CARO GIANNINI
PRIMA DI TUTTO, LA CARTA D’IDENTITA’:
SEI O NON SEI UN CITTADINO D’ITALIA?!
ALLORA SI PONGA SUBITO (ED E’ GIA’ TARDISSIMO) ALL’O.d.G. IL PROBLEMA DI RESTITUIRE IL NOME “ITALIA” A TUTTI I CITTADINI E A TUTTE LE CITTADINE, AL PARLAMENTO, E AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA D’ITALIA (APPUNTO!!!).
CHE UN CITTADINO RUBI IL NOME DI TUTTO UN POPOLO, NE FACCIA IL NOME E LA BANDIERA DEL PROPRIO PARTITO PERSONALE E REALIZZI LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA POLITICA ITALIANA ... E’ SOLO IL SEGNO di un totale sonnambulismo e rimbambimento e di UNA GENERALE E COLLETTIVA VOLONTA’ DI morte CIVILE CULTURALE E POLITICA!!! O NO?!
SE NON LO VOGLIAMO CHIAMARE GOLPE (IN PROGRESS), E’ ALMENO UN gigantesco conflitto d’interessi....
Il Presidente della Repubblica Napolitano grida: Forza ITALIA; ma Schifani, Frattini e Fini gridano per il PARTITO del “popolo della libertà”: "Forza ITALIA"!!!
Che schifo, questo tacito consenso generale!!!
M. saluti e buon lavoro!!!
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
di MASSIMO GIANNINI *
ANCORA una volta dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano. Il suo richiamo al rispetto dei "principi fondamentali della Costituzione", che nessuno "può pretendere di modificare o di alterare", è la terapia più tempestiva ed efficace contro la "sindrome di Cromwell" che ormai pervade il presidente del Consiglio, come ha magistralmente spiegato Gustavo Zagrebelsky nell’intervista a Repubblica di ieri. In un equilibrio sempre più instabile tra i poteri dello Stato, il presidente della Repubblica resta il garante più credibile della nostra democrazia. L’argine più forte rispetto all’autoritarismo plebiscitario del Cavaliere. Silvio Berlusconi può anche sublimare la sua inesauribile vena mimetica e mistificatoria, e dire "il Quirinale non ce l’aveva con me".
Ma è un fatto che il richiamo del Capo dello Stato arriva proprio all’indomani dell’annuncio tecnicamente "eversivo" del premier: la modifica unilaterale della Costituzione, imposta forzosamente al Parlamento e poi sottoposta eventualmente al giudizio del popolo sovrano attraverso il referendum confermativo. Ed è un fatto che quel richiamo tocca il nervo più scoperto del "berlusconismo da combattimento": l’ossessione giudiziaria, che spinge il premier a forzare le regole fino al punto più estremo.
Non solo piegando lo Stato di diritto in Stato di governo (con l’uso personale dei "lodi" e delle leggi). Ma addirittura trasformando la Costituzione in "strumento di potere" (come ha osservato ancora Zagrebelsky). Questo, e non altro, è il disegno del Cavaliere. Per quanto dissimuli, il premier racconta almeno due bugie. La prima bugia riguarda la forma. Berlusconi mente quando dice che il suo progetto non lede la Carta Costituzionale e i suoi principi fondamentali, perché "le ipotesi di riforma della giustizia, come per esempio quelle relative ad un intervento sul Csm, non riguardano questi principi". Non è così. Il Consiglio superiore della magistratura è organo di rilevanza costituzionale, disciplinato dall’articolo 104 all’articolo 113. E come insegna la dottrina, "è la massima espressione dell’autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato (in particolare il governo)".
Dunque, nel dettato costituzionale la disciplina giuridica del Csm è intrinsecamente collegata al principio fondamentale su cui si regge l’intera giurisdizione, cioè la magistratura come "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". Per questo, al contrario di quello che sostiene il presidente del Consiglio, riscrivere le norme costituzionali sul Csm può tradursi facilmente in una lesione dei principi fondamentali e in una manomissione dei cardini della nostra democrazia, che si basa sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri.
La seconda bugia riguarda la sostanza. Berlusconi mente quando dice che la riforma della giustizia per via costituzionale è irrinunciabile perché in caso contrario verrebbe meno uno degli impegni presi in campagna elettorale. Non è così. Nel programma del Pdl non c’è traccia di una riforma costituzionale del sistema giudiziario. E non è mai menzionata la separazione delle carriere. L’unica proposta concreta, contenuta nel decalogo berlusconiano, riguardava genericamente una "distinzione più marcata delle funzioni tra i giudici e pm". Perché ora il premier ha cambiato idea, se non per rimettere in riga la magistratura, giudicante e requirente, scorporando i pubblici ministeri dall’unico ordine giudiziario e subordinandone l’attività al controllo del potere politico? Qui sta la natura "rivoluzionaria", e per certi versi post-democratica, della visione berlusconiana. L’uso congiunturale delle istituzioni, l’uso strumentale dei fatti.
A rimettere in moto la necessità della sedicente "riforma costituzionale" della giustizia è lo scontro tra le procure di Salerno e Catanzaro intorno all’inchiesta "Why not". Uno scontro rovinoso per la credibilità delle toghe, e indecoroso per l’immagine della Repubblica. Ma al contrario di ciò che urlano i rappresentanti del centrodestra, il progetto di Berlusconi e Alfano sarebbe stato del tutto inutile a prevenire l’esplosione di quel conflitto, incubato esclusivamente nell’ambito della magistratura requirente. Se c’è una vera emergenza, quella non riguarda né la separazione delle carriere, nè il Csm. Ma solo la maggiore rapidità ed efficienza della macchina giudiziaria, che si può agevolmente raggiungere per legge ordinaria. Di tutto questo, nel piano del Cavaliere sulla giustizia non c’è traccia.
Stupisce che molti osservatori non vedano i rischi insiti in questa offensiva berlusconiana, e scambino la difesa della Costituzione per difesa di una corporazione. La giustizia va cambiata. Ma nell’interesse collettivo. Non nell’interesse soggettivo di chi (come denuncia Valerio Onida sul Sole 24 Ore) è pronto a fondare una "Costituzione di maggioranza". La Costituzione è di tutti. E tale vorremmo che restasse.
m.giannini @ repubblica.it
* la Repubblica, 13 dicembre 2008
La notte della repubblica
di Massimo Giannini (la Repubblica, 28.01.2011)
Questa è la notte della Repubblica. La crisi del berlusconismo precipita il Paese nel «conflitto istituzionale permanente». Parlamento contro Procure. Presidente del Consiglio contro presidente della Camera. Palazzo Madama contro Montecitorio. Ministro degli Esteri contro terza carica dello Stato. Nessuna delle istituzioni repubblicane è ormai più al riparo.
