simulazioni
L’illusione di leggere nella mente altrui
Sulla rivista «Current Biology» un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia afferma di avere scoperto il sistema per identificare le intenzioni nascoste nei pensieri dell’altro. Ma, ancora una volta, vanagloria dei ricercatori e inattendibilità dei media hanno collaborato a un bluff. Penetrare le intenzioni degli altri implica sia l’interpretazione del comportamento altrui, sia il ricorso alle emozioni
di Pietro Perconti *
Sapere cosa passa per la testa delle altre persone è una delle conoscenze più preziose che possiamo sperare di acquisire. Regoliamo una parte consistente delle nostre azioni sulla base di conoscenze che presumiamo di possedere circa le intenzioni altrui. Spesso, però, sperimentiamo come le nostre supposizioni siano mal fondate. Per esempio, facciamo qualcosa convinti che un altro individuo abbia un certo desiderio e poi ci accorgiamo che la sua vita interiore era articolata in modo differente da come avevamo presunto. Nelle Affinità elettive Goethe immagina gli effetti che avrebbe sulle relazioni sociali il potere osservare, attraverso una finestrella posta sulla fronte delle persone, i loro pensieri. La vita ordinaria sarebbe molto diversa da quella a cui siamo abituati, anche se non necessariamente migliore. Molte relazioni interpersonali, come quelle informate dalla competitività, sono possibili proprio grazie al fatto che le intenzioni altrui sono parzialmente opache. Inoltre, certe volte la mancata trasparenza delle altre menti ci protegge da pensieri di cui volentieri rimaniamo all’oscuro. Ma altre volte saremmo disposti a pagare molto per scoprire cosa anima il comportamento altrui: sembrebbe, stando alla divulgazione scientifica di une recente scoperta, che questo si renderà, tra non molto, possibile.
Come la finestrella di Goethe
Un gruppo di scienziati, capitanati da John-Dylan Haynes del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia, afferma infatti di avere scoperto un surrogato ipertecnologico della finestrella di Goethe. In un articolo pubblicato sulla rivista Current Biology, Haynes e i suoi colleghi mostrano come avrebbero scoperto il sistema per leggere le intenzioni nascoste nelle menti dei nostri simili. Ma le cose non sono così semplici come vengono annunciate. Il desiderio di popolarità dei ricercatori e l’inclinazione dei media a rendere spettacolari i loro risultati scientifici finiscono per distorcere completamente la realtà.
Lo scanner, innanzi tutto: nonostante numerosi giornali nazionali e internazionali abbiano millantato una macchina per la lettura dei pensieri, in realtà ciò che i ricercatori hanno usato è semplicemente una apparecchiatura per la risonanza magnetica funzionale.Si tratta di un dispositivo abbastanza comune nella ricerca e nella diagnostica medica dei paesi più sviluppati. I neuroscienziati l’hanno però usata congegnando un esperimento molto ambizioso. Hanno chiesto a otto persone inserite nello scanner di decidere liberamente se sottrarre o addizionare due numeri che venivano mostrati su uno schermo. Una volta assunta la decisione, i soggetti venivano invitati a concentrarsi su di essa.. Dopo un ritardo che andava da due a dieci secondi, sullo schermo di fronte ai volontari comparivano altre quattro cifre, due delle quali erano risposte corrette alla somma e all’addizione dei numeri precedenti mentre le rimanenti erano risposte scorrette. A questo punto i soggetti dovevano indicare una cifra in modo che i ricercatori potessero stabilire se avevano scelto di sommare o sottrarre i primi due numeri. La cosa sorprendente è che sembrava che lo scanner conoscesse la decisione prima che venisse esibita.
La risonanza magnetica funzionale è un dispositivo in grado di registrare i mutamenti del metabolismo del cervello e di indicare se una certa regione cerebrale è stata interessata da un incremento del flusso sanguigno. Il flusso ematico cresce in ragione del lavoro che le cellule del cervello stanno svolgendo, per cui il suo incremento indica che una certa parte del cervello è impegnata in un compito. Con questo genere di tecniche negli ultimi anni i neuroscienziati hanno prodotto una mappa abbastanza dettagliata delle regioni del cervello coinvolte nelle varie funzioni cognitive. Utilizzando le tecniche di visualizzazione cerebrale con sofisticati metodi di analisi dei dati, il gruppo di Haynes è stato in grado di stabilire, con un miglior grado di approssimazione rispetto al passato, quali aree del cervello erano attive quando i soggetti decidevano per la somma e quali aree erano attive quando invece decidevano di sottrarre. In questo modo hanno ritenuto di potere individuare la decisione prima che questa si manifestasse in un comportamento palese e di potere così leggere i pensieri dei volontari quando erano ancora nascosti nella loro testa.
Uno scenario illusorio
Sembra che ci sia di che entusiasmarsi. Se siamo in grado di fare il primo passo nella lettura automatica delle intenzioni altrui, davanti a noi si apre uno scenario nello stesso tempo attraente e sconcertante. Ma a riflettere meglio su ciò che è stato davvero scoperto, quel che stringeremo in mano non va al di là di una correlazione stabile, in un piccolo gruppo di persone e per una sola sessione sperimentale, tra una attivazione neuronale in una regione della corteccia mediale prefrontale e l’indicazione di una cifra su uno schermo. Supponiamo che quell’attivazione neuronale consista nella decisione di sottrarre due numeri. Potremmo scoprire se il soggetto sta mentendo? Se, cioè, invitato a fare la sua scelta, il soggetto prendesse sistematicamente la decisione di addizionare i numeri e poi però indicare il risultato della loro sottrazione (o viceversa), saremmo noi in grado di smascherare la sua manovra con l’aiuto dello scanner? La risposta è negativa. Il dispositivo è in grado di rilevare una correlazione stabile tra due fatti, ma è incapace di assegnare un contenuto alla decisione.
Se il sistema escogitato dal gruppo di Haynes non fa che evidenziare alcune regolarità tra aree cerebrali attivate e determinati comportamenti, quella della lettura automatica delle menti non è che una illusione. Inoltre, le decisioni comportamentali non sono che una parte, ancorchè significativa, dei pensieri. Ci sono un mucchio di altri pensieri che non consistono affatto in decisioni, come le convinzioni politiche, le emozioni e le opinioni sulla moda. In tutti questi casi lo scanner non ha nulla da dirci.
Il fatto è che non abbiamo ancora abbastanza conoscenze sui processi che mediano la lettura della mente per poter produrre la tecnologia capace di riconoscere e simulare una simile attività. Per giungere, eventualmente, a questo punto occorrerebbero sia informazioni molto più sofisticate sulla localizzazione cerebrale di tale funzione sia, soprattutto, modelli teorici sufficientemente avanzati. Il dibattito su cosa è e su come funziona la lettura delle menti vede tre principali alternative: il simulazionismo, la «teoria della mente» e la «teoria della razionalità».
Le tre alternative
Secondo i sostenitori del simulazionismo, ciò che facciamo quando attribuiamo agli altri individui stati mentali nel tentativo di predire il loro comportamento è metterci nei loro panni e immaginare cosa penseremmo e proveremmo noi se fossimo nelle circostanze controfattuali. Supponiamo che Maria abbia ricevuto in regalo un oggetto di un tono di verde che le piace molto. Chi glielo ha donato potrebbe averlo fatto proprio simulando le emozioni che avrebbe avuto lui nel caso in cui fosse stato oggetto dello stesso genere di attenzione. Questo modo di ragionare sembra convincente. Eppure non è esente da difetti. Quello principale consiste nel fatto che talvolta l’introspezione è inaffidabile e che in certi casi gli altri non hanno le reazioni che avremmo noi se fossimo al loro posto. Secondo l’orientamento simulazionista, la capacità predittiva del comportamento altrui cresce in ragione dell’abilità di autoproiezione posseduta dall’individuo. Man mano che si ha una maggiore confidenza con se stessi dovrebbe nella stessa misura crescere la possibilità di fare previsioni accurate sulle altre persone. Ma questo non è sempre vero: può benissimo darsi il caso di una divaricazione tra la capacità di fare previsoni che riguardano gli altri e la trasparenza verso se stessi. Inoltre, mentre è chiaro che le altre persone possono essere più ottuse o acute di noi, non è altrettanto chiaro come rendere conto delle situazioni in cui questo scarto è determinante se ci basiamo su noi stessi come modelli di riferimento.
