Scrive Oscar Wilde: "Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol dire che le domande che ti sei posto non erano giuste".
Risponde Umberto Galimberti *
Nell’introduzione a un suo libro sulle idee, lei scrive che il dialogo è un tentativo sempre reiterato ma sempre sconfitto e che i libri sono scritti e letti non perché ci sono idee da diffondere, ma perché ci sono idee capaci di farsi amare o detestare. Ma se la comunicazione è un tentativo che rimane sempre sconfitto, perché questa rubrica?
Se io, dopo avere tentato di spiegarle le mie idee su un fatto di cronaca, tentassi di capire le sue, alla fine avremmo entrambi assistito alla erosione e corrosione dei nostri pensieri, resi più disponibili a quel tentativo, che rimane comunque sempre sconfitto, che si chiama comunicazione?
Lei afferma che le idee sono per certi aspetti simili all’amore. C’è forse in questo accostamento anche un’allusione al fatto che, quando gli uomini cercano di comunicare fra di loro, non cercano di capire qualcosa del mondo che li circonda, ma di capire se stessi? E perché allora non cambiare il nome di questa rubrica in "Lettere d’amore"? essendo amore, come lei afferma, non un rapporto fra me e te, ma fra me e me grazie a te, e te e te grazie a me - sembra uno scioglilingua, ma sono parole sue. Vorrei appropriarmi di un tormentone marzulliano, chiedendole con bonaria ironia di farsi una domanda e darsi una risposta: perché tiene questa rubrica?
Vincenzo Chiappetta
chiappettavincenzo@libero.it
Tengo questa rubrica (finché me la lasciano tenere e finché non avrò definitivamente annoiato chi mi legge) per diffondere il più possibile un "metodo", quello di Socrate, che quando gli chiesero quale fosse lo scopo del suo insegnamento, rispose che non insegnava niente perché era ignorante, ma aiutava coloro che ritenevano di sapere qualcosa a fondare le loro opinioni con argomenti solidi, in modo che stessero in piedi da sole, e non per l’autorità di chi le enunciava, per la fede in credenze infondate, per l’impatto emotivo, per la suggestione degli affetti. Siccome riteneva di non essere in possesso di alcuna verità da trasmettere, paragonava il suo lavoro a quello di sua madre che aiutava le partorienti a generare. Allo stesso modo egli aiutava i suoi discepoli a partorire la verità che, segretamente, e spesso a loro insaputa, custodivano. Chiamò questo metodo filo-sofia che significa: "amore per il sapere", distinguendola dalla sofia dei sapienti che non "amano" il sapere perché ritengono di "possederlo".
Amore, infatti, non è possesso, ma ricerca, tensione e desiderio della cosa o della persona amata. Per questo, nel racconto che ci fa Socrate nel Simposio, Amore non è figlio di Afrodite, come voleva la mitologia greca, ma di Penia, che significa "penuria", "povertà". Essendo povero, Amore non "possiede" e perciò "cerca", allo stesso modo della filosofia che, non possedendo alcuna verità, ne va alla ricerca. Per questo Socrate dice: "Amore è filosofo, perché sta in mezzo tra il sapiente che non cerca la verità perché ritiene di possederla e l’ignorante che non la cerca perché non desidera sapere". A differenza della religione, infatti, la filosofia non è autoritaria. Non dice: "Io possiedo la verità e tu apprendila", perché è persuasa che la verità, anche se incompiuta, imperfetta e mescolata a tanti errori, dimori in ciascun uomo. E "maestro" non è chi trasmette la verità, ma chi aiuta gli uomini a trarla fuori dalla confusione delle loro opinioni, anche se in contrasto con le idee più diffuse e da tutti condivise.
Ma lei incalza e mi chiede a che serve il dialogo filosofico se lo considero un tentativo sconfitto. La risposta la fornisce lei stesso. Serve a corrodere i propri pregiudizi, a indebolire le posizioni troppo rigide, a educare al dubbio, ad allargare la propria visione del mondo, perché spesso i problemi sono enigmatici solo perché guardati da un punto di vista che non tiene conto degli altri possibili. I quali, una volta richiamati, potrebbero ridurre la drammaticità dell’interrogazione senza via d’uscita, che tale risulta perché il nostro sguardo si è fatto fisso e immobile, e la nostra capacità di ascoltare si è attutita ai limiti dell’assurdità.
Per questo alle domande che i lettori mi pongono rispondo in quella maniera un po’ anomala, che non è quella di risolvere il problema, ma di radicalizzarlo, andando il più possibile in fondo dove si annida il radicamento. Questo modo di procedere talvolta può apparire irritante, talvolta difficile, talvolta delusivo, ma è meglio deludere l’attesa di una risposta immediata che isterilire una domanda, impoverirla, non tenerla all’altezza di ciò che chiede. E questo in omaggio all’uso della ragione, la quale, anche se è, come vuole l’immagine di Kant, "un’isola piccolissima nell’oceano dell’irrazionale", è pur sempre la prerogativa specifica dell’umano, che non può arrestare il suo infinito domandare in quella palude dell’ovvio, così massicciamente distribuito dai media, affinché gli uomini non si interroghino troppo e, come pecore ben allineate, seguano senza inciampi i percorsi ben definiti che altri hanno approntato per loro.
