“COGLIONI”, DAVVERO !!!
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala*
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande!
"IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA!
IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE!
FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE!
NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico!
Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia.
Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia.
Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
* Il Dialogo, Mercoledì, 05 aprile 2006
David Cameron ha voluto esperti comportamentali e della mente come consiglieri in vista delle elezioni
Recenti studi hanno infatti collegato le reazioni "cerebrali" con le scelte progressiste o conservatrici degli individui
Cervello.
Di destra o di sinistra?
Ora lo decidono le neuroscienze
Esistono basi neurologiche della morale: dall’altruismo alle virtù civiche
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 23.10.2009)
LONDRA. Di sinistra si nasce o si diventa? La medesima domanda, naturalmente, vale per chi è di destra. E la risposta è duplice: di destra, o di sinistra, si nasce e si diventa. La novità è che nuove ricerche sul cervello e sullo studio del comportamento umano vengono incorporate nell’analisi politica, per capire cosa spinge un elettore a votare in un senso o nell’altro.
L’annuncio che David Cameron, leader dei conservatori britannici e, stando agli attuali sondaggi, prossimo primo ministro dopo le elezioni della primavera 2010, ha arruolato tra i suoi consiglieri degli esperti di neuroscienza e di economia comportamentale è un segnale dell’importanza che questo genere di studi hanno assunto nelle sfide elettorali del ventunesimo secolo. «Lo facevamo anche noi», rivela Matthew Taylor, ex-collaboratore di Tony Blair a Downing street.
In un articolo per il mensile Prospect Taylor racconta che negli anni del blairismo il governo laburista prendeva come modello l’Homo economicus: «Offri alla gente una scelta e la gente agirà nel proprio interesse, e nel fare ciò farà anche funzionare il sistema in modo migliore per tutti». Ma oggi, sostiene il politologo, la scienza ha fatto un ulteriore passo avanti, permettendo ai politici di analizzare le caratteristiche che spingono un cervello a simpatizzare per la sinistra piuttosto che per la destra, o viceversa. Finora, afferma, i dibattiti sulla natura umana erano ristretti ai comportamenti criminali e ad altre patologie. Adesso le reazioni "cerebrali" vengono studiate anche in relazione alle scelte politiche.
Prendiamo il Cervello Progressista. «L’altruismo ci rende felici», osserva Taylor. «Una comunità solidale crea persone migliori. Ineguaglianza e discriminazione ci privano di questo potenziale. Una buona guida ci aiuta a compiere decisioni sagge per il lungo termine». Morale: se una persona si sente sicura del proprio destino e assistita da uno stato e da una comunità solidali e ben funzionanti, è più propensa a votare per una politica che si identifica con questi valori. L’analisi del Cervello Conservatore secondo Taylor parte dalla constatazione che la morale ha una base neurologica: un forte istinto di giustizia che il nuovo leader dei Tory intende sfruttare per fare avanzare il suo progetto di un "conservatorismo sociale", intenzionato ad apparire moderno sulle questioni sociali e sulla scienza pur riaffermando i valori tradizionali della destra in difesa delle virtù civiche, delle istituzioni e delle tradizioni.
Il precedente tentativo di superare la divisione ideologica destra-sinistra e individuare un nuovo interlocutore era stato la Terza Via, l’idea del sociologo Anthony Giddens che ha portato al potere il New Labour di Blair in Gran Bretagna e forze riformiste in tutta Europa. Il concetto che i cittadini d’oggi non si vedono come oggetti di religioni, partiti, ma come autori delle proprie vite. L’ingresso della neuroscienza in politica, prevede Matthew Taylor, rappresenta un ulteriore passo avanti. Non bastano gli spin-master, gli esperti di manipolazione mediatica, per vincere le elezioni: servono anche gli psicologi del comportamento umano.
Parla Piero Ignazi, politologo: "Bisogna essere molto cauti nell’utilizzare queste teorie. Ma siamo solo all’inizio"
"Sono ricerche recenti, aspettiamo i risultati"
di Massimiliano Panarari(la Repubblica 23.10.2009)
Piero Ignazi, politologo del Mulino e docente a Bologna, cosa pensa dell’intreccio tra neuroscienze e politica?
«Sarei molto cauto al riguardo perché siamo solamente ai primi passi di questo tipo di studi. A distanza di trent’anni dal loro debutto, avvenuto sostanzialmente con il libro Sociobiologia di Edward O. Wilson, pubblicato nel ’75 e che suscitò un enorme dibattito negli Usa, queste ricerche non forniscono ancora risposte convincenti o attendibili».
Anche in prospettiva?
«Per cultura e formazione, sono un razionalista, fiducioso nella scienza e, quindi, attendo qualcosa di più solido a questo proposito, perché al momento non disponiamo di alcuna certezza sulle determinanti biologiche dei comportamenti sociali (e, dunque, politici)».
Intravede qualche pericolo in questi approcci di "neuropolitica"?
«Sì, decisamente. Questo dibattito è, di fatto, una riproposizione di un’eterna querelle, la contrapposizione tra determinismo e libera scelta. Pensare che un ambito di scelte dell’agire umano possa venire determinato da fattori strutturali interni all’individuo e alla sua mente, significa, per esempio, negare l’influenza del contesto e dell’ambiente esterno. Col rischio, quindi, di prestarsi a strumentalizzazioni (come ai tempi di Wilson) o, peggio ancora, di consegnarci a un futuro assai fosco, alla Minority Report».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
LO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io").
Xanti Schawinsky, Sì, 1934 |
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
IL REGNO DEL MENTITORE. L’ITALIA SOTTO L’EFFETTO LUCIFERO.
TEOLOGIA-POLITICA LUCIFERINA... A SILVIO BERLUSCONI UN "NOBEL"
FLS
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
Società.
Nudge, quella spinta gentile che orienta e influenza i nostri comportamenti
Si chiama “Nudge” ed è una strategia economica che sostiene le nostre decisioni facendo leva su aspetti psicologici e comportamentali. Viale: così siamo «liberi» di scegliere ed essere felici
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 30 ottobre 2018)
In principio furono gli agenti di commercio. Che i venditori conoscano l’arte della persuasione è noto, ma esperimenti condotti dagli anni 70 del secolo scorso hanno confermato che nella vendita sono sfruttati principi psicologici solidi e fino allora poco indagati, alla base oggi dell’economia comportamentale e di un filone sempre più rilevante delle politiche pubbliche. Pensiamo alla reciprocità, una regola sociale pervasiva, secondo la quale se io faccio X, allora mi aspetto che tu faccia Y. Se contraccambiare è un meccanismo potente che riflette sia una norma introiettata con l’educazione sia il tentativo di evitare il biasimo degli altri, ecco che l’omaggio o il campione gratuito dato al cliente innescano l’obbligo di sdebitarci comprando il prodotto che viene proposto.
Non pensiamo davvero che un piccolo regalo ci impegni all’acquisto, si tratta di un processo inconscio che ci guida in modo quasi automatico. Siamo dunque manipolati quando vengono messe in atto queste strategie di marketing? La risposta migliore è quella più deludente: dipende. Ma la posta in palio non è più o soltanto un acquisto poco ponderato. Una svolta recente nella scienza psicologica e lo sfruttamento delle nuove conoscenze da parte dei governi costituiscono una frontiera estremamente rilevante sia per la ricerca sia per la vita di tutti i cittadini, come spiega Riccardo Viale, scienziato cognitivo docente all’università Bicocca di Milano, in un libro rigoroso ed estremamente informativo ( Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento, il Mulino, pagine 264, euro 26,00).
Rivelato al grande pubblico da alcune delle più recenti scelte per il Nobel dell’Economia (Daniel Kahneman nel 2002, Richard Thaler nel 2017), un filone di ricerca sperimentale ha ormai demolito l’ideale dell’homo oeconomicus perfettamente razionale e consapevole delle alternative a sua disposizione, capace di scegliere per il meglio coerentemente con le sue preferenze più radicate. In ogni ambito di decisione, la nostra razionalità è limitata, ci facciamo fuorviare dalle circostanze in cui ci troviamo, non sappiamo gestire scenari probabilistici, tendiamo a sovrastimare il presente a scapito del futuro.
In genere, siamo guidati da processi inconsapevoli e automatici che ci aiutano a rendere rapide e poco dispendiose le nostre scelte ma spesso, in ambienti che sono diversi e molto più complessi di quelli in cui ci siamo evoluti, ci conducono a comportamenti subottimali o addirittura dannosi. Il punto, sottolinea Viale, è che le istituzioni politiche, economiche e giuridiche continuano a rapportarsi alle persone secondo un’idealizzazione irrealistica.
Vie di uscita si cominciano però a progettare. Una pietra miliare è il volume di Thaler e Sunstein pubblicato nel 2008 che ha messo in circolazione il termine chiave del dibattito attuale: Nudge. Nella traduzione italiana (Feltrinelli) è stato reso con «spinta gentile», una serie di interventi, calibrati in base alle reali modalità di scelta delle persone, che possono indirizzare in positivo le decisioni legate a denaro, salute e benessere personale. La prima spintarella si ottiene mettendo come opzione di defaultil percorso preferito: se non si sceglie, si è incanalati in un percorso già stabilito. Avviene per esempio con la donazione degli organi: quando il soggetto non esprime un parere, si presume l’assenso all’espianto post-mortem.
Poi vi sono le modificazioni dell’architettura della scelta: si organizza la mensa in modo che prima siano proposti cibi salutari e poco calorici; l’hamburger arriva alla fine, quando, si presume, il cliente ha già riempito il vassoio. Oppure, si può enfatizzare un certo tipo di informazione: se si scrivono lettere ai contribuenti segnalando che tutti i vicini hanno già pagato le tasse dovute, la propensione all’evasione fiscale diminuisce notevolmente. Invece, prendano nota i nostri decisori, biasimare di frequente la disonestà di tanti finisce con l’incentivare tali comportamenti, essendo il ragionamento implicito: lo fanno tutti, lo posso fare anch’io.
Il nudge è una forma di paternalismo perché implica che qualcuno sappia meglio di noi, spesso irrazionali e autolesionisti, che cosa è bene e come raggiungerlo. Ma è un paternalismo liberale perché lascia comunque la scelta finale al consumatore, che può ancora mangiare cibi grassi e non versare le imposte. Viale tuttavia evidenzia come la situazione risulti ben più complessa, sia dal punto di vista dei meccanismi psicologici sia dal punto di vista della coercizione cui il cittadino è sottoposto con le spintarelle gentili. Elementi strettamente scientifici e aspetti politico- normativi si intrecciano in quella che dovrebbe essere una tematica ben più discussa nel nostro Paese.
All’estero, a partire dalle iniziative di Obama e di Cameron, si sono costituiti comitati per l’applicazione dell’economia comportamentale, la stessa Unione europea si sta muovendo in tale direzione. In Italia un tentativo fatto da Renzi con alcuni studiosi è stato interrotto dalla caduta del governo. Il problema della diffusione del gioco d’azzardo e dei modi di evitare ludopatie compulsive rientra pienamente in questa discussione. Il libro di Viale ha comunque il merito di aprire scenari. Per esempio, a parere di chi scrive questo articolo, una forma estesa di nudge, tesa a contrastare le fake news, potrebbe essere quella di introdurre su ogni post di Facebook e su ogni tweet l’opzione per l’autore di marcarli con una piccola, singola lettera dell’alfabeto. Nessuna imposizione, soltanto una schermata prima di pubblicare che chieda: «vuoi marcare il tuo post/tweet come segue?». Si sceglie «no» e si procede, perdendo al massimo qualche secondo le prime volte, poi al massimo il tempo istantaneo di un clic. Se invece si sceglie di marcare, le opzioni potrebbero essere: «fonte conosciuta - FC»; «fonte ignota (segreta; non divulgabile) FI»; «rilancio diretto di altro messaggio - RM».
Quale sarebbe l’effetto? Se posto che Obama non è nato negli Usa e quindi non poteva fare il presidente e non marco il mio messaggio, gli altri utenti sapranno subito che si tratta di una mia opinione, di un’accusa che lancio senza prove. Se marco il messaggio con FI, perché l’ho sentito dire e non ho voglia di impegnarmi in una discussione sulla fonte o sulle prove della mia affermazione, i lettori possono sapere che non vale la pena di prendere troppo sul serio la cosa. Se invece qualifico il mio post o il mio tweet con FC, suscito l’attenzione degli altri utenti e qualcuno potrebbe chiedermi quale è la fonte o quali sono le prove della mia tesi. Ovviamente, la maggior parte dei messaggi sono considerazioni o commenti personali, e come tali non hanno bisogno di sostegno epistemico.