Nella grammatica della mente
Una alternativa a questo modo di vedere le cose consiste nel ritenere che ciò che facciamo quando attribuiamo uno stato mentale a un altro individuo è consultare una sorta di teoria sulle menti altrui. Non si tratta, ovviamente, di una teoria scientifica che le persone conoscono in modo esplicito, quanto piuttosto di un insieme sistematico di conoscenze che usiamo implicitamente. Analogamente a quanto succede con il linguaggio e con le operazioni che facciamo quando parliamo ricorrendo implicitamente a una serie di conoscenze di tipo grammaticale, anche quando prevediamo il comportamento degli altri individui attribuendo loro determinati stati mentali, stiamo consultando una sorta di «grammatica» delle menti in grado di guidarci. Secondo i sostenitori di questa tesi, il ricorso a una teoria implicita sulle altre menti è una operazione che avviene in modo veloce e automatico.
La terza alternativa è la «teoria della razionalità», una dottrina normativa secondo cui la lettura delle altre menti si basa essenzialmente sulla considerazione dei nostri simili come agenti razionali. Si assume che le persone di cui siamo interessati a prevedere il comporamento condividono il nostro genere di razionalità e si attribuiscono loro i pensieri che dovrebbero avere nelle circostanze in questione. La teoria della razionalità fornisce il quadro di riferimento normativo in cui ciascuna spiegazione di come funzionano i processi di attribuzione psicologica dovrebbe esercitarsi.
La disputa su quale ipotesi sia la più adatta a rendere conto di come funziona la lettura delle menti è aspra e va nutrendosi continuamente di riflessioni e di evidenze sperimentali con cui misurarsi. Anche se il gruppo di Heynes mette l’accento sul ruolo della corteccia prefrontale mediale, in realtà molte altre evidenze mostrano il contributo di aree differenti del cervello impegnate nell’esecuzione dei compiti legati all’attribuzione di stati psicologici agli altri. Complessivamente, sembra che la lettura della mente dipenda dal concorso di almeno tre aree distinte del cervello: un’area posteriore (il solco temporale superiore), un’area limbica e paralimbica (con un significativo ruolo dell’amigdala) e l’area della corteccia prefrontale, su cui l’équipe di Heynes ha concentrato la propria attenzione. Le evidenze sulla localizzazione cerebrale spingono a ritenere che i processi di attribuzione mentale rivolti verso gli altri siano diversi da quelli che riguardano se stessi, dato che questi ultimi non coinvolgono le medesime regioni del cervello.
Esse, inoltre, suggeriscono che la lettura delle menti è una operazione complessa, che richiede sia l’interpretazione degli indizi comportamentali altrui sia il ricorso alle emozioni sia, infine, la capacità di elaborare congetture e proiettarle nel futuro.
Una ablità sofisticata
Le evidenze accumulate fino a questo momento non sono ancora conclusive e non consentono quindi di preferire in modo definitivo una ipotesi teorica a scapito di un’altra. Ci aiutano però a penetrare in una materia eccezionalmente complessa. Quando conosceremo in modo preciso il funzionamento della lettura della mente e della cognizione sociale disporremo delle basi scientifiche per l’interpretazione delle relazioni sociali. Ne va anche della possibilità di misurare le opinioni che ciascuno di noi ha sui rapporti interpersonali, tenendo conto di un quadro di riferimento empiricamente fondato.
La lettura delle menti altrui è una abilità molto sofisticata e fragile che può andare facilmente perduta, come accade nel caso dell’autismo. D’altronde, gli esseri umani non vengono al mondo in grado di interpretare in modo efficente gli stati mentali delle altre persone, perché questa è, invece, una capacità che i bambini sviluppano lentamente nei primi anni e che è pienamente matura solo intorno ai quattro anni di vita. La maggior parte delle altre specie animali sono incapaci di rappresentarsi le altre creature come esseri dotati di una vita interiore: benchè molte specie provino dolore, abbiano forme elementari di emozioni e siano in grado di rappresentare in modo anche sofisticato lo spazio e gli oggetti che sono in esso contenuti, non sono tuttavia capaci di figurarsi gli altri individui come dotati di stati interiori. Sarà anche per questo che gli altri animali sono abilissimi nell’eseguire molti difficili compiti, ma non riescono a cavarsela nelle situazioni in cui occorre la capacità di simulazione.
La lezione di Sherlock Holmes
Ammonendo il suo interlocutore Sherlock Holmes affermava: «I risultati migliori, ispettore, li avrà mettendosi sempre nei panni dell’altro, pensando a ciò che avrebbe fatto se fosse stato in lui. Occorre un po’ di fantasia, ma ne vale la pena». Sherlock Holmes non disponeva di alcuno scanner, ma era abilissimo nell’interpretare i più piccoli segni nel comportamento dei suoi simili, esattamente come ciascuno di noi ogni giorno nella propria vita. Finchè lo scanner per la lettura delle menti non verrà perfezionato e non disporremo della versione futuribile della finestrella di Goethe, non ci resta che affidarci ai sistemi che abbiamo sempre usato e che, nella maggior parte dei casi, ci permettono di indovinare la sincerità delle altre persone e le loro intenzioni.
Bibliografia
Titoli per orientarsi nel cervello
L’articolo che ha destato scalpore e in cui si trova la notizia dello scanner in grado di leggere le nostre intenzioni riposte è scritto da John-Dylan Haynes, Katsuyuki Sakai, Geraint Rees, Sam Gilbert, Chris Frith e Richard E. Passingham: «Reading Hidden Intentions in the Human Brain». È pubblicato in «Current Biology», Vol. 17, 1-6, 19 Febbraio, 2007.
Si trova anche sul sito internet della rivista: http://www.current-biology.com/misc/page?page=misc2 Due autori dell’articolo, John-Dylan Haynes e Geraint Rees, avevano già annunciato le loro capacità di predire il corso futuro del flusso di coscienza: «Predicting the Stream of Consciousness from Activity in Human Visual Cortex», in «Current Biology», Vol. 15, 1301-1307, 26 luglio 26, 2005.
Sulla lettura delle menti in italiano si possono leggere: «La psicologia ingenua» di Cristina Meini, McGraw-Hill, 2001; «Leggere le menti» di Pietro Perconti, Bruno Mondadori, 2003. In inglese, tra i tanti titoli, converrà leggere almeno: «Mindreading» di Steven Stich e Shaun Nichols, New York, Oxford University Press, 2003; «Simulating Minds: The Philosophy, Psychology, and Neuroscience of Mindreading» di Alvin Goldman, Oxford University Press, 2006.
* il manifesto, 20.02.2007
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’algoritmo sa cosa farai
Non c’è comportamento che non possa essere previsto
di Gabriele Beccaria (La Stampa, 08.08.2018)
Puoi tacere, rimanere immobile e non fare nulla, eppure lo sguardo ti sta tradendo. Basta un battito di ciglia. I micromovimenti degli occhi e le loro inconsapevoli reazioni svelano moltissimo a un algoritmo che sa come decifrarli. Può stabilire se l’umano che ha di fronte, in una sala d’aspetto o nella metro, è un curioso, un nevrotico, un estroverso, un serioso, un ottimista... Sviluppato dalla University of South Australia con il Max Planck Institute, questo esempio di Intelligenza Artificiale prepara una nuova era nei rapporti tra le macchine e noi e, intanto, altre menti sintetiche stanno imparando così tanto dai nostri comportamenti che cominciano a prevedere che cosa faremo. Al supermarket o in Borsa, sui social o alla guida dell’auto.
Quando si stringe un volante, in effetti, ci riveliamo. Al punto che già trionfa un sistema che, osservando una gara di Formula 1 in diretta e combinando ciò che vede con le memorie di tante corse precedenti e delle prestazioni individuali dei piloti, stabilisce che cosa succederà alla prossima curva. Un’app che produce «alert» e che, elaborando rapidissimamente presente e passato, dà il responso sul futuro imminente e suggerisce al commentatore tv se Vettel manterrà la posizione o Hamilton lo sorpasserà. Mentre l’algoritmo spia le abilità dei campioni, dà un aiutino decisivo al giornalista-opinionista. E la determinazione di dove si troverà tra pochissimo la Ferrari o la Mercedes può essere talmente precisa da arrivare a cinque centimetri dalla posizione effettiva. Un soffio (o un battito di ciglia).