In questa disperata guerra per la sopravvivenza dichiarata al resto del mondo, il Cavaliere è ormai pronto ad usare tutte le armi possibili. Bugie pubbliche e forzature politiche. Abusi di potere e dossier avvelenati. È la «strage delle regole». Tutto quello che avviene è ai margini o al di fuori del sistema delle norme codificate. Lo è lo spettacolo andato in onda alla Camera, dove la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha deciso di rinviare a Milano gli atti dell’inchiesta su Ruby, stabilendo una singolare competenza: quella del Tribunale dei ministri che giudica nel «merito» delle accuse. Lo è lo spettacolo andato in onda al Senato, dove Franco Frattini si è trasformato per un quarto d’ora in un pubblico ministero, emettendo una sua singolare «sentenza»: il governo ha la prova che inchioda Gianfranco Fini sulla famosa casa di Montecarlo.
La logica politica che c’è dietro queste mosse incrociate è chiarissima. Si tratta di stabilire una rocambolesca inversione di ruoli e di responsabilità, agli occhi di un’opinione pubblica sempre più «sgomenta», per usare un termine condiviso da Giorgio Napolitano e Joseph Ratzinger. Non è il presidente del Consiglio che si deve dimettere per lo scandalo dei suoi «festini selvaggi» nella residenza di Arcore. È invece il presidente della Camera che si deve dimettere per lo scandalo della residenza monegasca svenduta sottobanco al cognato.
È una strategia collaudata: l’uso delle «armi di distrazione di massa», con le quali il premier e la sua «struttura delta» (fatta di manipolatori mediatici ed esecutori politici) cercano di destrutturare i fatti, confondere i piani, invertire le priorità. Sono pronti a tutto. Nel caso specifico, anche ad acquisire attraverso il ministero degli Esteri una presunta documentazione aggiuntiva proveniente dallo Stato offshore di Santa Lucia, che attesterebbe appunto l’effettiva titolarità dell’immobile di Montecarlo, di cui il vero proprietario sarebbe proprio Giancarlo Tulliani. Come e perché sono stati acquisiti i nuovi documenti? A che titolo la Farnesina li ha ottenuti, essendo aperta un’inchiesta giudiziaria della Procura di Roma ed essendo in questi casi prevista la «via normale» delle rogatorie?
Non c’è risposta a queste domande. Non sappiamo se abbia ragione l’avvocato di Fini, Giuseppe Consolo, che invece dice di avere la prova contraria. Non sappiamo se abbia ragione quell’esponente di Futuro e Libertà che ha denunciato Frattini per abuso d’ufficio. Non sappiamo se abbia ragione Italo Bocchino, che accusa Berlusconi di essere il mandante di questo ennesimo episodio di «dossieraggio». Sappiamo con certezza, e lo ripetiamo per l’ennesima volta, che il presidente della Camera avrebbe dovuto gestire in modo più chiaro questa vicenda, e che non potrebbe restare un minuto di più al suo posto là dove fosse effettivamente provata l’appartenenza di quella casa al fratello della sua compagna. Perché così gli impone l’etica pubblica di cui si dice portatore. E perché così ha promesso solennemente dal settembre 2010.
Ma sappiamo soprattutto un’altra cosa. In questo clima di guerra totale, il Paese non può reggere. Lo dice il Capo dello Stato: a chi gli ha parlato, in queste ore, Napolitano confessa la sua «grande preoccupazione» per questo «conflitto istituzionale permanente» che si è creato e che rischia di travolgere tutto. Proprio alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, alla quale il presidente della Repubblica parteciperà oggi in silenzio ma con «profonda inquietudine», vista l’offensiva contro la magistratura lanciata dal premier, dalla sua maggioranza e dai suoi giornali.
Il sistema istituzionale è al collasso. Il sistema politico è allo sfascio. Berlusconi è la causa di questa progressiva disgregazione democratica, che culminerà addirittura in una manifestazione organizzata dal Pdl per il prossimo 13 febbraio alla quale parteciperà il premier in persona. Un capo del governo che scende in piazza per protestare contro un altro potere dello Stato. Una cosa mai vista.
Per questo, prima che lo faccia il presidente della Camera, è molto più urgente che si dimetta il presidente del Consiglio. Poi accada quel che deve. Compreso il voto anticipato, se non c’è altra soluzione. Al punto in cui siamo, forse, le elezioni non sono più una minaccia, ma una necessità.
IL COMMENTO
Macelleria istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell’Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l’impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all’articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d’accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".
A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell’avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all’intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".
Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L’ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell’armata forzaleghista.
Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l’intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell’agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.
Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile showdown d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.
La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all’ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.
Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
* la Repubblica, 17 agosto 2010
La dottrina del Quirinale
di MASSIMO GIANNINI *
Come ogni Capodanno il "cuore d’Italia", da Palermo ad Aosta, batte all’unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un’opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l’assolutoria epifania del Partito dell’Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L’Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.
Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell’occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l’assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l’ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l’alibi biblico del Qoelet (c’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d’altro.
La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell’articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all’interesse generale", cioè all’esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell’unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.
La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell’idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l’esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l’origine dell’ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l’esistenza dell’ordine politico e dove perciò l’unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino). "Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all’alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.
© la Repubblica, 2 gennaio 2010
La minaccia di fine impero
di MASSIMO GIANNINI *
In una "normale" democrazia, bipolare e liberale, le parole di Renato Schifani suonerebbero come un’ovvietà. La maggioranza degli eletti è garante del patto programmatico sottoscritto con gli elettori attraverso il voto. Se quella garanzia salta, la parola torna al popolo sovrano. Nell’autocrazia berlusconiana, plebiscitaria e illiberale, questi concetti elementari diventano un’enormità.
Probabilmente è ancora presto per considerare il discorso del presidente del Senato come un "certificato di morte" del governo. Più verosimilmente quel testo riflette un male incurabile di questo centrodestra, ma non ancora la sua crisi finale. Va catalogato sotto la voce "minacce". Minacce alle istituzioni "nemiche": il capo dello Stato non si illuda, in caso di caduta di questo governo, di ripercorrere le orme di Scalfaro e di evitare le elezioni anticipate cercando altre maggioranze. Minacce alle istituzioni "amiche": Gianfranco Fini non si illuda, la sua idea di una destra laica, istituzionale, repubblicana, cioè "alta" e "altra" rispetto a quella da bassa macelleria costituzionale incarnata dal Cavaliere, non avrà diritto di cittadinanza fuori dal berlusconismo. Minacce alle opposizioni "interne": tutti coloro che, dentro la coalizione, sono tentati di seguire il presidente della Camera sui paletti alla legge-vergogna del processo breve, sulla bioetica, sull’immigrazione, magari anche sulla sfiducia a Cosentino, non avranno più un posto dove sedersi in Parlamento, in una quarta legislatura berlusconiana. Minacce alle opposizioni "esterne": il Pd non coltivi ambizioni neo-proporzionaliste, in uno schieramento che aggreghi tutti, dall’Udc all’Idv, perché in una nuova campagna elettorale il premier asfalterebbe qualunque "Comitato di liberazione nazionale".
