di Federico La Sala
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
Federico La Sala (20.12.2009, dopo la nascita di Cristo)
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
L’Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale
Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione
di Guido Crainz (la Repubblica, 25.09.2010)
In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l’intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.
Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent’anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell’etica collettiva. Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.
Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi - se non nel corso di esso - venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all’emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti».
Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D’Alema, vide non il rafforzamento ma l’ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione - altamente simbolica - di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l’ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall’interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.
Ripresero così campo - sul versante leghista come su quello berlusconiano - ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell’area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall’Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l’emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi.
Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa).
Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l’esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.
È l’esito di un processo. È l’esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l’evoluzione stessa di quella parte della destra - un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" - che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste.
È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l’ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.
Sull’altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell’urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.
Niente paragoni con il Fascismo
di Emilio Gentile (il Fatto, 27.08.2010)
Riccardo Chiaberge è turbato dall’incubo di un paragone storico inquietante fra la situazione italiana di oggi e la situazione italiana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1924, che aprirono la strada al regime fascista illiberale e totalitario, come lo definirono alcuni amanti della libertà, che nessuno ascoltò. Nel suo blog dell’11 agosto, Chiaberge ha chiesto agli italiani di liberarlo dall’incubo, convincendolo che ha torto oppure dimostrandogli, soprattutto, che hanno imparato la lezione della storia e non ricadranno di nuovo nella trappola del 1924.
La lezione inesistente
UN GRANDE storico disse due secoli fa che la storia dimostra che dalla storia gli uomini non imparano nulla. Un grande sociologo del secolo scorso scrisse che gli uomini fanno la storia ma non sanno che storia fanno. Nessuno ha finora dimostrato che gli italiani siano esseri umani speciali, perché sanno imparare la lezione della storia. Invece, è dimostrabile che in moltissimi italiani la capacità di oblio del passato è pari solo alla loro convinzione di essere sempre vittime di una storia fatta da istrioni ingannatori e da politicanti corrotti, piovuti da chissà quale pianeta maligno per traviare il Bel Paese. Dubito pertanto che Chiaberge possa avere dagli italiani la confortante promessa che non ripeteranno quello che, in maggioranza, i loro antenati fecero nelle elezioni del 1924.
Vorrei però tentare di liberare Chiaberge dall’incubo del suo inquietante paragone storico provando a convincerlo che ha torto, perché il paragone della situazione odierna con la vigilia delle elezioni dell’aprile 1924 non regge. Non regge neppure - e in questo Chiaberge ha ragione - il paragone che molti fanno fra la situazione attuale del governo in carica e quella del regime fascista alla vigilia del 25 luglio 1943. Come non regge, a mio modestissimo parere, nessun paragone fra la situazione italiana di oggi e il fascismo.
Prima di tutto, osservo che la riforma elettorale del 1924 non fu il suicidio del parlamento italiano: il suicidio, il Parlamento lo aveva già fatto nel novembre 1922 quando votò la fiducia ad un governo presieduto dal capo di un partito armato, nato appena tre anni prima (il partito armato, intendo), che si era aperto la via verso il potere con la violenza, dichiarando apertamente di voler creare uno Stato senza libertà per i suoi avversari, fortemente unitario e accentratore, fanaticamente nazionalista. E fu quello che il fascismo fece quando instaurò il regime a partito unico e impose agli italiani il primato assoluto dello Stato nazionale, trasfigurato in una divinità alla quale tutti dovevano dedizione totale, obbedendo ciecamente al Duce, adorato come un dio terreno in un culto collettivo. Inoltre, il regime fascista praticò un’etica spartana e bellicosa, esigendo da ogni uomo e donna di dedicare la sua vita alla patria, di sacrificare la ricerca della felicità, e persino la più modesta ricerca di un benessere personale, alla potenza dello Stato e alla conquista di un impero.
Oggi non vedo in Italia un partito armato, non vedo un fanatismo nazionalista, e non vedo neppure il progetto di uno Stato accentratore deificato. E non vedo neppure un culto del capo, che faccia rassomigliare l’attuale presidente del consiglio al Duce del fascismo. Anzi, sarà probabilmente il Duce del fascismo, nella nuova versione diaristica, che somiglierà all’immagine che l’attuale presidente del Consiglio vuole dare di sé. Infine, chi governa oggi in Italia non sogna, neppure nei più esaltati sogni di grandezza, di militarizzare gli italiani per trasformarli in asceti e guerrieri, dedicati per la vita e per la morte alla potenza della nazione e dello Stato. Sogna, invece, di renderli tutti consumatori felici di un benessere senza limiti.