Il miracolo «precog», così visionario da superare le fantasie del celebre film «Minority Report», è stato realizzato da QuantumBlack, società di base a Londra specializzata nella scienza dell’«advanced analytics» e che consiste nel gestire enormi quantità di dati (i celebrati Big Data) e nell’esplorarli creativamente per ottenere informazioni altrimenti impossibili e impensabili. Come, appunto, predire i comportamenti in situazioni eterogenee e da queste «premonizioni» ricavare modelli teorici e strategie di business.
«Erano una trentina, oggi sono oltre 350», racconta Massimo Giordano, «managing partner» per l’area del Mediterraneo di McKinsey, parlando dei «data scientists» che si immergono nell’oceano dei dati e ne riemergono sempre con qualche meraviglia. È stata proprio la multinazionale di consulenza strategica ad aver acquisito QuantumBlack nel 2015 e il team è diventato una delle punte di diamante di McKinsey - spiega Giordano - «per guidare i nostri clienti in una realtà in divenire, come l’Intelligenza Artificiale.
Uno strumento potente, che, comunque, non può fare a meno della mente umana: a lei resta il difficile compito di prendere le decisioni. Ora, però, può farlo in modo più consapevole e ragionato». Formula 1 a parte, banche, tlc, assicurazioni, distribuzione, infrastrutture sono esempi dei settori dove l’analisi avanzata dei dati scatena la rivoluzione. Nei prodotti e nella filosofia che li ispira e nell’organizzazione delle aziende, oltre che nei rapporti con i clienti.
«L’innovazione è legata alla capacità delle aziende, anche le più tradizionali, di attrarre giovani talenti, i data scientists, appunto - sottolinea Giordano -. Il loro futuro è a tutto campo, non solo nei simboli del Big Tech come Google e Amazon o nelle start-up». Se è vero che ognuno di noi genera dati, consapevolmente con le protesi digitali e inconsapevolmente in ambienti iper-sorvegliati, e che negli ultimi due anni sono state prodotte più informazioni che nel resto della storia dell’umanità, la sfida è sfruttare il sapere potenziale che racchiudono. Una miniera da miliardi e trilioni non per tutti, ma riservata a chi ha le magiche chiavi per entrarci. «Oltre il 50% di quanto facciamo oggi appena cinque anni fa non esisteva - osserva Giordano -. McKinsey, nel mondo, dispone di oltre 2 mila super-specialisti, tra cui matematici, ingegneri e fisici, e di un migliaio di “traduttori”, i quali indirizzano le tecniche di “machine learning” verso obiettivi specifici».
Obiettivi sempre diversi, come provano le esplorazioni di QuantumBlack. Per un football club ha creato un modello che correla le caratteristiche di ogni giocatore con la propensione agli infortuni muscolari (e ne ha previsti 170 su 184, con un’accuratezza del 90%), mentre a una società mineraria ha fornito lo strumento con cui calcolare le probabilità di guasto dei macchinari. Risultato: rilevamento anticipato dell’88% dei problemi. A un network di pagamento, invece, è stato fornito l’algoritmo con cui individuare, nella massa delle transazioni, quelle sospette e quelle fraudolente.
Ed è solo l’inizio, sostengono gli specialisti: diventiamo dati per l’Intelligenza Artificiale e allo stesso tempo i suoi neuroni ci promettono super-poteri al di là dell’immaginazione. Nel grande gioco delle previsioni è il futuro lontano a restare insondabile.
METTERSI NEI PANNI DEGLI ALTRI - LEGGERE NELLA MENTE DEGLI ALTRI... Il "Narcisismo" e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
Milano, una App per imparare a mettersi nei panni degli altri: nasce la prima Fondazione Empatia
Vedere il mondo con gli occhi di un bambino, di un migrante, di un cieco, di un pdisabile o di chi è vittima di bullismo. Dall’etimologia della parola, sentire-dentro, nasce il progetto per imparare a comprendere lo stato d’animo degli altri. Presto iniziative, eventi e un film d’animazione di Bruno Bozzetto
di ZITA DAZZI (la Repubblica/Milano, 06 luglio 2017)
Mettersi nei panni di un rifugiato, di una persona che soffre un disagio psichico, una disabilità. Provare a vedere il mondo con gli occhi di un bambino, di un migrante, di un cieco, di chi subisce atti di bullismo. E’ la sfida che si pone la nuova Fondazione Empatia Milano, presentata a Milano, a Palazzo Marino, partner dell’iniziativa che nasce da un’idea di Giannatonio Mezzetti. L’ex dirigente d’azienda, già promotore del format danese "Biblioteca Vivente" sui temi della salute mentale, aveva portato in luoghi prestigiosi come il Museo del ’900, persone che raccontavano la loro storia, come libri parlanti, con l’obiettivo di diffondere le esperienze personali. Iniziative fatte in collaborazione con ABCittà e Coop lotta contro l’Emarginazione. Se negli ultimi anni la parola più di tendenza è stata "resilienza", ora è il momento dell’"empatia", una parola che significa sentire-dentro. Empatia è infatti la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, che si tratti di gioia o di dolore. Sentire l’altrui dentro di sé, mettersi nei panni dell’altro.
Accanto all’assessore Pierfrancesco Majorino, in sala Brigida, alcuni dei molti promotori e testimonial di questa iniziativa, unica in Italia, che ha invece precedenti illustri all’estero: a Londra esiste il primo Empathy Museum europeo e ad esso si ispira la Fem di Milano. Fra i testimonial, il grande disegnatore e padre della scuola di animazione italiana, Bruno Bozzetto, che con il suo studio realizzerà un film sull’idea dell’empatia e sulle iniziative milanesi per fare sì che questa pratica si diffonda.
Intorno a questa idea, che abbraccia tutti i campi del privato e del sociale, si svilupperà l’attività di FEM, che ha nel suo comitato etico una fiosofa come Laura Boella, un criminologo come Adolfo Ceretti, lo psicoanalista Francesco Comelli, Marina Pugliese, storica dell’arte che dopo aver diretto il museo del ’900 ora vive e insegna negli Usa. "Con questo progetto facciamo una grande scommessa - ha detto l’assessore Majorino - Viviamo ogni giorno il corpo a corpo tra precarietà e risposte al bisogno e questo ci pone domande nuove. Questa Fondazione è una opportunità per farcela. Dalle biografie di chi compone il comitato etico si comprende quale sia l’orientamento e quale la forza di questo progetto che unisce ciò che è già vicendevolmente partecipato, ovvero cultura e pratica sociale, arte e bellezza come cura e restituzione nel sociale. La fragilità non è da eliminare ma da includere e far propria".
A spiegare l’assunto da cui nasce questa idea - che avrà presto anche una App e un Kit per l’empatia, è la sociologa Petra Mezzetti: "In società plurali, dove l’alterità fa sempre più paura e molti si difendono alzando barriere o frequentando solo gruppi omogenei, sollecitare la capacità di creare empatia attraverso esperienze culturali innovative - e anche spiazzanti - può diventare un’occasione per "forzare il blocco", incoraggiare l’incontro e il dialogo con nuove realtà, promuovere processi partecipativi, creare un circolo virtuoso di conoscenza, apertura, e quindi di inclusione".
Bruno Bozzetto, - fondatore, nel 1960, della casa di produzione Studio Bozzetto&Co - aggiunge: "Siamo contenti di poter dare il nostro contributo al progetto FEM. L’animazione è un linguaggio che si presta ad un numero infinito di soluzioni narrative, poterla utilizzare per comunicare un concetto molto ampio e complesso come l’Empatia ci è subito sembrata una sfida interessante". La Fondazione sta attivando strumenti di fundraising e di crowdfunding, in attesa di trovare finanziamenti pubblici. I partner sono la Pinacoteca di Brera (comprendente la Mediateca di Santa Teresa), le Gallerie d’Italia e prossimamente altri di cui verrà data presto comunicazione.
