Torino, Einaudi, 1994, pp.185, L. 20.000) è un’opera al vetriolo, per argomento e scrittura.
Chiariamo. Farsi sentire, non è niente di arbitrario, né di meramente soggettivo: significa, innanzitutto, un “operare su se stessi in modo da uscire dall’impassibilità metafisica e dal dualismo tra attività e passività”, “non subire in silenzio le stucchevoli esibizioni del già sentito, né le pretese totalitarie delle sensologie, ma dare voce, corpo, manifestazione alla nascita sempre ripetentesi che esse non riescono a bloccare”.
Ciò a cui egli mira è l’oltrepassamento della “concezione metafisica del sentire come un patire, come uno stato passivo inferiore e subordinato all’attività intellettuale”: la sua convinzione è che, “se da un lato la dimensione affettiva è già un’operazione intellettuale, dall’altro lato la dimensione intellettuale è già una ricezione affettiva”, “pensare è ricevere ciò che viene da fuori, accogliere, ospitare quanto si presenta come estraneo ed enigmatico” (Del sentire, cit. , pp. 93-95). E il vetriolo non è tanto e solo l’acido gettato addosso ai suoi colleghi filosofi (“Trovo più affinità col rock - ha dichiarato in una recente intervista sugli argomenti del libro - che con il pensiero debole”) per sfregiarne il volto accademico, quanto e soprattutto il “viaggio iniziatico” (Visita Interiora Terrae [Terra = corpo] Rectificando Invenies Occultum Lapidem) di chi ha trovato la pietra dei filosofi, si è trasformato in una cosa che sente e ha scoperto “la chiave per intendere tante e disparate manifestazioni della cultura e dell’arte attuali” (p. 3): “non l’arte, ma solo la sessualità può farci vedere e sentire la cosa come cosa” (p. 167) - la sessualità neutra (“Essa emancipa la sessualità della natura e l’affida all’artificio, il quale ci apre un mondo in cui non hanno più importanza la differenza tra i sessi, la forma, l’apparenza sensibile, la bellezza, l’età, la razza” p.5).
Ciò di cui egli scrive, infatti, non è più il frutto di una riflessione sulle riflessioni di esperienze altrui (cfr. i suoi lavori su Bataille, i Situazionisti, Blanchot, Nietzsche, Baudrillard, ecc.), ma il frutto di una riflessione su un’esperienza estatica (benché mimetizzata tra le righe e collocata in un orizzonte teorico carico di equivoci), di cui è stato protagonista, segnata da una sospensione dell’ordine della rappresentazione, dal “sentirsi non più Dio, né animale, ma una cosa senziente” (p. 8), e ... dalla volontà di proporsi come il filosofo fortissimo della sessualità neutra (“il punto di arrivo di un cammino che è sempre appartenuto” alla filosofia) e dello scenario contemporaneo (“il cui protagonista non è Dio, né l’animale, e tantomeno l’uomo, ma la cosa”, p. 21).
Fachinelli scrive, a riguardo: “Ciò che si genera nel vuoto, nell’esterna rarefazione [delle situazioni estatiche], è ciò che si è cercato. Si trova ciò che in noi qualcuno, al di là dell’io, cercava: Dio, l’arte, la scienza: o anche, immediatamente, semplicemente, la sospensione del tempo della caducità. In generale: una nuova figura del mondo. Il rinvenimento è sempre singolare, e rimanda alla singolarità del cercatore. Ma questa sorge dal fondo comune del corpo, se è vero che il passaggio dal vuoto al pieno presuppone il corpo come mediatore indispensabile”; “Norma di se stessa, questa esperienza non tollera alcuna apologetica e rifiuta qualsiasi subordinazione (alla teologia, all’estetica, alla scienza). La si conosce solo attraversandola. Hodie Legimus in libro experientiae” (E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 30-31 e 34).
Come interprete della propria esperienza di vita, a dir poco, Perniola si mostra molto ingenuo. Una minore superficialità autoanalitica e una maggiore attenzione alla decisiva ricerca di Elvio Fachinelli, così come meno risentimento nei confronti dei teorici del pensiero debole, forse, gli avrebbero evitato passi falsi e alti livelli di inflazione ego-logica.
Procediamo con calma, e chiariamo. Al sex appeal dell’inorganico si accede solo “quando il mio corpo e quello del mio partner perdono la loro ovvietà di corpi animati e funzionanti, di forme espressive e rappresentative, di mezzi individuati al raggiungimento di scopi precisi...(p. 166): esso abolisce ogni opposizione e “immerge il sentire in un interminabile sbigottimento, e - perché non dirlo - ci dona l’esperienza della realtà” (pp. 166-167). Egli si rende conto che, “per entrare nell’anonimo e impersonale territorio delle cose che sentono bisogna saper dire [reciprocamente da parte di entrambi i partners] «fai di me ciò che vuoi» ” (p. 27), e saper “sospendere le quattro passioni fondamentali, il piacere, il dolore, il desiderio e la paura” (p. 166), ma poi capovolge tutto e, come sempre è avvenuto in filosofia (il novello Teseo abbandona sempre la novella Arianna), hegelianamente, fa del risultato il cominciamento: “il maestro dell’eccitarsi e dell’accendersi della sensazione è il sex appeal dell’inorganico” (p. 167).
Vere duo in carne una: egli giunge a riconoscere che “ il mutuo e vicendevole darsi e prendere come cose non [è] affatto un vizio, ma una virtù, anzi la sola condizione dell’esercizio della sessualità” e che “vedono più a fondo nell’essenza della sessualità coloro che considerano il matrimonio come un sacramento [...] come attinente al fas, al diritto divino, e non allo ius, al diritto umano” (p. 26), ma poi si vieta - come aveva già fatto Hegel ai suoi tempi - di ammettere che solo l’amore è il vero maestro dell’iniziazione ai “misteri nuziali” (ama l’Amore e fai di me ciò che vuoi), che accende la sensibilità e introduce alla sensualità neutra né dello sposo né della sposa, ma di entrambi: “nel sex appeal dell’inorganico non c’è strazio, né soggetto, né rispecchiamento, né interiorità, né esteriorità”, (p. 120); “un impersonale «si sente» prende il posto delle forme soggettive del sentire [...] si sente insieme con estrema evidenza e con sospensione, come in una specie di epoche colorata e intensa”, (p. 167).
Questo mancato riconoscimento lo porta fuori strada e non gli permette di capire che il problema fondamentale della filosofia non è tanto e solo farsi sentire (e sentirsi Dio, animale e cosa) quanto e soprattutto se e come dare ascolto e risposta a chi e a ciò che bussa alla porta della sensibilità (io intuisco, mi faccio sentire), si fa sentire e chiede di essere riconosciuto dall’intelletto e accolto dalla coscienza (Io penso e Io voglio).
E così, dopo Kant (e senza nemmeno un’analoga confutazione dell’idealismo), ripete lo stesso errore: il filosofo, nell’andata (nell’esperienza), si toglie i panni accademici e osa riconoscere la piena autonomia della sensibilità, nel ritorno (nella riflessione), rientrato in Accademia e rimessi i vestiti del vecchio intelletto e del vecchio io, la nega e comincia ad affermarsi: “spetta oggi proprio al filosofo proclamare la grandezza e la dignità di una sessualità senza vita e senza anima; è il suo impegno e la sua responsabilità dire che il regno delle cose non è tanto il trionfo della tecnica e del capitalismo, quanto l’impero di una sessualità senza orgasmo; così finalmente proprio nell’attimo che sembra più irrazionale, casuale e fragile, quello dell’eccitazione sessuale, viene mostrata la potenza della filosofia, al cui appello non riesco a sottrarmi, anche volendolo” (pp. 14-15).
Non ridere, né piangere. Oggi abbiamo gli strumenti per comprendere il vecchio gioco di Edipo. Ogni figlio uccide il padre-re, uccide la donna sfinge, sposa la madre-regina e proclama urbe et orbi: Io sono lo sposo e il re, io sono l’autorità e la legge!
La ripetizione della tragica dichiarazione, oggi, suona così in filosofia: “Il filosofo che si sente cosa ha l’impressione di trasgredire la tradizione che lo ha rappresentato come soggetto, persona,spettatore,attore; ma nello stesso tempo questa trasgressione è fedeltà nel proseguire quel movimento di innovazione paradossale, di superamento e di oltrepassamento imposto da Hegel e da Nietzsche” (p. 17). E sollecita ogni filosofo-custode a riconoscere la sua autorità: “nei secoli fedele”, a chiunque prende il posto del padre-re accanto alla madre-regina (sapienza nell’accademia).
Questa trasgressione è fedeltà: non ci sono inganni, dice Perniola ai suoi colleghi dell’accademia. L’estremismo speculativo della filosofia del sex appeal dell’inorganico non è altro che interpretazione e apologia della “suprema volontà di potenza” platonico- nietzscheana - “imprimere al divenire il carattere dell’essere” (F. Nietzsche, Opere, VIII, 1, p. 297, Milano, Adelphi, 1975): si tratta di imprimere al sentire il carattere dell’intelligenza attuale, quella artistica, “Insomma la cosalità [di cui parlo] - precisa Perniola - non ha niente a che fare con un realismo conoscitivo che afferma la realtà del mondo esterno e la sua trascendenza rispetto al pensiero. Il tipo di conoscenza cui il sex appeal dell’inorganico ci inizia è più prossimo all’immaginazione tecnica che all’epistemologia, nel senso che non si preoccupa tanto delle condizioni dell’oggettività delle proprie esperienze quanto della ricerca di esperienze-limite che allargano insieme gli orizzonti del sentire e del sapere” (pp. 139) della nostra tradizione tecno-logica e capitalistica.
Di destra o di sinistra, dopo Lenin, l’estremismo è una malattia infantile ... Dissociazione, rimozione e volontà di potenza costringono il nostro filosofo nelle maglie edipiche, lo confondono e, alla fine, lo riducono alla Ragione. Dura Lex sed Lex: si entra “in due nel territorio del sesso neutro” (p. 164), ma solo uno può accedere nel territorio della filosofia.
Perniola, come Garibaldi e meglio di Cartesio, afferra il concetto, impone con le buone maniere (“ci vuole molta purezza, onestà e perfino candore”, p. 16) alla sessualità “la sospensione speculativa della libido” (p. 17) e, padrone del proprio e altrui sentire, esibendosi in una girandola di negazioni del diniego (“Questo processo è reso possibile da una scissione dell’io [...] che ci consente di negare la differenza sessuale pur riconoscendola parzialmente: esso implica un rapporto di sostanziale estraneità nei confronti del vero sesso femminile”, pp. 76-77), obbedisce: Io penso “l’idea stessa della cosa senziente” (p.11), Io sono il filosofo del sex appeal dell’inorganico.
E come all’Università, così a casa, “contro le anime belle della liberazione sessuale e della contestazione universitaria”, l’opposizione eccessiva (si allea con l’integralismo cattolico-musulmano) e riafferma il valore della Legge: “E’ ora di vedere il matrimonio e l’università dalla parte del male, come spacciatori di eccessi sessuali e filosofici cui non si può rinunciare, anziché dalla parte del bene come rimedi alla libidine sessuale e a quella conoscitiva” (p. 25).
L’inquietudine è svanita e l’enigma è stato risolto: “il confluire in un unico fenomeno di due dimensioni opposte, quali il modo di essere della cosa e la sensibilità umana” (p. 5) - “l’evento paradigmatico chiave intorno a cui ruota la società e la cultura contemporanea” (p. 145), è stato ben rimosso e posto nel rinnovato Ordine Mondiale.
Ciò che è inorganico è razionale e ciò che è razionale è inorganico! La filosofia, portata la sessualità (“triviale e parola non capita”, p. 16) fuori dal vicolo cieco in cui il sadismo la conduce” (p. 35) e ospitata nella sua casa (“connubio”, p. 3), finalmente, realizza il suo antico sogno “di transitare in dimensioni reali” (p. 16): “la sessualità inorganica è simile ad una eccitazione appagata e implica una reciprocità, una comunanza di sentire tra i partner impegnati in essa, e addirittura una specie di entusiasmo intellettuale, di eretismo cerebrale, di estremismo concettuale che derivano dalla filosofia [...] il sex appeal dell’inorganico è piuttosto un farsi mondo, un abolire la distanza che separa l’uomo dalla cosa” (p. 123). Il filosofo del dissolvimento della soggettività ha vinto i filosofi del pensiero debole, ma chi più chi meno si è consegnato mani e piedi alla propria Signora - la Tecnica.
Come avevano capito Horkheimer e Adorno (Dialettica dell’Illuminismo, Torino, 1980), chi per salvare o per salvarsi, si chiama Nessuno e adopera l’assimilazione allo stato di natura (naturale o artificiale) cade in preda alla hybris. Come a casa così all’Accademia, la logica del sado-masochismo imperversa e devasta le menti e i corpi degli uomini e delle donne, e la comune Terra. E la filosofia ricade nel pantano della totale apologia del vecchio passato, ancora presente, contrabbandato come futuro.
Oggi però, non c’è solo e ancora la servetta tracia a ridere (in strada e a piangere a casa): ci sono donne e uomini con i piedi per terra e lo sguardo sereno, pieno di vita e di amore (vita tua, vita mea) - coraggiose e coraggiosi, entrambi accoglienti, anche nei confronti di chi si attarda in brutti e vecchi sogni.
Al di là di ogni naturalismo e al di là di ogni idealismo, essi ed esse hanno trovato l’accesso a un nuovo rapporto sociale di produzione e a una nuova forza produttiva. Con Marx, con Freud, con W. Reich, con E. Paci, con Fachinelli e tantissimi altri e tantissime altre, hanno capiti che “l’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita” e possono “anche governarla” (W. Reich) - come all’interno, così all’esterno; come a casa, così all’Università; come in famiglia, così nello Stato. La favola delle api (Bernard de Mandeville, 1705) è finita: gli uomini e le donne della terra hanno già dato inizio a un’altra storia. Al di là di ogni integralismo Tecnologico, Teologico e Politico, si amano e fanno ciò che vogliono - con sensibilità, intelligenza e coscienza, amorevolmente unite.
Federico La Sala
Non possumus
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 27.09.2011)
Parlando in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia «i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie», quando ricorda il «danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà».
Quando cita l’articolo 54 della Costituzione e proclama: «Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore». Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l’immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l’Italia, e all’estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: «Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto».
Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi «sull’ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati» e giunge sino a dirsi «colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate»: sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i «comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui»; «l’improprio sfruttamento della funzione pubblica»; i «comitati d’affari che, non previsti dall’ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt’altro che popolari»; l’evasione fiscale infine, «questo cancro sociale» non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo «non possumus».
Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: «La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un’invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un’evenienza grave, che ha in sé un appello urgente».
La questione morale non è un’invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l’arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un’interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l’amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.
La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un «santo puttaniere»? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare «sì sì», «no no», il di più viene dal maligno». Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: «Colpisce la riluttanza a riconoscere l’esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l’impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità».
Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l’omelia pronunciata l’11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.
Demondanizzarsi, riscoprire l’umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l’antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell’Indice condannò il grande libro, nel 1849). «La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?» lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l’Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: «Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti».
Tutti zitti sul porno-sacrilegio
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2011)
Davvero enigmatico il prolungato silenzio di monsignor Rino Fisichella, da tempo in odore di porpora cardinalizia, dati i suoi trascorsi di cappellano di Montecitorio e dunque direttore spirituale e confessore di tanti “eccellenti”. Sono passati ormai 4 giorni dalla clamorosa intervista a questo giornale in cui una partecipante ai festini/mercimonio di Berlusconi ha raccontato il pornosacrilegio che ha visto la consigliera regionale Nicole Minetti (eletta nel listino bloccato personale di Formigoni, guru storico di Comunione e Liberazione) vestita da monaca esibirsi in uno spogliarello sexy al palo della lap dance, molto efficace, sembra (“un bellissimo spettacolo, davvero”), e - una volta che la consigliera di Formigoni è completamente nuda - concluso dal premier che smaneggia un crocifisso piazzandoglielo prima tra le tette e poi tra le cosce mentre biascica una personalissima variante della benedizione canonica (“ha detto ‘Dio santo ti benedica’; poi le ha appoggiato il crocifisso sulla testa, tra le gambe e sui seni”).
CI ASPETTAVAMO che monsignor Fisichella intervenisse prontamente, come già in passato a proposito di un exploit del premier bestemmiatore, per invitare i fedeli troppo facili a scandalizzarsi (facendo il gioco dei comunisti, ça va sans dire) a contestualizzare il comportamento dell’ex compagno di merende di Gheddafi, relativizzandolo ad esuberanza ludica. Invece nulla. Evidentemente quel comportamento non esige neppure una cattolica contestualizzazione: va bene così. Del resto nessun altro giornale l’ha ripreso, e nessuna delle tante trasmissioni di approfondimento che, in assenza di Annozero, confermano così di essere civilmente e giornalisticamente superflue (civismo e giornalismo dovrebbero fare una cosa sola, secondo “leggende” come Joseph Pulitzer, e ancor prima come il grande storico dell’Ottocento Jules Michelet).
Evidentemente, tanto la Chiesa gerarchica quanto il giornalismo embedded considerano che l’episodio sia irrilevante sul piano pubblico. Sia chiaro, noi siamo tra i pochissimi a credere davvero che la vita sessuale e privata di ciascuno vada rigorosamente rispettata (gli “attenzionamenti” di Pio Pompa hanno avuto sanzioni? Anche solo morali? I nostri “garantisti” un tanto al chilo farebbero meglio a tacere), e che ogni incursione in esse vada severamente repressa. Con le eccezioni e i limiti che ciascuna persona pubblica stabilisce ella stessa.