Tuttavia, se voglio veicolare un messaggio credibile, dovrò alla lunga marcarlo con FC, sapendo che qualcuno vorrà sapere le basi fattuali della mia affermazione, senza però che io sia in alcun modo obbligato a farlo. Se non le espongo, d’altra parte, il peso della mia tesi sarà minore e potrà più facilmente essere contrastata. Nei casi in cui non marco il messaggio o lo segno come FI, la sua forza sarà fin dall’inizio minore, anche nel caso in cui spieghi poi che la fonte deve rimanere riservata. Insomma, non una panacea alle fake news, ma un «incorniciamento» virtuoso della comunicazione che non costringe l’utente a fare nulla, ma gli offre possibilità diverse di valorizzare le proprie affermazioni fattuali e alla lunga potrebbe ridurre diffusione e influenza delle notizie false.
il principio e i dogmi
La prevalenza della politica sulla scienza: gli esempi terribili del passato
Non dimentichiamo la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza
di Riccardo Viale *
Il dogma principale della scienza è che non ha dogmi. Il suo principio base è la falsificabilità, non la certezza. La storia della scienza è una catena di affermazioni e successive falsificazioni. Monumenti come le teorie di Newton, Darwin ed Einstein, appena nate cominciarono a essere subito messe in discussione. L’affermazione di ipotesi avviene, spesso, attraverso scontri laceranti. Alcune volte teorie inadeguate rimangono in voga transitoriamente a discapito di anomalie empiriche e contraddizioni formali. Il finanziamento di programmi di ricerca o la selezione di articoli scientifici è, talvolta, viziato da parrocchialismo. Che conclusioni possiamo derivare da questo elenco di debolezze? Che della scienza non ci si può fidare e che l’astrologo vale quanto l’astronomo?
A chi sostiene questo tipo di convinzioni si potrebbe rispondere con la stessa battuta fatta da Winston Churchill a proposito della democrazia: «È stato detto che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Perché? Innanzitutto esiste il principio unificante dell’adeguatezza empirica: tutti sono d’accordo che prima o poi le ipotesi devono passare sotto le forche caudine dei fatti. La scienza è profondamente democratica. Il merito delle proprie ipotesi è discusso all’interno della comunità e la decisione segue una qualche forma di regola della maggioranza. La politica interagisce costantemente con la scienza. Ad esempio attraverso le scelte allocative su settori e programmi di ricerca. Forse però esponenti politici come Barillari o i No Vax intendono qualcosa di diverso quando tifano per la democrazia e la politica nella scienza. Forse per loro la democrazia nella scienza è sostenere il principio del «tutto va bene» e l’assenza di autorità. E la prevalenza della politica significa trasferirle un ruolo epistemologico nel discriminare il vero dal falso. Esempi nel passato ce ne sono stati tanti: la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza.
* Corriere della Sera, 8 agosto 2018 (modifica il 8 agosto 2018 | 21:01)
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E "GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE" ... *
Internet
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete. E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis (la Repubblica 13.06.2018)
I neri d’America ridotti in schiavitù - diceva Tocqueville - non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani. Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi 2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no, di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale, se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi.
Da qui, di conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati, insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali: difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto, probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer. Possono tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era digitale - invocata da Anthony Giddens su questo giornale - rimane sulla carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea. Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale. Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi, stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli immaginata - di nuovo - da Foucault, senza mai il permesso di ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città, però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che secondo una stima di International Data Corporation il business in questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso. Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti: secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno, ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga qualche scampolo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESPERIMENTO ITALIA. L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!!
CERVELLO, POLITICA, E TECNICHE DI DOMINIO: L’USO ISTITUZIONALE DEL "PARADOSSO DEL MENTITORE" IN ITALIA E LE ULTIME NOVITA’ DALL’INGHILTERRA.
Federico La Sala
SENZA PIU’ PAROLA E SENZA PIU’ CARTA D’IDENTITA’. Alla ricerca della dignità perduta...
Le idee. Per una biopolitica illuminista
L’ultima lezione di Stefano Rodotà
di Roberto Esposito (la Repubblica, 31.03.2018)
«Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata». Il nuovo libro, postumo, di Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, appena pubblicato da Laterza, può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini evocati da Levi - identità, dignità e vita - s’incrociano in una riflessione aperta ma anche problematica, che ha fatto di Rodotà uno dei maggiori analisti del nostro tempo.
Composto da saggi non tutti rivisti dall’autore, scomparso lo scorso giugno nel pieno del suo lavoro, il libro ci restituisce il nucleo profondo di una ricerca che definire giuridica è allo stesso tempo esatto e riduttivo. Esatto perché il diritto costituisce l’orizzonte all’interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro. Riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici che ne eccedono il linguaggio. Rodotà ha posto il diritto, da altri irrigidito in formulazioni astratte, a contatto diretto con la vita. E non con la vita in generale, ma con ciò che è diventato oggi la vita umana nel tempo di una tecnica dispiegata al punto da penetrare al suo interno, modificandone profilo e contorni.
Ma cominciamo dalle tre parole prima evocate, a partire dall’identità. Come è noto a chi si occupa di filosofia, l’interrogazione sul significato della nostra identità attraversa l’intera storia del pensiero, trovando un punto di coagulo decisivo nell’opera di John Locke.
Cosa fa sì che il vecchio riconosca sé stesso nel ragazzo, e poi nell’adulto, che è stato nonostante i tanti cambiamenti che ne hanno segnato l’aspetto e il carattere? La risposta di Locke è che a consentire alla coscienza di sperimentarsi identica a se stessa in diversi momenti dell’esistenza è la memoria. Ma tale risposta bastava in una stagione in cui natura, storia e tecnica costituivano sfere distinte e reciprocamente autonome. Una condizione oggi venuta meno. Nel momento in cui politica e tecnica hanno assunto il corpo umano a oggetto del proprio operato tutto è cambiato. Sfidata dalle biotecnologie e immersa nel cyberspazio, l’identità umana si è andata dislocando su piani molteplici, scomponendosi e ricomponendosi in maniera inedita.
È precisamente a questa mutazione antropologica che Rodotà rivolge uno sguardo acuminato. A chi appartiene il nostro futuro? - egli si chiede con Jaron Lanier (La dignità ai tempi di internet, Il Saggiatore) - quando l’identità non è più forgiata da noi stessi, ma modificata, e anche manipolata, da altri? Si pensi a come è cambiato il ruolo del corpo in rapporto alla nostra identificazione. Dopo essere stato centrale, al punto che sulla carta d’identità comparivano, insieme alla foto, colore di occhi e capelli, il corpo è stato in qualche modo soppiantato dalle tecnologie informatiche - password, codici, algoritmi. Per poi tornare, una volta tecnologizzato, come oggetto di attenzione da parte delle agenzie di controllo.
Impronte digitali, geometrie della mano, iride, retina, per non parlare del dna.
Tutto ciò quando la chirurgia plastica è in grado di cambiare i nostri connotati.
E qui entra in gioco il secondo termine del libro, la dignità, assunta non in maniera generica, ma come un vero principio giuridico. Che ha già trovato spazio nella nostra Costituzione e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma ciò non basta, se si vuol passare dal tempo dell’homo aequalis a quello dell’homo dignus. Il richiamo alla dignità, che è stato un lascito importante del costituzionalismo del Dopoguerra diventa, per Rodotà, un elemento costitutivo dell’identità personale.
Naturalmente a patto che il concetto stesso di “persona” spezzi il guscio giuridico di matrice romana, per incarnarsi nel corpo vivente di ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, provenienza.
Anche la questione, largamente discussa, dei beni comuni va inquadrata in questo orizzonte storico, misurata alle drastiche trasformazioni che stiamo vivendo. Solo in questo modo anche il terzo termine in gioco - la vita - può diventare oggetto di una biopolitica affermativa. Rodotà ne offre un esempio illuminante.
Nel 2013 la Corte suprema dell’India ha stabilito che il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco di largo consumo è subordinato al diritto fondamentale alla salute di chi ne ha bisogno. Che prevale sull’interesse proprietario.
Come è noto, a partire dall’entrata in vigore del Codice civile napoleonico, il principio della proprietà è stato sostituito a quello, rivoluzionario, di fraternità, anteponendo la figura del proprietario a quella del cittadino. Che non sia arrivato il momento di riattivare la fraternità ricucendo il filo, spezzato dell’uguaglianza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Federico La Sala
L’intenzione di raggirare chi ascolta parte dalla scelta delle parole (da usare e da bandire). Trump insegna
Parole proibite
di Sara Antonelli (Il Mulino, 05 gennaio 2018)
Lo scorso 15 dicembre una fonte anonima ha rivelato al «Washington Post» che in una riunione tenutasi il giorno precedente al Center for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta, alcuni funzionari avrebbero chiesto agli analisti impegnati a compilare il budget 2019 di astenersi dall’utilizzare sette parole: «vulnerable», «entitlement», «diversity», «transgender», «fetus», «evidence-based» e «science-based». In qualche caso, tuttavia, agli analisti sarebbero state proposte soluzioni alternative.
Al posto di «evidence-based» e di «science-based», ad esempio, pare sia stato suggerito loro di utilizzare la frase «Cdc bases its recommendations on science in consideration with community standards and wishes». In altre parole, le raccomandazioni del Cdc prendono in considerazione sia i risultati scientifici sia i principi e le richieste della comunità. Come se scienza e opinioni fossero sullo stesso piano.
Nonostante un portavoce del Dipartimento della salute statunitense (Hhs), l’organo dal quale dipende il Cdc, si sia immediatamente affrettato a dichiarare che la notizia era stata riportata in modo errato; e nonostante la direttrice dello stesso Cdc abbia affermato che non esistono parole proibite, ce n’è abbastanza per allarmarsi. Sia perché le due smentite non coincidono (la lista di parole proibite esiste oppure no?) sia perché, se esistesse, secondo molti scienziati e ricercatori statunitensi questa avrebbe un unico scopo: cancellare intere categorie di persone, di malattie, e di politiche di prevenzione e assistenza dal prossimo bilancio federale. Secondo altri - la «National Review» ad esempio - si ricorrerebbe alla lista solo per mitigare l’impatto che parole come “transgender” avrebbero sui membri più conservatori del Congresso. Detto altrimenti, ciò che a molti appare una censura sarebbe un modo per placare gli animi dei repubblicani e promuovere l’approvazione del budget in tempi brevi.
Se lo scopo della presunta lista fosse davvero questo, però, si direbbe che lo Hhs e il Cdc (oggi guidati entrambi da funzionari nominati dal presidente Donald Trump) considerino i congressmen repubblicani non solo esaltati, ma anche ingenui a sufficienza per essere circuiti con un’operazione di cosmesi linguistica. Questa motivazione non appare convincente per diverse ragioni. La più rilevante per il nostro discorso è la seguente: possibile che la lista sia stata compilata per ammorbidire proprio coloro che della cosmesi linguistica a scopi di propaganda politica sono stati i maestri?
Negli ultimi vent’anni i repubblicani hanno utilizzato la lingua con grande sagacia. Il linguista George Lakoff, per esempio, lo ricordava ai lettori di «Repubblica» in un’intervista del 2016 dedicata alla campagna presidenziale in corso. In quell’occasione Lakoff ha esemplificato la strategia comunicativa del Partito repubblicano citando, tra gli altri, il caso di «riscaldamento globale». Il tramonto di questa espressione in favore di «cambiamento climatico», ha spiegato Lakoff, non è stato casuale, bensì frutto di una scelta (elaborata dal linguista cognitivista Frank Luntz), fondata su considerazioni di natura sia terminologica sia concettuale: con un cambio di parole apparentemente impercettibile siamo stati incoraggiati a trasformare un fatto innescato dai nostri comportamenti errati (il riscaldamento) in un inevitabile processo naturale (il cambiamento). I presupposti e le aspettative politiche che derivano dal cambio di frame sono evidenti: se è naturale perché opporsi?
Seguendo Lakoff, diventano più chiari sia gli scopi della presunta lista di parole proibite emanata dal Cdc sia i comportamenti linguistici del presidente Donald Trump.
Come parla Trump? Una ricerca presentata all’Università di Birmingham nel luglio del 2017 ha mostrato che l’odierno presidente degli Stati Uniti si affida a parole e frasi molto brevi, a espressioni e costruzioni prevedibili, a un vocabolario ristretto in cui abbondano i verbi e scarseggiano gli indicatori primari del ragionamento complesso: i sostantivi. A fine anno il sito dictionary.com ha contribuito a definire la questione con una classifica dei dieci termini più usati dal presidente statunitense, rilevando così che nella lingua di Trump regnano gli aggettivi superlativi.
