Le elezioni amministrative della prima Repubblica
Politica e propaganda locale nell’Italia del secondo dopoguerra (1946-1956)
Saggi. Autonomie
Presentazione di Liborio Iudicello.
Prefazione di Pier Luigi Ballini
pp. XII- 260
2008 L. 61.960 € 32,00
ISBN 9788860362605
È a livello locale che i cittadini apprendono la vita politica. È nei comuni che la società entra a contatto con la politica, colta nei meccanismi prosaici e disincantati del suo quotidiano lavorio. Un livello che però, per essere compreso pienamente, va inserito in un quadro generale, perché il locale non esiste senza il nazionale e senza rapporto con esso. Così, se da un lato è opportuno evitare di esaltare o creare il locale con l’artificio - l’invenzione del colore e del folklore - dall’altro è fondamentale rifiutare la riproduzione, in periferia, degli idealtipi elaborati a livello nazionale.
È partendo da questi concetti che il volume narra il primo decennio di elezioni amministrative nell’Italia repubblicana. Anzitutto quelle del 1946, che segnarono la rinascita dei partiti e delle istituzioni ma, soprattutto, consegnarono alle donne la possibilità di accedere al voto. Le successive elezioni amministrative del 1951 e del 1952 furono invece profondamente influenzate dalla cornice nazionale e internazionale della contrapposizione ideologica, e ancor più lo saranno quelle del 1956: la «grande» politica era arrivata al comune.
Attraverso lo studio della propaganda, dei linguaggi e della comunicazione, emergono alcuni temi e problemi della costruzione della democrazia, della partecipazione politica e del processo di trasformazione che ha reso moderna la vita delle italiane e degli italiani. L’analisi dei dati elettorali, del mosaico di volti, voci, eventi, emozioni, porta alla luce le «Italie elettorali»: le distinte e complesse identità culturali e geo-politiche della penisola; il rapporto tra l’orgoglio locale e l’identità nazionale; il farsi dell’Italia repubblicana nei comuni.
Rosario Forlenza è dottore di ricerca in Società, istituzioni e sistemi politici europei presso l’Università della Tuscia, Viterbo. Si occupa di storia sociale e culturale della politica, di propaganda, comunicazione politica e cinema.
IL PROGRAMMA
Rosario Forlenza,
Un. della Tuscia, Viterbo
Tutor prof. Maurizio Ridolfi
1. La ricerca intende ricostruire la storia delle elezioni amministrative in Italia nei primi anni di vita della Repubblica. Nella consapevolezza che uno sguardo a distanza ravvicinata potrebbe rendere incomprensibile il quadro generale - vista la frammentazione e la diversità delle vicende locali - si intende recuperare una visione da lontano e d’insieme. E nello stesso tempo mettere in risalto le caratteristiche e le problematiche delle elezioni in alcune grandi città italiane: Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. Una ricerca di storia elettorale non può fare a meno dei cambiamenti avvenuti in ambito di storia politica. Le riflessioni e gli esiti di ricerca più fertili - in Italia e in Europa, ma in particolare in Francia - hanno spostato il tradizionale studio dei fenomeni di carattere pubblico verso una nuova realtà di storia della politica, che, tra l’altro, si avvale delle sollecitazione e degli apporti dell’antropologia, della politologia, dei linguaggi, metodi e particolari universi scientifici delle scienze sociali. E proprio lo studio delle elezioni, in Italia come altrove, ha consentito di cogliere la distanza tra gli studi tradizionali e i nuovi sviluppi della ricerca. Nel significativo progresso degli studi elettorali però il voto amministrativo è stato abbastanza escluso. È però indubbio che l’attenzione alla dimensione locale della politica consente di liberare una storia nazionale troppo angusta per oggetti, soggetti e ambiti storiografici.
