GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
L’INNO DI MAMELI (Sito della Presidenza della Repubblica).
LA SENTENZA
Processo Mediaset, Berlusconi condannato
4 anni di reclusione per frode fiscale
Il tribunale di Milano ha anche deciso per l’ex premier l’interdizione dai pubblici uffici per tre anni. Pena di 3 anni per l’intermediario Agrama. Assolto Confalonieri. La rabbia di Alfano: "Ennesima prova di un accanimento" *
MILANO - Silvio Berlusconi è stato condannato a 4 anni di reclusione per frode fiscale a conclusione del processo per l’acquisizione dei diritti tv di Mediaset. In particolare, i giudici milanesi hanno ritenuto prescritto il reato per il 2001, ma non per gli esercizi 2002-2003 nel corso dei quali - scrivono - è stata portata a termine "una evasione notevolissima". L’ex premier è stato anche condannato all’interdizione dai pubblici uffici per tre anni, provvedimento che non è immediatamente esecutivo essendo la sentenza di primo grado. La pena inflitta al Cavaliere è più dura di quella proposta nella requistoria dalla pubblica accusa, che aveva chiesto 3 anni e 8 mesi di carcere. Assolto invece Fedele Confalonieri.
DOSSIER: I PROCESSI DI BERLUSCONI
Gli altri imputati. Giudicato colpevole anche Frank Agrama, l’intermediario cinematografico indicato dalla Procura di Milano come il "socio occulto" del Cavaliere nella compravendita dei diritti televisivi e cinematografici all’estero. Per lui la pena è di tre anni di reclusione. Daniele Lorenzano produttore ed ex manager Fininvest è stato condannato a 3 anni e 8 mesi mentre la pena per Gabriella Galetto, ex manager del gruppo in Svizzera, è di 1 anno e 6 mesi. Alcuni degli imputati di riciclaggio, tra cui il banchiere Paolo Del Bue, si sono visti derubricare l’imputazione in appropriazione indebita con conseguente prescrizione. Altri invece sono stati assolti nel merito. I giudici hanno disposto inoltre un versamento a titolo di provvisionale di 10 milioni di euro da parte degli imputati condannati, tra i quali Silvio Berlusconi, all’Agenzia delle Entrate.
Sei anni di processo. La sentenza arriva dopo quasi 10 anni di indagini e 6 di processo ’a singhiozzo’ tra richieste di ricusazione avanzate dai legali e l’istanza di astensione presentata dal giudice. E ancora slittamenti dovuti al Lodo Alfano e al conseguente ricorso alla Consulta, richiesta di trasferimento del procedimento a Brescia, legittimi impedimenti dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi e cambi di capi d’imputazione.
Una frode per creare fondi neri. Nel merito, secondo la ricostruzione della Procura, il sistema organizzato da Fininvest negli anni Novanta per acquisire i diritti dei film americani era finalizzato a frodare il fisco. Comprando i diritti non dalle major ma da una serie di intermediari e sottointermediari era possibile gonfiarne il prezzo così da poter poi stornare la "cresta" a beneficio della famiglia Berlusconi. Fininvest quindi, secondo la tesi del pm Fabio De Pasquale, avrebbe sistematicamente aumentato il prezzo dei diritti di trasmissione dei film delle major americane. Facendo così avrebbe aumentato le voci passive dei propri bilanci, con risparmi notevoli da un punto di vista dell’imposizione fiscale, riuscendo al tempo stesso a produrre fondi neri.
Secondo il pubblico ministero, Flavio De Pasquale, Fininvest avrebbe creato fondi neri con un valore che supererebbe i 270 milioni di euro. Soldi sottratti al fisco e agli altri azionisti della società, a solo beneficio di Berlusconi.
In attesa della Consulta. Sul procedimento è inoltre ancora pendente 2 la decisione della Corte Costituzionale su un conflitto di attribuzioni con la Camera: la presidenza di Montecitorio si era rivolta alla Consulta dopo che il tribunale di Milano, nel marzo 2010, aveva rifiutato il rinvio di una delle udienze nonostante che Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, fosse impegnato in attività di governo. E’ rarissimo che un Tribunale emetta sentenza mentre la Consulta deve ancora decidere su un passaggio del procedimento che è stato celebrato. Non ci sono obblighi, ma la procedura diventata prassi consolidata vuole che i giudici, in attesa di una decisione che riguarda il ’loro’ processo da parte della Corte Costituzionale, proseguano i lavori fino a sentenza, ma a quella si fermino. Ma così non ha fatto il collegio della prima sezione penale del Tribunale milanese.
La questione è di sostanza: se la Consulta dovesse decidere che quel giorno del marzo 2010 il Tribunale doveva accogliere la richiesta di rinvio avanzata dai legali dell’ex premier tutto quanto fatto dopo quella data, sentenza compresa, dovrà essere rifatto. In altre parole, verrà tirata una riga su due anni di lavoro compreso il giudizio finale. ma, evidentemente, questo è un rischio che i giudici si sono sentiti di prendere.
No comment dalla difesa. La difesa dell’ex premier ha preferito non commentare il verdetto. "Non rilascio dichiarazioni, prima voglio leggere le motivazioni", ha detto l’avvocato Niccolò Ghedini uscendo dall’aula del processo. Anche l’altro legale Piero Longo ha preferito non rilasciare dichiarazioni.
Lo sdegno di Alfano. A parlare sono invece i politici. Secondo il segretario del Pdl Angelino Alfano il pronunciamento del tribunale di Milano "è l’ennesima prova di un accanimento giudiziario nei confronti di Silvio Berlusconi, una condanna inaspettata e incomprensibile con sanzioni principali e accessorie iperboliche". "Siamo certi - aggiunge Alfano - che i prossimi gradi di giudizio gli daranno ragione e speriamo che questi giudizi giungano in fretta".