Riassumendo: la lingua di Trump esprime concetti molto semplici con un’enfasi e un coinvolgimento che vengono percepiti come indici di sincero trasporto e spontaneità. Nulla che non si sia già visto altrove. E tuttavia, forse perché si tratta del presidente degli Stati Uniti e forse perché l’oratoria è stata da sempre un elemento essenziale del progetto politico statunitense, è sorprendente che una personalità politica linguisticamente tanto povera e prevedibile abbia mantenuto intatta la fiducia del 35% dei votanti dopo un anno che alla gran parte degli osservatori appare disastroso.
Per un’analisi più approfondita degli aspetti linguistico-cognitivi che stanno dietro a questa tenuta è opportuno rivolgersi proprio ai lavori di Lakoff. Qui basterà ricordare due eventi eloquenti dell’ultimo anno. Come «consolare» i suprematisti bianchi all’indomani dei violenti scontri avvenuti a Charlottesville dello scorso agosto, in cui un manifestante suprematista ha ucciso una manifestante antirazzista? Affermando che la responsabilità dei gravi fatti accaduti in città andava ascritta a entrambe le fazioni e che dunque anche la alt-left ha le sue colpe. Peccato che la alt-left non esista. E come condannare gli atleti neri che non si alzano in piedi quando in campo viene suonato l’inno nazionale? Definendoli degli ingrati. Dopo tutto quel che noi (i bianchi) abbiamo fatto per loro (i neri).
Il progetto politico di Donald Trump è reboante e al contempo sottile, tale e quale al suo stile linguistico-comunicativo. Nonostante i twitter compulsivi suonino a molti osservatori infantili, sgraziati e inquietanti, Trump sa come dire le cose giuste al momento giusto e soprattutto alle persone giuste (il suo 35%). E ha dimostrato di non aver bisogno delle imbeccate di Steve Bannon. Conosce il suo elettorato a sufficienza per centrare il bersaglio da solo.
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La Costituzione, le regole del gioco, il paradosso istituzionale del mentitore... e il "popolo della libertà"!!!
A) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (Alessandro Dal Lago, si cfr.: "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
B) MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)
C)Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4371)
D) LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4112).
E) "A un individuo [ma anche a una intera società, fls] può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico" (SCUOLA DI PALO ALTO (CALIFORNIA): PAUL WATZLAWICK. cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2010)
F) FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO - POPULISMO DIGITALE. “La realtà come costruzione virale” (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829#forum3131196).
Federico La Sala
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e il populismo...*
Populismo digitale o solamente para-fascismo?
di Nello Barile (Doppiozero, 18.09.2017)
Per molti commentatori la “vera” sinistra è davvero poco attrezzata per affrontare le problematiche fondamentali del nostro tempo - come sostenne anni fa anche Christopher Lasch - mentre le uniche formazioni oggi capaci di farlo sono: una sinistra neolaburista che saccheggia politiche di destra importandole nel proprio programma oppure i movimenti populisti che si pongono come forze post-ideologiche ma che, in loro parecchie manifestazioni, assumono posizioni tipicamente di destra. Non è ancora chiaro se tale condizione sia solo di passaggio, ovvero un interregno tra il vecchio sistema e il nuovo, oppure se è già parte del nuovo che ha spazzato via alcune parti del vecchio (come l’idea classica di sinistra).
Tra gli autori che oggi invece confutano tale tesi, Alessandro Dal Lago nel suo Populismo digitale (Raffaello Cortina 2017) propone una critica serrata contro l’alleanza tra globalizzazione e cultura digitale, ma anche contro il populismo che rappresenta un modo sui generis di incrinare tale alleanza e di utilizzare le armi del digitale contro la globalizzazione. Per questo il testo esordisce con due citazioni in esergo che sono talmente stridenti da rendere bene il senso di questo passaggio problematico. Da un lato Antonio Gramsci che definisce la crisi come uno stato di sospensione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, dall’altro invece Gianroberto Casaleggio con la sua profezia su internet “supermedia che assorbirà tutti gli altri”. Due figure troppo diverse e sostanzialmente contraddittorie: se il primo rappresenta l’essenza intellettuale dell’ethos politico tradizionale, l’altro esprime l’essenza imprenditoriale dell’ethos post-politico.
Un contrasto perfetto che lancia il lettore in un’introduzione molto dinamica e accattivante, in cui la questione chiave del “come moriremo?” (prima democristiani, poi berlusconiani, poi renziani, adesso forse grillini) serve a rendere conto di uno dei temi centrali di tutto il testo: la velocità crescente del cambiamento, la perdita di riferimenti e il sostanziale movimento caotico dell’attuale sistema politico nazionale e globale. L’agente di tale trasformazione è ovviamente il digitale, evocato anche nel titolo e letto qui non tanto in termini deterministici ma come nuovo ecosistema che avvolge e sommerge la vecchia politica, trasformandola in qualcosa d’altro.
Una delle metafore che difatti Dal Lago predilige, riprendendola dal gruppo Ippolita (p. 16), è quella dell’acquario che ci mostra come la libertà assoluta promessa dal web sia a ben vedere recintata nello spazio circoscritto del virtuale, dunque una libertà paradossale.
Per questo motivo egli ricorre al modello cognitivo del doppio vincolo (p. 19) per esaminare la nuova comunicazione politica. Lo stesso modello è, dal mio punto di vista, indispensabile per comprendere la logica dei brand (commerciali, politici, terroristici ecc.).
Nella sua accezione originaria il doppio vincolo indica un difetto di comunicazione tra madre e figlio talché il secondo non è in grado di risolvere la contraddizione che si manifesta tra i messaggi di odio e di amore inviati dalla madre. Questa comunicazione paradossale mina il senso dell’identità dell’infante e può degenerare nella schizofrenia. Alcune espressioni come “La rete sei tu” oppure “Sei libero solo in rete” sono per l’autore eminentemente doppiovincoliste, ovvero utilizzate dai padroni della rete per esercitare un “controllo sulle procedure politiche formalmente democratiche” (ib).
Se è vero che la digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti chiave della globalizzazione (p. 23), a ben vedere la nuova cultura che si produce a partire dal web contiene in sé anche i germi della reazione alla globalizzazione. Per questo la rete è l’ambiente di coltivazione dei populismi contemporanei, non solo di quelli più marcatamente post-fascisti ma anche quelli di sinistra o vocatamente post-ideologici.
L’ascesa del populismo sul palcoscenico della politica globale coincide con lo svuotamento del significato della parola “popolo” (p. 29). Dal Lago offre una rassegna di molteplici interpretazioni moderne di tale concetto, anche per sottolineare la pericolosità di un suo riferimento diretto a una matrice etnica omogenea. Ad essa si contrappongono invece la concezione “morale” di Renan e quella più “finzionale” di Weber, secondo cui appunto “la volontà del popolo non è altro che una delle convenzioni (...) politiche necessarie a legittimare la rappresentanza” (p. 40).
Il dibattito sul populismo è ancora sospeso tra l’idea di una reazione integrale contro “l’espropriazione delle democrazie da parte delle oligarchie politiche” (Revelli 2017) e quella che invece vede la stessa sinistra moderata colpevole di un “tradimento di classe in favore dei diritti umani (LGBT, immigrati ecc.)” (Formenti 2016). Pertanto il populismo rischia di condurre le sinistre in un vicolo cieco, dato che “riconoscere come giuste le ragioni della destra significa legittimarla” (p. 51), in un pericoloso salto mortale in cui l’elettore è tendenzialmente persuaso a scegliere l’originale rispetto alla brutta copia.
La critica dell’autore alla nuova politica pervasa dalla rete si accentua quando si considera il populismo come una realtà immanente alla rete (p. 53). Il modo in cui l’affermazione di internet fa saltare in aria la distinzione tra pubblico e privato - pilastro delle democrazie moderne - ci indirizza verso una dimensione che dal mio punto di vista è definibile come neototalitaria (Barile 2008), in cui il privato è appunto irretito e messo a disposizione del pubblico.
La critica di Dal Lago insiste sulla separazione tra la dimensione virtuale e quella reale (p. 53) e definisce la nuova socialità mediata dalla rete come “disincarnata” rispetto a quella materiale e incarnata nei processi storici. Tra le due ci sarebbe la stessa relazione che intercorre tra pornografia e sessualità. L’idea secondo cui l’utente della rete tende a considerare lo schermo del computer come unica porta d’accesso alla realtà insiste forse su un paradigma obsoleto - da altri definito dualismo digitale - e impedisce di cogliere la totale integrazione tra il livello comunicativo-virtuale e quello della realtà fisica. Un’integrazione che sotto alcuni aspetti può essere ancor più pericolosa delle nuove forme di alienazione imposte dal digitale.
Alcuni temi di questo approccio neocritico alla rete ritornano in un capitolo dal titolo davvero ammirevole: “La realtà come costruzione virale”. In esso si argomenta come l’interazione tra viralità e l’immediatezza del tempo reale impatta sui modi di costruzione/rappresentazione della realtà sociale, modificandola in base alle proprie funzioni.
Per questo motivo Dal Lago riprende i temi di una più generale mutazione antropologica che ha dato vita al “soggetto digitale”, anche se quest’ultimo è ben diverso dal soggetto che ha abitato la cultura e la politica moderna. Molto distante dall’americano medio tipicamente eterodiretto che animava La folla solitaria di Riesman, il soggetto digitale ha semmai un problema di eccesso di autodirezione.
Da ciò deriva anche uno smembramento drammatico del popolo in una molteplicità irriducibile di punti di vista e interessi di gruppi che utilizzano il web per amplificare i propri messaggi: “gli operai del Michigan che hanno votato Trump, gli agricoltori impoveriti del Midwest, gli studenti radicali dei campus, i Latinos, gli attivisti per i diritti LGBT... non possono essere rappresentati, tantomeno unificati da un’idea di medietà” (p. 67). L’unico comune denominatore tra tutti questi è l’essere in vario modo soggetti digitali, che appunto aderiscono alla modalità “disincarnata” d’azione mediata dal web. Dal Lago denuncia la crescente sparizione dei momenti “tradizionalmente sociali” della vita e del dibattito pubblico (p. 68), insieme allo svanimento delle esperienze faccia a faccia in “favore di mere estensioni digitali” (p. 69).
Se è vero che questo processo di desertificazione sociale è una minaccia anche per altri mercati, come ad esempio la moda in cui l’esperienza urbana dello shopping potrebbe essere sostituita totalmente dall’e-commerce e dai sistemi di delivery (l’autore fa l’esempio di Amazon), è anche vero che questo è solo il più radicale e forse meno probabile tra gli scenari possibili (quello che io chiamo “isolation”), mentre invece il più probabile ci racconta di una sostanziale fusione tra mondo digitale e fisico, tra bit e atomi, in nuove modalità d’interazione al contempo reali e virtuali. Dopo un’analisi impeccabile sulla trasformazione sistemica, l’autore torna a insistere sulla dimensione psicologica con immagini che talvolta hanno il sapore di un’altra epoca. Come “la persona in carne e ossa seduta davanti allo schermo” che in tal modo “acquista una seconda identità o meglio perde quella relazionale e sociale a favore di una virtuale” (p. 73).
Il discorso di Dal Lago si mostra molto più efficace nella disamina delle pratiche linguistiche concrete, come nel caso dell’analisi degli articoli e dei post che alimentano il dibattito online e offline sull’immigrazione. La stessa trasformazione della dialettica politica a opera di trolls, haters ecc. dimostra questo cambiamento qualitativo del dibattito pubblico, dato che certe espressioni offensive non potrebbero essere usate in una situazione “reale” senza degenerare nello scontro fisico. Cosicché, come anche Mark Thompson (2017), Dal Lago denuncia il fatto che “lo stile prevalente dei dibattiti online sta creando una cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale” (p. 84). Di particolare interesse sono le pagine in cui si elencano le caratteristiche del fenomeno squisitamente televisivo del peronismo, per confrontarle con quelle dei diversi digital-populismi di oggi. Una riflessione che consente all’autore di introdurre il concetto di para-fascismo, riferito specialmente al Movimento 5 Stelle, dalla “arroganza bislacca del capo” alla sua “passione per i plebisciti e per le performance sportivo-pubblicitarie” (p. 113).
Tale definizione ha ovviamente fatto risentire gli attivisti e i simpatizzanti del Movimento che, in una sorta di chiusura del circuito, hanno risposto con toni polemici sul profilo Facebook dell’autore. A differenza di altri studiosi di sinistra che stanno rivalutando il discorso populista con maggiore cautela - come Carlo Formenti ne La variante populista che insiste molto più sulla reazione del populismo contro il comune nemico della finanza globalista - Dal Lago non concede alcuna legittimazione né alla retorica, né alla pretesa neutralità post-ideologica del populismo, insistendo invece sulla sua matrice identitaria e autoritaria, propria dell’ideologia forte che lo ha preceduto.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ).
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre...
VIRTUALE E DINTORNI...
