Il giurista e le interviste partigiane
di Michele Ainis (La Stampa, 17/6/2010)
C’ erano un tempo politici di destra e di sinistra, ciascuno intruppato nel proprio schieramento.
Ora ti capita d’incrociare Gianfranco Fini, che milita a destra ma è caro alla sinistra.
Oppure Pierferdinando Casini, che in Parlamento vota insieme alla sinistra mentre il suo cuore batte a destra. Chi può restituirci le nostre geometrie perdute? Stampa e tv una soluzione l’hanno rimediata: i costituzionalisti.
Ne parlo qui per esperienza personale, ma è l’esperienza di tutti i miei colleghi. C’è in cantiere una legge sulle intercettazioni? Doppia intervista con un giurista contrario alla nuova normativa e uno favorevole (quest’ultimo più raro sul mercato, ma fa niente, vuol dire che gli toccheranno sei interviste al giorno). C’è un progetto di riforma del bicameralismo? Della giustizia? Dell’immunità per le alte cariche? Idem, anzi doppio idem. Una volta un tg nazionale mi ha chiesto una dichiarazione per difendere la promulgazione d’una legge contrastata, avendo già incassato l’opinione avversa: un’intervista a risposta obbligata. E se tu spiazzi il giornalista dicendo il contrario di ciò che lui s’aspetta? Non ti pubblica, e non ti chiamerà mai più in futuro: inaffidabile.
Qualcuno di noi (pochi) si sente un po’ a disagio a indossare una maglietta da tifoso. Qualcun altro (molti) si compiace di quanto sia neutrale l’informazione qui in Italia, e soprattutto si compiace di leggere il proprio nome sui giornali. E la neutralità della scienza? Roba da Ottocento, l’importante è che sia partigiana la coscienza. L’importante, per noi addetti ai lavori, è difendere l’autorità della Costituzione, leggendola ovviamente da destra e da sinistra. Tanto più se quest’ultima si somma all’autorità degli ex presidenti della Corte costituzionale, anch’essi regolarmente intervistati in coppia: uno di destra e uno di sinistra.
C’è il dubbio che le loro performance da ex non giovino all’immagine d’imparzialità della Consulta? Allora basta intervistare un ex presidente di sinistra, tirando a sorte fra i molti candidati: o meglio di sinistra come costituzionalista, di destra come ex presidente, dato che la sua testimonianza suonerà giocoforza come una convalida alle accuse di Berlusconi contro la Corte «comunista». Noi costituzionalisti, per amor di patria, ci prestiamo al gioco. Ma perché dobbiamo essere gli unici a rappresentare la nostra patria bipolare? Metti per esempio i terremoti o il ponte sullo Stretto: per farcene un’idea obiettiva pretendiamo che anche sismologi e ingegneri vengano intervistati in coppia, uno a dritta, l’altro a manca.
michele.ainis@uniroma3.it
Sul tema, sul tema, si cfr.:
APPELLO DI ILLUSTRI GIURISTI IN DIFESA DELLA COSTITUZIONE
di Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Alessandro Pace, Alessandro Pizzorusso, Eligio Resta, Stefano Rodota’, Gustavo Zagrebelsky
Con una inammissibile precipitazione il Senato ha approvato in commissione un disegno di legge di riforma costituzionale che s’intende portare in aula gia’ martedi’ prossimo. Ma la Costituzione non puo’ essere profondamente mutata senza una vera discussione pubblica, senza che i cittadini adeguatamente informati possano far sentire la loro voce. E’ inaccettabile che la richiesta di partecipazione, cosi’ forte ed evidente proprio in questo momento, venga ignorata proprio quando si vuole addirittura modificare l’intero edificio costituzionale. I cittadini, che negli ultimi tempi sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione, non possono essere messi di fronte a fatti compiuti.