Con loro FEM realizzerà percorsi "empatici", iniziative, eventi. La Mediateca di Santa Teresa, in particolare, sarà punto di riferimento per le attività della Fondazione. Qui nascerà un archivio permanente di materiali multimediali utili a ricostruire storie e profili di persone portatrici di diversità e di sfide culturali. Da ottobre, ci saranno diversi eventi pubblici, per invitare i milanesi a mettersi anche fisicamente "nelle scarpe degli altri" condividendo emozioni e problemi.
Empatia
Elogio del co-sentire di Max Scheler: arriva dagli Anni 20 una proposta di salvezza
Che in noi risuonino le gioie e i dolori altrui
“Una lucida analisi del filosofo tedesco: una nuova convivenza basata sul rispetto della reciproca diversità”
di Ermanno Bencivenga (La Stampa/Tuttolibri, 05.03.2011)
La simpatia o empatia è di moda. Mentre si allarga la meritata fama del gruppo di ricercatori italiani che hanno scoperto e studiano quei neuroni specchio che ne costituiscono il fondamento biologico, Jeremy Rifkin, in un libro edito quest’anno in Italia da Mondadori ( Civiltà dell’empatia ), trova in essa una speranza di salvezza tanto promettente e perentoria quanto, qualche anno fa, era per lui l’idrogeno. Ma la popolarità è spesso di ostacolo a un’analisi dettagliata e profonda; giunge quindi a proposito la nuova traduzione di un classico testo sull’argomento, Essenza e forme della simpatia , di Max Scheler (nella sua seconda edizione originariamente pubblicata nel 1923), curata con rigore linguistico e storico da Laura Boella.
Il pregio principale del lavoro di Scheler consiste nella precisa tassonomia da esso offerta di una costellazione di fenomeni certo collegati ma decisamente distinti, che il discorso comune e anche quello filosofico tendono a confondere tra loro. A un estremo di tale spettro troviamo il «ri-sentire» e il «rivivere», caratteristici «dello storico di valore, del romanziere, dell’artista drammatico»: in essi «cogliamo effettivamente la qualità del sentimento altrui senza che questo venga trasferito a noi o che un sentimento reale e uguale venga prodotto in noi». Questo rivivere è qualcosa di più di un semplice giudizio intellettuale, ma si situa ancora «nella sfera del comportamento conoscente» e non comporta alcuna partecipazione al sentire dell’altro.
Dimostrano maggiore partecipazione il contagio affettivo, come nel caso dell’«allegria in una locanda o a una festa», e le varie modalità dell’«unipatia (o identificazione) del proprio io individuale con un altro», un’accentuazione o «per così dire un caso limite del contagio»: il rapporto di una tribù primitiva con il suo totem, gli antichi misteri religiosi, la suggestione ipnotica, vari comportamenti infantili e schizofrenici, l’atto sessuale compiuto per amore in cui «entrambe le parti intendono tuffarsi in un’unica corrente di vita che non contiene più in sé nessuno degli io individuali separatamente».
Il genuino «co-sentire» ( Mitgefühl ) è al di là di questa fusione: mantiene l’altro come altro, come diverso da sé, e ne prova i sentimenti come suoi, senza identificarvisi. In questo modo, apre la strada all’amore, il cui «senso più profondo non è affatto di prendere e trattare l’altro come se fosse identico al proprio io», e lo riscatta dall’istinto: «È amore materno solo quello che supera questa tendenza [istintiva a riprendersi indietro il bambino] e mira al bambino come a un essere autonomo che lentamente dall’oscurità dell’organico sale a un livello di coscienza più alto».
Chiudendo genialmente il suo discorso in un circolo (o una spirale?), Scheler annuncia che solo il co-sentire, il quale è «sempre fondato su un amore e senza amore cessa», è fonte di vera conoscenza, cioè di una comprensione specifica e particolare di ogni individuo: «Quanto più profondamente penetriamo un uomo, attraverso una conoscenza comprendente guidata dall’amore della persona, tanto più questi diventa per noi non intercambiabile, individuale, unico, insostituibile e non rimpiazzabile». La presunta sfera conoscitiva menzionata sopra, figlia del disinteresse e della neutralità, si rivela così non in grado di adempiere alla sua promessa.
Sono solo scampoli di un’indagine ampia e lucida, vigorosa e originale; ma bastano per illustrare come quella che si considera una soluzione possa non essere altro che il nome di un mistero. Dobbiamo dunque cercare le basi di una nuova convivenza, si dice, non nell’interesse personale, nella fede o nella ragione ma nell’empatia. Che cosa vuol dire? In una semplice capacità di drammatizzare l’esperienza altrui? In un’unione mistica con la specie (del genere che Hegel, poco benevolmente, avrebbe chiamato una notte nera in cui tutte le vacche sono nere)? O facendo attenzione gli uni agli altri, mantenendo e rispettando la nostra reciproca diversità e insieme sentendo risuonare il nostro corpo e la nostra anima della gioia e del dolore dei nostri simili? Scheler, quantomeno, ci dà un vocabolario in cui cominciare a porci queste domande.
Un videogioco per due: quello che pensa di fare una cosa e l’altro che (a distanza) la fa con un gesto Così l’esperimento (riuscito) di un ricercatore italiano dell’università di Seattle cambierà il mondo
Cervello, L’ultima magia della scienza trasmettere il pensiero si può
di Massimo Vincenzi (la Repubblica 11.09.2013)
NEW YORK Il video ricorda più un b-movie di fantascienza anni Cinquanta che un esperimento: ci sono due giovani uomini con in testa strani aggeggi a metà tra l’elmetto e la cuffia da bagno da cui spuntano parecchi fili, poi uno agita la mano nell’aria e l’altro in simultanea, mosso dall’impulso esterno, muove la sua sulla tastiera che ha davanti a sé. Per capire che è successo qualcosa di storico bisogna osservare le facce degli altri presenti nella stanza: prima sorridono increduli poi applaudono felici.
Quello che è accaduto alla Washington University di Seattle è il primo test che prova la trasmissione del pensiero e il controllo della mente. Idea da film appunto, che parte dalla fantasia di Fritz Lang, passa da Star Trek e arriva sino a Voldemort, il mago cattivo di Harry Potter. Ma questa sceneggiatura è un capolavoro della scienza con dentro anche un pizzico di Italia, visto che uno dei due ricercatori si chiama Andrea Stocco: nato 37 anni fa a Udine, laurea a Trieste e adesso, come spesso capita, un lavoro in America. Lui è quello che riceve il comando, dall’altra parte c’è l’amico Rajesh Rao.
La procedura, giurano i due, è semplice, usa tecniche già note, quello che è rivoluzionario è aver messo tutto questo in connessione. In un laboratorio del campus sta seduto Rajesh Rao che guarda sullo schermo del pc un vecchio videogioco con le astronavi che si inseguono e combattono. Ma non ha la tastiera, così quando inquadra nel mirino i nemici può solo pensare di sparare: le sue onde cerebrali vengono inviate a un apparecchio per l’encefalogramma che a sua volta limanda ad un computer. Qui grazie al consueto algoritmo il messaggio viene codificato e spedito via Internet dove sta Andrea Stocco che è collegato ad un’altra macchina per la stimolazione magnetica transcranica, da cui parte l’ordine.
«È come quando hai un tic nervoso, ma senza la tensione muscolare che lo precede. Sino ad un attimo prima che la mia mano si muovesse non ho avvertito alcun stimolo, quando ho capito cosa era successo è stato molto emozionante», racconta Stocco. E il suo collega spiega: «È presto, ma abbiamo ottenuto un risultato importante: per la prima volta abbiamo dimostrato che si può trasmettere il pensiero. Internet è stata la strada per far circolare le idee di persone sparse nel mondo, ora può essere la chiave per collegare le menti».
Gli scienziati studiano da tempo i meccanismi del cervello umano, qualche mese fa un gruppo di lavoro della Duke University è riuscita a provare la trasmissione del pensiero tra i topi ma adesso si aprono nuovi scenari. E, sull’edizione americana, ilNational Geographic si diverte ad immaginare quello che accadrà grazie alla scoperta. I compositori scriveranno la loro musicasenza dover ricorrere a strumenti: basterà immaginare la melodia e il computer restituirà loro il suono perfetto. Meno poetica ma più utile la app sperimentale chiamata Good Times che funziona più o meno come una segretaria personale: il telefono legge l’attività celebrale e se avverte che si è impegnati a fare altro indirizza la chiamata in arrivo verso la segreteria telefonica.