Nei giorni scorsi, dopo il tragico esito di un gioco sadomasochista in un garage di Roma, uno dei guru in fatto di “bondage” ha raccontato (cronaca di Roma di Repubblica) come gli adepti siano tantissimi, di ogni ceto sociale, e nella “comunità” fosse presente un notissimo politico da poco promosso ai vertici di un importante partito. Giustamente nessuno ha approfondito, e anzi quella stessa dichiarazione, forse non sufficientemente criptica, era censurabile.
Ma l’onorevole che propone una legge contro l’omosessualità non può lamentarsi se un cronista svela una sua relazione gay, il ministro che tuona contro la prostituzione ha già stabilito la legittimità (anzi doverosità) di uno scoop che lo colga in meretricio sollazzo, il candidato tutto casa e chiesa e indissolubilità del matrimonio non può obiettare se una o più famiglie parallele finiscono in pasto a lettori e telespettatori. Per non parlare delle campagne contro l’aborto.
Perciò, i porno-sacrilegi con crocifisso tette e cosce cui si dedica il succube di Tarantini nella sua villa di Arcore (strappata per un tozzo di pane a un’orfana minorenne grazie alle cure dell’avvocato Previti, non dimentichiamolo) sarebbero vicenda privata, se il puttaniere-premier avesse condotto le campagne elettorali sventolando l’opera omnia del marchese de Sade come personalissimo “Mein Kampf”.
Ma il Berlusconi porno-sacrilego è lo stesso che come capo del governo ha sostenuto con grande dovizia di mezzi pubblici un contenzioso di fronte ai tribunali europei, il cui oggetto era l’irrinunciabilità del crocifisso in tutte le aule scolastiche dello Stivale, perché simbolo altissimo di civiltà, sacralità, identità e chi più ne ha più ne metta.
PERCIÒ L’USO che Berlusconi fa del crocifisso, il suo teatrino di “messe rosa”, di propiziazione e supporto a una virilità idraulico-artificiale evidentemente indigente, è questione di rilevanza pubblica. Il silenzio dei media in proposito si chiama censura e viltà, fino all’omertà. Quello della Chiesa gerarchica rientra invece piuttosto tra gli effetti collaterali di una vocazione simoniaca che con Ruini, Bertone e Bagnasco è di nuovo prepotentemente riaffiorata.
Se Bertone cita domenica un richiamo di Benedetto XVI ai laici (del settembre 2008), secondo cui devono essere “testimoni di coerenza tra i principi, la vita spirituale che praticano, e i comportamenti” e fa il pesce in barile per quanto riguarda nomi e cognomi, rifiutando anche la più obliqua, “gesuitica” o sibillina allusione al puttaniere di Arcore, è perché non c’è sacrilegio ne spudorata infamia morale che prevalga per il Vaticano rispetto al sontuoso piatto della bilancia dove pesano l’8 per mille, le esenzioni Ici, le anticostituzionali munificenze alla scuola privata, il bacio della pantofola allo Ior, la tortura di Stato per i moribondi, e le altre infinite delizie mondane e spirituali che la Cei ha ottenuto in questi anni dal regime.
Una volta di più, tra Dio e Mammona la Chiesa cattolica gerarchica sceglie inequivocabilmente Mammona.
Il trattatello immorale della signorina Terry
di Concita De Gregorio (la Repubblica, 19 settembre 2011)
No, non è gossip. È un trattato di antropologia culturale quello che Terry D e Nicolò, probabilmente Teresa, consegna al suo intervistatore in un video che da giorni migliaia e migliaia di persone stanno scaricando in rete. Un trattatello immorale in dieci semplicissimi punti, l’abbecedario della mutazione genetica di cui Pier Paolo Pasolini fu profeta e Silvio Berlusconi responsabile, per un trentennio suadente magnaccia. Colpevole del delitto politico di istigazione alla prostituzione di una generazione intera, corruttore morale e culturale di un Paese.
Sconcertante, ipnotica nel suo non essere mai sfiorata dal dubbio, semplicemente sicura di essere nel giusto la ragazza barese che ha trascorso le sue notti a pagamento in letti di destra e di sinistra fino ad arrivare al Letto Supremo espone in dieci minuti la quintessenza del berlusconismo. Parla all’Italia e molta parte dell’Italia - bisogna dirlo molto chiaro, questo - la trova ragionevole. Una ragazza che sa quello che vuole, che sa stare al mondo. Del resto, molta parte dell’Italia politica, da diverse latitudini, le ha dato ragione.
Dunque no, non faremo troppi pettegolezzi anzi non ne faremo alcuno. Semplicemente proviamo a decifrare le parole di una ragazza di vent’anni che ci spiega come si vive nel Paese in cui abitiamo, l’Italia com’è diventata. Dice Terry De Nicolò che «Tarantini è un imprenditore di grande successo, un mito». L’uomo che ha messo a verbale che «le donne e la cocaina favoriscono gli affari», che ha barattato prostitute in cambio di appalti, che con la moglie ha messo in piedi una ragnatela di ricatti per i quali è oggi agli arresti, è «uno che è riuscito ad arrivare all’apice, e non è da tutti». È stato bravissimo e lo è, perché lui «ha vissuto giorni da leone mentre gli altri vivono 100 anni da pecora». Mussolinianamente, un mito. Se ora si trova nei pasticci è per via «dell’invidia, sono tutti invidiosi, è tutto mosso solo dall’invidia». Quindi, il sottotesto è: quello che conta è arrivare all’apice. Non importa come, anzi bisogna sapere come - con le donne, la cocaina, il ricatto - e semplicemente farlo.
Non esiste un problema di rispetto delle leggi, esiste la legge di natura, che è la seguente: «Quando sei onesto non fai grande business, rimani nel piccolo. Se vuoi arrivare in alto devi rischiare in proprio, devi rischiare il culo. Per avere successo devi passare sui cadaveri degli altri ed è giusto che sia così». È giusto che sia così. Chi lo nega non è mosso da una diversa visione delle relazioni fra gli uomini ma da un risentimento personale: è invidioso, perché tutti potendo farebbero come Berlusconi, se non lo fanno è perché non possono. Difatti la sinistra «ha rotto le palle» con questa «idea moralista che tutti devono guadagnare duemila euro, tutti devono avere i diritti». Eccheppalle, i diritti. «Se vuoi guadagnare ventimila euro al mese ti devi mettere sul campo. Ti devi vendere tua madre. È così». Dunque apparentemente l’alternativa è guadagnare due o ventimila euro al mese, ventimila essendo la cifra appropriata al bisogno di ciascuno.
Qui va detto che l’esegeta del berlusconismo dimostra pochissima conoscenza di un Paese in cui anche i duemila sono per una moltitudine una chimera. Ma è un difetto di dettaglio. Dunque, abbiamo detto: rischiare il culo e vendere tua madre. Si fa così. A sinistra, garantisce la ragazza che ne ha contezza, è lo stesso: «Solo che sono più loffi e non pagano». Fra l’originale e la copia è sempre meglio l’originale. Difatti per andare dall’Imperatore devi mettere una collana di smeraldi, «per andare con Frisullo ti puoi anche mettere la collanina dei cinesi». E veniamo dunque al cuore della questione: la prostituzione. Le donne usate come tangenti, retribuite per fare sesso: pagate in denaro, in seggi, in consulenze a Finmeccanica, in posti al parlamento o all’europarlamento e anche di più.
E allora? Il problema qual è? Dice De Nicolò: «La bellezza, come dice Sgarbi, è un valore. È come la bravura di un medico. Se sei bella e ti vuoi vendere devi poterlo fare. Se sei racchia e fai schifo devi stare a casa. È così da che mondo è mondo. Tutte queste storie sul ruolo delle donne, che palle, quelle che non lo vogliono fare stiano a casa e non rompano i coglioni». Cioè: se una ha belle gambe non ha altri problemi della vita, ogni donna è seduta sulla sua fortuna come scrivono persino certi editorialisti, le belle vendono la patonza come i dottori la loro sapienza e finita lì. Le racchie a casa, a meno che non vogliano investire sul futuro: che significa farsi la quinta di reggiseno dalchirurgo e tirarsi un po’ su le natiche. Una piccola spesa che vale la partita, l’Esteta apprezzerà e ti retribuirà per questo. L’Esteta, dice proprio così Terry De Nicolò, è l’Imperatore: «Davanti all’Imperatore non ti puoi presentare con una pezza da cento euro, devi avere minimo un abito di Prada. Perché lui è un esteta, apprezza la bellezza».
A chi dovesse obiettare che si tratta "solo" delle opinioni di una prostituta faremo osservare alcuni dati di cronaca recente. Nei licei le ragazzine di sedici anni - non tutte, parecchie - hanno il book fotografico. Delle ragazze che visitano palazzo Grazioli una viene accompagnata in auto dal padre. Il genitore di una di quelle non ammesse minaccia di darsi fuoco. La madre della giovane che dal bagno del presidente del Consiglio la chiama per dire "mamma indovina dove sono" le risponde brava anziché chiamare la polizia. Il fratello della presunta fidanzata del premier, un giovane dell’hinterland torinese, famiglia operaia, alla domanda: è proprio sua sorella la fortunata? risponde «magari». La professoressa della scuola di Noemi Letizia, all’epoca minorenne, intervistata in tv dice «chi non vorrebbe essere amica di un uomo così potente?». Certo, naturalmente: non tutta l’Italia è così. Non tutte le ragazze sono in fila per accedere al lettone di Putin, la manifestazione delle donne di febbraio lo ha mostrato. Tuttavia ce n’è abbastanza per dire che un modello di vita si è imposto, in questi anni. È il modello della prostituzione. È da sfigati dire che compito di un uomo di governo non è "foraggiare" le prostitute con buste da diecimila euro ma offrire loro possibilità alternative di vita e di lavoro. Se poi si azzardano a dare voti ai loro amanti, come Manuela Arcuri fa alle Iene, vengono depennate come volgari. Volgare cosa? Istigare alla prostituzione o piegarsi alla legge di mercato? In definitiva, volgare è dare voti sfogliando il catalogo degli uomini di cui si è fatta esperienza. «Questo ha fatto cilecca», ha detto ridendo Manuela Arcuri, ed è stata per questa colpa esclusa dalla lista. Più del giudizio dei tribunali l’Esteta teme, si vede, quello delle sue concubine. Nel tempo di cui l’Imperatore detta le regole l’impotenza è il solo fallimento intollerabile. A Terry De Nicolò, tribunale supremo, l’ultima parola.
L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI
Il peggio femminino
di Lameduck [la’me duc] *
"Questo patto [dichiarazione di voto, n.d.a.] vogliamo stipularlo con Lei e non col prof. Prodi: la sua campagna fatta di ’serietà’ e ’sacrifici’ non ci piace, ci intristisce e ci fa un po’ spavento. E noi signore lo lasciamo volentieri perdere. ’La bellezza salverà il mondo’." (Dalla Lettera aperta delle donne a Silvio Berlusconi, marzo 2006)
Quando tutto sarà finito e ci aggireremo tra le macerie fumanti di questo disgraziato paese, bisognerà fare un discorsetto come si deve alle donne che hanno popolato, appoggiato, sfruttato ed acclamato il maledetto regime del Drago Flaccido per tutto questo tempo. Qualche testolina da rapare metaforicamente a zero per intelligenza - anzi incoscienza - con il nemico, insomma, non guasterebbe.
Non è un mistero che proprio le donne siano state lo zoccolo duro dell’elettorato del Nano della Provvidenza. Non solo le patetiche vecchie passerottine comperate last minute con il cestino da viaggio dei poveri - panino al salame e mezza minerale - e mandate di fronte a Palazzo di Giustizia a fare claque. Non solo le signore bene e male tradizionalmente sensibili ai richiami del populismo fascista e del conservatorismo protettore del privilegio ma milionate di donne di tutte le classi sociali, anche le più umili, che gli si sono donate senza indugio come ringraziamento per essere state sedotte e condizionate pavlovianamente dalla sua cura Silvio-Ludovico.
Ore ed ore, giornate intere per trent’anni a farsi rincoglionire ed offendere da trasmissioni oscene per ignoranza e volgarità, senza che nessuna avesse il buon gusto di spegnere l’ordigno infernale e rifiutarsi di comperare i rovagnati, i mulini bianchi e tutte le cianfrusaglie che avrebbero finanziato altra televisione immonda, altra merda da far colare nel loro salotto, in un loop consumistico e culturalmente degradante senza fine.
L’oscenità che ci ha fatto rabbrividire in "Videocracy" e ne "Il corpo delle donne" le italiane l’hanno tollerata senza fiatare per decenni senza accorgersi di come questo condizionamento tette-culi stesse scavando come una talpa nell’inconscio maschile infettandolo con l’idea che le donne debbano essere sempre e solo categorizzate secondo un sistema binario in strafighe vs. cesse, minorenni vs. vecchie, chiavabili vs. inchiavabili, madonne (le loro madri) vs. troie (il resto del mondo).
Quando il responsabile di tale schifezza è sceso in politica, invece di evitarlo come la peste, lo hanno votato, gli hanno affidato le loro vite e quelle dei loro figli. Del resto anche nella vita reale capita ad esempio che siano proprio le donne a volte - magari per stupidità ed incoscienza - a dare in pasto i figli ai pedofili, specie se di famiglia. Sarà il riflesso nei confronti del maschio dominante.
Ora le donne che lo hanno votato si adontano. Il vecchiaccio in fondotinta non riesce a difenderle dalla crisi perché ha perso troppo tempo a difenderle dai comunisti e si sentono punte nel vivo soprattutto per il fatto delle mignotte.
Lì per lì, quando Veronica già nel 2007 le aveva avvertite non le avevano creduto. L’avevano considerata un’ingrata che osava toccar loro il Silvio. Avevano svuotato la sacca del veleno. Poi, a furia di martellare, scandalo dopo scandalo, identificandosi nella moglie cornuta con il marito che va a puttane e per giunta più giovani, nella dura scorza dell’elettorato femminile papiminkia si è formata una crepa strutturale, sintomo di crollo imminente del mito.
A proposito, è inquietante che si debba essere d’accordo con uno come Edward Luttwak che ha dichiarato Veronica "vera patriota italiana" per essere stata la prima a ribellarsi al Drago.
Che siano pentite o meno, le elettrici di B. non hanno comunque scuse: sono colpevoli di favoreggiamento continuato al regime.
Anche le donne di centrosinistra hanno latitato nel denunciare come la televisione italiana stesse diventando null’altro che lo specchio della personale perversione sessuale di un vecchio libidinoso. Una manifestazione ogni trent’anni, la famosa "Se non ora quando" è francamente un po’ pochino, soprattutto per quello che contano ormai le manifestazioni. Uno sciopero delle consumatrici, ad esempio, avrebbe fatto più male.
Il regime però non ha espresso solamente un elettorato femminile da vergognarsi ma soprattutto una classe dirigente in tacchi a spillo che è il peggio del peggio femminile. Il berlusconismo si è fatto rappresentare ed ha portato al potere, coprendole di denaro, carriere e ciondoli per farle star buone, le sciurette cotonate, le zie ricche fasciste, le imprenditrici coscialunga e cervello fino, le figlie-di, le terruncielle rampanti con la specializzazione in arti bolognesi, le zoccole e basta, le minorenni che vanno per i trentacinque, le casalinghe di Voghera, le anelle mancanti razziste con il terrore del negro, le pozze di ignoranza abissale elevate a ministre dell’istruzione e quelle che maitresse si nasce e loro lo nacquero. Un mare di nullità femmine abituate a funzionare in modalità cervello automatico con schede preprogrammate; sacerdotesse della vita facile e della carriera molta spesa e poca resa grazie alla coscia allargata, tutto a spese dei contribuenti. Tutte bonazze perché, come ha recentemente dichiarato la sacerdotessa che parla come Vito Catozzo, "le racchie devono stare a casa". A casa anche le brave e le intelligenti, era sottinteso. Perché il combinato di bella & intelligente rischia di far andare in sovraccarico il sistema. Il berlusconismo, per stabilizzarsi, deve annichilire l’intelligenza, la creatività e la competenza della donna. Deve essere solo il Trionfo della Cretina.
E bastava guardare le sue televisioni per capirlo con anni di anticipo ed evitare i danni catastrofici che stiamo subendo.
Menzione d’onore alla Marcegaglia che, se non altro, dimostra più coraggio e determinazione di Bersani nel parlare di "salvare l’Italia" ma per il resto? Che facciamo per ricostruire culturalmente il paese?
Una seria e profonda autocritica da parte dell’universo femminile per le colpe che ha avuto nell’aver tollerato ed appoggiato questo schifo del berlusconismo non guasterebbe. Magari cominciando da un bel "che cretine siamo/sono state a votarlo", "che farabutte quelle madri che spingono le figlie a vendersi per una comparsata in TV o la borsa di Prada", o "che vergogna non aver denunciato prima il degrado culturale".
Questa autocritica dubito la si troverà mai nei siti femministi.
Confesso che non riesco più a seguirli. Fatico ogni giorno di più a capire il loro linguaggio e mi infastidisce fino all’orticaria quell’atteggiamento di assoluta e dogmatica giustificazione verso tutto ciò che fanno le donne; una sorta di vittimismo da minoranza etnico-religiosa sempre più piagnone e ricattatorio. Noto sempre più di frequente l’assenza pressoché totale di autocritica per i milioni di errori che commettono ogni giorno le donne, come è normale che sia, vista la loro natura umana. Per le femministe paiono non esistere donne cattive, stronze, disoneste, addirittura assassine. Se lo sono non è mai colpa della loro natura umana ma del maschio che le ha disegnate così e che le opprime. Nell’universo femminista c’è questo gigantesco Godzilla cazzuto che si aggira sfracellando ponti e palazzi, minacciando costantemente l’esistenza delle sue povere vittime. Una visione che non è obiettiva perché profondamente fobica e unisessuale.