Offrendo ad una opinione pubblica offesa da prevaricazioni e prepotenze un’esigua riduzione del numero dei parlamentari, che passerebbero da 630 a 508 alla Camera e da 315 a 254 al Senato, si vuol cogliere l’occasione per alterare pericolosamente l’assetto dei poteri istituzionali (la riduzione dei parlamentari puo’ essere affidata ad una legge costituzionale a se’ stante, senza stravolgere la Costituzione). Viene attribuita una posizione assolutamente centrale al Presidente del Consiglio, mortificando il Parlamento e ridimensionando in maniera radicale la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. Il Parlamento e’ conculcato nelle sue stesse funzioni e nella sua liberta’, fino a poter essere sciolto dallo stesso Presidente del Consiglio, nel caso votasse contro una sua legge sul quale fosse stata posta e negata la fiducia. L’intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e rende marginale il ruolo del Presidente della Repubblica. I problemi del bicameralismo vengono aggravati, il procedimento legislativo complicato. Gli equilibri costituzionali sono profondamente alterati, cancellando garanzie e bilanciamenti propri di un sistema democratico. E ora si propone di passare da una repubblica parlamentare ad una presidenziale, di mutare dunque la stessa forma di governo, addirittura con un emendamento che sara’ presentato in aula all’ultimo momento.
I firmatari di questo documento denunciano all’opinione pubblica la gravita’ di questa iniziativa per i pregiudizi che puo’ arrecare alle istituzioni della repubblica e si rivolgono a tutti i parlamentari perche’ rinuncino a portare avanti una modifica tanto pericolosa del sistema costituzionale.
Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Alessandro Pace, Alessandro Pizzorusso, Eligio Resta, Stefano Rodota’, Gustavo Zagrebelsky
La menzogna di Stato
di Francesco Merlo (la Repubblica, 18.06.2010)
Gianni De Gennaro non è un uomo qualunque, è da moltissimi anni un pezzo importante dello Stato italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello. Ma proprio per questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo alle quali purtroppo stiamo invece assistendo.
Un servitore dello Stato, un ex capo della Polizia oggi Signore dei servizi segreti, non può apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza ma ha il dovere di liberare lo Stato dalla fosca ombra che lo sovrasta. Non sappiamo cosa De Gennaro deciderà, ma abbiamo fiducia nella sua coscienza, nel suo spirito di servizio, nel suo alto senso dello Stato che, mai come oggi, coincide con la sua dignità di insospettabile.
E però, più inquietante della sentenza c’è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito", del ministro dell’Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l’apparire come una prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell’idea rigorosa di Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia assoluta? Neppure De Gennaro è, secondo noi, solidale con se stesso come Maroni e Alfano lo sono con lui. E se fosse stato direttore del Tg1 o del Tg5 di sicuro De Gennaro avrebbe evidenziato nei titoli la notizia che invece Minzolini e Mimun hanno nascosto. Come si fa a non capire che delegittimare o malcelare una sentenza così rilevante finisce con il rafforzarla, con il fornire ulteriori argomenti alla colpevolezza?
Insomma, più grave della sentenza c’è la complicità politica con il reo, l’idea che la politica possa annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello lo scontato crucifige ideologico dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si tratta in fondo di pezzi di un’opposizione d’antan e tribunizia di pochissimo peso istituzionale. Ben più indecente è l’amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità che somigliava - ci è parso - allo sconcerto trattenuto, allo scandalo dissimulato. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato, magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il suo operato vulnera l’istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando invece è un pezzo di Stato?
Ma voglio essere ancora più chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle costruite a freddo contro degli inermi. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C’è una nobiltà nella ignobiltà che ha commesso.
Ma la solidarietà dei ministri degli Interni e della Giustizia sconfessa l’operato dei giudici in maniera sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l’amicizia rendono innocente anche un reo condannato. L’impunità è la peggiore delle sporcizie di Stato.
La buona democrazia e il pericolo delle oligarchie
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17 giugno 2010)
Nel nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt’altro. Non te ne dai pace e, invece d’adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non riconoscere d’avere torto.
Così, sei non lealmente democratico, ma subdolamente aristocratico, perché pensi tu d’avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d’essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...).
La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche), si presenta come l’unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è proposta come valore universale dell’umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l’uso delle armi, al fine di «esportarla») (...).
Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più diverse. Con l’ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può presentarsi come l’organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell’interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d’altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch’essi non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l’ideologia. E la realtà? (...).
Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l’odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l’oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d’ordine degli esclusi dal potere; ora sembra diventare l’ostentazione degli inclusi. Presso i cittadini comuni, non c’è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni.
C’è, in breve, una reazione antiretorica alla retorica democratica. Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d’allarme: «democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l’occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L’esito potrà essere l’astensione o l’adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un’abdicazione.
