Il richiamo del Papa: indispensabile l’unità tra teologi e pastori
Alla Commissione teologica internazionale: conoscenza e amore si sostengono a vicenda
Benedetto XVI: non si può fare teologia in solitudine. -«L’idea di uguaglianza democratica è figlia del monoteismo evangelico»
Signor cardinale, venerati fratelli nell’episcopato, illustri professori e cari collaboratori! È con gioia che vi accolgo, al termine dei lavori della vostra annuale Sessione plenaria. Desidero anzitutto esprimere un sentito ringraziamento per le parole di omaggio che, a nome di tutti, ella, signor cardinale, in qualità di presidente della Commissione teologica internazionale, ha voluto rivolgermi. I lavori di questo ottavo «quinquennio» della Commissione, come lei ha ricordato, affrontano i seguenti temi di grande peso: la teologia e la sua metodologia; la questione dell’unico Dio in rapporto alle tre religioni monoteistiche; l’integrazione della Dottrina sociale della Chiesa nel contesto più ampio della Dottrina cristiana.
«L’amore del Cristo in fatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2 Cor 5 ,14 -15 ). Come non sentire anche nostra questa bella reazione dell’apostolo Paolo al suo incontro col Cristo risorto? Proprio questa esperienza è alla radice dei tre importanti temi che avete approfondito nella vostra Sessione plenaria appena conclusa.
Chi ha scoperto in Cristo l’amore di Dio, infuso dallo Spirito Santo nei nostri cuori, desidera conoscere meglio Colui da cui è amato e che ama. Conoscenza e amore si sostengono a vicenda. Come hanno affermato i Padri della Chiesa, chiunque ama Dio è spinto a diventare, in un certo senso, un teologo, uno che parla con Dio, che pensa di Dio e cerca di pensare con Dio; mentre il lavoro professionale di teologo è per alcuni una vocazione di grande responsabilità davanti a Cristo, davanti alla Chiesa. Poter professionalmente studiare Dio stesso e poterne parlare - contemplari et contemplata docere(S. Tommaso d’Aquino, Super Sent.,lib. 3 d. 35 q. 1 a. 3 qc. 1 arg. 3) - è un grande privilegio. La vostra riflessione sulla visione cristiana di Dio potrà essere un contributo prezioso sia per la vita dei fedeli che per il nostro dialogo con i credenti di altre religioni ed anche con i non credenti. Di fatto la stessa parola «teo-logia» rivela questo aspetto comunicativo del vostro lavoro - nella teologia cerchiamo, attraverso il «logos«, di comunicare ciò che «abbiamo veduto e udito« (1 Gv 1,3).
Ma sappiamo bene che la parola «logos» ha un significato molto più largo, che comprende anche il senso di «ratio», «ragione». E questo fatto ci conduce ad un secondo punto assai importante. Possiamo pensare a Dio e comunicare ciò che abbiamo pensato perché Egli ci ha dotati di una ragione in armonia con la sua natura. Non è per caso che il Vangelo di Giovanni comincia con l’affermazione «In principio era il Logos... e il Logos era Dio» (Gv 1,1 ). Accogliere questo Logos - questo pensiero divino - è infine anche un contributo alla pace nel mondo. Infatti conoscere Dio nella sua vera natura è anche il modo sicuro per assicurare la pace. Un Dio che non fosse percepito come fonte di perdono, di giustizia e di amore, non potrebbe essere luce sul sentiero della pace.
Siccome l’uomo tende sempre a collegare le sue conoscenze le une con le altre, anche la conoscenza di Dio si organizza in modo sistematico. Ma nessun sistema teologico può sussistere se non è permeato dall’amore del suo divino «Oggetto», che nella teologia necessariamente deve essere «Soggetto» che ci parla e con il quale siamo in relazione di amore. Così la teologia deve essere sempre nutrita dal dialogo con il Logos divino, Creatore e Redentore.