Di Pietro difende la sentenza. Agli antipodi la reazione di Antonio Di Pietro: "Tutti i nodi vengono al pettine. Nonostante tutte le leggi ad personam che Berlusconi si è fatto e nonostante la continua delegittimazione e denigrazione dei magistrati, la verità è venuta a galla", dice il leader dell’Italia dei valori. "Da oggi - prosegue - gli italiani possono prendere atto che una sentenza di primo grado considera Berlusconi un delinquente".
La posizione del Pd. Diplomatico il commento del capogruppo del Pd alla Camera, Dario Franceschini: "Le sentenze non vanno commentate, solo rispettate. Berlusconi ha avuto sentenze positive, di prescrizione e di condanna. Ma questo non è oggetto di confronto politico. E comunque, per fortuna, non lo è più".
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
*****
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
Macelleria istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell’Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l’impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all’articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d’accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".
A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell’avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all’intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".
Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L’ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell’armata forzaleghista.
Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l’intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell’agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.
Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile showdown d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.
La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all’ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.
Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
* la Repubblica, 17 agosto 2010
Il colpo di stato d’autunno
Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
di Luigi De Magistris (l’Unità 30.8.2009)
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesi il più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti - ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica - il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo,della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.
L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.
Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.
Franco Cordero
Stefano Rodotà
Gustavo Zagrebelsky
* la Repubblica, 28.08.2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
"Quella mano della P2 e i mandanti mai trovati"
Ciampi: "Dimenticata la relazione Anselmi"
di Giorgio Battistini (la Repubblica, 03.08.2009)
ROMA - «Ricordo perfettamente», dice Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica nel settennato precedente a quello di Giorgio Napolitano. «Ricordo quei giorni del ‘93. Ero da poco stato eletto presidente del Consiglio in un momento non facile. C’era un clima molto teso dopo le bombe di Firenze, Milano, Roma. Quando presi la parola sul palco per ricordare la bomba alla stazione di Bologna di oltre un decennio prima cominciò la contestazione».
Fischi, grida, che cos’altro?
«Ostilità varie, diffuse. Che però si placarono quasi subito. E partì un applauso non a me ma all’istituzione che rappresentavo: la presidenza del Consiglio».
Ieri però a Bologna il clima era ben diverso. Spazientito dal rito delle celebrazioni, dalla passerella delle autorità che sfilano davanti alla tv. Un’insofferenza che ricordava i cupi funerali all’indomani della strage, poche bare sul sagrato di san Petronio, Pertini che appoggia il braccio su quello del sindaco Zangheri, i fischi in piazza per Craxi e Cossiga. Stesso clima?
«No, qualcosa è cambiato. La gente che protesta chiede la verità su una vicenda che tanto dolore ha provocato. Io capisco quel desiderio di conoscere la verità»
Per quella strage tra gli altri è stato condannato in tribunale a Bologna un alto funzionario dello Stato imputato di depistaggio delle indagini. Lo Stato depistava lo Stato? Ma allora hanno ragione quelli che hanno parlato, per la lunga tragedia italiana che ha insanguinato parte del dopoguerra, di "guerra civile a bassa intensità"?
«Non sono in grado di entrare nei particolari delle indagini. Quella cerimonia è capitata in un periodo davvero speciale. Ricordo l’entusiasmo del ‘93 per l’accordo sul costo del lavoro. Poi la lunga serie di attentati in nottata. Ero a Santa Severa, rientrai con urgenza a Roma, di notte. Accadevano strane cose. Io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra. Al largo dalla mia casa di Santa Severa, a pochi chilometri da Roma incrociavano strane imbarcazioni. Mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse lo volevano morbido, il carcere».
C’era uno strano clima in quei giorni, strane voci, timori diffusi...
«E forse anche qualcosa di più. Alle otto di mattina del giorno dopo il ministro dell’Interno Nicola Mancino e io riferivamo in Parlamento. Poco dopo ci fu l’anniversario della strage di Bologna. Una celebrazione sotto la canicola. Quando cominciai a parlare la piazza iniziò a rumoreggiare. Poi ci fu l’applauso per gli scomparsi. Più tardi incontrai i familiari delle vittime».
Avvertiva anche lei l’ombra di qualcosa, di qualcuno nei palazzi del potere che remava contro l’Italia?
«Certo anch’io mi chiedo come mai la grande, lunga complessa inchiesta della commissione parlamentare sulla loggia P2 guidata da Tina Anselmi a Palazzo San Macuto abbia avuto così poco seguito. Ricordo quei giorni, ricordo che l’onorevole Anselmi era davvero sconvolta. Mi chiamò alla Banca d’Italia (ero ancora governatore) e mi disse "lei non sa quel che sta venendo a galla". Lei, la Anselmi, il suo dovere lo compì. Non credo però che molti uomini della comunicazione siano andati a fondo a leggere quelle carte. Il procuratore Vigna sapeva quel che faceva».
In quasi trent’anni ancora non si sa nulla dei mandanti. Né si sospetta nulla?
«La violenza purtroppo era ed è diffusa in Europa. Penso alla Spagna, alla Grecia. Anche adesso la violenza continua a manifestarsi, talvolta si prendono gli esecutori, quasi mai i mandanti nell’ombra. Penso all’indagine dei giudici Vigna e Chelazzi (purtroppo scomparso) nel ‘93-’94: avevano trovato gli esecutori, ma non i mandanti. Ricordo però che di mezzo c’era spesso la mafia che si batteva per modificare la legge sul carcere duro».