Come un ghiacciaio che si scioglie
DUNQUE , Chiaberge si rassereni. Da eventuali elezioni politiche con il porcellum, con la maggioranza degli italiani cloroformizzati dall’apatia, dalla rassegnazione, dal disgusto per la politica o dalla presunzione di farla sempre franca coll’arte di arrangiarsi e col miracolo dello Stellone, non nascerà certamente uno regime totalitario. E’ più probabile invece che avremo il totalitario disordine di uno Stato nazionale in disfacimento, che sopravvivrà ancora per qualche tempo come espressione istituzionale, e poi, forse, se ne andrà alla deriva disgregandosi, come un ghiacciaio che si scioglie in mare.
Un’ultima osservazione, per tranquillizzare Chiaberge. Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
(*) docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma
IL RETROSCENA
Quei timori del Vaticano per l’Italia
ma Bertone con il premier crea malumori
La cena da Vespa preceduta da contatti di Letta con la Santa Sede. Monsignor Fisichella emissario per Casini.Oltretevere non si nasconde "la preoccupazione per la tenuta dell’intero sistema Paese"
di ORAZIO LA ROCCA e CARMELO LOPAPA *
CITTA’ DEL VATICANO - Apprensione e cautela. E il convincimento di fondo che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al cospetto di una crisi più grave del previsto, "rischia di non farcela". Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone è figura di grande equilibrio, ha accettato l’invito di giovedì sera a casa Vespa, alla presenza tra gli altri del premier Berlusconi e del leader Udc Casini, "non certo per benedire una trattativa politica ma solo per amichevole cortesia", raccontano al Palazzo apostolico. Ma questa versione "diplomatica" non cancella un’altra verità: e cioè che ai vertici della Segreteria di Stato e della Conferenza episcopale italiana serpeggia una certa preoccupazione per la "tenuta dell’intero sistema Paese". Le mobilitazioni di piazza, la manovra finanziaria contestata dagli enti locali, la prospettiva di pesanti ricadute sociali sulle fasce più deboli, hanno alzato il livello di attenzione anche Oltretevere. La pagina di pesanti critiche ai tagli dell’assistenza ai disabili, pubblicata pochi giorni fa dall’Avvenire, è stato l’ultimo campanello di allarme. E perfino il "duro" Giulio Tremonti ne ha dovuto tenere conto.
L’incontro a casa Vespa - occasione per il faccia a faccia tra il capo del governo e l’ex alleato Casini, sotto lo sguardo di Bertone - è avvenuto dopo una serie di contatti telefonici e dialoghi tra emissari del governo e dei centristi ai quali gli ambienti della Curia non sono rimasti estranei. Al termine della messa per i 50 anni di sacerdozio del segretario di Stato, martedì scorso in San Pietro, alcuni dei politici invitati si sono trattenuti per sondare il terreno di un confronto. Erano Gianni Letta, Maurizio Lupi, Gianni Alemanno e Lorenzo Cesa. Amico di vecchia data di Pier Ferdinando Casini, monsignor Rino Fisichella, da poco presidente del dicastero della nuova evangelizzazione, raccontano abbia avuto un ruolo nella tessitura della trama per riavvicinare i centristi al governo. Nessun intervento diretto. "Il Vaticano non offre alcun genere di sponda" mettono le mani avanti dai Palazzi Apostolici. Allo stesso tempo, però, la gerarchia cattolica non è indifferente, si muove per dare un "contributo indiretto".
È una strategia che in Vaticano crea anche tensioni. La presenza di Bertone alla tavola di casa Vespa ha sconcertato più di un prelato. "Quando c’era il cardinale Agostino Casaroli cose del genere non sono mai successe. Ma nemmeno col suo successore Angelo Sodano" è uno dei commenti che si raccolgono Oltretevere. "Un segretario di Stato non deve esporsi in questo modo e tantomeno essere usato per andare in soccorso di questo o quell’uomo politico col pretesto di una cena tra amici" dicono altri vescovi e cardinali interpellati nei vari uffici della Segreteria di Stato e delle Congregazioni pontiticie. "Perché va bene incontrare i rappresentanti delle istituzioni, ma ritrovarsi a cena per parlare, magari, di crisi politiche italiane e di futuri scenari governativi, non è una buona cosa per il primo collaboratore del papa", commenta un cardinale esperto di diplomazia, che ha lavorato in istituzioni internazionali con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il quale rimprovera al segretario di Stato di "imbarazzare, con queste cene private, sia il Papa sia tutta la Chiesa".