Inoltre nessuna teologia è tale se non è integrata nella vita e riflessione della Chiesa attraverso il tempo e lo spazio. Sì, è vero che, per essere scientifica, la teologia deve argomentare in modo razionale, ma anche deve essere fedele alla natura della fede ecclesiale: centrata su Dio, radicata nella preghiera, in una comunione con gli altri discepoli del Signore garantita dalla comunione con il Successore di Pietro e tutto il Collegio episcopale.
Questa accoglienza e trasmissione del Logos ha anche come conseguenza che la stessa razionalità della teologia aiuta a purificare la ragione umana liberandola da certi pregiudizi ed idee che possono esercitare un forte influsso sul pensiero di ogni epoca. Occorre d’altra parte rilevare che la teologia vive sempre in continuità e in dialogo con i credenti e i teologi che sono venuti prima di noi; poiché la comunione ecclesiale è diacronica, lo è anche la teologia. Il teologo non incomincia mai da zero, ma considera come maestri i padri e i teologi di tutta la tradizione cristiana. Radicata nella Sacra Scrittura, letta con i Padri e i dottori, la teologia può essere scuola di santità, come ci ha testimoniato il beato John Henry Newman. Far scoprire il valore permanente della ricchezza trasmessa dal passato non è un contributo da poco della teologia al concerto delle scienze.
Cristo è morto per tutti, benché non tutti lo sappiano o lo accettino. Avendo ricevuto l’amore di Dio, come potremmo non amare quelli per i quali Cristo ha dato la propria vita? «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (1 Gv 3,16 ). Tutto questo ci porta al servizio degli altri nel nome di Cristo; in altre parole, l’impegno sociale dei cristiani deriva necessariamente dalla manifestazione dell’amore divino. Contemplazione di Dio rivelato e carità per il prossimo non si possono separare, anche se si vivono secondo diversi carismi. In un mondo che spesso apprezza molti doni del cristianesimo - come per esempio l’idea di uguaglianza democratica senza capire la radice dei propri ideali, è particolarmente importante mostrare che i frutti muoiono se viene tagliata la radice del l’albero. Infatti non c’è giustizia senza verità, e la giustizia non si sviluppa pienamente se il suo orizzonte è limitato al mondo materiale.
Per noi cristiani la solidarietà sociale ha sempre una prospettiva di eternità.
Cari amici teologi, il nostro odierno incontro manifesta in modo prezioso e singolare l’unità indispensabile che deve regnare fra teologi e pastori. Non si può essere teologi nella solitudine: i teologi hanno bisogno del ministero dei pastori della Chiesa, come il magistero ha bisogno di teologi che compiono fino in fondo il loro servizio, con tutta l’ascesi che ciò implica. Attraverso la vostra Commissione, desidero perciò ringraziare tutti i teologi e incoraggiarli ad aver fede nel grande valore del loro impegno. Nel porgervi i miei auguri per il vostro lavoro, vi imparto con affetto la mia benedizione.
Benedetto XVI
IL PROFILO
Istituita da Paolo VI, è presieduta dal cardinale Levada
La Commissione teologica internazionale è stata istituita da Paolo VI l’11 aprile 1969. Ha il compito di aiutare la Santa Sede e principalmente la Congregazione per la Dottrina della fede, presso la quale opera, nell’esame delle questioni dottrinali di maggior importanza. Ne fanno parte teologi di diverse scuole e nazioni, dalla conosciuta preparazione e fedeltà al magistero della Chiesa. I suoi membri, mai più di 30, vengono nominati dal Papa con mandato quinquennale su proposta del cardinale prefetto della Congregazione e dopo la consultazione con le Conferenze episcopali. Gli statuti definitivi della Commissione sono stati promulgati da Giovanni Paolo II con il Motu proprio «Tredecim anni iam» del 6 agosto 1982. Attualmente è presieduta dal cardinale William Joseph Levada con padre Charles Morerod segretario generale. L’ultima sua sessione plenaria, da lunedì 29 novembre a ieri, si è soffermata su tre temi di grande rilevanza, cioè la questione dei principi della teologia, il suo senso e il suo metodo; la questione dell’unico Dio in rapporto alle tre religioni monoteistiche; l’integrazione della Dottrina sociale della Chiesa nel contesto più ampio della Dottrina cristiana.