Che cosa le è rimasto di quei giorni, a distanza di tanto tempo?
«E’ una materia vissuta molto dolorosamente e con grande partecipazione, mentre resta forte il desiderio di conoscere tutta la verità. In quelle settimane davvero si temeva anche un colpo di Stato. I treni non funzionavano, i telefoni erano spesso scollegati. Lo ammetto: io temetti il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato. Di quelle giornate, quel che ricordo ancora molto bene furono i sospetti diffusi di collegamento con la P2».
Quando la Padania gli dava del mafioso *
di ro.ro. *
Era il 1998, appena undici anni fa. Silvio era sceso in campo da appena 4 anni. Lo aveva fatto per difendere la libertà, contro la gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Aveva vinto, ma non governato. Dopo qualche mese la Lega mandò a casa il suo governo, sotto la spinta della protesta di piazza.
Martedì 7 luglio 1998 Berlusconi imprenditore viene condannato a due anni e nove mesi, in primo grado, dal tribunale di Milano (Milàn per il Carroccio). Il collegio del Tribunale presieduto dal presidente della VII sezione penale Francesca Manga, dopo oltre sei ore di camera di consigli, aveva ritenuto il nostro futuro presidente del Consiglio colpevole di corruzione nei confronti di alcuni ufficiali della Guardia di Finanza. Lo stesso giorno da Palermo arriva la notizia che Berlusconi, il «boss di Forza Italia» è sotto inchiesta per «riciclaggio di capitali di Cosa Nostra».
Basta e avanza. La Padania, quotidiano della Lega, il giorno dopo esce con un titolo a nove colonne: «Mafia, camorra politica, Finanza». La foto di prima, che raffigura Silvio pelato e preoccupato, recita: «Berlusconi e Cosa Nostra. Cavaliere, risponda a 11 domande e potrà scagionarsi».
Che tipo di domande? «Signor Berlusconi, chi le diede nel 1968 l’equivalente di 32 miliardi d’oggi per acquistare i terreni?». E poi? «Per quale motivo, cavaliere, fece amministrare importanti quote della Fininvest alla società Par.Ma.Fid di Milano? Sapeva che gestiva anche i patrimoni di boss mafiosi?». Inoltre: «Tra il ‘68 e il ’79 Berlusconi eseguì aumenti di capitale per centinaia di miliardi. Soldi di chi?». E ancora: «Lei, signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4 maggio 1977 a Roma fondò l’Immobiliare Idra col capitale di 1 euro. Questa società, che oggi possiede beni immobili pregiatissimi in Sardegna, l’anno successivo - era il 1978 - aumentò il proprio capitale a 900 milioni. Signor Berlusconi, da dove arrivarono gli 899 milioni (4 miliardi d’oggi fonte Istat) che fecero la differenza?».
Bei tempi.
La nostra infinita emergenza
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 19/4/2009).
Sono ormai anni che viviamo nell’emergenza, e quasi non ci accorgiamo che ogni mossa, ogni parola detta in pubblico, ogni sopracciglio intempestivamente inarcato, son sottoposti a speciali esami di idoneità, che mescolano etica e estetica, dover essere e presunto buon gusto. La mossa, la parola, il sopracciglio, devono adeguarsi all’ora del disastro: sia esso attentato terroristico o ciclone, tsunami o terremoto. Chi rompe le righe si copre di colpe, prestamente censurate. Vergogna e indecenza sono il marchio impresso sulla fronte di chi non ha tenuto conto del perentorio buon gusto. L’emergenza è diventata una seconda pelle delle democrazie, e per questo non ci accorgiamo quasi più dell’anormale convertito in normale: delle libertà che per l’occasione vengono sospese, dell’autonomia di giudizio che vien tramutata in lusso fuori luogo.
È un po’ come il corno che cresce d’improvviso sulla fronte di tutti i concittadini di Bérenger, protagonista dei Rinoceronti di Ionesco: arriva il momento in cui la protuberanza è talmente familiare ed estesa che chi non la possiede si sente un reietto, e lo è. Anche durante il terremoto in Abruzzo è stato così, e questo spiega lo scandalo assolutamente abnorme generato da una trasmissione televisiva - Anno Zero di Santoro - che era un po’ diversa dalle altre perché fondata sulla denuncia polemica: dell’organizzazione dei soccorsi, e soprattutto della secolare commistione fra affari, corruzione, malavita, edilizia.
Indecente è stata definita la trasmissione, perché questa non era ora di far scandalo: di «seminare zizzania con i morti ancora sotto le macerie, di descrivere l’Italia come il solito Paese di furbi, incapaci di rispettare ogni legge scritta e morale», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, l’11 aprile. Lo spazio smodato dato su giornali e telegiornali all’evento è esemplare, perché conferma una malattia democratica diffusa. Incapaci di dominare eventi più grandi di loro, le democrazie vivono sempre più di emergenze, ne hanno bisogno esistenziale. A partire dall’ora in cui è pronunciata la frase fatale: «Questo non è il momento», già è stato di eccezione. In tempi normali è proprio questa l’ora delle controversie. Se non nel mezzo del disastro, quando farne l’archeologia e denunciare?
Non così in stato d’eccezione, quando è il regnante a decretare natura e vincoli del momento. La sua sovranità è essenzialmente sulla vita e la morte, e il momento è dunque quello delle bare allineate, del supremo dolore, del lutto vissuto nell’unanime afflizione. Grazie a questo momento si crea un’unità magica, propizia all’intensificazione massima della sovranità. Viene mobilitato anche l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire». La Bibbia per la verità parla all’anima, ma nell’emergenza anima e politica si fondono. Assieme, esse giustificano lo stato d’eccezione che sempre esordisce con la soppressione, non si sa se davvero provvisoria, di libertà e abitudini alla critica vigenti in epoche di pace. Giorgio Agamben, che ha studiato tale materia, racconta come morte e lutto siano ingredienti dello stato d’eccezione sin da Roma antica: l’emergenza si chiamava iustitium, e in quei giorni veniva abolito il divieto di mettere a morte un cittadino senza ricorso a un giudizio popolare (Agamben, Lo Stato di eccezione, Torino 2003).