2. Uno studio delle elezioni amministrative non può che partire - logicamente e cronologicamente - dalla raccolta e sistemazione dei dati elettorali. La certezza dei numeri, in realtà, riguarda soltanto le elezioni politiche: non tanto e non solo per la mancanza di cifre e pubblicazioni ufficiali, quanto per la difficoltà di organizzare dati tra di loro troppo disomogenei. Ma, in ogni caso, il dato statistico è solo l’aggancio ad una realtà più ampia, complessa e differenziata. Ed è comunque insufficiente a dare il senso e il tono ad una ricerca che voglia indagare una serie di fenomeni e di processi - più che di semplici avvenimenti - che hanno investito l’Italia repubblicana nei suoi primi anni di vita.
Rimane fondamentale il problema del rapporto tra centro (inteso come dimensione nazionale, politica, astrazione, emancipazione del politico dai contesti più immediatamente sociale) e periferia (intesa come locale, amministrazione, radicamento nel sociale, prossimità alle nervature intime della struttura sociale e degli interessi materiali). Occorre osservare come si vanno configurando, all’interno dei processi di politicizzazione e democratizzazione dell’Italia repubblicana, le dissonanze, le affinità, gli scambi e gli scarti tra i diversi livelli.
Sono chiamati in causa, dunque, il grado di politicizzazione e ideologizzazione dei problemi locali; la posizione della politica locale rispetto a quella nazionale. Il ruolo dei partiti nel loro tentativo di organizzarsi e radicarsi sul territorio e di rapportarsi alle istituzioni locali. La maniera stessa in cui la politica e la partecipazione hanno reso moderna la vita degli italiani e hanno consentito loro di diventare cittadini della repubblica. Sotto la crosta delle formule storiografiche generali - spesso cristallizzate in una immagine troppo univoca e unidimensionale per non essere distorta - l’Italia dei comuni merita di essere ricostruita e ri-considerata.
3. La ricerca intende esaminare e analizzare una serie di questioni e di problemi - ruotanti intorno alla democratizzazione e politicizzazione dell’Italia repubblicana - in diversi città. La valenza conoscitiva ed esplicativa della comparazione è dunque considerata fondamentale. In alcuni casi, la periferia è il luogo dove la politica alta si degrada e perde respiro ideale, in altri casi il centro attende l’iniezione di linfa vitale della virtuosa amministrazione.
Alcune città - come il caso di Bologna - diventano laboratorio dove si sintetizzano pratiche di buon governo. In altre - come la Napoli fascinata dal verbo qualunquista e populista di Achille Lauro - si sviluppano ed elaborano proposte politiche di marca anti-centralista ed anti-statalista. Se è nel contesto locale che avviene un vero e proprio apprendistato di massa della vita politica - come Pierre Rosanvallon ha notato riferendosi alla Francia orléansista - sarebbe interesse quanto l’assunto potrebbe valere per l’Italia repubblicana e per altri paesi europei dopo la seconda guerra mondiale.
4. Un vero e proprio manifesto della «nouvelle histoire du politique» è il volume curato da René Rémond, Pour une histoire politique, Seuil, Paris 1988; la costruzione e l’organizzazione del politico nel sociale e l’indagine sui partiti come luogo della sociabilità è nelle ricerche di Maurice Agulhon tra cui, in particolare, Sociabilité: étude d’une mutation Le cercle dans la France burgeoise 1810-1848, Colin, Paris 1977 [trad. it.: Il salotto, il circolo, il caffè: i luoghi della sociabilità nella Francia borghese 1810-1848, a cura di M. Malatesta, Donzelli, Roma 1993]. È già un classico della storia elettorale Pier Luigi Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’unità al fascismo. Profilo storico-statistico, Il Mulino, Bologna 1988; per un periodo più ampio e che comprende gli anni dell’Italia repubblicana, Maria Serena Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1995. Modelli di riferimento e problematiche utili per l’Italia, sono state fornite anche da studi elettorali provenienti dall’estero e in particolare dalla Francia, tra cui, fra molti altri, P. Rosanvallon, Le sacre du citoyen: histoire du suffrage universel en France, Gallimard, Paris 1992 [trad. it.: La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994]; Olivier Ihl, Le vote, Montchrestien, Paris 2000² (1. ed. 1996).