* Avvenire, o4.12.2010
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali” *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=519#forum3139212
Via libera al Cavaliere (almeno in Vaticano)
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 10.12.2010)
Ha regalato ai novelli principi della Chiesa una preziosa croce pettorale promettendo che da un salesiano come lui non dovranno mai temere politiche o leggi ostili. Silvio Berlusconi ha garantito che il suo governo «mai agirà contro la Chiesa», si è detto «molto ottimista» sul «passaggio parlamentare» di martedì, ha rivendicato il proprio ruolo nell’avvicinare la Russia all’ Ue e gli ortodossi ai cattolici. Da parte sua il braccio destro del Papa, Tarcisio Bertone, ha ringraziato l’esecutivo per aver recepito le indicazioni della Santa Sede sui temi eticamente sensibili (vita, famiglia, istruzione) e ha definito eccellente lo stato delle relazioni tra le due sponde del Tevere. Un esplicito riconoscimento che, a pochi giorni dal «redde rationem» della fiducia, offre una rilevante sponda al presidente del Consiglio. Un chiaro segnale del favore con cui la Segreteria di Stato guarda all’esecutivo e diffida dei «salti nel buio».
Alla colazione di lavoro all’ ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, il Segretario di Stato ha presentato al premier i dieci nuovi cardinali italiani festeggiando con loro Antonio Zanardi Landi, l’uomo-ponte tra Vaticano e governo, promosso a Mosca. Prendendo spunto dal trasferimento in Russia del suo mediatore nei Sacri Palazzi, Berlusconi ha illustrato al vertice della Curia Romana l’importanza geopolitica e anche interconfessionale del legame con «l’amico Putin», ha assicurato per il resto della legislatura «ancora maggiore attenzione» alla salvaguardia dei valori cattolici, poi ha lasciato ai più stretti collaboratori la spiegazione delle linee d’azione ai loro «omologhi» d’Oltretevere.
Al momento del caffé si è concesso una battuta: «Se non ottengo la fiducia, è la volta buona che finalmente potrò riposarmi un po’». Quindi, Letta ha evidenziato la positiva cooperazione tra Stato e Chiesa per il bene comune in un momento difficile di crisi economica mondiale, Tremonti si è soffermato sulle misure di sostegno ai nuclei familiari come strumento politico di gestione delle difficoltà finanziarie e strumento di progresso sociale, Frattini ha ricordato l’impegno italiano nelle sedi internazionali contro le persecuzioni dei cristiani, la Gelmini ha esposto le novità della riforma universitaria derubricando le manifestazioni studentesche a «protesta di fuori corso». Insomma, tutt’altro che un «clima di smobilitazione».
Berlusconi e Bertone si sono rassicurati a vicenda sulla governabilità, sulla solidità del dialogo tra la la Santa Sede e il governo e, «nell’ interesse dei cittadini», sulla tenuta del sistema Paese nel complesso quadro planetario. Assente («per impegni a Genova») Bagnasco, capo della Chiesa italiana e titolare delle relazioni con l’esecutivo.
Anche stavolta (come già al ricevimento in nunziatura) si è fatto sostituire dal segretario generale Crociata, segno di un approccio più defilato rispetto all’asse di ferro Bertone-Berlusconi. In Cei ritengono rischioso appiattirsi su un’unica leadership e non escludono, in caso di bisogno, la prospettiva di un governo d’emergenza guidato da una figura più tecnica e «super partes». Dalle gerarchie ecclesiastiche (concordano Segreteria di Stato e Conferenza episcopale) non arriverà alcun avallo al terzo polo . Un «non possumus» dovuto alle posizioni laiciste di Fini su testamento biologico, procreazione assistita e riconoscimento giuridico delle coppie di fatto. Al premier, però, viene richiesto uno sforzo supplementare per dare espressione alle istanze cattoliche attraverso l’introduzione del quoziente familiare, nuove politiche di accoglienza e di integrazione degli extracomunitari.
