Il 2 giugno l’inaugurazione del museo dell’emigrazione italiana
Al via la prima Conferenza dei Giovani Italiani nel Mondo
Napolitano: ’’Siate buoni cittadini nei paesi che vi ospitano’’.
Schifani: ’’Voi testimoni di un’evoluzione verso una piena integrazione’’.
Fini: ’’L’Italia non si rassegni alla fuga dei cervelli’’.
Frattini: ’’La nostra immagine vive, si alimenta, migliora, grazie a voi’’
Roma, 10 dic. (Adnkronos) - ’’Siate buoni cittadini nei paesi che vi ospitano perché anche così fate onore all’Italia e siate buoni italiani seguendo l’evoluzione del nostro paese, i suoi progressi e le sue difficoltà’’. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intervenendo in aula alla Camera in occasione della seduta solenne per la prima Conferenza dei Giovani Italiani nel Mondo inaugurata insieme ai presidenti delle Camere Renato Schifani e Gianfranco Fini e al ministro degli Esteri Franco Frattini.
Il capo dello Stato invita i giovani a ’’coltivare la vostra italianità non solo come antica memoria familiare, ma come condivisione sempre viva delle sorti della vostra patria d’origine’’. Poi i complimenti ai piccoli componenti del coro che hanno aperto la cerimonia intonando l’Inno di Mameli: ’’Bravi, avete cantato proprio bene, continuate a esercitarvi...’’. Dopo una foto ricordo, Napolitano si congeda con una battuta: ’’Anch’io ho cantato l’inno, ma non bene come voi...’’.
Il presidente del Senato Renato Schifani ricorda da parte sua ’’quanto il grande progresso economico, civile e sociale del nostro paese debba ai sacrifici dei vostri padri, di quanti dovettero emigrare. Ma siamo anche consapevoli e orgogliosi del contributo che la nostra emigrazione ha dato e dà allo sviluppo economico e civile di tanti paesi nel mondo’’. ’’Siete testimoni e protagonisti - continua Schifani - di un’evoluzione che vogliamo positiva verso una piena integrazione, il superamento di pregiudizi, la diffusione dei valori del dialogo, del rispetto e della tolleranza, un maturo confronto culturale, una severa condanna di ogni forma di totalitarismo del passato’’.
Per il presidente della Camera Gianfranco Fini, "essere buoni italiani oggi, grazie all’emigrazione, significa avere solidi anticorpi culturali contro ogni forma di xenofobia". Fini ricorda anche il fenomeno della cosiddetta fuga dei cervelli: "Agli inizi del terzo millennio e in una fase storica in cui il sapere è la forma più preziosa di ricchezza - sottolinea - io credo che l’Italia non possa e non debba rassegnarsi di fronte a quella nuova forma di emigrazione che è stata definita giustamente la fuga dei cervelli". "E’ veramente una grave dimostrazione di miopia politica e irresponsabilità constatare con amarezza che sono molte migliaia i nostri giovani laureati e ricercatori che ogni anno abbandonano l’Italia per proseguire all’estero i loro studi e poi, dopo questa constatazione, non fare nulla per invertire la tendenza. E sarebbe davvero un bel giorno quello in cui nel nome di un genuino interesse nazionale - auspica Fini - governo e Parlamento, maggioranza e opposizione dovessero approvare, anche con appositi finanziamenti per le nostre università e per i nostri centri di ricerca, un grande piano per far sì che ’made in Italy’ in futuro non significhi soltanto prodotti manifatturieri di grande qualità, ma eccellenza nel sapere: brevetti e tecnologia d’avanguardia".
Fini ricorda anche la lunga battaglia per il voto degli italiani all’estero di Mirko Tremaglia, al quale l’aula rivolge un lungo applauso.
Il ministro degli Esteri Franco Frattini (nella foto), nel suo intervento alla Camera, ricorda che gli italiani nel mondo sono gli ’’ambasciatori del nostro paese nel mondo’’. ’’L’identità italiana - spiega Frattini, che presiede la Conferenza - è la questione cruciale che alimenta tutte le altre. Cosa vuol dire sentirsi italiani? Cosa significa per chi vive fuori dall’Italia e cosa vorrà dire tra 10 o 15 anni. Si tratta di trasmettere e conservare valori e tradizioni, noi tutti e voi tutti possiamo sentire insieme l’orgoglio di appartenere ad un Italia che è cambiata e continua a cambiare in meglio’’. E’ ’’importante che tutti insieme condividiamo l’idea di una nuova identità italiana. La nostra immagine vive, si alimenta, migliora, grazie a voi’’, dice il ministro ai ragazzi presenti in aula a Montecitorio. E annuncia l’inaugurazione per il 2 giugno, Festa della Repubblica, del museo dell’emigrazione italiana, presso il complesso del Vittoriano a Roma.
