Cultura

LA CATENA DELLE CITAZIONI di CARLO GINZBURG (UNA CITTÀ, n. 74 - Gennaio/Febbraio 1999) - a cura del prof. Federico La Sala

sabato 12 novembre 2005.
 

Il Nuovo testamento scritto ricalcando le profezie del Vecchio. Dalla sconfitta di Marcione l’idea di Agostino, decisiva per noi, sulla storicizzazione della verità. A partire da una frase di Cicerone il problema del relativismo culturale. La verità esiste, ma raggiungerla non è facile e la storia, l’esperienza unilaterale di ognuno possono aiutare anziché essere d’ostacolo. La fecondità del non-sapere, di momenti di ottusità. Intervista a Carlo Ginzburg.

Il libro di cui ci parla Carlo Ginzburg in questa intervista è Occhiacci di legno, pubblicato da Feltrinelli.

Vorrei iniziare facendoti una domanda sul problema della verità. Tu dai per scontato, ovviamente, che la verità esiste, però la strada per arrivarci, per conoscerla, non è facile.

Dieci anni fa, parlando in America, non ricordo a quale convegno, dissi: "La verità non tra virgolette" e lì ci fu una risata perché tutti in America quando dicono "truth" accompagnano sempre la parola con quel gesto tipico, a due mani, che indica "tra virgolette". Da allora la frase "la verità, senza virgolette", mi sono trovato a ripeterla spesso in America, per definire la mia posizione di fronte a un’ideologia accademica dominante che dice: "Siccome quello è maschio o quella è femmina, quello è nero, oppure quello proviene da un certo strato sociale, allora la verità non si può raggiungere". Quindi la nozione di verità va mantenuta, però va mantenuta all’interno di un conflitto che avviene in un campo di forze: la verità è una di queste ma si trova ad essere contrastata da altre, innanzitutto dal carattere soggettivo del punto di vista, un carattere ineliminabile quando si parla di discipline come la storia o di scienze umane. Questo è un tema di cui parlo soprattutto nel saggio Distanza e prospettiva. Noi ci accostiamo alla verità attraverso un punto di vista influenzato dalla nostra formazione, dalla nostra esperienza, dai nostri pregiudizi anche. Ora, a me pare che la nozione di verità debba essere mantenuta, non solo "nonostante" la soggettività del punto di vista, ma anche "grazie" a questa: ci sono delle cose che riusciamo a capire proprio perché siamo dei soggetti fatti così e così, con un’esperienza sociale così e così. Nella soggettività del punto di vista non c’è solo il limite, c’è anche la possibilità di vedere; è come un occhio sensibile a certe onde luminose e non ad altre. Quindi la soggettività, e cioè l’accumulo di esperienza culturale e sociale che fa sì che ognuno di noi è quello che è, oppure il fatto di essere maschio o femmina, non è soltanto un limite, è anche qualcosa che ci consente di conoscere il mondo. Allora, rispetto a una tendenza che dice: "C’è una verità per le donne, c’è una verità per gli uomini", che è un po’ quello che è stato detto in maniera polemica (eccessivamente polemica, secondo me) da alcune femministe, io non voglio rispondere: "Sì, la verità si può raggiungere, è oggettiva", ma: "Sentite, cerchiamo di arrivare a una forma di oggettività, tenendo però presenti tutti gli elementi che legano il singolo al suo corpo che è sessuato, alla sua identità sociale che è specifica". Se si arriverà a riaffermare l’oggettività oltre tutto questo, essa avrà un valore diverso e più profondo. Certo, a questo punto cominciano i problemi: come rendere questa verità comunicabile e intersoggettiva? Le tecniche di controllo, di verificazione diventano decisive. Pensiamo solo all’importanza del tema della prova. La prova è legata a metodi che cambiano a seconda delle discipline, addirittura delle sottodiscipline; il tipo di prova per uno storico è legato anche all’abbondanza di materiale documentario. Se io su una società ho soltanto due pezzi di coccio le prove saranno necessariamente molto scarse, meno rigorose, più esposte alla confutazione; più so, quindi, e più posso alzare il livello della prova. Certo, è anche vero che il sapere non è in funzione puramente dell’abbondanza fisica e materiale, ma dipende anche dal modo in cui questo materiale è stato ottenuto; gli storici dell’antichità, che avevano e hanno tuttora meno materiale degli storici contemporanei, avendolo letto e analizzato in maniera molto più esigente e rigorosa, hanno contribuito ad alzare il livello della prova, mentre invece gli storici dell’età contemporanea, che sono sommersi dal materiale, tendono a usare meno immaginazione nelle loro analisi.