Al di là di qualche entusiasmo sopra le righe (come la speranza di agevolare lo storico incontro tra il Papa e il patriarca russo Kirill), il Berlusconi-pensiero ha fatto breccia tra i porporati. Dalla Curia non ci saranno appoggi all’intesa Udc-Fli, anzi si farà ulteriore pressing su Casini nell’eventualità di un Berlusconi bis o di una «fase due» del governo «più moderata» e depurata dagli slanci antiimmigrazione della Lega (ieri assente a Palazzo Borromeo).
Una sponda dal Vaticano per il Cavaliere
di Francesco Verderami (Corriere della Sera, 04.12.2010)
Le vie del governo per Berlusconi sono infinite. Passano persino dal Kazakistan, da dove il Cavaliere torna con una benedizione che gli tornerà utile nella sfida con Fini e con Casini, semmai dovesse fronteggiare il terzo polo alle elezioni. Più della dichiarazione di Hillary Clinton, a confortare il premier è stata la confidenza di Tarcisio Bertone: il Cavaliere non avrebbe potuto ricevere miglior regalo dal segretario di Stato vaticano, sebbene toccasse a lui farlo, visto che il 2 dicembre il cardinale compiva gli anni.
«Auguri eminenza», ha esordito Berlusconi. E un incontro del tutto casuale, avvenuto in una pausa dei lavori all’assemblea dell’Osce, si è trasformato in un colloquio a cui il capo del governo annette «grande valore». Così si è espresso con alcuni ministri, ai quali ha raccontato il passaggio a suo avviso più interessante della conversazione: «Quando gli ho chiesto cosa ne pensasse del terzo polo, il cardinale mi ha risposto che non celebra matrimoni fra uomini, soprattutto se si tratta di Casini e di Fini».
Per il Cavaliere quella battuta è stata la conferma che Oltretevere l’intesa dell’Udc con il Fli non solo è sgradita, ma addirittura osteggiata. È vista come un’inconciliabile unione tra una forza di chiara matrice cattolica con un’altra di evidente impronta laica, guidata da un leader - il presidente della Camera - che negli ultimi anni ha sostenuto le più importanti battaglie politiche e referendarie sui temi etici, schierandosi su posizioni opposte a quelle della Chiesa.
Se così fosse, Casini - che già si candida a essere il capo della nuova coalizione - perderebbe l’appoggio più influente, anche se il leader centrista ritiene il mondo cattolico molto variegato, «spazia da Comunione e Liberazione alla comunità di Sant’Egidio». Ma il problema c’è, ed è scontato che il terzo polo sia stato uno dei temi affrontati mercoledì scorso da Casini con il presidente della Cei. L’appuntamento con il cardinal Bagnasco ha fatto seguito ad altri incontri con autorevoli uomini di fede, che auspicavano (e tuttora auspicano) una ricomposizione dell’intera area moderata.
Dal cardinal Ruini a monsignor Fisichella, in molti si sono spesi nei giorni della trattativa tra l’Udc e Berlusconi. E non disperano che l’opera di Gianni Letta vada a buon fine, che il sottosegretario alla presidenza riesca - come ha spiegato - nell’estrema mediazione: «Un compromesso va trovato prima che si arrivi al voto di fiducia». Altrimenti tutto si farebbe, se possibile, ancor più complicato, le urne potrebbero diventare l’epilogo traumatico della crisi, e lo scontro elettorale porterebbe con sé inevitabilmente la nascita del terzo polo. Proprio ciò che non piace in Vaticano. Peraltro quella linea di cesura inizia a intravvedersi anche nel nuovo rassemblement, e le prime dissonanze si manifestano nel gioco di posizionamento per la leadership. La prospettiva che possa essere Casini il capo della coalizione da indicare in caso di voto - così come impone la legge elettorale - ha destato malumore tra i finiani. Per tempo tuttavia i centristi hanno voluto mettere in chiaro le cose, e già una settimana fa il leader dell’Udc l’aveva fatto capire: «Io sono iscritto all’Avis e dono sangue. Ma politicamente - ha sorriso alludendo al Fli - non sono più disposto a versarne una goccia. Abbiamo già dato».
