Perché la storia dell’arte può offrire lo spunto per inventare la didattica futura
E fondare così una "paideia" del XXI secolo da contrapporre al mercato dei gadget
Creiamo un regno delle immagini come gli umanisti del Quattrocento
di Marc Fumaroli (la Repubblica, 10.09.2011)
Il maestro di color che sanno, Aristotele, chiama schole, scuola, il periodo di vacatio che viene concesso all’infanzia e all’adolescenza degli uomini liberi prima dell’inizio della vita attiva, e durante gli anni in cui le giovani facoltà sono più ricettive. È allora che bisogna seminare il buon grano che lieviterà per tutta la vita e che verrà raccolto in una vecchiaia felice. Spetta dunque alla scuola gettare le basi della maturità libera e civilizzata. Dal Medioevo di Alcuino al Novecento di Alain, questa definizione aristotelica della scuola non è mai stata smentita.
La democrazia moderna ha voluto estendere a tutti i cittadini la possibilità di godere del privilegio ateniese della schole. Oggi questa logica generosa non è più oggetto di un’adesione unanime ed entusiastica. Qualcuno ormai vede nella schole aristotelica o nell’Università del cardinale Newman (l’idea è la stessa) solo un lusso inutile. La scuola utilitaria, al servizio del mercato, serve a procurare un lavoro, non a formare uno spirito libero e critico, a educare un gusto, a risvegliare delle doti.
Altri farebbero volentieri a meno di qualsiasi a scuola, utile o meno: sono i padroni di un mercato onnipresente, le cui immagini e i cui gadget, rinnovati costantemente, hanno i bambini e gli adolescenti per clientela e per target. Così è la scuola di oggi e di domani: è ovunque e da nessuna parte.
A che serve, ci si domanda, la scuola arcaica? In questa nuova scuola non si inseminano le facoltà naturali, le si rimpiazza con una memoria, un’immaginazione, un’intelligenza artificiali. I videogiochi di guerra si prendono perfino la briga di sostituire il senso morale elementare con un’indifferenza calcolata nei confronti della sofferenza e della morte di altre persone. Sì, sono questi i barbari, numerosi, miliardari, che prosperano fra di noi.
Dunque il problema della scuola non è mai stato tanto scottante. La sfida è gigantesca. Come gli umanisti del Quattrocento, ma con ben altra urgenza e con nemici ben più attrezzati, abbiamo il dovere di inventare, contro gli utilitaristi e contro gli stregoni, la schole, l’università e le scienze umanistiche di oggi e di domani.
Dobbiamo ritorcere contro i barbari le loro stesse armi. Hanno conquistato l’impero delle immagini? Dobbiamo contrapporgli i regni dell’immagine! A mio parere sarà intorno alla storia dell’arte, capace di unire tutte le scienze umanistiche, che dovrà emergere questa paideia novantica (nuova e antica insieme, n.d.r.) di cui oggi sentiamo tanto crudelmente la mancanza. L’Italia è nella posizione adatta per ricominciare in circostanze nuove l’avventura della Villa Giocosa e delle Accademie fiorentine. (Traduzione di Fabio Galimberti)
«Non insegnare storia dell’arte mette a rischio il nostro futuro»
Giulia Maria Crespi: l’ambiente si difende con la cultura
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 16.09.2011)
ROMA - «Il ministro Mariastella Gelmini cosa sa della storia dell’arte italiana, del nostro Paese, della Nazione che lei governa? Sarei felice di incontrarla e di rivolgerle alcune domande...». Giulia Maria Crespi, Presidente Onorario nonché fondatrice del Fai, il Fondo Ambiente Italiano, gioca con il suo personaggio («ormai sono vecchia, dico senza paura ciò di cui sono convinta») sfoderando l’arma dell’autoironia. Ma i suoi argomenti, e i ragionamenti che propone, sono seri e solidissimi: «Ho letto con sgomento giorni fa proprio sul Corriere della Sera della misera condizione in cui si trova l’insegnamento della storia dell’arte nel nostro Paese. Cancellato, sparito. L’Anisa, l’associazione degli insegnanti di storia dell’arte, possiede un prospetto che fa paura. Storia dell’arte scomparsa nel biennio dell’Istituto tecnico per il Turismo. Lo stesso avviene nell’Istituto Professionale Turistico, Istituto Professionale per la Grafica, Istituto professionale per la Moda. Niente insegnamento nel primo biennio dei licei classico e scientifico. Dico: nel classico! Ma come è mai possibile?»