Nel primo saggio, tu affermi l’importanza del non-capire, del non-sapere, l’importanza del punto di vista dell’animale o del bambino; così come dici che spesso ti capita di dover risalire dalla risposta alla domanda...

Sì, al centro del primo saggio, che è una sorta di chiave di lettura per tutti gli altri, c’è l’idea che il non capire sia qualcosa di molto fecondo, che sia la premessa per capire di più; l’idea che per capire veramente occorra liberarsi dal sapere convenzionale passando anche per momenti di ottusità. Mi piacerebbe che fosse così anche per me, e qualche volta lo è certamente, anche se mi rendo conto che io devo lottare contro una tendenza opposta, l’impulso alla velocità, dettato dall’impazienza, dall’ansia di capire.

Quello che certe volte mi pare di capire subito è la conclusione, e quindi sono costretto a tornare all’inizio; la conclusione allora si presenta un po’ come un indovinello nel senso, appunto, di Marco Aurelio. C’è un sapere trito che è veloce e c’è invece un sapere più profondo che passa attraverso il non sapere. Questo a me pare molto importante anche nell’insegnamento: dare il senso che un passaggio importante del processo conoscitivo è il momento, che può essere anche lungo, in cui non si capisce nulla. Per molta gente una supposizione del genere è difficile da accettare: l’idea di tenere in sospeso la conoscenza genera ansia, molte persone non reggono psicologicamente questa fase di ascolto. Se gli specialisti a un certo punto capiscono così poco, è perché il loro sapere diventa una corazza. Gli specialisti sanno molto, moltissimo, sanno quasi tutto di un certo argomento, però capiscono sempre meno perché il loro sapere diventa una sorta di intercapedine tra l’oggetto della conoscenza e loro stessi. Devo dire che ho sempre cercato di evitare di diventare specialista di qualcosa e il fatto di cambiare così spesso tema, e addirittura ambito di ricerca, è legato alla convinzione -non so quanto giusta, ma in me molto profonda - che nel momento in cui io affronto da ignorante un nuovo tema (e questo mi succede continuamente, proprio perché cambio spesso) riuscirò a vedere delle cose che uno specialista non vede. Naturalmente questo comporta un prezzo: non tanto quello dell’ignoranza iniziale e, quindi, della necessità d’imparare, perché questo è anche un grande piacere per me (trovo che partire da zero o da quasi zero sia molto appassionante), ma quello di commettere e rrori molto grossi, che è un rischio alto andando a mettere i piedi in un campo non familiare.

Veniamo a quello che è il saggio forse più "anomalo", Ecce. La storia della catena delle citazioni che lega il Nuovo Testamento al Vecchio è veramente impressionante. Come sei arrivato a occuparti di questo?