Una start-up cilena, Thinker Thing,promette invece di rivoluzionare il design, grazie anche alle stampanti in 3D: l’oggetto disegnato si trasforma interagendo con i gusti del suo creatore, a seconda degli stati d’animo, rimangono le forme che piacciono, svaniscono quelle che suscitano cattivi pensieri. Ecco poi tablet, smartphone che si comanderanno senza usare le mani, ci lavorano tutte le più grandi compagnie: la Samsung è quella più avanti. Uguale destino per le auto e la stessa tecnologia aiuterà le persone che sono su una sedia a rotelle. In campo medico si sta studiando come applicare tutto questo agli arti artificiali donando loro una sensibilità e un calore quasi umani.
«Ci vorranno molti anni, ma sarà una vera rivoluzione», giurano i colleghi di Stocco e Rao intervistati da Usa Today. E il portavoce della Washington University dice: «È piuttosto folle, ma è tutto vero». Tutto così affascinante, come dentro un film da Oscar.
Andrea Stocco: “Escluse le conseguenze negative”
“Dai chirurghi ai piloti ecco a chi potrà servire”
di Francesca Bottenghi (la Repubblica, 11.09.2013)
ROMA- «Il mio collega Rajesh non avrebbe potuto utilizzare la mia mano per darmi uno schiaffo. È un gesto troppo complesso per la tecnologia che possediamo ora», ammette sorridendo il professor Andrea Stocco. Trentasettenne, originario di Palmanova (Udine), emigrato negli Stati Uniti nel 2005 al termine del dottorato in Psicologia («Sì, sono uno dei tanti cervelli in fuga»): tre anni fa è arrivato a Seattle, dove il 12 agosto scorso ha partecipato all’esperimento di trasmissione del pensiero.
Quali saranno i vostri prossimi passi?
«Cercheremo di replicare il test con dei partecipanti che siano all’oscuro del suo funzionamento. Poi lavoreremo alla trasmissione di sensazioni o immagini molto elementari».
Quali prospettive si aprono?
«Per il futuro abbiamo in mente tre scenari. Il primo prevede il controllo motorio: un chirurgo potrebbe guidare le mani di qualcun altro per svolgere un’operazione a distanza. Un pilota potrebbe utilizzare lo stesso metodo per far atterrare un aereo. La seconda prospettiva riguarda il trasferimento di competenze complesse: se un professore di fisica è geniale ma non è in grado di spiegare, i suoi alunni potrebbero attingere alle informazioni direttamente dal suo cervello. La terza possibilità è legata alla neuro-riabilitazione. Potremmo aiutare i pazienti colpiti da ictus nell’apprendere di nuovo a parlare e muoversi».
E quali sono invece i possibili rischi?
«Nel 2011, prima di partire con il progetto, abbiamo riflettuto molto sui lati negativi. Ci siamo però resi conto che le applicazioni malvagie, quali il controllo remoto della mente senza che il soggetto ne sia consapevole, richiederebbero apparecchiature super miniaturizzate e decisamente più avanzate. Ora come ora non riusciamo nemmeno a immaginarle».
La macchina che svela i meccanismi della mente
In Italia la prima superrisonanza magnetica nucleare: “Studi a sette tesla”
di Marco Pivato (La Stampa TuttoScienze, 31.10.3012=
A Pisa La nuova macchina per la risonanza magnetica nucleare sta per essere accesa all’Istituto della Fondazione Stella Maris È la più potente installata in Italia Contemplare il corpo umano come un unicum, superando la dicotomia mente-corpo. È il sogno di medici e psicologi, ma anche, da sempre, dei filosofi. Oggi è diventato possibile grazie a una potente macchina per la risonanza magnetica nucleare, capace di generare un campo di 7 tesla (che è l’unità di misura del campo magnetico).
La macchina pesa 33 tonnellate, è stata costruita dalla General Electrics ed era arrivata in Italia l’anno scorso, all’Istituto della Fondazione Stella Maris di Pisa. Dopo l’installazione e il collaudo, in un bunker di 480 tonnellate di ferro, entro l’anno, sarà finalmente «accesa». Di queste macchine ne esistono solo 32 nel mondo, di cui 17 in Europa, ma quella che sta per entrare in funzione è la prima e unica nel nostro Paese.
Questo potente tomografo - le apparecchiature tradizionali lavorano a 1,5 tesla - è lo strumento in dote alla ricerca italiana che permetterà un balzo nelle neuroscienze e non solo. Genererà immagini del cervello ad altissima risoluzione, «permettendo - commenta Pietro Pietrini, dell’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa - di cogliere il dialogo tra cellula e cellula e di studiare la complessa coerenza delle migliaia di funzioni e reazioni che avvengono tra le aree cerebrali». Le applicazioni cliniche saranno preziose: «Scorgeremo i sintomi delle demenze con anni d’anticipo, seguiremo il decorso di un tumore, individueremo micro-lesioni e infarti, studieremo l’effetto dei principi attivi».
Ma le aspettative sono ancora più ambiziose: «Per esempio - continua - riusciremo a valutare l’efficacia di una psicoanalisi, rilevando se e quali cambiamenti sono avvenuti nel cervello, a distanza di anni dall’inizio della cura, così come capiremo meglio il “correlato biologico” in una depressione o constateremo i progressi di una terapia cognitivo-comportamentale negli ossessivo-compulsivi». La nuova macchina è una lente, con cui spiare la formazione di nuove sinapsi, le modificazioni cellulari, l’azione degli ormoni. Ma questo è solo l’aspetto meccanicista del nostro «computer».
Il supercampo magnetico andrà oltre, rivelando i sibillini significati dei messaggeri biochimici, ovvero il linguaggio tra neurotrasmettitori, cellule, proteine e geni: fotograferà - è la metafora più potente - come la mente emerge dal cervello. «Sarà - dice Pietrini - come vedere da un satellite Manhattan. Ma non solo la sua geografia. Anche com’è organizzato il traffico, cosa fanno gli abitanti, a che orario si entra e si esce dagli uffici e le dinamiche che sottendono questi eventi».
Il professore allude a una «visione d’insieme» del metabolismo cerebrale. Gli appassionati di Cartesio sono avvisati. Rex cogitans e Rex extensa - realtà psichica e realtà fisica - saranno una mera dicotomia didattica. Palesandosi il proverbiale anello tra mente e cervello, la realtà psichica può apparire come la «proprietà emergente» di un substrato organico, il cervello, a sua volta «proprietà emergente» di atomi, molecole, geni, proteine, neurotrasmettitori e cellule. La mente si rivela dunque come un prodotto del cervello, e non una «cosa» distinta. «L’obiettivo di questi studi - osserva il professore - è validare una sorta di medicina della mente, superando la frattura tra psichiatria e psicoterapia».
Già negli Anni 90 Pietrini e il suo team, al tempo in forze ai «National Institutes of health», negli Usa, con la tomografia a emissione di positroni avevano rivelato un comune denominatore nei pazienti ossessivo-compulsivi: «Avevano una corteccia prefrontale sovreccitata, o meglio ipermetabolica». E fecero una scoperta: «Quando trattammo due gruppi, l’uno con antidepressivi e l’altro con psicoterapia cognitivo-comportamentale, la Pet rivelava, in entrambi i gruppi, che il metabolismo si era normalizzato, e in effetti i pazienti erano migliorati anche dal punto di vista clinico». Da allora gli studi per cercare i nessi tra disturbi mentali e danni organici aumentarono. Oggi la tecnologia permette un’analisi più fine.
L’esame con la nuova «Rmn» a 7 tesla durerà 50 minuti, senza pericoli per il paziente, e «proprio perché la risonanza - spiega il professore - avviene in vivo, vedremo il metabolismo in azione e aree finora accessibili solo postmortem». Ad aver riportato l’Italia tra i luoghi d’eccellenza delle neuroscienze è stato il consorzio «Imago7», costituito dall’Università e dall’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa, insieme con la Fondazione Stella Maris e l’Istituto Medea di Lecco. Un obiettivo che recupera il primato del nostro Paese, «culla - conclude il professore - dello studio del cervello, cominciato con Camillo Golgi, Premio Nobel nel 1906 per le ricerche sull’istologia del sistema nervoso».