Cosa ci racconta la rete
IL GRANDE FRATELLO E I TELEVISORI SAMSUNG?
di Francesco Bollorino ("Psychiatry on line", 4 agosto, 2017
Non sono mai stato un “complottista”, mi hanno fatto sempre sorridere le ricostruzioni strambe e spesso deliranti degli avvenimenti che circolano in rete e che purtroppo fanno proseliti, ho rischiato rotture di conoscenze per via delle “strie chimiche” e ne ho rotte sul tema dei vaccini.
Mi considero uno spirito laico e mi sento un po’ San Tommaso ma, due giorni fa, è accaduto un piccolo fatto che mi ha molto colpito e che vi voglio raccontare.
Ho acquistato un modernissimo ma sufficientemente a buon mercato televisore della Samsung e, come prevede la prassi, due tecnici sono venuti a consegnarmelo a casa e ad attivarlo, per verificarne il corretto funzionamento.
La procedura prevede l’accensione del televisore, il suo corretto collegamento e il setup di partenza.
Durante l’attivazione del menù di avvio, con sorpresa anche del tecnico, è comparso sullo schermo il C.A.P. della mia abitazione, in maniera automatica, come se il televisore avesse rilevato la geo-localizzazione della sua posizione “nel mondo”.
Va detto che è difficile che ciò possa essere dovuto ad un GPS incorporato nell’apparecchio poiché tale tecnologia necessita che il dispositivo “veda” la rete di satelliti a cui si aggancia per determinare la posizione: evidentemente si trattava di qualcosa di altro, ma il risultato era lì davanti ai nostri occhi, il TV “sapeva” dove si trovava e io non gli avevo chiesto di saperlo.
Questo piccolo episodio mi ha fatto tornare in mente alcuni articoli letti sul tema del controllo remoto, attuabile anche attraverso gli elettrodomestici e non solo attraverso l’eventuale intercettazione delle comunicazioni fatte con apparecchi “mobile”.
Pur non essendo, come detto, un complottista mi son posto e pongo a voi che leggete poche anche se non semplici domande a cui non ho una risposta.
Perché la Samsung ha installato questa tecnologia nel televisore per altro non indicata in nessuna descrizione tecnica dell’apparecchio? Di che tecnologia si tratta? A cosa potrebbe servire “ufficialmente”? A cosa potrebbe servire "riservatamente"? Tra l’altro il televisore è in grado di accettare comandi vocali e comprende il linguaggio un po’ come Siri della Apple.
Conosciamo esattamente tutto ciò che sta dentro le elettroniche che usiamo? Esistono cioè “funzioni” nascoste e/o attivabili che nulla hanno a che fare col funzionamento ma molto possono avere a che fare con qualche forma di controllo remoto, la cui base è, anche e soprattutto, l’individuazione del luogo da cui parte l’eventuale informazione oltre che la "cattura" dei contenuti?
E’ possibile che un elettrodomestico di ultima generazione non si limiti a fornire un servizio ma che possa “anche” ascoltare ciò che gli accade attorno, in maniera autonoma o attivata da remoto e in qualche maniera trasmetterlo? In 1984 Orwell immaginava un televisore che guardava dentro casa non limitandosi a mandare in onda le trasmissioni del Regime.
Esiste un modo per proteggere la nostra privacy davvero?
Ovviamente sarei lieto di essere edotto sui dubbi che mi sono sorti e se vogliamo dirla tutta un po’ tranquillizzato nei confronti degli sviluppi della società futura: il Grande Fratello non so se esiste, certo esiste la National Security Agency e i suoi rapporti documentati coi grandi players tecnologici mondiali e certo esistono i Cookies che, da tempo e col nostro assenso sul loro uso, non sulla natura precisa del loro funzionamento, ci profilano in maniera silente ma molto invasiva nella nostra vita on line, se dovesse accadere che pure gli elettrodomestici ci tracciano o possono essere attivati per farlo non mi pare un gran mondo quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
Che ne pensate?
SUL REMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
De Mauro, la lingua batteva dove l’Italia duole ancora
Dalla lotta contro l’analfabetismo negli anni ’60 a quella contro gli anglismi e le volgarità dei politici
di Giuseppe Conte *
Tullio De Mauro è stato un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo, nel campo della ricerca scientifica e universitaria, e poi nel campo della politica e della organizzazione culturale.
Insigne linguista, ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega: una carriera tutta nel cuore del potere, ma gestita con una certa indipendenza di giudizio, una vita costellata di successi, ma non senza drammi, se si pensa alla uccisione del fratello Mauro De Mauro, giornalista all’Ora di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970.
Il giovane De Mauro si laurea in Lettere Classiche e intraprende subito l’attività universitaria, insegna filosofia del linguaggio e glottologia, prima di arrivare alla cattedra di Linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sua opera importante è la curatela completa, introduzione, traduzione e commento, al Trattato di linguistica generale di Ferdinand De Saussure, nel 1967, che contiene i fondamenti essenziali di quello strutturalismo che stava per esplodere negli studi non solo linguistici, ma in tutto il campo della critica letteraria, condizionando una intera stagione molto fervida di novità, anche se presto risolta in niente più che una moda. De Mauro, nonostante questo suo lavoro così importante, non fu uno strutturalista. Non partecipò alla appena successiva ondata semiologica. I suoi interessi di studioso lo portano ad ancorare la linguistica alla società e alla storia. Lo testimonia il suo saggio Storia linguistica dell’Italia unita, uscito nel 1963, ripreso molti anni dopo in Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, pubblicato nel 2014 da Laterza. Oltre a tanti altri saggi, che presto virano dal linguistico al sociologico, bisogna ricordare la sua direzione del Grande dizionario italiano dell’uso, in otto volumi (UTET, 2007).
Tullio De Mauro fu risoluto nel combattere l’analfabetismo di ritorno, in un Paese dove pare che soltanto il 20 per cento delle persone adulte siano in grado di seguire un discorso che presenti anche minime difficoltà semantiche e di compiere operazioni matematiche un po’ al di sopra di quelle elementari. Nonostante la difesa dell’italiano, De Mauro non fu mai contrario ai dialetti, li ritenne una ricchezza e una risorsa. Se nel 1974 il 51 per cento degli italiani parlavano il dialetto, oggi la percentuale è scesa al 5. Ma in compenso sono aumentati quelli che lui chiama gli «alternanti», cioè coloro che usano indifferentemente italiano e dialetto, passando dal 18 per cento del 1955 al 44 del 1995. Questa alternanza può diventare miscela, carburante per nuove forme di espressività. Forse come nel «vigatese», forma ibrida di italiano e siciliano di Andrea Camilleri, con cui non a caso De Mauro firma un volume.
De Mauro interviene anche su fenomeni del linguaggio tipici del nostro tempo. Per esempio, prende in esame il turpiloquio dei politici recenti, o la smania di ostentare frequenti e inappropriati anglismi, e giudica entrambi i fenomeni come prove della scarsa capacità di usare al meglio le risorse di una lingua come l’italiano, complessa sin dai tempi di Dante (che per altro nell’«Inferno» non disdegna il turpiloquio, ma certo con una potenza e necessità espressiva che le parolacce udite in Parlamento non hanno). La storia linguistica diventa per De Mauro storia di una comunità e del suo evolversi. Nella prefazione a Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, di Daniele Gouthier e Elena Ioli, De Mauro scrive: «Per Einstein il richiamo al linguaggio comune a ogni essere umano forniva anzitutto un argomento decisivo per affermare la natura profondamente sociale della conoscenza e della cultura». Così, il genio della fisica offre al linguista italiano una conferma delle proprie posizioni.
Era forse fatale che la piega sociologica presa dagli interessi di De Mauro, oltre la sua disposizione all’impegno, lo portasse non soltanto verso la pubblicistica militante, su organi di stampa come Il Mondo, Paese Sera, L’Espresso, ma anche verso la politica vera e propria. Nel 1975 De Mauro è eletto nel consiglio regionale del Lazio, nelle liste del Pci, nel 1976 diventa assessore alla cultura e lo rimane sino al 1978. Dopo un ventennio, dalla ribalta regionale passa a quella nazionale, diventando ministro dell’Istruzione nel secondo governo Amato, dall’aprile 2000 al giugno 2001. Troppo poco per lasciare un vero segno in un campo come quello della scuola, dove si susseguono i disastri, e dove per la stessa ammissione di De Mauro quelle che il governo Renzi ha chiamato riforme sono niente più che «provvedimenti collaterali».
Ultimo viene lo Strega. L’impressione è che lì De Mauro abbia svolto il proprio ruolo cercando meritoriamente di cambiare qualcosa. Ma senza quella vera passione che cambia le cose davvero.
Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum.
Ricorso al Tar contro il quesito del referendum: "è uno spot". Grillo: "Non ho dubbi vinca no"
Lo hanno presentato Sinistra Italiana ed M5s
di Redazione *
E’ di nuovo scontro sul referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali. Sinistra Italiana ed M5s hanno fatto ricorso contro il quesito referendario che, ad avviso dei ricorrenti si tradurrebbe in "una sorta di spot". I ricorrenti, tra l’altro, chiamano in causa il decreto della presidenza della Repubblica di inidizione della consultazione popolare ma il Colle replica che la formulazione è stata ammesso dalla Cassazione. Intanto Beppe Grillo lasciando Roma parla con i cronisti e si dice certo della vittoria del no.
IL RICORSO AL TAR - Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum. A parere dei ricorrenti, infatti, "il quesito così formulato finisce per tradursi in una sorta di ’spot pubblicitario’, tanto suggestivo quanto incompleto e fuorviante, a favore del Governo che ha preso l’iniziativa della revisione e che ora ne chiede impropriamente la conferma ai cittadini, che non meritano di essere ingannati in modo così plateale".
Il ricorso al Tar Lazio è dunque contro il Decreto del Presidente della Repubblica con cui, indicendo il referendum per il prossimo 4 dicembre, "è stato tra l’altro stabilito il quesito che dovrebbe comparire sulla scheda di votazione". A presentarlo sono stati gli avvocati Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi (che attualmente difendono i ricorrenti messinesi dinanzi alla Consulta nel giudizio per l’incostituzionalità dell’Italicum), nella loro qualità di elettori e di esponenti del Comitato Liberali x il NO e del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, e i senatori Vito Claudio Crimi (M5S) e Loredana De Petris (Sinistra Italiana-SEL).
LA REPLICA DEL COLLE - In relazione a quanto affermato in una nota di ricorrenti al Tar Lazio, in cui impropriamente si attribuisce alla Presidenza della Repubblica la formulazione del quesito referendario, negli ambienti del Quirinale si precisa che il quesito che comparirà sulla scheda è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, in base a quanto previsto dall’art 12 della legge 352 del 1970, e riproduce il titolo della legge quale approvato dal Parlamento.
GRILLO E LA VITTORIA DEL NO - "Non ho dubbi, vincerà il ’No’, leggete il Financial times e vedete chi vince. Io la penso come il Financial Times, perché siamo in mano a dei bluffisti, dei giocatori d’azzardo". "Dire ’No’ - ha aggiunto - è bellissimo, anche voi dovete dire di ’No’".
* Redazione ANSA ROMA 05 ottobre 2016 (ripresa parziale).
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)
«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi seminali e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.
Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».
L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.
Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».
Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.
Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.
A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.
Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.
Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Neuro
Codificazione facciale, misurazioni di onde cerebrali e battiti cardiaci scannerizzazione del cervello.
Dal Messico alla Polonia, i politici in campagna elettorale ora investono in tecnologie che ci “leggono dentro”.
Ci studiano per prevedere le nostre scelte dentro l’urna. E più ci conoscono più c’è il rischio che ci manipolino.
Pioniere della scienza è considerato Frans de Waal che scrisse un saggio nel 1982.
Oggi ci si avvale di Big Data e nanotecnologie per confezionare messaggi suadenti
di Federico Rampini (la Repubblica, 09.11.2015)
NEW YORK QUALI MECCANISMI del subconscio collettivo deve attivare Hillary Clinton, quali resistenze psichiche deve attutire e neutralizzare, per sfondare l’invisibile “soffitto di vetro”, cioè la barriera che fin qui ha impedito a una donna di diventare presidente degli Stati Uniti? Una risposta potrebbe venire da un nuovo ramo della scienza politica. Neuropolitics. È una dottrina che si sta raffinando rapidamente: lo studio del cervello umano per prevedere le nostre scelte politiche.
I test preliminari sono avvenuti già da tempo in settori paralleli al marketing elettorale: nel marketing tout court. Da molto tempo la Silicon Valley investe in tecnologie che “ci leggono dentro”. Per esempio l’Intelligenza Artificiale che opera nel campo della ricognizione facciale, la lettura delle nostre pupille e delle onde sonore della nostra voce, la catalogazione e interpretazioni delle nostre smorfie, sguardi, inflessioni di parlata.
