Ma quali "caimani" e "bambini bolliti"!!!
SOCIETA’ ARCAICA, NEVROSI OSSESSIVA E FASCISMO
di Federico La Sala *
’Anomala’ e tuttavia oltremodo interessante è questa recente ricerca di Fachinelli. Essa nasce "all’interno dell’esperienza psicoanalitica, come effetto primo della sorpresa" (p. 7) di trovarsi di fronte a un uomo (nevrotico ossessivo) che annulla il tempo, ma giunge, poi, - allargandosi e quasi capovolgendosi- a toccare altri problemi (p. 7), specificamente storico-antropologici (il fascismo, le società arcaiche, ecc.).
La ragione di questo tipo di sviluppo è dovuto non tanto alla logica stessa dei problemi posti dall’analisi, quanto al fatto che l’esperienza del trovarsi di fronte a "un comportamento del tutto insolito nei confronti del tempo" (p. 135) ha scosso e sorpreso, svegliando l’uno e l’altro da un sonno dommatico, più l’intellettuale che lo psicoanalista: non a caso quest’ultimo pone in secondo ordine e si riserva di affrontare in un prossimo lavoro la questione - tra l’altro ritenuta centrale per la psicoanalisi stessa - del tempo dell’analisi e nell’analisi (pp. 7-8). Ma perché la sorpresa, e perché l’esigenza di una tal risposta?
II motivo è storico: l’irruzione sulla scena del presente di un agire strano nel tempo e sul tempo ha riposto all’intellettuale i non risolti problemi di quella crisi che investì (e investe tuttora, dato che ancora non si è data una risposta esaustiva - il dibattito sulla crisi della razionalità ha qui le sue profonde radici) la cultura europea di fronte all’affermarsi dell’ininterpretabile fascismo (p. 110), che fu proprio sì una parentesi, - spiega Fachinelli, restituendo cosi a Croce parte delle sue ragioni, - ma lo fu come "un modo di funzionare della storia, radicalmente diverso da ciò che si era conosciuto fino allora" (p. 110), e, totalmente dirompente nei confronti delle formalizzazioni ideologiche esistenti ("la Storia delle ’magnifiche sorti e progressive’", p. 150).
Inoltre, gli stessi esiti ’autocritici’ ("le esperienze di questo secolo ci hanno costretto ad aprire g1i occhi", p. 150) sulla Storia intesa come "flusso irreversibile, come totalizzazione, a senso unico in cui si riassorbono tutti i processi precedenti" (pp. 149-150), o, più in generale, su un modello di razionalità che, proprio in "una concezione totalitaria e omogeneizzantedel tempo storico" (p. 150), ha una delle sue strutture portanti, e, dall’altra, il tentativo di elaborare su un’idea molteplice di tempo storico un nuovo tipo di ricerche, inscrivono il contributo di Fachinelli in tale ambito e lo caratterizzano di un originale sforzo di superamento.
Da ciò, anche, il vago percepirsi, - dentro e al di la della risposta creativa alla sorpresa - nello stesso ritmo ’narrativo’ della ricerca, di una tonalità emotiva, quasi di testimonianza.
La ricerca prende le mosse, dunque, dall’analisi dell’uomo che annulla il tempo e dai suoi risultati: la ricostruzione. in funzione del tempo, di "un modo generale di vivere ossessivo" (p. 10). Di qui, procedendo "per salti e indizi, secondo una trama di fili " (P. A. Rovatti, I morti viventi e l’aquila littoria, "la Repubblica ", 17.11.79), e, in particolare, sempre seguendo "il filo del tempi", vengono posti in relazione e analizzati la nevrosi ossessiva stessa, "le società arcaiche e un movimento politico-sociale del nostro tempo" (p. 148), il fascismo.
Il risultato è la scoperta, in situazioni pur tanto dissimili. di analoghi nodi problematici che danno luogo, anche se con procedure diverse, a una stessa soluzione, allo stesso tentativo: annullare il tempo; o più a fondo e meglio, di un tratto comune. Questo tratto comune, non semplice ma complesso, è una configurazione: "essa delinea un nucleo dinamico, da cui si origina un movimento complesso particolare, sia individuale o collettivo; in questo senso essa si presenta come una matrice o cellula genetica" (p. 149), che, - proprio per il suo articolarsi intorno al tempo, e, anzi per il suo elaborarne uno - "è prima di tutto un cronotipo particolare" (p. 154).
L’individuazione di questa configurazione, o cronotipo, particolare" permette a Fachinelli di dare-trarre una prima indicazione: "sulla base di problemi specifici, affrontati da individui e società in condizioni del tutto diverse, è possibile arrivare a delineare tipi di soluzioni omogenee tra loro, nonostante l’immenso divario, a volte, di premesse e circostanze" (p. 1.48), e così a individuare-isolare altri cronotipi o configurazioni.
I varchi schiusi da quest’acquisizione sono molti, e, tutti sollecitano a pensare in modo nuovo su una serie di questioni notevoli. Già l’eterna questione del rapporto individuo-società viene ’superata’ dall’impostazione dell’indagine per problemi specifici e dall’individuazione di una cellula genetica comune a situazioni e collettive e individuali. Inoltre, e fondamentalmente, l’individuazione di questa cellula genetica comune mette in crisi il concetto di Storia e la concezione del tempo che la sostiene.
Infatti la matrice o cellula genetica individuata, prescindendo "da quella immensa accumulazione di fatti, di esperienze, di conquiste e di disfatte che rende la storia, come si dice abbastanza spesso, irripetibile", mostra proprio "la possibilità di ripetere, attraverso, lontananze abissali, una certa definita qualità del decorso storico, di produrre segmenti di storia o di vita individuale nei quali siamo costretti a riconoscere una caratteristica fondamentale comune". Questo, ovviamente, non esclude, - prosegue e tiene a precisare Fachinelli - "ma anzi ne rafforza, la peculiarità storica in senso stretto" (p. 149).
Le conseguenze sono notevoli. Innanzitutto, ci mette di fronte al fatto che "esistono differenti tempi storici, differenti curvature dello spazio in cui si svolge la vicenda umana", e, alla necessità di pensare, al posto di uno svolgimento unilineare, a più linee logiche particolari che si intersecano variamente in relazioni e problemi differenti, e anche ricorrenti, secondo ritmi temporali del tutto peculiari. E ci fa capire, finalmente, perché, "in certe condizioni, vediamo affiorare e dominare la scena sconvolgimenti inauditi, e dei quali ci eravamo scordati, o che pensavamo impossibili" (p. 150). E, ancora, quanto illusoria e ideologica sia l’idea del coincidere nel presente del tempo storico col tempo cronologico, e, quanto grande sia "la necessità di cogliere, in ogni esperienza individuale o collettiva, tutte le temporalità coinvolte, senza dimenticarne alcuna, o meglio, senza dichiararne abolita alcuna per decreto-legge politico o culturale" (pp. 152-3).
Ciò che sembra emergere, anche se con cautela e un po’ implicitamente, - dato il carattere ancora in fieri degli sviluppi possibili dai risultati della ricerca - tra gli spunti e le conclusioni (pp. 123-153) è l’esigenza o il compito di individuare possibilmente cronotipi non solo sul piano diacronico (come è stato fatto tra nevrosi ossessiva, società arcaiche e fascismo), ma anche sincronico, nel presente. In questo, Fachinelli sembra puntare verso approdi simili a quelli di Ernst Bloch, almeno per certi livelli. Questi, infatti, proprio cogliendo la sfasatura tra tempi storici non congruenti che esistono nello stesso presente cronologico ed elaborando il concetto di Ungleich-zeitigkeit (= non contemporaneità), giunge a prospettare "un multiversum temporale, un tempo a più dimensioni compresenti, un intersecarsi di piani diversi del tempo, un contrappunto di squilibri temporali fra diversi popoli, classi e individui che pur vivono nel medesimo tempo cronologico" (cfr. R. Bodei, Filosofia, in La Cultura del ’900, Milano, Gulliver, 1979; cfr. anche, e soprattutto, R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979). Da notare poi che allo stesso Bloch la nozione di non-contemporaneità (centrale nel suo lavoro) permette di elaborare un’analisi del nazismo (tra l’altro, Bloch non è neppure citato in R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari 1971) molto più profonda e originale che non i vari sociologi o marxisti ortodossi, e molto vicina a quella di Fachinelli. Anzi, ci sembra, le ipotesi di Fachinelli confermano più a fondo quelle di Bloch, e, spiegano, insieme il tempo e i modi del manifestarsi del nazifascismo, e, in particolare, perché il fascismo come il nazismo - detto "giacobinismo del mito" da Bloch - riuscirono a "utilizzare i ceti ungleichzeitig" (R. Rodei, Multiversum, p. 35), cioè i ceti contadini e piccolo-borghesi.
Il contribuito di Bloch, su questo punto, ci sembra prezioso, e utile a portare avanti il discorso a cui con cautela accenna Fachinelli: costruire intorno all’elaborazione temporale (o cronotipia) una nuova organizzazione del sapere, puntando così - anche per l’essere questa "una prospettiva di lavoro su più piani" (p. 154) - a una riformulazione e unificazione dei vari saperi parziali esistenti (p. 155) sull’agire dell’uomo.