C’è tutto questo, nel monito che il Cavaliere ha lanciato per interposto Schifani. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non leggere, in quelle parole, anche qualcosa di più serio e più grave. Per due ragioni. La prima ragione è tattica. Il ricatto delle elezioni anticipate, da tempo ventilato nei corridoi e adesso gridato dalla seconda carica dello Stato, rischia di non essere "un’arma fine di mondo", ma "una freccia spuntata". Intanto perché, a dispetto delle sue certezze ufficiali, il premier non è più così sicuro di vincere le elezioni. E poi perché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, svanirebbe per lui qualunque possibilità di costruirsi l’ennesimo "scudo" legislativo contro i processi Mills e diritti tv Mediaset. E lui di quella "protezione" ha un bisogno vitale. Anche a costo di far ingoiare al Parlamento un’altra dose di "ghedinate". Anche a costo di far riesplodere un conflitto istituzionale con il Quirinale e con la Consulta.
La seconda ragione è strategica. Se dopo appena venti mesi dal clamoroso trionfo del 13 aprile 2008 questa maggioranza è chiamata ogni giorno ad interrogarsi sulla sua sopravvivenza e ad esorcizzare lo spettro delle elezioni anticipate, vuol dire che un destino sta per compiersi. Nell’avvertimento del presidente del Senato di oggi si sente un’eco sinistra di quello che lanciò l’allora presidente della Camera nell’autunno del 2007. All’epoca Fausto Bertinotti definì Prodi, capo del governo unionista, "il più grande poeta morente", rubando la celebre definizione che Ennio Flaiano usò per Cardarelli. Per il Berlusconi attuale vale la stessa immagine. Anche il Cavaliere, ormai, appare come "il più grande poeta morente". Da mesi ha smesso di governare l’Italia. Da settimane mena solo fendenti contro alleati e avversari. Da giorni non riesce più neanche a parlare al Paese.
Sabato scorso il suo esegeta più fine, Giuliano Ferrara, si chiedeva sul Foglio: "L’avvenire del berlusconismo è forse alle nostre spalle?". La risposta è sì. Assisteremo ad altre scosse. Magari vedremo altri "predellini". Ma il Cavaliere, ormai, potrà solo sopravvivere a se stesso.
© la Repubbkica, 18 novembre 2009
Il potere illiberale
di MASSIMO GIANNINI *
"IL peggio deve ancora accadere". L’aveva scritto il direttore di questo giornale, solo cinque giorni fa. Mai profezia è stata più centrata. Il peggio sta accadendo. Il presidente del Consiglio chiama alla "ribellione" le forze produttive contro "un giornale che getta discredito non solo su di me, ma sui nostri prodotti, sulle nostre imprese, sul made in Italy". Anche se stavolta Berlusconi non lo cita per nome, quel giornale è naturalmente Repubblica. Un capo di governo che invita gli imprenditori a "ribellarsi" contro un quotidiano, "colpevole" solo di rivolgergli dieci domande alle quali non è in grado di rispondere, non si era ancora visto in nessun Paese dell’Occidente.
È una deriva populista, e peggiorista, che non ha più limiti. Ma benché aberrante, c’è coerenza in questo delirio. Prima arringa gli industriali: rifiutate la pubblicità a questo giornale. Poi accusa il Corsera: sarebbe addirittura "anti-berlusconiano". Ora attacca di nuovo Repubblica: è "anti-italiana". Viene fuori, incontenibile, la natura illiberale e anti-istituzionale del Cavaliere. Non tollera le critiche della stampa, non accetta le regole della Costituzione. Da uomo politico nega lo Stato, da imprenditore nega il mercato.
L’"editto di Monza" lo conclude con una battuta che tradisce la dimensione tecnicamente totalitaria del suo "premierato di comando": "Alla democrazia ghe pensi mi". Lo dice. Lo pensa. Ecco perché siamo preoccupati per il futuro di questo Paese.
© la Repubblica, 13 ottobre 2009
Gli ordini di guerra
di Massimo Giannini (la Repubblica, 09.09.2009)
Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un’ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico «berlusconismo di lotta e di governo» a un vero e proprio «berlusconismo di guerra».
Il caso di Gianfranco Fini è l’ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di «fare squadra». Pensa così di convincere a «rientrare nei ranghi» (come da «consiglio non richiesto» di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce «la fase due del grande gioco al massacro» che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l’alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.
Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c’è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c’è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l’ha già persa. Non lo testimoniano solo l’assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l’imbarazzante difesa d’ufficio di pochi luogotenenti dell’ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal «Giornale». Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l’atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella «rivoluzione del predellino» che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del «partito unico», che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.
È lì che il presidente della Camera, nel definire «compiuta» la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c’era già la negazione del berlusconismo. E c’era già tutto ciò che l’impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl «con la schiena dritta». Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?
Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell’ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del «Secolo» e di «Farefuturo», hanno un bel recriminare, contro «un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti», o contro il disegno «di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato». Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, «una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell’antipolitica», o una grande forza plurale «che parli la lingua di Cameron e Sarkozy», «un grande partito dei moderati» ispirato ai «grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia».
Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d’area, purtroppo l’hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull’unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell’accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l’agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un’«altra destra» era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del «berlusconismo da combattimento». Oggi il Pdl è proprio quella «casermetta in cui qualcuno comanda» e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: «In Italia ormai non si tenta di demolire un’idea, ma colui che di quell’idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone... ». Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante «divisioni» ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un’«altra destra» possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l’ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.
La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il «buon politico» deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all’interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: «politica e testimonianza morale sono incompatibili».
L’unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la «testimonianza morale» dell’ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.
Lo Stato d’eccezione
di Massimo Giannini (la Repubblica, 30.07.2009)
Il miserabile spettacolo del decreto anti-crisi è un misto tra il teatro di Ionesco e l’opera dei pupi. C’è l’assurdo: il governo impone con una mano la conversione di un primo «provvedimento urgente» infarcito di errori ed orrori, con l’altra ne presenta un secondo che riscrive quello appena approvato. C’è la farsa siciliana: il Parlamento svilito nella quinta di un’opera buffa, dove gli eletti del popolo, povere marionette, si scambiano legnate fragorose ma inutili.
Il decreto anti-crisi è discutibile nel merito. L’ennesimo patchwork di ben 25 articoli scombinati e incorenti, l’ennesimo pacchetto di oltre 100 commi di norme palesemente «tossiche» insaccate insieme a norme apparentemente virtuose: come i «titoli salsiccia» che hanno fatto crollare i mercati finanziari mondiali. Da una parte qualche piccola pietra per arginare l’onda d’urto della crisi recessiva: dagli aiuti fiscali per le imprese che ripatrimonializzano alla detassazione degli utili reinvestiti in nuovi macchinari, dal «premio di occupazione» per le aziende che non licenziano all’aumento delle dotazioni infrastrutturali. Ma dall’altra parte una pioggia di interventi che, con la strategia di contrasto alla crisi, non hanno proprio nulla a che vedere: dalla modifica degli automatismi per chi andrà in pensione dopo il 2015 alla tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia. In mezzo, un’altra insopportabile legge-bavaglio, stavolta ai danni della Corte dei conti, e una raffica indecente di condoni, dallo scudo fiscale per il rimpatrio dei capitali alla sanatoria per le multe automobilistiche. Sarà anche vero che «il Paese non è in declino», come sostiene Giulio Tremonti: ma se la «exit strategy» dal «declinismo» passa attraverso questa accozzaglia di buone intenzioni e di pessime diversioni non c’è da essere così ottimisti.
