[...] dato il momento politico e la programmatica delegittimazione dell’Italia unita, operata dalla Lega, è rilevante che il pontefice per tre volte torni sul tema per concludere che l’unità realizzatasi nel Risorgimento non è consistita in una “artificiosa costruzione politica di identità diverse”, ma al contrario s è presentata come “naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente nel tempo” (...) il messaggio papale smentisce anche la versione raffazzonata, questa volta berlusconiana, della cosiddetta costituzione sovietica, ricordando invece che la Carta fu il “positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero” (...)
Ratzinger contro il Carroccio: “Una sola nazione”
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2011)
Papa Ratzinger straccia il vangelo leghista. Il messaggio inviato a Napolitano per i 150 anni dell’Unità d’Italia (e la titolazione in prima pagina dell’Osservatore Romano) contraddice frontalmente la contro-storia elaborata dai seguaci di Bossi, secondo cui il Risorgimento e l’epopea dei Mille fu opera di giovanotti avventati e un po’ pirla, mentre il “Nord” non voleva l’unità e - vedi Zaia - Venezia fu ceduta suo malgrado ai piemontesi da Napoleone III.
All’incoltura dei lumbard, schierati a coorte al bar per non ascoltare l’Inno di Mameli, il messaggio papale contrappone una verità storica di fondo: “Il processo di unificazione... passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima”.
LA NAZIONE italiana, sottolinea Benedetto XVI, pur nella pluralità di comunità politiche formatesi durante i secoli, è una comunità di persone “unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza”. Legittimamente il pontefice sottolinea il grande contributo venuto dall’esperienza storica del cristianesimo al formarsi dell’Italia. Corroborato da un elenco di artisti e di personalità che la vulgata leghista, veicolata periodicamente su tv e mass media, ignora sistematicamente.
Ma dato il momento politico e la programmatica delegittimazione dell’Italia unita, operata dalla Lega, è rilevante che il pontefice per tre volte torni sul tema per concludere che l’unità realizzatasi nel Risorgimento non è consistita in una “artificiosa costruzione politica di identità diverse”, ma al contrario s è presentata come “naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente nel tempo”.
Altrettanto interessante, nel testo papale, è il riconoscimento che il conflitto Chiesa-Stato, scatenato da Pio IX dopo la sparizione dello Stato pontificio, non produsse in realtà nell’Italia profonda a una guerra tra credenti e regime unitario. Se di Conciliazione bisogna parlare a proposito della “Questione romana”, questo non vale - sottolinea espressamente Ratzinger - per il “corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto”.
In effetti gli storici hanno da tempo studiato quel fenomeno a due dimensioni, che da un lato ha visto la Santa Sede di Pio IX e l’intransigentismo clericale impegnati nelle prime stagioni del Regno unito in una lotta rabbiosa contro i “massoni” della nuova Italia e dall’altro ha registrato - specie a partire dal pontificato di Leone XIII, autore della prima enciclica sociale della Chiesa - una straordinaria fioritura di iniziative sociali, assistenziali, educative del cattolicesimo italiano che ha fortemente partecipato dal basso a “fare gli italiani”. Il Partito popolare di Sturzo e la Democrazia cristiana di De Gasperi amplieranno ulteriormente questo processo di amalgama unitario.
NON A CASO il messaggio papale smentisce anche la versione raffazzonata, questa volta berlusconiana, della cosiddetta costituzione sovietica, ricordando invece che la Carta fu il “positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero”.
Manca nel testo un accenno autocritico agli effetti negativi per Chiesa, cattolici e società prodotti dall’isolamento antimoderno di Pio IX e dal fanatismo dell’intransigentismo clericale. Se Paolo VI aveva definito provvidenziale la breccia di Porta Pia, Ratzinger avrebbe potuto fare un passo avanti. Ma non rientra nelle sue corde. Criticare le manchevolezze di singoli cristiani gli riesce . Criticare l’istituzione-Chiesa è qualcosa a cui si rifiuta.
Messaggio al Presidente Napolitano per 150 anni dell’Unità d’Italia
di BENEDETTO XVI (Avvenire, 16 marzo 2011)
Illustrissimo Signore On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico.
San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro.
Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto.
Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa.
Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai".
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente".
Da lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet?
Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l’Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria".
Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune".
L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76).
L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell’uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come affrerma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
BENEDICTUS PP. XVI
Piccole verità italo-vaticane
di Piero Stefani
“Il pensiero della settimana” (http://pierostefani.myblog.it/) del 2 aprile 2011
La lettera scritta da Benedetto XVI al presidente Napolitano in occasione del 150° dell’unità d’Italia è un esempio, tra i tanti, di consapevole manipolazione della verità storica piegata a interessi politico-istituzionali. Nella prefazione della seconda parte di Gesù di Nazaret (Libreria Editrice Vaticana, 2011), Ratzinger ammonisce sulla ovvia non assolutezza delle verità storiche incapaci, in quanto tali, di fondare la fede. Si potrebbe, però, pensare a un tipico ragionamento a fortiori presente anche nel vangelo: chi è fedele nel poco lo è anche nel molto, analogamente nel caso in cui si sia disonesti (cfr. Lc 16,10).
Essere rigorosi difensori di piccole verità non assolute è un buon allenamento per diventare cultori di gradi verità poste su altro piano; e, a parti rovesciate, essere manipolatori di piccole, ma accertabili, verità getta un non immotivato sospetto sulla integra fedeltà con cui ci si rapporta alla Verità.
Pigliamo il profilo più basso e discutibile tra tutti, quello degli omissis. Di norma non c’è nulla di più tendenzioso e perciò, se si imbocca questa strada, non ci si emancipa, di solito, dal gioco che si vuole denunciare. Eppure, a volte, il non detto rivela più del detto, anche quando ci si trova sulla via obliqua - e perciò facilmente criticabile - di citare qua e là fuori contesto.
All’interno della lunga lettera, scegliamo fior da fiore, secondo la più discutibile delle linee: «Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana». Rispetto ai primi nomi, perché non Boccaccio? Da allora fino a ora, lo spirito italiano impastato, malgrado tutto, di cattolicesimo, si è identificato molto più con il Decameron che con il Canzoniere; e ciò vale tanto per i ceti popolari quanto per quelli borghesi; tanto per gli ecclesiastici quanto per i potenti di ieri e di oggi. Del resto in questa «filiera» l’irregolarità della vita personale, al solito, non conta, altrimenti perché citare Caravaggio?
L’omissis più macroscopico è però un altro. Si tratta di un nome studiato anche in sede di letteratura
italiana. Parliamo, è scontato dirlo, di Galileo, colui che scrisse in italiano quanto fino ad allora era
riservato al latino. Per una Chiesa non ipocrita sarebbe stato il primo nome da citare, anche al fine
di confutare, attraverso la sincerità, l’uso strumentale fattone da altri. Ciò vale anche per Savonarola
e Giordano Bruno, icone anticlericali dell’Ottocento risorgimentale e postrisorgimentale, ma che
proprio per questo, secondo le piccole verità storiche, si sarebbero dovuti citare.
«Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ...». Un tempo si insegnava, e svogliatamente si studiava, che l’autore del Primato civile e morale degli italiani era un federalista che individuava nel papa, sovrano di un proprio stato, il capo della confederazione italica. Nella storia più volte si è assistito a una «eterogenesi dei fini», ma ciò non va a merito dei suoi involontari iniziatori.
La lettera papale rivendica, giustamente, il contributo dei cattolici alla Costituzione, ma tace il nome di Luigi Sturzo e del Partito Popolare rispetto al cui scioglimento la Chiesa avrebbe dovuto ammettere una responsabilità diretta; ma ciò avrebbe implicato parlare del fascismo, termine rigorosamente assente nell’intero scritto. Si esaltata più volte la Conciliazione, quasi che essa fosse da collocarsi nell’ambito della metafisica e non in quello della storia. Ci si fregia di don Bosco che, in un contesto separatista, «modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa"», ma si tace del colto Pio XI che individuava una delle ragioni della Conciliazione nel fatto che la Provvidenza gli aveva fatto incontrare un uomo, Benito Mussolini, non allevato nelle dottrine liberali.