"Cenare con un amico politico non ci sarebbe niente di male, ma qui la posta in gioco è ben altra", commenta un altro porporato, che vede nella cena da Vespa "un’altra tappa centrata da Gianni Letta nella lunga marcia di riavvicinamento tra Santa Sede e governo dopo lo strappo di un anno fa, quando il direttore dell’Avvenire Dino Boffo fu costretto alle dimissioni per gli ingiusti attacchi del giornale di casa Berlusconi". "E’ incomprensibile che il cardinale Bertone dia l’impressione di stare a questo gioco, facendosi usare da una figura come il premier con cui non prenderei nemmeno un caffè e tantomeno darei l’ostia consacrata", lamenta un arcivescovo impegnato nella pastorale dell’immigrazione.
* la Repubblica, 11 luglio 2010
Padania, ancora scontro Fini-Lega
Bossi: "10 milioni pronti a battersi"
La fondazione FareFuturo torna a polemizzare con il Carroccio sull’esistenza della Padania. Zaia e Cota: "Allora non esiste nemmeno la questione meridionale...". Sul sito di Generazione Italia la controeplica di Fini. Sondaggio Ispo: "Solo uno su dieci vuole la secessione" *
ROMA - La querelle sulla Padania si arricchisce di un nuovo capitolo. I leghisti "urlano per non far sentire la verità". E "fanno fumo per nascondere l’assenza dell’arrosto". Sono questi i toni che FareFuturo 1, la fondazione vicina al presidente della Camera Gianfranco Fini, utilizza per replicare all’intervista rilasciata a Repubblica 2 dal leader del Carroccio Umberto Bossi. E cresce la polemica sull’esistenza della Padania, bollata da Fini come "un’invenzione lessicale". "Ci sono grosso modo 10 milioni di persone disposte a battersi per la Padania, quindi esiste" la nuova replica di Bossi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini: "La Padania è uno slogan efficace inventato per gli elettori". Luca Zaia, governatore leghista del Veneto: "Se la Padania è un’invenzione allora lo sono anche il Sud e la questione meridionale". Intanto un sondaggio Ispo: "Solo il 10% dei cittadini del Nord è favorevole alla secessione e alla creazione della Padania".
FareFuturo. La replica dei finiani è affidata a un corsivo di Filippo Rossi. Che su FareFururo Web Magazine scrive: "Avevamo promesso di non polemizzare con la Lega per almeno un mese. Promessa infranta. Chiediamo umilmente scusa, ma non ne possiamo fare a meno". E ancora: "Loro urlano per non far sentire la verità. Fanno fumo per nascondere l’assenza dell’arrosto". Per Rossi, le argomentazioni usate da Zaia (che ha parlato di area socio-economia) non fanno altro che confermare la bontà delle posizioni di Fini. "La Padania che non esiste è quella di cui parla l’articolo primo dello Statuto della Lega Nord: la Padania come Repubblica Federale indipendente e sovrana".
Bossi: "Padania, eccome se esiste". "Ci sono grosso modo 10 milioni di persone disposte a battersi per la Padania: vuol dire che esiste". Così Umberto Bossi replica nuovamente al presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Certo, non c’è lo stato padano, ma la Padania esiste" precisa il leader del Carroccio.
Zaia e Cota. I neo-governatori del Veneto e del Piemonte si schierano in difesa delle posizioni di Bossi. Per Roberto Cota, "Fini può dire quello che vuole, ma la Padania esiste. E’ sempre esistita nella storia; esiste nella realtà socioeconomica e la controprova sono i nostri consensi, che aumentano sempre di più. Poi la provocazione di Luca Zaia: "Se la Padania è un’invenzione allora lo sono anche il Sud e la questione meridionale. La Padania intesa come area socio-culturale, economica e politica è una realtà censita a livello nazionale e internazionale dai più autorevoli osservatori".
La controreplica di Fini. "Accetto la sfida: sarò più presente al nord. Lì servono meno tasse, non badiere verdi". Il presidente della Camera affida al sito di Generazione Italia 3, attraverso una risposta ad un lettore del nord, la replica ai governatori del Carroccio. "Perdere tempo a discutere di una cosa che non esiste 4 (la Padania) ci mette fuori strada rispetto al problema vero: come permettere al motore economico dell’Italia di essere competitivo e vincente nell’economia globalizzata. E quindi meno tasse, meno burocrazia, meno lacci e lacciuoli".