La recente attenzione degli storici per questioni come la propaganda, la mobilitazione dei militanti, i linguaggi della politica, le campagne elettorali è testimoniata da M. Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazione nell’età contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2004. Per il rapporto tra centro e periferia non si può prescindere dal classico Sidney G. Tarrow, Between Center and Periphery. Grassroots Politicians in Italy and France, Yale University Presse, New Haven and London 1977 [trad. it.: Tra centro e periferia. Il ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia, Il Mulino, Bologna 1979].
Non esistono studi complessivi sulle elezioni amministrative italiane se non alcune ricerche, di taglio politologico e sociologico dedicate ad alcune città. A metà degli anni Ottanta l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia insieme alla rete degli istituti locali iniziò una ricerca dedicata al ceto politico locale, su cui, in particolare, Alfio Mastropaolo (a cura di), Le élites politiche locali e la fondazione della repubblica, Istituti storici della resistenza in Pemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Franco Angeli, Milano 1991. Gli studi che la storiografia sociale, come nel caso del gruppo di lavoro legato alla rivista «Meridiana» - in questo caso a partire da un’ottica rivolta a ridiscutere gli stereotipi della storiografia meridionalistica - hanno consentito di rivedere alcune importanti questioni analitiche relative alla dimensione del «locale». La rivista «Memoria e ricerca» recupera la dimensione territoriale spaziale e territoriale come variabile - non solo geografica e geopolitica ma anche più propriamente storica - che consente l’esame di fenomeni complessi e apparentemente incomprensibili della storia nazionale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI!
DOCUMENTI
Nicola Gallerano, uno sguardo laico sulla Resistenza
di Gilda Zazzara (il manifesto, 17.09.2008)
Firma importante della pagina storica del «manifesto» tra anni Ottanta e Novanta, Nicola Gallerano è stato uno dei contemporaneisti più irrequieti e generosi della storiografia italiana. Apparteneva a una generazione intellettuale che lui stesso aveva definito «saltata» - troppo giovane per la Resistenza, già troppo disincantata per il Sessantotto - e che forse per questo ha saputo portare negli studi storici ciò che Goffredo Fofi, nel volume che oggi lo ricorda, ha chiamato un approccio più «laico» alla storia della Resistenza.
È una delle analisi che si possono leggere negli atti della giornata Nicola Gallerano e la storia contemporanea (l’editore è Franco Angeli), dedicatagli nel decennale della morte dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (Irsifar), il luogo in cui mise radici a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta - dopo la laurea con Nino Valeri e la giovanile esperienza di storico orale dell’8 settembre per Ruggero Zangrandi, assieme a Danilo Montaldi - la sua attività di ricercatore e divulgatore di storia contemporanea. Un luogo della vita che è anche elemento centrale della biografia scientifica: nella rete degli istituti storici della Resistenza Gallerano ha sperimentato assieme a un’intera generazione di storici, per usare le parole di Mariuccia Salvati, la «inscindibilità tra ricerca individuale e dedizione a un progetto scientifico pubblico e condiviso».
Una stagione emblematicamente racchiusa nel suo arco esistenziale, e della quale fu protagonista con le ricerche di gruppo sulla transizione dal fascismo alla repubblica, che segnarono una fase intensa e feconda per la contemporaneistica italiana ben oltre le polemiche ideologiche sulla «continuità dello Stato». Per questo forse il volume meritava una curatela più forte, non tanto per la qualità dei contributi - Giorgio Rochat, Gabriella Gribaudi, Guido Crainz sono solo alcuni degli autori chiamati a confrontare i propri studi con i temi centrali della riflessione di Gallerano -, quanto per l’assenza di un profilo intellettuale introduttivo, capace di collocare questa figura nei luoghi e i problemi di trent’anni di vita culturale italiana.