* (www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 19 febbraio 2004)
Federico La Sala
Sogni rossi sorgono dalla polvere sollevata
di GEORGES DIDI-HUBERMAN (Fata Morgana web, 13 Luglio 2020)
Sperare è vedere un tempo che non vede la realtà in cui siamo immersi. È vedere il tempo nella sua stessa possibilità di rimessa in gioco. È forse vedere un “tempo vero”, e in ogni caso un “tempo grande” che desideriamo fortemente e che intende offuscare la storia presente quando essa è nelle mani di maestri determinati a non rinunciare all’alienazione dei loro soggetti. Lo spirito dell’utopia di Bloch è stato scritto in “tempi bui”, come diceva Brecht, quelli del grande massacro europeo del 1914-1918 e della rivoluzione tradita del 1918-1923 in Germania.
Cosa possiamo sperare, in tali circostanze, scrivendo - per rari lettori - un libro sulla speranza? Speriamo di vedere e far vedere un tempo altro. Ma, in queste stesse circostanze, si tratta di inventare, di reinventare il tempo di punto in bianco. Innanzitutto intendiamo correttamente la parola “invenzione”. Essa implica le due o tre accezioni dell’inventio latina, vale a dire: una facoltà immaginativa, stilisticamente o retoricamente accostata al linguaggio o alle opere dello spirito; una facoltà archeologica che permette di scoprire, di rinvenire una realtà che fino a quel momento sfuggiva alla vista comune; o, ancora, una facoltà strutturale di raccolta e rimontaggio che sottintende, soprattutto tra gli archeologi, una parola come “inventario”.
Ad ogni modo sperare inventa il tempo, nel senso che esso diviene un’istanza per ricominciare. Tale è stato, in effetti, Lo spirito dell’utopia: una serie di ipotesi proposte in vista di una simile invenzione, di una tale immaginazione, di un ricominciamento siffatto. Si trattava in primo luogo, nel resoconto di Ernst Bloch, dell’invenzione di uno sguardo. Il libro si apre con la parola Absicht che significa “intenzione”, “disegno”, “progetto”: nulla di più normale ai margini di un’opera così ambiziosa. Ma Sicht significa “vista”, attraverso cui i traduttori hanno ben compreso il pensiero di Bloch scegliendo di restituire a questa semplice parola il suo pieno valore filosofico senza che si perdesse quello desiderante e sensibile. “Ciò che è in vista”. Ossia, ciò che è in vista non è pienamente visibile, poiché ciò che è in attesa non può, per definizione, essere compiuto. Ciò che è in vista, dirà Bloch, non è completamente noto e, tuttavia, è già conoscenza: una “conoscenza non ancora cosciente” (noch nicht bewubte Wissen).
Tale elaborazione, la cui posta in gioco, ricordiamolo, è di natura politica, presupponeva necessariamente una certa relazione con Freud e la teoria psicanalitica: un dibattito nel senso più vivace, generoso, fecondo. Ernst Bloch fa parte di una costellazione di pensatori - Warburg o Benjamin, Adorno o Marcuse, ma anche Bataille o Ejzenštejn - per i quali la vita sociale in generale e la vita politica in particolare non prescindevano dall’inconscio (il desiderio inconscio, la memoria inconscia, il sapere inconscio). «Quando è che si è coscientemente presenti nella regione dei propri attimi?», comincia col domandarsi l’autore de Lo spirito dell’utopia.
Laddove lo «stesso sogno notturno è generalmente radicato a tutti gli effetti nel passato, scompone ciò che era presente nel passato e lo mantiene nei suoi elementi morti, nei suoi stereotipi» occorrerà, dice Bloch, reinventare l’arte di sognare a occhi aperti.
Occorre andare oltre la nostalgia dell’inconscio freudiano e sostituirgli la speranza, che è rivolta all’altro vettore del tempo psichico (ma si potrebbe anche dire che questa speranza non è altro che il nome, etico e politico, del desiderio in quanto tale, al quale Freud non ha mai negato la facoltà protensiva). Dovremmo quindi sciogliere il presente dall’incantesimo di situazioni alienanti, così come il passato dai ricordi pietrificati: occorre rendere i nostri sogni selvaggi, infuocati, appetibili, dionisiaci, rivoluzionari. Bisogna osare di sognare rosso, sognare ad alta voce la libertà: esclamandola e mettendola in atto. Ciò che Ernst Bloch chiamerà, ne Lo spirito dell’utopia, un’arte dei “sogni a occhi aperti”.
Il “sogno a occhi aperti” (Wachtraum) dà forma e contenuto all’Absicht, a “ciò che è in vista” in tutta l’esistenza etica e desiderante. Esso sorge in un miscuglio di conoscenza (docta) ed emozione (spes). Emerge in tutta la sua evidenza sotto l’aspetto di una vita nova. Questa non ha certamente nulla di una vita realizzata, riconciliata, nella quale tutti i problemi conoscerebbero la loro soluzione, tutti i desideri raggiungerebbero la loro soddisfazione e tutte le preoccupazioni troverebbero il loro appagamento. «Pertanto, laddove cominci una vita nuova, questa domanda aperta (offene Fragen) si avvia, questa effervescenza, questa rivelazione velata (verhüllte Enthüllen) che è generalmente l’attesa di ciò che sta arrivando». Attesa del nuovo e non ritorno dell’identico, dunque. Ma l’anamnesi freudiana non è per questo lasciata ai margini. Al contrario, il suo nuovo valore d’uso mostrerà, in un certo senso, che l’origine stessa è “rossa”, così come lo sono i sogni del futuro.
Se questa reinvenzione del tempo viene presentata innanzitutto come l’invenzione di uno sguardo, è ancora questa che rivela il motivo, onnipresente, della luce, del bagliore o del colore rosso. [...] Appena abbozzata la teoria del sintomo - dove viene meno il normale corso delle cose, dove la realtà zoppica, dove affiora “l’insolito” -, Ernst Bloch ne trae una conclusione pratica o metodologica sorprendente per qualsiasi filosofo speculativo: «In breve, è bene pensare anche affabulando» (kurz, es ist gut, auch fabelnd zu denken). La favola reinventa il tempo e, con esso, le condizioni stesse della nostra attesa, del nostro desiderio - come messo in pratica in modo così efficace da Sheherazade nei racconti de Le mille e una notte -, incluso il nostro desiderio politico. Cosa apporta pertanto la storia, considerata da questo punto di vista, alla nostra esperienza del tempo? Trasforma l’attesa in quanto tale (Warten), che spesso è “vuota”, nella speranza (Hoffen) che in questo desiderio ci sia «sempre qualcosa che covi»: da cui nascerà sempre qualcosa.
Tutta l’acutezza e la tristezza di Ernst Bloch, di fronte alla storia politica degli anni venti e trenta in Germania, esplodono in mille fuochi incandescenti, in mille espressioni letteralmente rosse di rabbia. In uno straordinario paragrafo scritto nel 1933 e intitolato “Inventario dell’apparenza rivoluzionaria” Bloch parla del nazismo come di uno “tremendo terrore bianco” che osa mascherarsi in rosso, cioè “mimetizzandosi con il socialismo”. [...] Da questa prospettiva tanto antropologica quanto politica, l’autore de Lo spirito dell’utopia si rivolgerà infine ai suoi compagni comunisti - ma con intento polemico: non è sufficiente, afferma, denunciare la falsità della propaganda nazista, ma bisogna altresì riconoscere, e cercare di comprendere, l’intensità stessa del loro desiderio. Si apprenderà una lezione - dialettica, ovviamente - da questa situazione atroce [...] quella del “montaggio”, vale a dire lo smontaggio e il rimontaggio di ogni cosa.
Quando il tempo è incomprensibile o, come dice Bloch, “caleidoscopico”, vi è urgente necessità - se non altro per evitare di perdere la testa - di procedere a dei rimontaggi di tempi plurali. Una nozione fondamentale è presente all’inizio di Eredità di questo tempo: cioè quella di “non-contemporaneità” (Ungleichzeitigkeit) che la storia produce per via della sua stessa stratificazione e della sua varietà. [...] La “non-contemporaneità” nazista, con le sue mitologie eclettiche e con la sua versione brutale del millenarismo, si oppone quindi alla “non-contemporaneità” rivoluzionaria, nella quale è facile
rintracciare - pensiamo a Rosa Luxemburg o al giovane Benjamin - «un po’ della antica e romantica opposizione al capitalismo», ad esempio.
Dialettizzare l’anacronismo alla base del nostro tempo equivarrebbe a riconoscerne la complessità, il valore del montaggio di tempi eterogenei, al fine di produrne lo smontaggio (démontage) critico e ripensarli, utopicamente, attraverso un rimontaggio di elementi “rubati per impiegarli a un altro fine”. [...]