Per caso. C’è una frase molto bella di Carlo Dionisotti, il grande storico della letteratura italiana: "Il caso, ossia la norma attraverso cui si passa dall’ignoto al noto": la conoscenza può avvenire solo attraverso un incontro casuale. Dunque, è successo che a un certo punto mi sono imbattuto in un fatto notissimo, e cioè il rapporto fra il servo sofferente di Isaia e la figura di Gesù. Questo mi ha portato a riflettere su un altro fatto notissimo, e cioè la presenza di citazioni o criptocitazioni da passi della Bibbia ebraica (specialmente Isaia e alcuni salmi) nei Vangeli, citati soprattutto per sottolineare che determinate profezie si erano realizzate e che Gesù era davvero il Messia. Dunque, sono entrato da ignorante in un campo di studi che non era il mio: e mi è parso di camminare a piedi su un’autostrada in cui sfrecciavano macchine velocissime, perché l’accumulazione di conoscenze negli studi sulla Bibbia e sui Vangeli è veramente straordinaria, con punte di eccellenza riconoscibili facilmente anche da un profano. Quando mi sono messo a lavorare su questi temi sono entrato in uno stato di agitazione straordinaria, come rare volte mi è capitato nella mia vita di ricercatore. Ricordo che le persone che mi stavano intorno mi chiedevano: "A cosa pensi?", e io rispondevo: "Penso a Gesù". Era vero: pensavo a Gesù come persona (per quel che si riesce a sapere di lui) e a Gesù come risultato di questo processo di generazione a partire da una serie di testi precedenti. Il saggio ha due parti. La prima parte tratta delle profezie del Vecchio Testamento (come lo chiamano i cristiani) come generatrici di gran parte del Nuovo; la seconda analizza un particolare tipo di citazioni che nella Vulgata cominciano con "ecce" e si propone di vedere un rapporto fra questo tipo di citazioni e la nascita dell’immagine sacra cristiana. Ora, come ho già detto, solo questa seconda parte è effettivamente nuova (per quanto io sappia, almeno); la prima lo è molto meno. Qui dopo aver esposto lo stato della ricerca tento di fare un passo in là, nel senso che a me pare che in questo settore, per ragioni comprensibilissime, ci siano state una serie di autocensure molto forti. Molti studiosi cattolici temono di spingere sino alle estreme conseguenze quello che magari riconoscono in una nota a piè di pagina. Un conto, per esempio, è dire: "I vangeli dell’infanzia ci dicono pochissimo sull’infanzia di Cristo", un conto è partire da questo dato di fatto per dire: "Benissimo, vediamo come sono costruiti i vangeli dell’infanzia e vediamo se questo modo di costruzione non ci dice qualcosa anche su altri settori dei vangeli".

Tu a quale conclusione sei arrivato?

I vangeli dell’infanzia sono sostanzialmente redazionali: in altre parole sono frutto della volontà di provare che Gesù era il Messia, inserendo nel racconto della vita di Gesù elementi volti a provare profezie preesistenti. Non sono i fatti (talvolta contraddittori) riferiti dagli evangelisti a confermare le profezie, come sostiene la Chiesa cattolica: sono le profezie a generare i racconti degli evangelisti. Lo stesso avviene per la passione di Gesù: anche se ci sono divergenze su alcuni punti, gli studiosi sono largamente d’accordo nell’ammettere che la maggior parte del racconto della passione deriva dai profeti e dai salmi. Che cosa rimane? Ci sono i detti di Gesù, che non a caso sono trasmessi anche da una tradizione indipendente dai Vangeli cosiddetti canonici; e ci sono i miracoli. Ma quanto c’è di redazionale nei miracoli? Qualcuno dubita che Gesù sia storicamente esistito; io no. Ma quello che possiamo attribuire con sicurezza al Gesù storico mi pare poco. Questa conclusione per alcuni non è forse così inaspettata, ma per molti lo è. Io ho l’impressione che in questo campo ci sia una fortissima divisione, che perdura in maniera stupefacente, fra quello che è ammesso e dato per scontato dagli studiosi e quello che, invece, è parte di una consapevolezza comune. Il ritardo di quest’ultima rispetto alle conclusioni degli studiosi è dovuto in parte a resistenze emotive, assolutamente comprensibili; ma in parte forse anche maggiore alla reticenza con cui gli studiosi presentano i risultati della ricerca in questo campo. Questa reticenza è condivisa anche da molti studiosi ebrei. Sembra che essi si autocensurino per paura che qualcuno dica: "Allora voi ebrei volete riappropriarvi non solo della figura di Gesù, ma addirittura dei Vangeli". Bisogna ricordare che in quest’ambito nasce l’antiebraismo c ristiano. L’ebreo convertito Paolo di Tarso getta le premesse del conflitto tra ebrei e cristiani, nato dalla pretesa che i cristiani siano il verus Israel, il vero Israele. Mi pare che questo saggio dica cose che dovrebbero far parte del dominio comune e che invece non lo sono. Ogni volta che in questi mesi mi è stato chiesto di parlare di Occhiacci di legno, ho insistito: "Vorrei, per piacere, che venisse letto questo saggio", perché è quello a cui tengo di più. Credo anche di essere stato estremamente rispettoso delle credenze altrui. Certo, la convinzione che i Vangeli abbiano realizzato le profezie di Isaia non può essere usata come un’argomentazione di carattere scientifico: uno studioso che lo facesse sarebbe paragonabile a un giocatore di scacchi che, vedendosi sconfitto, tirasse fuori una pistola.