È questa la più immediata espressione di uno scetticismo a-democratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall’alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c’è evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale.
Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un’efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l’anti-democrazia (...).
Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza all’oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l’uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così essere il regime dell’illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio maggioritario», che è l’essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio minoritario», che è l’essenza dell’autocrazia: un’autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un’autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...).
Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l’uno sopra l’altro. L’immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l’ha. Divisione profonda, fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura, è una vera e propria struttura costituzionale materiale.
Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall’altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all’organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto.
L’asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi nello scambio e nell’intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l’essere venuti meno a un patto di scambio?
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell’illegalità. Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva (...).
Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia e della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, dell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l’amore per l’uguaglianza sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose comuni (...). Con questo passaggio, l’attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell’avere separato questi due aspetti e nell’avere oscurato il secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare «democraticamente» (...).
Poiché nessuna tecnica d’organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia
su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia
ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o
non ne sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo
delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie
ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della
trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l’informazione.
Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia,
sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l’onesta misurazione del
consenso e del dissenso.
La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l’ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra, anziché dal carattere (ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti decenni un’autentica pedagogia democratica è mancata (...). Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell’indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l’esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla diffusione dell’istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall’ignoranza e dall’analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia?
In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell’uomo così com’è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l’uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa.
Ma «l’uomo così com’è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica - certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere con l’etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari.
Allora? Come conciliare gli opposti: l’inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di un’educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è dell’autorità. Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell’autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c’è solo qualche forma di autocrazia, c’è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più è possibile.
Con la crisi democrazie a rischio
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 20/6/2010)
In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.
Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato - l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 - ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».
La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.
Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(...) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).
La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.
È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.
In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.
Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma - quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi - sta precipitando».
Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.
La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.
Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.
L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica.
La forza della verità
di MASSIMO GIANNINI *
A VOLER interpretare i segni che promanano dal "corpo mistico del re" secondo i moderni canoni fisio-politici codificati dal berlusconismo, quella di ieri si può considerare una giornata di svolta. Oppresso dalla cappa di "tagli e bavagli" che il suo stesso governo ha imposto a se stesso e al Paese, il presidente del Consiglio è stato costretto suo malgrado ad annunciare una probabile marcia indietro 1 sui due fronti più esposti e rischiosi di questa fase della legislatura: la manovra economica e, soprattutto, il ddl sulle intercettazioni.
Non deve ingannare l’ennesimo "falso ideologico" sollevato dal premier per giustificare l’ultima, e forse la più intollerabile delle leggi-vergogna: "Siamo tutti spiati", ha ripetuto come un disco rotto, replicando un calcolo volutamente artefatto: "I telefoni controllati sono 150mila: considerando 50 persone per ogni telefono, vengono fuori così 7 milioni e mezzo di persone che possono essere ascoltate. Questa non è vera democrazia...". Le rituali menzogne, spacciate come verità sul mercato della paura, ma palesemente smentite dai dati dello stesso ministero della Giustizia. In Italia i "bersagli intercettati" sono in realtà 132.384, laddove per "bersaglio" si intende un singolo che dispone in media di 5,3 utenze telefoniche (tra telefono fisso, cellulare personale, cellulare aziendale e utenze di parenti). Dunque, se si dividono i 132.384 "bersagli" per 5,3 utenze viene fuori che le persone effettivamente intercettate sono 26 mila, cioè lo 0,045% dell’intera popolazione nazionale. Altro che 7 milioni e mezzo.
Ma stavolta quello che conta sottolineare non è tanto l’ennesima menzogna di Berlusconi. Stavolta, nel suo intervento davanti alla sempre plaudente assemblea della Confcommercio, c’è qualcosa di nuovo e di diverso, che merita di essere sottolineato. C’era un tono di vaga rassegnazione, nelle parole con le quali Berlusconi ha esposto il complicato scenario che si profila nell’iter della legge-bavaglio: "Noi abbiamo preparato il provvedimento in quattro mesi, ma ora si parla di metterlo in calendario per il mese di settembre, poi bisognerà vedere se il Capo dello Stato lo firmerà e poi quando uscirà ai pm della sinistra non piacerà e si appelleranno alla Consulta che, secondo quanto mi dicono, lo boccerà...".