In tempi “caleidoscopici”, pertanto, è necessario un rimontaggio dei tempi perduti, di tempi eterocliti e ignorati, “non ancora consapevoli”. Di conseguenza: con dei soggetti dislocati, disorientati tra reificazione ed ebbrezza, occorrerà un rimontaggio degli affetti stessi. Bisogna rimpiazzare le ebbrezze, ritrovare le virtù dimenticate dell’entusiasmo che avrebbe potuto percorrere il proprio cammino, ad esempio, tra la Rivoluzione francese e la Nona sinfonia di Beethoven. Anche in questo caso sarà necessario dialettizzare e, soprattutto, saper discernere tra “l’ebbrezza intelligente” (der kluge Rausch) e l’irrazionalismo fumoso, nostalgico o criptofascista - sia pure neo-romantico - che si può rintracciare in alcuni poeti degli anni venti, in Ludwig Klages o in Carl Gustav Jung.
Questo caos antropologico - o questa “tragedia della cultura”, come la chiamavano Georg Simmel o Aby Warburg - cercava quindi (attraverso il montaggio, ossia lo smontaggio e il rimontaggio del visibile) nella speranza le sue forme. [...] Quando l’operazione di montaggio ha separato gli elementi di un materiale che forma un conglomerato, le cose diventano meno stabili, ma più libere dai propri movimenti. Un paradigma fondamentale che non è altro che quello dell’interruzione: crea il legame, nella pratica stessa del montaggio, tra la nozione romantica di frammento e quella, moderna, di scossa. Esso contraddistingue quanto quest’“epoca” ha prodotto di meglio, nelle arti visive, nel teatro (in Brecht, che Bloch commenta a lungo), nella letteratura (Joyce, Döblin, Kafka) o nella musica (Stravinskij, Berg, Schönberg, parimenti molto presenti in Eredità di questo tempo).
L’eredità di questo tempo? Fallimenti, tradimenti, crolli e rovine, senza dubbio. È dunque un mondo di polvere a causa del tracollo di tutto ciò che si credeva solido. Ma Bloch tenta - dialetticamente - di individuare i possibili “poteri della polvere” (Staub Potenzen). Che cosa si intende con ciò? Semplicemente che la polvere si solleva quando l’edificio crolla: acquisisce d’interesse, scrive Bloch, quando viene sollevata dal crollo. Essa è ciò che dovremmo raccogliere e, soprattutto, rendere “esplosiva” (explosibel). Dovremo capire che la polvere non è solo un materiale obsolescente, vetusto: è un potere dal quale, dalle profondità della crisi, può emergere il futuro, come scrive Bloch in un bel paragrafo del suo libro dedicato a Berlino. Presto dal grigio - della polvere, nella misura in cui riusciremo a scuoterla - potrà alla fine emergere il rosso del desiderio, della speranza emancipatrice.
Il rosso è come la brace che arde ancora sotto la cenere o la polvere. Non chiede altro che di riapparire ogni volta, di “brillare”, di riscaldarci. È quindi il colore della speranza. E se questo deve essere inteso come un “sogno a occhi aperti” di emancipazione, come Ernst Bloch aveva già detto ne Lo spirito dell’utopia, bisognerà allora dire che il fondo del sogno è rosso.
Sul tema della “non-contemporaneità” (Ungleichzeitigkeit), nel sito, si cfr.:
FLS
Distanziamento sociale
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 06 aprile 2020).
Poiché la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può avere delle implicazioni politiche, è opportuno registrare con attenzione il nuovo concetto che ha fatto oggi il suo ingresso nel lessico politico dell’Occidente: il “distanziamento sociale”. -Sebbene il termine sia stato probabilmente prodotto come un eufemismo rispetto alla crudezza del termine “confinamento” finora usato, occorre chiedersi che cosa potrebbe essere un ordinamento politico fondato su di esso. Ciò è tanto più urgente, in quanto non si tratta soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti si comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità.
Benché ci siano, come ogni volta accade, gli stolti che suggeriscono che una tale situazione si può senz’altro considerare positiva e che le nuove tecnologie digitali permettono da tempo di comunicare felicemente a distanza, io non credo che una comunità fondata sul “distanziamento sociale” sia umanamente e politicamente vivibile. In ogni caso, quale che sia la prospettiva, mi sembra che è su questo tema che dovremmo riflettere.
Una prima considerazione concerne la natura davvero singolare del fenomeno che le misure di “distanziamento sociale” hanno prodotto. Canetti, in quel capolavoro che è Massa e potere, definisce la massa su cui il potere si fonda attraverso l’inversione della paura di essere toccati. Mentre gli uomini temono di solito di essere toccati dall’estraneo e tutte le distanze che gli uomini istituiscono intorno a sé nascono da questo timore, la massa è l’unica situazione in cui tale paura si capovolge nel suo opposto. «Solo nella massa l’uomo può essere redento dal timore di essere toccato... Dal momento in cui ci si abbandona alla massa, non si teme di esserne toccati... Chiunque ci venga addosso è uguale a noi, lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, è come se tutto accadesse all’interno di un unico corpo... Questo capovolgimento della paura di essere toccati è peculiare della massa. Il sollievo che si diffonde in essa raggiunge una misura vistosa quanto più densa è appunto la massa».
Non so che cosa avrebbe pensato Canetti della nuova fenomenologia della massa che ci troviamo di fronte: ciò che le misure di distanziamento sociale e il panico hanno creato è certamente una massa - ma una massa per così dire rovesciata, formata da individui che si tengono a ogni costo a distanza l’uno dall’altro. Una massa non densa, dunque, ma rarefatta e che, tuttavia, è ancora una massa, se questa, come Canetti precisa poco dopo, è definita dalla sua compattezza e dalla sua passività, nel senso che «un movimento veramente libero non le sarebbe in alcun modo possibile... essa attende, attende un capo, che dovrà esserle mostrato».
Qualche pagina dopo, Canetti descrive la massa che si forma mediante un divieto, «in cui molte persone riunite insieme vogliono non fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli. Il divieto è improvviso: essi se lo impongono da soli... in ogni caso esso incide con la massima forza. È categorico come un ordine; per esso è tuttavia decisivo il carattere negativo».
È importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva.
Le metamorfosi esistenziali di Elias Canetti
La forza e l’attualità dello scrittore in una raccolta di aforismi inediti
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 13.02.2015)
FA un certo effetto pensare a Elias Canetti - così duro, determinato, tutto preso dal titanico progetto di «afferrare il secolo alla gola» - mentre se ne sta intento a preparare con delicatezza un libretto fatto a mano per la sua amica-amante, la pittrice Marie Louise von Motesiczky, in occasione del suo compleanno: il 24 ottobre del 1942. Quel manoscritto, dalla grafia minuta e chiara, in inchiostro blu, con pagine legate insieme da un cordoncino dorato, fu ritrovato tra le carte della pittrice dopo la morte ed esce ora per Adelphi nella traduzione di Ada Vigliani: Aforismi per Marie Louise ( pagg. 101, euro 12).
IL LIBRO
È un piccolo, quanto significativo tassello da aggiungere a quello strepitoso libro parallelo di appunti e aforismi , La provincia dell’uomo , che Canetti andò scrivendo per decenni nel dichiarato intento di allontanarsi almeno un poco dal claustrofobico impegno di Massa e potere - l’indefinibile “poema scientifico” che lo consacrerà come uno dei pensatori più originali e acuti del Novecento, e che ora sta per essere ripubblicato da Adelphi.
Siamo in piena guerra e Canetti vede intorno a sé soltanto orrore e distruzione, ragione in più per affondare la lama del pensiero nella «mostruosa struttura » del potere, il cui primario intento è procurare la morte e allontanarla da sé: «La confusione, che ebbe origine allora, si chiama storia». Da qui dovrebbe prendere le mosse il vero illuminismo, e da qui, anche, dovrebbe partire un’indagine sulla proliferazione della massa e la sua supina ossessione nei confronti del potere. A maggior ragione nel Novecento, secolo in cui la morte ha rivestito «una forza di contagio che non ebbe mai prima» - assurgendo a figura onnipotente, «nocciolo stesso di ogni schiavitù».
Leggendo questi Aforismi per Marie-Louise si intravede già, in filigrana, la successiva, tenace trama che intercorre tra la morte, il potere e la massa - quella dell’uomo eretto e vivo di fronte all’uomo morto, a terra.
Perché l’individuo non crede mai del tutto alla morte finché non l’ha sperimentata in quella altrui. Superata, nella scomparsa altrui. Quando poi il senso di questa dissimulata soddisfazione diventa una passione insaziabile, colui che ne sarà invaso, «non più appagato dagli sparsi momenti di sopravvivenza offertigli dall’esistenza quotidiana », conoscerà finalmente il segreto del potente - che, nell’azzardo di Canetti influenzato dalla presenza terrificante di Hitler, va strettamente apparentato allo psicopatico, al paranoico. «L’idea di essere l’unico, unico tra i cadaveri, è decisiva sia per la psicologia del paranoico sia per quella del potente, che in tal modo spinge all’estremo il suo potere». Sorge da qui una domanda bruciante, vera e propria «quadratura morale del cerchio ». Se vincere è sopravvivere, come si può continuare a vivere senza essere vincitori? Solo facendosi “custode della metamorfosi”, suggerisce lui. Ovvero immedesimandosi in tutte le creature: comprese le più picco- le, ingenue, impotenti. Ecco perché, già in questi Aforismi, assumono un peso decisivo gli animali - continuamente offesi, eppure capaci di imprevedibili, illuminanti insegnamenti.