L’esperienza della guerra e il passaggio tra fascismo e democrazia nel Mezzogiorno fu il grande tema delle sue ricerche di prima mano (la solida conoscenza degli archivi di Stato è un altro dato non solo personale della traiettoria di Gallerano) e rappresentò lo stimolo per un continuo arricchimento dei piani della sua riflessione. Osservata da Sud, l’epopea della Resistenza si rifrangeva in molte e diverse memorie periferiche, veicolate da vicende collettive e vissuti quotidiani in grado di decostruire e desacralizzare la storia nazionale. Il contesto locale diventava così la via per una storia sociale di segno nuovo, sempre attenta alle strutture ma pronta a confrontarsi con le soggettività e con i diversi produttori sociali di storia e memoria.
Come ben dimostra questo primo tentativo di sintesi, uno dei maggiori contributi di Gallerano alla contemporaneistica resta quello di aver incoraggiato gli storici a non rinchiudersi in una inespugnabile «città degli studi» e ad affrontare con la forza dei propri strumenti l’«uso pubblico della storia». Vedeva in questo una responsabilità professionale e civile nel momento in cui, con la guerra nel Golfo, aveva intuito l’aprirsi di una nuova era di guerre e violenze bisognose di legittimazione storica.
Costituzione, edizione critica gratis per il 60° *
In occasione del sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana, la casa editrice Utet offre in omaggio a tutti coloro che la richiedano (numero verde 800-224664) un’edizione esclusiva commentata da Tullio De Mauro e Lucio Villari.
L’introduzione di De Mauro fornisce un’approfondita analisi storico-linguistica delle 9.369 parole che ricorrono nel testo, con il 74% dei lemmi tratti dal vocabolario di base della lingua italiana: una percentuale altissima rispetto alle consuetudini del nostro corpus legislativo, che testimonia l’impegno dei costituenti per garantire la massima accessibilità al testo da parte di tutti i cittadini.
Villari, invece, sottolinea coma la Costituzione, anche nel panorama delle costituzioni vigenti in Occidente, sia tra le più dirette ed esplicite nella rivendicazione e nella difesa dei diritti democratici.
* Avvenire, 06.09.2008.
È la decomposizione il rischio per l’Italia
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 03.09.2008)
Provo a raccontare in forma di parabola la storia di un grande Paese che abita una penisola troppo lunga. Così la definirono gli arabi, l’Italia, quando tentarono invano di impossessarsene. Un Paese la cui storia fu spezzata in due. Anzi, in tre. Nell’antichità c’erano a Nord i Celti. A Sud i Greci. Al Centro gli Etruschi. I romani lo unificarono per la prima volta, ma immergendolo in un grande impero. Poi l’impero si sfasciò e quel paese tornò a spezzarsi. In due. Anzi, in tre. A Sud, sempre i Greci. A Nord i Longobardi. Al Centro, la Chiesa. Per quattro o cinque secoli, il Nord fu politicamente unito sotto il segno dell’impero: dai longobardi, e poi dai franchi e poi dai tedeschi. A Sud invece si frammentò subito tra colonie greche, ducati longobardi e repubbliche autonome, continuamente percorso da eserciti imperiali e da orde saracene.
Poi, all’inizio del secondo millennio, la scena si rovesciò. Il Sud (con la Sicilia) fu conquistato dai normanni e ricomposto in un solo potente Regno. Il Nord cominciò a decomporsi politicamente in liberi Comuni e Repubbliche. Continuarono dunque, Nord e Sud, a procedere per strade opposte. Ci fu un momento, quando gli svevi, e il loro imperatore, Federico II, subentrarono ai normanni, in cui la potenza del Sud avrebbe potuto congiungersi con la ricchezza del Nord. Solo il grande Federico poteva farlo. Ma a tutto pensava meno che ad allearsi con loro. E loro con lui. Si combatterono, anzi, ferocemente.