*
Pietro Pietrini
Psichiatra
RUOLO : È PROFESSORE DI BIOCHIMICA CLINICA E BIOLOGIA MOLECOLARE CLINICA
ALL’UNIVERSITÀ DI PISA
IL SITO : HTTP://WWW.AOPISA. TOSCANA.IT/
Se il giudice può leggere nella mente del teste
di Luigi Ferrarella (Corriere della Sera, 24.02.2012)
MILANO - Per la prima volta in Italia una tecnica di neuroscienza, sperimentata dal giudice sulla vittima di un reato con il suo consenso, entra in un processo penale non a motivare attenuanti per eventuali vizi di mente del condannato (come nei due già rari casi di Trieste 2009 e Como 2011), ma a concorrere alla prova d’accusa che con altre fa condannare un imputato: un anno a un commercialista accusato da una stagista di averla sessualmente molestata in ufficio.
Non c’entra la macchina della verità. Gli «Implicit association test» (Iat) esaminati dal Tribunale di Cremona sono invece finalizzati a far emergere la memoria autobiografica, l’informazione implicita-inconscia che in teoria potrebbe non essere accessibile alla coscienza del soggetto. Ma sull’attendibilità al 92% di questo metodo e sulla sua accettabilità internazionale c’è discussione. E lo stesso giudice rimarca che questo metodo può provare che la persona ha dentro di sé una certa immagine mentale, non anche che quel «vissuto» corrisponda davvero all’«accaduto».
A Cremona, accusa e difesa duellavano sulla dinamica della scena (la stagista al computer, il commercialista alle spalle), sulla tempistica (tra le 10 e le 10.15 il ritmo di invio dei files all’Agenzia delle Entrate), e in ultima analisi sull’attendibilità della ragazza, negata dal commercialista. In questo quadro il giudice Guido Salvini ha affidato una perizia integrativa a Giuseppe Sartori, professore ordinario di Neuropsicologia clinica a Padova, tra i pionieri italiani dei rapporti tra neuroscienze e processi. Solo che stavolta la perizia consiste non solo nel consueto colloquio con la ragazza e nei test psicodiagnostici classici, ma anche nei 5 blocchi di prove al computer che compongono gli «Implicit association test».
Alla ragazza si chiede di classificare nel modo più veloce e accurato possibile le frasi (che appaiono al centro del monitor) nelle categorie «vero-falso» e «versione della difesa-versione dell’accusa», attivabili con tasti a destra e a sinistra dello schermo. La teoria è che il cosiddetto ricordo «naturale» o «compatibile» avrebbe tempi di reazione rapidi, mentre un allungamento degli infinitesimali tempi di reazione e un aumento degli errori segnalerebbero che il soggetto ha dovuto superare un conflitto cognitivo nel dare una risposta non consona al suo ricordo.
Lo scopo del quesito del giudice al perito non era farsi dire se la ragazza dicesse il vero o no, ma «verificare da un lato se avesse dentro di sé il ricordo di quanto ripetutamente narrava e d’altro lato se tale evento fosse stato potenziale causa di un danno post-traumatico da stress». I test dicono sì. Ma sono affidabili? Il giudice scrive che «falsificabilità della teoria in senso popperiano e quindi resistenza del metodo a tentativi di smentita, controllo dei lavori pubblicati da parte di revisori qualificati ("peer review"), accettabilità dei limiti di errore e accoglimento da parte della comunità scientifica» depongono a favore. Però la percentuale di successo «del 92%» ha come fonte articoli dello stesso Sartori. Nè sono specificati quali altri scienziati, ripetendo l’esperimento, ne abbiano confermato la validità: cosa diversa dalle «15mila citazioni su Google Scholar dei lavori di Greenwald», inventore dei test.
Per perito e giudici il metodo soddisferebbe persino i rigidi criteri Usa della famosa sentenza Daubert. Ma essa nel sistema italiano non è criterio di vaglio delle prove scientifiche: i fautori citano una sentenza di Cassazione sul caso Franzoni (in un procedimento per calunnia di un vicino), «ma leggendola - osserva la studiosa pavese Barbara Bottalico - emerge chiaramente come la Corte abbia fatto un riferimento marginale a tale criterio, specificando anche che non fa parte del nostro sistema giuridico».
Inoltre i test Iat in America «sono stati usati ben poco nei tribunali e più invece come test psicologico-sperimentali sui pregiudizi personali, specie di tipo razziale o di orientamento sessuale» ad esempio nella scelta dei giurati. Del resto lo stesso giudice Salvini scrive che il test «è strumento neutro», non in grado di escludere «che il ricordo del soggetto non corrisponda al "vero" ma sia frutto di suggestioni, autoconvincimenti o distorsioni di quanto realmente avvenuto». Però in questo specifico processo il giudice li valuta significativi di una «conferma delle prove narrative» già «raccolte nell’indagine»: specie se combinate alla «tempistica della rivelazione della ragazza, che fa escludere possa essersi formata una "falsa memoria" relativa all’evento».
INNOVAZIONE
Il computer sa cosa pensi
Un software legge la mente
Dimostrato da Intel un sistema che analizza l’attività cerebrale e individua le parole che una persona sta immaginando. In futuro, permetterà di comandare dispositivi elettronici senza usare le mani *
LEGGERE la mente non è più un’attività riservata agli studiosi delle psiche o ai maghi. Il colosso dei microprocessori Intel ha appena presentato un software in grado di indovinare con estrema accuratezza cosa una persona sta pensando tramite l’analisi della sua attività cerebrale.
Il sistema è stato dimostrato per la prima volta al Tech Heaven di New York. La tecnica è ancora in una fase di sviluppo, ma promette di aprire scenari potenzialmente rivoluzionari tanto nell’informatica di consumo che nell’assistenza alle persone affette da gravi handicap fisici.
Il programma messo a punto da Intel è collegato a un’apparecchiatura per la risonanza magnetica. A un soggetto viene chiesto di pensare una serie di nomi comuni suggeriti da un ricercatore. L’algoritmo associa a ogni parola le aree del cervello che si attivano quando esse vengono pensate. Successivamente, al soggetto viene chiesto di pensare a una delle parole precedentemente suggeritegli. Durante i test, il sistema creato da Intel ha mostrato un’accuratezza superiore al 90 per cento.
I maggiori limiti della tecnologia sono legati all’ingombro e al costo delle attuali apparecchiature per la risonanza magnetica. Ma secondo Dean Pomerleau, ricercatore dei laboratori Intel, i progressi nel settore permetteranno in un futuro prossimo di far entrare tutto il necessario nell’ingombro di un cappello. Un altro sviluppo riguarderà la possibilità di individuare parole riferite a concetti astratti e non solo a persone o oggetti.
Lo scopo dei ricercatori che lavorano a queste applicazioni non è creare nuove macchine della verità, ma fornire nuove modalità di interazione tra l’uomo e le macchine. Se la ricerca andrà avanti, in futuro sarà possibile comandare un computer senza usare tastiera, mouse o touch-screen. Ma la ricaduta più importante si avrebbe nell’assistenza alle persone affette da gravi invalidità o menomazioni fisiche, che potrebbero riacquistare una parziale autosufficienza manovrando col pensiero sedie a rotelle, sintetizzatori vocali e altri strumenti di assistenza fisica.
* la Repubblica, 10 aprile 2010
Leggere il pensiero? è medicina non fantascienza
La scoperta, semplice e geniale, alla Mayo Clinic di Boston su pazienti epilettici. Applicati a un elettroencefalografo i principi della videoscrittura
La lettera appare sullo schermo, il malato la guarda, sul pc compare la stessa lettera
di Arnaldo D’Amico (la Repubblica, 26.01.2010)
Le lettere dell’alfabeto appaiono su uno schermo, una dopo l’altra. Due uomini le guardano e su un computer collegato ad un elettroencefalografo le stesse lettere appaiono, nella stessa sequenza. L’esperimento è stato realizzato nella sede di Boston della Mayo Clinic, l’organizzazione non profit più grande del mondo (3.700 ricercatori, 50.100 unità il personale di cura, 500mila i malati trattati ogni anno) dedicata allo sviluppo di terapie e soluzioni mediche pratiche. La scoperta che il pensiero si può leggere direttamente dal cervello ha del fantascientifico, ma alla base vi sono conoscenze e strumenti usati negli ospedali tutti i giorni. E un’idea semplice e geniale: applicare ai segni tracciati da un elettroencefalografo i principi con cui funzionano i programmi di videoscrittura installati su smart-phone e computer touch-screen, quello che traduce in testo dattilografico la propria grafia a mano. Ovviamente il software sviluppato per "leggere" le onde cerebrali è molto più sofisticato e potente.