Nei sondaggi il terzo polo è al momento accreditato del 13%, però non è ancora chiaro se l’unione riuscirà a far la forza, se ci sarà quella «scintilla» - come auspica Rutelli - che tramuterà l’alleanza in una «Kadima italiana», consegnandola così al successo. In passato i partiti che si sono uniti non sono sempre riusciti nelle urne ad addizionare le pere con le mele. Perché c’è un problema di strategia, lo spiega oggi sul Foglio il professor Campi: se è vero che l’ex leader di An lavora a «un nuovo centrodestra», «il terzo polo - secondo il direttore scientifico della fondazione finiana di Farefuturo - non lo è. Ha una funzione tattica parlamentare. Al massimo sarebbe una carta di riserva in caso di elezioni anticipate».
Insomma, l’alleanza serviva (e serve ancora) a costruire in Parlamento l’era post-berlusconiana. Se il Cavaliere dovesse però resistere, e lo sbocco della crisi fossero le elezioni, il terzo polo sarebbe una sorta di ripiego. Ecco perché il voto di fiducia del 14 dicembre sarà uno spartiacque. Ecco perché il Fli ieri ha aperto a un Berlusconi-bis. E sotto sotto anche l’Udc è disponibile. Sennò Bertone si farebbe sentire: lui quel matrimonio non lo celebrerebbe.
Il desiderio del Censis
di Ida Dominijanni (il manifesto, 04.12.2010)
Dopo la sfiducia (annunciata) dei finiani e della diplomazia internazionale, su Silvio Berlusconi si abbatte ora anche quella del Censis. L’icona dell’individualismo, del consumismo, dell’uomo solo al comando si è rotta, annuncia Giuseppe De Rita; un lungo ciclo - economico, politico, sociale e psicologico - si è concluso, lasciando sul campo fragilità e depressione, nelle vite singolari e nella vita collettiva. Un’altra bufala, commenterà l’Immarcescibile. E invece, come al solito la diagnosi del Censis centra il punto, va presa sul serio e soppesata.
Dopo averci avvertito, negli ultimi anni, che eravamo diventati una cosa a metà fra una mucillagine malinconica e una compagnia di replicanti in apnea, De Rita mette da parte gli attrezzi della sociologia e prova con quelli della psicoanalisi.
Quello che ci paralizza, dice, è qualcosa di più profondo della contabilità economica o di un trend che va storto: è un grumo inconscio, che annoda il rapporto fra desiderio e legge producendo una società priva dell’uno e dell’altra, del desiderio e della legge, i quali o vivono in una tensione reciproca o muoiono entrambi. Fonte evidente ma non dichiarata la letteratura post-lacaniana sull’eclissi dell’Edipo - in particolare il lavoro di Massimo Recalcati, ben noto a lettori e lettrici del manifesto -, De Rita riconduce a questo grumo la «sregolazione pulsionale», così la chiama, di una società priva di bussola, in cui al desiderio si sostituisce il godimento immediato e all’autorità della legge simbolica si sostituisce la frammentazione inefficace dei poteri e delle norme. Consumismo - degli oggetti e dell’altro ridotto a oggetto, delle merci e del sesso ridotto a merce: ricorda qualcuno? -, edonismo, narcisismo, egoismo, e insieme illegalità diffusa, criminalità, investimento immaginario su una leadership tanto personalizzata quanto impotente: il catalogo è questo, la fotografia del berlusconismo è calzante, e anche il grumo inconscio individuato è quello giusto.
Tuttavia il discorso è scivoloso. Lo sa lo stesso De Rita, quando passa dalla diagnosi alla terapia e scongiura la scorciatoia di una risposta che consista solo in un rafforzamento della legge (o nella litania «più legge, più merito»): la caduta della legge simbolica non si arresta con la stretta delle leggi repressive; non è di autoritarismo che ci sarebbe bisogno ma di autorità, e «non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge». Per De Rita infatti è piuttosto sul secondo tasto che bisognerebbe battere, cioè sul rilancio del desiderio: «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Senonché anche il desiderio non si lascia rilanciare da un’esortazione, e tantomeno da un dovere civile. E in una situazione politica come la nostra, in cui allo stato di illegalità permanente instaurato da Berlusconi si tende a contrapporre solo la parola d’ordine di una legalità-feticcio, è più che probabile che l’analisi del Censis porti a battere non sul secondo tasto ma sul primo.