Le due grandi passioni di Giulia Maria Crespi sono il Paesaggio italiano, quindi l’ambiente e la stessa tradizione agricola come parte integrante del contesto, e la storia della vicenda artistica del nostro Paese. Due capitoli che, ai suoi occhi, rappresentano un unicum: «I due temi sono strettamente collegati. Mi spiego. Non insegnare la storia dell’arte significa togliere una indispensabile conoscenza a intere, future generazioni di geometri, architetti, sindaci che dovrebbero rispettivamente studiare e governare il territorio. Ma come potranno farlo se ignoreranno l’arte italiana, così impregnata di Paesaggio culturale? Significa anche allevare nuove leve di funzionari statali, e quindi soprintendenti, che non avranno appreso da ragazzi i fondamenti della nostra storia artistica. Come faranno questi giovani soprintendenti a muoversi con conoscenza e responsabilità se non sapranno ciò che dovrebbero sapere?»
Ma non è solo la macchina dei Beni culturali ad allarmare Giulia Maria Crespi: «Io mi domando e poi domando al ministro Gelmini. L’Italia è un paese che vivrà in futuro soprattutto di turismo legato alla cultura, al nostro patrimonio. Come è immaginabile educare i futuri operatori turistici privandoli di una disciplina fondamentale per il loro lavoro? Ridicolo! L’Italia è ricca solo di questo: di arte, di tesori, di musei, di passato.... Ha ragione lo storico e saggista inglese Paul Kennedy quando dice che l’Europa può ancora contare, per il suo futuro, sull’arte e la cultura. L’Italia più di tutti, aggiungo io, e quindi dobbiamo studiare e prepararci proprio per costruire quel futuro».
Giulia Maria Crespi si concede un piccolo tuffo nella memoria: «Da ragazza ho studiato bene la storia dell’arte, nel triennio finale ci si applicava sui testi di Paolo D’Ancona, Fernanda Wittgens e Irene Cattaneo. Ma davvero non capisco come si possa abolire l’arte nel primo biennio...» Un sospiro, di quelli tipici del Presidente Onorario del Fai: «Stiamo svendendo tutto ai cinesi, lo sappiamo bene. Ma i cinesi non potranno mai comprarci i Templi d’Agrigento o il Duomo di Milano. Quindi dobbiamo imparare a conoscerli e ad amarli perché rappresentano il nostro futuro».
Che fare, signora Crespi? «Dobbiamo protestare. Far sentire la nostra voce alla Politica. Ho saputo che il ministro Gelmini starebbe preparando un tavolo tecnico per esaminare il problema. E io vorrei sapere: chi siederà a quel tavolo tecnico? Quale conoscenza ha della storia dell’arte? Aggiungo che bisognerà quanto prima occuparsi anche della fine dell’insegnamento della musica. Nel resto d’Europa se ne apprende molta, di musica. Qui, nella patria del Melodramma, no. Tutto questo è grave, gravissimo, da irresponsabili...»
La scuola ha costruito il Paese. Ora può renderlo multiculturale
Un saggio ci riporta a quel che siamo stati e a quel che siamo. Oggi la sfida è l’integrazione L’istruzione pubblica ha un ruolo fondamentale nella crescita. Ha già fatto moltissimo, anche se spesso non ne è consapevole. Adesso però bisognerebbe investire di più e meglio
di Tullio De Mauro (l’Unità, 12.09.2011)
Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.
La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.
Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.
Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo - scelsero per noi da allora le generazioni suc- cessive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa - già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni - gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.
Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole. Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.
Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia faebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio». Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’Ocse accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali Ocse dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini. Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.
LA POLEMICA
"Noi, in classe senza certezze"
Così la scuola peggiora l’Italia
Comincia un nuovo anno, ma i problemi sono sempre gli stessi. Tagli agli istituti pubblici, docenti poco motivati, studenti abbandonati a sé stessi. E mentre aumenta la divisione fra tecnici e licei d’élite, gli insegnanti statali si preparano a un anno di battaglie
di MANUEL MASSIMO *
Suona la campanella, si torna sui banchi: dopo le vacanze prende il via un nuovo anno scolastico. Ma studenti e docenti sono alle prese con i problemi di sempre. Il calendario della pubblica istruzione in Italia sembra essersi fermato a molti anni fa: la scuola statale sembra perdere la sua funzione educativa e propulsiva. E’ più ripetitiva e meno capace di formare cittadini consapevoli. Un universo nel quale gli insegnanti sono perennemente in cerca di status e gli alunni vedono assottigliarsi i propri diritti, mentre il governo continua con i tagli e delegittima l’istituzione. Lo confermano i racconti degli studenti e dei docenti, i protagonisti che tutti i giorni animano le aule e faticosamente portano avanti i loro compiti.