Se critichi il puttanaio che circonda, volontariamente, il satrapo nano, ti rispondono, le sorelle femministe, come ti permetti di giudicare, visto che "siamo tutte puttane", - dimostrando di non conoscere la differenza tra il ruolo, il mestiere e la forma mentis di puttana, che non sempre si sovrappongono e, per tagliare il discorso, concludono che il problema è che tanto siamo tutti sfruttati in questo mondo, quindi che vuoi? Quindi un par di balle. La ricostruzione dell’immagine della donna italiana, per esempio a cominciare dalla riscoperta e valorizzazione di tutti i talenti femminili, non solo della figaggine, non può che partire dall’autocritica. E da noi stesse.
Berlusconi, altro che Medio Oriente
con Netanyahu parla del bunga bunga
IL VIDEO. Il premier, riferendosi al quadro alle sue spalle che raffigura il Parnaso, chiude così il vertice intergovernativo Italia-Israele: "Quello sono io, l’altro è Apicella..."
Rubygate. Le sue bambine
di Ida Dominijanni (il manifesto, 14.04.2011)
Silvio Berlusconi potrà pure scamparla con la prescrizione breve e col processo lungo sui casi Mills e Mediatrade. Potrà perfino riuscire, grazie al genio dei suoi avvocati, alla servitù della sua corte e al potere del suo danaro, a costruire, nel processo Ruby, una verità giudiziaria diversa dalla verità effettiva (si sa che esse raramente coincidono). Ma sa lui stesso che nel caso Ruby c’è scritta la sua fine. Firmata dalle testimoni. Donne. E’ il punto cruciale su cui ha sbagliato i suoi calcoli: «le sue bambine» non sono tutte a sua disposizione. Quale che sarà la verità giudiziaria, è firmata da loro la sua fine politica. E con la sua fine politica, la fine di un’epoca, di un’etica e di un’estetica.
Non sono nuovi i fatti che emergono dalle deposizioni, rese spontaneamente, di Ambra Battilana e Chiara Danese, meno di diciannove anni ciascuna oggi, poco più di diciotto al tempo, agosto 2010, della loro prima e unica cena a Arcore: i particolari inediti - e raggelanti - confermano e aggravano un quadro già noto, e al quale il premier conta, quando la mette in burletta ostentando pubblici inviti al bunga-bunga, che ci siamo assuefatti. Nuovo però è lo sguardo, nuova è la voce, nuovo il vissuto e lo sconcerto delle due ragazze. A conferma che in questa storia quello che è decisivo non sono i nomi comuni - escort, prostitute, veline, meteorine - con cui si continuano a guardare le protagoniste e le comparse, ma i nomi propri, le storie singolari e le parole singolari; la singolare posizione di soggetto che ciascuna riesce o non riesce a conquistare, contro la comune condizione di oggetto cui il sultano e i suoi complici le vogliono costringere.
Soggetto non si nasce, si diventa: bisogna che qualcuno o qualcosa ci interpelli, perché riusciamo a dire «io». Può essere il richiamo della legge, può essere lo scandalo della menzogna. Per Chiara e Ambra, è lo scandalo della menzogna di un premier che sulla scena pubblica definisce «cene eleganti» quelle serate fatte di volgarità trash, con seni e sederi che si offrono alla sua bocca, barzellette «tanto sconce da essere irritanti» e statuette falliche da adulare a mo’ di totem ma senza tabù. Sentirle definire eleganti, «proprio no», non era sopportabile, dice Chiara. E nemmeno era sopportabile, aggiunge Ambra, vedere il proprio nome associato, su Google, al bunga-bunga, oppure, sui giornali, a un numero, quello delle trentadue (o cinquantacinque che siano diventate nel frattempo) prostitute frequentatrici di Villa San Martino. E’ stato di fronte a questa doppia e insopportabile menzogna che hanno detto «io», e deciso di consegnare ai magistrati la loro verità sulle notti di Arcore, assistite da un’avvocata, «che perdipiù è donna».
Non si sentono e non sono prostitute, Ambra e Chiara. Giocavano a diventare Miss Italia, prima e terza alle selezioni del Piemonte, quando il ruffiano di corte Emilio Fede le invita a Arcore, dopo averle «provinate» per fare le meteorine e averle già fatte passare per il primo esame: mani sui fianchi e sguardi sul sedere, così procede il direttore del Tg4 per decidere chi è degna e di no. Le due ragazze potevano e dovevano sottrarsi già a quel punto, e lo sanno: già nella cena con Fede, racconta Ambra, «ero stupefatta e mi vergognavo tantissimo», «non era un atteggiamento normale», «eppure non riteniamo di andare via, perché ci interessa quel tipo di contratto con il direttore che, tutto sommato, si era mantenuto abbastanza nei limiti». Tutto sommato, abbastanza nei limiti: è la contabilità misera e amorale in cui vivacchia il precariato di massa sotto perenne e sistematico ricatto. Tutto sommato, mi serve un contratto; il direttore è un porco, ma se si tiene abbastanza nei limiti glielo strappo e ne esco in piedi. Invece quello era solo l’assaggio; il piatto forte arriva la sera dopo a casa del Presidente. Conosciamo la scena ed è inutile tornare a descrivere la cena e il dopocena, le canzoni e la lap-dance, le paroline dolci e le palpatine ruvide del padrone di casa. Anche se degli inediti particolari raggelanti di cui sopra, corre l’obbligo di segnalare il tasso di feticismo che promana da quell’oggetto che viene fatto passare di mano in mano e di bocca in bocca: «E’ una specie di guscio. Dal guscio esce un omino con un pene grosso. Ha le dimensioni di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. Il pene è visibilmente sproporzionato». Il feticcio giusto, per uno che appena può si definisce «un premier con le palle» e che dallo stato maggiore del suo partito, sezione lombarda, riceve in dono un toro Swaroski «con due palle come le tue, Silvio», e un uovo di Pasqua alto due metri con dentro Charlotte Crona in carne e ossa che suona il violino (dalle cronache della cena offerta da Berlusconi a villa Gernetto due sere fa).
Corre l’obbligo, ancora, di segnalare l’insistenza con cui le due ragazze vengono vigorosamente invitate a lasciarsi prendere da un gioco dal quale vogliono scappare. E il cinismo con cui, quando se ne vanno senza averci partecipato, il direttore del Tg4 le avverte che così sfuma il loro contratto e il loro sogno. Questa è la scena che un noto intellettuale di punta berlusconiano, intervistato sul Riformista di ieri, definisce «amicale» e improntata a libere e consapevoli strategie seduttive nelle quali, si sa, sono le donne ad avere in mano il gioco e a sfruttare l’uomo di potere. Per fortuna, nel caso di Chiara e Ambra, ci sono alle spalle due madri che loro definiscono «semplici». Due collabortatrici domestiche, disposte ad accompagnarle nel sogno di diventare miss. Ma capaci di dire, al momento giusto: il gioco è finito, andate a dire la verità.
Il bacio del dio Priapo
l’ultimo rito delle notti di Arcore
"L’Omino con il pene grosso" viene offerto alle ospiti della villa di Berlusconi: così il mito incrocia il bunga bunga
di FILIPPO CECCARELLI *
E INSOMMA, per farla breve: è tornato Priapo. Ma sul serio, e dalle risultanze giudiziarie si capisce che è tornato sulla cresta dell’onda di un neopaganesimo che monsignor Fisichella durerà fatica a contestualizzare. E’ tornato dalle parti di villa San Martino, l’inconfondibile dio, in forma di statuetta a riscaldare l’atmosfera per il bunga bunga. Una giovanissima ha raccontato ai Pm che durante le simpatiche seratine di Arcore, appena dopo la solita scarica di barzellette sconce, il presidente del Consiglio dei ministri si faceva portare - purtroppo non è detto da chi - un involucro della grandezza di una bottiglia d’acqua da mezzo litro e, oplà, sorpresa, meraviglia, tintinnio di risate olgettine, ecco che dall’arcano tabernacolo è spuntata fuori una statuetta di un "omino con il pene grosso" l’ha definito la ragazza. Di più: "Un pene visibilmente sproporzionato".
E insomma, non ci sono dubbi: è lui, e quel coso lì nella mitologia ellenico arcaica, non ancora arcoriana, è detto "itifallo"; e il suo legittimo proprietario, un vecchio basso e tarchiato la cui incerta genealogia oscilla fra Dioniso, Pan e una mezza dozzina di divinità prosperate nella notte dei tempi con i significativi patronimici tipo "l’Eretto" o "Colui che colpisce", ecco, non può essere che Priapo, il dio che passò il tempo a corrompere le donne della città di Lampsaco insegnando loro ogni sorta di turpitudine, ma che gli antichi finirono per riconoscere come custode delle vigne e dei giardini, a volte ridotto al rango di spaventapasseri, ma soprattutto dispensatore di fertilità nonché protettore di quella particolare forma di malocchio che punta a debilitare la virilità a colpi di invecchiamento, impotenza, cilecche.
Il trasloco di questo specialissimo culto dall’Ellesponto alla Brianza berlusconiana trova nei verbali della Procura una descrizione adeguatamente vivida. Nel senso che a un dato momento il Cavaliere consegnava l’idoletto nelle mani delle sue graziose ospiti che se lo passavano l’un l’altra dopo averne baciato la macroscopica protuberanza. Sembra che alcune, per non lasciare nulla d’intentato, se lo strusciassero anche sulle sise - e a questo punto un giornalista politico, pure avvezzo agli scialbi rituali della Prima e della Seconda Repubblica, si sentirebbe anche un po’ in imbarazzo a proseguire nella sua linea interpretativa, oltretutto necessariamente guardona. Sennonché, con l’insperato soccorso del Dizionario dell’erotismo di Ernest Borneman (Rizzoli, 1984) si intuisce che tale cerimonia è assimilabile a una "falloforia", o se si vuole a una "fallogogia", comunque una sorta di processione augurale, nondimeno scherzosa considerato l’oggetto portato in giro per celebrare la forza generatrice della natura. E vabbè.
Resta da aggiungere che Emilio Fede nega di aver visto statuette falliche, "e comunque - ha specificato - non sarebbe reato". Certo che no. Ma intanto è sorprendente la facilità con cui da qualche tempo la vita pubblica va a sbattere sulla mitologia e i suoi derivati. C’è questo anziano presidente le cui voglie incessanti hanno fatto richiamare creature come quelle dei satiri. Ci sono queste giovanissime ragazze da cui egli "è preso", come dicono al telefono le ninfe della Dimora Olgettina. L’ex scenografo del craxismo, Filippo Panseca, ha dedicato un intero ciclo pittorico agli amori, per così dire, e alle incessanti mitologie orgiastiche berlusconiane. Rispetto alle quali di recente Famiglia cristiana ha evocato addirittura la Nemesi, anch’essa una divinità, figlia della Notte e adeguatamente dotata di spada per ristabilire l’equilibrio sbomballato dall’arroganza e dagli eccessi dei mortali.
Il problema odierno, semmai, è che questi ultimi vengono addirittura rivendicati e incoraggiati dal potere. Come dimostra, pure qui con cospicui agganci mitici, il simbolico dono di un toro, sia pure Swaroski, da parte dei maggiorenti del Pdl lombardo al Cavaliere con annesso attestato di efficacia genitale ("due palle così"), al quale il premier ha reagito con maestoso autocompiacimento: "Mi pare un paragone appropriato". Come pure il restauro del blocco scultoreo di Venere e Marte in prestito a Palazzo Chigi, che Berlusconi ha personalmente ordinato impegnando i migliori restauratori a ricostruire il pisello del dio guerriero per la non modica spesa di 70 mila euri. Chissà cosa ne avrebbe scritto Carlo Emilio Gadda che in Eros e Priapo demolì dalle fondamenta il mussolinismo dimostrando la terribile pericolosità di certe smaniose follie. E a rileggerlo davvero sembra che parli di oggi, "il Gran Tauro", appunto, "la Fava Unica", "il Cetriolo Immagine", "la fulgurata protuberanza di chella sua proboscide fallica e grifomorfa in dimensione suina". L’idoletto del bunga bunga che mette una mano in tasca e recita l’anagramma del suo nome: Silvio Berlusconi, "l’unico boss virile".
* la Repubblica, 15 aprile 2011: http://www.repubblica.it/politica/2011/04/15/news/bacio_priapo-14954489/ l
ISRAELE
Katzav condannato a sette anni
per violenza sessuale su sottoposte
L’ex capo dello Stato riconosciuto colpevole di aver stuprato due volte una sua sottoposta quando era ministro del Turismo e vari altri reati. "Hanno vinto le menzogne", ha urlato alla lettura della sentenza *
TEL AVIV - L’ex capo dello Stato di Israele Moshe Katzav è stato condannato a sette anni di reclusione per stupro, più due anni di detenzione con la condizionale e una multa di 100 mila shekel, circa 20 mila euro. A dicembre Katzav, 65 anni, era stato riconosciuto colpevole di aver violentato due volte una delle sue sottoposte all’epoca in cui era ministro del Turismo, alla fine degli anni Novanta; di due episodi di atti osceni, uno dei quali con l’uso della forza, e di molestie sessuali nei confronti di tre impiegate al ministero e poi alla presidenza dopo la sua elezioni nel 2000. Inoltre era stato dichiarato colpevole di ostacolo alla giustizia.
Durante la lettura della sentenza da parte del giudice George Kara, Katzav ha espresso ad alta voce alcuni commenti polemici. "Si sbagliano, è una menzogna", ha urlato e, piangendo, ha abbracciato i figli. Poi ha inveito contro Kara. "Mi avete tappato la bocca durante l’intero processo, non mi avete permesso di presentare testimoni a mio favore - ha detto - Le menzogne hanno vinto".
La seduta è stata trasmessa in diretta dalle televisioni israeliane, mentre attorno al tribunale di Tel Aviv sostava una folla di curiosi, fra cui esponenti di gruppi femministi. Il caso non ha infatti precedenti nello Stato ebraico e ha suscitato scandalo e grande interesse fin dalle prime rivelazioni. Secondo alcuni commentatori è molto probabile che Katzav - che si è sempre professato innocente e vittima di "un ignobile complotto" e di "un linciaggio organizzato" - si appelli ora alla Corte Suprema. L’ex capo dello Stato dovrebbe entrare in carcere solo fra alcune settimane.
* la Repubblica, 22 marzo 2011
BUFERA GIUDIZIARIA SUL PREMIER
Scandalo Ruby, il gip di Milano:
"Berlusconi a giudizio immediato"
Il Cavaliere a processo il 6 aprile
per concussione e prostituzione.
Il Viminale e la ragazza parti lese
Bersani: dimissioni e voto subito
MILANO Il Gip di Milano ha disposto il giudizio immediato nei confronti di Silvio Berlusconi per i reati di concussione e prostituzione minorile. Il processo si aprirà il 6 aprile davanti alla quarta sezione penale composta da 3 donne: Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro. La decisione ha immediatamente fatto esplodere la polemica tra i partiti con la maggioranza che parla di «uso politico della giustizia» e l’opposizione, col segretario del Pd Pierluigi Bersani in testa, che chiede le «dimissioni» del premier e le «elezioni anticipate».
Tutto inizia con una nota firmata dal presidente dell’ufficio Gip, Gabriella Manfrin: «In data odierna il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo, ha depositato il decreto con cui si dispone giudizio immediato a carico dell’onorevole Silvio Berlusconi». La procura gli contesta di aver abusato della qualità di presidente del Consiglio per indurre i funzionari della questura di Milano, la notte tra il 27 e il 28 maggio dell’anno scorso, ad affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti e per avere avuto rapporti sessuali con la minorenne ad Arcore tra il 14 febbraio e il 2 maggio. Parti offese vengono indicati il ministero dell’interno, la giovane marocchina e i tre funzionari della Questura presenti quella notte, Pietro Ostuni, Giorgia Iafrate e Ivo Morelli. «Ora andremo in udienza», si limita a dire il capo dei Pm Edmondo Bruti Liberati. L’accusa sarà sostenuta dagli stessi Pm che hanno svolto le indagini: Ilda Boccassini, Antonio Sangermano e Pietro Forno. «Ce lo aspettavamo», ha dichiarato Piero Longo, uno dei legali del premier.
Sul fronte politico, tra i primi a intervenire il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Il governo va avanti resistendo a questi tentativi di manomettere l’equilibrio politico del Paese». «Mai nella storia d’Italia vi è stato un uso della giustizia così finalizzato alla lotta politica. È inevitabile un intervento del Capo dello Stato». Sollecita il ministro per l’Attuazione del Programma Gianfranco Rotondi. E a scendere in campo è anche il ministro della giustizia Angelino Alfano: «Evidentemente il Gip non ha tenuto conto del voto della Camera», dice aggiungendo che il tema «attiene alla sovranità e all’indipendenza del Parlamento» sulle quali non è il governo «che deve intervenire». Non c’è però nessun motivo per le dimissioni del premier: «E la presunzione d’innocenza?».
Il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini invita invece Berlusconi «a difendersi davanti ai giudici» e risparmiare «al Paese la figura di un presidente del Consiglio processato per prostituzione minorile». No comment infine da parte della Lega: «Non rispondo a questa domanda». Taglia corto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
* La Stampa, 15/02/2011
Le notti di Arcore e la notte italiana
Una sintesi del discorso che G. Z. terrà domani alla manifestazione di Libertà e Giustizia, a Milano.