Una volta imparato a decifrare l’animo umano, si analizzano le sue reazioni: dentro i reparti di un supermercato, o davanti alla vetrina di uno stilista, nell’atto di guardare una pubblicità. Il marketing incassa il “feedback” - l’informazione di ritorno, sulle nostre reazioni - e poi si adegua. Più ci conosce in profondità, meglio ci manipola. Se funziona per vendere uno smartphone, un’app digitale, un’automobile o un paio di jeans, forse vale anche per vendere un candidato.
La neuropolitica è meno nuova di quanto si creda. L’enciclopedia Wikipedia la definisce come la scienza che «indaga l’interazione tra il cervello e la politica, combinando i lavori delle neuroscienze, della psicologia comportamentale, della genetica, e delle scienze politiche». Ne fa risalire le prime intuizioni nientemeno che a Platone e John Locke, filosofi che s’interrogarono sulla natura del pensiero umano come fondamento per le scelte politiche. Nell’accezione contemporanea, un pioniere della neuropolitica è considerato Frans de Waal col suo saggio del 1982 sulla Chimpanzee Politics, sottotitolo Sesso e Potere tra i Primati.
Sissignori, gli etologi hanno molto da insegnarci sul comportamento della specie umana, meno “superiore” di quel che crediamo: gorilla, oranghi e scimpanzé padroneggiano varie tecniche di “manipolazione psicologica degli altri”. Dopo de Wallas i luminari più rispettati in questi campi arrivano al passaggio del millennio: Drew Westen, James Fowler, Darren Schreiber, William Connolly, con varie ricerche che stabiliscono collegamenti sistematici fra la biologia, i “neuroni del ragionamento”, e i comportamenti degli elettori alle urne. Connolly scrive Neuropolitics (sottotitolo Pensiero, Cultura, Velocità) nel 2002 per la University of Minnesota Press.
Il best-seller di Drew Westen, del 2008, è tradotto anche in italiano: La mente politica, Il Saggiatore. E tuttavia all’epoca della sua uscita - il 2008 è la prima campagna presidenziale di Barack Obama - la neuropolitica era ancora una curiosità, una sfida intellettuale, che molti consideravano fantascienza. Non risulta che gli strateghi di Obama abbiano fatto un uso significativo di questi metodi di analisi della mente degli elettori, e poi di convincimento. Ma l’innovazione avanza a ritmi sostenuti.
La neuropolitica oggi si avvale di due parole chiave maturate nella Silicon Valley: Big Data e nanotecnologie. Micro-sensori e webcamere diventano pervasive, spiarci mentre osserviamo una vetrina o un’immagine pubblicitaria è sempre più facile e meno costoso. Big Data significa la moltiplicazione esponenziale nella potenza dei computer per dige-politics rire e analizzare informazioni nuove: quindi allargando i test neuropolitici ad una vastissima platea di elettori, situazioni, reazioni individuali.
Fino a stabilire dei trend, delle regole. Per poi confezionare messaggi politici sempre più sottili, personalizzati, suadenti, irresistibili. Può diventare realtà l’intuizione dello scrittore Philip Dick nel racconto Minority Report da cui fu tratto un film con Tom Cruise: in cui il protagonista sale sul metrò e le immagini pubblicitarie parlano a lui personalmente, interpellandolo per nome. In Minority Report è la pubblicità commerciale che si adatta all’individuo per catturarne l’attenzione e il portafoglio. Il salto alla pubblicità politica non è difficile immaginarlo. E di fatto sta già avvenendo, non solo negli Stati Uniti ma in molte parti del mondo. Anzi, secondo il New York Times gli esperimenti più audaci avvengono “alla periferia dell’impero”.
Dal Messico alla Polonia.
Un reporter del New York Times, Kevin Randall, è andato a Città del Messico per osservare e raccontare uno degli esperimenti più avanzati di neuropolitica. Con cartelloni pubblicitari elettronici che esortano a votare per i candidati alle elezioni parlamentari, ma al tempo stesso osservano, studiano, riprendono e analizzano l’espressione facciale di chi osserva quei manifesti. L’insieme dei dati raccolti viene elaborato da un algoritmo, che ne ricava indicazioni su come i candidati devono adeguare i propri messaggi. “Codificazione facciale, bio-feedback, scannerizzazione del cervello” sono alcune tecniche elencate.
In Messico secondo il reportage del New York Times il partito del presidente Enrique Peña Nieto fece un uso sistematico delle tecnologie neuropolitiche alle elezioni del 2012, con tanto di «misurazioni di onde cerebrali, battiti cardiaci, espressioni facciali ed alterazioni epidermiche». Sempre secondo la stessa inchiesta la neuropolitica è stata usata in Spagna, Polonia, Russia, Turchia, Argentina, Brasile, Colombia. Le maggiori società di indagini di mercato - Ipsos, Nielsen e Kantar - ammettono di padroneggiare da tempo il neuromarketing a fini commerciali ma negano di farne un uso estensivo nelle elezioni. Lo ammettono invece una società spagnola, Emotion Research Lab, ed una polacca, la Neurohm: quest’ultima ha lavorato anche per dei candidati presidenziali americani.
Il che ci riporta al quesito iniziale... ce la farà Hillary? Che la neuropolitica sia importante per un candidato donna, lo ricorda la columnist Gail Collins del New York Times. La Collins cita due studi sull’handicap femminile in politica. Il primo, individuato dall’esperta in demoscopea Celinda Lake: «Una donna deve passare agli occhi degli elettori degli esami di competenza molto più esigenti; del candidato maschio si dà per scontato che debba avere una certa competenza se è arrivato fin lì». Il secondo ostacolo, da uno studio della Barabara Lee Family Foundation: «La donna in politica deve anche essere piacevole; gli elettori non voteranno una donna antipatica mentre voterebbero un uomo sgradevole se pensano che sia all’altezza del compito».
La neuropolitica c’entra davvero, con tutto il suo apparato hi-tech. Perché certe resistenze psicologiche non uscirebbero allo scoperto usando i metodi tradizionali. Per esempio in un focus group i partecipanti ad una sessione sulle elezioni, possono auto-censurarsi per non rivelare (magari neppure a se stessi) i propri pregiudizi sessisti. Che invece l’Intelligenza Artificiale può smascherare, osservandoli a loro insaputa: movimenti delle pupille, alterazioni della pelle, battito cardiaco, di fronte alla candidata che deve frantumare il “soffitto di vetro” invisibile.
"Neuropolitica": anche in Italia
Ricevo e pubblico questa lettera:
"Scrivo a proposito dell’articolo di oggi di Federico Rampini su Neuropolitica. Ci sono vari studi italiani su questo argomento.
A parte la settimana mondiale del cervello su questo tema organizzata qui a Sapienza nel 2008 abbiamo pubblicato vari studi sull’influenza che i leader politici italiani (in primo luogo Berlusconi) esercitano sui loro elettori. Salvatore M Aglioti
1) http://agliotilab.org/ a questo sito potrete ottenere gli articoli scientifici riguardanti Berlusconi e vari altri leader italiani
2) http://www.fondazionetelecomitalia.it/eventi/neuroscienze-della-politica-di-destra-o-di-sinistra-si-nasce-o-si-diventa/52077/dettaglio
3) http://www.baw2008.altervista.org/programma.html
Social and Cognitive Neuroscience Laboratory
Department of Psychology
School of Medicine and Psychology
Sapienza University of Rome
Via dei Marsi 78, 00185, Roma, Italy
Voice and Facsimile: 0039-06-49917601;
e-mail: salvatoremaria.aglioti@uniroma1.it
http://agliotilab.org/
Napolitano: ’Berlusconi vittima di patologiche ossessioni’
Presidente scrive a Romani: ’Non lo querelo per pietà’
di Redazione Ansa *
I giudizi di Berlusconi su di me sono "ignobili" e dovrebbero "indurmi a querelarlo se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
E’ il brano più duro della severa lettera scritta dal presidente emerito Napolitano al capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, al termine del suo intervento in Senato in difesa del ddl Boschi.
Ma cosa è accaduto? Non appena il presidente emerito ha preso la parola, il senatore di Fi Scilipoti ha preso a sventolare un foglio bianco con la scritta ’2011’ (comportamento che gli è costato una ufficiale censura dal presidente Grasso), anno della fine del governo Berlusconi.
In mattinata, fra l’altro, proprio l’ex Cavaliere parlando con i senatori di Forza Italia aveva sottolineato come nel libro scritto da Friedman venisse sottolineata la complicità di Napolitano nella vicenda che aveva portato alle sue dimissioni nel 2011. Dichiarazioni fatte filtrare poco prima del discorso del Presidente: un doppio attacco che non è passato inosservato.
L’8 novembre 2011, dopo aver approvato il rendiconto con una maggioranza di 308 voti, in un teso faccia a faccia con Napolitano Berlusconi annunciò che si sarebbe dimesso quattro giorni dopo, dopo l’approvazione della legge di stabilità e si schierò per nuove elezioni. Napolitano, successivamette, dette l’incarico di formare un governo a Mario Monti.
Su MicroMega
Chi non è proletario alzi la mano
Una condizione che non riguarda più soltanto una classe ma tutti gli uomini: un inedito
di Günther Anders (La Stampa, 17.01.2013)
IL NUOVO PROLETARIATO
Non è più definito dagli standard di vita, ma dalla mancanza di libertà: nessuno si può salvare
CHI VA ALLE URNE
Non vota in qualità di «uomo libero» ma di uomo manipolato da media a loro volta manipolati
Non è corretto decretare la fine del proletariato perché non ci sarebbe più alcun proletario, quanto semmai perché oggi difficilmente si troverebbe ancora qualcuno che non lo sia. Il significato di quest’affermazione, che inizialmente può suonare assurda, risulterà chiaro soltanto qualora si stimasse come criterio per definire il proletariato non tanto lo standard di vita, bensì quello di libertà. In tal guisa sarebbero da considerarsi proletari non solo tutti gli operai, i dipendenti e gli impiegati pubblici, sebbene possiedano un’auto propria e addirittura la libertà di scegliere la marca, e benché viaggino ogni anno con l’aereo verso Maiorca o la Thailandia; ma anche i presunti «lavoratori autonomi».
Né i fisici, né gli inventori, né gli ingegneri (per non parlare degli imprenditori costretti a scegliere i loro prodotti in base ai rapporti di mercato) si realizzano per mezzo delle loro attività. O si può forse parlare di «autorealizzazione» quando un ingegnere progetta modelli di alcune parti di macchina, di una determinata macchina, che dovrebbe a sua volta contribuire alla produzione di un’arma atomica? Quest’ingegnere - e con lui il 99% dei suoi colleghi - vive e lavora altrettanto ciecamente di un operaio non-qualificato, il quale, senza sapere a quale scopo, senza che si interessi allo scopo, senza che se ne possa o debba interessare, spinge su e giù una levetta mille volte al giorno, eseguendo sempre lo stesso movimento. [...]
Il nostro essere-proletari consiste nella totale manipolazione della nostra vita, che insidia perfino il mondo e il tempo del nostro ozio e che non consente più a nessuno, neppure a colui che manipola, di riconoscere la propria illibertà. In altre parole: l’illibertà oggi consiste nella totale discrepanza, nella totale mancanza di relazione fra il lavoratore e il prodotto che egli rielabora; fra ciò che fa e l’effetto che contribuisce a provocare o, meglio, di cui è corresponsabile; fra ciò che gli viene venduto come piacere e la felicità che invero gli spetta.
Ma non esistendo più il proletariato in quanto «classe» secondo il significato classico - perché oramai tutti appartengono a questa categoria di schiavizzati - viene altresì meno ogni possibile discorso sulla «lotta di classe». E sarebbe altrettanto insensato presentarsi oggi come avanguardisti di una classe che non esiste più; e ripetere ancora il motto «proletari di tutto il mondo, unitevi! ».
Il lavoratore - ma, come vedremo fra poco, non soltanto lui - malgrado il suo diritto di voto, la sua adesione al sindacato ecc., è totalmente privo di libertà, ossia un proletario, per la ragione seguente: non ha la libertà di partecipare alle decisioni su quale prodotto deve creare - o meglio, contribuire a creare; non viene mai consultato sulla questione se i prodotti che egli contribuisce a creare (e gli effetti apocalittici che questi possono comportare) debbano essere in generale creati, oppure no. Così l’Unione Sovietica ha fatto erigere un gran numero di centrali nucleari senza concedere la libertà di discutere dei rischi impliciti in simili progetti.
Anche la maggior parte delle grandi potenze industriali dell’Occidente ha fatto costruire le centrali senza consultare i cittadini interessati o le popolazioni minacciate da esse; anzi, senza che le popolazioni potessero accedere a informazioni adeguate per essere anche soltanto nelle condizioni di votare.