Stato d’eccezione o emergenza sono in realtà imbellimenti di quel che effettivamente accade, camuffano lo stato di guerra: per l’Oxford English Dictionary, sono suoi sinonimi, eufemismi. È in guerra che i comportamenti liberi, biasimatori, son ribattezzati disfattisti. Nell’emergenza guerra, disastro e morte richiedono un dover-essere e un dover-dire. È a questo punto che lo stato di eccezione si tramuta in regola, e il sistema giuridico politico in «macchina di morte». La morte fa tacere il popolo e al tempo stesso nutre il sovrano. È il grande correttore, regolatore: non dici cose scomposte davanti a una salma, anche se veritiere. Il potere usa la morte: diviene necrofago. L’uomo colpito da catastrofe è ridotto a vita nuda e quest’ultima sovrasta la vita buona, prerogativa di chi tramite la politica e la libera opinione esce dalla minorità. La nudità politica, scrive Hannah Arendt nelle Origini del Totalitarismo, può esistere anche senza diritti civili.
Il fenomeno non è nuovo, Agamben lo spiega molto bene. I giorni dello iustitium sono anche i giorni in cui si celebra il lutto del sovrano. Leggi e libertà non sono abolite ma sospese, perché l’essenza del potere (potere di vita e di morte) non appaia vuoto. Da allora ogni disastro, naturale o terrorista, è occasione di affermare tale essenza. Di mettere in scena non il morire o il multiforme soffrire dei cittadini, ma la possibile morte del sovrano e della stessa politica. L’unità si fa non attorno alle salme ma al sovrano, il quale dice: «Sono io in causa, e la vera posta in gioco è la dilazione della mia messa a morte, l’anticipazione rituale del lutto della mia persona».
Nella storia della democrazia c’è anche questo: l’eccezione che cessa d’esser tale, facendosi regola. Che non proclama più giorni di lutto, ma epoche. Tutto è guerra, in permanenza si tratta di riconfermare il sovrano unendo il mio col suo, la solidarietà emotiva di cui ho bisogno io e quella di cui necessita lui. L’idea che tale sia la guerra moderna nasce nel ’14-’18, ed è teorizzata da uno dei suoi protagonisti, Erich Ludendorff, nella Guerra Totale scritta nel 1935. Nella guerra democratica totale scompare la distinzione tra fronte e retrovia, militari e civili (Heimatfront è la fusione hitleriana - animista, dice Ludendorff - tra fronte e patria). Il governo delle emozioni permette di metter fra parentesi libertà e norme, e in questo ha le stesse funzioni della violenza fuori-legge. Il giornalista che aderisce agli imperativi di tale emergenza distrugge il proprio mestiere.
Nei disastri c’è chi soffre, chi governa, chi racconta (messaggero nella tragedia antica, giornalista oggi) e chi indaga rammentando. Ogni ambito ha un suo dover-essere, una sua autonomia. Se la priorità per il messaggero sono i sofferenti, si racconterà tutto quel che essi provano: gratitudine ma anche rabbia, sollievo per i soccorsi e ira suscitata da uno Stato complice di speculazioni edilizie. Chi ha letto Gomorra, ricorderà quel che Saviano scrive nel capitolo sul cemento armato, «petrolio del Sud», a pagina 235-236: «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: appalti, cave, cemento, inerti, mattoni, impalcature, operai... L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile.... Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezza Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi e ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia... Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova».
L’emergenza, come la guerra, ha sue leggi speciali. Non sono le leggi della dittatura, perché la dittatura crea nuove leggi. Lo stato d’eccezione permanente è più insidioso: non instaura regolamenti nuovi, ma sospende leggi e libertà creando vuoto legale, anomia. L’Ecclesiaste a questo punto non è parola di Dio, ma decreto del sovrano che assieme al giornalista-messaggero invoca unanimismo. Il giornalista nega se stesso, quando consente a mettere sullo stesso piano gli abusi dell’edilizia e gli «abusi di libertà» di chi punta il dito su tali abusi: invece di vigilare, giustifica - per sé e i concittadini - lo stato d’eccezione.
L’ordine dopo la follia
di Ida Dominijanni (il manifesto, 29 marzo 2009)
C’è il tempo della follia e c’è quello della razionalità. C’è il calore del carisma e c’è la freddezza dell’affidabilità. C’è l’abbraccio simbiotico col popolo, e c’è l’ordine istituzionale che separa corpi e gerarchie. Chi fin qui s’è posto il problema del rapporto fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini nei termini canonici della successione e del delfinato, scrutando nelle risse quotidiane i segni di un contrasto strategico, potrà interpretare le performance dei due leader alla Fiera di Roma come una conferma, ma forse meglio farebbe a vederci una smentita. In politica, come nella storia, non vale il tempo lineare e progressivo: i tempi si sovrappongono, e le divaricazioni possono convergere.