Ma il decreto anti-crisi è soprattutto intollerabile nel metodo. Le numerose nefandezze che contiene sono state veicolate con la solita prassi del maxi-emendamento, propinato all’ultimo minuto ad un’assemblea ridotta a muto votificio e imposto all’aula sorda e grigia con il diktat dell’ennesimo voto di fiducia. Il ventitreesimo in poco più di un anno: un record assoluto, per un governo che gode della maggioranza più solida della storia repubblicana. Ma proprio questa attitudine alla sottomissione sistematica del potere legislativo, ad esclusivo beneficio di quello esecutivo, è la cifra politica del berlusconismo come forma tecnica del moderno totalitarismo. Come si può imporre al Senato di approvare un decreto, quando lo stesso presidente del Consiglio avverte che la Camera poi lo modificherà radicalmente? Per fortuna, combinando insensatezze di merito e scorrettezze di metodo, il presidente della Repubblica si è impuntato, e ha spiegato al governo che questa formula non può contare sull’avallo del Quirinale. Ma la toppa, a questo punto, rischia di diventare peggiore del buco. Come si può annunciare adesso «un decreto che corregge il decreto»? Dove finiscono, in questo surreale cortocircuito, il primato del Parlamento e la dialettica tra le istituzioni? Quale torsione costituzionale è mai questa, in uno Stato che ha ancora la pretesa di definirsi «di diritto»?
Più che «Stato di diritto», questo è ormai uno schmittiano «Stato di eccezione». Dove la sospensione dell’ordine giuridico per volontà del sovrano, da misura provvisoria e straordinaria imposta da uno stato di necessità, sta diventando un normale «paradigma di governo». Dettato ora da un’urgenza personale del governante: evitare condanne nei processi, com’è il caso del lodo Alfano. Ora da un’urgenza politica della rissosa maggioranza che lo sostiene: evitare defaillances nel voto parlamentare o rinvii delle vacanze estive, come nel caso del decreto anti-crisi, che a questo punto si trasforma in decreto salva-destra (perché riequilibra le tensioni sempre più destabilizzanti tra Lega e Pdl e tra Pdl del Nord e Pdl del Sud) e in decreto salva-ferie (perché scongiura una proroga agostana dei lavori delle Camere).
In tutti i casi, questo «Stato di eccezione» tende ormai a confondersi o a coincidere con la regola. Quando questo succede, gli equilibri costituzionali si alterano. E la democrazia, fatalmente, ne soffre. Fino a snaturare se stessa.
La prova di Forza del Cavaliere
di MASSIMO GIANNINI *
"Qui l’invasore non passerà", aveva detto con troppa sicumera Walter Veltroni, in chiusura di campagna elettorale. Invece, secondo i dati parziali dello spoglio, Berlusconi ha vinto anche in Sardegna. L’invasore non solo è passato. Ma ha dimostrato di essere il "padrone dell’isola". Ha confermato di essere il "padrone d’Italia". Se lo scrutinio finale non si discosterà dalle percentuali della notte, questo dice il risultato del voto regionale sardo. Trasformato fatalmente in un test di mezzo-termine, per il rapporto tra il Cavaliere e il Paese, per gli equilibri interni al Pdl e per il futuro del Pd.
Nel rapporto tra il Cavaliere e il Paese (salvo sorprese clamorose nello spoglio definitivo) il voto della Sardegna evidenzia un dato politico incontrovertibile. La luna di miele tra il premier e l’Italia non è affatto finita. Nonostante le difficoltà del governo su scala nazionale, nonostante i morsi della crisi economica.
Con questa vittoria, Berlusconi rinnova il mito del Leader Invincibile. A sconfiggere Soru non è stato Ugo Cappellacci, ma il premier in persona. "Ci ho messo la faccia", ha detto. E per questo ha vinto, battendo l’isola palmo a palmo, weekend dopo weekend. E ancora una volta, forte di questa personalizzazione della campagna, e di questa presidenzializzazione del voto, ha sbaragliato l’avversario. Ha spazzato via la logica antagonista sulla quale avevano contato Soru e il Pd: la Sardegna in carne e ossa del modello Tiscali e dei modernizzatori schierati per lo sviluppo sostenibile contro la Sardegna di cartapesta di Villa Certosa e dei ricchi cementificatori della costa. La banda larga di Renato contro la bandana di Silvio. Questo schema "sociologico" non ha retto alla prova dell’urna.
Il dato politico dice che le percentuali di voto ottenuto in Sardegna dal Pdl e dal Pd (se saranno confermate dal risultato definitivo) ricalcano quelle già registrate alle ultime politiche: tra il 48 e il 50% il primo, tra il 44 e il 46% il secondo. È la conferma che il blocco sociale creato dal centrodestra è ormai strutturale, e non è scalfibile dal centrosinistra.
Per gli equilibri interni al Pdl, con questa vittoria Berlusconi rafforza il ruolo del Sovrano Indiscutibile. Regola, una volta per tutte, i conti con la sua maggioranza. Quando c’è un voto da conquistare, quando c’è un consenso da rafforzare, non ce n’è per nessuno. Vince il Cavaliere, da solo. Può anche candidare un Carneade contro il parere dei suoi alleati, come ha fatto con Gianni Chiodi in Abruzzo. Può anche candidare il figlio del suo commercialista facendolo sapere agli alleati attraverso i giornali, come ha fatto con Cappellacci in Sardegna. Può anche candidare il suo cavallo, come fece Catilina. Ma se poi è lui a corrergli in groppa, il traguardo finale è assicurato.
Non c’è Bossi che tenga con i suoi diktat sul federalismo e i suoi distinguo sulla Costituzione. Meno che mai c’è Fini, con le sue difese lealiste di Napolitano e le sue pretese "laiciste" sulla bioetica. Chi vince ha sempre ragione, e comanda. Da domani, in un Pdl sempre più militarizzato, sarà probabilmente impossibile registrare il benché minimo caso di ammutinamento. E forse, vista l’esperienza sarda, sarà verosimilmente possibile che nell’Udc scatti di nuovo la tentazione di un arruolamento.
Per il futuro del Pd, la sconfitta in Sardegna (se sarà ribadita dall’esito ufficiale) rischia di suonare come una doppia campana a morto. Innanzi tutto per Soru, che aveva a sua volta personalizzato questa battaglia, accreditando l’idea che un suo trionfo lo avrebbe accreditato per una "nomination" nazionale: a questo punto il suo sogno tramonta, e per quanto abbia inciso il voto disgiunto il governatore uscente non è riuscito a ripetere il miracolo del 2004, quando vinse grazie al sostegno di quei ben 94 mila elettori che votarono per lui e non per la coalizione. Ma soprattutto per Veltroni e per la sua leadership. Se fossero vere (e confermate) le prime indicazioni sul voto alle liste, il distacco patito dal Pd rispetto al Pdl sarebbe drammatico: oltre i 20 punti percentuali.