In assoluto, l’omissione più grave del testo è quella di un nome scomodo: «guerra». Tuttavia senza
questo riferimento nulla si spiega. Molto ci sarebbe da dire a proposito dei due grandi conflitti del
Novecento, ma, pur essendo evento di ben diversa portata, oggi, per certi versi, è urgente ricordare
soprattutto il globale appoggio cattolico alla guerra di Libia del 1911-1912; un passaggio non
banale verso la «conciliazione». Giusto un secolo fa. Ora ancora là è guerra, con un’Italia incerta e
titubante a causa del suo passato e del suo presente. Senza dimenticare che, in questi giorni, la
nostra residuale dignità nazionale si misura sull’isoletta di Lampedusa (mentre appare ormai perduta
quella delle aule parlamentari).
Piero Stefani
Stato e Chiesa, 150 anni dopo
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 20 marzo 2011)
Nelle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia non si è parlato molto del rapporto stato-chiesa, anche se si è trattato di un rapporto molto difficile. Se ne è parlato poco forse proprio perché la questione è ancora calda, forse anche perché il principale tentativo di soluzione, il Concordato del 29, aveva la firma solenne del fascismo.
Qualche cosa ha detto il Presidente Napolitano nel solenne discorso al Parlamento: «Si ebbe di mira, da parte italiana, il fine della laicità dello stato e della libertà religiosa e insieme il graduale superamento di ogni separazione e contrapposizione tra laici e cattolici nella vita sociale e nella vita pubblica. Un fine pienamente raggiunto». E il Presidente ringrazia il Pontefice. Una considerazione che oggi appare scontata, mentre nelle celebrazioni qualche cardinale appare in prima fila, insieme alle massime autorità dello stato.
Una presenza che sembra piuttosto inutile: i problemi sono enormi, dalla povertà alle immigrazioni, alla disoccupazione e la chiesa sembra inutile, non in grado di fornire aiuto allo stato che non ce la fa.
Perciò la vistosa presenza cattolica sembra piuttosto insignificante. E le intese fra stato e chiesa sembrano ricordi di un passato che non c’è più, mentre la chiesa stessa non sembra in grado né di aiutare né di contrastare. Forse è giunto il tempo in cui tutti, stato e chiesa - meglio: chiese al plurale - accettino che le religioni sono un fatto privato e che come tale anche lo stato le deve considerare. Nonostante il Tevere, più largo o più stretto, come diceva Spadolini, secondo i tempi e i governi.
Unità attorno alla Costituzione
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 20 marzo 2011)
Il 17 marzo è stato dichiarato festa nazionale per i 150 anni dell’Unità d’Italia. C’è chi si è dissociato e non intende far festa, argomentando che 150 anni fa il proprio territorio non faceva parte dell’Italia e il Trentino Alto Adige è tra questi territori. Nel frattempo si sono svolte due grandi manifestazioni di piazza. La prima il 13 febbraio per la rivendicazione della dignità delle donne, la seconda il 12 marzo in difesa della Costituzione italiana. Ambedue hanno portato in piazza un milione di persone.
E allora mi son detto: “Perché non celebrare l’Unità d’Italia attorno alla Costituzione? Perché soffermarsi sulle tappe e non guardare al traguardo cui è giunta l’Italia con la Costituzione repubblicana? Parti dell’Italia hanno avuto storie diverse: una borbonica, una veneziana, una pontificia, una austroungarica. L’Italia è stata anche monarchica e fascista.
Mi balza alla mente il nostro Alcide De Gasperi, che era parlamentare austroungarico, e poi divenne artefice in posizione di alta responsabilità della Costituzione italiana. Rilanciamo ancora i borbonici, i veneziani, i papalini, e gli austroungarici? E perché non anche i monarchici, i fascisti e, più in là, i longobardi, i vandali, gli unni, gli ostrogoti, i visigoti e i celti?
Assumendo l’esempio della maturazione della persona, questo ritorno al passato in termini clinici si chiamerebbe regressione allo stato adolescenziale o addirittura infantile. L’elaborazione della Carta costituzionale ha rappresentato un vero e proprio esame di maturità in cui si sono confrontate visioni diverse, ideologie contrapposte, e hanno raggiunto quelle sì l’unità sfociata nel frutto finale costituito da una vera e propria patente di maturità: una delle Costituzioni migliori al mondo.