Distanti nei contenuti e nelle forme, Berlusconi e Fini non si elidono e non si contraddicono, si sommano come le due metà complementari di un disegno a un’unica direzione. Senza la "lucida follia" di Berlusconi, è Fini a dirlo, il glorioso quindicennio che va dal ’94 a oggi non ci sarebbe stato e il Pdl non sarebbe mai nato. Ma senza la gelida razionalità di Fini, quel quindicennio sarebbe destinato a finire nel vento di una storia che comincia a girare dall’altra parte, il carisma del Capo a sgonfiarsi prima o poi come la bolla speculativa, il sistema istituzionale ad assestarsi senza sedimentare il terremoto degli anni novanta. Per Berlusconi Fini non è solo un ingombro: è una necessità. E per Fini Berlusconi non è solo la fonte mistica della grazia ricevuta in forma di sdoganamento: è un propellente da cui continuare a drenare energia.
Consumata, nel discorso d’apertura di Berlusconi, l’apoteosi della "rivoluzione azzurra" iniziata con la mitica "discesa in campo" del ’94; confermati uno per uno i suoi luoghi comuni, i suoi falsi storici e i suoi fantasmi anticomunisti; messa in scena la relazione d’incantamento fra capo e popolo che del Pdl è il cuore e quella fra partito e nazione che ne è il programma, bisognerà pure pensare al futuro. Ed è qui che arriva in soccorso Fini, per prefigurare la ragione generata dalla follia, l’ordine generato dalla rivoluzione, la farfalla - nelle sue parole - che prima o poi dovà pur nascere dalla crisalide. Ovvero, la grande riforma dello stato, del governo e del parlamento che darà finalmente un profilo definito alla seconda repubblica, ripulirà il quindicennio rivoluzionario dei suoi eccessi populistici, e metterà fine ai contrasti di oggi fra l’uomo delle istituzioni, che "deve" difendere la norma vigente, e l’uomo di governo, che "giustamente" rivendica più poteri. Quella riscrittura della Costituzione che dopo il ’94 Berlusconi non potè fare con un’assemblea costituente, che non volle concludere in una bicamerale che non gli concedeva abbastanza, che in seguito gli fu bloccata da un referendum, "il partito degli italiani" potrà finalmente imporla con piglio egemonico.
Diversamente da come qualcuno sperava anni fa a sinistra, la "nuova destra" italiana non si è costituzionalizzata: viceversa, concluderà la sua avventura riscrivendo la Costituzione. E diversamente da come qualcuno scrive oggi, nel futuro non c’è una nuova Dc ma il suo reciproco: la Dc traghettò pezzi dello stato corporativo nella repubblica costituzionale, il Pdl vagheggia uno stato neo-corporativo sulle macerie della repubblica costituzionale.
C’è materia, certo, che divide Fini dal Capo carismatico: ma sui diritti degli immigrati ci penserà la Lega a frenarlo, sulla laicità dello stato ci ha già pensato il dibattito di ieri, sulla politica economica continuerà a dettare legge il premier-imprenditore e sul referendum si vedrà. Per il resto, la prospettiva è la stessa, parla la lingua comune della Nazione e della tradizione, e si avvale di una contro-narrazione della storia repubblicana che ha i suoi intellettuali organici alla Quagliariello e i suoi replicanti alla Cicchitto, ed è diventata di senso comune senza adeguati anticorpi da parte della sinistra. La quale, in questo Fini ha ragione, a confronto con la nascita del Pdl non appare in crisi di consenso, ma di idee. C’è ancora un errore che per mancanza di idee può fare, ed è quello di prendere Gianfranco Fini a propria star di riferimento per rimettere in ordine il paese.
Dalla ormai celebre calzamaglia della discesa in campo all’annuncio dal "predellino"
Le tappe della vita politica del Cavaliere nel giorno di apertura del congresso Pdl
"Questo è il paese che amo"
La storia italiana del Cavaliere
di MATTEO TONELLI *
ROMA - Dalla discesa in campo alla salita sul predellino. La parabola di Silvio Berlusconi si potrebbe sintetizzare così. Eppure ne sono successe di cose da quel lontano 1994 in cui gli italiani cominciarono a conoscere la faccia del Cavaliere (con annessa libreria posticcia sullo sfondo) fino ad oggi, alla vigilia del battesimo del Pdl. Il contenitore unico del centrodestra che ha inglobato An e si prepara a festeggiare, in pompa magna, la sua nascita. Con tanto di banda musicale.
Quindici anni di cambiamenti, di partiti nati e spariti, di leader inventati e bruciati. Quindici anni la cui comprensione, però, non può prescindere da Silvio Berlusconi. E’ lui l’unica costante immutabile della scena politica. Più di Prodi, che pur l’ha sconfitto due volte. Più di Fini,"il politico di professione" relegato a eterno numero due. Piaccia o non piaccia gli ultimi 15 anni hanno avuto come costante il Cavaliere. Da Forza Italia, alla Casa delle libertà, al Pdl. Al comando sempre un solo uomo: Berlusconi.
E anche oggi, mentre il Pdl sta per nascere, non si può dimenticare che l’atto fondativo della nuova forza politica risiede nel balzo del premier sul predellino di una macchina tra la folla che lo ascoltava in piazza San Babila. Congressi? Ma quando mai. La storia è Forza Italia è un continuo slittare o derubricarli a semplici Consigli Nazionali. Voti? Mozioni? Macché. mai nessuno, in Forza Italia, ha osato mai proporre un documento di critica al Cavaliere. E di un voto non c’è mai stato bisogno: bastava l’acclamazione. Persino le parole sono rimaste le stesse. Quelle del ’94 della scesa in campo, Berlusconi le ha riutilizzate, nel 2008, al termine del consiglio nazionale che sancì la confluenza di Fi nel Pdl. A Berlusconi bastarono dieci minuti e le stesse parole del ’94. Come dire: nulla è cambiato, in primis il Cavaliere.