Per questo Canetti invita a diffidare di «tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio». Perché si tratta sempre di una riduzione, un impoverimento, un raggelamento. Mentre il suo obiettivo, al contrario, è quello di intensificare la circolazione del flusso vitale. «Nei passi forti della Bibbia troviamo questo grandioso battere e pulsare, e perfino quando l’uomo dorme e sogna, il suo sangue non conosce sosta».
Chi si trova a vivere nell’inferno bellico - per quanto cerchi di rimanere ragionevole - deve per forza ricorrere al sogno, alla visione, all’immaginazione più sfrenata. A maggior ragione se, come Canetti, è impegnato anima e corpo nell’allucinato tentativo di «bandire la morte», con ogni mezzo. Ivi incluso l’ascolto attento e costante delle voci dei morti - che scuotono e incalzano e tormentano i vivi.
C’è una pagina particolarmente toccante di questi Aforismi per Marie Louise , in cui l’autore di Massa e potere suggerisce una singolare modalità per tenere in vita, il più a lungo possibile, l’anima del morto. Evitate di parlarne bene a tutti i costi, ammonisce. Piuttosto litigate con lui e la sua memoria, mettete in luce aspetti sorprendenti del suo carattere - anche quelli più maligni, se necessario. Non ricorrete alla pietà, contrassegno del malcelato desiderio di renderlo inoffensivo: «Affinché il morto, nella sua impalpabi-lità, continui a vivere, bisogna consentirgli di muoversi». Per essere anche lui passibile di trasformazione, e quindi di metamorfosi.
* Aforismi per Marie-Louise di Elias Canetti (Adelphi)
Nella prossima guerra non ci saranno armi potremo solo morderci
di Elias Canetti (la Repubblica, 13.02.2015)
COMBATTONO tra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue.
Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere.
Troppo poco abbiamo studiato i cani: sono la quintessenza dell’”umano”, e quanto disumano è questo.
Chi adora il successo è comunque perduto: se lo ottiene, finisce per assomigliargli; se non lo ottiene, si strugge nel più falso degli aneliti.
La meraviglia vive del caso. Nella legge soffoca. Ormai riesce a ridere solo tra gli animali. Cercò di restare ragionevole all’inferno. La birra non ha più, per lui, il buon gusto di una volta: dal boccale sbircia la guerra.
In ciascuno di noi l’anima abita luoghi diversi: quest’uno ce l’ha nei polmoni, quell’altro nelle viscere; quest’una nel cuore e quell’altra nel sesso; in me si sente a suo agio nelle orecchie, più che da qualsiasi altra parte.
Gli attacchi di panico giungono con una regolarità che li rende sospetti: ci sono attacchi mensili, attacchi settimanali, attacchi diurni e notturni. Si annunciano, come esistessero semplicemente per segnare il tempo.
Il "senex-puer aeternus", laico e devoto. Il narcisismo sistemico (i vecchietti che vogliono mantenersi giovani): La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo (fls)
«La giovinezza non è più una condizione anagrafica, è una categoria dello spirito: i figli diminuiscono, ma i vecchietti che vogliono mantenersi giovani crescono. Essere giovani è costoso (fin da bambini ormai): però mantenersi giovani lo è ancora di più. È scoccata l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia.
Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica dell’uso di parole. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Un piccolo passo per un adolescente, ma, come si dice, un grande balzo per l’umanità.
Sulla soglia di questa regressione, per «rimanere giovani» a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi).
L’ultimo atto (prima dell’abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva) è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni «si rimane giovani» e ci si sente «adolescenti onnipotenti», anche «facendo» un figlio; e persino facendoselo fare).
Quando si dice non farsi mancare niente, pur di realizzarsi pienamente . L’estrapolazione della giovinezza dalla transitorietà della sequenza della storia individua le si è saldata con la sua sovrapposizione all’idea lità dell’umano emancipato, liberato, felice e signore di sé. [...] Nell’adolescenza prolungata, la deriva verso il narcisismo sistemico si cronicizza socialmente.» (Pierangelo SEQUERI, Contro gli idoli del postmoderno, Lindau, Torino 2011)
Tempi moderni
La studiosa Myriam Revault d’Allonnes ha scritto un saggio su questo tema che ha aperto la discussione in Francia
“L’idea di crisi infinita sta cancellando il passato e il futuro”
di Fabio Gambaro (la Repubblica, 13.11.2012)
PARIGI «Oggi abbiamo tutti la sensazione di vivere una crisi senza fine. Ma una crisi che non finisce mai non è più una crisi. Diventa il sintomo di qualcos’altro». Proprio a questa crisi onnipresente e inamovibile che sembra diventata “la trama della nostra esistenza”, la filosofa Myriam Revault d’Allonnes ha appena dedicato un corposo saggio, La crise sans fin (Seuil, pagg. 197, euro 19,50), che in Francia sta suscitando moltissimo interesse. Ripercorrendo storicamente l’idea di crisi, la studiosa francese ne propone una lettura originale in relazione con la nostra percezione del tempo e del futuro. Una prospettiva che le permette di affrontare la questione, sfuggendo ad ogni disfattismo rinunciatario. «La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l’economia e la cultura, l’ambiente e l’educazione», spiega Myriam Revault d’Allonnes, che insegna filosofia politica a Parigi, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes e a Sciences Po. «Ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l’oppressione è perché siamo particolarmente sensibili a una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell’economia, abbiamo l’impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi della famiglia o della coppia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva».
Lei però sottolinea che si usa la parola crisi in modo improprio. Perché?
«C’è stato un vero e proprio rovesciamento del suo significato originario. I greci utilizzavano la parola krisis soprattutto in ambito medico per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall’incertezza, si decide una strategia e s’individua una via d’uscita. Oggi però la crisi ci sembra permanente. E’ onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d’uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sul suo statuto e sulle sue caratteristiche. Insomma, quella che era un’eccezione è diventata la norma».
Una crisi senza fine è ancora una crisi o diventa qualcos’altro?
«Questa impressione di crisi diffusa a cui non sappiamo sottrarci, è una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Nella modernità, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall’idea di progresso. Per Hegel, Marx e i teorici della economia politica, è una fase critica da superare in direzione di un futuro migliore. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro. La nostra visione dell’avvenire è infatti incerta, non prefigurabile. Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari. Simbolicamente, per l’uomo occidentale è emerso come ha scritto Lévinas - un tempo senza promesse. Secondo me, questa è la chiave per capire la nostra situazione».
Un tempo senza futuro modifica anche la relazione con il presente?
«Il presente appare come dilatato all’infinito, invade tutto. Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all’infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile».
Le trasformazioni tecnologiche non sembrano indicare un movimento continuo?
«E’ solo un effetto ottico. In realtà, questa accelerazione frenetica gira a vuoto senza produrre cambiamenti reali nelle nostre vite. Per Virilio ci troviamo in una situazione d’immobilità folgorante. La famosa frase del Gattopardo, occorre che tutto cambi perché tutto rimanga com’è, riassume molto bene la percezione che abbiamo della situazione.» All’epoca dell’Illuminismo, l’idea di crisi era legata al cambiamento. Oggi non è più così. Perché?
«L’inquietudine della modernità fa da sfondo all’attuale situazione di crisi. L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d’incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L’inquietudine e l’incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche - come avviene oggi - un sentimento di abbandono e d’impotenza di fronte alla catastrofe imminente. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino». Lei riprende la metafora dell’uomo in gabbia proposta da Max Weber...
«In effetti, una gabbia d’acciaio, che però non è solo il risultato delle costrizioni esterne che pesano sull’uomo, ma anche delle costrizioni che ciascuno impone a se stesso per adattarsi a tale situazione. Più o meno consciamente ogni individuo partecipa alla costruzione della gabbia in cui sta chiuso». Per alcuni questa condizione d’imprigionamento senza futuro rappresenta la fine della storia e della politica. Anche per lei?
«No. Il leitmotiv della fine secondo me è controproducente. Preferisco ricordare Hannah Arendt che, alla metafora della gabbia, contrappone la metafora della breccia. E’ un approccio non necessariamente più confortevole, ma certamente più produttivo. La breccia, oltre a indicare la rottura con la tradizione, spiega la condizione esistenziale e antropologica di un uomo che, anche quando smarrisce i propri punti di riferimento, non perde la facoltà di pensare e la capacità d’iniziativa. In questa prospettiva, la crisi può spingere a proiettarci in avanti alla ricerca di un nuovo inizio. Ritrovando il suo significato originario, la crisi diventa allora occasione di cambiamento».
Nella pratica, di fronte alla crisi, cosa si può fare?
«Innanzitutto, recuperare il senso critico per sottrarci alla gabbia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Dobbiamo fare un lavoro critico su noi stessi, ma anche valorizzare le capacità della società democratica di sottrarsi all’immobilismo. Nella dinamica democratica c’è sempre qualcosa che ci permette di non considerarci condannati alla sconfitta».
Sul piano individuale, cosa può significare la metafora della breccia?