Anche l’errore di traduzione, "ragazza" che diventa "vergine", è impressionante... Il modo in cui si incatenano gli eventi, la catena delle citazioni, appunto, non danno anche una sensazione di cupezza?

L’idea che un errore di traduzione nella Bibbia dei Settanta abbia generato la citazione corrispondente che poi ha generato una presunta realtà, e cioè un gigantesco macchinario che ruota intorno alla Madonna vergine, è straordinaria. Il tutto nasce da un errore di traduzione: un errore però, attenzione, che rispecchia un’attesa, che avviene in un momento carico di attesa. Tutto questo lo trovo sorprendente: vien fatto di pensare che la realtà della storia superi di molto l’immagine un po’ banale che spesso ce ne facciamo. Tu ci vedi un elemento cupo, ma in che senso? Hai l’impressione che venga fuori l’idea che siamo talmente determinati che c’è poco da fare? E’ così?

L’idea che un errore di traduzione commesso duemila anni fa abbia determinato tanta parte della vita di molti può essere entusiasmante per capire noi stessi, ma anche desolante rispetto alla possibilità di agire, di scegliere...

Capisco, ma cosa vuoi che ti dica, io penso che forse, col passare del tempo, ci si rende conto dell’insignificanza del proprio passaggio sulla terra. Per un adolescente, per esempio, capire questo è impossibile. L’egocentrismo nell’adolescente è una spinta vitale, l’adolescente sa meno, anzi sa pochissimo, però si butta. Una volta ho scritto incidentalmente che le scelte di una persona, (e non parlo solo delle scelte di un ricercatore, ma anche, che so, le scelte amorose, per esempio, o quelle che riguardano il mestiere - scelte cioè che decidono dell’esistenza) vengono prese con un’enorme sproporzione fra l’informazione disponibile e le conseguenze della scelta.

Nel momento in cui facciamo quelle scelte sappiamo pochissimo: eppure la nostra vita ne sarà segnata in maniera decisiva e tutto questo è normale, è giusto, è bene. Certo, via via che passa il tempo, uno si rende conto dell’insignificanza, o (forse il termine insignificanza è eccessivo) della piccola significanza del passaggio della propria vita sulla terra; uno scopre anche che i condizionamenti esercitati da quello che è stato prima e anche da quello che ci attornia sono molto forti. Questo invita alla sobrietà o dovrebbe invitare alla sobrietà. Dopodiché, penso che qualcosa si possa fare nonostante tutto. Ma devo dire che non sono malcontento di aver sottolineato l’esistenza di queste tenaglie: perché penso che sia vero, che queste tenaglie esistano. Del resto, lo sai, la storia del mondo non è allegra...

In un’altra occasione, e a proposito di tutt’altro, parlavamo del ruolo del complotto nella storia. Tu hai detto che quell’errore di traduzione dei Settanta, commesso da una persona, era atteso da tanti. Però l’errore poteva anche non esserci oppure quell’errore di traduzione potrebbe anche essere stato un intervento voluto...