Si avvicina il momento di una inevitabile resa dei conti per un "apparatciki" troppo autoreferenziale nella gestione del partito e troppo ondivago nell’azione politica. La ricomposizione della Sinistra Arcobaleno, alla luce della vicenda sarda, non è sufficiente. E ora cade anche l’illusione che Berlusconi si batta con un "uomo nuovo", fuori dalle nomenklature romane. Neanche questo basta a espugnare la fortezza del Cavaliere. Per Veltroni, e per il centrosinistra riformista, è un vicolo cieco. Per uscirne urge almeno un vero congresso. Da statuto, è previsto dopo le europee. Ma di questo passo c’è da chiedersi cosa resterà del Pd, dopo l’Election Day del prossimo giugno.
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la Repubblica, 17 febbraio 2009
La scelta sofferta di Napolitano "Io devo difendere le istituzioni"
Il capo dello Stato ha appreso del dl dalle agenzie di stampa
di Massimo Giannini (la Repubblica, 07.02.2009)
«L’avevo detto subito a Gianni Letta: non vedo proprio le condizioni per un decreto legge. Non ne hanno tenuto conto. Ma io, Costituzione alla mano, non potevo fare altrimenti». È tardo pomeriggio, e nel suo studio Giorgio Napolitano riflette a voce alta, sul corpo di Eluana trasfigurato in totem simbolico, e ora svilito in vessillo ideologico di un conflitto che non ha precedenti nella storia italiana. Il presidente della Repubblica lo vive con dolore personale, ma anche con la consapevolezza di aver fatto solo il suo dovere istituzionale. «Quel decreto non potevo firmarlo», ripete. Se non al prezzo di «snaturare le funzioni che la Carta costituzionale mi assegna». Non è stata una scelta a cuor leggero. Prima ancora che Capo dello Stato, Napolitano è padre e nonno. Conosce cos’è «il dono dei figli». Cos’è «la scoperta del sentimento più tenero, quello che si prova per i bambini dei propri figli». Cos’è «il senso profondo della famiglia». E dunque sa cosa costa il suo diniego alla firma del provvedimento d’urgenza varato dal governo per impedire la sospensione dell’alimentazione di Eluana. Ma sa anche quanto vale «la natura di garanzia istituzionale» della sua carica. Quanto vale il rispetto dei principi che reggono il nostro Stato di diritto. Quanto vale una corretta dialettica tra l’esecutivo, il giudiziario e il legislativo.
Napolitano aveva capito che il governo avrebbe tentato l’affondo già da giovedì pomeriggio, quando cominciavano a trapelare le prime voci su un possibile decreto d’urgenza. A questo si riferisce il Capo dello Stato, quando dice «l’avevo detto subito a Gianni Letta». Era stato proprio il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, su incarico di Berlusconi, a telefonare al Quirinale nel pomeriggio di due giorni fa, per sondare l’orientamento del presidente su una «prima bozza» del provvedimento. «Non vedo le condizioni», era stata la risposta immediata di Napolitano. Ma il premier non aveva desistito. Poco più tardi gli sherpa di Palazzo Chigi erano tornati alla carica, ipotizzando addirittura una possibile visita di Berlusconi a Napolitano. «Se volete venite pure - era stata la risposta di rito degli uffici del Colle - ma sappiate che il presidente su questo punto è irremovibile: c’è una sentenza della Cassazione, e un decreto legge che stabilisca il contrario costituirebbe una lesione palese dei vincoli costituzionali che legano l’esecutivo al rispetto del principio di intangibilità del giudicato». Ma neanche questo era bastato. E così, alle undici di sera, sul Colle era arrivata l’ultima telefonata di Letta, quasi trionfante, che parlando con il segretario generale del Colle Donato Marra sventolava un parere informale del presidente emerito Valerio Onida come «la soluzione definitiva del problema».
A quel punto Napolitano ha capito che il governo non si sarebbe più fermato, e che sarebbe arrivato fino allo strappo istituzionale. Così, già dalla nottata di giovedì, ha messo al lavoro i suoi tecnici e i suoi collaboratori dell’ufficio legislativo, Salvatore Sechi e Loris D’Ambrosio, per stendere un testo motivato e tirare fuori i precedenti di decreti legge non controfirmati dai suoi predecessori. Così è nata la lettera che ieri mattina il Quirinale ha recapitato a Palazzo Chigi. Una lettera inequivocabile. Che giudica «inappropriato» lo strumento del decreto legge in una materia del genere, ribadisce la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza e il contrasto con gli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione, e ricorda i precedenti di Pertini, Cossiga e Scalfaro.
Una lettera indirizzata personalmente al presidente del Consiglio. Una lettera che doveva restare riservata, perché fin dall’inizio del confronto Quirinale e Palazzo Chigi avevano operato all’interno della cosiddetta «moral suasion», che presuppone una collaborazione leale ma informale tra le due istituzioni. Una lettera che, secondo gli obiettivi di Napolitano, poteva offrire «per tempo» al Cavaliere una «via d’uscita» dignitosa. Ma Berlusconi ha deciso di rompere gli equilibri, di rendere pubblica la lettera del Capo dello Stato e di andare alla guerra aperta. C’è un dettaglio che la dice lunga sul fairplay del premier e sulla sua volontà di rompere: il Capo dello Stato ha appreso la notizia dell’avvenuta approvazione del decreto solo dalle agenzie di stampa. «Ho fatto il possibile per evitare tutto questo», riflette ora il presidente. E la chiave di questo suo tentativo di conciliazione preventiva, fa notare, sta nelle ultime tre righe della sua lettera: «Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza, che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare».
Questa era la «via d’uscita». Il premier ha preferito non imboccarla. Così è deflagrato qualcosa di più di un «contrasto formale». «Ma io non potevo cedere», è il ragionamento di Napolitano. Ne va della sua funzione costituzionale. E ne va della difesa della democrazia parlamentare. E’ questo, soprattutto, che adesso il Capo dello Stato non riesce a tollerare. Berlusconi che dopo il Consiglio dei ministri dice in conferenza stampa «sono pronto a cambiare la Costituzione sul tema dei decreti legge». In questa affermazione c’è lo stravolgimento del dettato costituzionale. E c’è anche la violazione di un «patto» che Napolitano e il premier, proprio sulla decretazione d’urgenza, avevano raggiunto nell’autunno scorso. Era il 7 ottobre 2008, quando il presidente della Repubblica, rispondendo sulla «Stampa» ad un articolo del costituzionalista Michele Ainis che denunciava la trasformazione del Parlamento in votificio, affermava con forza: «Sui decreti legge vigilerò con rigore».
Un’uscita che fece scalpore, e che spinse Berlusconi a recarsi sul Colle il giorno stesso per un chiarimento. Ora Napolitano ricorda che a fine colloquio il premier uscì raggiante, dettando testualmente alle agenzie: «Sui decreti legge il Capo dello Stato non si troverà mai più di fronte a un fatto compiuto». Sono passati solo quattro mesi, e il fatto compiuto è arrivato. Il presidente della Repubblica non poteva lasciar passare quello che chiama «l’ennesimo vulnus» al fondamentale principio della «distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato».