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 04.02.2011)
Perché siamo qui? Che cosa abbiamo da dire, da chiedere? Niente e tutto. Niente per ciascuno di noi, tutto per tutti. Non siamo qui nemmeno come appartenenti a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questa o quella associazione. Ciò che chiediamo, lo chiediamo come cittadini. Chi è qui presente non rappresenta che se stesso. Per questo, il nostro è un incontro altamente politico, come tutte le volte in cui, nei casi straordinari della vita democratica, tacciono le differenze e le appartenenze particolari e parlano le ragioni che accomunano i nudi cittadini, interessati alle sorti non mie o tue, ma comuni a tutti. Non siamo qui, perciò, per sostenere interessi di parte. Ma non siamo affatto contro i partiti. Anzi, ci rivolgiamo a loro, di maggioranza e di opposizione, affinché raccolgano il malessere che sale sempre più forte da un Paese in cui il disgusto cresce nei confronti di chi e di come governa; affinché i cittadini possano rispecchiarsi in chi li rappresenta e sia rinsaldato il rapporto di democrazia tra i primi e i secondi, un rapporto che oggi visibilmente è molto allentato.
Nulla abbiamo da chiedere per noi. Non chiediamo né posti, né danaro. Non siamo sul mercato. È corruzione delle istituzioni l’elargizione di posti in cambio di fedeltà. è corruzione delle persone l’elargizione di danaro in cambio di sottomissione e servizi. Crediamo nella politica di persone libere, non asservite, mosse dalle proprie idee e non da meschini interessi personali per i quali si sacrifica la dignità al carro del potente che distribuisce vantaggi e protezione. Anzi, chiediamo che cessi questo sistema di corruzione delle coscienze e di avvilimento della democrazia, un sistema che ha invaso la vita pubblica e l’ha squalificata agli occhi dei cittadini, come regime delle clientele. I cittadini che ne sono fuori e vogliono restarne fuori chiedono diritti e non favori, legalità e non connivenze, sicurezza e non protezione. Non accettano doversi legare a nessuno per ottenere quello che è dovuto. Vogliono, in una parola, essere cittadini, non clienti e non ne possono più di vedersi scavalcati, nella politica, negli affari, nelle professioni, nelle Università, nelle gerarchie delle burocrazie pubbliche, a ogni livello, dal dirigente all’usciere, non da chi merita di più, ma da chi gode di maggiori appoggi e tutele.
Chiediamoci, in questo quadro, perché le notti di Arcore - non parlo di reati, perché per ora è un capitolo di ipotesi ancora da verificare - sono esplose come una bomba nel dibattito politico, pur in un Paese non puritano come il nostro, dove in fatto di morale sessuale si è sempre stati molto tolleranti, soprattutto rispetto ai potenti. Dicono che il moralismo deve restare fuori della politica, che ognuno a casa propria deve poter fare quel che gli aggrada (sempre che non violi il codice penale), che il pettegolezzo non deve mescolarsi con gli affari pubblici. È vero, ma non è questo il caso. Se si trattasse soltanto della forza compulsiva e irresistibile del richiamo sessuale nell’età del tramonto della vita, non avremmo nulla da dire. Forse deploreremmo, ma non giudicheremmo per non dover poi essere, eventualmente, noi stessi giudicati. Proveremmo semmai, probabilmente, compassione e magari perfino simpatia per questa prova di senile, fragile e ridicola condizione di umana solitudine. Ma non avremmo nulla da dire dal punto di vista politico.
Ma la verità non si lascia dipingere in questi termini. La domanda non è se piace o no lo stile di vita di una persona ricca e potente che passa le sue notti come sappiamo. Questa potrebbe essere una domanda che mette in campo categorie morali. La domanda, molto semplicemente, è invece: ci piace o no essere governati da quella persona. E questa è una domanda politica.
La risposta dipende dalla constatazione che tra le mura di residenze principesche, per quanto sappiamo, viene messo in scena, una scena in miniatura, esattamente ciò che avviene sul grande palcoscenico della politica nazionale. Le notti di Arcore assurgono a simbolo facilmente riconoscibile, in versione postribolare, di una realtà più vasta che ci riguarda tutti. È un simbolo che ci mostra in sintesi i caratteri ripugnanti di un certo modo di concepire i rapporti tra le persone, nello scambio tra chi può dare e chi può ottenere. È lo stesso modo che impera e nelle stanze d’una certa villa privata e in certi palazzi del potere. Questo, credo, è ciò che preoccupa da un lato, indigna dall’altro.
Non troviamo forse qui (nella villa) e là (nel Paese), gli stessi ingredienti? Innanzitutto, un’enorme disponibilità discrezionale di mezzi - danaro e posti - per cambiare l’esistenza degli altri attraverso l’elargizione di favori: qui, buste paga in nero, bigiotteria, promozioni in impensabili ruoli politici distribuiti come se fossero proprietà privata; là, finanziamenti, commesse, protezioni, carriere nelle istituzioni costituzionali (la legge elettorale attuale sembra fatta apposta per questo), nell’amministrazione pubblica, nelle aziende controllate. Dall’altra parte, troviamo la disponibilità a offrire se stessi, sapendo che la mano che offre può in qualunque momento ritrarsi o colpirti se vieni meno ai patti. Cambia la materia che sei disposto a dare in riconoscenza al potente: qui, corpi e sesso; là, voti, delibere, pressioni, corruzione. Ma il meccanismo è lo stesso: benefici e protezione in cambio di prove di sottomissione e fedeltà, cioè di prostituzione. Ed è un meccanismo omnipervasivo che supera la distinzione tra pubblico e privato, perché funziona ogni volta che hai qualcosa da offrire che piaccia a chi ha i mezzi per acquisirlo.
Qui e là questo sistema alimenta un mondo contiguo fatto di gente alla ricerca di chi "ci sta" e possa piacere a quello che è stato brillantemente definito "l’utilizzatore finale": lenoni e faccendieri, gli uni per selezionare e reclutare corpi da concorsi di bellezza e luoghi di malaffare e organizzarne il flusso, gli altri per sondare disponibilità e acquisire fedeltà nei luoghi delle istituzioni dove possono essere utili. Analogo, poi, è il rapporto che si instaura tra i partecipanti a questi giri del potere. Poiché la legge uguale per tutti sarebbe incompatibile con un tal modo di concepire il potere, i rapporti di connivenza, molto spesso, anzi quasi sempre, si basano sull’illegalità e, a loro volta, la producono. Tutti cascano così nelle mani l’uno dell’altro e il giro si avviluppa nella reciprocità dei ricatti. Così, chi se ne è messo a capo è destinato, prima o poi, a diventare succubo, a trasformarsi in una vuota maschera che parla, vuole, magari fa la faccia feroce ma in nome altrui, il suo unico interesse riducendosi progressivamente a non essere rovinato dai sodali. A quel punto, è pronto a tutto.
Ritorniamo all’inizio. Non chiediamo nulla per noi ma tutto per tutti. Il "tutto per tutti" è lo stato di diritto e l’uguaglianza di fronte alla legge; il rispetto delle istituzioni e della dignità delle persone, soprattutto quelle più esposte ai soprusi dei prepotenti: le donne, i lavoratori a rischio del posto di lavoro, gli immigrati che noi bolliamo come "clandestini"; la disciplina e l’onore di chi ricopre cariche di governo; l’autonomia della politica dall’ipoteca del denaro e dell’interesse privato nell’uso dei poteri pubblici; l’indipendenza dei poteri di garanzia e controllo; l’equità sociale; la liberazione dall’oppressione delle clientele. Un elenco penoso di doglianze e un vastissimo programma di ricostruzione che è precisamente ciò che sta scritto a chiare lettere e per esteso nella Costituzione: la Costituzione che per questa ragione è diventata segno di divisione tra opposte concezioni della politica.
La richiesta di dimissioni del Presidente del Consiglio non è accanimento contro una persona. Sappiamo bene che la concezione del potere ch’egli rappresenta ha, nella nostra società, radici lontane e profonde, di natura perfino antropologica, e che perciò ha buone possibilità di sopravvivergli in quelli che si preparano a raccoglierne la successione, per il momento in cui si sentiranno pronti ad abbandonarlo. Ma sappiamo anche che, per ora, quel sistema di potere è incarnato, e in modo eminente, proprio da lui. Onde è da lui che occorre incominciare, non per fermarsi a lui ma per guardare oltre, al sistema di potere che l’ha espresso e di cui egli è, finché gli sarà possibile, l’interprete più in vista.
L’altra scena del golpe
di Ida Dominijanni (il manifesto, 28 gennaio 2011)
Accade ai regimi di sgretolarsi dall’interno, su eventi apparentemente minori. E’ quello che sta accadendo al regime sessual-politico di Silvio Berlusconi. Non un contrattacco dell’opposizione, non una sostituzione ai posti di comando del Palazzo d’Inverno. Solo un imprevedibile, lento ma inesorabile, rivoltarsi contro il Sultano delle sue donne. Non serve più neanche che sia consapevole. Consapevole, pubblico, e a suo modo politico era stato il gesto di denuncia di Veronica Lario e di Patrizia D’Addario, la moglie e la prostituta uscite allo scoperto per denudare il re. Il caso di Nicole Minetti, l’organizzatrice del circo delle favorite a pagamento, è diverso, e diversamente significativo. Minetti non esce allo scoperto di sua spontanea volontà, e in pubblico continua a coprire e a difendere il premier, negando di aver davvero pensato le cose che di lui ha pur detto al telefono. Ma in privato cede, si sfoga, non ne può più: il prezzo che rischia di pagare è troppo alto, lui è troppo vecchio e «pur di salvarsi il culo non gliene importa niente»; e «c’è un limite a tutto».
La scena si ribalta: chi aveva in mano il gioco ne è giocato, chi stava disciplinatamente al gioco minaccia di alzarsi dal tavolo da un momento all’altro. Il rapporto di potere non regge più. Michel Foucault, uno che di potere se ne intendeva, saprebbe che dire: è proprio nei soggetti che il potere ha meglio conformato a se stesso che si annidano i punti di resistenza capaci di spezzarlo. Un regime che si è costruito imprimendosi sui corpi, vestendoli, agghindandoli, scopandoli, facendoli muovere e parlare a propria immagine e somiglianza non può finire che a opera di quegli stessi corpi, non appena si discostino da quell’immagine e da quella somiglianza. Si chiama smottamento, e non c’è menzogna di regime che possa tenere a lungo. Per questo, e non per la «tattica del contagocce» che gli avvocati del Sultano rimproverano alla procura di Milano, continueremo a vederne, per citare la stessa Minetti, «di ogni».
Raggela, di fronte a tanto movimento e tanto colore della soap ambientata nei bassifondi, la paralisi violacea dei Palazzi della politica. Inquieta il livore oltranzista della corte del premier, i «consigli di guerra» in cui prende istruzioni, la recita cinica del copione televisivo serale sul «nulla di penalmente rilevante», i muscoli facciali fermi nel negare l’evidenza, la dipendenza dal leader sorda all’impresentabilità dell’uomo, l’arroccamento spavaldo sul mantra algebrico della «maggioranza coi numeri», le professioni di lealtà eterna di Bossi, al «celodurismo» s’intende.
E sgomenta il pallore dell’opposizione, l’attacco statico e stanco che non trova altre parole che quelle sullo «squallore» di Arcore, sulla perdita di «decoro» e sulla ferita della «dignità» delle istituzioni. Come se le tappe di un golpe neanche tanto strisciante non fossero già scritte nella linea di attacco frontale del premier alla magistratura e nella sua determinazione a portare nelle mani del popolo, preventivamente stordito dalle sue tv, la partita finale fra legittimità e legalità. Come se dai bassifondi di Arcore non emergesse non una scena lasciva di loisir, ma un’idea di società, di libertà, di godimento, un nodo scorsoio stringe la presa sui corpi (minorenni) allacciando sesso, merce e potere.
Come se l’uomo che gioca al bunga-bunga non fosse la stessa cosa del premier che gioca al governo, e a tenerli uniti non fosse la stessa messinscena di una onnipotenza, politica e sessuale, sostenuta da un fantasma di impotenza, sessuale e politica. Sesso e potere sono da sempre annodati nel fuori-scena della cosa pubblica, ma mai s’è vista una tale coincidenza fra una maschera della virilità e una maschera del governo. La seconda non cadrà senza che dall’opposizione altri uomini si decidano a strappare la prima, spezzando definitivamente l’incantesimo della sua seduttività.
Tutte le donnine del capo: così l’Italia è tornata a «Drive In»
di Luigi Manconi (l’Unità, 20 gennaio 2011)
«Loro tre e 28 ragazze. Tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto e con solo le mutandine strette». Carlo Ferrigno ex prefetto di Napoli a proposito di una serata nella Villa di Arcore.
Sociologicamente parlando. Chiunque abbia frequentato quell’autentico “romanzo di formazione”, che è stato per molti Drive In (1983-1988), con la sua estetica esuberante e scollacciata, procace e onanista, riconoscerà nella descrizione dell’ex prefetto un’autentica “scena madre”. O meglio: una vera e propria “scena primaria”, nell’accezione freudiana di evento psichico originario. Quelle ragazze “solo con le mutandine strette” sono la perfetta riproduzione della fantasia erotica offerta da Italia 1 (ci pensate: quasi trent’anni fa) agli italiani famelici di spensieratezza e di sesso.
Per un verso, fa un po’ impressione che quella rappresentazione abbia richiesto quasi tre decenni per togliersi “il reggipetto” e diventare - pressoché inalterato nelle forme, più esile nelle misure: non più 90 60 90 - bene di consumo, certamente ancora elitario, e materia di chiacchiericcio telefonico; per altro verso, colpisce la capacità di Berlusconi di rispondere puntualmente ai desideri di un senso comune infoiato (maschile e adulto), attraverso un prodotto televisivo e, infine, la sua incarnazione come remunerazione e benefit per i propri famigli e clientes.
Qui sta, sociologicamente parlando, il capolavoro “culturale” di Berlusconi: ha fatto della propria personale dimensione onirico-libidica un format mediatico, consapevole che le proprie fantasie fossero le fantasie “degli italiani”, interpretandone e al tempo stesso plasmandone il gusto. Trasferendolo dalla sfera della propria immaginazione a quella della rappresentazione sociale fino a quella della rappresentanza politica. E ritorno.
Non a caso, le “28 ragazze” oggi sono quelle (approssimativamente) di Colorado Cafè, una sottospecie di Drive In; ma sono anche quelle sparse qua e là, in alcune istituzioni rappresentative. Dunque, non è giusto ironizzare troppo sui contorni di quell’immaginario erotico berlusconiano. Un conto è criticarlo e rifiutarne la sua traduzione in strumento di consenso e strategia di governo (anche in senso proprio); un conto ben diverso è osservarlo con sufficienza o snobbismo. Insomma, alla fine, tutti gli immaginari erotici si equivalgono: surrogato o sublimazione o risorsa della vitalità sessuale.
Da questo punto di vista, l’operazione di Berlusconi non ha nulla a che fare - come ha spiegato Marco Pannella - con la elezione di Ilona Staller detta “Cicciolina” al Parlamento (grazie alle preferenze ottenute e non a un listino bloccato), nel 1987. La distanza tra quest’ultima e alcune “nominate” dal Premier in assemblee elettive è incommensurabile. Cicciolina era l’esatto contrario: e non solo perché la sua innocenza e il suo disinteresse appaiono, nel confronto, addirittura virginali, ma proprio perché il suo segno simbolico era tutt’affatto diverso. Il rapporto di Ilona Staller col proprio corpo era di tipo, per così dire, liberista e libertario e, non a caso,un punto qualificante del suo programma politico era la legalizzazione (riconoscimento e tassazione) della prostituzione.
E invece, nello scenario attuale, la prostituzione si consuma, quando si consuma, all’interno di una regressione autoritaria e illiberale, bacchettona e giustizialista del quadro normativo, voluta dallo stesso Berlusconi. Tanto più restrittiva e tetra, quella normativa, quanto più, poi, trova “sfogo” nell’attività di meretricio all’interno della dimensione privata. D’altra parte, l’elezione di Ilona Staller costituiva un oltraggioso sberleffo, voluto innanzitutto dai suoi elettori, nei confronti della concezione beghina e reazionaria della sessualità, dominante in Parlamento all’epoca.
Oggi, la presenza di alcune figure femminili nelle istituzioni sembra rappresentare, invece, una sorta di appagamento-realizzazione di una concezione meschina del rapporto uomo-donna, se non egemone, certamente assai diffusa. Si potrebbe dire: niente più che la solita maleodorante ipocrisia.
Certo, c’è anche questa, ma c’è soprattutto la corriva corrispondenza dello stile di vita di parte delceto politico a quel “realismo teologico” sempre coltivato da significativi settori delle gerarchie ecclesiastiche. Come ha ricordato proprio ieri Vittorio Messori, che quelle gerarchie ben conosce, nella Chiesa Cattolica c’è sempre chi apprezza “un politico puttaniere ma che faccia buone leggi”. Che so? sull’esenzione dell’Ici per gli immobili del Vaticano.
Caso Ruby, Berlusconi indagato
Perquisizioni in corso a Milano negli uffici di Nicole Minetti *
MILANO - La Procura di Milano ha indagato Silvio Berlusconi per le ipotesi di reato di «concussione» e di «prostituzione minorile». Secondo la contestazione d’accusa, allo scopo di occultare di essere stato cliente di una prostituta minorenne in numerosi week-end ad Arcore, assicurarsi l’impunità da questo reato e scongiurare che venissero a galla i retroscena delle feste nella sua residenza brianzola, il Presidente del Consiglio la notte tra il 27 e il 28 maggio 2010 avrebbe abusato della propria qualità di primo ministro per indurre i funzionari della Questura di Milano ad affidare indebitamente l’allora 17enne marocchina Karima "Ruby" El Mahroug, scappata da una comunità per minori, alla consigliere regionale lombarda pdl Nicole Minetti.
REATI -Il reato di «concussione» (articolo 317 del codice penale) punisce con la reclusione da 4 a 12 anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringa o induca taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità. Al premier è contestato con l’aggravante il reato di «prostituzione minorile» (articolo 600 bis, contestato al premier nella forma del secondo comma) punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni chiunque compia atti sessuali con un minore di età compresa tra i 14 e 18 anni in cambio di denaro o di altra utilità economica, ed è l’unico caso nel quale il cliente di una prostituta è sanzionato penalmente.