Si scivola facilmente anche su un altro punto del discorso, quando De Rita riconduce il «soggettivismo» di Berlusconi alla scoperta della soggettività operata dal 68 e dal femminismo: non che siano la stessa cosa, ma «la libertà di essere se stessi» allora conquistata «ha trovato in Berlusconi colui che l’ha cavalcata». Cavalcata, o rovesciata nel suo contrario, traducendo la libertà politica in libero mercato e la soggettività in individualismo? La domanda cruciale è questa, e anche qui non sono ammissibili scorciatoie del discorso, salvo avallare reazioni come quella di Sacconi, il quale infatti coglie la palla al balzo per sentenziare che sì, emerge «un certo nichilismo» dal rapporto del Censis, ma «nasce dai cattivi maestri, figli degli anni Settanta, e va contrastato con i valori tradizionali».
Sono i rischi di un’applicazione troppo meccanica del discorso psicoanalitico al discorso sociale e politico. Meglio incassare intanto le molte fini decretate dal Censis: fine della leadership troppo personalizzata, fine del mito della governabilità e del decisionismo, fine della fede nei miracoli dell’unto dal Signore, fine della credenza nelle magnifiche sorti di un capitalismo che satura sfornando oggetti di consumo. E accogliere l’auspicio di una nuova forma di leadership politica, che sappia puntare sulla responsabilità diffusa. E che più che della dinamica desiderio-legge, che non è nelle sue mani, si occupi di arrestare il piano inclinato su cui il Censis, di anno in anno e ogni anno di più, fotografa impietosamente il paese.
Cultura cattolica: il rischio del declino
di Giuseppe De Rita (Corriere della Sera, 05.12.2010)
Nulla disturba la psiche di noi mortali quanto la sensazione di essere irrilevanti. E si può presumere che il disturbo sia ancora più spiacevole per le istituzioni collettive e per chi le abita e governa. Mi incuriosisce in questa luce, e in parte mi coinvolge, la realtà attuale della Chiesa cattolica che, malgrado la sua persistenza millenaria, è da più parti indicata come grande icona dell’irrilevanza rispetto alla convulsa attualità delle dinamiche culturali e dei dibattiti politici. E confesso che anch’io provo frustrazione per come la Chiesa spesso cada «sua sponte» nel rischio dell’irrilevanza: troppi documenti ad alta genericità, troppi appelli di puro volontarismo, troppi sconfinamenti su argomenti su cui non si ha molto da dire, troppe rivendicazioni valoriali e di principio, troppi eventi che non riescono a farsi notare fuori dei propri recinti.
Si è creata così un’aura di pericolosa non significanza nel campo della comunicazione e dell’opinione pubblica, quali che siano le colpe che in assoluta reciprocità si rinfacciano gli esponenti del mondo ecclesiale («le cose che diciamo non sono adeguatamente valorizzate») e gli esponenti della comunicazione di massa («non ci dicono niente di significativo»). In una progressiva lontananza che non fa bene a nessuno e che forse è possibile superare partendo dalla focalizzazione della sua ragione profonda, cioè l’evasione congiunta e parallela da un confronto culturale doverosamente radicale: da un lato la Chiesa conta prevalentemente sull’omogeneità del proprio mondo, fatto di milioni di fedeli raccolti nelle parrocchie e nelle associazioni; e dall’altro lato i protagonisti della comunicazione e della politica sanno di poter contare sul fatto che sono comunque loro a dettare l’agenda.