Hanno piuttosto prodotto (con l’aiuto dei lavoratori naturalmente) la disinformazione mirata e sistematica e l’ignoranza della popolazione. I cosiddetti «responsabili» inoltre, dopo aver fatto costruire gli impianti dei reattori fino a una certa altezza, hanno poi sostenuto che lasciar cadere in rovina progetti sui quali il popolo aveva già investito così tanto capitale e lavoro sarebbe stata un’irresponsabile disgrazia per l’economia della nazione e il diritto al lavoro di ogni cittadino.
Sembra che ogni cittadino, per il semplice fatto d’aver delegato la sua voce, o meglio, la sua opinione, a un rappresentante, partecipi così, quantomeno indirettamente, alle decisioni cruciali. Ma il cittadino che si reca alle urne, un atto che garantisce solo un’apparente libertà, non vota affatto in qualità di «uomo libero», ma di un uomo che è stato manipolato e convinto dai mezzi di comunicazione (già a loro volta manipolati). La sua opinione, che l’opinione che esprime o delega sia davvero la sua, gli è stata in realtà indotta. La parola «opinione» (nonostante il famoso gioco di parole di Hegel) non ha nulla a che fare col possessivo «mio». Anziché dire «chi si esprime [der Meinende] possiede un’opinione [Meinung]», dovremmo dire: «l’opinione possiede chi la esprime». Sempre che si possa ancora chiamare opinione quel che egli «possiede» (per non parlare di quel giudizio che si fonda su una conoscenza specifica).
Ciò che il presunto libero cittadino «possiede» e che lascia esprimere dai suoi rappresentanti è piuttosto un’ignoranza creata (da persone interessate) attorno alla materia che si sta discutendo; un’ignoranza che non si presenta soltanto come opinione, ma come se si trattasse di un fondato giudizio di esperti. Alla creazione e alla diffusione di questa ignoranza - è il coronamento del presunto processo democratico - contribuiscono gli stessi lavoratori o dipendenti (come addetti alla distribuzione del, per esempio). Anche l’auto-istupidimento è un lavoro, per il quale il lavoratore non soltanto si fa pagare: egli addirittura lo rivendica come se fosse un prezioso diritto. In altre parole: il lavoratore - in Unione Sovietica come negli Stati Uniti - non ha la minima libertà decisionale su ciò a cui deve lavorare. E non possiede ancora la libertà di sentire la mancanza di questa libertà. È talmente privo di libertà che è un proletario.
(Traduzione di Devis Colombo)
Alcuni ricercatori dell’università della California hanno dimostrato che certi messaggi pubblicitari riducono le capacità decisionali della mente e la "convincono": certi annunci sono irresistibili e così i consumatori acquistano senza porsi domande
Quegli spot che imbrogliano il cervello: comprare non è una scelta, ma un ordine
di Luisa Barbieri *
Viviamo nel contesto sociale della deresponsabilizzazione, ci hanno abituati a farci scegliere, piuttosto che a cercare di acquisire la consapevolezza che dovrebbe sostenere le nostre scelte, ponendole in relazione ad un bisogno personale. Del resto, in un mondo teso solamente al profitto, l’individuo modello è il consumatore impenitente, il soggetto facile al condizionamento che preferisce subire piuttosto che agire in nome proprio. Quindi l’essere corteggiati e sedotti dalla pubblicità è una ferma consapevolezza per tutti noi, purtroppo la normalità.
Siamo assoggettati ad un corteggiamento sfiancante, tanto che non facciamo più differenza tra l’acquisto consapevole e necessario, e quello dettato dall’impulso condizionato. Dobbiamo cercare di comprendere che un conto è uscire per acquistare un elettrodomestico, come potrebbe essere una lavatrice, perché la nostra è rotta e proprio non possiamo farne a meno, un altro è ritrovarci preda di un impulso, come tale incontrollabile, che ci spinge ad acquistare un mega televisore a schermo ultra piatto, ultra leggero, ultra supersonico... del quale potevamo assolutamente fare a meno. Un bisogno indotto corredato da caratteristiche precise ed identificabili che riescono a trasformare un messaggio in impulso.
I messaggi pubblicitari possono colpirci attraverso un meccanismo di persuasione logica (LP, logical persuasion) rappresentando le caratteristiche del prodotto relative al prodotto stesso, senza debordare in altro spazio immaginifico mentale; mentre, quando il messaggio aggira e raggira la coscienza (NI, non-rational influence), ad esempio stimolando fantasie che potrebbero o meno essere legate all’oggetto della pubblicità, ma che hanno il solo scopo di manipolare, allora la questione cambia e non di poco, ossia modifica in qualche modo lo stato di coscienza. Facile è comprendere come eticamente la manipolazione sia da porre nella sezione dedicata alla scorrettezza, quindi destinata all’eliminazione sociale. Le ricerche di neuromarketing vedono e prevedono i comportamenti a feed back dei consumatori, ma l’impatto sulle funzioni cerebrali procurate da queste manipolazioni nel mondo reale, non erano conosciute; oggi i ricercatori della UCLA e della George Washington University hanno dimostrato che diversi tipi di messaggi pubblicitari, evocano diversa attività cerebrale, a seconda che il soggetto venga sottoposto a LP oppure a NI.
Nell’articolo pubblicato sulla corrente edizione online di Journal of Neuroscience, Psychology, and Economics, il prof. Ian Cook (docente di psichiatria presso il Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences e il David Geffen School of Medicine at UCLA, e come ricercatore presso l’UCLA Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior e il UCLA Brain Research Institute) e colleghi asseriscono che le regioni cerebrali coinvolte nei processi decisionali e in quelli emotivi sono particolarmente sollecitate, si mostrano più attive, quando gli individui sono sottoposti a messaggi che utilizzano la persuasione logica (LP), rispetto a messaggi che utilizzano l’influenza non razionale (NI). Queste regioni cerebrali parrebbero aiutare ad inibire gli stimoli dettati da impulso.
Facendo seguito al ragionamento del prof. Cook: “tieni d’occhio il tuo cervello e terrai d’occhio il tuo portafogli”, vorrei puntualizzare il fatto, emergente dagli studi del gruppo di ricercatori californiani, che i risultati sono a favore delle capacità selettive operanti nel nostro cervello. I bassi livelli di attività cerebrali registrati invece nel corso di interazione con messaggi NI, rinforza il concetto che istintivamente prevale l’azione tesa ad evitare il condizionamento, quale meccanismo inibitorio difensivo dall’impulso.
Sono stati valutati i tracciati elettroencefalografici di 24 giovani adulti (11 donne e 13 uomini) sottoposti alla visione di immagini pubblicitarie. Ogni partecipante è stato sollecitato da 24 pubblicità apparse su riviste e giornali: gli annunci che utilizzavano immagini LP comprendevano una tabella che si riferiva a situazioni e cifre relative alle sigarette, i dettagli su come costruire uno spazzolino da denti e suggerimenti relativi ai criteri da seguire per acquistare alimenti per cani in base alla loro attività motoria; gli annunci NI contemplavano l’immagine di una bella donna in piedi con le gambe allargate a pubblicizzare dei jeans, mentre a pubblicizzare le sigarette si mostrava l’immagine di una donna che, saltando su di un idrante, veniva inondata dagli spruzzi d’acqua, sotto lo sguardo entusiasta di un uomo, con chiari riferimenti di ordine sessuale.
Sulla base di queste sollecitazioni, si è visto che le immagini LP determinano elevati livelli di attività di tutte le aree del cervello coinvolte nel processo decisionale e/o nella trasformazione emozionale. Quindi le preferenze per l’acquisto di beni e servizi possono essere modellate da molti fattori, in primis dalle informazioni logiche e persuasive, cui possono sovrapporsi, a scopo seduttivo, le immagini o i testi che intervengono nel cambiamento comportamentale senza l’intervento della coscienza, senza che si richieda il riconoscimento consapevole.
Come dice il prof. Cook: “Poiché i risultati hanno mostrato che in risposta agli stimoli sensoriali non razionali, l’attività è più bassa nelle aree del cervello che ci aiutano a inibire le risposte agli stimoli, i risultati confermano l’ipotesi che alcuni inserzionisti vogliono sedurre, piuttosto che convincere i consumatori ad acquistare i loro prodotti”, in barba all’etica.
Note di approfondimento*
UCLA newsroom
Professor Ian Cook
Semel Institute for Neuroscience & Human Behavior
Buyer beware: Advertising may seduce your brain, UCLA researchers say
UCLA Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences
New UCLA study: brain seduction from ads
In Iran hanno intuito per tempo che lo sbarco di Murdoch era il cavallo di Troia per cloroformizzare l’opinione pubblica e le coscienze.
IMPARINO DAGLI AYATOLLAH
di Giulietto Chiesa *
La sinistra italiana, che ha regalato a Berlusconi il controllo dell’etere, invece di capire che fa più male “C’è posta per te” delle dichiarazioni di Cicchitto, continua ad inseguire le tv del Cavaliere sul terreno dei pollai televisivi.
Farebbero meglio a mandare una delegazione in Iran per imparare.
Perfino gli Āyatollāh sono più svegli della sinistra italiana. Cioè perfino loro hanno capito cosa significa l’intrattenimento per rincoglionire il colto e l’inclita. Si dà il caso che Rupert Murdoch abbia deciso di attaccare preventivamente l’Iran con i suoi incrociatori massmediatici (guai arrivare secondi!). Detto fatto ha comprato una televisione privata afghana, la “Farsi 1”, mediante un prestanome di nobile stirpe afghana e, mettendo la sua possente portaerei News Corp, insieme alla barchetta Moby Group di Saad Mohseni, ha cominciato a trasmettere via satellite verso il territorio iraniano.
“Farsi 1”, a differenza della Voice of America, o della Bbc, non trasmette informazioni: solo intrattenimento e pubblicità. Soap opera, amori, commedie, drammi sudamericani, detectives and mafia stories. Abbastanza sesso per solleticare il prurito dei voyeurs iraniani. Ma non troppo, per non suscitare reazioni puritane. Perfino baci in bocca e, ovviamente, capelli al vento per fare arrabbiare i mollah. Ma niente propaganda.
Dunque, se il governo di Teheran fosse stupido come lo sono stati tutti i governi di centro sinistra, lasciando campo libero a Berlusconi sul terreno di cui sopra, non avrebbe mosso un dito.
Avrebbe ragionato così, più o meno: se Murdoch si mette a fare politica noi chiediamo la par condicio e gliela facciamo vedere noi a quello stronzo. Ma siccome lui fa vedere solo un po’ di cosce indiano-americane, faccia pure.
Invece a Teheran hanno studiato “Divertirsi da Morire” di Neil Postman e hanno capito da tempo che vale di più una tetta scoperta, o anche allusivamente suggerita, che cento discorsi di Obama. Così come, trasferendo il discorso in Italia, vale di più una Maria De Filippi (per istupidire la gioventù italiana) di mille dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto.
E sono partiti all’attacco. Lo hanno fatto, per altro, con tecnologie raffinate: mettendo in campo i loro hacker (ne hanno anche loro, a quanto pare) e mandando sui siti di “Farsi 1” una serie di minacce non precisamente pacifiste. «I sogni di chi cerca di distruggere le fondamenta della famiglia conducono dritti alla fossa». Meglio perfino della Chiesa cattolica.
Il fatto è che Rupert ha un’armata di “ingegneri di anime”, presumibilmente non meno abili di Fedele Confalonieri, che riescono a infilare in un normale thriller anche l’idea che i musulmani sono tutti terroristi. Del resto metà dei film hollywoodiani ormai da oltre un decennio sono pieni di terroristi musulmani come gli agnolotti di Bologna lo sono di carne tritata.
E questo, soprattutto, non piace agli Āyatollāh che, avendo una dignità nazionale da difendere e sapendo - per averlo sperimentato direttamente - che la Cia non è seconda a nessuno nell’organizzazione di attentati terroristici, non gradiscono che sugli schermi di casa propria impazzino film dove i musulmani sono invariabilmente i cattivi. Per loro sfortuna, però, non hanno una cosa paragonabile a Hollywood, per cui far muovere gli hacker non serve granché, essendo cosa solo difensiva.
Hanno capito, questo è certo, che per liquidare un paese e la sua memoria storica basta lasciare agli americani il compito di “divertirlo”.
Per cui si limitano a ripetere la sconfitta dei russi. I quali non hanno ancora capito che gli Stati Uniti hanno demolito l’Unione Sovietica conquistando le anime dei russi con le loro televisioni. E, ancora adesso, venti anni dopo essere stati colonizzati dalla Cnn, non hanno ancora realizzato che dovrebbero fare come Murdoch ma alla rovescia: comprarsi delle catene televisive in Occidente e cominciare a “narrare il mondo” (citazione da Niki Vendola) dal punto di vista di Mosca.