Zero in condotta. Mariano Di Palma, coordinatore nazionale dell’Uds (Unione degli Studenti), è netto: "Non si fa alcun investimento nella scuola pubblica: i fondi per l’edilizia scolastica sono insufficienti, il diritto allo studio non è garantito alle fasce più deboli e c’è un enorme tasso di abbandono scolastico dovuto a ragioni economico-sociali". In questa legislatura, dice, il voto in condotta viene utilizzato come "arma non convenzionale" per punire chi contesta: "Con il ministro Gelmini è tornato in auge l’autoritarismo del passato: le sanzioni disciplinari per chi svolge attività politica a scuola sono all’ordine del giorno, come l’inasprimento del voto di condotta, usato come arma per colpire il dissenso". E fin dal primo giorno di scuola i ragazzi dell’Uds hanno deciso di mobilitarsi contro la crisi e le politiche "restrittive" in classe: "i conti li fate con noi" e "valutato, non schedato" sono le parole d’ordine.
Insegnanti a metà. Il corpo docente, intanto, è alle prese con antiche questioni economiche e nuovi problemi di ruolo, come sottolinea Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti: "Le difficili condizioni economiche in cui versa la professione sono arcinote. Oggi purtroppo è diventato pessimo anche lo status di docente. L’autonomia scolastica è stata portata avanti basandosi sull’aziendalismo. Un obiettivo che rovina il nostro lavoro". Un modello a cui guardare, secondo Di Meglio, è quello tedesco: "In Germania i docenti hanno un buon trattamento economico (prendono circa il doppio dei loro colleghi italiani, ndr) e non sono vessati da compiti burocratici". Da noi, invece, la crisi della scuola va a braccetto con la mortificazione della docenza: per questo la Gilda, l’associazione professionale degli insegnanti, chiede un’area contrattuale specifica per i docenti e l’istituzione di un Consiglio Superiore della Docenza, battaglie che porterà avanti nel corso dell’autunno.
Scuola di classe. Docenti in cerca di status, a causa di una scuola sempre meno autorevole. Girolamo De Michele, insegnante e autore del libro "La scuola è di tutti", individua l’inizio del declino negli Anni Ottanta: "La scuola ha perso il suo ruolo formativo, almeno in parte, a causa dei modelli promossi dalla televisione commerciale di quegli anni, con programmi come Drive-in e Colpo grosso. Oggi la scuola è guidata da chi ha creato questa cultura, figlia del berlusconismo". Secondo De Michele il governo sta mettendo in atto un disegno preciso: "Vogliono indirizzare le famiglie verso le scuole private, che da noi sono le peggiori d’Europa: veri e propri diplomifici dove spesso ti puoi comprare la promozione. Si tende a un modello che mantiene la cultura a livello d’élite, escludendo la maggior parte delle persone". A farne le spese, afferma De Michele, sono soprattutto gli studenti che frequentano gli istituti tecnici: "Il governo sta abbattendo l’istruzione professionale: non fornisce ai ragazzi gli strumenti minimi per decodificare la realtà e segna il loro futuro, condannandoli a subire la cultura di massa".
Cattiva maestra televisione. Il tema delle scuole di "serie A" e di "serie B" è condiviso anche dal regista Valerio Jalongo, autore del film "La scuola è finita" e docente in un istituto tecnico-professionale di Roma: "I liceali rappresentano un 30% di privilegiati rispetto al 70% dei loro colleghi che frequentano gli istituti tecnici. La scuola è lo specchio di quello che sta succedendo nelle fibre più intime del nostro Paese. Questo governo di destra insegue un modello anglosassone: non crede più nella possibilità di riformare la scuola pubblica e sovvenziona le scuole private". E la televisione, sostiene Jalongo, ha finito per sostituirsi alla scuola: "I ragazzi italiani passano più tempo davanti alla televisione che sui libri: ormai è questa la loro agenzia formativa, con modelli come il gioco dei pacchi e il Grande Fratello. La nostra scuola, di stampo materno e cattolico, appiattisce tutto: il bravo professore non è valorizzato e questo appiattimento si riverbera anche sui ragazzi, con atteggiamenti di rinuncia e un abbassamento del livello medio d’istruzione".
Il talento che non conta. Molti insegnanti, secondo Jalongo, non sono però esenti da colpe: "I sindacati hanno stretto un patto deleterio con una classe docente demotivata: il punteggio per le graduatorie e gli scatti di carriera è formato dall’anzianità e dalla situazione familiare. L’aggiornamento è facoltativo e non porta niente in busta paga. Negli Stati Uniti gli studenti valutano i loro professori e il preside ne tiene conto. Nella scuola pubblica francese i docenti che si aggiornano hanno dei benefici e uno stipendio migliore. Un paese cresce se investe in cultura e in formazione, che al momento sono le nostre uniche possibilità di salvezza. Ma le risorse vanno spese bene: che cosa fa la nostra scuola per valorizzare il talento dei ragazzi?". Ben poco, almeno guardando i rank internazionali: alle elementari stiamo ai primi posti, alle medie scendiamo a metà classifica e gli studenti escono dalle superiori peggiori di come sono entrati. Un declino che rispecchia lo stato della scuola pubblica italiana.
* la Repubblica, 09 settembre 2011)