È chiaro che nel rapporto tra i due presidenti molto si è consumato e molto è andato perduto, in questa dissennata battaglia sul corpo di Eluana. «Non voglio portare la responsabilità di lasciar morire quella ragazza», ha detto ieri il Cavaliere, quasi a voler scaricare quella responsabilità sul Capo dello Stato. E’ l’ultima offesa che ha voluto «dedicargli». Napolitano non replica. Né ai veleni del Cavaliere, né agli anatemi della Chiesa. Ripete solo una frase: «Mi rammarico molto per quel che ha fatto il governo». E in quel rammarico c’è tutto. L’amarezza di un uomo, ma anche l’asprezza di un politico che, d’ora in avanti, non farà più sconti a nessuno.
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 07.01.2009)
Col senno di poi, l’espressione «braccio di ferro» è un eufemismo. Il caso di Eluana Englaro ha provocato una frattura fra Quirinale e palazzo Chigi che delinea una crisi istituzionale grave e dagli esiti imprevedibili. Sancisce qualcosa di più di un’incrinatura nei rapporti fra Giorgio Napolitano ed il Vaticano, finora ottimi. E lascia intravedere una spaccatura parlamentare che ricorda tanto i fronti referendari del passato sull’aborto e sul divorzio. Con il centrosinistra ed i radicali contrari a sospendere le procedure che porteranno alla morte della ragazza; ed il centrodestra di Silvio Berlusconi in lotta con il tempo per approvare una legge che le sospenda.
Il conflitto era in incubazione dall’altra sera, quando sono trapelate le perplessità del presidente della Repubblica sul decreto studiato dal governo. Ma le voci ufficiose secondo le quali Napolitano in realtà non si era pronunciato l’aveva congelato. Ieri mattina, però, la situazione è precipitata. Berlusconi, incalzato dalle gerarchie cattoliche, ha deciso che il decreto andava comunque presentato in Consiglio dei ministri. E mentre il governo stava decidendo, è arrivata la lettera del capo dello Stato che preannunciava il rifiuto di firmare il provvedimento. Doveva essere l’estremo tentativo per evitare lo scontro; e invece ha finito per drammatizzarlo.
Il premier ha sospeso la riunione, e mostrato una missiva che nelle intenzioni era riservata. E alla ripresa, pretendendo e ottenendo l’unanimità, Berlusconi è andato avanti, respingendo la lettera al mittente. Evidentemente, la speranza di bloccare l’iniziativa del governo con un altolà era mal riposta. Quella nota nel bel mezzo della riunione è stata interpretata come un tentativo di «commissariare» il governo. Ed ha permesso a Berlusconi di lanciare una sfida che si è appena iniziata ed accenna a salire di tono.
Finora il premier non aveva mai reagito frontalmente alle critiche di Napolitano. La diplomazia informale fra i due palazzi aveva sempre scongiurato contrasti. Ed erano stati costruiti in tre anni rapporti istituzionali più che cordiali e corretti. Berlusconi ha sferrato l’offensiva scegliendo lui il terreno, meno scivoloso di quello della riforma della giustizia. Il fatto che ad una domanda rivoltagli in conferenza stampa abbia risposto che non è sua intenzione promuovere la messa in stato d’accusa del capo dello Stato è rassicurante a metà. Soltanto affacciare questa ipotesi rende l’idea della piega che rischia di prendere il conflitto istituzionale.
La difesa compatta di Napolitano che proviene dal centrosinistra insiste sulla correttezza della lettera; e sul calcolo a freddo del premier di scontrarsi col Quirinale. Perfino Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane non ha esitato ad attaccare pesantemente il presidente della Repubblica, adesso si schiera con lui insieme all’estrema sinistra ed ai radicali. Ma tanta solidarietà politica dell’opposizione, alla quale si aggiunge quella del presidente della Camera, Gianfranco Fini, potrebbe risultare a doppio taglio. Invece di puntellare e rilanciare il profilo sopra le parti offerto sempre da Napolitano, minaccia di farlo diventare l’icona degli avversari del governo. Un epilogo paradossale, che può aggravare e radicalizzare il conflitto.
L’analisi
Il bersaglio sbagliato del tribuno populista
di MASSIMO GIANNINI *
NON è la prima volta che dalla piazza dipietrista si levano voci critiche all’indirizzo del presidente della Repubblica. Ma è la prima volta che il tribuno di quella piazza fa interamente sue quelle critiche. Le condisce di pesanti contestazioni istituzionali. E addirittura le inasprisce di vaghe allusioni criminali.
"Napolitano dorme, l’Italia insorge". Questo recitava lo striscione esposto durante la manifestazione organizzata dall’Idv contro la riforma della giustizia, che ha innescato l’intervento della forza pubblica e il successivo affondo dal palco di Antonio Di Pietro. Più che offensivo, lo slogan è bugiardo. Di fronte alle forzature che il governo Berlusconi sta imprimendo o minacciando al sistema politico e giudiziario, non è vero che "l’Italia insorge". E meno che mai è vero che "Napolitano dorme". Il Capo dello Stato ha esternato più volte, nei limiti che il ruolo gli consente e che la Costituzione gli assegna. Si può discutere sull’intensità e il tono delle sue esternazioni. Ma parlare di "sonno", davvero, è una palese sciocchezza.
Il problema non è lo striscione, ma quello che è venuto dopo. È grave che, nel contestare la rimozione di quel tazebao, Di Pietro accusi il presidente della Repubblica di non esercitare la sua funzione di "arbitro". È grave che, in un crescendo di presunti "addebiti" istituzionali in cui si mescolano i fatti più diversi (dalla criticata promulgazione del Lodo Alfano alla supposta riabilitazione dei terroristi "sapientoni"), Di Pietro si spinga a dire "il silenzio è mafioso".
Ed è persino più grave il comunicato con il quale l’ex pm cerca di ridimensionare l’incidente. Non fa nessuna retromarcia: si limita a chiarire di non aver voluto offendere Napolitano, ma ribadisce, quasi a nome della piazza che rappresenta, di aver esercitato un sacrosanto diritto di "critica politica".
Oltre che oltraggiose, le parole del leader dell’Idv sono pretestuose. Di Pietro, nella sua foga populista, sbaglia totalmente il bersaglio. Lo sbaglia sul piano istituzionale. Nel momento in cui imputa al Quirinale il mancato veto sul Lodo Alfano, cade ancora una volta nella furia giustizialista, e a tratti un po’ qualunquista, del girotondismo e del grillismo. L’ultima norma salva-premier è e resta una legge-vergogna, tagliata a misura del Cavaliere. Ma come già accadde con il Lodo Schifani ai tempi di Ciampi, anche il Lodo Alfano ai tempi di Napolitano non appare "manifestamente incostituzionale", e dunque il presidente della Repubblica, Costituzione alla mano, è chiamato alla promulgazione. Sarà la Consulta, nel suo successivo giudizio di merito, a valutarne l’effettiva legittimità.