"E non dimentichiamo - ha aggiunto il presidente della Camera - che non possiamo eliminare con un tratto di penna la questione meridionale: metà del Paese è nelle mani della criminalità organizzata e ha un reddito pro-capite di circa la metà rispetto a quello del Nord". Fini ha concluso precisando che, dal suo punto di vista, la "favola-Padania" serve solo "a gridare contro "Roma ladrona" per poi però continuare a lasciare tutto così com’è".
Il sondaggio Ispo. Soltanto il 10 per cento dei cittadini del Nord, Emilia Romagna esclusa, è favorevole alla secessione e alla creazione della Padania come stato indipendente. Sono questi i dati di un sondaggio rivelati dal presidente dell’ISPO Renato Mannheimer. E il "sentimento secessionista" non sarebbe diffuso neanche tra la maggioranza degli elettori della Lega. Per Mannheimer, "all’interno degli elettori della Lega, il 40% circa vuole staccarsi dal resto dell’Italia. Il sentimento secessionista è più forte in Veneto, seguono Lombardia e Piemonte".
* la Repubblica, 22 giugno 2010
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita. Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010
Pretendiamo rispetto
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 15.06.2010)
Ennesimo attacco del premier contro i giudici, che sarebbero “politicizzati” e avrebbero l’obiettivo di rovesciare per via giudiziaria il risultato elettorale. Tesi non priva di un che di grottesco. Liquidata dalla “Jena”, sul quotidiano “La Stampa”, osservando che dopo 16 anni di tentativi inutili i giudici andrebbero licenziati per manifesta incapacità...
Ma l’ironia non basta. La ripetizione ossessiva di una tesi, anche bislacca, con martellanti campagne spesso prive di contraddittorio, finisce per diffondere e consolidare un pregiudizio pericoloso per la democrazia. Perché in democrazia la fiducia dei cittadini nella giustizia non è un optional, ma un elemento strutturale: se viene meno, si affaccia il rischio di derive illiberali e disgreganti. I tentativi del premier di circoscrivere i suoi attacchi ad una parte della magistratura non sono credibili perché smentiti dalle vicende degli ultimi anni. L’attacco si è rivelato a geometria variabile, nel senso che è di assoluta evidenza come siano stati costretti a subirlo tutti i magistrati (proprio tutti: pm e giudici, fino alle Sezioni Unite della Cassazione e addirittura alla Corte costituzionale) che adempiendo i loro doveri, in qualunque città o ufficio, abbiano avuto la sventura di imbattersi in interessi che pretendono di sottrarsi ai controlli istituzionali previsti per tutti gli altri.
Ma l’obiettivo di una propaganda tanto infondata quanto insistita è anche distogliere l’attenzione rispetto ai veri problemi che angosciano il Paese. Riproporre il vecchio ma sempre verde ritornello della magistratura politicizzata significa parlare meno della crisi economica; della manovra finanziaria; delle pensioni; del lavoro che non c’è o se c’è è sempre più spesso nero, precario, insicuro.
Significa provare ad offuscare la realtà incontestabile di una legge sulle intercettazioni che stritola in una tenaglia micidiale informazione, investigazione e sicurezza dei cittadini, picconando in un colpo solo alcune pietre angolari della democrazia.
Significa continuare ad ignorare la catastrofe annunziata del sistema giustizia, per tirare invece la volata a riforme che invece di migliorare anche solo un poco l’efficienza del sistema taglieranno ancora di più le unghie agli inquirenti. Dunque, evocare complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte può essere utile perché sempre meno si ragioni sui fatti. Ma questi metodi e questa cultura rischiano di uccidere la verità e la giustizia, rendendo un pessimo servizio al Paese.
L’Associazione nazionale magistrati, facendo il suo mestiere, prova ad arginare questa strumentale ondata di propaganda basata sul nulla, ma gli spazi che riesce a ritagliarsi sono sempre più esigui. Il Consiglio superiore della magistratura ha sempre fatto di tutto per difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici contro gli attacchi di certa politica, ma non possiede radio o televisioni che diffondano ovunque il suo “verbo”. Anzi, dovrà presto pagare il rifiuto sempre opposto alle richieste di maggior “docilità” subendo una trasformazione (due Csm separati per separare le carriere, in vista della agognata - anche se a parole negata - sottoposizione del pm al governo), trasformazione che non è prevista dalla Costituzione, ma tanto si sa che la Costituzione è vista da qualcuno come una pratica da archiviare, non come una Carta di valori irrinunciabili, una spinta al continuo miglioramento del tasso di democrazia del sistema, che nello stesso tempo funziona da argine ai tentativi di arretramento.