LE PERQUISIZIONI - Gli sviluppi dell’inchiesta sul caso Ruby stanno emergendo dalle perquisizioni in corso a Milano, tra le quali quella al suo uomo di fiducia che storicamente amministra il "portafoglio" familiare del premier: Giuseppe Spinelli, anni fa indagato con il Cavaliere e uscito dai processi su Medusa film e sulla villa di Macherio, nonchè già tra gli amministratori della holding Dolcedrago e dell’immobiliare Idra (che ha la villa di Arcore). Gli inquirenti si sono presentati nell’ufficio di Spinelli, non indagato, per eseguire una perquisizione, ma ad essi è stato opposto il fatto che le sue stanze sarebbero «pertinenza della segreteria politica dell’onorevole Berlusconi». Argomento che, secondo fonti vicine al manager, non sarebbe stato contestato dagli inquirenti, i quali hanno rinunciato alla perquisizione e lasciato gli uffici di Spinelli. La polizia sta perquisendo anche gli ufficidella consigliere regionale Nicole Minetti, indagata per favoreggiamento della prostituzione sia adulta sia minorile. Stessa ipotesi di reato per Lele Mora ed Emilio Fede.
Luigi Ferrarella
* Corriere della Sera, 14 gennaio 2011
Speriamo non sia femmina
di Ida Dominijanni (il manifesto, 14.09. 2010)
Dunque pare che secondo l’onorevole Giorgio Stracquadanio, uno di quelli che dice sempre la verità profonda del berlusconismo, prostituirsi per fare carriera politica non sia un problema: è ammesso, "legittimo" e non censurabile. Ognuno usa quello che ha, spiega il nostro, «intelligenza o bellezza», o magari tutt’e due perché non è detto che chi è bello sia stupido (e neanche il viceversa, basta guardare lui): sono fatti privati, «ognuno deve disporre del proprio corpo come meglio crede e se non c’è violenza non c’è problema». E se invece ci sono soldi, posti e potere? Domanda superflua, Stracquadanio non la capirebbe nemmeno, e del resto in casa sua (e non solo in casa sua) non la capisce nessuno dal velina-gate in poi.
Ma l’improvvida uscita dell’onorevole è un’ottima sintesi della concezione della libertà targata Berlusconi e quindi tanto vale insistere. Fra la libertà di disporre del proprio corpo e la libertà di venderlo per averne in cambio posti, favori e carriere c’è di mezzo il mare, un mare che si chiama mercato, denaro, scambio di potere fra diseguali, ricatto. Non solo non è la stessa cosa, ma le due cose neanche si toccano: si escludono. Da una parte c’è il desiderio, dall’altra la forma di merce, e fra desiderio e forma di merce sarebbe il caso di ricominciare a fare qualche distinzione: a sinistra potrebbero provarci, invece di cadere ogni volta, quest’ultima compresa, nella trappola del derby fra disinvolti e moralisti.
Fra le molte coliche e contorsioni in cui si dibatte il berlusconismo morente, ce n’è una quasi incomprensibile, l’ostinata compulsione a battere e ribattere sul tasto della sessualità, che è esattamente quello che ne ha firmato la condanna a morte. Il premier e le veline candidate, il premier e il sesso a pagamento, il premier e il «ciarpame politico» delle «vergini che si offrono al drago»: cominciò tutto da lì, vale ricordarlo, non da Gianfranco Fini. Eppure lo stesso premier batte e ribatte compulsivamente ancora su quel tasto, come fosse un tasto imprescindibile del suo armamentario populista. Ormai tanto visibilmente provato nell’immagine quanto disorientato sul da farsi, domenica, alla festa di Atreju, quell’armamentario l’ha tirato fuori tutto, come in una prova generale della campagna elettorale prossima ventura.
Un’autocitazione dietro l’altra dai suoi discorsi del ’94 e seguenti, come se l’Italia si fosse fermata al suo avvento: il libro nero del comunismo, gli ammiccamenti al nazismo in salsa di barzelletta, il monumento a se stesso come esempio e prospettiva di vita per i giovani, il Pdl come «popolo» e non partito, i giornali da evitare come la peste...e dentro questo album di foto stantìe la più stantìa di tutte, la sua foto di conquistatore ricco, intraprendente e irresistibile. «Io c’ho la fila di quelle che mi vogliono sposare: sono simpatico, ho un po’ di grana, la leggenda dice che ci so fare, e in più pensano che sono vecchio, muoio subito e loro ereditano». Pensano ma si sbagliano, perché lui è sempre lo stesso e le sue gag sono sempre le stesse, compresa quella irrinunciabile di chiedere il numero di telefono a una ragazza che prova a fargli una domanda politica.
Ridicolo. Compulsivo. Consunto. Decrepito. Eppure, lo sappiamo, Berlusconi ha sempre una carta di riserva, che sta sempre fuori dal mazzo della politica. E non va affatto sottovalutata la sua frase di domenica portata in prima pagina da «Libero» di ieri, «Largo ai giovani e alle donne», che potrebbe preludere, e non è la prima volta che si dice, a un’investitura della figlia Marina alla successione.
Indirettamente avvalorata, secondo il quotidiano, dalle ripetute interviste rilasciate al «Corriere della Sera» negli ultimi mesi dalla stessa Marina. «La Principessa e la Trota», scrive «Libero» alludendo a una destra del futuro in mano ai figli di Berlusconi e Bossi: largo alle dinastie, come in ogni regno che si rispetti. Altro che posta in gioco costituzionale: mentre parlavano del legittimo impedimento stavano ripristinando la monarchia e non ce ne siamo accorti.
Ma qui non è solo questione di monarchia. Attenzione, perché è proprio da quel suo continuo e compulsivo battere sul tasto delle donne e della sessualità che Berlusconi potrebbe estrarre stavolta la carta fuori mazzo: una donna candidata premier al posto suo. La figlia o chi per lei. Altro che ciarpame politico, altro che le veline a Strasburgo, altro che i festini e le farfalline di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa: passerebbe alla storia come il primo uomo politico italiano che ha ceduto il passo a una donna. Un vero Cavaliere. E un vero schiaffo alla sinistra, l’ennesimo.
LA POLEMICA
Angela Napoli: "Non escludo
che deputate si siano prostituite"
Accusa shock della deputata di Futuro e Libertà, conseguenza di una legge elettorale che costringe le donne, per essere in lista, "ad assecondare il padrone di turno". Insorge la componente femminile del Pdl: "Intervenga la presidenza della Camera". Perina: "Napoli caduta in trappola" *
CATANZARO - "Non escludo che senatrici o deputate siano state elette dopo essersi prostituite". E’ la dichiarazione shock di Angela Napoli, deputata di Futuro e Libertà e componente della commissione parlamentare antimafia, in una analisi delle conseguenze dell’attuale legge elettorale durante un’intervista a Klaus Davi. Immediata la reazione indignata delle deputate del Pdl. Mentre Flavia Perina critica la Napoli: "E’ caduta in una trappola".
"Se non c’è meritocrazia...". "Purtroppo può essere vero - ribadisce la Napoli a Klaus Davi - e questo porta alla necessità di cambiare l’attuale legge elettorale. E’ chiaro che, essendo nominati, se non si punta sulla scelta meritocratica, la donna spesso è costretta, per avere una determinata posizione in lista, anche a prostituirsi o comunque ad assecondare quelle che sono le volontà del padrone di turno". In una nota, Angela Napoli definisce "ipocrita" anche il ddl del ministro Mara Carfagna che prevede il carcere per i clienti delle prostitute. "Se veramente diventasse legge, sarebbero non tanti, ma tantissimi i parlamentari arrestati. Salvo che i parlamentari beccati con prostitute se la cavino con l’immunità, mentre un operaio o un camionista finirebbero per pagare nella solita logica di casta, come sempre avviene".
Perina: "Napoli nella trappola di Davi". Critica con Angela Napoli è Flavia Perina, anche lei deputata di Futuro e Libertà e direttrice de Il Secolo. "Prostituirsi per fare carriera in politica? Ci sono tanti modi per farlo e la maggior parte di essi non c’entra niente con il sesso e con le donne - scrive in una nota -. E ci sono tanti modi per denunciarlo senza violare la dignità delle donne elette in parlamento. Angela Napoli è caduta nella trappola di Klaus Davi, che dà visibilità alla sua trasmissione confondendo abitualmente i temi della sessualità e della politica".
Insorgono le deputate del Pdl. ’’Mi vergogno terribilmente per le affermazioni di Angela Napoli - afferma la deputata Barbara Saltamartini, responsabile delle Pari opportunita’ del Pdl -. Mi aspetto che i membri di Futuro e Libertà si dissocino pubblicamente da queste infami accuse che gettano fango e discredito su tutte le donne, di qualsivoglia forza politica, elette dal 2006 ad oggi’’. "E’ tristemente ridicolo - aggiunge Saltamartini - che la collega lanci accuse di questa risma solo per sponsorizzare la modifica della legge elettorale".
Per Jole Santelli, vicepresidente dei deputati del Pdl, "le parole di Angela Napoli offendono l’intero Parlamento e non solo le colleghe parlamentari. Il presidente della Camera deve immediatamente intervenire nel censurare le gravi affermazioni dell’onorevole Napoli ed entrambi i presidenti dei due rami del Parlamento tutelare la dignità delle parlamentari e della stessa istituzione che rappresentano".
Anche Alessandra Mussolini sposa la linea della "vergogna" e il richiamo alle istituzioni interne al Parlamento perché intervengano. "Queste parole - dice - offendono le deputate di tutti i gruppi parlamentari e chiedo la convocazione immediata dell’ufficio di presidenza della Camera dei deputati per prendere i provvedimenti del caso".
Passa alle vie legali Melania Rizzoli, Pdl. ’’E’ mia intenzione incaricare l’avvocato Giulia Bongiorno a querelare la collega deputata Angela Napoli per la sua dichiarazione diffamatoria" che, non riportando nomi, "è lesiva indistintamente di tutte le deputate e senatrici’’. "Siamo tutte prostitute - aggiunge la Rizzoli -, avendo ognuna di noi pari dignità di fronte al Parlamento. A meno che la deputata Angela Napoli non abbia il coraggio di fare i nomi e i cognomi delle deputate e senatrici che lei ritiene siano stato elette per l’attività da lei denunciata’’.
Sempre dal Pdl, ecco il contrattacco di Beatrice Lorenzin. "Attaccare le donne, facendo leva su un facile pregiudizio maschilista e gossipparo, è la strada scelta da queste sedicenti paladine della causa femminile che hanno trovato l’ultimo ricovero in Fli e che nei fatti si sono dimostrate, per comportamenti politici, totalmente estranee alla promozione e alla tutela della causa femminile, fuori e dentro il partito".
* la Repubblica, 08 settembre 2010
IL CASO
In bilico il prof di ’Pornosofia’
"La Cattolica non mi vuole più"
Regazzoni aveva appena presentato a Torino il libro sulla diffusione del porno nel web
Contratto a rischio. L’sms dello storico ateneo milanese: "Ci ha creato grossi problemi"
di FRANCO VANNI *
L’annuncio lo ha dato a lezione, di fronte a sessanta studenti allibiti: "Temo che dall’anno prossimo non sarò più un professore di questo ateneo, e non per mia scelta. Come forse saprete, ho scritto un libro sgradito all’università". Chi parla è Simone Regazzoni, docente a contratto di storia economica della cultura in Cattolica. Sostiene che la sua cacciata dall’ateneo sia la conseguenza della pubblicazione di Pornosofia, presentato alla Fiera del libro di Torino: un’analisi della diffusione del porno nell’era di Internet.
Nel libro, l’autore ha omesso di qualificarsi come professore dell’ateneo, "una scelta concordata con l’università", dice. Ma nei giorni scorsi alcuni giornali, parlando del saggio, lo hanno qualificato come "docente in Cattolica" e "filosofo della Cattolica". "L’università non me l’ha perdonata - racconta Regazzoni - ho ricevuto un sms dalla coordinatrice del corso di laurea che parlava di "grosso problema da cui non si sa come uscire". Poi abbiamo avuto liti furiose. Risultato: lo scorso anno a quest’ora il rinnovo del contratto mi era già stato comunicato, ora fanno addirittura resistenze per ricevermi".
La risposta dell’università: "Possiamo solo dire che, per l’anno accademico in corso, Regazzoni è un nostro contrattista". Regazzoni, prima di Pornosofia, aveva scritto altri sei libri che analizzano altri feticci della cultura contemporanea, da Harry Potter alla serie tv Doctor House. Volumi che gli erano valsi citazioni entusiaste sulle pubblicazioni della Cattolica. Ma ora tutto è cambiato. Nell’ultimo saggio, oltre ad analisi dotte della raffigurazione del nudo, si riportano descrizioni esplicite degli atti sessuali rappresentati in video. E il fatto che l’ateneo sia stato associato a "lingue che affondano" e "bocche spalancate", in largo Gemelli è stato preso male.
Paola Fandella, responsabile del corso di economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, racconta: "La vicenda mi ha dato fastidio, è vero. Con Regazzoni abbiamo avuto confronti molto franchi. Ma il rinnovo dei docenti dipende dalla loro performance, e comunque non spetta a me decidere sui contratti annuali". Spetta alla Facoltà, e ai "designatori". Hanno davvero già deciso per il taglio? La risposta della Cattolica è secca: "Per il rinnovo dei contrattisti c’è tempo fino a luglio". Ma Regazzoni non ci sta: "Che io sia ormai un ex docente non è un segreto, e la Cattolica ha il diritto a mettere in cattedra chi vuole. Non capisco però perché mi tengano sulle spine, costringendomi a uno stress notevole. Non posso accettare di fare da relatore per la tesi agli studenti, non sapendo se sarò ancora al mio posto".
Regazzoni, genovese nato nel 1975, è un allievo di Jacques Derrida. Ha fatto un dottorato in Filosofia all’università di Parigi 8, dove ha poi insegnato. Con la Cattolica ha cominciato a collaborare nel 2007, tenendo un seminario di Museologia applicata, cattedra che gli è stata poi assegnata a contratto lo scorso anno. Oggi ha due corsi, entrambi a Economia: Filosofia delle arti visive, seguito da tre soli ragazzi, e Storia economica della cultura, per gli studenti dei primi due anni, con 178 iscritti. Nella valutazione data dagli studenti è nella fascia più alta. "La verità - dice Regazzoni - è che la pornografia è ancora tabù. Fino all’uscita del libro l’ateneo mi elogiava, con pubblicazioni e attestati di stima. Oggi sono un fantasma".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
La lettera. Elvira Dones, scrittrice e giornalista albanese replica alla battuta di Berlusconi "Quelle donne le ho incontrate. Mi hanno raccontato le loro vite violate, strozzate, devastate"
In nome delle belle ragazze albanesi
"Signor Berlusconi, basta battutacce"
di ELVIRA DONES *
Dalla scrittrice albanese Elvira Dones riceviamo questa lettera aperta al premier Silvio Berlusconi in merito alla battuta del Cavaliere sulle "belle ragazze albanesi". Durante il recente incontro con Berisha, il premier ha attaccato gli scafisti e ha chiesto più vigilanza all’Albania. Poi ha aggiunto: "Faremo eccezioni solo per chi porta belle ragazze".
"Egregio Signor Presidente del Consiglio,
le scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo, perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto care: "le belle ragazze albanesi " . Mentre il premier del mio paese d’origine, Sali Berisha, confermava l’impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti, lei ha puntualizzato che "per chi porta belle ragazze possiamo fare un’eccezione."
Io quelle "belle ragazze" le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate, strozzate, devastate. A "Stella" i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in Albania e trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà quanti altri. E’ solo allora - tre anni più tardi - che le incisero la sua professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio.
Ai tempi era una bella ragazza, sì. Oggi è solo un rifiuto della società, non si innamorerà mai più, non diventerà mai madre e nonna. Quel puttana sulla pancia le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell’uomo, il massacro dei clienti e dei protettori le ha distrutto l’utero.
Sulle "belle ragazze" scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo Sole bruciato. Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai in cerca di un’altra bella ragazza, si chiamava Brunilda, suo padre mi aveva pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a testa in giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei, Presidente, solo meno fortunato. E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui continua a sperare, sogna il miracolo. E’ una storia lunga, Presidente... Ma se sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con lei. Ma l’avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio.
In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche righe gliele dovevo. In questi vent’anni di difficile transizione l’Albania s’è inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e testa alta. L’Albania non ha più pazienza né comprensione per le umiliazioni gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci.
* Elvira Dones, scrittrice-giornalista.
Nata a Durazzo nel 1960, si è laureata in Lettere albanesi e inglesi all’Università di Tirana. Emigrata dal suo Paese prima della caduta del Muro di Berlino, dal 1988 al 2004 ha vissuto e lavorato in Svizzera. Attualmente risiede negli Stati Uniti, dove alla narrativa alterna il lavoro di giornalista e sceneggiatrice.
Fisichella: l’intervento dei vescovi era necessario
intervista a Rino Fisichella
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 30 marzo 2010)
L’indicazione della Cei per la difesa della vita, i principi «antropologici» che fondano quelli sociali e quindi sono una discriminante nel voto dei cattolici, l’aborto «crimine incommensurabile», le parole del cardinale Bagnasco riprese con evidenza dai media vaticani. E tutti a pensare a Emma Bonino.
Eccellenza, per la Chiesa non è stato rischioso esporsi così?
«Vede, noi siamo abituati a rispettare il consenso elettorale, sia che riguardi elezioni amministrative o politiche sia che si tratti di un referendum. Se fossero tutti abituati come noi al rispetto delle regole, potremmo vivere tempi migliori...».