Ma Di Pietro sbaglia il bersaglio anche sul piano politico. Non ci stancheremo mai di ripetere che queste intemerate di piazza contro il Capo dello Stato, oltre che sfibrare e indebolire il fronte delle opposizioni, rischiano di squilibrare il gioco dialettico tra i poteri, "consegnando" alla maggioranza il Quirinale. È un errore imperdonabile. La "fisarmonica dei poteri presidenziali", come l’ha definita una volta Giuliano Amato, può essere suonata in modo più o meno ampio.
Ma Napolitano, come Ciampi prima di lui, incarna al meglio la teoria schmittiana del Capo dello Stato come "custode della Costituzione e garante dell’unità statuale". Sarebbe bene che tutti, proprio tutti, rispettassero il suo ruolo di "presidente garante", e non di "presidente governante". Di Pietro, tanto più in un parlamento nel quale la sinistra radicale è scomparsa e la sinistra riformista è confusa, può svolgere un ruolo importante nell’azione di contrasto a questo centrodestra arrogante e autoritario. Purché lo eserciti in modo costruttivo verso i suoi alleati e soprattutto responsabile verso le istituzioni.
Al contrario di quello che sostiene dal palco di Piazza Farnese, il tribuno populista dell’Idv non vuole affatto un "arbitro". Pretende un "giocatore", che ovviamente giochi come piace a lui. In Italia, nonostante gli usi strumentali e gli abusi congiunturali che ha subito, la nostra Costituzione prevede altre regole. Ed è una fortuna che sia così.
* la Repubblica, 29 gennaio 2009
L’autore di "Gomorra" intervistato da Massimo Giannini su Radio3 parla
anche dell’inchiesta napoletana: "La mafia non riguarda solo il centrodestra"
Saviano: "La camorra tocca tutti
il governo può fare molto di più"
ROMA - Contro la camorra "il governo potrebbe fare di più: è stato importante mandare i parà, perché bisognava rispondere con un piano militare ma questo non basta assolutamente: c’è ancora tanto da fare e le risorse ci sono". Roberto Saviano torna a ribadire le sue idee sulla criminalità organizzata intervistato questa mattina su Radio3 da Massimo Giannini, spaziando dall’inchiesta sugli appalti a Napoli alla riforma della giustizia.
La battaglia sulla criminalità. Gli scontri tra studenti di destra e di sinistra sono "vecchi" e fanno solo il gioco di chi vuole deviare l’attenzione dalle questioni vere, in primo luogo da quella della criminalità ha spiegato Saviano che nel pomeriggio incontrerà gli studenti dell’università Roma Tre dopo la proiezione la proiezione del film di Matteo Garrone tratto dal suo libro. "Forse tra le nuove generazioni si sta parlando alla questione criminale in maniera diversa - ha sottolineato Saviano parlando a Radio3 - Sento tantissimo la deideologizzazione. Io parlo ai giovani. Ai giovani di destra come ai ragazzi di sinistra o a ragazzi semplicemente che non hanno alcun tipo di posizione. E l’idea di andare a parlare all’università, anche se sono stato invitato dall’Onda, era quella: poter parlare a tutti e non solo a una parte, perché la battaglia sulla criminalità è una questione che viene prima di tutto".
La mafia non riguarda solo centrodestra. Parlando della bufera scoppiata al Comune di Napoli, Saviano non è sorpreso. "E’ da tempo che, soprattutto nel Sud Italia, queste connivenze sono state denunciate: io stesso e molti altri, sull’Espresso e su Repubblica, abbiamo scritto di questa sorta di connivenze, di questa assoluta percezione sbagliata di credere che il male stia solo dall’altra parte, che la mafia sia una cosa che riguarda solo il centrodestra".
"Detto questo - ha aggiunto l’autore di Gomorra, - mi sento di dire che non può essere utilizzata inchiesta per criminalizzare un’intera parte politica, dell’una o dell’altra parte. Ma credo che una cosa da fare, finalmente, sia prendere le distanze da certi meccanismi imprenditoriali", che "sono di periferia, sembrano lontani da Roma, ma in realtà incidono tantissimo".
Il rapporto tra politica e crimine. Più in generale, rispondendo a una domanda sugli sviluppi dell’inchiesta Global service, Saviano ha spiegato che, a suo giudizio, "oggi il rapporto tra politica e crimine è diverso rispetto a Tangentopoli e alla Cosa Nostra del maxiprocesso. Oggi le organizzazioni criminali determinano gli equilibri politici come potrebbero determinarli la Microsoft, la Bmw o la General Motors. Al di là di quella che può essere la mazzetta al singolo politico o consigliere comunale, indipendentemente dalle scelte individuali di corruzione, le organizzazioni criminali riescono a condizionare il clima politico attraverso il loro potere economico".
Riforma della giustizia. Roberto Saviano segnala il rischio che l’annunciata riforma della giustizia "venga utilizzata per rendere più complicate non tanto le inchieste antimafia, quanto la possibilità di arrivare ai livelli economico-finanziari della criminalità organizzata". "Tutti i boss che usano lo strumento militare, che uccidono - ha spiegato Saviano parlando con Massimo Giannini - prima o poi vengono eliminati o finiscono in galera, ma sanno benissimo che la morte è una parte necessaria del loro mestiere. Il vero problema è arrivare al livello economico, a quei personaggi che entrano in relazione con le organizzazioni criminali, ma senza farne parte o partecipare alle operazioni di sangue".
Per l’autore di Gomorra, dunque, il "rischio è che con un determinato tipo di riforma della giustizia e con gli attacchi alla magistratura si tenda a voler chiudere la partita con l’imprenditoria criminale, impegnandosi soltanto nella cattura dei criminali. Ma preso uno ne spuntano altri dieci, anche perché le organizzazioni mafiose non hanno il monopolio, i capi non durano 40-50 anni come i politici, le nuove generazioni prendono continuamente il posto delle vecchie".
* la Repubblica, 17 dicembre 2008
Intervista a Pierre Rosanvallon, autore di "La légimité démocratique"
Democrazia. Il paradosso dell’antipolitica
Il pericolo è che tra i cittadini e i politici il solco divenga così profondo da rendere il potere intoccabile. L’estremismo produce alla fine esclusione
Nel vostro paese la "controdemocrazia" si sovrappone al populismo tradizionale ed è un rischio per il tessuto democratico
Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo Di conseguenza il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale
PARIGI. «La democrazia non è solamente il voto nell’urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d’Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell’era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un’evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri. «Oggi il voto non è più un momento d’identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un’identità sociale, oggi esprime un’opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell’interesse comune».
Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?
«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un’elezione e l’altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell’era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».
Di che si tratta?
«La "controdemocrazia" è costituita dall’insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all’esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E’ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».
Lei parla anche di sovranità negativa...
«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell’attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d’impedire e facoltà d’agire, in democrazia. E’ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».
Quali sono le altre forme della controdemocrazia?
«Un’altra componente importante è l’esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall’ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L’atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell’opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».
Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l’antipolitica. Non è un rischio?
«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall’altro, possono anche indebolirla, alimentando l’antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell’antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un’appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».
Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?
«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell’interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l’amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un’incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».