Si fronteggiano così due mondi autoreferenziali, dove la distanza fenomenologica delle affermazioni di principio è quasi funzionale a mantenere la autoreferenzialità, spesso addirittura accentuandola: proclamando da una parte valori «non negoziabili», e sottolineando dall’altra la inarrestabilità storica della modernità e dei suoi strumenti. Ma l’autoreferenzialità troppo replicata alla fine stanca e si esaurisce ed è probabile che ci sia spazio per un dialogo pur radicale. Nel mettere a fuoco tale dialogo ed i campi più delicati e ambigui che esso si trova di fronte, si può constatare che il primo riguarda il rapporto fra dimensione ecclesiale e potere sociopolitico. È chiaro che quest’ultimo è propenso, in nome della modernità, a favorire una crescente espulsione della dimensione religiosa dallo spazio pubblico, ma ciò alla fine crea certo una diminutio parallela: la Chiesa è costretta o si adatta a far politica ecclesiastica, di realistico adattamento al potere e quindi senz’anima ecclesiale; mentre lo spazio pubblico diventa sempre più troppo prigioniero delle dinamiche istituzionali (la laicità dello Stato, la esaltazione della legalità, il primato delle procedure decisionali, ecc.) con l’effetto che proprio lo spazio pubblico, quello di tutti, finisce per diventare privo di senso collettivo e di adesione partecipativa.
Il secondo ambiguo campo di dialogo è quello del rapporto con la modernità e la post-modernità. La Chiesa certamente soffre la crescita della secolarizzazione e della riduzione della religione a fatto privato, residuale e premoderno, ma ancora più soffre la crescita del politeismo dei valori e del conseguente relativismo culturale ed etico. Va però notato che tale politeismo ha effetti devastanti anche sulle ambizioni di una modernità che, essendo sempre meno governata, lascia il campo valoriale alla mercé del primato della soggettività (culturale ed etica) con effetti di egoismo, particolarismo, cinismo, che all’occhio critico appaiono più guicciardiniani che moderni.
Il terzo campo di dialogo, proprio a proposito di soggettività, è quello della variazione dello statuto antropologico dell’uomo. La Chiesa avverte che nella società attuale i suoi basamenti di lungo periodo (la creaturalità dell’uomo, il primato dell’anima nel corpo, la scansione fra speranze terrene e destino ultraterreno) hanno meno udienza che nel passato; ma anche la cultura del secolo avverte lo squilibrio fra le sue ambizioni di autopoiesi e di autodeterminazione dell’uomo (il suo farsi da sé, il primato della libertà di coscienza, la moltiplicazione dei diritti, ecc.) e la quotidiana vita deisingoli, presuntivamente potentissima, ma che nei fatti si consuma in difficoltà e disagi di «senso, divenendo fragile e troppo prigioniera del variare delle contingenze.
Ed infine esiste un quarto ambiguo campo di confronto, quello relativo al ruolo della Chiesa nella storia del mondo. La sua funzione antica di motore della storia è andata declinando e non solo per effetto della secolarizzazione di stampo occidentale (che nega anche le radici cristiane dell’Europa) ma anche e specialmente per effetto della crescita combinata del fondamentalismo islamico e dell’empirismo continuato dei Paesi emergenti. Tale combinata crescita mette però in crisi quell’«orgoglio degli umani» che è diventata ideologia tipica dell’Occidente, ma che non può vivere senza il recupero dell’apporto di uno spirito religioso inverato nella storia, come è per secoli stato lo spirito giudaico-cristiano; e senza il quale anche il citato orgoglio rischia l’irrilevanza storica. Ce n’è abbastanza per dare senso ad un confronto serio fra la cultura cattolica e la cultura sociopolitica dominante, due culture che ove si accentuassero i pericoli sopra richiamati rischierebbero un parallelo declino di incidenza collettiva. E siccome i pericoli maggiori li corre oggi la cultura cattolica, è forse opportuno che i primi passi del confronto vengano proprio da quella parte.
E dopo le ideologie? L’Altro
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 05.12.2010)
Che cosa ha fatto cultura negli ultimi 150 anni e che ruolo potrà avere la cultura nei prossimi 150 anni? La complessità dell’analisi e il necessario rifiuto di letture semplicistiche rendono ardua la risposta a questa domanda.