Accennavo alle manifestazioni per la dignità delle donne e in difesa della Costituzione. Ne cito solo il primo comma dell’articolo 3 che potrebbe fungere da bandiera: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religioni, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ci sono tutti: gli uomini e le donne, i celti, i normanni, i reti e i longobardi; i parlanti italiano, francese, tedesco o ladino; i cattolici e i protestanti, ma anche i musulmani e i non credenti; quelli di sinistra e di destra; i ricchi e i poveri. E tutti convergono in unità. Ma di unità, come diceva già Emanuele Kant, si può parlare solo tra diversi. Perché altrimenti si tratta di omologazione.
Questo discorso vale a maggior ragione oggi che dobbiamo tendere ad un’unità ancora più larga, e cioè all’unità europea. Stridono fino alla contraddizione le richieste dell’intervento unitario europeo per affrontare l’emergenza emigrati dal Magreb in fiamme fatte da chi fino a ieri parlava di secessione di una parte d’Italia dall’unità nazionale.
E’ vero e ne sono pienamente cosciente che l’unità sui valori della Costituzione è un’unità culturale, ma propria per questo è importante perché terreno fecondo su cui può realizzarsi l’unità politica. Se manca ancora l’unità politica dell’Europa è perché ci si è ripiegati solo sull’unità economica. Lo diceva a chiare lettere Jean Monnet, uno dei fondatori della Comunità economia europea (Cee), quando osservò: “Se fosse necessario ricominciare lo farei a partire dalla cultura”. E allora si può ben dire che gli attacchi più pericolosi all’unità d’Italia oggi, ben più di quelli al tricolore e all’inno di Mameli, sono quelli diretti a scardinare la Costituzione. E i Comitati Dossetti in difesa della Costituzione sono presidi intelligenti dell’Unità d’Italia.
Cristiani, l’unità senza egoismi
di Enzo Bianchi (La Stampa, 17 marzo 2011)
In queste settimane e per i prossimi mesi, in vari momenti e diverse forme si celebrano i 150 anni dell’avvenuta Unità d’Italia, nonostante le contestazioni e la mancata partecipazione di alcuni a questa ricorrenza. Anche la chiesa cattolica che è in Italia ha voluto - nella maniera che le è propria, cioè attraverso una celebrazione liturgica - prendere parte alla memoria di questo evento. Il papa, come vescovo di Roma (non si dimentichi che è in tale veste che presiede alla chiesa universale) e primate d’Italia, ha voluto indirizzare un messaggio non solo ai cattolici ma a tutti gli italiani.
Ma proprio perché quest’Unità d’Italia è stata faticosamente costruita anche contro il volere del papa - allora difensore non solo dell’onore di Dio ma anche di «Cesare», il potere politico che lui incarnava nello Stato pontificio - proprio perché c’è ancora chi vorrebbe che l’Italia tornasse a una federazione di staterelli, proprio perché nuove ideologie contrastano con la realtà di un’Italia unita, è bene interrogarsi sul significato di questa unità.
E io vorrei interrogarmi da cristiano e da cittadino italiano, due appartenenze che non sono né in contrasto né in concorrenza ma che, per essere vissute senza schizofrenia, abbisognano di lealtà, di riconoscimento della storia e di esercizio della memoria, di una visione di solidarietà capace di convergenza per la polis. Come cristiani, abbiamo una parola da dire nei confronti di questa celebrazione e del suo significato? La risposta è certamente positiva: in Italia i cristiani abitano tranquillamente, sono membri della polis e come tali partecipano responsabilmente alla storia di questo paese senza evasioni e senza esenzioni.
Ma dobbiamo porci anche un’altra domanda: noi cristiani abbiamo una parola «cristiana» da dire sull’Italia unita? E qui la risposta si fa più articolata e richiede specificazioni. L’Italia non è né un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa che è cattolica, universale. Ma resta vero che questa terra «Italia» è la terra che i cristiani abitano nella consapevolezza che «ogni patria è per loro straniera e ogni terra straniera è loro patria» (Lettera a Diogneto).