In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...
«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d’innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un’illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».
Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?
«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E’ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l’appoggio di altre forme di legittimità».
In che modo?
«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall’imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C’è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l’uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell’istante. Infine, c’è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l’accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell’allargamento della concezione della democrazia».
Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?
«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all’interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».
* la Repubblica, 15.12.2008
Oltre la democrazia
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 14.12.2008)
LA DEMOCRAZIA. Molti ne osservano in modo scettico l’evoluzione. In Italia, ma non solo. Così è diffusa la tendenza ad associarne il termine al prefisso "post". Come ha fatto il politologo Colin Crouch alcuni anni fa. Definendo la fase attuale fase post-democratica. Non "anti" democratica, ma "oltre" la democrazia. O, ancora, "dopo" la democrazia, come suggerisce il socio-demografo Emmanuel Todd in un recente saggio di grande capacità suggestiva ("Après la démocratie", pubblicato da Gallimard).
Eppure pochi, in Italia, la mettono in discussione. Lo sottolinea l’XI rapporto su "gli italiani e lo Stato" di Demos - la Repubblica (www.demos.it), proposto due giorni fa sul Venerdì. Quasi tre persone su quattro la considerano il "migliore dei mondi possibili". Un dato in crescita (4 punti percentuali in più) rispetto all’anno scorso. Tuttavia, vi sono categorie sociali che la pensano diversamente. I più giovani, in particolare: oltre un terzo di chi ha meno di 35 anni ritiene che rinunciare alla democrazia, magari per un certo periodo, in fondo, non sarebbe male. Oppure, non cambierebbe nulla. E il peso della componente scettica sale fino a circa il 40% fra gli operai e i disoccupati. A rammentarci che il consenso alla democrazia declina quando manca il lavoro e le condizioni di vita quotidiana degradano. Peraltro, il significato della democrazia appare profondamente cambiato rispetto al modello originario del dopoguerra. Fondato sulla partecipazione e sui partiti di massa, garantito dal bilanciamento fra poteri. In particolare: dal controllo del potere giudiziario su quello politico (legislativo ed esecutivo).
Il rapporto di Demos - la Repubblica rileva, anzitutto, come, ormai, i partiti siano guardati con diffidenza generalizzata. Non solo: appena la metà dei cittadini ritiene che "senza partiti non vi sia democrazia". D’altronde, i due terzi degli italiani pensano che i partiti siano tutti uguali, dicano le stesse cose. Non riescono a coglierne le differenze di progetto e di azione. Ne considerano i programmi e il linguaggio strumentali. Più dei partiti, secondo il 40% degli italiani, oggi contano i leader. I partiti, di conseguenza, appaiono organismi personalizzati, talora "personali", al servizio del Capo. Una percezione generale che, peraltro, coincide largamente con la realtà. Richiama un’idea della democrazia fortemente semplificata e populista. Alimentata dalla svalutazione dei tradizionali soggetti di partecipazione e rappresentanza. I partiti. Mentre i canali di mediazione degli interessi ? organizzazioni imprenditoriali e ancor più sindacali ? raccolgono consensi minimi nella società. Non che la partecipazione sia svanita. Anzi, nell’ultimo anno è perfino cresciuta, ma nelle forme meno convenzionali e istituzionali, oltre che antipolitiche. Quanto alle istituzioni e ai poteri di controllo, la magistratura è valutata con fiducia dal 37% dei cittadini. Più o meno come un anno fa. Ma circa la metà rispetto ai primi anni Novanta. Anche per questo motivo oggi il presidente del Consiglio afferma di voler procedere alla riforma del sistema giudiziario anche da solo, se necessario. Perché si sente più forte e socialmente legittimato dei giudici.
Da ciò il dibattito, meglio, il contrasto che investe il significato stesso di democrazia, nella pratica politica ma anche nella percezione sociale. Stressata fra due opposte tendenze, largamente complementari. Da un lato, si afferma una democrazia formale, che trae legittimazione, quasi unicamente, dal voto personalizzato della maggioranza. I partiti, sempre più oligarchici, racchiusi nelle istituzioni e nei centri di potere. La piazza, l’agorà: riassunta dai media e dalla televisione. Una democrazia elettorale. Il potere dei cittadini si esercita e si esaurisce in trenta secondi, una volta ogni 4-5 anni. Quanto basta per fondare l’autorità degli eletti, o meglio, dell’Eletto. Che, per questo, considera illegittimo ogni vincolo posto da poteri non elettivi. E sopporta a fatica e con fastidio ogni critica al suo operato che provenga da giudici, giornalisti, comici e intellettuali. Non eletti dal popolo. è su questa base, con questo argomento che, da sempre, Silvio Berlusconi (e la sua parte) rifiuta le critiche al conflitto di interessi e i tentativi di regolarlo. Su questa stessa base contesta l’azione della magistratura nei suoi confronti, anche quando si tratta di accuse relative a reati esterni alla pratica di governo e all’attività politica. Perché si tratterebbe di limiti imposti da soggetti "non democraticamente eletti" a un leader "votato dal popolo". Nonostante tutte le accuse e tutti i conflitti di interesse, da cui - è il ragionamento implicito - il "popolo sovrano", con il voto, l’avrebbe assolto, oltre ad avergli attribuito il mandato di governare. è la post-democrazia, denunciata da molti critici, non solo di sinistra. Una democrazia elettorale e personalizzata. Spogliata delle mediazioni e dei controlli. La comunicazione al posto della partecipazione. L’equilibrio dei poteri, finalmente, modificato. Attraverso la riforma della giustizia, mettendo mano alla Costituzione - come ha annunciato il presidente del Consiglio - anche senza dialogare con l’opposizione. Si tratterebbe, come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, del "passaggio da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico". Post. Appunto. Una democrazia in preda a un degrado organico e quasi biologico. Una sorta di "mucca pazza della democrazia", come l’ha definita Alfio Mastropaolo.
D’altro canto, questa tendenza post-democratica e post-costituzionale sta insinuando, nell’area di opposizione, un sentimento di sfiducia nella democrazia. Riflette e moltiplica il senso di riprovazione verso quella parte di elettori, molto ampia, che, da quindici anni, continua a votare per Berlusconi. Nonostante i suoi stravizi o, forse, proprio per questo. Verso quegli elettori che nel Nord si ostinano - in gran numero - a premiare la Lega. Nonostante il suo linguaggio intollerante e le sue iniziative xenofobe o, forse, proprio per questo. Mentre nel Sud continuano a votare per oligarchie clientelari e corrotte. Senza porsi problemi. Da ciò, come osserva Emmanuel Todd, l’idea, latente e diffusa (a sinistra), che "il popolo è per natura cattivo giudice". E il pensiero - inconfessato e represso - che occorra, per questo, "ritirargli il diritto di voto o, almeno, limitarne seriamente l’esercizio".
Difendere la democrazia dal popolo e perfino dal voto popolare. Oppure usare il popolo e il voto per limitare le garanzie democratiche. Questa alternativa insidiosa racchiude tutto il malessere che oggi attraversa la nostra democrazia rappresentativa.