La Conferenza dei Giovani Italiani nel Mondo, indetta nel luglio scorso dal ministro Frattini, si svolge a Roma presso la sede della Fao da oggi al 12 dicembre. Vi prendono parte oltre 400 delegati provenienti dall’estero e, in qualità di invitati, 200 giovani residenti in Italia, espressione del mondo politico, professionale, accademico, sportivo, artistico.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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IL SUD GIÀ E NON ANCORA/ Il vero dramma che rende i giovani felici di andarsene
Come dice Baldessarro, il dramma del Sud non sono più i suoi figli che se ne vanno. Il dramma vero del Sud è che sono felici di andarsene
di Emiliano Morrone (Il sussidiario, 29.09.2019)
Il Sud non fa più notizia né questione, in primo luogo la Calabria. I media replicano “l’effetto Duisburg”, l’eco dell’orrore, quando in una provincia meridionale si sparge sangue oppure per casi di lupara in Emilia, Lombardia, Liguria, nei “ghetti” del centro Italia riservati ai collaboratori di giustizia. La ribalta della cronaca dura un attimo, poi tutto procede come sempre. È una costante della società 2.0: dello spettacolo, delle emozioni sul dolore altrui.
In questa dimensione di apparenza, priva di spessore, memoria e discernimento, le mafie sollevano la politica dalla responsabilità del divario del Mezzogiorno dal Nord produttivo; divario intanto economico, di diritti, occasioni. La colpa è soltanto dei boss, dei loro apparati di morte. Questa è la vulgata dominante, mentre si mescolano la paura e la rassegnazione popolare alla punta dello Stivale.
In Calabria due aziende sanitarie provinciali su cinque sono state sciolte per infiltrazioni e perciò commissariate: a Reggio e Catanzaro, con la probabilità che la stessa sorte tocchi a quella di Cosenza. Tanto basta per dimostrare l’interesse, la presenza, il pugno dello Stato in un territorio di antichi affari e commistioni, di irrisolti che hanno prodotto carriere politiche folgoranti, acuito fenomeni letterari e amplificato personaggi e clamori televisivi.
Eppure c’erano dati, elementi raccapriccianti: l’Asp di Reggio Calabria non aveva - e non ha - un bilancio certo; assurdo ma vero. Da lì sparirono quasi 400 milioni di euro senza tracce, in un contesto blindato dal vecchio patto tra imprenditoria spregiudicata, colletti bianchi e “uomini d’onore”. L’Asp catanzarese aumentava il disavanzo, mentre Lamezia Terme, con aeroporto e ospedale strategici, si preparava all’ennesimo, prevedibile scioglimento del Consiglio comunale, al tracollo della società di gestione dei servizi aeroportuali e al collasso repentino dei “reparti” sanitari, accompagnato dall’annessione forzosa del nosocomio locale alla nuova azienda ospedaliera di Catanzaro.
I commissari del governo e i ministeri vigilanti (Economia e Salute) conoscevano bene i livelli della degenerazione, ma Roma era - e rimane - lontana come Bruxelles; tolti gli inutili, stucchevoli protocolli di intesa per la legalità e le misure palliative tipo “Garanzia giovani”, valsa a trasformare in questuanti i giovani laureati, a perpetrare promesse e ricatti di un’immarcescibile classe politica.
Oggi in Calabria, l’area più martoriata del Sud, le Regionali si preparano con calcoli e strategie anni ’70, prove di puro mauqillage e contrattazioni a porte chiuse. Nella cantina dell’oblio restano fuori di ogni confronto, sepolte dalla polvere, tante priorità di questa terra: la creazione di lavoro dignitoso, l’incremento indispensabile della quota parte del Fondo sanitario, l’esigenza di ridurre la diaspora dal territorio, di rinverdire e controllare la burocrazia regionale, di rivedere il costo del denaro e l’accesso al credito, di prevedere vantaggiosi sgravi per le imprese, di rilanciare sul serio il porto di Gioia Tauro e il sistema aeroportuale, di collegare università e aziende locali.