«Significa che l’individuo deve saper reinventare la propria relazione con il tempo, il futuro e l’incertezza. Naturalmente è molto difficile, specie nell’attuale situazione economica. Non è facile domandare a un lavoratore precario di ripensare il suo rapporto con un avvenire incerto. E non si tratta di vantare il fascino della precarietà o della flessibilità. E’ però necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell’azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare quella che Kundera chiama la saggezza dell’incertezza. Accettare l’incertezza non significa rassegnarsi alla precarietà, ma provare ad affrontare in modo diverso la realtà. Insomma, la crisi infinita non è la fine di tutto, ma un compito infinito che rifiuta la fatalità».
CENSIS
Un Paese fragile, isolato ed eterodiretto
con il welfare stremato da anni di tagli
di ROSARIA AMATO *
ROMA - E’ stato più di un anno orribile: la cifra di quanto l’Italia sia ormai un Paese fragile, isolato, privo della solida reputazione che ha avuto per secoli, prima ancora di giocare un ruolo politico nello scacchiere internazionale, l’ha data forse quello sguardo di scherno passato dal presidente francese Sarkozy alla cancelliera tedesca Merkel, in conferenza stampa a Bruxelles. Senza la sua "good reputation", all’Italia, osserva il 45esimo rapporto Censis, presentato stamane a Roma, non rimane che essere "eterodiretta", in balia della grande finanza e soprattutto delle istituzioni europee che ci dettano l’agenda, "quasi a imporci il compitino". Una situazione "che ci fa sentire confinati per l’eternità a mediocri destini".
E’ colpa soprattutto nostra, certo: abbiamo accumulato per decenni "un abnorme debito pubblico", ci siamo fatti trovare "politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo", abbiamo dimostrato "per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia".
Tornare all’economia reale. Possiamo venirne fuori? Il Censis indica una strada che va ben oltre il risanamento, la messa a posto dei conti imposta "dalla regolazione finanziaria di vertice", che "può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita". E’ illusorio, sottolinea il Censis, "pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà". Premesso che "sarà faticoso, anche per chi si avvia a governare nel prossimo futuro, diffondere impegni di responsabile autodirezione e di rinnovata autostima", bisognerà tornare all’economia reale, e a una cultura che metta al centro la correttezza, e l’onestà.
Riscoprire l’onestà. Sembra lontana la logica della furbizia, del vince chi frega gli altri. E’ evidente che ci ha portati sull’orlo del baratro. Alla classe dirigente la maggioranza degli italiani (59%) chiede adesso "specchiata onestà sia in pubblico che in privato", preparazione (43%), "saggezza e consapevolezza (42,5%). Ma gli italiani sono pronti anche a prendere sulle proprie spalle la responsabilità di cambiare il Paese: il 57,3% si dichiara disponibile a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale (però poi il 46% restringe la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile, il 38% pensa che chi non paga le tasse arreca un danno ai cittadini onesti. Onestà, dunque.
E il nostro "scheletro contadino". In fondo, osserva il Censis, si tratta di tornare al solido "scheletro contadino", inteso come "metafora della nostra cultura di continuo adattamento", ma anche dell’economia reale, che dà ricchezza vera, mentre il dominio dell’economia finanziaria ci ha portati alla crisi. "Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia".
La nostra reputazione è migliore di quello che pensiamo. Per ripartire però bisogna anche liberarsi da quell’eccesso di "declinismo" che si è ormai abbattuto sugli italiani. All’estero non ci vedono poi così male: in una recente classifica internazionale risultiamo al quattordicesimo posto, due posizioni più in basso rispetto al 2009 (ma Spagna, Irlanda e Grecia hanno perso molto più terreno). Dell’Italia gli stranieri apprezzano lo stile di vita, l’ambiente, la capacità di intessere relazioni, il cibo. Caratteristiche che hanno anche una solida base economica: l’Italia è l’ottavo Paese esportatore del mondo, con circa il 3% dell’export mondiale e una crescita del 10,1% tra il 2009 e il 2010. Vanta un primato sui prodotti Dop e Igp, che hanno tenuto a livello di fatturato anche tra il 2008 e il 2009, quanto tutto arretrava. E del resto l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità in Europa: ne abbiamo 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ma gli italiani non riescono più a vedersi obiettivamente, si giudicano male, decisamente molto peggio di quanto li giudichino gli stranieri: una classifica analoga, nella quale si chiede invece agli italiani quello che pensano dei vari Paesi, ci vede invece al 34esimo posto su 37 Paesi.
L’identità perduta. Gli italiani fanno persino fatica a sentirsi tali. Solo il 46% dei cittadini si dichiara "italiano" (con differenze territoriali: il 44,7% al Nord-Ovest, il 37,9% al Nord-Est, il 54,4% al Centro, il 46,8% al Sud e nelle Isole), mentre il 31,3% si riconosce piuttosto cittadino del proprio Comune, o della propria Regione; il 15,4% si sente "cittadino del mondo", il 7,3% si riconosce solo in se stesso. Anche se prevalgono ormai modelli familiari molto diversi da quello tradizionale, il senso della famiglia rimane il valore aggregante per il 65,4% degli italiani (con un picco del 75,2% al Sud e nelle isole), seguito a molta distanza dal gusto per la qualità della vita (25%) e dalla tradizione religiosa (21,5%).
Valorizzare i punti di forza. L’Italia ha ancora dei notevoli punti di forza. Le esportazioni, innanzitutto, che il Censis indica come possibile volano di crescita, soprattutto se le imprese italiane continuano con determinazione a raggiungere nuovi mercati, cogliendo le nuove opportunità offerte da Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia. Ma può giocare un ruolo importante per la ripresa anche la valorizzazione della ricchezza delle famiglie, che è ancora cospicua nonostante l’erosione dovuta alla crisi: è cresciuta del 22% infatti in termini reali nel decennio 1999-2009, raggiungendo il picco nel 2007. E’ cresciuta molto più del reddito: il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte dieci anni dopo. Da valorizzare, ancora, le nostre eccellenze nell’industria manifatturiera e agroalimentare, e l’apporto sempre più indispensabile degli immigrati.
Rilanciare la produttività. Il punto debole del nostro sistema al momento è soprattutto la produttività bassa. Il Pil non cresce anche perché la produttività non cresce. E infatti mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil italiano è cresciuto solo del 4%, contro il 9,7% della Germania e l’11,9% della Francia, che hanno registrato incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e del 5,1%. La produttività oraria ha avuto un vero e proprio crollo in Italia dal 2000 a oggi: siamo partiti in fatti da un valore pari a 117 (fatto 100 il valore medio europeo), arrivando nel 2010 ad appena 101, contro 133 della Francia, 124 della Germania, 108 della Spagna e 107 del Regno Unito. Inoltre il mercato non assorbe praticamente più lavoratori qualificati: gli imprenditori e i dirigenti sono diminuiti dell’11,5%, dei 309.000 nuovi posti dell’ultimo quinquennio 297.000 erano per addetti alla vendita. Non solo è calata la produzione industriale, ma anche il valore aggiunto dei servizi è cresciuto pochissimo (+1,3%), che sono invece cresciuti ovunque in Europa.
Promuovere la formazione. Alle carenze del nostro sistema produttivo corrispondono carenze forse anche più gravi di quello scolastico-formativo. Moltissimi si iscrivono alla scuola superiore, ma si diploma solo il 75% dei diciannovenni. Il 65% dei diplomati tenta la carriera universitaria, ma poi il 20% abbandona. E del resto il tasso di occupazione dei laureati è fermo al 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei e ben al di sotto della media (82,3%). I laureati che lavorano sono per metà sottoinquadrati al primo impiego (49,2%), ma lo sono anche il 46,5% dei diplomati.
Basta con i tagli lineari. Il fatto è che la scuola e l’università, come il welfare, come i trasporti, sono stremati da tre anni di "tagli lineari", che hanno prodotto gravi segnali di deterioramento dei servizi. Nel triennio 2008-2011 l’organico scolastico è diminuito di 57.000 posti, a fronte di un incremento di 76.000 unità degli alunni. Il comparto sicurezza ha subito tagli per 1,65 miliardi di euro. I trasporti locali sono al collasso, e ancor più lo sono le politiche sociali: il relativo Fondo Nazionale tra il 2009 e il 2011 è stato ridotto del 65,6%, mentre il Fondo nazionale per le non autosufficienze è stato azzerato.
Bisogno di piazza. Ma non basta riavviare l’economia, e neanche credere nuovamente in noi, e in valori come l’onestà e la correttezza. Bisogna potenziare le relazioni sociali, delle quali gli italiani sentono forte bisogno. E infatti hanno riscoperto le reti di prossimità, quello che una volta banalmente si definiva il vicinato, le attività di volontariato (svolte dal 26% della popolazione), gli incontri conviviali, dalle sagre alle feste (se ne tengono 11.700 ogni anno in Italia), i social network (che coinvolgono il 31% degli italiani). Il "bisogno di piazza" si esprime in termini molto più semplici: è proprio la piazza il luogo dove ancora oggi si incontra il 27,5% degli anziani, seguito dal bar (27,1%).
* la Repubblica, 02 dicembre 2011
E il fascismo sparì dal dizionario
Una parola abusata per troppo tempo, che qualcuno ha proposto di abolire.
Ma si può censurare la realtà storica?