Invece lasciano in giro i loro oligarchi coglioni a comprarsi squadre di calcio e a farsi fabbricare i loro yacht più lunghi del mondo, come Roman Abramovič, che con quei soldi si poteva comprare cento canali digitali in Europa. Ma questo è un altro discorso.
Torniamo a Teheran e al centro sinistra. Il quale ultimo (in tutti i sensi) pensava che impadronendosi delle tv di Stato, avrebbe potuto contrastare quelle del caimano. L’inghippo si verificò quando Romano Prodi, salito al governo dopo che D’Alema, Veltroni, Violante and company avevano regalato a Silvio Berlusconi tutto il regalabile in termini televisivi, invece di fare programmi e palinsesti alternativi a quelli di Berlusca, fecero sui loro canali (cioè sui nostri, ma occupati da loro) le stesse cose che faceva Berlusconi per istupidire il pubblico.
Così accadde quello che tutti sappiamo. Il rincoglionimento è stato elevato al quadrato, invece di essere ridotto della metà.
Dunque permettetemi di elevare un mesto omaggio agli Āyatollāh iraniani. Si difendono come possono, ma almeno si vede che hanno individuato il pericolo. Suggeriamo a Bersani di invitare una delegazione di Guardie della Rivoluzione qui a Roma, non appena Berlusconi avrà mollato l’osso.
Con il compito preciso di spiegare a Sergio Zavoli, a Gentiloni e a Paolo Garimberti che gli animi si conquistano solo dopo averli anestetizzati.
*
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/5185-imparino-dagli-ayatollah.html
4.12.2010
Articolo pubblicato su www.lavocedellevoci.it di dicembre
Niente paragoni con il Fascismo
di Emilio Gentile (il Fatto, 27.08.2010)
Riccardo Chiaberge è turbato dall’incubo di un paragone storico inquietante fra la situazione italiana di oggi e la situazione italiana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1924, che aprirono la strada al regime fascista illiberale e totalitario, come lo definirono alcuni amanti della libertà, che nessuno ascoltò. Nel suo blog dell’11 agosto, Chiaberge ha chiesto agli italiani di liberarlo dall’incubo, convincendolo che ha torto oppure dimostrandogli, soprattutto, che hanno imparato la lezione della storia e non ricadranno di nuovo nella trappola del 1924.
La lezione inesistente
UN GRANDE storico disse due secoli fa che la storia dimostra che dalla storia gli uomini non imparano nulla. Un grande sociologo del secolo scorso scrisse che gli uomini fanno la storia ma non sanno che storia fanno. Nessuno ha finora dimostrato che gli italiani siano esseri umani speciali, perché sanno imparare la lezione della storia. Invece, è dimostrabile che in moltissimi italiani la capacità di oblio del passato è pari solo alla loro convinzione di essere sempre vittime di una storia fatta da istrioni ingannatori e da politicanti corrotti, piovuti da chissà quale pianeta maligno per traviare il Bel Paese. Dubito pertanto che Chiaberge possa avere dagli italiani la confortante promessa che non ripeteranno quello che, in maggioranza, i loro antenati fecero nelle elezioni del 1924.
Vorrei però tentare di liberare Chiaberge dall’incubo del suo inquietante paragone storico provando a convincerlo che ha torto, perché il paragone della situazione odierna con la vigilia delle elezioni dell’aprile 1924 non regge. Non regge neppure - e in questo Chiaberge ha ragione - il paragone che molti fanno fra la situazione attuale del governo in carica e quella del regime fascista alla vigilia del 25 luglio 1943. Come non regge, a mio modestissimo parere, nessun paragone fra la situazione italiana di oggi e il fascismo.
Prima di tutto, osservo che la riforma elettorale del 1924 non fu il suicidio del parlamento italiano: il suicidio, il Parlamento lo aveva già fatto nel novembre 1922 quando votò la fiducia ad un governo presieduto dal capo di un partito armato, nato appena tre anni prima (il partito armato, intendo), che si era aperto la via verso il potere con la violenza, dichiarando apertamente di voler creare uno Stato senza libertà per i suoi avversari, fortemente unitario e accentratore, fanaticamente nazionalista. E fu quello che il fascismo fece quando instaurò il regime a partito unico e impose agli italiani il primato assoluto dello Stato nazionale, trasfigurato in una divinità alla quale tutti dovevano dedizione totale, obbedendo ciecamente al Duce, adorato come un dio terreno in un culto collettivo. Inoltre, il regime fascista praticò un’etica spartana e bellicosa, esigendo da ogni uomo e donna di dedicare la sua vita alla patria, di sacrificare la ricerca della felicità, e persino la più modesta ricerca di un benessere personale, alla potenza dello Stato e alla conquista di un impero.
Oggi non vedo in Italia un partito armato, non vedo un fanatismo nazionalista, e non vedo neppure il progetto di uno Stato accentratore deificato. E non vedo neppure un culto del capo, che faccia rassomigliare l’attuale presidente del consiglio al Duce del fascismo. Anzi, sarà probabilmente il Duce del fascismo, nella nuova versione diaristica, che somiglierà all’immagine che l’attuale presidente del Consiglio vuole dare di sé. Infine, chi governa oggi in Italia non sogna, neppure nei più esaltati sogni di grandezza, di militarizzare gli italiani per trasformarli in asceti e guerrieri, dedicati per la vita e per la morte alla potenza della nazione e dello Stato. Sogna, invece, di renderli tutti consumatori felici di un benessere senza limiti.
Come un ghiacciaio che si scioglie
DUNQUE , Chiaberge si rassereni. Da eventuali elezioni politiche con il porcellum, con la maggioranza degli italiani cloroformizzati dall’apatia, dalla rassegnazione, dal disgusto per la politica o dalla presunzione di farla sempre franca coll’arte di arrangiarsi e col miracolo dello Stellone, non nascerà certamente uno regime totalitario. E’ più probabile invece che avremo il totalitario disordine di uno Stato nazionale in disfacimento, che sopravvivrà ancora per qualche tempo come espressione istituzionale, e poi, forse, se ne andrà alla deriva disgregandosi, come un ghiacciaio che si scioglie in mare.
Un’ultima osservazione, per tranquillizzare Chiaberge. Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
(*) docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma
Breve storia del diavolo. Il male nell’era delle tentazioni quotidiane
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara.
Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolocardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato.
E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
INCHIESTA P3
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo
Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini
L’interrogatorio del senatore è durato meno di un’ora. Avviso di garanzia anche per il sottosegretario alla Giustizia. Berlusconi gli conferma la fiducia. Via Nazionale ravvisa "gravi irregolarita" nella banca del coordinatore Pdl. Il Riesame: interferenza metodica sulle istituzioni. Il Csm approvato trasferimento di Marconi
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo. Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo *
ROMA - Dopo l’interrogatorio fiume 1 di Denis Verdini, oggi in procura a Roma è stato il turno di Marcello Dell’Utri. L’interrogatorio del senatore del Pdl è stato però molto più breve. Meno di un’ora. Dell’Utri, indagato assieme allo stesso Verdini e a Flavio Carboni nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, si è avvalso, infatti, della facoltà di non rispondere.
All’uscita dalla procura, Dell’Utri ha spiegato così il suo "silenzio" davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e al sostituto Rodolfo Sabelli: "A Palermo 15 anni fa", ha detto dell’Utri, "ho parlato 17 ore e sono stato rinviato a giudizio sulla base della mie dichiarazioni. Ho imparato da allora"."Sono un indagato provveduto", ha continuato il senatore del Pdl, "mi sono avvalso della facoltà di non rispondere che reputo una regola fondamentale dell’indagato provveduto. Consiglio a tutti gli altri di fare come me".
"Ruolo di Dell’Utri superiore a Verdini". Secondo quanto scrive l’agenzia Ansa, i pm romani ritengono dopo gli interrogatori che il ruolo di Dell’Utri, sotto il profilo politico, sarebbe stato superiore a quello di Verdini. Sempre secondo quanto trapela da Piazzale Clodio, nonostante le nove ore di interrogatorio, le spiegazioni fornite dal coordinatore del Pdl non avrebbero convinto i magistrati, che le avrebbero trovate generiche.
"Verdini non convince". Tra le argomentazioni del coordinatore che non avrebbero persuaso i pm ci sono le spiegazioni sui 2,6 milioni pagati dalla Società Toscana Edizione (della quale Verdini è socio) allo stesso coordinatore, alla moglie Simonetta Fossombroni ed al coordinatore toscano del partito Massimo Parisi. Altro punto poco chiaro, le cene a palazzo Pecci Blunt, la casa romana di Verdini, che per i pm sarebbero servite tra l’altro, a stabilire interventi sulla Consulta per il lodo Alfano. In merito al dossier a luci rosse per screditare la candidatura a governatore della Campania di Stefano Caldoro, Verdini avrebbe ammesso di esserne stato a conoscenza, ma di non avere preso parte al complotto.
Commissariato il Ccf. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti ha firmato il decreto di commissariamento del Credito Cooperativo Fiorentino, la banca di cui fino a ieri era presidente Verdini. La Banca d’Italia l’aveva proposto il 21 luglio "per gravi irregolarità nell’amministrazione e gravi violazioni normative", dopo "gli accertamenti ispettivi di vigilanza condotti presso il Credito Cooperativo Fiorentino - Campi Bisenzio - Società Cooperativa".
Indagato anche Caliendo. Capaldo e Sabelli hanno deciso l’iscrizione nel registro degli indagati anche del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Anche a Caliendo è contestato il reato di violazione della legge Anselmi sulle società segrete. Il sottosegretario potrebbe essere interrogato entro la fine di questa settimana. Il suo nominativo appare in alcune vicende sulle quali si è soffermata l’attenzione degli inquirenti. Tra queste una cena nella casa romana di Verdini, a palazzo Pecci Blunt, che avrebbe avuto il fine di stabilire le strategie di intervento sul lodo Alfano, sulla nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte D’Appello di Milano e sul ricorso in Cassazione dell’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti dalla magistratura napoletana.
Dopo aver appreso di essere stato iscritto nel registro degli indagati, Caliendo ha subito ribadito la sua estraneità alla P3: "Io non ho mai contattato né fatto elenchi di giudici della Corte costituzionale favorevoli o contrari al lodo Alfano".
Berlusconi: "Fiducia in Caliendo". Dopo il ministro della Giustizia Angelo Alfano, anche Silvio Berlusconi ha confermato la propria piena fiducia nel sottosegretario. In una nota di Palazzo Chigi si legge che il premier "ha incontrato il sottosegretario Giacomo Caliendo e, in relazione all’indagine quest’oggi annunciata nei suoi confronti, gli ha espresso la più ampia solidarietà e, rinnovandogli piena fiducia, lo ha invitato a continuare a lavorare con l’impegno fin qui profuso". Il deputato Niccolò Ghedini ha definito "sorprendente la decisione di indagare il senatore", auspicando "una immediata archiviazione".
Dal canto suo, dopo il colloquio con il presidente del Consiglio, Caliendo ha detto di aver chiesto tramite i suoi avvocati,"di essere sentito dai pm". Sto aspettando". "Mi ha confermato la sua piena fiducia e mi ha chiesto di andare avanti. Dunque resto nel mio incarico", ha aggiunto lasciando Palazzo Grazioli.
"P3 attiva anche nel Lazio". L’inchiesta si arricchisce intanto di nuovi sviluppi. Il "gruppo", che, secondo la magistratura faceva capo a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi, si interessò anche dell’esclusione della lista del Pdl provinciale dalle elezioni regionali del Lazio. E’ quanto emerge dall’ordinanza del tribunale del riesame con la quale i giudici hanno negato la scarcerazione a Carboni e Lombardi.
Nell’ordinanza scrivono i giudici, "Lombardi non manca di invitare l’onorevole Ignazio Abrignani, responsabile elettorale nazionale del Pdl, a seguire una via ’parallela’ rispetto a quella istituzionale (ricorso presso il Consiglio di Stato avverso l’esclusione della lista Pdl Roma e Provincia dalle elezioni regionali) suggerendogli di rivolgersi ad Antonio Martone (ex avvocato generale della Cassazione) perchè è ’molto amico’ e può risolvere il problema, ma della cosa questa volta il Lombardi segnala che è meglio non parlare al telefono".
"Interferenza metodica". Dal documento emerge inoltre come il gruppo abbia "portato avanti una metodica azione d’interferenza sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, come la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, la regione Sardegna, la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello di Milano, l’ispettorato del ministero della Giustizia, venendo incredibilmente accettato come interlocutore accreditato". E’ a causa di questa "fitta rete di conoscenze", concludono i giudici, che "deve essere mantenuta la custodia cautelare in carcere".