In questo "periodo ipotetico" non c’è solo la rappresentazione dei consueti svarioni di sintassi costituzionale: il Parlamento come un orpello inutile, la presidenza della Repubblica come un intralcio fastidioso, la magistratura e i giudici come nemici irriducibili. C’è anche il riconoscimento di un errore di grammatica politica: il centrodestra rischia di non reggere l’urto di un testo come quello sulle intercettazioni, contro il quale si concentrerà presto l’attenzione degli organi di garanzia della Repubblica, e nel frattempo si sta già concentrando un pericoloso fuoco incrociato: quello interno che cova dentro la maggioranza, e quello esterno che monta presso l’opinione pubblica. Dunque, meglio fare un passo indietro, e accogliere le richieste di modifica a un provvedimento che ormai persino gli organismi internazionali considerano una minaccia per le indagini giudiziarie e una lesione dei diritti dei cittadini. Le notizie fatte filtrare in serata da Palazzo Grazioli sembrano confermare questa disponibilità al confronto.
Vedremo nelle prossime ore se si tratta di una ritirata strategica, o invece solo di una mossa tattica. Quando mostra di arretrare, spesso il Cavaliere prepara una controffensiva, magari su terreni e con arsenali diversi. Ma in questo caso il sentiero è per lui oggettivamente assai stretto. Sulla manovra da 25 miliardi c’è il nervo scoperto di Bossi: è difficile reggere il nervosismo della Lega, che vive con crescente disagio la crociata dei governatori, a partire proprio dal lombardo Formigoni, contro "i tagli agli enti locali che uccidono il federalismo": la gente, compresa quella del Nord, comincia a sospettare che sia vero, e questo spiega le aperture del Senatur alle correzioni richieste dalle regioni.
Sulla legge-bavaglio la morsa intorno al premier è ancora più stretta. C’è la dottrina: è difficile non ascoltare gli allarmi sui vizi di legittimità sollevati da fior di costituzionalisti. Ci sono le istituzioni: è altrettanto difficile non immaginare che queste correnti di pensiero siano ignorate da Giorgio Napolitano (che sarà chiamato nelle prossime settimane a promulgare quel provvedimento) e dalla Consulta (che sarà chiamata nei mesi successivi a valutarne la costituzionalità). C’è Gianfranco Fini: è impossibile non vedere che la "corrente" del presidente della Camera, dentro il Pdl, si sta riorganizzando in vista del dibattito a Montecitorio e che, forte del ruolo istituzionale di Giulia Bongiorno, ha i numeri per impallinare quel testo almeno in Commissione giustizia, grazie anche all’opposizione (finalmente ferma e trasversale) sollevata dal Pd insieme a Udc e Idv.
E poi c’è l’opinione pubblica. Il successo della campagna di questo giornale sui post-it, la straordinaria partecipazione della rete e del popolo viola, le iniziative di protesta annunciate dalla Federazione nazionale della stampa: la diffusa mobilitazione di queste settimane dimostra che quella contro la legge-bavaglio non è solo una battaglia per la legalità, che pone un serio problema di coerenza ad un centrodestra tutto chiacchiere e distintivo, capace solo di predicare "legge e ordine" salvo poi praticare la destrutturazione sistemica dei codici e della Costituzione. Ma conferma che questa è anche una battaglia per la libertà, che pone un problema ancora più gigantesco per la qualità della nostra democrazia, in cui il diritto dei giornali di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non può essere disgiunto dal dovere di chi governa di "rendere conto" al popolo che non è chiamato solo a votare, ma anche a pensare.
Ecco perché questa legge, così com’è stata concepita, non può passare. La democrazia è limite. E con questo provvedimento quel limite è drammaticamente valicato. Tanti italiani lo hanno capito. E sarebbero ancora di più se tutti i giornali combattessero senza riserve e senza furbizie questa battaglia. In un testo pubblicato sull’"Encyclopedia Americana" un secolo fa Joseph Pulitzer scriveva: "Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo...". È la grande "lezione" di uno dei padri del giornalismo occidentale. C’è ancora tempo perché tutta la grande stampa, senza eccezioni, la spieghi anche a Silvio Berlusconi.
m.giannini@repubblica.it
* la Repubblica, 17 giugno 2010