Con questo armamentario, il gruppo di ricerca capitanato dal neurologo Jerry Shin si è lanciato nella verifica di una scommessa ardita: in un comune elettroencefalogramma - la registrazione delle onde elettriche cerebrali fatta con sensori appoggiati sulla testa - ci deve essere molto di più di quello che si vede ad occhio. Sonno, veglia, sogno, coma, epilessia e altri fenomeni che coinvolgono gran parte del cervello, corrispondono ad onde grandi, riconoscibili ad occhio dal medico. Vi devono essere, però, anche le onde elettriche debolissime, prodotte da piccole aree del cervello, come si ha per attività mentali minime, oscillazioni impercettibili all’occhio umano, ma non a un computer con un software in grado di rilevare, analizzare, confrontare e memorizzare milioni di piccole onde diverse.
Per verificare ciò, i ricercatori hanno chiesto la collaborazione di due pazienti epilettici. Per necessità terapeutiche, i due dovevano sottoporsi a un elettroencefalogramma con gli elettrodi appoggiati direttamente sulla corteccia cerebrale. È un’indagine che si pratica da decenni e richiede l’apertura di uno sportello nel cranio. Insieme ad altre indagini che si possono fare solo così, permette di individuare, con una precisione maggiore di quella ottenuta dagli elettrodi sulla pelle, la zona di cervello che scatena la crisi epilettica per poi rimuoverla.
Fatte le indagini per l’epilessia i pazienti si sono prestati all’esperimento. Mentre si concentravano su una lettera - si è iniziato con la "q" - il computer analizzava e memorizzava i segnali elettrici cerebrali. Nel frattempo i ricercatori dicevano al computer di associare la registrazione con la lettera "q". E così via per tutte le lettere dell’alfabeto. Come si fa coi programmini di videoscrittura: si scrive a mano la "q" sullo schermo e poi si digita "q": da quel momento quando il computer vede il nostro ghirigoro scrive "q". Poi hanno verificato se il computer così addestrato sapeva leggere l’alfabeto direttamente nel cervello.
Immaginabile lo stupore dei due pazienti quando hanno visto apparire sul computer le lettere che via via guardavano. E l’eccitazione dei ricercatori: quelle lettere dimostrano che l’attività elettrica ha in sé le tracce anche di eventi mentali semplicissimi, che comportano l’entrata in funzione di pochi neuroni rispetto ai miliardi coinvolti dal sonno o dal sogno. I passi successivi: verificare che il computer "legge" nel cervello anche con gli elettrodi appoggiati sulla testa, dove i segnali elettrici arrivano un po’ indeboliti; verificare che succede con pensieri via via più complessi come parole, frasi, discorsi. Ma anche suoni, melodie, colori, immagini. Infine, con comandi motori.
CERVELLO
I pensieri sullo schermo
"Così leggiamo la mente"
L’esperimento di un gruppo di ricercatori giapponesi.
"Per la prima volta abbiamo rappresentato graficamente le immagini pensate"
QUANDO si dice "ti leggo nel pensiero". Un gruppo di scienziati giapponesi ha preso la sfida sul serio e, stando ai risultati delle ricerche, è riuscito a proiettare le immagini della mente su uno schermo. L’esperimento condotto dai ricercatori dei Laboratori di neuroscienza computazionale ATR di Kyoto, ha dimostrato la possibilità di ricostruire varie immagini viste da una persona analizzando il suo flusso sanguigno cerebrale.
L’esperimento. Attraverso una macchina di risonanza magnetica (fMRI) sono state mappati i cambiamenti del flusso al variare delle immagini percepite dal soggetto in un periodo di tempo di 12 secondi, mentre un computer analizzava i dati e associava le variazioni. In un secondo tempo al soggetto è stata sottoposta una nuova serie di immagini, come le lettere che compongono la parola "neuron", e il computer è stato in grado di ricostruire e mostrare ciò che la persona stava vedendo basandosi unicamente sulla sua attività cerebrale. Finora la ricerca è stata condotta con 400 immagini in bianco e nero di 10 x 10 pixel, ma gli scienziati assicurano che in futuro potrà essere applicata a situazioni più complesse, fino a rappresentare le immagini del pensiero e persino i sogni.
Il futuro. I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista statunitense Neuron, potrebbero trovare applicazione anche nel campo delle arti visive e del design. Secondo gli scienziati infatti, sarà possibile ad esempio leggere quanto passa nella testa di un artista quando crea. Ma non è tutto, la scoperta potrebbe aprire la strada a ulteriori sviluppi anche nel campo degli altri sensi e suggerire nuovi trattamenti nella psichiatria, risolvendo ad esempio i problemi legati alle allucinazioni. "Questa tecnologia - ha spiegato il capo dell’ATR Yukiyasu Kamitani - potrebbe essere estesa anche agli altri sensi". "Sarà possibile - ha aggiunto - leggere i sentimenti e gli stati emozionali complessi di una persona". "E’ una grande scoperta per la comprensione dell’attività cerebrale - ha affermato Kang Cheng, ricercatore del Riken Brain Science Institute - in soli dieci anni i progressi in questo campo renderanno possibile leggere i pensieri di una persona con un certo grado di precisione".
* la Repubblica, 13 dicembre 2008
Science: scienziati Usa individuano i circuiti neurali associati a parole concrete
Riconoscere quali aree si attivano è il primo passo verso un dizionario cerebrale
Il cervello non ha più segreti
ecco il codice che legge i pensieri
Oltre la fantascienza: in futuro le macchine potrebbero leggere la mente
Le scoperte aiuteranno a capire meglio malattie come l’autismo o la schizofrenia *
ROMA - La mente non è ancora un libro aperto, ma i meccanismi alla base del pensiero stanno diventando sempre più chiari. Un team di scienziati americani è riuscito a decifrare una parte del codice linguistico del cervello, individuando alcuni circuiti neuronali che si attivano nel momento in cui si pensa a determinate parole, collegate a oggetti concreti, come un fiore, ad esempio.
Secondo la rivista Science, che dà notizia dello studio, questa scoperta potrebbe portare, in futuro, alla creazione di un dizionario cerebrale e alla possibilità di sviluppare dei dispositivi capaci di leggere nella mente perché in grado di utilizzare questo dizionario.
Un équipe congiunta di esperti informatici e di neuroscienziati - coordinati da Tom Mitchell della Carnegie Mellon University di Pittsburgh - ha usato la risonanza magnetica funzionale, che fotografa il cervello in presa diretta, su un gruppo di volontari. Questo ha permesso di osservare diverse combinazioni di attività neurali, ciascuna associata ad una parola. Partendo da queste associazioni e utilizzando calcoli statistici, gli scienziati sono riusciti a dedurre un vero e proprio codice di migliaia di parole. Codice che è composto dalla decodificazione di quelli che potrebbero definirsi "crittogrammi neurali".
"Crediamo di aver identificato un certo numero di unità di codice di base che il cervello usa per rappresentare il significato di alcune parole", ha spiegato Mitchell, che è un pionere nell’applicazione dei computer allo studio del cervello. Non esiste, per ora, un vocabolario esteso (basti pensare che per i nomi astratti non sono state individuati circuiti cerebrali), ma, come afferma un altro autore dello studio, Marcel Just, "è un passo importante nella decifrazione del codice del cervello".
Le applicazioni di queste scoperte vanno ben oltre la possibilità di leggere i pensieri altrui. In futuro potrebbero permettere una migliore comprensione di malattie come l’autismo e di disturbi del pensiero quali la paranoia, la schizofrenia, la demenza semantica. "La prospettiva è quella di riuscire a determinare come i soggetti autistici rappresentano dal punto di vista neurale concetti sociali quali l’amicizia e la felicità", ha detto Just, che dirige il Center for Cognitive Brain Imaging della Carnegie Mellon University.