Cosa significano queste parole, formulate nel II secolo d.C. e ancora oggi utilizzate? Non indicano evasione o estraneità dei cristiani rispetto alla terra e allo Stato, ma che i cristiani sanno amare la terra che è stata data loro in sorte, che questa terra è per loro anche «patria» in quanto terra già dei loro padri, che i cristiani pregano per questa terra e per i loro governanti, fossero anche non cristiani, così come pregavano per l’imperatore romano che era pagano (e, a volte, anche loro persecutore!), che i cristiani partecipano in tutto come cittadini alla costruzione della società italiana e lavorano per una convivenza in questa terra segnata da libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà, pace.
Ma questa appartenenza all’Italia certamente non deve suscitare nei cristiani un’ideologia nazionalistica, che si manifesta sempre in una egemonia rispetto ad altre terre, nella costruzione di un popolo «senza gli altri» e magari «contro gli altri». Il contributo più specifico dei cristiani alla costruzione di uno Stato unitario dovrebbe essere caratterizzato dal superamento di una pretesa superiorità della loro cultura, dalla negazione di un centralismo foriero di ideologie che, anziché preparare la pace, alimenta intolleranza e rifiuto dell’alterità di cultura, etica, religione... D’altro lato i cristiani dovrebbero vigilare che non si affermino spinte localistiche, che finiscono sempre per generare atteggiamenti razzisti o xenofobi, non solo verso le culture lontane che si fanno presenti attraverso gli immigrati, ma addirittura verso la terra, la regione vicina. È vero che l’Italia è storicamente segnata da regioni che hanno una cultura propria più accentuata che in altre nazioni, ma la lingua è divenuta una, così come la cultura che ha dato il meglio dell’umanesimo e ha fatto compiere un cammino all’Italia è unitaria e convergente. Un’unità d’Italia che nutrisse un’identità italiana segnata dalla vittoria del «medesimo» e da un ripiegamento autistico storico-sociale a causa dell’esclusione dell’altro, soprattutto dei tanti poveriche giungono dall’altra sponda del mare nostrum, contraddirebbe gravemente l’ispirazione cristiana e cattolica.
Se penso alla mia vita, non posso dimenticare che fin da piccolo sono cresciuto con persone provenienti da altre regioni, con altri dialetti, con abitudini in parte diverse dalle mie: alle elementari, in un piccolissimo paese del Monferrato, avevo vicini di banco provenienti dal Polesine alluvionato, alle superiori in una cittadina di provincia avevo compagni calabresi e sardi, all’università a Torino ho incontrato studenti di tutte le regioni italiane. Non posso negare questa italianità, questo sentire che c’è un’Italia vissuta nella mia storia e che dunque non va negata né tanto meno ferita dalla negazione della solidarietà. La mia generazione ha imparato fin dalle elementari che non i localismi, ma l’Europa unita doveva essere l’orizzonte da tenere presente e in nome di un’affermazione di quei valori di libertà, di democrazia, di giustizia per i quali tanto si era combattuto in Europa nei tempi della modernità.
Festeggiare l’unità d’Italia allora significa riconoscere ciò che lega gli abitanti di questa terra, affermare la solidarietà e la convergenza verso una polis segnata da giustizia e pace, senza ripiegamenti localistici, senza egoismi territoriali, senza esasperazioni della propria cultura locale. Per questa unità d’Italia molti che ci hanno creduto hanno speso la vita e hanno saputo sacrificarsi perché il loro obiettivo era una «communitas italiana». Per noi oggi tutto questo è di esempio, è un’eredità che comporta responsabilità, soprattutto di fronte a rigurgiti ideologici e a proclami e programmi che vorrebbero non solo dividere gli italiani, ma costruire una «babele» locale in cui ciò che si afferma sa solo di barbarie.