Certamente non suppongo che in questo caso si tratti di un complotto, anche perché, vedi, i complotti in linea di principio non riescono, perché perfino nei casi in cui sembrano riuscire finiscono col generare risultati imprevedibili. In realtà il complotto può riuscire solo se c’è una risposta positiva da parte dell’ambiente circostante, perché altrimenti è come un grano di senape, per rimanere in tema, che non fruttifica. In realtà l’attesa della "Vergine che partorirà" è un’attesa che non era di una sola persona, questo è il punto, era una spinta che veniva da molti. Lo stesso vale per il salmo in cui s’inserisce l’accenno ai piedi trafitti. La crocefissione di Gesù è probabilmente il risultato ultimo di un errore (c’è su questo una discussione in corso tra gli studiosi). Però in tutto questo il complotto non c’entra: c’è un’interazione tra l’attesa di tanti e l’azione del traduttore che pensa: "Bah, come lo traduco questo?". Ma che cosa sia poi scattato nella sua test a non lo sapremo mai, verosimilmente. Ma se l’attesa fosse stata soltanto del singolo lettore (l’azione soltanto del singolo traduttore) non sarebbe successo nulla. Tanti anni fa sono andato a visitare il Sacro Monte di Varallo che non avevo mai visto. Il Sacro Monte di Varallo è stato costruito nella seconda metà del ’400 da un certo Bernardino Caimi, che era stato, se non sbaglio, pellegrino ai luoghi santi e voleva ricrearne un equivalente in una montagna della Valsesia, in modo da risparmiare alla gente un pellegrinaggio malsicuro in un luogo lontanissimo. E’ un luogo meraviglioso: ci sono cappelle con affreschi bellissimi, le statue iperrealistiche di Gaudenzio Ferrari -gli studiosi le conoscono bene - con veri capelli e c’è la Madonna, la mangiatoia, il Bambino, San Giuseppe e poi l’asino, il bue scolpiti, ecc. Ora, mentre ero lì è arrivata una vecchia, credo contadina, che si è inginocchiata e ha detto: "Ah, qui è nato". Era impressionante perché la tagliola preparata da Caimi scattava ancora. Ho un grandissimo rispetto per quella donna che dice: "Qui è nato". Lei in qualche modo riceve un messaggio e sta al messaggio. Può darsi che, interrogata, dica: "Ma sì...", ammettendo che Gesù non è nato proprio lì; può anche darsi, ma non è questo il punto. Quello che voglio dire è che il fruitore, la fruitrice, la persona che va lì in pellegrinaggio e dice: "Ah, qui è nato" o che lo pensa solamente, collabora alla riuscita del progetto. Allora questo non è un complotto, è una cosa molto più complicata. C’è un’analogia con il passo su "la ragazza che partorirà" che diventa nella traduzione dei Settanta "la vergine che avrà un figlio": è un errore che avviene grazie alla collaborazione di moltissima gente, traduttori e lettori. E’ una serie di azioni sparpagliate: siamo lontaniss imi dalla (presunta) linearità del complotto. Quando dicevo "la tagliola preparata da Caimi", oppure "la tagliola preparata dalla traduzione", scherzavo, naturalmente. E’ vero però che, perché la traduzione funzioni, i lettori non bastano. Se san Girolamo, per assurdo, avesse detto: "No, non traduco virgo, ma traduco puella" tutto sarebbe andato a pallino.

Il rapporto con il cristianesimo o, meglio, con il momento fatidico del confronto fra cristianesimo ed ebraismo ritorna in un altro dei saggi del libro, quello che citavi all’inizio su distanza e prospettiva. Ce ne puoi parlare?

