L’EX LEADER DI AN: PARLARE DI GOLPE E’ DELIRANTE
Fini apre ad un Lodo costituzionale
"Nessun complotto anti-Berlusconi"
Il presidente della Camera: «No al voto anticipato, sarebbe fallimento» *
ROMA «Le elezioni anticipate sarebbero il fallimento della legislatura, ma anche del Pdl» che rappresenta «il fatto nuovo di questa legislatura di cui Silvio Berlusconi può a buon diritto menar vanto». Il presidente della Camera Gianfranco Fini mette così fine alle voci, sempre più insistenti nei palazzi del potere, di un ritorno alle urne in tempi brevi.
«Questa legislatura - spiega Fini alla trasmissione tv "In mezz’ora" condotta da Lucia Annunziata - è nata con una maggioranza molto ampia, insieme alla Lega, per Berlusconi. Si tratterebbe di spiegare agli italiani che con una maggioranza tanto alta non si riesce a governare; le spiegazioni a volte convincono, altre no. E poi questa legislatura nasce con un grande fatto politico di cui Berlusconi può menar vanto, la nascita del Pdl». Dunque, Fini non pensa che le elezioni anticipate «possano essere evocate, a meno che non ci si convinca della bizzarra teoria del complotto» che lui respinge con forza. «In ogni caso - aggiunge - a Costituzione vigente nessuno può sciogliere le Camere se non il Capo dello Stato».
Il co-fondatore del Pdl, infatti, non ci sta a passare per un «complottista» («siamo al delirio...») per le sue posizioni anche sulla giustizia. «Se avessi voluto esercitare una leadership personale - avverte - mi sarei tenuto stretto un partito al 13%. Io invece credo nel Pdl», ribadisce, invitando a superare le vecchie logiche e ad accantonare il «clima parossistico» che si respira nel partito. Un’operazione per la quale, sostiene, un nuovo congresso «mi sembra una non soluzione. Un partito del 35-40% ha il dovere di guardare al di là del contingente. Dare fastidio se chiedo ciò, non toglie niente alla mia serenita». E allora, sottolinea, non si tratta «di formare un nuovo partito, archiviare il Pdl o avere in testa un complotto: chi lo pensa - afferma - non ha capito niente».
Per questo, invita, Silvio Berlusconi a dire la sua: «Se ha qualcosa di rilevante da dire lo faccia; e magari lo faccia in Parlamento». Fini poi, dopo aver auspicato che un’eventuale ripristino dell’immunità di cui si parla in questi giorni non si trasformi in »immunità«, chiede l’apertura di un confronto sul lodo costituzionale: anche con il Pd. E questo perchè, è il ragionamento di Fini, »se c’è la volontà di risolvere il cortocircuito attuale, senza garantire a Berlusconi l’impunità, nessuno può pensare di abbatterlo per via giudiziarià«.
E il lodo Alfano per via costituzionale? Per Fini può benissimo essere portato avanti dal Parlamento insieme al ddl per i processi brevi. «L’una cosa non esclude l’altra», sostiene, ricordando che il provvedimento che fissa in sei anni la durata dei processi «non deve destare scandalo» dal momento che l’Unione Europea ha condannato più volte l’Italia per i suoi ritardi. E dal momento che un conto è garantire alle più alte cariche dello Stato di poter governare affrontando eventuali processi alla fine del mandato. Altro è assicurare ai cittadini «il diritto di vedersi riconosciuto il torto o la ragione in tempi rapidi».
Le due cose, assicura Fini, possono «marciare di pari passo». La «condizione preliminare» per un suo via libera al ddl per i processi brevi, comunque, è che «ci sia anche uno stanziamento in Finanziaria per il settore giustizia, affinchè gli uffici giudiziari possano celebrare davvero in tempi rapidi i processi. Senza fondi adeguati, insiste, il ddl sarà difficilmente applicabile».
* La Stampa, 15/11/2009 (14:37)
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 15/11/2009)
Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).
Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.
Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?
L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).
La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore ambiguo, sdrucciolevole non è detto dia frutti.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.
Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.
Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su La Stampa il 28-8-09.
Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi».
«Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma.
Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale scrive Weizman è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.
Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.
Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».
Dopo gli annunci del premier e del Guardasigilli, la Lega frena
"Il 2008 è pieno, se ne può parlare ma solo in futuro"
Giustizia, duello Lega-Berlusconi
Il Carroccio frena, il premier insiste
Il Cavaliere: "Separazione carriere e riforma Csm sono priorità nazionale"
Disaccordi anche sulla legge elettorale per le Europee del prossimo anno
ROMA - La Lega frena: "C’è tempo, prima di riformare la giustizia serve il federalismo fiscale". Berlusconi accellera: "Adesso, e sono più determinato che mai". Oggetto del contendere è la riforma della giustizia. Dopo gli annunci di ieri del premier e del suo ministro Guardasigilli sulle necessità di una riforma "radicale" del sistema giustizia e dei poteri dei magistrati, stamani Il Carroccio ha puntato i piedi. Non se ne parla, c’è altro da fare prima, ovverosia - come dice il programma del Pdl - il federalismo fiscale. Ma nel primo pomeriggio Berlusconi fa finta di nulla. E riunito con gli eurodeputati del Pdl e dice: "Mai stato determinato come adesso. Serve una riforma della giustizia dalle fondamenta".
L’altolà della Lega. A Berlusconi che spinge sull’acceleratore e chiede di dare via alla riforma della giustizia già "da settembre", il Carroccio mette un freno. "Abbiamo fatto una tabella temporale delle riforme e in quella tabella la riforma della giustizia non c’è. Questo non vuol dire che non si farà, ma viene dopo" dice Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione. Diversa la scala delle priorità del Carroccio: "In autunno abbiamo il federalismo fiscale, il codice delle autonomie e poi la finanziaria. A seguire, la riforma costituzionale. Una riforma della giustizia ci può anche stare, ma il 2008 è piuttosto pieno".
"Evitare altre tensioni con le opposizioni". E dire che solo ieri il premier e il Guardasigilli Angelino Alfano davano per fatta "la riforma organica della giustizia" a settembre. Il fatto è che la Lega è preoccupata che nuove tensioni con l’opposizione rappresentino un ostacolo sul cammino verso il federalismo. Il Carroccio lo sa, come sa che uno scontro sulla giustizia, genererebbe un muro contro muro che sarebbe impossibile da evitare. E, con l’opposizione sulle barricate, il federalismo tanto voluto da Bossi e seguaci rischierebbe di essere solo una chimera.
Il Cavaliere tira dritto. Incurante di tutto, forte dei suoi sondaggi ("solo il 6 per cento degli elettori del Pdl ha ancora fiducia nella magistratura"), agli eurodeputati riuniti in un albergo della Capitale dice: "Non sono mai stato più determinato di adesso. Ci vuole una riforma giusta per il Paese. E’ una priorità nazionale". Il premier non vuole parlare con i giornalisti al di fuori delle conferenze stampa. Alcuni presenti all’incontro riferiscono così che "il primo punto della riforma della giustizia sarà l’immunità parlamentare". A seguire poi la riforma del Csm, la separazione delle carriere tra giudici e pm e la riforma dei codici penali e di procedura.
Litigio anche su legge elettorale europea. Punti di vista diversi tra Lega e Berlusconi anche sulla legge elettorale per le elezioni europee nel 2009. Il premier vorrebbe uno sbarramento del 5% e liste bloccate, senza preferenze, con un collegio unico nazionale. La sua è una proposta trattabile: la soglia di sbarramento potrebbe scendere al 4%; possiiblità di mantenere le preferenze a condizione però di mantenere gli attuali cinque collegi. "La proposta di Calderoli non mi convince" aggiunge il premier che si riferisce alla proposta del Carroccio di inserire la preferenza unica.
* la Repubblica, 16 luglio 2008
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.07.2008)
Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione.
Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l’esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E’ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l’intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall’esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l’occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un’inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l’ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l’avventura appare soltanto all’inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E’ una modificazione dell’architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E’ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell’interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E’ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c’è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E’ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di «dialogo» - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.