Così, dopo Federico, il grande Regno di Sicilia si ridusse progressivamente al reame di Napoli. Le repubbliche del Nord fiorirono, ma fermandosi politicamente a livello di potenze regionali. Così l’Italia cadde sotto il dominio straniero. E per quasi tre secoli subì l’onta e l’impronta della servitù. Ma ancora una volta, diverso fu il destino del Nord da quello del Sud. Nel Nord l’eredità politica dei Comuni consentì la formazione di una borghesia colta, civicamente educata, che tuttavia non fu mai capace di guidare, tutt’al più solo di assecondare un vasto movimento di liberazione. Nel Sud, tra la prepotenza dei baroni e la disperazione dei contadini non si formò mai una vera borghesia, ma quella caricatura di borghesia che si chiama mafia. Maturava dunque al Nord una borghesia politicamente irresponsabile, al Sud una pseudo-borghesia economicamente parassitaria. Quando finalmente venne il momento dell’unità, ambedue lasciarono le strutture dello Stato nelle mani di una burocrazia cui il Sud forniva i quadri e la monarchia sabauda l’impronta autoritaria.
Ma allora, è giusto domandarsi, come, da chi e perché si compie, malgrado tutto, nei tempi moderni, l’unità d’Italia? La risposta è stata data tante volte. Essa è frutto dell’azione di minoranze. Come sempre, si potrebbe dire. Sì, ma nel caso dell’Italia, di minoranze particolarmente minoritarie, nel senso che non rappresentano culturalmente le correnti pesanti di questo Paese: non ne sono il "campione". Certo, esse non sorgono dal vuoto. La civiltà italiana, la nazione italiana, benché priva di Stato, è una realtà storica. Lo è la lingua. La letteratura. L’arte. La musica. Ma è la spuma di una cultura, non il fondo. Questa si esprime nei grandi episodi della vita politica italiana moderna: il risorgimento, il fascismo, la repubblica. Quello resta torpido, servile, ribelle.
Il Risorgimento è un’antologia di slanci generosi. Forse il meno noto e il più emblematico è quella rivoluzione napoletana del 1799 che rivelò la tragica frattura tra l’idealismo patriottico dei giacobini e la ripulsa reazionaria dei lazzaroni mobilitati dai preti. Spento il genio di Cavour, contestato l’eroismo di Garibaldi, il risorgimento decade consumandosi nella grigia mediocrità della monarchia sabauda. Incapace di realizzare l’unità del Sud e del Nord quella monarchia la sforza con la violenza in una brutale repressione delle plebi meridionali. Il fascismo non è all’origine un movimento reazionario. Anch’esso espressione di minoranze intellettuali, è una rivoluzione piccolo borghese intrisa di violenza di classe e satura di letteratura retorica. Esso trascina una borghesia pavida e un proletariato sconfitto all’avventura e alla catastrofe.
La Repubblica. Nata dal riscatto vitale della Resistenza, espressione di minoranze intrepide, trae il suo vigore da due grandi forze popolari in conflitto: quella democristiana e quella comunista. Queste hanno il merito, eccezionale nella storia d’Italia, di trascendere i termini di quel conflitto dando al Paese una Costituzione socialmente avanzatissima, e di respingere i conati separatisti. La Democrazia cristiana riesce a tenere a bada le pretese clericali e a controllare il qualunquismo eversivo delle maggioranze silenziose. Il partito comunista, a frenare gli impulsi insurrezionali deviando la sua grande forza verso un disegno storico di alleanza con il mondo cattolico. A questo disegno ideologico esso sacrifica però le concrete possibilità aperte al riformismo liberale e solcialdemocratico che si afferma negli altri Paesi d’Europa.