Ecco, quella a me pare l’unica vera idea che ho avuto nella mia vita, un’idea che, nel momento in cui mi è balenata, mi è parsa di un’evidenza solare. Che io sappia nessuno l’ha mai formulata in maniera netta. L’idea è che ciò che chiamiamo "storicizzazione" del passato -il mettere la verità storica vista in prospettiva- nasca dall’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei, dalla pretesa dei cristiani di essere il "vero Israele" e dall’atteggiamento di sant’Agostino su questo tema. Come si sa, c’è stato uno scontro molto duro con chi come Marcione diceva: "C’è il Dio feroce e inumano degli ebrei del Vecchio Testamento e invece il Dio che è amore del Nuovo, e non c’è nessun rapporto fra i due". Ora, il mio amico Stefano Levi Della Torre dice spesso che elementi di marcionismo, come questa storia del Dio inumano del Vecchio Testamento, fanno parte della coscienza diffusa, di una sorta di antiebraismo elementare cristiano. Penso che Levi Della Torre abbia ragione; però Marcione ha perso e la Bibbia cristiana unisce nel suo volume il Vecchio e il Nuovo Testamento. Quest’unione fisica dei due testi è assolutamente decisiva, perché pone ai cristiani il problema della loro armonizzazione. Da qui deriva la domanda cruciale che quel senatore romano rivolge per interposta persona ad Agostino: "Ma allora, insomma, com’è questa storia? Le cerimonie degli ebrei non sono più valide, come è possibile? Il vostro Dio ha cambiato idea?". Agostino risponde scrivendo una pagina meravigliosa, che cito nel mio libro. In questa unione e distinzione fra cristiani ed ebrei c’è moltissimo. Per quanto riguarda gli ebrei nel loro rapporto con i cristiani c’è la prossimità e la distanza, c’è la pretesa di essere il vero Israele, ci sono quindi anche le radici della persecuzione degli ebrei. Ma c’è anche qualcosa che non ha a che fare direttamente con il rapporto fra cristiani ed ebrei e cioè la possibilità di pensare una verità come una verità superata. Quest’idea del superamento certo è un’idea che non fa parte dell’armamentario mentale dell’antichità. Tucidide non l’avrebbe capita, Platone non l’avrebbe capita, Aristotele non l’avrebbe capita. E’ un’idea che dobbiamo al cristianesimo.

Quindi questa zona di confine fra cristianesimo ed ebraismo è decisiva per la nostra storia, ma è anche il luogo di nascita dell’antiebraismo...

Ci sono due punti in questo libro in cui io m’imbatto in qualcosa che fa parte della mia identità di intellettuale e che però, come dire, scaturisce da un’eredità storica macchiata di antiebraismo. Una, che fa parte del mio mestiere di storico, ma anche della coscienza storica diffusa, è l’idea di cui ho appena parlato: una cosa può essere vera e superata contemporaneamente. Certo, se i cristiani avessero detto: "Sentite, noi abbiamo fondato una nuova religione e buonanotte", allora gli ebrei sarebbero diventati come i pagani, cioè qualcos’altro, e non ci sarebbe stato questo elemento di contiguità drammatica da cui nasce anche l’ostilità specifica. L’altro punto si trova alla fine del saggio sulla rappresentazione. Si tratta di un’ipotesi che mi affascina, anche se per ora non sono riuscito a provarla. Ho supposto che il ritorno massiccio dell’arte illusiva in Occidente -Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio in scultura; Cimabue e Giotto in pittura- sia legato a una sorta di disincantamento dell’immagine, a un attenuarsi della paura dell’idolatria, provocati dal dogma della presenza reale di Cristo nell’Eucarestia. All’ostia eucaristica -una sorta di super reliquia che declassa le reliquie vere e proprie- sono associati una serie di miracoli cruenti che coinvolgono ebrei e suscitano persecuzioni antiebraiche. Alla luce di questa ipotesi, l’esplosione artistica cui accennavo prima -un capitolo straordinario della civiltà umana - avrebbe una componente sanguinosa. Essa mi tocca molto da vicino.

E’ un’ipotesi alquanto sgradevole...

Beh, io credo che il nostro compito generale sia proprio quello di riuscire a pensare le verità sgradevoli. Si ritorna all’elemento di cupezza. Credo che il grande insegnamento di Freud sia questo: che contro la resistenza bisogna cercare di guardare in faccia la verità, soprattutto quando è sgradevole. Forse questo libro potrebbe essere un piccolo contributo in tale direzione. Naturalmente uno potrebbe dire: "Per te sono così sgradevoli perché sei ebreo". Forse però l’idea che grande scultura e grande pittura possano essere strettamente legate a dei massacri è sgradevole per tutti.