A tarda sera l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita, considera sereno l’andamento dello spoglio. Quello che la Chiesa doveva dire, l’ha detto.
«Noi lavoriamo con un criterio che non si ferma alla politica, ai partiti: e richiede un impegno diretto nella società, secondo quel principio di sussidiarietà che ci sta particolarmente caro».
Che la Chiesa fosse preoccupata per Emma Bonino, non è un mistero.
«Qui non si tratta di esprimere un giudizio su questo o quel candidato. Ma se una candidatura è all’opposto di quelli che sono i valori fondamentali del Cristianesimo, anzitutto il rispetto della vita nascente e del suo termine naturale...».
Non sono temi astratti, rispetto al ruolo delle Regioni?
«Macché, non è vero: le Regioni hanno un’autonomia reale, legislativa, che determina anche la politica delle strutture sanitarie, oltre alla formazione scolastica».
Si può pensare a un’astensione di parte dei cattolici del Pd?
«Quando i numeri dell’astensionismo sono così rilevanti, è ovvio pensare che ci sia stata anche un’insoddisfazione dei cattolici: da una parte dipende dalla radicalizzazione bipolarista e dall’altra, certo, anche al fatto che i candidati scelti non sempre corrispondono ai valori fondamentali di un cristiano. Comunque, mi sembra importante far notare una cosa...».
Quale?
«I cattolici in queste elezioni hanno una presenza determinante, come nel caso di Formigoni o Cota, e questo vale anche quando non si presentano con gli schieramenti principali: penso ad esempio ai risultati qualificanti di Paola Binetti o di Magdi Cristiano Allam. Sono dati che fanno comprendere l’impegno costante del mondo cattolico».
Non avete messo in difficoltà una parte del mondo cattolico?
«Nel periodo elettorale c’è stata grande confusione, sia per motivi tecnico-amministrativi sia per ragioni valoriali. Per questo era ancor più necessario che i vescovi intervenissero. Siamo in una società libera e democratica. E quando sono in gioco valori fondamentali, non solo per i cattolici, è inevitabile che la voce dei vescovi si faccia sentire, come sempre chiara e convincente». Al Nord trionfa la Lega, in Veneto ha percentuali da Dc.
Per la Chiesa, ci possono essere problemi su temi come l’immigrazione?
«Anzitutto credo che dobbiamo prendere atto dell’affermarsi della Lega, della sua presenza ormai più che ventennale in Parlamento, di un radicamento nel territorio che le permette di sentire più direttamente alcuni problemi presenti nel tessuto sociale. Quanto ai problemi etici, mi pare che manifesti una piena condivisione con il pensiero della Chiesa. Sull’immigrazione, bisognerà essere capaci di saper coniugare le esigenze dei cittadini e quelle del mondo del lavoro: sapendo che non possiamo considerare gli immigrati come merce lavoro, che esiste un dignità della persona che va rispettata, e che la Chiesa d’altra parte non potrà mai non andare incontro a una richiesta di legalità. Il nostro criterio è dialogare e rispettare il voto dei cittadini».
Ma parlare di principi «non negoziabili», in politica, non è una contraddizione in termini?
«Noi non parliamo di principi non negoziabili in politica, ma a livello di istanza etica. La politica vive di una laicità propria, fatta di indipendenza dal mondo confessionale e religioso. Ma questo non significa indipendenza dai principi etici. Anche il legislatore deve richiamarsi a principi che hanno il loro fondamento nella legge naturale: che non è un’invenzione cattolica, ne parlava anche Cicerone e prima di lui i greci. Tutti siamo chiamati a rispettarla, per non permettere mai che prevalga l’arroganza del più forte sul più debole».
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
La guerra dell’eros
Così l’Occidente ha inventato la rivoluzione sessuale
La liberazione dei costumi negli anni Sessanta, che usò i testi di Reich e Marcuse,
fu un’arma contro l’Urss, mentre la pornografia
è stata usata contro i regimi islamici
di Mario Perniola (la Repubblica, 17.03.2010)
Il testo che anticipiamo è parte dell’intervento che sarà svolto per Film Forum 2010 dedicato all’immaginario pornografico. Il festival si tiene dal 19 al 24 marzo tra Udine e Gorizia
La produzione dei film di Hollywood fu retta dai primi anni ’30 fino al 1966 da un regolamento di autocensura che vietava la rappresentazione di qualsiasi comportamento o immagine ritenuta immorale; questo orientamento viene abbandonato a cominciare dagli anni ‘60. Attraverso una progressiva deregolamentazione si è arrivati alla situazione attuale in cui perfino i bambini attraverso Internet hanno un facile accesso a ogni sorta di video pornografico.
Il punto di partenza di questo sorprendente cambiamento è la cosiddetta Rivoluzione sessuale degli anni ‘60, che resta un evento storico difficile da interpretare: c’è qualcosa di incomprensibile e di enigmatico in questa deregolamentazione che ha trovato il suo avvio negli Stati Uniti, ma si è poi estesa all’Europa occidentale. I paesi comunisti sono invece rimasti fedeli al progetto politico di una società retta da principi di moralità sessuale.
Le idee della Rivoluzione sessuale non erano una novità: esse erano state elaborate negli anni ‘20 e ‘30 dal movimento "Sexpol". Il principale animatore di tale movimento fu lo psicoanalista Wilhem Reich, il quale condusse una battaglia contro due fronti: da un lato contro il nazionalsocialismo, dall’altro contro il comunismo sovietico. Reich attribuiva il successo della propaganda nazifascista all’attivazione di profonde pulsioni inconsce di carattere repressivo e di origine patriarcale; nello stesso tempo stigmatizzava con estrema energia l’involuzione reazionaria della politica e della società sovietica, che aveva ripristinato la legge contro l’omosessualità, ostacolato l’aborto e restaurato il matrimonio e la famiglia coattiva. Qualche anno dopo la morte di Reich, avvenuta nel 1957 in una prigione degli Stati Uniti, il suo libro La rivoluzione sessuale conosce un grandissimo successo e diventa uno dei testi teorici fondamentali di riferimento della deregolamentazione sessuale occidentale, insieme ai testi di Marcuse e di Norman O. Brown. Contemporaneamente opere di narrativa, la cui pubblicazione era stata per decenni bloccata dalla censura, diventano popolarissime.
A chi è stato giovane in Occidente negli anni ‘60 la Rivoluzione sessuale è apparsa come qualcosa di ovvio, strettamente connesso con le idee di democrazia e di sviluppo: guardandola secondo la prospettiva di un orizzonte storico più ampio, essa appare come una breve parentesi tra la repressione delle immagini sessuali durata in Occidente per secoli e l’attuale diluvio di immagini pornografiche accessibili a tutti che crea alla fine, proprio per la sua infinita abbondanza, la scomparsa di ogni tensione erotica. Il carattere straordinario e anomalo della Rivoluzione sessuale degli anni ‘60 trova una spiegazione nel venir meno delle due grandi paure connesse con i rapporti sessuali: la scoperta di una cura capace di sconfiggere la sifilide e la commercializzazione della pillola anticoncezionale (che era stata inventata già trent’anni prima). Tuttavia queste interpretazioni non sono sufficienti a spiegare un fenomeno di massa così rivoluzionario che smantella in pochi anni tabù e divieti secolari.
Un fattore finora non sufficientemente preso in considerazione è quello politico: la Rivoluzione sessuale è stato un aspetto della guerra fredda contro il comunismo, molto più efficace dei missili e della bomba atomica. Insieme alla disponibilità di beni materiali e di consumi, la deregolamentazione sessuale dell’Occidente ha costituito qualcosa di molto più attraente dei Piani quinquennali sovietici.
Alla prima fase della deregolamentazione sessuale, dal 1965 al 1980, che è stata focalizzata sul permissivismo dei comportamenti sessuali, segue una seconda fase in cui in brevissimo tempo viene depenalizzata la pornografia, segregata dai secoli nei bordelli, negli scaffali dei bibliofili, nei boudoir o negli enfers delle biblioteche. Anche in questo caso c’è una spiegazione tecnica, che dipende dalla diffusione delle videocamera e delle cassette video.
Tuttavia questa svolta avrebbe potuto benissimo essere bloccata dalla censura e restare clandestina, come era avvenuto per la fotografia pornografica, la quale ha impiegato più di cento anni per essere legalizzata. Come si spiega dunque questa rapida e improvvisa deregolamentazione della pornografia a partire dal 1980? Certo è che si realizzava in modo veramente derisorio e beffardo un altro aspetto del programma del Sexpol! La famiglia era destabilizzata non dal comunismo, ma dal capitalismo attraverso la televisione, i video e oggi da Internet. I genitori sono così messi fuori gioco, non meno della scuola.
Che cosa è successo nel 1980 di tanto pericoloso e temibile per l’Occidente da indurlo a scegliere una strategia tanto permissiva e lassista? L’11 febbraio 1979 a Teheran viene ufficialmente dichiarata la fine della monarchia e proclamata la Repubblica islamica dell’Iran. Nasce così un regime teocratico e ultra-puritano che si presenta come la prima manifestazione di una Rivoluzione di impatto globale. Dinanzi a un evento tanto inaspettato e contrario a tutte le filosofie della storia democratiche e laiche, l’Occidente elabora due strategie culturali opposte. La prima ha il carattere della rivalità mimetica e porta alla rinascita del fondamentalismo cristiano, che presenta caratteri specifici a seconda dei differenti paesi: negli Stati Uniti porta ad una controrivoluzione conservatrice e neopuritana che si esprime nell’elezione di Ronald Reagan alla presidenza e alla sua campagna contro l’Impero del male.
La seconda strategia condotta simultaneamente alla prima ha invece un segno opposto: la deregolamentazione della pornografia, che offre al mondo intero (ma soprattutto a quello islamico) una sfida di proporzioni colossali: l’immagine del paradiso in terra qui ed ora. Con Internet a partire dai primi anni Novanta è compiuto un passo ulteriore: si passa dalle videocassette pornografiche alla disponibilità diretta e immediata di qualsiasi materiale pornografico. Il punto di arrivo finale è rappresentato dal Web2 e da YouTube dove si può vedere tutto gratuitamente per un tempo illimitato.
Qualche anno fa la pornografia poteva essere definita ancora un mercato moribondo in piena espansione; oggi sembra che essa abbia raggiunto lo stadio del suo compimento. La prospettiva di una pornografia fatta da adolescenti per loro uso e consumo rappresenta la sua fase finale.
Un sinodo sulla donna?
di Liliana Cavani e Emma Fattorini (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)
Una domanda pacata ma radicale: perché le diverse componenti che animano la chiesa, divise su tanti aspetti, hanno però in comune uno stupefacente silenzio sulla donna? Un richiamo stanco e di maniera, frutto più di rivendicazioni esterne che non di una convinzione vera, quale sarebbe logico di fronte a un così evidente segno dei tempi?
Le ragioni sono tante e come sempre quasi tutte dettate da paura. Forse però non aiuta una fìdes che, pur riconoscendo giustamente le «ragioni della ratio», finisce con il trascurare troppo la dimensione dell’esperienza, della relazione personale e in ultimo del corpo e della sua vita. Nella sua concreta incarnazione nell’uomo e nella donna, come ci ricordava Wojtyla, nei troppo dimenticati discorsi sul corpo che teneva i mercoledì mattina. Con quale «ragione», con quale pensiero laico e razionale il cristiano oggi è invitato ad aprirsi e a misurarsi?
Con una ragione e una teologia troppo disincarnata che non vede la verità nell’esperienza religiosa fatta dall’incontro con Cristo come persona. La paura del soggettivismo-relativismo rischia di fare perdere la ricchezza spirituale che c’è nell’entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero. E così si perde quell’unità della persona che deve unificare e non separare le diverse esperienze umane.
Non si può certo dire che siano state onorate le aspettative suscitate dalle parole che Giovanni Paolo II aveva dedicate alle donne, parlando di «genio femminile», una visione poi approfondita da Joseph Ratzinger. La grande novità delle affermazioni contenute nella Mulieris dignitatem, non stava tanto nel riconoscere la parità della donna con l’uomo, ma nel capire finalmente che la donna, senza più camuffare la sua più profonda identità, poteva e doveva essere protagonista, con pari dignità alla costruzione di un mondo condiviso: questa la straordinaria novità di quelle bellissime parole. Non dunque l’ennesimo riconoscimento retorico di una idealizzata e disincarnata essenza femminile, ma la sua concreta promozione nella società senza svisarne la sua intima identità. Tutto ciò avrebbe richiesto un maggiore "investimento" sulle donne e non il contrario. Non c’entra nulla la rivendicazione del sacerdozio femminile. Non è questo che le donne chiedono. E altra la loro influenza e diverse le loro aspettative, esse mirano direttamente a Dio e non a diventare preti. Non trarre tutte le conseguenze pratiche di come il “genio femminile" possa agire nel mondo non solo impoverisce la chiesa cattolica ma finisce con il tradirne la sua stessa vocazione di civilizzazione; il ruolo della donna infatti è oggi e sarà sempre di più il cuore dei grandi cambiamenti di tutte le culture del mondo, la cartina di tornasole dei loro processi di democratizzazione e di umanizzazione.
Che fare perché ai pur autorevoli riconoscimenti del Magistero seguano finalmente atti di grande portata e concretezza? E troppo ingenuo pensare all’urgenza addirittura di un Sinodo sulla donna?
Ansa» 2009-09-09 15:33
I verbali di Tarantini, escort e politici
BARI- Era bipartisan quando forniva ’le ragazze’ ai politici l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, finito sotto inchiesta per corruzione, favoreggiamento della prostituzione e cessione di cocaina ma anche per affari andati avanti forse anche con i favori di politici pugliesi. E’ quanto raccontano i verbali degli interrogatori ai quali Tarantini è stato sottoposto nelle indagini del pm Giuseppe Scelsi ed al contenuto dei quali dedica oggi due pagine il ’Corriere della Sera’. Tarantini parla infatti del suo aver fornito "ragazze" sia a Berlusconi, ignaro del fatto che venissero pagate, sia al vicepresidente Pd della Regione Puglia, Sandro Frisullo, dimessosi nel luglio scorso dopo che venne fuori il suo nome.
Si conferma, con più ampi dettagli, quanto era già stato pubblicato dal maggio scorso attraverso interviste alle ’ragazze’ che, tramite Tarantini, erano state impegnate in feste nelle residenze del premier, o, come Patrizia D’Addario, si erano fermate per la notte con Silvio Berlusconi. A questo riguardo Tarantini nell’interrogatorio dice quanto aveva già detto nei mesi scorsi ai giornalisti: conoscendo "l’interesse" di Berlusconi "verso il genere femminile non ho fatto altro che accompagnare da lui ragazze che presentavo come mie amiche tacendogli che a volte le retribuivo".
In pratica, Berlusconi non sapeva di avere a che fare con un giro di prostituzione messo in piedi da Tarantini: "Io ho voluto conoscere il presidente Berlusconi - dice Tarantini, secondo il Corriere - e a tal fine mi sono sottoposto a spese notevoli per entrare in confidenza con lui". Pagando almeno una decina di ’ragazze’ per favori sessuali e dando ’rimborsi spese’ a una trentina di loro per la partecipazione a feste col premier. Nelle parti pubblicate dei verbali di Tarantini riguardanti Berlusconi sono infatti elencate le donne portate a palazzo Grazioli e a Villa Certosa e indicazioni su voli, spostamenti, rimborsi ed eventuali retribuzioni. La parte meno nota delle dichiarazioni dell’imprenditore barese è, probabilmente, quella dei rapporti con il centrosinistra (a parte l’ormai nota cena elettorale del 2007 cui parteciparono anche Massimo D’Alema e il sindaco di Bari, Michele Emiliano).
Tarantini racconta di aver fornito escort a Frisullo, anche in questo caso retribuendole: "Le attenzioni da me avute nei confronti di Frisullo mi hanno consentito - dice Tarantini - di essere dallo stesso presentato al dottor Valente, direttore amministrativo dell’Asl di Lecce". Come aveva spiegato a Frisullo, Tarantini aveva infatti bisogno di "un’accelerazione dei pagamenti per le prestazioni effettuate" dalle sue aziende e "l’esecuzione di una delibera adottata in maetria di acquisto di tavoli operatori. So che Friisullo ha rappresentato più volte le mie esigenze al dottor Valente".
"La frequentazione di Frisullo - dice ancora Tarantini - mi serviva soprattutto per acquistare visibilità agli occhi dei primari che portavo da Frisullo". A proposito dei suoi affari nel settore delle protesi, Tarantini ci tiene tuttavia a ’salvarsi l’animà: "Sono portato ad escludere - dice tra l’altro - che sia stata forzata la diagnosi nel senso di impiantare protesi a chi non ne aveva bisogno o ne aveva bisogno in maniera minore (...), che siano state impiante protesi per qualità e costo inferiori a quelle formalmente acquistate e impiantate".
Benigni infiamma la festa Pd
di Andrea Carugati *
Seduti uno a fianco all’altro allo spettacolo di Benigni, Pierluigi Bersani e Dario Franceschini si godono uno dei rari momenti di serenità di queste settimane. «Robertaccio è riuscito a mettervi insieme...». «Sì. Faccio l’accordo unitario su di lui e non ci ritiriamo», propone Franceschini. E Bersani: «Della serie, vai avanti tu che mi viene da ridere... ». Chiacchiere e sorrisi a beneficio dei fotografi, accanto all’ex ministro c’è anche la riservatissima moglie Daniela. Roberto li aspetta al varco, i due candidati.