La ‘ndrangheta prospera nella povertà, di cultura e di economia. Come ha osservato il giornalista Giuseppe Baldessarro, «il dramma del Sud non sono più i suoi figli che se ne vanno. Il dramma vero del Sud è che sono felici di andarsene».
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Referendum, è battaglia sugli italiani all’estero
Polemiche sulla lettera inviata da Renzi e sul rischio di brogli
di Redazione ANSA *
"Man mano che emergono i particolari e i contorni, la lettera inviata da Renzi agli elettori italiani all’estero pone problemi seri e preoccupanti. Il ricorso alla magistratura in tutte le sedi possibili è a questo punto inevitabile per cercare di ottenere giustizia e il ripristino della parità di condizioni in campagna elettorale". Così il vice presidente del Comitato per il No, Alfiero Grandi, sulla lettera inviata dal presidente del consiglio agli italiani all’estero, annuncia che saranno compiuti passi legali. Secondo Grandi, inoltre, "stampare e inviare 4 milioni di lettere all’estero ha un costo rilevante: ci sono state entrate impreviste? O è intervenuto l’aiuto disinvolto di una qualche struttura pubblica?". "Il ricorso alla magistratura in tutte le sedi possibili - conclude Grandi - è a questo punto inevitabile per cercare di ottenere giustizia e il ripristino della parità di condizioni per il sì e per il no in campagna elettorale".
"Domani presenteremo denuncia nei confronti di Renzi perché comprarsi gli indirizzi di 4 milioni di italiani all’estero per mandargli una letterina è un reato penale di cui dovrà rispondere davanti a qualche giudice. Vediamo se in un qualche tribunale c’è un giudice che ne ha voglia". Lo ha confermato il segretario della Lega nord Matteo Salvini sul palco della manifestazione del Carroccio a Firenze per il no al referendum.
"E’ un’iniziativa assolutamente normale che ha tutta l’istituzionalità che giustifica l’intervento di un presidente del Consiglio che promuove il voto. Suscita uno scandalo giusto perché, a volte, la patina di ipocrisia è troppo spessa. C’è troppa ipocrisia". Lo ha detto il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, a Pescara, a margine di un incontro per il sì, a proposito della lettera di Renzi degli italiani all’estero per informarli sul referendum.
"Il Ministro degli Interni dovrà spiegare perché ha usato due pesi e due misure". Lo dice Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No commentando la vicenda della lettera agli italiani all’estero. Grandi ricorda infatti che il Comitato popolari per il No presieduto dall’on. Gargani aveva chiesto gli elenchi degli elettori italiani all’estero ricevendo solo i nomi senza indirizzi e/o mail: "Per questo il nostro Comitato per il No aveva deciso di non procedere con analoga richiesta. Ora scopriamo che il Presidente del Consiglio attraverso il Comitato per il sì ha ottenuto quello che al fronte del no è stato negato avendo così la possibilità di inviare la sua lettera-spot che fa esplicita propaganda per il sì". "Qui c’è un problema serio" commenta Grandi secondo il quale "andrà accertato se questo non configura più reati concorrenti tanto più gravi perché avvenuti in campagna elettorale".
Voto all’estero, l’”equivoco” di Renzi
Referendum. Lettera come premier a quasi cinque milioni di italiani iscritti all’Aire per invitarli a votare Sì. Ma era a nome del partito, che l’ha anche pagata: "Scrive come segretario e non come premier". Però si presenta come "rappresentante" dell’Italia nel mondo. E a Gargani che ha chiesto gli elenchi per il comitato del No sono stati dati senza indirizzi
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 12.11.2016)
L’equivoco, se di questo si tratta, lo ha alimentato la ministra Boschi. Rivolgendosi giovedì ai comitati per il Sì che hanno sede all’estero, ha annunciato una lettera agli elettori italiani nel mondo «del presidente del Consiglio, contemporaneamente, ma non insieme fisicamente altrimenti scatta la polemica, alla scheda elettorale» per il referendum. Il testo di questa lettera, che è ovviamente un elenco delle meraviglie della riforma costituzionale concluso dall’invito a votare Sì, è una conferma dell’equivoco, se ancora di equivoco si tratta.
Perché Renzi scrive come «orgoglioso rappresentante del paese che tutti amiamo», cioè come presidente del Consiglio. Di fronte alle prime polemiche, il Pd ha cercato di rimediare assicurando che «si tratta di un’iniziativa elettorale del Pd sostenuta interamente dal punto di vista economico dal partito». Boschi dunque intendeva dire «una lettera del segretario del Pd». La confusione è frequente.