Il saggio sullo stile ha a che fare in qualche modo con il problema del relativismo?

Non c’è dubbio. Questo del relativismo è un tema di cui mi sono occupato moltissimo negli ultimi dieci anni e nel saggio sullo stile l’elemento del relativismo è in primo piano attraverso una citazione di Cicerone, che poi rientra anche nel saggio su distanza e prospettiva. E’ un passo che -ho scoperto- ritorna nelle discussioni sullo stile, ritorna in Baldesar Castiglione, per esempio. Si tratta di un’affermazione apparentemente ovvia. Cicerone nel De oratore dice: "Ci sono tanti modi per arrivare all’eccellenza". In realtà questa apparente ovvietà ha implicazioni molto importanti, che una lettura distratta può lasciarsi sfuggire. Qui si ritorna alla tua domanda iniziale sulla verità. Cicerone fa una serie di paragoni con la poesia, per esempio con i grandi della tragedia, Eschilo, Sofocle, Euripide, e dice: "Sono diversissimi, però sono eccellenti tutti e tre".

Attraverso questa considerazione passa intanto un’idea molto più complessa dello sviluppo artistico in cui di nuovo entra in gioco un elemento di storicizzazione. C’è un passo straordinario di Vasari che alla fine delle sue Vite degli artisti scrive più o meno così: "Qualcuno potrebbe dire che io sono stato troppo indulgente nei confronti di artisti del passato, per esempio Giotto: però bisogna vedere quello che è stato fatto, io ho cercato di giudicare secondo che e assolutamente". Dunque, Vasari utilizza due prospettive diverse, una "secondo che" e una assoluta. Ho seguito il riemergere di idee analoghe in pensatori e storici dell’arte contemporanei. Si tratta di discussioni che, per quanto suscitate dalle opere d’arte e dalla loro diversità nel tempo e nello spazio, finiscono però col toccare più in generale l’atteggiamento da assumere nei confronti di culture lontane dalla nostra. Penso che nella nostra civiltà le arti siano emerse come una zona relativamente innocente, in cui era possibile arrischiare un giudizio "secondo che", mentre in altri campi, come la religione o la filosofia, continuava a dominare un’idea assoluta e sostanzialmente astorica di verità.

Stiamo parlando del dilemma universalismo-relativismo...

Credo che di un poco di relativismo abbiamo bisogno (e forse un poco non basta); ma troppo relativismo è gravemente nocivo. Anche Cicerone non dice: "Tutto è lo stesso". Dice: "C’è l’eccellenza, però ci sono diversi modi di arrivare all’eccellenza". Contro il relativismo assoluto, che è letteralmente invivibile anche da chi lo teorizza, in quanto implica un’assoluta incomunicabilità, bisogna far valere la traduzione, che ne è la confutazione per eccellenza. La traduzione è possibile: ed è un argomento così forte proprio perché non è perfetta. Nella traduzione non c’è trasparenza assoluta, la traduzione è imperfetta per definizione: però la traduzione è possibile, come si vede continuamente. Per estensione si potrebbe dire: c’è comunicazione, ci sono scambi di valori diversi -il che significa inevitabilmente anche frizioni. Con questo si torna alla questione dei diritti umani. Io, per esempio, non sono disposto a discutere sull’infibulazione mentre son pronto a farlo sul chador. Uno potrebbe dire: ma dove passa il confine? Il confine passa sui diritti umani ed è un confine negoziabile, non definibile a priori. Si entra nell’ambito della politica, una politica che dev’essere illuminata dalla ragione, dal buon senso (un buo n senso che ci dice, per esempio, che non si possono mettere sullo stesso piano le mutilazioni e un velo in testa). Questo mi pare il tema più importante su cui riflettere oggi. Penso che si debba mantenere un atteggiamento che tenga in piedi l’aporia, che tenga in piedi l’impossibilità di risolvere il dilemma eliminando uno dei due corni. La tensione dev’essere mantenuta viva e all’interno di questa bisogna discutere.


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