Anticipiamo uno stralcio del contributo dell’autore alla raccolta Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, Il Mulino, pagg. 543, eur 37,00, in libreria dal 1° dicembre
di Emilio Gentile (Il Fatto Quotidiano, 25.11.2011)
MISONE IL CHENESE, annoverato da Platone fra i sette saggi dell’antica Grecia, era un filosofo contadino che l’oracolo di Delfi aveva detto essere il più saggio fra i Greci. Tuttavia, pochissime tracce del suo pensiero sono state tramandate. Ma fra le pochissime, ve n’è una che conferma la sua saggezza: «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole». Più che ai filosofi, la massima di Misone dovrebbe attagliarsi agli storici, che studiano la genesi e lo svolgimento delle esperienze umane del passato, alle quali sono quasi sempre associate parole nuove - qui diremo i concetti - usate da coloro, che quelle esperienze vissero, per denominarle e definirle lasciandole poi in eredità ai posteri. Le cose e le parole tramandate dalla storia sono l’oggetto della ricerca e dell’interpretazione degli storici. Ma gli storici non sono sempre concordi nell’interpretare le esperienze del passato come non lo sono nel definire il significato dei concetti ad esse associati.
Un caso fra i più recenti, universalmente noto, è la parola “fascismo”. La parola ebbe origine in Italia da un movimento politico, la cui esperienza iniziò, si svolse e si concluse fra il 1919 e il 1945. Durante lo stesso arco di tempo, la parola “fascismo” fu applicata ad altri movimenti politici sorti fuori d’Italia negli anni fra le due guerre mondiali, per essere poi ulteriormente estesa, dal 1945 ai giorni nostri, a movimenti, ideologie, regimi, mentalità, costumi e comportamenti i più svariati e i più disparati, disseminati in ogni parte del mondo, e persino in tempi e luoghi precedenti di molti anni la comparsa del fascismo in Italia. Con l’inflazione del termine, anche il suo significato è stato continuamente elasticizzato fino a perdere ogni consistenza propria e ogni attinenza con il fenomeno storico da cui ebbe origine.
La stessa sorte è toccata ad altre due nuove parole, “totalitario” e “totalitarismo”, che fecero la loro comparsa nella storia dopo l’ascesa del fascismo al potere alla fine del 1922. Le due parole furono coniate fra il 1923 e il 1925 per definire la natura e l’originalità del partito fascista, la sua organizzazione, il suo modo di agire e il nuovo regime politico cui esso diede origine. Dopo il 1926, la parola “totalitarismo” fu adoperata per definire altri nuovi regimi politici, che nell’organizzazione e nei metodi del potere avevano somiglianza con il totalitarismo fascista, come il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo . Poi, dal 1945 ai giorni nostri, anche l’uso del termine “totalitarismo” ha subito una dilatazione inflazionistica, essendo applicato a movimenti, regimi, ideologie, mentalità e comportamenti i più vari e diversi, al punto da far perdere il significato storico originario del termine e la sua connessione con la “cosa” dalla quale aveva avuto origine.
Quasi novant’anni sono passati dalla comparsa nella storia del fascismo e del totalitarismo. Almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, l’associazione fra fascismo e totalitarismo è stata considerata evidente. Invece, a partire dagli anni Cinquanta, ci sono stati studiosi i quali, pur senza avere un’adeguata conoscenza né della storia del fascismo né delle origini del totalitarismo, hanno negato l’associazione fra fascismo e totalitarismo, sostenendo, come fece la filosofa Hannah Arendt nel 1951, che il fascismo non fu totalitario, e che pertanto non aveva senso parlare di “totalitarismo fascista”, riservando l’uso del concetto di totalitarismo esclusivamente per lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Altri studiosi hanno invece sostenuto che neppure questi due regimi possono essere definiti totalitari, giungendo quindi alla conclusione che il totalitarismo non è mai esistito, e che pertanto il concetto stesso non ha alcuna utilità. Esempio estremo di questa negazione è stata la proposta, formulata nel 1968 su un’autorevole enciclopedia di scienze sociali, di bandire il concetto di “totalitarismo” dalla storiografia e delle scienze sociali. Un’analoga proposta fu formulata nello stesso anno per il termine “fascismo”, adducendo come motivo l’uso spropositato del termine stesso.
Non mi risulta sia mai accaduto, nella storiografia e nelle scienze sociali, che la controversia su un concetto scaturito dalla realtà storica abbia indotto gli studiosi a concludere con la richiesta della sua messa al bando, cioè ad operare una operazione di censura, solo perché è stato usato a sproposito o perché gli studiosi non sono giunti a darne una definizione unanime. se tale condizione fosse sufficiente per decretare la messa al bando di un concetto storico, dovrebbero essere eliminati dalla storiografia e dalle scienze sociali concetti altrettanto controversi e di uso altrettanto spropositato, come despotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, rinascimento, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, comunismo, socialismo, conservatorismo, radicalismo, e tutti gli altri ismi della storia. Quali conseguenze potrebbe avere un siffatto “negazionismo concettuale” per la storiografia, è facile immaginarlo.
Perversione “narcinista”: è narciso e cinico
di Massimo Recalcati* (il Fatto Quotidiano” del 20 gennaio 2011
Silvio Berlusconi è un paranoico? No, non credo. Casomai lo fa (come quando recita il mantra dell’anticomunismo), ma non lo è affatto. La grande paranoia si nutre (seppur follemente) di ideali. Nella parola del Führer parlava la Storia che assegnava alle masse una missione scritta nel destino. La dimensione della paranoia è la dimensione del fondamentalismo e non del narcinismo (narcisismo più cinismo) berlusconiano. La perversione è la figura clinica che più ci consente di accostare il fenomeno del berlusconismo. In che cosa consiste? Non tanto nella presenza di comportamenti sessuali patologici, delle cose che si fanno sopra o sotto le lenzuola. In un lapsus esilarante una giornalista de La7, qualificando la Minetti, dice “igienista mentale” anziché “dentale”. Come sentenziava saggiamente Moana Pozzi: il sesso è nella testa. La perversione non è quello che si fa col sesso, ma l’igiene mentale di chi lo fa.
La perversione definisce clinicamente una patologia mentale il cui contenuto di fondo è l’angoscia profonda provocata dell’esperienza del limite. Il perverso non crede nella missione della Storia. Egli è totalmente disincantato. Vive solo per realizzare il maggior godimento possibile in questa vita. Tutto il resto viene dopo, è secondario, anzi è un ingombro alla realizzazione di questo compito che egli persegue come se fosse un vero e proprio cavaliere della fede. Solo che la fede del perverso non conosce ideali, anche se si ammanta di ideali, non conosce rispetto per la verità, anche se può spesso parlare in nome della verità e del suo giusto ristabilimento.
L’angoscia della morte o, che è lo stesso, l’angoscia per la propria impotenza sessuale impongono a Berlusconi di cancellare da un corpo che deve essere bionico tutti i segni della malattia e dell’invecchiamento. Per scongiurare l’angoscia egli si pone come un padrone apatico di questo godimento del sesso senza amore, anche se ne è un servitore inquietante. Perché il perverso può avere l’impressione di dominare tutto ciò che gli sta attorno, ma non la spinta a godere senza limiti.
È la patologia mentale che rende vulnerabile e ricattabile il nostro premier. Questa spinta a godere (Fabrizio Corona docet!) è più forte di lui, non ne può fare a meno, e lo costringe a moltiplicare infinitamente i suoi oggetti. Il denaro gli offre l’illusione che potrà evitare la morte (eternizzandosi nella propria tomba concepita non a caso come un vero e proprio mausoleo); la giovinezza delle sue prede garantisce il ricambio del suo sangue e allontana lo spettro sempre presente della fine. Mostrarsi potente sessualmente non dà soddisfazione e proprio per questa ragione non c’è limite alla sua volontà di sesso (Fabrizio Corona docet).
La riduzione della politica allo slogan pubblicitario si situa sulla stessa linea di forza del disincanto cinico; egli sa dire alla gente ciò che la gente vuole sentirsi dire perché è un raffinato conoscitore della natura del godimento. Il suo ottimismo è un negazionismo delle turbolenze della realtà. Il suo culto della libertà, un libertinismo senza vergogna e senso del pudore. La sua simpatia (la barzelletta sempre pronta) rivela che tutto può essere oggetto di scherno; che si può dire tutto e il contrario di tutto perché quello che si dice si può ritirare o contraddire a piacimento . Se, come pensa il perverso, la verità non esiste, la menzogna è legge. Un altro tratto della perversione è infatti la negazione del valore della propria parola e di quella degli altri. Il suo idealismo è materialistico. Egli crede solo in ciò di cui può godere. Gode dunque è.
Perché un uomo anziano non può abbandonare questa dimensione compulsiva del godimento? Si potrebbe rispondere: per amore della vita. La perversione insegna invece che il dio oscuro che ingiunge di godere ad ogni costo non è il dio dell’amore ma il dio della morte. Il perverso non può frenarsi nella ripetizione delle sue abitudini perché questo è il solo modo che conosce per rimediare all’angoscia della morte. Deve moltiplicare e ripetere infinitamente lo stesso godimento. All’amore non ci crede. È, come ogni ideale, una trovata propagandistica. L’amore infatti non può mai essere un partito perché non fa massa. Ogni tiranno invece ama le masse. L’immagine pubblica che egli vuole dare di sé è l’immagine di un umile soccorritore dei più bisognosi. Ma nel privato questa immagine sembra lasciare il posto a quella del “drago” o, a quella ancora più oscena e incestuosa di “papi”, che gode come una macchina che non conosce usura. I giovani corpi promettono un godimento senza castrazione perché cancellano i segni corrosivi del tempo. Come nelle scene del marchese De Sade tutto si ripete come se il tempo non dovesse mai scorrere.