Ma vale la pena di partire da lontano. Tornare con la memoria agli ultimi mesi del ’93 quando si diffondono le voci del probabile ingresso in politica del Cavaliere. Lui smentisce, ma la cassetta con il famoso discorso del "Paese che amo" è già pronta. Gli italiani si trovano davanti ad un nuovo modo di fare politica. Fatto di sondaggi, sorrisi, spot televisivi usati a piene mani. Il Cavaliere guida uno schieramento che lo vede al nord alleato con Ccd e Lega (Polo delle libertà), al centro-sud con Ccd e An (Polo del buon governo) e vince, travolgendo "la gioiosa macchina da guerra" messa in piedi dall’allora segretario del Pds Achille Occhetto.
Ma dura poco. Arriva il famoso avviso di garanzia durante il vertice di Napoli. Un mese dopo Bossi si impunta sulle pensioni e il governo cade. E’ l’inizio di una "guerra" contro la magistratura che segna il Dna di Forza Italia. Una vera e propria ossessione quella di Berlusconi: "La giustizia va riformata". Al governo va Prodi e il Cavaliere prepara la rivincita. Forza Italia cambia statuto e diventa un partito. Leggerissimo, per la verità. Di plastica, dicono i detrattori. Di sicuro saldamente identificato con il suo leader. Lo stesso di sempre. Che ne diventa presidente del 1998. Ovviamente per acclamazione. "Siamo un partito liberaldemocratico, popolare, cattolico, laico e nazionale" scandisce Berlusconi. Che, un anno più tardi, vede Forza Italia entrare nel Ppe.
E’ il momento del primo cambio di nome. Nel 2000 nasce la Casa delle libertà. In pratica un cartello delle forze che si oppongono "alla sinistra". Si arriva così al voto del 2001. Il Cavaliere firma, in diretta televisiva da Bruno Vespa con tanto di scrivania portata per l’occasione, il "contratto con gli italiani e promette "grandi opere, sviluppo, libertà, meno tasse". Un mix che fa breccia nell’elettorato. Berlusconi torna a palazzo Chigi. Ma non sono rose e fiori con il centrosinistra che rialza la testa alle amministrative del 2005.
Il resto è storia recente. La sofferta vittoria di Prodi del 2006. Il Cavaliere furioso che grida ai brogli e non riconosce la vittoria dell’avversario. Il Professore che, fin dal primo giorno deve fare i conti con una coalizione rissosa e divisa. Ma anche nel centrodestra i rapporti sono tutt’altro che sereni. "Il limite della Casa delle libertà, è quello di essere una coalizione, dove basta il veto di uno solo dei partiti coalizzati per bloccare qualsiasi decisione" dice il Cavaliere sempre più insofferente verso Fini e Casini. Che ricambiano. Sembra che si vada alla rottura quando Berlusconi, il 18 novembre del 2007, rompe gli indugi e sale sul predellino della sua berlina di lusso in piazza San Babila a Milano. Intorno una folla adorante. "E’ l’ora dei partito unico del centrodestra". Fini e Casini, scavalcati, schiumano rabbia. "Siamo alle comiche finali" tuona il leader di An. Ma la caduta del governo Prodi funziona da miracoloso collante (non con l’Udc che se ne va da sola). A marzo 2008 si vota e il centrodestra stravince. Berlusconi risale a palazzo Chigi. Per Forza Italia è l’ora dello scioglimento. Il 21 novembre dello scorso anno il consiglio nazionale vota la confluenza nel Pdl. An la segue il 20 marzo. Si arriva così all’oggi. Con un partito che nasce sul predellino di un’auto, senza che nessuno, al momento dell’annuncio, ne sappia nulla. Se non Berlusconi, ovviamente. Dal 94 ad oggi, unico vero dominus del centrodestra. Comunque si voglia chiamarlo.
* la Repubblica, 27 marzo 2009
Le guerre indiane del Cavaliere
di CURZIO MALTESE *
COMINCIA molto male il 2009 del governo Berlusconi. Un giorno un veto di Bossi, un altro la lite con Fini. L’immagine regale del premier che comanda tutto e tutti, unto da un consenso oceanico, mostra le prime crepe. Combina poco e quel poco grazie ai voti di fiducia, quasi temesse la propria maggioranza, in teoria solidissima e compatta agli ordini del capo.
L’ultimo voto di fiducia, sul pacchetto anticrisi, ha suscitato la viva protesta del presidente della Camera, uno che negli ultimi tempi ha deciso di concedersi il raro lusso dell’indignazione. Gianfranco Fini l’ha detto chiaro: il governo chiede troppi voti di fiducia perché ha "un problema politico".
Si può aggiungere che è lo stesso problema da quindici anni. Berlusconi costruisce perfette macchine da guerra elettorale che poi si rivelano incapaci di governare. Il primo esperimento fallì dopo pochi mesi per la secessione leghista. Il secondo governò cinque anni, dal 2001 al 2006, senza realizzare una delle tante riforme promesse. Per colpa dei centristi, si giustificò. Il terzo, senza l’alibi Casini, ha già dimostrato d’essere inadatto a fronteggiare la recessione. Se il governo deve ricorrere alla fiducia in Parlamento per far approvare un pacchetto di misure anticrisi ridicolo, confrontato a quelli adottati nel resto dell’Occidente, chissà che cosa succederà quando si dovrà fare sul serio.
È un governo capace di vincere le "guerre indiane", quelle che si combattono con i cannoni contro archi e frecce. Berlusconi e i suoi ministri sono insomma bravi a far crocifiggere dalle televisioni singole categorie di poveri cristi, dalle maestre agli immigrati, dagli impiegati statali agli assistenti di volo, di volta in volta additati come i responsabili delle sciagure economiche.