Preservata l’unità politica del Paese, la repubblica dei partiti si rivela incapace di rifondarla su una vera unità nazionale, affrontando e risolvendo il vero nodo che impedisce la formazione di uno Stato moderno: la questione meridionale, ovvero l’impasse di una penisola troppo lunga. Questo è il vero fallimento della Repubblica. La grande insurrezione che segue, contro la corruzione politica, inizialmente motivata da un autentico sdegno civile, ha aperto le porte ad una gigantesca jacquerie. Quel terremoto ha travolto i partiti, strutture portanti della Repubblica, senza rigenerare il paesaggio politico. Ha scatenato invece una possente rebelion de las masas scatenata contro i partiti, contro lo Stato, contro la politica. L’essenza di questa deriva è il privatismo, la riduzione di ogni aspirazione a interesse privato, l’insensibilità per valori politici che lo trascendono, l’insofferenza di ogni regola che si imponga alle pretese del "particulare". Il privatismo è l’essenza del populismo. Le formazioni collettive cui da luogo non sono strutture; sono mucchi di granelli di sabbia esposti al vento di correnti emotive, di suggestioni demagogiche e mediatiche. Emerge una società informe, senza identità. Una società in senso proprio privata: di sé stessa.
Mai come oggi l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo. I pericoli di secessione non sono svaniti. Dopo il Nord la febbre leghista può investire il Sud promuovendo progetti separatisti come quelli che la Mafia elaborò nel pieno della tremenda crisi del 1992, quando si tramava la fondazione di uno Stato del Sud, una sorta di Singapore mediterranea, ultramercatistica e autoritaria. Porto franco, capitale di tutti i capitali del mondo. Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale. Mazzini aveva detto: l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. Questa profezia rischia di avverarsi al suo livello più basso.
Compito storico della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un progetto di società che affronti i grandi problemi dello sviluppo economico, dell’equilibrio ambientale e del benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario indicato da Carlo Cattaneo, non lo pseudo federalismo separatista implicito nei progetti leghisti. Ma la Sinistra italiana è priva di un progetto. Essa è dilaniata tra due tendenze: alla contestazione e alla mimesi della destra, ambedue subalterne. Il sociologo Durkheim avrebbe detto che il suo linguaggio non è quello della conversazione, ma quello del pettegolezzo. Un progetto non può desumersi dal chiacchiericcio dell’attualità, ma solo dalla consapevolezza della storia di questo Paese: grande ma troppo lungo. Un progetto che permetta finalmente di accorciarlo un po’. Non sto proponendo un corso di storia. Se mai, di geografia.
Ansa» 2008-09-08 11:16
NAPOLITANO: SERVE CONDIVISO PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE
ROMA - Sulla Costituzione repubblicana "possono ritrovarsi tutte le componenti ideali, sociali e politiche della società italiana nel sentirla come propria, nel rispettarla, nel trarne ispirazione, nell’animare un clima di condiviso patriottismo costituzionale".
Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo intervento per il sessantacinquesimo anniversario della difesa di Roma.
’’Vorrei incoraggiare tutti a rafforzare il comune impegno di memoria, di riflessione, di trasmissione alle nuove generazioni del prezioso retaggio della battaglia di Porta San Paolo, della difesa di Roma e della Resistenza’’ aggiunge.
Il capo dello Stato a Venezia per un convegno ha parlato anche di federalismo fiscale
"Ma unità e indivisibilità della Repubblica restano valore storico e principio fondamentale"
Napolitano, appello su Costituzione
"La Carta del ’48 riserva preziosa"
Calderoli: "Un plauso e una assoluta condivisione per le sue parole"
VENEZIA - "Oggi si pone l’esigenza di un rinnovato, consapevole ancoraggio alla Costituzione". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a un convegno sui 60 anni della Costituzione a Palazzo Ducale di Venezia. La Costituzione, ha aggiunto Napolitano, non è "intoccabile" ma, come è stato dimostrato in passato, non la si può riscrivere tout court. Nel suo intervento il capo dello Stato ha detto anche di non essere pessimista sulla possibilità di arrivare a un’intesa sul federalismo fiscale si possano conciliare.