Dietro il volto sempre più trasfigurato, tipico dei tiranni a fine corsa, di Berlusconi c’è il fenomeno del consenso che egli riesce a catturare. Un’analisi superficiale lo vuole spiegare come effetto della manipolazione mediatica della realtà. Il problema è invece che Berlusconi ottiene il consenso non per la verità che oscura, ma perché oscura la verità, non perché viene smascherato come protagonista di festini a luci rosse con giovani donne, ma perché realizza qui festini con dedizione, non perché mente ma perché rivela l’inconsistenza della differenza tra la verità e la menzogna, non perché è incapace di sostenere con la giusta dignità istituzionale la sua funzione pubblica, ma perché ci mostra che siamo tutti uguali, che tutto nell’essere umano è finalizzato al godere il più possibile in questa vita (Fabrizio Corona docet!).
*Psicanalista lacaniano, Università di Pavia, autore di un saggio sulle patologie del nostro tempo, “L’uomo senza inconscio” (Raffaello Cortina)
Il desiderio del Censis
di Ida Dominijanni (il manifesto, 04.12.2010)
Dopo la sfiducia (annunciata) dei finiani e della diplomazia internazionale, su Silvio Berlusconi si abbatte ora anche quella del Censis. L’icona dell’individualismo, del consumismo, dell’uomo solo al comando si è rotta, annuncia Giuseppe De Rita; un lungo ciclo - economico, politico, sociale e psicologico - si è concluso, lasciando sul campo fragilità e depressione, nelle vite singolari e nella vita collettiva. Un’altra bufala, commenterà l’Immarcescibile. E invece, come al solito la diagnosi del Censis centra il punto, va presa sul serio e soppesata.
Dopo averci avvertito, negli ultimi anni, che eravamo diventati una cosa a metà fra una mucillagine malinconica e una compagnia di replicanti in apnea, De Rita mette da parte gli attrezzi della sociologia e prova con quelli della psicoanalisi.
Quello che ci paralizza, dice, è qualcosa di più profondo della contabilità economica o di un trend che va storto: è un grumo inconscio, che annoda il rapporto fra desiderio e legge producendo una società priva dell’uno e dell’altra, del desiderio e della legge, i quali o vivono in una tensione reciproca o muoiono entrambi. Fonte evidente ma non dichiarata la letteratura post-lacaniana sull’eclissi dell’Edipo - in particolare il lavoro di Massimo Recalcati, ben noto a lettori e lettrici del manifesto -, De Rita riconduce a questo grumo la «sregolazione pulsionale», così la chiama, di una società priva di bussola, in cui al desiderio si sostituisce il godimento immediato e all’autorità della legge simbolica si sostituisce la frammentazione inefficace dei poteri e delle norme. Consumismo - degli oggetti e dell’altro ridotto a oggetto, delle merci e del sesso ridotto a merce: ricorda qualcuno? -, edonismo, narcisismo, egoismo, e insieme illegalità diffusa, criminalità, investimento immaginario su una leadership tanto personalizzata quanto impotente: il catalogo è questo, la fotografia del berlusconismo è calzante, e anche il grumo inconscio individuato è quello giusto.
Tuttavia il discorso è scivoloso. Lo sa lo stesso De Rita, quando passa dalla diagnosi alla terapia e scongiura la scorciatoia di una risposta che consista solo in un rafforzamento della legge (o nella litania «più legge, più merito»): la caduta della legge simbolica non si arresta con la stretta delle leggi repressive; non è di autoritarismo che ci sarebbe bisogno ma di autorità, e «non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge». Per De Rita infatti è piuttosto sul secondo tasto che bisognerebbe battere, cioè sul rilancio del desiderio: «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Senonché anche il desiderio non si lascia rilanciare da un’esortazione, e tantomeno da un dovere civile. E in una situazione politica come la nostra, in cui allo stato di illegalità permanente instaurato da Berlusconi si tende a contrapporre solo la parola d’ordine di una legalità-feticcio, è più che probabile che l’analisi del Censis porti a battere non sul secondo tasto ma sul primo.
Si scivola facilmente anche su un altro punto del discorso, quando De Rita riconduce il «soggettivismo» di Berlusconi alla scoperta della soggettività operata dal 68 e dal femminismo: non che siano la stessa cosa, ma «la libertà di essere se stessi» allora conquistata «ha trovato in Berlusconi colui che l’ha cavalcata». Cavalcata, o rovesciata nel suo contrario, traducendo la libertà politica in libero mercato e la soggettività in individualismo? La domanda cruciale è questa, e anche qui non sono ammissibili scorciatoie del discorso, salvo avallare reazioni come quella di Sacconi, il quale infatti coglie la palla al balzo per sentenziare che sì, emerge «un certo nichilismo» dal rapporto del Censis, ma «nasce dai cattivi maestri, figli degli anni Settanta, e va contrastato con i valori tradizionali».
Sono i rischi di un’applicazione troppo meccanica del discorso psicoanalitico al discorso sociale e politico. Meglio incassare intanto le molte fini decretate dal Censis: fine della leadership troppo personalizzata, fine del mito della governabilità e del decisionismo, fine della fede nei miracoli dell’unto dal Signore, fine della credenza nelle magnifiche sorti di un capitalismo che satura sfornando oggetti di consumo. E accogliere l’auspicio di una nuova forma di leadership politica, che sappia puntare sulla responsabilità diffusa. E che più che della dinamica desiderio-legge, che non è nelle sue mani, si occupi di arrestare il piano inclinato su cui il Censis, di anno in anno e ogni anno di più, fotografa impietosamente il paese.
Senza legge né desiderio. L’Italia sfiduciata del 2010
Il 44esimo rapporto Censis più che un’analisi socio-economica è una seduta di psicoterapia collettiva.
De Rita: «Chi governa dia agli italiani il senso della responsabilità». Il 70% non vuole più poteri al premier.
Il tramonto del «soggettivismo» e carisma del leader: Berlusconi «icona» di un ciclo finito
Il rapporto Censis mostra un Paese «appiattito», senza regole, preda di «facili impulsi sessuali»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 04.12.2010)
E finì che ad essere sfiduciata fu l’Italia. Parafrasando Almodovar: un Paese senza più legge né desiderio. È il quadro fosco, e a tratti grottesco, che emerge dal rapporto Censis 2010. L’Italia che per resistere alla crisi si è ripiegata: «appiattita» e priva di pulsioni vitali, preda di comportamenti sregolati come bullismo e «facili godimenti sessuali», dove il «desiderio è esangue» perché schiacciato dalla preponderanza dell’offerta (inutile), dal sesto telefonino al millesimo corso universitario.
Più che un’analisi socio-economica, un’inquietante seduta di psicoterapia collettiva. Che mostra un Paese confuso e per niente felice. Ma certifica anche, attraverso la disillusione verso concetti chiave come «leaderismo» e «carisma», la fine di un ciclo politico iniziato 50 anni fa. Il 71% degli italiani non crede che attribuire più poteri al premier risolverebbe i problemi. Si sono sgonfiati a confronto con la realtà gli annunci mediatici del governo: la social card, il piano casa taumaturgico per il rilancio dell’edilizia, la lotta alla povertà, l’ormai mitica autostrada Salerno-Reggio Calabria. Prima di Berlusconi in Parlamento, insomma, pare che sia finito il berlusconismo nelle teste delle persone.
Spiega il presidente del Censis Giuseppe De Rita che la gente non si lascia più sedurre dal «soggettivismo» incarnato prima da Craxi, il decisionista che non voleva mediare con la Dc, e perfezionato da Berlusconi «che aveva anche l’ultimo step: i soldi».
Un’epopea cominciata in realtà prima, «con la rivendicazione di Don Milani della libertà di essere se stessi, che Berlusconi non ha creato ma cavalcato», e con le lotte femministe degli anni ‘70, le nuove leggi sull’aborto e sul divorzio: «Verticalizzazione e mediatizzazione del potere hanno esaurito la forza vitale». Il Cavaliere «icona del soggettivismo» a fortiori.Non è soltanto il fallimento del “ghe pensi mi”: è la tragedia dell’Uomo del Fare che nulla ha fatto agli occhi degli elettori.
Cosa resta? Una classe politica «litigiosa e poco focalizzata sui problemi strutturali». Una Pubblica Amministrazione che, con buona pace di Brunetta, non funziona e non convince.
Un’opinione pubblica «delusa e poco coinvolta». Una società cristallizzata nello stagno della triade minimalista: mattone, polizze assicurative, risparmi. Un’economia che, in controtendenza mondiale, anziché fare perno sull’autoimprenditorialità, la flessibilità di orari, il modello aziendale con partecipazione dei lavoratori agli utili, si confina da sé nel recinto sicuro del lavoro dipendente. Un’evasione fiscale che non si può più ignorare perché sono i «virtuosi» a pagarne il pegno.