Il ministro Guardasigilli, il presidente della Camera e il presidente del Senato potrebbero, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, intervenire in qualche modo per recuperare un clima di rispetto verso l’ordine giudiziario. Non mi sembra che abbiano molta voglia di farlo. E allora, non resta che sperare in qualcun altro. Che però è troppo in alto perché possa arrivargli la voce sommessa di uno dei tanti servitori dello Stato stanchi di essere vilipesi “a gratis”.
L’inciucio
È cosa non buona e ingiusta
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 20.12.2009)
Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.
Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.
Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.
Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.
Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».
Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.
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I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.
Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.
Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.
È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri. In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.
I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.
È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.
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Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.
Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.
Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.
Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.
Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?
La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.
Messaggio del premier a una manifestazione di solidarietà organizzata a Verona
"Mi date un’ulteriore spinta. L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ripetuto
Berlusconi: "Vado avanti per il bene del Paese" *
VERONA - "Andrò avanti per il bene del Paese". Questo il messaggio inviato stamane da Silvio Berlusconi ai partecipanti all’iniziativa indetta in Piazza Brà a Verona una settimana dopo l’aggressione subita dal premier a Milano. "Queste manifestazioni - ha detto Berlusconi, che ha chiamato al cellulare il sottosegretario Aldo Brancher - mi danno una ulteriore spinta ad andare avanti e a sostenere il nostro impegno per il bene del Paese".
"Sono commosso - ha aggiunto il presidente del Consiglio - e ringrazio Verona che ha per prima voluto organizzare questa manifestazione di solidarietà". "L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ribadito Berlusconi usando le parole pronunciate il giorno in cui è uscito dall’ospedale San Raffaele e scritte lo stesso slogan dello striscione che questa mattina campeggiava sulla scalinata del Municipio di Verona. "Questo è il messaggio - ha proseguito il premier - che stiamo portando in giro per tutta l’Italia". "Sotto l’albero di Natale - ha detto ancora, rivolgendosi ai sostenitori - regalate una tessera del Pdl".
In piazza Brà, secondo una prima stima, un migliaio di persone, tra le quali oltre a Brancher il sottosegretario Alberto Giorgetti, e vari sindaci e assessori comunali. La manifestazione si è chiusa con le note di "Meno male che Silvio c’è".
* la Repubblica, 20 dicembre 2009
Il presidente della Repubblica parla alle alte cariche dello Stato
"Serve massima condivisione per fare le riforme. Ma il clima non è buono"
Napolitano: "Nessun complotto
la Costituzione garantisce il governo"
ROMA - "Bisogna guardare con ragionevolezza allo svolgimento di questa legislatura ancora nella fase iniziale, non si paventino complotti che la Costituzione e le sue regole rendono impraticabili contro un governo che goda della fiducia della maggioranza in Parlamento". Giorgio Napolitano pronuncia parole chiare sulle tensioni politiche che agitano l’Italia. Ricordando la funzione di salvaguardia della Costituzione che impedisce "scorciatoie". E rilanciando la necessità delle riforme.
Parlando con le alte cariche dello stato al Quirinale, il presidente definisce il Parlamento "compresso", denunciando l’uso di "fiducie e maxiemendamenti". Invitando, infine, "alla più larga condivisione, strada maestra per realizzare le riforme istituzionali, strada percorribile". Cosa non facile, però. Soprattutto oggi: "Il clima non è ancora favorevole. Proprio per questo è necessario fermare il degenerare della violenza e nessuno si deve sottrarre". Ricorda l’aggressione a Berlusconi, Napolitano. Definendola "un fatto assai grave, di abnorme inconsulta violenza, che ha costituito motivo non solo di profondo turbamento ma anche di possibile (ne abbiamo visto i primi segni) ripensamento collettivo".
Certo Napolitano non sottovaluta l’esasperazione che segna il mondo della politica ("una conflittualità che va ben oltre il tasso fisiologico delle democrazie mature"), ma sottoliena come l’Italia non sia "un paese ’diviso su tutto. Stiamo attenti a non lacerare quel fondo di tessuto unitario vitale e condizione essenziale per affrontare i problemi".
Il Capo dello Stato ribandisce poi l’importanza del mantenimento degli impegni assunti, a cominciare da quello della guerra in Afghanistan: non si tratta infatti di "una missione o una guerra americana, ma un impegno della comunità internazionale e dell’Onu con l’unico scopo di proteggere il mondo dal terrorismo internazionale". "Per quanto serie siano le difficoltà di carattere finanziario non possiamo in nessun modo venir meno agli impegni presi - spiega il presidente - perché il ruolo che l’Italia svolge è fondamentale per la sua reputazione internazionale".
* la Repubblica, 21 dicembre 2009