Già quando si sale verso i piani alti, per esempio dalle elementari alle baronie universitarie, dagli impiegati ai grandi manager pubblici o dalla piccola parrocchia sindacale alla Chiesa, il riformismo e il rigore si stemperano, il moralismo si relativizza. Il pacchetto anticrisi, nella sua mediocrià, sfiorava qualcuna di queste categorie protette, ed era a rischio di agguato parlamentare. Berlusconi, che continua a confondere il Parlamento con Mediaset, prova a imporre la legge del padrone, in attesa e come rodaggio del vagheggiato presidenzialismo. Ma il Parlamento non è un’azienda ed è positivo che almeno uno dei suoi due presidenti lo ricordi.
Ma il problema politico cui allude Fini è molto più grave del dissidio fra Berlusconi e questo o quell’alleato. Oggi come nel ’94 e nel 2001, le componenti della maggioranza difendono interessi diversi e spesso in contrasto. La Lega vuole il federalismo fiscale che An e Forza Italia, partiti sempre più meridionali, possono concedere volentieri a parole, mai nei fatti. L’ultima vicenda dell’Alitalia ne è una prova assai concreta ed evidente. Quando si è trattato di scegliere fra Air France e Lufthansa, in pratica fra Fiumicino e Malpensa, il governo ha scelto Roma contro Milano. Il resto sono chiacchiere. È vero che finora gli elettori leghisti si sono contentati delle chiacchiere e non dei fatti, invero pochini. Ma siccome, da gente pratica, prima o poi se ne accorgeranno, Bossi e i suoi si tengono con un piede nella maggioranza e uno fuori. È già accaduto che la Lega ne uscisse, nel ’94, ottenendo alle elezioni successive il suo più grande successo. Una replica del ribaltone appare oggi improbabile. Fra l’altro, non troverebbe una sponda solida nel rocambolesco accrocco delle opposizioni. Eppure con la crisi alle porte, molte cose possono cambiare in fretta. Esiste poi l’altro conflitto, sia pure meno pericoloso, con la componente di An. Soprattutto con Gianfranco Fini, che si è stufato di fare il delfino a vita. Ha capito che non diventerà mai il successore, quindi si concede finalmente libertà d’azione e di pensiero. Con uscite largamente apprezzabili, dal fascismo agli immigrati, dalla laicità alla difesa delle istituzioni.
In tutto questo, Berlusconi pure difende un interesse non negoziabile, il proprio. L’interesse di Berlusconi è ottenere oggi la riforma della giustizia e domani il presidenzialismo. Una naturale evoluzione: dalle leggi ad personam alle riforme ad personam. Ma non si vede davvero perché gli alleati dovrebbero avere tanta fretta di consegnargli un potere assoluto, quando possono campare benissimo negoziando di volta in volta. Infatti né Bossi né Fini, a quanto s’è capito, fremono d’impazienza. Sullo sfondo di questo complesso teatrino ci sarebbe un paese sull’orlo di una lunga recessione aggravata dal terzo debito pubblico del pianeta. Ma questa naturalmente è l’ultima delle preoccupazioni.
* la Repubblica, 14 gennaio 2009
Intervista
Franco Cordero «Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale. Vuole pm sottomessi»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 dicembre 2008)
Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».
Un atto fuori dalla normalità istituzionale?
«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».
Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.
«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».
Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.
«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».
Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?
«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le procure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».
È un obiettivo realizzabile?
«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».
Fino a che punto?
«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».
Quali sono i pericoli?
«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».
Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?
«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».
In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?
«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».
Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?
«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».
Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?
«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».
Gelli: il nuovo capo della P2? «Il mio erede è Berlusconi»
Per il "gran maestro" un programma tv
Adesso ha un programma tutto suo su Odeon tv e sfrutta la rinnovata ribalta per passare il testimone. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, non ha dubbi: per l’attuazione del Piano di Rinascita democratica della P2, «l’unico che può andare avanti è Berlusconi». L’investitura arriva durante la conferenza stampa di presentazione di Venerabile Italia, il programma che Gelli condurrà sull’emittente tv: «L’unico che può andare avanti è Berlusconi: non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora mostra un po’ di debolezza perché non si avvale della maggioranza parlamentare che ha».
Sembra una barzelletta. Invece è una vergogna. Soprattutto perché a Gelli viene regalata una tribuna tutta per sé. Il tema del programma sarà la storia d’Italia. Il capo della loggia massonica P2 racconterà la sua versione, magari sulla strage di Bologna, per cui è stato condannato per depistaggio. O sulla repubblica di Salò a cui aderì, o su Gladio, o su qualsiasi delle pagine grigie (se non nere) dalla storia del nostro paese a cui Gelli è legato.Il programma ha già degli ospiti, Anche questi poco fantasiosi: per la prima puntata Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell’Utri. Si parlerà di fascismo.
Forse, per chiarire il contesto, è utile ricordare la sua fedina penale. Licio Gelli è stato condannato con sentenza definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato, calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola, tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna e Bancarotta fraudolenta (per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a 12 anni). Se lui considera Berlusconi il suo erede più credibile non abbiamo troppo di che stare tranquilli.
Anche perché, come se non bastasse quello che sta facendo, Gelli dà anche consigli al suo “figliol prodigo”: «Se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Non mi interessa la minoranza, che non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo, e non ci devono essere offese. Ci sono provvedimenti che non vengono presi perché sono impopolari, e invece andrebbero presi: bisogna affondare il bisturi o non si può guarire il malato».
* l’Unità, Pubblicato il: 31.10.08, Modificato il: 31.10.08 alle ore 17.33
editoriale
IL VENTENNIO DI BERLUSCONI
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 01.10.2008)
Nel corso dell’estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo.
Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l’attenzione (se c’è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull’«incipit» di quell’articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi».
Di questa frase è soggetto implicito l’ Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l’Italia sotto specie di Nazione («dall’Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione.
Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d’accordo su questo punto di partenza, dell’Italia, più esattamente dell’Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo).
Poiché si parla dell’Italia, e dell’Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l’ unità (e il senso dell’unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell’identità e dell’appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell’ unità la fondatezza di tale affermazione è lampante.
Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell’unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani.
Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell’interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l’elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l’esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno.
Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell’esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all’esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...).
Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico.
Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall’impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest’ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo.
Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti.
Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all’ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre.
Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l’identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo.
Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant’anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo.
Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l’ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent’anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo).
La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d’intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un’opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s’accompagnerà, non c’è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov’è? E, visto che non c’è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere?
P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
BERLUSCONI: CONTRO DI ME PERSECUZIONE INACCETTABILE
ROMA - "Quando la finirete di non capire o di far finta di non capire che contro di me c’é stata una persecuzione inacettabile, sarà sempre troppo tardi". Lo ha detto, rivolto ai giornalisti, il premier Silvio Berlusconi dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il premier della Repubblica di Malta Lawrence Gonzi.
LODO E’ MINIMO CHE DEMOCRAZIA POSSA FARE "Il Lodo Alfano, è il minimo che una democrazia potesse apprestare a difesa della propria libertà", ha continuato Berlusconi. A chi gli chiedeva se si avvarrà del Lodo Alfano, il presidente del Consiglio si è limitato a rispondere "avevo già detto inutilmente che non mi sarei avvalso della clausola sospendi processi che è stata chiamata salva premier".
SENZA LODO AVREI AVUTO UDIENZE A GIORNI ALTERNI "Contro di me c’é stata una persecuzione che è durata 14 anni e il presidente del Consiglio dal 30 giugno al 15 luglio sarebbe dovuto andare in udienza un giorno sì ed un giorno no, oltre alle 2.503 udienze sostenute negli ultimi 14 anni. Quindi non avrebbe potuto né convocare il Consiglio dei ministri, né andare al G8", ha detto il premier. In Italia, ha aggiunto il premier, "c’é una parte della magistratura si è data il compito di sovvertire il risultato delle elezioni e la volontà del popolo italiano. Quindi il lodo di cui si parla è il minimo che una democrazia possa apprestare in difesa della propria libertà".
colloquio tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson *
Su «Aut Aut». Dibattito tra lo studioso italiano e l’americano Arnold I. Davidson.
Metodi, obiettivi e pericoli nella lettura critica dei documenti
Ginzburg: il pre-giudizio aiuta la ricerca storica
«Se non si parte da una ipotesi si rischia di non capire nulla, bisogna saper imparare dal testo»
Pubblichiamo uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. In questa conversazione- organizzata dal festival «vicino/lontano» di Udine, lo storico italiano affronta con il suo interlocutore (studioso americano di Foucault e autore del saggio The Emergence of Sexuality, Harvard University Press) i problemi cognitivi ed etici con cui si confronta la storiografia nel ricostruire il passato sulla base dei documenti.
Arnold I. Davidson: Il tema dello straniamento, vale a dire entrare in un’altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all’interno della storia, ma anche all’interno della filosofia. Lo straniamento ci consente di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva altrui. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull’aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c’è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al relativismo assoluto: certo, c’è una prospettiva, ma si può argomentare intorno ad essa per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo.
Ma lo straniamento non è la sola posta in gioco, perché c’è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L’idea che il sapere sia sempre prospettico è un’idea fondamentale. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c’è un aspetto conoscitivo, ma c’è anche un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione.
La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra - questo è il bene, questo è il male - e implica il tentativo di giustificare con l’argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare.
Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare impliciti giudizi etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l’indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi - perché per la prospettiva cognitiva c’è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C’è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione? E qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione, dove c’entrano la filosofia morale e la politica?
Carlo Ginzburg: Bisogna superare l’idea illusoria che il rapporto con i testi o con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata: non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. La loro apparente potenza è illusoria.
In realtà l’interprete trova solo se stesso. La stessa cosa succede con le persone. L’idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla stessa cultura. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell’opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque - perché questo fa parte del mestiere di vivere.
Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi che, anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. Ma credo che nell’idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Nel libro del grande storico dell’arte Ernst Gombrich Arte e illusione, l’autore evoca un aneddoto: all’inizio dell’Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso luogo e ne vengono fuori molti quadri diversi. Come mai? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico, ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità; dall’altro, la traducibilità.
Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c’è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi studia testi. Se non si parte da un’ipotesi non si capisce nulla. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio. Dobbiamo essere disposti a imparare dal testo.
Davidson: Vorrei ritornare sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell’atteggiamento dello straniamento.
C’è però una cosa più profonda: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto. Egli dice: «O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l’umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia». Su quest’ultima affermazione sono d’accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l’atteggiamento di Momigliano è che c’è un’opposizione fra la prospettiva morale, che per lui è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo questo presunto punto di vista, per così dire, dell’eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all’interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque all’interno della storia.
Qui, però, c’è un problema, perché Carlo rifiuta l’idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Se il giudizio morale è immanente alla storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio?
Ginzburg: Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato Momigliano, una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase citata da Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell’osservatore. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall’osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l’oggettività.
In che senso? Dobbiamo distinguere tra il linguaggio dell’attore e il linguaggio dell’osservatore. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c’impedirebbe di vivere.
L’osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L’oggettività può emergere solo da quest’intreccio di domande e risposte.
* Corriere della Sera, 24.07.2008
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.