Non è la prima volta che gli scienziati tentano di guardare "nella testa delle persone". Studi recenti mostrano che la risonanza magnetica potrebbe servire per inchiodare i bugiardi (perché quando si mente le aree cerebrali che si attivano sono più numerose rispetto a quando si dice la verità).
* la Repubblica, 29 maggio 2008
Sull’ultimo numero di Nature: legge ciò che ’registriamo’
e indovina l’immagine esatta nove volte su dieci
La macchina del pensiero è realtà
Dagli Usa lo "scanner" del cervello
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - La "macchina del pensiero", ossia un apparecchio in grado di leggere quello che ci passa per la mente, un oggetto che finora sembrava destinato a rimanere nell’ambito della fantascienza, è diventata una realtà. Usando uno scanner simile a quelli utilizzati per le diagnosi negli ospedali, una squadra di ricercatori americani ha ideato un sistema computerizzato che è in grado di indovinare, ovvero di leggere nell’attività cerebrale, le immagini che un individuo sta guardando.
In pratica, la macchina legge quello che il cervello umano registra. La precisione con cui funziona è impressionante: il computer è capace di indovinare l’immagine esatta nove volte su dieci, quando tirando semplicemente a indovinare la percentuale sarebbe soltanto di otto immagini indovinate ogni mille tentativi.
Lo studio solleva la possibilità che in futuro possa essere possibile visualizzare dal pensiero scene dai sogni di una persona o da ricordi che sono stati dimenticati. Ma comporta anche l’ipotesi di interrogatori in cui si va alla ricerca di "crimini del pensiero", soltanto immaginati e mai compiuti, suscitando apprensione per le violazioni della privacy e dei diritti civili.
La ricerca è annunciata sull’ultimo numero della rivista scientifica Nature, ed è stata anticipata con ampio risalto stamane in prima pagina dal quotidiano Guardian di Londra.
"I nostri risultati suggeriscono che è possibile ricostruire l’immagine dell’esperienza visuale di un uomo misurando la sua attività cerebrale", afferma il professor Jack Gallant, neurologo della University of California di Berkeley, che ha guidato il progetto. "Ciò schiude enormi possibilità, presto potremo avere una macchina capace di ricostruire in qualsiasi momento un’immagine dal cervello umano".
La macchina funziona così. In un primo tempo lo scanner registra l’attività del cervello mentre un individuo osserva centinaia di foto a colori e in bianco e nero: panorami, ritratti, animali, immagini romantiche, immagini violente, immagini di ogni genere. Quindi si passa al test vero e proprio, esaminando l’attività cerebrale senza sapere quale immagine la persona stia guardando. Confrontando le due serie di immagini, il computer fa quindi la sua predizione di quello che la persona ha guardato. Su un totale di 120 immagini, la predizione è giusta nove volte su dieci. Su 1000 immagini, è giusta otto volte su dieci. Gli scienziati di Berkeley calcolano che su un miliardo di immagini, su per giù il numero di immagini che si possono trovare su Google, la predizione sarebbe esatta nel venti per cento dei casi.
Ma questo è solo l’inizio. Lo scanner computerizzato usato per il test può scattare solo tre o quattro immagini al secondo. Scanner più sofisticati e complessi potranno, in futuro, leggere con maggiore accuratezza l’attività cerebrale e confrontarla con un più ampio numero di immagini. "Potremo essere in grado di leggere i sogni", dice il professor Gallant. Potrà essere possibile recuperare frammenti di memoria rimasti "stampati" nel cervello, ma che un individuo non ricorda più o di cui ha perso la consapevolezza. E’ anche possibile immaginare che un giorno una "macchina del pensiero" potrà interrogare il cervello di un sospetto terrorista o di un criminale, per farsi dire cose che costui non rivelerebbe mai di sua spontanea volontà. Le implicazioni comportano inevitabili polemiche e controversie.
C’è tempo, in ogni caso, per il dibattito: "Ma nel giro di 30-50 anni cose del genere saranno a disposizione della scienza e della società", scommette Gallant. L’uso che vorremo farne dipenderà soltanto da noi.
* la Repubblica, 6 marzo 2008.
L’esercito ha investito quattro milioni di dollari per arrivare,
nel giro di qualche anno, a mettere a punto un elmetto speciale
I militari Usa non grideranno più
"Comunicheranno col pensiero"
Sarà in grado di trasformare le onde cerebrali in comunicazioni radio
che possono essere mandate ad altri soldati o al comando
di LUIGI BIGNAMI *
TRA QUALCHE ANNO molte azioni militari, soprattutto quelle che richiedono sorpresa e dunque silenzio assoluto, potranno svolgersi senza che alcuno emetta un parola o un ordine vocale o un segnale con il corpo, che a volte può essere male interpretato. Ma i militari comunque, si muoveranno con estrema sincronia, come guidati da una voce invisibile. Nessun comando ad alta voce, dunque, ma gli ordini arriveranno comunque precisi e chiari alle orecchie dei militari in azione. Non è la descrizione di un corpo militare da fantascienza, ma quanto si promette la US Army per i propri soldati che saranno impegnati in azioni particolarmente pericolose e complesse.
A permettere tutto ciò sarà un sofisticato elmetto in grado di leggere i pensieri delle persone e trasmetterli via onde radio. Queste, una volta raggiunto gli elmetti dei propri compagni, verranno "tradotte" in parole udibile e comunicate attraverso un auricolare.
La US Army ha dato il via ad una ricerca tecnologica con un budget da 4 milioni di dollari, che è stata affidata ad un gruppo di università americane (Università della California a Irvine, l’Università Carnegie Mellon e l’Università del Maryland), per giungere, nell’arco di alcuni anni, ad uno strumento con queste caratteristiche. I ricercatori sostengono che, realisticamente, i militari potranno scendere sul campo di battaglia con simili elmetti entro un decennio, anche se la tecnologia per tutto ciò è già alla portata di mano.
Gli stessi ricercatori, infatti, hanno lavorato a lungo su altre interfacce cervello-computer che, ad esempio, ha portato alla società "Emotiv System", alla messa a punto di un sistema basato sulle onde cerebrali per guidare sofisticati videogiochi che entreranno in commercio a partire dalla prossima estate.
Gli elmetti per i soldati tuttavia, saranno molto più sofisticati rispetto ai sistemi utilizzati per i videogiochi, perché le comunicazioni dei dati tra cervello e computer dovrà essere molto più sofisticata. L’elmetto infatti, sarà composto da 128 sensori che saranno in grado di riconoscere frasi chiare e ben definite che già oggi vengono utilizzate durante le azioni militari. La chiave di tutto ciò sta nel realizzare in piccolissimo computer in grado di leggere un elettroencefalogramma che sarà diverso per ogni frase pensata e quando il soldato sarà sul punto di emettere la parola dalla bocca il computer trasformerà il pensiero in onda radio e la diffonderà.
Ma poiché il cervello è una sofisticatissima macchina, ci vorrà anche da parte dei militari un training molto sofisticato. Essi infatti, dovranno imparare a "non pensare" le frasi chiave quando non sono necessarie, mentre le dovranno pensare chiaramente quando saranno necessarie. E i computer degli elmetti dovranno essere così avanzati da capire quali saranno le frasi da inviare e quali no. In un primo momento la voce che giungerà ai soldati sarà robotizzata, ma in un secondo tempo giungerà con la stessa modulazione di colui che l’ha formulata e inviata.
Ma non c’è il pericolo che ponendo sulla testa di una persona un simile elmetto si riesca a leggere il suo pensiero? "No - risponde Elmar Schmeisser, un neuroscienziato dell’esercito americano che segue il progetto - perché le comunicazioni tra cervello e computer possono sussistere solo se c’è la collaborazione di chi intende comunicare, altrimenti è impossibile leggere il pensiero di chiunque".
Ovviamente le applicazioni in campo civile, se mai verranno concesse, potranno essere di grande beneficio, basti pensare al fatto che tali elmetti potranno permette di comunicare con persone impossibilitate a parlare, con frasi e concetti che con il tempo potranno via via diventare sempre più complessi.
* la Repubblica, 23 settembre 2008