In questo senso il dialogo filosofico che si sperimenta in questa rubrica non ha alcuna intenzione di trasmettere un "sapere", ma semplicemente di promuovere un "atteggiamento". L’atteggiamento di chi non smette di fare domande e di mettere in crisi tutte le risposte che sembrano definitive. Perché solo questo atteggiamento, che la filosofia per prima ha inaugurato, è la macchina capace di inventare un mondo possibile al di là del mondo reale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MEA CULPA?
MAI! GALIMBERTI
VA ALL’ATTACCO
di EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 10.05.2008)
Come nulla fosse. Umberto «Copincolla» Galimberti passa sopra con nonchalance, quasi scacciasse con una mossa della mano una mosca importuna, alle prove dei suoi ripetuti plagi portate nelle settimane scorse da «Il Giornale» e «Avvenire». Citazioni di lunghi brani senza virgolette («dimenticate», dice), appropriazione di impianti concettuali altrui, plagi ripetuti con costanza, non scivolone isolato ma modus operandi documentato anche più di vent’anni fa... Eppure le occasioni per spiegarsi non sono mancate, a partire dalla sua rubrica su «D» del 3 maggio (all’indomani del fattaccio); il titolo - «Perché tengo questa rubrica» - lasciava pure sperare qualcosa: invece, niente. Non importa: qualche giorno di silenzio, e poi via di nuovo; non è successo nulla, in fondo. Non è successo nulla per i lettori di «Repubblica», perché quella romana è stata l’unica testata nazionale a non dedicare nemmeno una riga alla vicenda, anche se da allora il suo filosofo ufficiale non ha più deliziato i suoi lettori. Un po’ di pausa dalle fatiche della scrittura, per consentire a Galimberti di preparare il terreno al suo rientro grazie a qualche comparsata. Domenica è stato accolto su Radio24 da Armando Torno, che dai microfoni della trasmissione «Musica maestro» ha ricordato il «senso antico di amicizia» che lo lega a Galimberti. E poi gli ha offerto il palco per scacciare via la mosca. Ci si sarebbe potuti aspettare, se non un «mea culpa», almeno una mezza ammissione, un accenno di spiegazione. Al contrario: il professore attacca, raccontando ancora la storiella delle virgolette dimenticate nei passi di Giulia Sissa, cercando di screditare Salvatore Natoli - plagiato ripetutamente, fin dal 1987 -, invocando le voci che si sono levate in sua difesa dai circoli filosofici. In effetti, l’accademia italiana sul suo caso si è comportata nel modo esattamente opposto a quello dei Paesi seri. Anziché indagare e interrogarsi sulla possibile usurpazione di credenziali, si è profusa in minimizzazioni, scusanti, battute. Poche sono state le voci coraggiose capaci di condannare, senza balbettare distinguo, il «copincolla»: De Monticelli, Zecchi. Per il resto, il coro non stecca: «Lui cita l’autore la prima volta [cosa non vera: nei casi documentati da «Avvenire», la citazione era del tutto assente, ndr]; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle... Nei saperi umanistici è tutto un glossare» ( Vattimo). «Copiare al modo che si imputa a Galimberti... non è grave» (Ferraris). «C’è stata un’esagerazione mediatica... È una persona con dei grandi meriti» (Severino). E così via: negare l’evidenza, se possibile; ridurla a pettegolezzo, se necessario. Lunedì, fresco di autoassoluzione, Galimberti è salito sul palco del milanese Teatro Dal Verme per tenere una «lectio magistralis»; l’altra sera, è stata l’ora del ritorno in video. A ospitarlo, il salotto amico di Michele Santoro, che ad «Annozero» ha chiamato il filosofo di «Repubblica» a illuminare le masse sulla nostra gioventù degenere. Viene presentato l’ultimo dei libri incriminati di Galimberti, quello che ha fatto esplodere il caso: «L’ospite inquietante». Naturalmente, non una parola sullo spiacevole incidente occorso al professore in merito al suo «libro molto interessante» (Santoro). Dopodiché Galimberti si cala senza indugi nei panni del vate: gli ospiti intorno raccontano casi, sofferenze, anche tragedie; poi la parola passa a lui, illuminato in chiaroscuro, primo piano sulla barba brizzolata. E spiega - cinque volte di fila, tante quanti sono stati i suoi interventi tutti tesi a ribadire lo stesso concetto (il viziaccio di ripetere...) - che «i ragazzi sono violenti perché sono senza scopo», e che «sono senza scopo perché non leggono libri». Figuriamoci citarli.