Il caso però non può chiudersi qui, anzi i comitati del No hanno chiesto al presidente della Repubblica un incontro «urgente» per «rappresentare le gravi preoccupazioni in ordine alla correttezza della competizione referendaria con particolare riferimento agli italiani residenti all’estero». Che sono quasi cinque milioni, molti dei quali residenti in Sudamerica dove Maria Elena Boschi si è recata a settembre per tenere comizi per il Sì organizzati direttamente dalle ambasciate (vedi il manifesto del 28 e 29 settembre 2016).
I comitati del No hanno chiesto di essere ricevuti anche dal ministro degli esteri Gentiloni - il comitato presieduto da Pace e Zagrebelsky lo aveva chiesto anche parecchi mesi fa, invano - che è il responsabile delle liste degli italiani residenti all’estero iscritti all’Aire (che dovranno votare entro il 1 dicembre ma che ancora non hanno ricevuto il plico elettorale).
Queste liste sono a disposizione dei partiti. Un provvedimento del garante della privacy del 2014 lo chiarisce senza possibilità di dubbio. Qualche dubbio invece c’è su come abbia fatto il segretario del Pd a riceverli, se mediante richiesta regolare (è prevista la possibilità di estrarne copie a pagamento) oppure per le vie brevi, che sono alla portata sua e non di altri.
È un po’ gracile, infatti, la replica dei renziani a chi polemizza, basata sul fatto che sia Silvio Berlusconi (nel febbraio 2008) che Pier Luigi Bersani (nel gennaio 2013) hanno preso identica iniziativa. Nessuno dei due era all’epoca a palazzo Chigi e poteva presentarsi agli elettori come «rappresentante» del paese «in ogni viaggio all’estero, ogni volta che ho sentito risuonare l’inno di Mameli con voi, ogni volta che ho incrociato i vostri sguardi orgogliosi, ogni volta che sono riuscito a stringervi le mani».
Ci sarebbe anche una prova del trattamento privilegiato riservato al capo del governo. La fornisce Giuseppe Gargani, ex deputato Dc e parlamentare europeo di Forza Italia, che attualmente presiede il Comitato «popolare per il No». «Venti giorni fa sono andato a chiedere gli elenchi degli italiani che votano all’estero direttamente al Viminale, sono stati molto gentili e dopo appena cinque giorni mi hanno consegnato un Cd. Dentro ci sono circa quattro milioni di nomi e cognomi, ma nessun indirizzo. Ragioni di privacy, mi hanno spiegato».
L’altro aspetto che preoccupa i sostenitori del No è quello dei costi di spedizione di queste lettere. Il Pd garantisce che tutta l’operazione è stata fatta a carico del partito, e ci mancherebbe. Peraltro il partito - a sentire palazzo Chigi - si è già pesantemente esposto per sostenere il costo del super consulente americano di Renzi, Jim Messina, che sarebbe costato 400mila euro.
Per le spedizioni della lettera del presidente del Consiglio/segretario del partito il costo potrebbe essere stato leggermente inferiore, o leggermente superiore. Le Poste garantiscono infatti una tariffa agevolata per la spedizione di materiale elettorale, sotto costo: a prezzo pieno quattro milioni e ottocentomila lettere sarebbero costate 13 milioni e mezzo - più dell’abolizione del Cnel come ha fatto notare l’ex ministro Quagliariello. Esistono invece due tipi di spedizione agevolata, una semi gratuita (4 centesimi) e una a prezzo contenuto (16 centesimi). Ma se le lettere non sono ancora partite, solo la seconda garantisce che il messaggio di Matteo Renzi possa arrivare in tempo per il referendum.
Il riscatto dell’italiano dai fornelli agli atenei
La nostra lingua è un successo all’estero, certifica la Crusca
È la preferita dalla pubblicità e aumentano quelli che la studiano
di Valeria Strambi (la Repubblica, 19.10.2016)
FIRENZE Una Napoli gustata da “Papa John’s Pizza”, nel Kentucky, promette un sapore più autentico rispetto a quella comprata in un qualsiasi altro fast food americano. Così come l’ultimo film di Steven Spielberg può diventare più avvincente se visto al cinema Caruso, in Thailandia. Oppure i pantaloni acquistati da “Villa Moda”, in Medio Oriente, hanno quel non so che di elegante che manca allo stesso capo presente nel negozio a fianco. A fare sempre più la differenza, nell’immaginario degli stranieri, è il dettaglio italiano. Vero o inventato che sia, un richiamo al Belpaese è garanzia di qualità e basta a far vendere di più. Parola di linguisti, pubblicitari, manager d’azienda ed esponenti del mondo della politica e della cultura che si sono ritrovati per due giorni agli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, conclusi ieri a Firenze.