Arriva parlando in genovese, «Belin», e punta subito dritto sulle escort di Berlusconi: «Paganelli, se dicevi che era un festino veniva Silvio direttamente da Villa Certosa con Alinghi». «Eh, Bersani, che record, abbiamo perso 4 milioni di voti, e Veltroni fra un po’ scriverà il libro “io” perché non c’è più nessuno. Bisogna che non si arrivi sotto il 2%, ieri mi sono iscritto e ero il 15esimo». «E poi quello che ci ha dato la linea è Fini, mentre Bersani l’ha data a quelli di Comunione e Liberazione...». «Da chi ci facciamo guidare. Da Pierluigi, Ignazio o da D’Addario? Quando sente questo nome Berlusconi trema... ». «Sì, si è un po incattivito, ha venduto Kakà e ha comprato Feltri: costa meno e sulle punizioni è molto piu bravo... e poi le veline su Boffo, lui ha avuto la solidarietà del Papa, Feltri quella del Papi».
«Di veline ne ha tantissime, è un vizio di famiglia, ne ha tantissime anche su Bersani e Franceschini, vedrete cosa uscirà. Silvo ha fatto bene a denunciare Repubblica e Unità, devono smettere di andare in giro a scrivere cose vere, se fossero false... ». E poi le feste: «Silvio perchè non mi inviti alle feste, alle orge con i vestiti di babbo Natale, tutti ignudi. Fede è stato beccato a fare l’amore con una pecora gonfiabile». «Ma io non voglio parlare dei fatti privati di Silvio, tipo la Costituzione, il lavoro, quelli sono fatti suoi, io parlo dei fatti pubblici, le mignotte». «Silviooo!! Dammene una di porcellona a cinque stelle!!», è il grido di Robertaccio.
«Ci sono le registrazioni e lui giura sui suoi figli che non è vero. Mi chiedo di chi sono i figli... ». «Ha paura», scherza Benigni. «Adesso non vuole che parlino nemmeno i portavoce dell’Europa. Ma quelli sono portavoce, come fanno a stare zitti?». L’Unità: «Ha fatto causa perché hanno scritto che ha problemi di erezione. Silvio non ti preoccupare, ce li ho anch’io. Come farà a dimostrare davanti al giudice che non ha problemi? È difficilissimo avere un’erezione davanti al giudice, io una volta c’ho provato... ». E Noemi? «Ha detto che il babbo era l’autista di Craxi, poi il cuoco di Berlinguer, poi l’idraulico di De Gasperi. Era così arrapato che ha fatto il conto alla rovescia con le candeline, appena ha compiuto 18 anni... non si teneva con questa potenza sessuale impressionante... ».
E le farfalline? «Ormai l’Italia è piena, Piero Angela ha fatto una puntata speciale di Super Quark... ». «E poi le fa diventare assessori o le manda in Europa, e le paghiamo noi. Ma Silvio con tutti i soldi che hai perché non le paghi tu?». «Vuol passare alla storia come Quinto Fabio Massimo, Silvio il trombatore». E Feltri? «Adesso ha una registrazione di Prodi del ‘71 con le gemelle Kessler e dice “Aspettami sul letto di De Mita”, e Bersani innamorato di Pupo che molesta la moglie col cellulare di D’Alema... ».
* l’Unità, 04 settembre 2009
L’Onore ferito
di Ida Dominijanni (il manifesto, 03.09.2009)
Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell’Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E’ un caso e non lo è. Perché fin dall’inizio dell’affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.
Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.
Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po’ nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com’è stato per Patrizia D’Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com’è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).
Il premier e la sua corte hanno un’idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l’ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.
Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l’onore del premier con le sue battute "sull’utilizzo di speciali accorgimenti contro l’impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l’onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l’evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.
Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.
Videocracy: «Tutto iniziò dagli spogliarelli» *
In ’Videocracy’ la tesi è chiara: televisione e potere in Italia ormai coincidono perversamente. Per capirlo basta risalire a trenta anni fa con la nascita delle tv commerciali di Berlusconi. Quei tristi spogliarelli delle massaie in diretta trasmessi allora in alcuni programmi di quelle tv erano per Erik Gandini, regista del docu che andrà al Festival di Venezia (Giornate degli Autori), solo la prima delle lezioni per un pubblico destinato a diventare da lì a poco elettore tipo dell’attuale premier italiano. Una tesi non male ma neppure nuova per un filmato nato per il solo pubblico svedese curioso, a quanto dice lo stesso regista, di sapere qualcosa in più sulla presunta anomalia politica italiana.
Così in uno spirito dal sapore didattico ’Videocracy. Basta apparire’ (questo il titolo per esteso), inizia appunto mostrando quegli spogliarelli di un’Italia che fu. E poi tante immagini di repertorio con pochi commenti. Si va dai tanti provini di un’Italia disposta sempre più a tutto per diventare famosa, all’intervista di una sorta di Virgilio sfigato vissuto sempre ai margini di questo mondo. Ovvero Ricky ragazzo che ama (non troppo riamato) arti marziali e cantare. Ci sono poi interviste ai fan di Silvio Berlusconi in Costa Smeralda, immagini del ministro Carfagna (con tanto di segnalazione, per il pubblico svedese, di come provenga dal mondo dello spettacolo).
E poi ancora tutto il ricco mondo che vive in Costa Smeralda: la villa del premier con i suoi ospiti illustri (Tony Blair e Putin), il Billionaire. In Costa Smeralda si svolge poi una lunga intervista al press agent Lele Mora circondato dai suoi boy. Mora, come è un pò per tutte le interviste destinate inizialmente per il solo pubblico straniero, si lascia più che andare a dire quello che pensa, a far sentire orgoglioso la suoneria del suo cellulare con ’faccetta nerà come ad azzardare un parallelo tra Mussolini e Berlusconi. E così sarà per Fabrizio Corona, anche lui grande ammiratore del Cavaliere, intervistato nella sua casa a più riprese (tra le sequenze un suo nudo frontale sotto la doccia). Dal fotografo, che non si ricorda di aver dato la liberatoria se non svedese per Videocracy, frasi del tipo «quando io vedo una persona famosa, vedo i soldi non la persona». Infine, in Videocracy che sarà nelle sale italiane in 40 copie distribuite dalla Fandango di Domenico Procacci, tra le molte accuse esplicite e non al premier Berlusconi quella di essersi auto-concesso l’immunità. Mentre, nel segno dell’ironia - nel filmato di circa ottanta minuti che potrebbe incorrere in ulteriori polemiche dopo quelle sullo stop di Rai e Mediaset allo spot -, la visione quasi integrale di un video elettorale di Forza Italia con tanto di tormentone: «meno male che Silvio c’è».
* l’Unità, 29 agosto 2009
Il quotidiano Gb pubblica un articolo sull’uscita della nuova
edizione del libro "Tendenza Veronica" di Maria Latella
Il Times: "A Berlusconi consigliano
una clinica per dipendenze sessuali"
dal nostro inviato CRISTINA NADOTTI *
LONDRA - La nuova edizione del libro "Tendenza Veronica" di Maria Latella, ritratto della ex moglie di Berlusconi e cronaca della loro relazione tormentata, non è sfuggito alla stampa inglese. Il Times pubblica oggi un ampio articolo sull’uscita del libro, mercoledì prossimo, puntando sui consigli al presidente di "entrare in una clinica per sex-addicted".
A cinque anni dalla prima edizione, Latella inserisce nel libro gli ultimi capitoli della saga familiare Berlusconi-Lario, e il Times è colpito da quello che Veronica Lario racconta alla giornalista e aveva di fatto scritto nella lettera su Repubblica dello scorso maggio, che diede il via alle inchieste sulle bugie del Presidente del consiglio. "Alcuni membri del circolo più ristretto di Berlusconi consigliano alla coppia di separarsi formalmente - dice Latella nel libro - e Veronica Lario sarebbe stata disposta ad "aiutarlo a ritrovare se stesso... anche con un soggiorno in una di quelle cliniche specializzate nella cura delle dipendenze sessuali".
"Ma questo scenario - anticipa il Times del libro della giornalista del Corriere della Sera - è cambiato completamente da allora e molto dipenderà da quanto la stampa - soprattutto all’estero - continuerà ad essere attratta dalle notizie sulla vita privata di Berlusconi".
* la Repubblica, 23 agosto 2009
Dalla Francia accuse al "libidinoso Silvio"
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 06.08.2009)
La reazione che si sta (per fortuna) alzando giorno dopo giorno contro le abitudini private e pubbliche del nostro premier mostra, ha scritto ieri Michela Marzano su Repubblica, un’Italia «individualista, materialista e machista che ha vergogna quando si guarda allo specchio».
La confusione della cultura dei diritti con un individualismo antisociale - quello che si riconosce nella massima del "me ne frego" - è uno degli aspetti di questo smarrimento. La rappresentazione della nostra società come di un mercato cinico nel quale si scambiano diritti con soldi, sesso con potere, si interseca con quella di una società che pare non avere più un centro di forze etiche capaci di unire i cittadini come una forza di gravità invisibile: il rispetto per gli altri; la solidarietà, l’eguaglianza di cittadinanza.
Senza queste forze etiche, la libertà che i diritti liberali garantiscono e proteggono può trovarsi di fronte a due rischi: essere sentita come poca cosa dai molti, poiché avere diritti significa anche poter vivere il proprio quotidiano sicuri senza accorgersi di essi; e diventare un privilegio di chi sfrutta a proprio vantaggio le potenzialità offerte dalla società liberale facendo dei diritti uno strumento di affermazione contro gli altri. Entrambi questi rischi - il primo di apatia e il secondo di individualismo anti-sociale - sono il segno di una disposizione che la cultura liberale dei diritti può stimolare, ma anche di un’erosione del sentimento di eguaglianza, la condizione senza la quale i diritti si possono tramutare in privilegi antisociali.
Nella tradizione liberale che si è affermata dopo la Seconda guerra mondiale, l’eguaglianza non ha avuto un peso significativo, anzi, per alcuni importanti pensatori come Isaiah Berlin l’eguaglianza è stata intesa come un valore di disturbo e perfino un pericolo per la libertà - va dato merito a Norberto Bobbio di essersi sempre distinto da questa lettura «negativista» dei diritti individuali e aver insistito sulla funzione di libertà giocata dall’eguaglianza. È proprio questo pensiero di Bobbio che andrebbe oggi ripreso: non per mettere in ombra il liberalismo e i diritti, ma per legarli più fortemente alla democrazia.
Gli anni Sessanta hanno inaugurato la stagione dei diritti civili consentendo a milioni di donne e di uomini delle società occidentali di liberare le loro vite individuali dai lacci di una cultura autoritaria e gerarchica, di storiche e recalcitranti disuguaglianze. A quei diritti non si può rinunciare - non solo, essi vanno difesi dai permanenti tentativi di ridurli, abbatterli o decurtarli come avviene oggi con quelli relativi alla vita, dalla procreazione alla morte, dalla maternità alla salute.
Tuttavia, la cultura dei diritti ha prodotto anche il seguente paradosso: ha liberato gli individui dai lacci sociali autoritari ma non ha dato loro nuovi vincoli, quella sorta di colla etica capace di tenere insieme una società di individui liberi e autonomi. Per riprendere Alexis de Tocqueville, mentre ha umanizzato la società e la politica, la cultura dei diritti ha prodotto individui dissociati e isolati, con il risultato di renderli anche più esposti alle disuguaglianze economiche e al potere delle maggioranze, politiche e di opinione. Il populismo che stiamo esperimentando in Italia è anche l’esito del paradosso di una società individualista liberale nella quale la dimensione privata (intesa per giunta come la sfera dove "tutto è lecito") ha preso il posto più alto nella gerarchia dei valori, facendosi passaporto per acquistare favore e potere, non importa con quali mezzi. Come riscattare l’individuo dal degrado di questo individualismo che il declino della politica ha esacerbato?
Dei due partner - liberalismo e democrazia - di cui si compone il nostro ordine costituzionale, è venuto il tempo di volgere l’attenzione al secondo, il più politico dei due. Ma la debolezza della nostra concezione della democrazia non ci aiuta, poiché di questo sistema noi abbiamo ancora una visione sostanzialmente negativa - come del migliore tra i peggiori governi, per dirla con Churchill, o come un sistema elettorale per la selezione della classe politica; questa è stata la visione che ne ebbero i liberali che combatterono e vinsero contro i totalitarismi del XX secolo.
Ma ora, nelle nostre democrazie consolidate, è proprio questa visione negativa e minimalista della democrazia che ci può essere di ostacolo, perché abbiamo bisogno di recuperare la forza etica della dignità della persona e della partecipazione politica che sono alla base della democrazia; infine di riscattare la politica dall’impero tirannico del privatismo individualistico. E ne abbiamo bisogno per recuperare i due valori fondanti della democrazia, la cittadinanza e l’eguaglianza. Della prima abbiamo bisogno perché l’erosione delle istituzioni politiche e del ruolo della partecipazione è facilmente strumentalizzabile da chi ha più presenza politica e più strumenti per formare il consenso; della seconda abbiamo bisogno perché è sotto gli occhi di tutti l’attacco sistematico all’eguaglianza, con l’indebolimento dei diritti sociali, della scuola pubblica, della stessa idea della ridistribuzione come volano di solidarietà (l’esempio più macroscopico viene dal modo egoistico con il quale è stato pensato il federalismo nel nostro paese, come una sorta di secessione dalla responsabilità collettiva di condividere insieme fortuna e sfortuna). Sia la cittadinanza che eguaglianza meritano la nostra attenzione oggi; non per ridimensionare la cultura dei diritti, ma per rafforzarla reinterpretandola all’interno di una cornice politica, non soltanto morale e giuridica (appunto individualista).
La democrazia è una ricca cultura dell’individualità morale e cooperativa, non solo una tecnica di selezione delle élite o un sistema procedurale per giungere a decisioni pubbliche. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale perché non è un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni diverse, ma una persona emotivamente disposta verso gli altri per le ragioni più diverse, come la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare. Queste qualità, che possono produrre anche spiacevoli effetti (come l’adesione acritica alla cultura di massa o l’accettazione dell’opinione della maggioranza), hanno però un lato positivo che è importante sottolineare ed esaltare: rendono l’individuo naturalmente disposto verso gli altri, un cooperatore, e anche una persona capace di sentire vicinanza simpatetica con i diversi e di identificarsi con chi è nel bisogno; infine di sentire vicinanza con tutti gli esseri umani (anche con chi non è membro della comunità nazionale, con importanti implicazioni universaliste e antirazziste), un carattere che è essenziale per dare senso e valore all’eguaglianza. L’azione politica può spingere l’individuo democratico nell’una o nell’altra direzione. La destra populista che domina oggi la scena italiana è stata capace di usare a proprio vantaggio i caratteri dell’individuo democratico, mettendo in luce la sua parte più volgare, massificante e apatica. Spetta alla cultura democratica non populista ma popolare, riuscire a rovesciare questa tendenza.
L’ANALISI.
Così il capo del governo vuol recuperare con le gerarchie
La marcia del cattolico libertino tra squillo, Vaticano e Padre Pio
di EDMONDO BERSELLI *
Secondo il cinismo della cultura prevalente nel circuito di potere berlusconiano, il cattolicesimo italiano è sufficientemente adulto per saper distinguere fra i comportamenti personali, eventualmente deplorevoli, e la funzione pubblica praticata da un leader politico.
Quindi la prostituzione di regime messa in piedi a Palazzo Grazioli apparterrebbe a uno stile di vita "folk", da considerare con un sorriso di complicità. Si tratterebbe in questo senso di un tocco sovrano di eccentricità, il "Berlusconi’s Touch", in cui il "presidente puttaniere", come il Sultano si è definito, costituisce un gustoso tratto personale, a cui anche i cattolici convenzionali guardano con una sottaciuta simpatia.
Sono bugie, finzioni, mitologie. È la cortina di menzogne che i principali collaboratori del presidente del consiglio, a cominciare dall’avvocato Ghedini, hanno cercato di alzare intorno al capo del governo. Una volta chiesero a Bettino Craxi, rifugiatosi a Hammamet, un giudizio su uno dei suoi numeri due, Giuliano Amato: "Un professionista a contratto", rispose con tutta la malevolenza possibile Craxi. Ora Berlusconi di professionisti a contratto ne ha molti. Ma il suo stile e le sue notti di fiaba sono difficilmente neutralizzabili dai professionisti al suo servizio: e non vengono stigmatizzate ieri soltanto dall’Observer ("un governo marcio") e dal Daily Telegraph ("premier libidinoso"): la stampa inglese mette in rilievo il tentativo berlusconiano di riguadagnare consenso nei confronti del mondo cattolico meno mondano e più tradizionale, per quel "popolo" ancora convinto delle verità contenute nel sesto e nel nono comandamento. Ma non sarà il progetto di visitare il sacrario di Padre Pio a sanare la ferita, vera, che si è aperta nella psicologia del cattolicesimo qualunque. Per almeno due terzi dei cattolici italiani, abituati da decenni a trovare un’ancora nella Democrazia cristiana, Forza Italia e il Pdl erano rimasti una garanzia ideologica e "spirituale", anche contro nemici invisibili, "i comunisti" continuamente evocati dallo spirito quarantottesco del Cavaliere. Scoprire la vera qualità dei comportamenti del Capo è stato un trauma.
Perché un conto è conoscere l’impronta culturale delle tv berlusconiane, nate e cresciute cullando il consumismo, l’edonismo, il culto del corpo, tutti i totem di una religione alternativa al magistero della Chiesa, Al massimo i cattolici vecchio stampo, di fronte allo spettacolo di centinaia di centimetri quadrati di epidermide, si vergognano un po’, e si consolano con la versione ufficiale esibita in ogni occasione dai leader di Forza Italia: tutti specializzati nel manifestare un cattolicesimo conformista e pronti a ogni pratica da baciapile per assicurare la loro fedeltà, laica e devota insieme, alla gerarchia.