Ancora: una fetta impressionante di giovani, 2 milioni e 242mila tra i 15 e i 34 anni, che non studia né lavora né cerca impiego. Secondo la metà degli italiani (tra cui il ministro Sacconi che però lo imputa ai residui del ‘68) lo fa perché rifiuta occupazioni faticose o poco prestigiose. Una scuola mortificata dove il 53% degli istituti si arrabatta ricorrendo al contributo volontario delle famiglie per sopravvivere. Dulcis in fundo: carceri invivibili con sovraffollamento al 150%, immigrati che cominciano a essere disoccupati, il pericolo che in tempi di ristrettezze la criminalità organizzata infetti ulteriormente il già non solidissimo tessuto sociale. Siamo «fragili» come persone e come massa, «spaesati, indifferenti, cinici, egoisti e narcisisti, prigionieri dei media».
Come uscirne? La ricetta di De Rita è secca: «Bisogna ritrovare energie e impulsi vitali. Chi si pone come leader non dovrebbe presentarsi con un’offerta proliferante su tutto ma dovrebbe avere la forza e il coraggio di ridare agli italiani il senso della loro responsabilità e della loro voglia».
Dalla Grande Illusione, insomma, alla Grande Passione. «Stiamo diventando una società con poco vigore perché abbiamo poco spessore». Servono leggi, regole, istituzioni rispettate e non picconate. Ritrovare il senso delle collettività partendo però dai singoli. Perché il 44% individua negli evasori fiscali il male principale del nostro sistema. Ma il 34% ammette di rinunciare volentieri a scontrino o fattura in cambio di uno sconto.
L’ossessione permanente
di GiuseppeD’Avanzo (la Repubblica, 11.08.2009)
L’Egocrate è ossessionato. Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei «un delinquente», come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.
O la tua informazione è «giornalismo deviato»: lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d’affari e di governo appaia «deviato» questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È "naturale", come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una «deviazione». Lo è in effetti e l’Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione - bisogna chiedersi, però - da quale traiettoria legittima? Devianza da quale "ordine" conforme alla "legge"? E qual è poi questa "legge" che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura "delinquenza"? La questione merita qualche parola.
Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l’Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare - attraverso le sinergie tra il "privato" che controlla e il "pubblico" che influenza - immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti. Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa «macchina fascinatoria» che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.
È una «deviazione» - per dire - ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro "piani casa" annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una «deviazione» ripetere che non è vero che «nessuno è stato lasciato indietro», come non è vero che i nostri «ammortizzatori sociali» siano i «migliori del mondo». È "criminale" chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare «a che punto stanno le cose» al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell’Occidente più evoluto.
Nessuna sorpresa, dunque, che l’Egocrate ritenga Repubblica un giornale di «delinquenti» indaffarati a costruire un’informazione «deviata». Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l’abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse - queste sì, nel caso, «deviate» - contro questa «deviazione» - e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l’indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana.
Ancora ieri, Berlusconi - mentendo a gola piena e manipolando le circostanze - ha tenuto a dire che «è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l’unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo». Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell’Egocrate, un’opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere «a che punto siamo»? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro "missione" pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l’anima in pace: faremo ancora un’informazione deviata dall’ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.
LA DISCUSSIONE
La seduzione al potere
di MARINO NIOLA *
E se la democrazia contemporanea fosse un’inedita combinazione di seduzione e politica, di potere e corpo? Ingredienti antichi che la civiltà dell’immagine spara all’ennesima potenza? Potrebbe essere un’ulteriore risposta alla domanda posta, su questo giornale, da Edmondo Berselli sulle radici antropologiche del consenso che premia il format politico di Silvio Berlusconi.
In realtà, proprio perché ridotta a format, l’offerta politica contemporanea fa riaffiorare arcaismi, simbolismi, mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere. Quelli che chiamano in causa le sue forme elementari: dall’aspetto fisico alla forza alla bellezza. Ovviamente tradotte e amplificate dalla potenza della comunicazione che trasforma i corpi in carne e ossa in figure immateriali, in icone mediatiche, in multipli elettronici ad altissima definizione.
Il berlusconismo incarna appieno questo modello di azione e di comunicazione politiche fatto di continui lanci che usano un advertising estremamente complesso per produrre messaggi estremamente semplici. O meglio semplificati. E proprio per questo ancor più seducenti. Proprio come quegli spot pubblicitari che persuadono con la bellezza delle immagini e con il richiamo quasi archetipico di certi simboli, forme, colori. Facendo quasi dimenticare le caratteristiche del prodotto, spostando l’attenzione dagli oggetti ai soggetti della comunicazione, dalla commedia agli attori. Non è un caso che la strategia politica del Cavaliere sia sempre stata centrata sulla capacità di piacere, di affabulare, di attrarre, di fare simpatia. E soprattutto sull’esibizione del corpo come strumento di persuasione: il suo corpo e quello degli altri. Dai figli ai nipotini, dagli atleti alle bellezze della galassia televisiva che hanno contribuito a costruire il suo profilo di leader. Che diventano manifestazioni di un unico potere capace di assumere i volti e le sembianze più diversi. Così le sue creature politiche sono in realtà i volti giovani e belli di un’immagine che si rigenera. Un lifting simbolico che ha nell’appeal l’arma principale della sua persuasione. Lo strumento di una seduzione a trecentosessanta gradi, che fa del desiderio il vero basic istinct della politica, il primo motore degli interessi e delle passioni. Così l’istanza estetica prende surrettiziamente il posto di quella etica. Mentre le immagini e le parole prevalgono sui fatti. È l’apoteosi della seduzione nel senso vero della parola latina seducere. Che non significa tanto e solo attrarre quanto distrarre, sviare, far pensare ad altro.
Con l’effetto di mobilitare continuamente il corpo sociale in ogni sua parte, con una effervescente sovraesposizione del fare, impegnando l’attenzione su temi di sicuro impatto scelti ad arte. Sfondando porte già aperte in un senso comune che non aspetta che di veder confermate le sue ansie, i suoi timori, le sue aspettative, le sue ricette abbreviate. La fine della prostituzione per le strade, il ritorno alla maestra unica, la lotta ai fannulloni. Ipotesi di avvenire costruite con rassicuranti frammenti di passato, che ci consola nell’illusione nostalgica del tempo ritrovato. Temi che creano unanimità, o meglio unanimismo, che è poi la forma di condivisione tipica del nostro individualismo di massa. In cui il sentire comune non si forma più nel confronto con gli altri ma conformandosi al format. Facendosi a sua immagine e somiglianza. Proprio perché siamo più soli, e dunque più insicuri, chiediamo alla politica di semplificarci la vita sostituendo alla complessità labirintica di una realtà sfuggente, che non sappiamo da che parte impugnare, dei modelli ridotti e dei simboli elementari.
E cosa c’è di più elementare, dal punto di vista simbolico, del corpo e dell’apparenza? Non è un caso, allora, che la politica d’immagine contemporanea riporti il corpo al centro della rappresentazione del potere. Naturalmente non stiamo parlando del corpo fisico, né del corpo singolo, ma di un corpo iconico e proteiforme che si moltiplica grazie ai suoi multipli e ai suoi doppi che ne amplificano l’immagine e ne prolungano l’eco adattandola alle diverse domande, alle attese particolari. Un’offerta profilata per una domanda personalizzata. Risultato una seduzione consensuale.
È questa la condizione ottimale per la vendita del prodotto-politica che oggi premia un marketing del consenso capace di coniugare gli aspetti più arcaici, quasi etologici, del potere con le più avvertite tecnologie del consenso, con le più sofisticate strategie d’immagine. È quasi naturale che donne giovani e belle diventino ministre, e che il potere sia circondato da uno scintillio glamour che fa da specchio al narcisismo di massa e indora le pillole che ci tocca inghiottire. Non è una semplice velinizzazione della politica, né tantomeno il risultato di uno scambio di favori. Ma qualcosa di molto più profondo, nella sua superficialità. Perché la giovinezza e la bellezza sono due password del presente e al tempo stesso sono da sempre il nucleo sorgivo della rappresentazione del potere che, come insegna Hobbes, nasce nel corpo e dal corpo. Secondo il fondatore del pensiero politico moderno i cosiddetti poteri naturali, come la forza, la bellezza, la seduzione, la capacità di persuasione sono la cellula primigenia della politica. Che non è altro che la trasformazione di qualità, misure e proporzioni fisiche in qualità, misure e proporzioni sociali: in entrambi i casi è questione di costituzioni.
Questa semplificazione mediatica della politica - una sorta di naturalizzazione simbolica - non può che servirsi di modelli di azione e di spiegazione altrettanto riduttivi. E proprio per questo efficaci, sul piano della comunicazione prima ancora che su quello della soluzione dei problemi, ancora tutto da verificare.
Nietzsche diceva che per conquistare il consenso delle moltitudini un capo deve ridurre il ruolo della politica a una recita grossolana e semplicistica. Almeno in apparenza. E proprio in questa apparenza sta, per il momento, la forza del Cavaliere.
* la Repubblica, 24 settembre 2008