Ancoraggio alla Costituzione. Dopo le polemiche sul fascismo, di cui comunque non ha fatto menzione, il presidente della Repubblica ha sottolineato che "un rinnovato ancoraggio alla costituzione’’ è "un’esigenza che appare tanto più forte quanto più si avverta un pericolo di disorientamento della comunità nazionale, per l’indebolirsi della sua coesione e del suo tessuto ideale e civile". "La Carta del ’48 - ha rimarcato - è una riserva preziosa su cui far leva, purché ci si impegni innanzitutto a bucare il velo di ignoranza che la circonda: facendone conoscere e studiare il testo".
Lip service. Il presidente della Repubblica invita ’’a non indulgere ad una improduttiva mitizzazione ma anche a non cedere alla retorica del superamento, quasi per limiti di età della Carta del ’48’’. Nei confronti della Costituzione - ha detto Napolitano a Venezia - ’’non ci interessano i lip service, gli omaggi a fior di labbra, ma egualmente non portano da nessuna parte gli atteggiamenti liquidatori’’. ’’Quel che ci interessa - ha aggiunto Napolitano - è come far vivere in questa fase storica la Costituente repubblicana, in rapporto a domande della società e attese dei cittadini che non hanno finora trovato sbocco’’.
"Costituzione non intoccabile". "Sono idealmente convinto - ha proseguito il capo dello Stato - che ripercorrere la strada, già risultata impraticabile, di una riscrittura complessiva, sia pure della sola seconda parte della carta del ’48, sarebbe un tentativo velleitario e dannoso". Napolitano ha comunque ribadito un concetto: "Che la Costituzione non sia intoccabile lo dimostra il semplice fatto che tra il 1963 e il 2005 sono stati modificati, sostituiti, aggiunti, 38 articoli o commi, anche di notevole rilievo".
"Scelte di riforma". "Sono persuaso - ha spiegato Napolitano - che siano da perseguire e possano essere condivise, se mirate, riforme volte specificamente a garantire la soluzione di alcuni problemi da tempo sul tappeto come ad esempio l’abbandono del bicameralismo ancora vigente e l’istituzione di una Camera delle Regioni o delle autonomie".
Federalismo fiscale. "Nessuna parte politica può negare che sia venuto il momento di entrare nel merito, stringere il confronto, cercare impostazioni concrete e convincenti per dar vita al sistema disegnato nell’articolo 119, ormai comunemente classificato come federalismo fiscale", ha detto Napolitano. Si può solo, ha concluso, procedere ad alcuni "approfondimenti o ripensamenti su vari aspetti del titolo V", e sono "legittime". "C’è un imperativo di chiarezza e di razionalizzazione che non può essere eluso".
Paletti. Ma Napolitano mette dei paletti: "L’unità e la indivisibilità della Repubblica resta valore storico e principio fondamentale, di certo non negoziabile". No quindi alle chiusure di chi è più ricco e "chiamare le regioni del Mezzogiorno alla prova della responsabilità per l’uso economico e il rendimento qualitativo delle risorse pubbliche". Ciò detto, è chiaro che bisogna recuperare "l’idea dell’unità nazionale come inseparabile e destinata a trarre maggior forza e consenso da una articolazione pluralistica e autonomistica". Dal momento che la riforma della Costituzione approvata nel 2001 prevede il federalismo fiscale, si parta da quello.
Calderoli. Positiva la reazione della Lega alle parole del capo dello Stato. "Un plauso, ed una assoluta condivisione, al presidente Napolitano per le sue parole sul federalismo - ha detto il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli - Ancora una volta con la sua sensibilità coglie quelle che sono le necessità del Paese". "Il presidente - ha aggiunto Calderoli - coglie una priorità che è assolutamente da noi condivisa e che appare ineludibile".
* la Repubblica, 18 settembre 2008