Per strappare il velo di questa ipocrisia, e rivelare l’insostenibilità di queste acrobazie fra la bigotteria e la spregiudicatezza politica, ci voleva qualche gesto vistoso. Non il pronunciamento di un settimanale assai critico verso il berlusconismo come "Famiglia cristiana" o di altri organi e personalità del cattolicesino conciliare, dossettiano e più meno di sinistra, Ci voleva l’intervento del quotidiano della Cei, "Avvenire", e del suo direttore Dino Boffo. Si può capirne l’importanza e lo spessore anche ex contrario, valutando il silenzio praticamente tombale (e non si tratta di ridicole tombe fenicie) con cui è stato accolto dall’informazione italiana. Boffo ha pubblicato tre lettere, in cui i lettori mettono in rilievo alcuni aspetti critici particolari, Il primo aspetto investe la "sfrontatezza" del premier e l’incongruenza tra vizi privati e pubbliche virtù. Subito dopo viene la critica alla riluttanza della gerarchia a prendere una posizione netta verso lo stile di vita di Berlusconi, cioè riguardo a "comportamenti improponibili per un uomo con due mogli, cinque figli, responsabilità pubbliche enormi e un’età ragguardevole".
II direttore di "Avvenire" non si è tirato indietro. Il Berlusconi licenzioso induce a parlare di "desolazione". Esiste, anzi dovrebbe esistere, un a priori etico che ha valore prima delle strategie politiche e delle dichiarazioni formali, Il "sondaggismo", cioè il consenso volatile costruito dalle indagini demoscopiche ben orientate, non assolve nulla, Ecco, la fiducia che premierebbe comunque il buon cattolico, "il padre di famiglia", che ammette ridendo "non sono un santo" è un’invenzione della scaltrezza dei professionisti a contratto del giro berlusconiano.
In realtà c’è un’Italia cattolica sicuramente moderata ma forse non ancora istupidita dai giochi di prestigio dei maghi della destra. È un pezzo di società poco conosciuto, che non si fa sentire, difficilmente voterà a sinistra, ma è perfettamente in grado di togliere la fiducia a un leader politico, e di sgretolarne la base di compenso, Per questa base cattolica, il pellegrinaggio a Pietrelcina e nei luoghi di Padre Pio contiene una strumentalità talmente plateale da generare addirittura un’insofferenza ulteriore. Il paese, come scrive Boffo a proposito della sfasatura fra il Berlusconi politico e il Berlusconi più ludico, potrebbe sentirsi "raggirato".
Ebbene, la Chiesa è un organismo complesso, e la realtà cattolica non è identificabile con gli stereotipi. Forse in questa occasione i berluscones hanno scherzato troppo con un mondo che in genere conoscono poco, e che negli anni ha dovuto imparare a cambiare ripetutamente l’orientamento del proprio consenso. Il ritiro della fiducia avviene di solito in modo silenzioso. Questa volta potrebbe essere già cominciato, all’insaputa del mondo berlusconiano.
* la Repubblica, 27 luglio 2009
Chiesa, tra moniti e placet
Ma è pronta allo «scambio»
di Fabio Luppino (l’Unità, 13 luglio 2009)
La legge sul testamento biologico verrà usata da Berlusconi e i suoi profeti per l’Assoluzione definitiva, l’indulgenza plenaria. Come un confessionale: da cui non si esce con dieci avemaria e 20 padre nostro. No, si esce con l’affossamento della laicità dello Stato nel fare le sue leggi. Uno scambio indecente. Una accelerazione improvvisa giunta quando tutto sembrava perduto, anche la sponda ecclesiastica. Va riletta attentamente la dichiarazione del ministro Sacconi del 23 giugno, come replica allo sconcerto di Famiglia cristiana riguardo alle vicende «private» del premier. Dall’ex socialista, neo convertito (Dio ci guardi), è partita una rancorosa rampogna per il direttore del settimanale: «La Chiesa più di DonSciortino appare molto interessata all’etica pubblica - ha detto il ministro - che deve caratterizzare i decisori tanto dal punto di vista della loro affidabilità quando promettono, quanto sotto il profilo dell’applicazione laica dei principi cristiani negli atti di governo, a partire da quelli inerenti il valore della vita». Un’affermazione che col tema non c’entrava nulla. Una zeppa, un segnale, una garanzia.
Sacconi, neocrociato, aveva già dato ampie prove di sé negli ultimi giorni di Eluana Englaro. Trombettiere del decreto con il quale si voleva fermare la battaglia del padre per la morte dignitosa della figlia, in coma da 17 anni. Senza indugiare sulle frasi (basta e avanza quella del premier che addirittura ipotizzava per Eluana l’eventualità di dare al mondo un bambino), Sacconi fece fino in fondo la battaglia parlamentare a sostegno di una legge ad personam (le precedenti erano state fatte tutte per «tutelare» Silvio Berlusconi) contra personam. La Chiesa apprezzò. E molto criticò, al contrario, la fermezza di Napolitano. Tre giorni prima della morte di Eluana, il 6 febbraio scorso, il presidente del pontificio consiglio della Salute, il cardinale Javier Lozano Barragan: «Il decreto era giusto». «Eluana è viva, ha il diritto di vivere e la comunità politica deve sostenere la sua vita con i mezzi che ci sono », si associò il presidente emerito della pontificia accademia per la Vita, monsignor Elio Sgreccia.
Il grumo inossidabile. La leva che ha portato alla legge votata dal Senato sul testamento biologico. La logica dello scambio è ben viva nel Pdl. Sempre a Famiglia cristiana rispondeva Bondi il 28 giugno: «Ha fatto più Berlusconi per la Chiesa di qualsiasi politico democristiano». Il Vaticano ci sta. E osserva da lontanol’emergere del puttanaio di circostanze che riguardano la vita privata di Silvio Berlusconi. Settimane di silenzio, interrotto solo qualche giorno fa con la misura finalmente colma e il sillabo di monsignor Crociata contro lo «sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile» non più rubricabile come semplice affare privato.
Il potere temporale ecclesiastico non chiede coerenza ai politici. Guarda ai suoi obiettivi. Non ha avuto nulla da ridire sulla sfilata di separati al Family day. Anche cerchiobottista, se serve. E così con il ddl sicurezza stanno insieme le dure critiche di monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio dei migranti, e la distanza di padre Federico Lombardi, portavoce della Santa sede: «Il Vaticano come tale non ha detto niente sul decreto sicurezza». I parocchiani sono un po’ schifati dai racconti sulle tempeste ormonali di Berlusconi.
Civiltà cattolica di questi giorni, in un saggio su «La coscienza morale e il governo di sé», richiama il monito che Santa Caterina da Siena rivolse ai politici del suo tempo: «Non si può essere buoni politici se prima non si signoreggia se stessi, coloro che non si governano non possono governare la città». La Chiesa millenaria si pone altri traguardi e va oltre. Manda segnali, indubbiamente. Fa sapere che l’udienza con il Papa, affannosamente richiesta da Letta e sherpa di governo, per ora non si mette in agenda; sulle badanti solleva problemi concreti e, in questo clima, riesce ad attenuare anche i furori iconoclasti leghisti. Si tiene, quindi, anche Bondi quando di Berlusconi dice che «sì, è un peccatore come tutti, naturalmente non più di altri, ma sinceramente e profondamente credente», che «non ostenta la sua fede cristiana, non indulge in sterili moralismi da bacchettone, ma va dritto alla sostanza dello spirito».
Il problema, in fondo, non è il Vaticano, anche in questo momento. È il venir meno dell’adagio liberale, libera Chiesa in libero Stato. Non resta che vedere come andrà a finire in una lotta affidata ai freni e contrappesi di maggioranza. Se vincerà Voldemort-Sacconi o Harry Potter-Fini, che sul testamento biologico ha opinioni non integraliste. La posta: lo Stato laico o l’indulgenza per il peccatore-premier.
LA DEMOCRAZIA DI FACCIATA
di don Aldo Antonelli *
E adesso ci si mette anche il capo dello stato! Non so come l’avete presa voi, ma a me non va per niente giù questo richiamo! E sono solo parzialmente d’accordo con ciò che scrive Massimo Giannini su La Repubblica di oggi: "Il monito del Quirinale non può e non deve essere trasformato in ciò che non è e non voleva essere: cioé un invito ai mass media a non occuparsi più di ciò che disturba il governo". Dirò di più, ma nell’intervento del capo dello stato vi leggo, purtroppo, un allineamento a quella che ormai non è altro che la mascherata della democrazia di plastica, la democrazia di facciata, la democrazia liftata con tanto di cerume addosso sì da nasconderne le rughe, come la faccia di lui. Il danno che Michele Serra denuncia oggi, ormai, è fatto: sta davanti ai nostri occhi. "Democrazia senza cultura, democrazia senza informazione, democrazia senza liberazione delle coscienze, democrazia senza libera circolazione delle idee, delle parole, delle immagini, è appena una cornice che oligarchie religiose oppure economiche possono riempire a loro piacimento, e magari a loro immagine".
Continua ad avverarsi, purtroppo, ciò che in tempi non sospetti, Blaise Pascal denunciava: "Democrazia: non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto". Siamo un paese in ginocchio, con la coscienza schienata, incapace ormai di sdegno; un paese di servi contenti nel quale la menzogna imperversa prepotente dalla di lui bocca e nel silenzio/assenzo della Tv imbavagliata, della gerarchia ecclesiastica muta e ammutinata e con la compiacenza generale di gran parte del parlamento, somogliante sempre più ad una sorta di caravanserraglio.
Bisogna leggere i giornali stranieri per avvertire lo scandalo. Sul giornale spagnolo El Paìs, a firma di Miguel Mora, si legge: "Emilio Fede, amico del cuore, compagno di bagordi sardi e milanesi del primo ministro e presentatore del telegiornale di Rete 4, di Sua proprietà, ha dichiarato questa settimana al Corriere della Sera che per l’ufficio del personale di Mediaset in questi anni sono passate 47.000 persone (veline e velini) per fare casting.
Si è scritto che l’Italia era così cinquant’anni fa, quando Anna Magnani in Bellissima (Luchino Visconti, 1951) si sottoponeva a ogni tipo di umiliazione per procurare a sua figlia una parte nel cinema. Si è ricordato che, dall’antica Roma e prima ancora, il potere sempre si è servito di nani, maschiette e cantanti per fare dimenticare le tensioni del governare. Il critico d’arte e filosofo Vittorio Sgarbi, addirittura, ha scritto in questi giorni: “Berlusconi si fotte tutte queste ragazze a nome di tutti gli italiani e questi lo devono ringraziare, perché per governare bene bisogna fottere bene. Ciò che sembra sicuro è che in un Paese più o meno normale questa storia di sesso, potere, maschilismo, dominio, narcisismo costrittivo ed eterna gioventù sarebbe finita già da diverse settimane con una mozione di censura, le dimissioni o forse in un discreto esilio su aereo privato. Nulla di questo è accaduto, al contrario, molti italiani sembrano tollerare le avventure dell’imperatore con una compostezza e disinvoltura ammirevoli".
Vero è che il paese di santi, poeti ed eroi di una volta, oggi può vantarsi di essere un popolo di coglioni.... purché non si sappia.
Aldo [don Antonelli]
Mussolini e la sua amante Ida Dalser
Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione
Il volto cinico di una dittatura
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 22.06.2009)
C’è un’opera che gira le sale cinematografiche e inquieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Bellocchio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conseguenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’inferno manicomiale che la inghiotte. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Grandestoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.
A differenza del documentario, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquietanti e tragiche dentro lo spettatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al destino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cinegiornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclusione in manicomio e delle ipocrisie che cercano di raddolcire questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immolata da una rete di complicità - nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...»
Non siamo, però, in presenza di un film «politico». La politica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi comuni, i convincimenti banalizzanti, le edulcorazioni autoassolutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italiana, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisivo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglierò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verrebbe da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepotente, il sopruso come strumento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito entra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.
Diventa una parabola: quella della Dalser, che, come scrisse Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da raccontare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a raccontarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diverse generazioni - a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli - il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza comune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cavaliere dalle molte macchie e dalle tante paure (di cui Filippo Timi esalta le caricaturalità emotive), quasi che, oltre che come autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.
C’è infatti un mondo di medici e parenti, suore e baciapile, idioti e carogne che si muove sullo sfondo del mondo manicomiale che manduca i sogni della quarantenne dichiarata demente. E che, anziché capire la vicenda di questa Cassandra d’Italia (che crede di essere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci - perfino gli ignavi colti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abito religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla radio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.
Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, svelare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che depura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Luce, che si deve chiedere di spiegare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di dire il suo perché, è propria della settima arte, quando viaggia a questo livello.
L’ANALISI
L’amnesia della morale
di EDMONDO BERSELLI *
In un paese tutto televisivo, da almeno due decenni la politica è stata sostituita dalle immagini dei telegiornali, unica autorappresentazione del potere.
Si capisce facilmente allora come negli ultimi giorni, nonostante le inchieste di giornali come la Repubblica, sia stato possibile azzerare lo scandalo della prostituzione di regime, oscurare i fatti e annullare il giudizio dell’opinione pubblica. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a delineare la strategia: se tutti tacciono, lo scandalo scivola via, e del premier rimane soltanto l’immagine, colorata dalle tv compiacenti, di un uomo di Stato.
Anche questo in realtà è uno scandalo nello scandalo. La prova di una torsione così violenta da ridurre il paese al grado zero della politica. Perché ciò che colpisce, o piuttosto ciò che dovrebbe colpire oggi la coscienza generale, non è solo l’indifferenza anonima e spesso compiacente delle platee televisive, narcotizzate dalla "normalità" degli show privati organizzati dal circuito padronale berlusconiano.
È piuttosto la sensazione "tragica" del degrado che ha contagiato uno dei vertici istituzionali. Ed è per questo che sorprende, e quanto, la sottovalutazione in cui prende forma il giudizio delle classi dirigenti, secondo il calcolo cinico per cui il potere può permettersi qualsiasi scarto rispetto alla regola collettiva.
Il risultato è semplice e spettacolare insieme. Nel racconto delle protagoniste, presunte soubrette o modelle, una sede di fatto istituzionale come Palazzo Grazioli, residenza del capo del governo, è stata ridotta a un privé di escort, ragazze disponibili, teatro di incontri intimi, corteggiamenti sotto l’occhio delle guardie del corpo. Villa Certosa in Sardegna si è trasfigurata in una location di spettacoli grotteschi, talvolta a quanto pare con le aspiranti meteorine in costume da Babbo Natale, in una specie di Hollywood Party strapaesano, o di seriale addio al celibato.
Tutto questo senza che ci sia stata una presa di distanza, o semplicemente un giudizio esplicito, da parte delle élite nazionali: anzi, nell’understatement generale, cioè nella condiscendenza di chi detiene responsabilità pubbliche e private, è come se le ragazze che si fotografano a vicenda nelle toilette di Palazzo Grazioli appartenessero anche stilisticamente a un mondo plausibile: il mondo di Noemi, il mondo di Casoria e delle feste notturne a strascico, il mondo notturno e terminale di Berlusconi e del berlusconismo. Come se quelle fotografie, quegli abiti, quei maquillage designassero lo standard stilistico dell’Italia contemporanea, una misura morale fisiologica, perfetta per i tempi, irriducibile a codici e status che non siano quelli negoziabili del denaro e del corpo.
Prudenze e cautele prelatizie hanno segnato le parole delle comunità di riferimento. Al di là dei giudizi, chiari ma volutamente interlocutori sul piano politico, di Avvenire, ossia il giornale della Conferenza episcopale, non si sentono in giro voci che stigmatizzino la trasformazione di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa in una casa di bambole. Pochi sembrano essersi posti il problema della grave caduta che investe l’immagine del nostro paese sul piano internazionale, e ancora meno appaiono coloro che si pongono il dubbio di quale sarà il clima in cui si svolgerà il G8 dell’Aquila.
Pochissimi, infine, hanno affrontato il tema, colossale, dello scadimento della qualità, e della intrinseca legittimità, del nostro sistema democratico. Insomma, dovremmo essere tutti sotto choc, con una classe dirigente traumatizzata dalle lacerazioni comportamentali di un uomo come Berlusconi, che ha trasferito nel nulla dell’intrattenimento edonistico i contorni del governo, e invece stiamo assistendo a una dissonanza cognitiva perfetta, secondo cui tutto questo è normalità, naturale modernità del gusto, etica ed estetica canoniche, insomma il criterio senza eccezioni a cui ci si confà perché è il vero "pensiero unico" che accomuna nell’autocompiacenza le classi di comando.
Viene da chiedersi tuttavia se questa misura doppia, se il codice che attribuisce la dismisura del potere a chi lo detiene, sia compatibile con la semplice convivenza civile: e viene da rispondere che no, è troppa la distanza fra i saturnalia del sultano e la vita della gente comune. Gli arcana imperii sono tollerati quando risultano iscritti nel segreto, non quando diventano un’esibizione sfrontata e a suo modo feroce. Qui invece, con i ludi fotografici di Palazzo Grazioli, si evoca un vistoso vulnus democratico, dal momento che essi rappresentano la manifestazione sfacciata secondo cui al possessore del comando tutto è possibile, e tutto è dovuto, perfino l’indulgenza.
Ecco, in questo clima di sospensione morale, di fronte a una specie di sorda dichiarazione di irresponsabilità, c’è la minaccia che l’amnesia etica diventi una condizione reale di deficit democratico e civile. Alla fine la doppia misura, una che si applica a Berlusconi e una al popolo, ha un prezzo. Sono già state poste le premesse di una sudditanza. E la credibilità di un intero sistema, nella sua dimensione istituzionale, si dilegua. Resta soltanto la protervia del potere sostanziale, e dello spettacolo che ha allestito nella certezza dell’impunità. Tanto, nell’ipnosi del buio televisivo, quel prezzo lo pagheremo caro, e lo pagheremo noi.
* la Repubblica, 23 giugno 2009