Marconi trasferito. Dal Csm intanto arriva l’ok al trasferimento per incompatiblità ambientale di Umberto Marconi, fino ad oggi presidente della Corte d’Appello di Salerno, uno dei magistrati coinvolti nella vicenda P3. Il magistrato andrà dunque a svolgere funzioni di consigliere presso la Corte d’Appello di Napoli, come da lui stesso richiesto in una lettera inviata a Palazzo dei Marescialli. Al momento del voto, si è astenuto il vice presidente Nicola Mancino.
* la Repubblica, 27 luglio 2010
10 consigli per difenderci dall’informazione che imbroglia
di Noam Chomsky *
Attenti alla strategia della distrazione: prende per mano il pubblico e lo porta dove vogliono i padroni del potere. Rimanda le decisioni impopolari nei giorni delle vacanze quando nessuno vuole sapere cosa fanno i politici. Chi vota viene trattato come un bambino: «adesso vi spieghiamo qual è la vera verità»
1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 - La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l’emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e, infine, del senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti.
7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori” (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su se stessa.
Noam Chomsky (Filadelfia, 1928) è un linguista, filosofo e teorico della comunicazione. Professore emerito di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology), è il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale. La costante e acuta critica della politica estera Usa e la lucida analisi del ruolo dei media nelle democrazie lo hanno reso uno degli intellettuali più famosi del mondo.
Dal sito di Domani Arcoiris TV
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia
e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009
La rivolta dei poeti: «Berlusconi, giù le mani dalla democrazia»
di Pietro Spataro *
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio». È un verso della poesia di Roberto Roversi che pubblichiamo qui accanto. Una delle tante che compongono questa «antologia della ribellione » che gira sull’on line da qualche giorno e sta suscitando grande interesse.Unastranezza nell’Italia di oggi. Trenta poeti (giovani e vecchi, del Nord e del Sud) si mettono al lavoro e scrivono versi per protesta: contro la minaccia incostituzionale di Berlusconi, per difendere il valore della resistenza e della memoria. Sembrava un’impresa impossibile. Quando Davide Nota, che è un giovane poeta di ventotto anni pieno di passione, ha cominciato a telefonare a noi più anziani, in pochi avremmo scommesso sulla riuscita. Pensavamo a Pasolini e misuravamo la distanza tra il suo grido e questa «Italia rotta» di oggi. Racconta Davide: «Tutto è cominciato quando Berlusconi ha proposto di cambiare nome alla Festa della Liberazione. Ne abbiamo parlato io e Gianni D’Elia e all’inizio si pensava a una cosa così, duepoesie contro l’oblio». Poi invece le poesie sono diventate di più: per la precisione quarantadue.
I poeti sono trenta e sono diversi tra loro: ci sono i «grandi vecchi » come Roberto Roversi, quelli della generazione di mezzo come Gianni D’Elia, Maurizio Cucchi e Franco Buffoni. Ma poi soprattutto ci sono tantissimi giovani: quelli che sono lanuova generazione che esprimeforse la rabbia più fresca e battagliera. Questa antologia insomma è un altro segno che qualcosa si muove nel mondo della cultura. «Si tratta di una rivolta della coscienza - spiega Gianni D’Elia - Assistiamo a un attacco al diritto che fa spavento. È ilmomentodi farecomediceva Dante: “Così gridai con la faccia levata”. Nonpossiamo permettere che la cultura sia travolta dalla tv». Aggiunge Franco Buffoni: «Cerchiamo di far sentire un fiato civile in un’epoca di disinteresse. Siamo noi i veri liberali, mica loro».
Nata per difendere la Costituzione e i valori dell’antifascismo la raccolta strada facendo ha assunto anche un taglio diverso. È diventata il grido di dolore contro la decadenza dell’Italia. «Un tentativo di resistenza contro l’orrore che abbiamo attorno - dice Maria Grazia Calandrone - Abbiamo il dovere di batterci contro questa catastrofe, cominciando dalla scuola che deve fornire gli strumenti per capire. Siamo circondati da una cultura della paura e del sospetto che fa venire i brividi». Aggiunge Flavio Santi: «Questa destra è pericolosa. Noi tentiamo di scalfire il muro di silenzio. I poeti ci sono ancora, questo vogliamo dire: per fermare l’omologazione per cui tutto va bene e tutto è uguale». È la prima volta forse nella storia d’Italia che trenta poeti si mettono insieme per gridare più forte. L’antologia sta girando nei vari social metwork, appare su alcuni siti importanti (Micromega, Reset italia, Nazione Indiana e daoggi anche sul sito dell’Unità). È una piccola cosa, ma spesso dalle piccole cose viene il meglio. È un modo per dire no a quello che Leopardi chiamava «il servilismo verso l’imperio dell’autorità». E oggi purtroppo in giro se ne vede un bel po’. Servirà? Direbbe Franco Fortini: «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi».
Un appunto in prosa di poesia
Roberto Roversi
Largisce pace la pace
e la guerra di guerra risuona.
La guerra dice la pace fiacca e induce
all’ozio l’uomo calcolatore.
La guerra dice che la guerra è
inevitabile furore
e il grido degli uomini in battaglia
strappa nel cielo penne e penne agli angeli
peccatori.
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio
on mazza e scudo
a scalciare il sudario dei ricordi
che hanno acidula voce
e sono bagnati nel fiume di sangue degli anni
(senza pietà)
Ma i pensieri di ferro rovente non sono la rana
buttata in un fosso sperduto.
Il furore a Cassino
Varsavia Stalingrado
Dresda Coventry Berlino
tutta Italia spianata
porte d’inferno aperte ogni giornata.
Calpestare l’oblio
il viaggio dei ricordi non è mai finito
là c’ero anch’io.
Golpe sottile
Giuliano Scabia
Si aggira nelle menti, nei media,
un golpe sottile, un assopimento
spettacolare indotto da paura
e dissolversi delle visioni. L’ora
è venuta di lasciare il novecento
con le sue catastrofi e bellezze,
ma dicendo: siamo orgogliosi
di ciò che fu fatto per il bene,
non lo rinneghiamo: voi, col vostro
Gran Porcone e le sue Madonne
velinose andate pure alle glorie
delle falsate storie. Dignità e valore
è libertà, durezza e verità, amore
delle città, non tresca, non truffa,
non menzogna. Ciò che bisogna
adesso è: SVEGLIA ITALIA!
Scrollati dal fango che t’ammalia!
Nella piatta illusione del tempo
Maurizio Cucchi
Nella piatta illusione del tempo,
Nella comunità precaria
Dei morti e dei vivi,
Non si cancella l’offesa, non si modifica
Il senso della storia. Nel presente
Totale la vittima
E l’assassino conservano
Espressioni diverse, facce
Opposte: il nero
Resta nero e la storia
Non lo stinge, non lo sbiadisce.
Mai.
La Liberazione
Gianni D’Elia
Sciagurata sineddoche d’Italia,
la parte per il tutto del peggiore
carattere affarista, Smisuralia
d’iniquo e ingiusto, sovrano e signore.
Italiano del Duemila, tutta aria
di denaro e potere, il solo amore,
bassa statura, che animo non varia,
di riccastro ed impresario in calore.
Insigne erede di sozza fazione,
ossessa forza, che il Paese caria
dagli schermi e dai fogli del padrone,
liberaci di te, ci manca l’aria.
Per quanto studi per l’eterna azione
cammini già la tua vita mortuaria,
sei già nel tuo pacchiano Partenone,
sciagurato diffuso in terra ed aria.
S’aspetta che tu vada, odioso clone,
Primo, Secondo e Terzo Berluscone,
tu, già fuori della Costituzione,
contro i cives e la Costituzione,
tu e la tua burlesca Liberazione!
Credono di essere il paese
Lina Salvi
Credono di essere il paese,
ma sono fuori dallo Stato,
appiccando il fuoco con viso
coperto, a tradimento, alle baracche
di quei nomadi, che con un euro
comprano tre mattoni
per una casa nel loro paese,
i nostri sono scappati incuranti,
nelle auto ritoccate, i bambini
a decine chiedono notizie
dei loro compagni, perplessi,
in un’altra storia.
Altra preghiera
Pietro Spataro
Liberaci dal vuoto del potere
dall’ideologico concorrere violento
dai tribunali di partito, dall’erosione
del libero discorrere degli uomini
allontanaci dalle urla di governo
dagli elenchi fraudolenti dei nemici
dall’odio che scava a fondo e lascia
lungo la via un’aspra solitudine
forma essiccata del pensiero
decadenza inarrestabile, inquietudine
Soprattutto e con ogni forza
Raimondo Iemma
Metto in comune un bicchiere.
Sorrido a uno sconosciuto
cerco altre parole
telefono a un amico
di cui da tempo non ho notizie
riconosco la voce di sua madre.
Quanto più sgomenta
la sofferenza di ogni uomo
per la ferocia dei suoi pari
quanto più subdolo diventa
il nuovo vocabolario
di inchiostro bianco cenere
non smetterò di credere nella felicità e nel domani
nell’idea che queste due parole
abbiano tanti significati
quanti sono gli uomini.
Soprattutto e con ogni forza
non cederò alla tentazione
di opporre disprezzo al disprezzo
nonostante tutto vorrò praticare il coraggio e
l’amore.
Ho voglia di stare al mondo e lottare.
Aprile
Davide Nota
Se ne vanno, la notte, silenziosi,
in lenta carovana, gli occhi al suolo,
i morti che di noi ancora sono
morti e se ne vanno silenziosi.
Il vento tra le foglie del castagno,
il passo tra le felci, il legno franto,
il canto delle rane nello stagno,
il pianto scivoloso del canale...
Scompaiono, di notte. Torneranno
come le pietre che la terra inuma?
Sapere i loro segni che consuma
la pioggia non ci basta a ricordare
che vivi ci sognarono e son morti.
* l’Unità, 25 novembre 2009
Undicietrenta
Una domanda soltanto
di Roberto Cotroneo *
Un senso di disorientamento c’è, ed è un disorientamento di un paese che comincia a preoccupare seriamente. Basta solo aprire una delle tante homepage sui siti di informazione che riassumono notizie ed eventi della giornata per rimanere sconcertati. Li elenco, uno di seguito all’altro, e penso che siamo finiti in una rappresentazione dell’assurdo.Il nostro Governo da un mese ci ripete che siamo - quasi - fuori dalla crisi, e il nostro premier si è chiesto più volte come mai non aumentano i consumi, soprattutto tra i dipendenti pubblici.
Ma oggi i dati di una indagine di Confindustria ci dicono che un terzo delle piccole imprese (sulle quali si fonda l’economia del nostro paese) chiuderanno, con un milione di posti di lavoro a rischio. Un disastro sociale e umano di proporzioni gigantesche.
Subito dopo scopriamo che quattro sottoufficiali dei Carabinieri, e dico i Carabinieri, l’arma per eccellenza, sono stati arrestati perché ricattavano un governatore di Regione, il presidente della regione Lazio Piero Marrazzo, per un video privato su di lui che sarebbero riusciti a girare. Marrazzo nega, e dice che è tutta una bufala. Ma che i Carabinieri siano accusati di spaccio di droga e di tentativo di estorsione, tra l’altro a un uomo di governo, è clamoroso.
La terza notizia dice che Giulio Tremonti minaccia le dimissioni, e che Umberto Bossi lo difende. Tremonti? Non era Tremonti l’uomo vincente di questo Governo, colui che meglio, e con maggiore autorevolezza, poteva dialogare con l’opposizione. Una persona con solide competenze, e grande intelligenza. Uno dei pochi? E non era Tremonti un uomo stimato da Berlusconi e da D’Alema? E allora cosa è successo? Colpa di Berlusconi che ha annunciato di voler ridurre l’Irap.
Ma intanto Tremonti, qualche giorno fa, contraddicendo tutto quanto aveva sostenuto e detto negli ultimi due anni, aveva fatto l’elogio del posto fisso, seguito a ruota dallo stesso presidente Berlusconi. E questo aveva lasciato senza parole Confindustria.
Se aggiungiamo le polemiche di questi giorni, ancora sullo scudo fiscale, e poi sul papello, e l’inquietante ipotesi di un patto tra Cosa Nostra e lo Stato nell’estate del 1992, esce un quadro su cui ogni commento e inutile. Con una sola domanda, la più semplice, ma anche la più vera e la più terribile: siamo ancora un paese civile? O ci stiamo coprendo di ridicolo di fronte all’intero mondo?
* l’Unità, 24 ottobre 2009
Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando
o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti
precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina.
Uno dice che male c’è a organizzare feste private
con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato?
Non ci siamo capiti
e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?
Che cosa possono le Leggi dove regna soltanto il denaro?
La Giustizia non è altro che una pubblica merce...
di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori
se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente.
...