Ansa» 2008-07-13 21:01
BERLUSCONI DA PARIGI: DIALOGO CON GENTE RESPONSABILE
di Yasmin Inangiray
ROMA - Le riforme istituzionali tornano ad essere uno dei punti principali dell’agenda politica. Se Umberto Bossi invita a riallacciare il dialogo per il federalismo, Silvio Berlusconi è però "determinatissimo" ad andare avanti anche a maggioranza sulle riforme, comprese quelle istituzionali: sì al dialogo se "gli interlocutori sono responsabili", altrimenti "meglio non dialogare".
A stretto giro di posta arriva Massimo D’Alema che ribadisce come le riforme siano necessarie ma la ripresa del dialogo "dipende dalla maggioranza". Dopo il monito del Capo dello Stato, a riallacciare i fili, domani ci proveranno i protagonisti del seminario organizzato dalla fondazione Astrid proprio sulle riforme.
A discutere di legge elettorale sul modello tedesco e legge proporzionale con sbarramento al 3% ci saranno esponenti del Pd, dell’Udc, della Lega e di Rifondazione: da Veltroni a D’Alema, da Casini a Calderoli e Giordano. Insomma quei partiti che nella passata legislatura aveva dato il loro ok alla bozza di riforma elaborata da Enzo Bianco. All’appello mancherà Alleanza Nazionale che pur apprezzando la ripresa del dialogo mantiene la sua contrarietà al modello tedesco. Chi auspica che dalle riforme possa scaturire un "matrimonio tra Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema" è l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: "Al Cavaliere ho detto che ha sbagliato interlocutore", dice riferendosi alle prove di dialogo con Veltroni. "Dovrebbe tornare con D’Alema, lui sì che ha statura".
Senza il consenso dell’opposizione, la strada delle riforme é in salita. Ne è convinto ad esempio Umberto Bossi che invita "a riallacciare il dialogo" con l’opposizione. L’impresa è ardua, spiega il leader del Carroccio riferendosi allo scontro sulla giustizia, che però e pronto a mettersi "al lavoro già dalla prossima settimana". La Lega Nord non esclude nessun interlocutore: "Non mi tiro indietro di fronte a nessuno - precisa - non ho alcuna paura di chi lavora per il federalismo, da qualunque parte venga". Nella Lega c’é anche chi come Roberto Calderoli ha già pronta una bozza di riforma per la legge elettorale per le europee da approvare entro novembre: sbarramento al 4% e preferenza unica. Segnali di disponibilità alla ripresa di un confronto con l’opposizione arrivano anche da An che con Italo Bocchino però avverte: "Il dialogo non deve essere all’insegna di furbizie e sotterfugi, non deve puntare all’inciucio".
Nessun passo indietro, quindi, su bipartitismo e democrazia diretta. Ecco perché dal partito di via della Scrofa arriva un secco no all’ipotesi di riportare in auge il modello tedesco. Interessato agli sviluppi del confronto è l’Udc di Casini che mette insieme al discorso sulle riforme anche quello sulle possibili alleanze: "Non escludo niente", precisa l’ex presidente della Camera a proposito di future intese, ma su un punto è chiaro: "Non si parli di bipartitismo. E’ una finzione".
Quanto al Pd, nella scorsa legislatura fu tra i protagonisti della trattativa intorno alla bozza Bianco. Nel partito però non tutti sono favorevoli ad un’intesa sul tedesco. Per l’ulivista Franco Monaco se il partito "sposasse il tedesco, si richiederebbe un congresso e un’altra leadership". Disponibile al dialogo, ma sempre guardingo, il leader dell’Idv Antonio di Pietro: "Invito gli alleati a non cadere nel trabocchetto del finto dialogo".
Un invito alla chiarezza arriva poi dal presidente del comitato per il referendum sulla legge elettorale Giovanni Guzzetta che chiama in causa direttamente Gianfranco Fini e Walter Veltroni che nei mesi scorsi avevano giudicato positivamente la raccolta delle firme: "Gli obiettivi del referendum - precisa - sono incompatibili con il sistema tedesco". Di referendum parla anche Antonio Di Pietro, ma per chiedere che venga eliminato il quorum.