Uno sguardo all’odierna situazione dell’Occidente, nel quadro più ampio del "villaggio globale", consente tuttavia l’audacia di una risposta, che ha piuttosto il sapore di una provocazione. La parabola della modernità occidentale si è sviluppata nell’ultimo secolo e mezzo all’insegna di una straordinaria affermazione e di una non meno vistosa disgregazione: l’orizzonte omogeneo dei sistemi ideologici - di quel mondo delle ideologie e delle loro realizzazioni storiche, caratterizzabile nel segno del "trionfo dell’identità" - ha ceduto il posto a processi di forte frammentazione, accompagnati dal delinearsi di modelli culturali molteplici e spesso antagonisti fra di loro, che hanno prodotto la "folla delle solitudini" tipica della società "post-moderna", in cui ognuno sente l’altro come "straniero morale" e ogni orizzonte comune sembra perduto. È il tempo del "trionfo della differenza", tipico della "società liquida" nella quale ci troviamo, tale non per l’assenza, quanto appunto per la molteplicità di pretese di verità, spesso in conflitto fra loro. Fra identità e differenza la cultura degli anni che verranno dovrà cercare una terza via: oltre la "luce" moderna e la "notte" dell’inquieta post-modernità, è possibile intravedere un’aurora?
La metafora della luce esprime il principio ispiratore della modernità, la pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Illuminare razionalmente il mondo e la vita avrebbe dovuto rendere l’uomo padrone del proprio destino, emancipandolo da ogni dipendenza: l’emancipazione" è stato il sogno che ha alimentato i grandi processi di trasformazione dell’epoca moderna. L’ideologia, però, tende a emancipare il mondo imponendo l’ordine della ragione a ogni cosa, fino a stabilire l’equazione compiuta fra ideale e reale: per questo è necessariamente violenta. Il sogno di totalità diventa inesorabilmente totalitario. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi delle pretese della ragione moderna. «La terra interamente illuminata - affermavano già Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura» (Torino 1966, 11). Se la ragione adulta dava senso a tutto, il pensiero debole della condizione post-moderna non riconosce senso a nulla. È tempo di naufragio e di caduta, di oscurità e di notte, segnato soprattutto dall’indifferenza: il rifiuto degli orizzonti totalizzanti dell’ideologia si traduce per molti nella rinuncia a porsi la domanda sul senso e perfino nella perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila l’estremo volto della crisi culturale della coscienza europea agli inizi del terzo millennio: il volto della décadence. Questa svuota di forza il valore, perché non ha interesse a misurarsi con esso. Viene meno la passione per la verità: la "cultura forte" dell’ideologia si frantuma nei tanti rivoli delle "culture deboli", dove la mancanza di speranze "in grande" piega ciascuno nel corto orizzonte del suo "particulare". La fine delle ideologie appare così veramente come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità.
L’analisi dei processi in atto non esclude però alcuni segnali di aurora. C’è una ’nostalgia di perfetta e consumata giustizia" (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere in una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta di "une recherche du temps perdu", di un’operazione rivolta al passato, ma di uno sforzo diffuso di ritrovare il senso al di là del naufragio, per discernere un orizzonte che ispiri la direzione del cammino.
Fra le espressioni di questa ricerca va segnalatala riscoperta dell’altro: si profila una crescente coscienza delle esigenze della solidarietà, a livello interpersonale, come pure sociale ed internazionale; va emergendo una sorta di "nostalgia del Totalmente Altro", una riscoperta delle domande ultime e dell’ultimo orizzonte; si delinea l’esigenza di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche per motivare l’impegno morale non in vista del risultato che se ne può trarre, ma per la forza del bene in se stesso. La ricerca che si fa strada nella crisi del nostro presente ha dunque il volto dell’altro, non solo di quello prossimo e immediato, ma anche dell’Altro che sia fondamento trascendente del vivere e del vivere insieme. È nel confrontarsi con questa domanda che si giocherà il futuro prossimo e remoto del nostro presente. Oltre il conflitto fra identità e differenza, sarà l’accoglienza dell’Altro a salvarci?