Sì, come cristiano lontano da ogni nazionalismo, credo di amare questa terra d’Italia, volere che in essa cresca l’unità tra le popolazioni, così diverse ma così capaci di essere solidali l’una con l’altra, così disposte - lo spero, nonostante tutto - a una convergenza verso una polis più umanizzata, unite da una comune cittadinanza sempre più di suolo che non di sangue. Celebrare l’unità della nazione italiana, nell’orizzonte dell’unità del continente europeo e nella volontà di affermare sempre l’unità e la dignità di tutti e il rispetto di tutte le culture e le nazioni è un dovere che nasce dalla consapevolezza di essere cittadini che devono sperare tutti insieme e sentire questa terra come appartenente a tutti.
di Aldo Maria Valli (Europa, 17 marzo 2011)
L’Italia è un paese paradossale, però fa un certo effetto vedere che, in mezzo a tanti mal di pancia sul se, il quando e il come festeggiare i 150 anni di unità, le parole più convinte e i gesti più eclatanti siano arrivati dalla Chiesa cattolica. Sull’Osservatore romano del 17 marzo il direttore Gian Maria Vian scrive che alla festa per l’anniversario e per una unità «costituitasi di fatto contro il papato e il suo potere temporale, la Chiesa cattolica partecipa con un’adesione certo non formale». Vero. Prima il cardinale Bertone che va a Porta Pia, poi il cardinale Bagnasco che celebra una messa, poi il papa che manda un messaggio al presidente Napolitano. Tanti segnali espliciti. Il messaggio di Benedetto XVI va letto con attenzione.
Dice che il cattolicesimo, in quanto parte fondamentale dell’identità nazionale, ha costituto «la base più solida della conquistata unità politica». Sostiene che la Chiesa ha rafforzato l’identità della nazione in passato e continua oggi nella stessa direzione.
Rivendica «l’apporto di pensiero e talora di azione dei cattolici alla formazione dello Stato unitario». E infine, in linea con Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, si dice convinto che il papato abbia guadagnato in credibilità dalla fine del potere temporale ed esprime gratitudine per la «collaborazione preziosa» dello Stato italiano con la Santa sede.
Intervistato da Radio Vaticana, il professor Carlo Cardia fa notare che Benedetto XVI, con il suo messaggio, fa avvertire il sentimento nazionale «più profondo », radicato non solo «in un singolo momento storico importante, il Risorgimento, al quale il papa dedica parole molto belle, ma anche in una nazione che è il frutto di una coralità di voci, di esperienze e di sentimenti».
Ci voleva un pontefice tedesco per sottolineare la piena legittimità del processo che ha portato la nazione italiana a costituirsi in Stato sovrano. E ci voleva un papa che certamente non è uno storico per ricordare che il Risorgimento non ha avuto un’anima sola, perché accanto a quella liberale c’è stata anche quella cattolica, il cui contributo non è mai venuto meno ed è sfociato nella partecipazione dei cattolici alla elaborazione della Costituzione repubblicana.
Perché tanto impegno da parte delle gerarchie? Al papa sta a cuore sottolineare che il modello Italia, per quanto riguarda la collaborazione fra Stato e Chiesa, è un esempio di quella «sana laicità» che gli sta tanto a cuore e che è ben diversa dal laicismo.
I due «principi supremi» oggi rispettati sono la «distinzione di ambiti» e la «collaborazione». Sia lo Stato sia la Chiesa, dice il papa, sono al servizio delle persone e della comunità, e su questo piano hanno il dovere di collaborare. Il che significa rivendicare un ruolo pubblico per la Chiesa nei suoi diversi aspetti.
Il nodo sta proprio qui, sulle forme di questo ruolo e di questa partecipazione. Il papa non affronta la questione, ma la sua impostazione è chiara: rivendicando il contributo determinante del cattolicesimo all’identità e all’unità nazionale chiede che quei «principi supremi» siano tradotti in fatti concreti.
Il terreno di confronto, comprese le questioni bioetiche, si è allargato e si è fatto infinitamente più sdrucciolevole che in passato, ma al di là di queste difficoltà la Chiesa sta lanciando segnali molto chiari per l’Italia del dopo Berlusconi: federalismo sì ma senza mettere a repentaglio l’unità; sussidiarietà e non statalismo; difesa della famiglia come nucleo fondamentale della società; cultura del lavoro e rispetto dei diritti; tutela di una Costituzione che «ha ancora molto da darci», come è stato sottolineato all’ultima settimana sociale dei cattolici. È in questo modo che la rilettura del passato si lega alla lettura del presente e apre scenari interessanti, rispetto ai quali non ha tanto senso continuare a chiedersi chi ha vinto tra Stato e Chiesa, ma quale tipo di società si vuole costruire, tutti insieme, per i nostri figli e nipoti.