«Vestirsi d’italianità serve a essere più credibili», conferma Paolo D’Achille, professore di Linguistica italiana all’Università di Roma Tre e accademico della Crusca, «abbiamo analizzato le insegne commerciali di 21 paesi del mondo: 339 sono ispirate alla tradizione enogastronomica italiana e altre 214 alla moda. Anche se non sempre le citazioni sono corrette. Non penso solo agli errori di ortografia, ma anche alla scelta delle corrispondenze. Esistono negozi di abbigliamento chiamati “Dolce Vita”, ma il riferimento non è al maglione a collo alto, quanto al film di Fellini che porta con sé tutta la magia di un’epoca e di uno stile di vivere».
Ma l’immagine del nostro paese si ferma a qualche insegna in italiano maccheronico? «Può capitare che da parte di chef o gestori di negozi di moda scatti la curiosità di imparare davvero la lingua», prosegue D’Achille, che insieme a Giuseppe Patota ha curato per l’occasione l’e-book L’italiano e la creatività. Marchi e costumi, moda e design scaricabile gratuitamente fino al 23 ottobre - il fenomeno è ancora piccolo, ma è un canale da non sottovalutare».
Ma accanto a un italiano pop, visto e consumato negli spazi di uno slogan, c’è ancora chi si avvicina alla lingua per ragioni culturali: «Chi studia la Storia dell’Arte o la lirica», spiega D’Achille, «non può farlo a prescindere dall’italiano. Mi è capitato di vedere un documentario in inglese in cui una storica dell’arte commentava un manoscritto in italiano: per farlo non basta un’infarinatura. Mai rinunciare all’approfondimento».
E anche il governo sembra credere nella promozione della cultura italiana al di fuori dei confini. All’apertura degli Stati Generali lo stesso premier Matteo Renzi ha annunciato che 50 milioni previsti nella Legge di Stabilità sono destinati proprio a rafforzare le scuole d’italiano all’estero. A ribadire il concetto ha pensato ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre cioè l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare. L’italianità parla di umanesimo».
Veri cultori della lingua o semplici ammiratori, sono sempre di più gli stranieri che scelgono di studiare l’italiano. Se nel 2012-2013 erano un milione e 522 mila, nel 2014-20105 sono aumentati di più di 700 mila unità raggiungendo quota due milioni e 233 mila. La Germania resta in testa, con 337.553 studenti, seguita da Australia (326.291), Francia (274.582), Stati Uniti ( 212.528) ed Egitto (124.925). In Australia, nel 2016, sono stati inseriti corsi d’italiano nei sistemi scolastici locali e il governo ha riconosciuto la nostra lingua come parte del patrimonio ereditato dall’immigrazione del passato. Agli ultimi posti della lista Ban-gladesh, Bahrein e Repubblica Popolare Democratica di Corea, con rispettivamente 10, 15 e 13 studenti.
Per chi vive dall’altra parte del mondo, però, non sempre è semplice studiare l’italiano e il rischio di perdersi nei meandri della burocrazia è alto. Dove seguire i corsi? Come procurarsi un visto? Le risposte si trovano sul “Portale della lingua italiana nel mondo” (www.linguaitaliana.esteri.it), un database appena attivato che per la prima volta raccoglie le 1.300 cattedre di italiano che esistono al mondo con relativi indirizzi, oltre al corso di italiano a distanza gratuito del Wellesley College.
Tra le sezioni del sito, c’è anche quella dedicata alla “Formazione artistica e per la creatività”, una lista degli istituti italiani che offrono corsi riconosciuti nei settori della moda, design, musica, cucina. «Gli studenti stranieri che studiano negli istituti italiani sono solo il 4 per cento», commenta il viceministro degli Esteri, Mauro Giro, «entro il 2018 vorremmo raggiungere l’8». E la chiave per attrarre talenti potrebbe essere proprio quella di insegnare loro un mestiere. Chi accede al Portale non deve far altro che inserire la regione e il settore che gli interessa per avere davanti un mondo: dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, all’Accademia italiana d’Arte di Roma o il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
(federico la sala)
Piergiorgio Odifreddi, intervista Huffpost: "Il 90 per cento degli italiani è stupido"
di Redazione (l’Huffington post, 25/09/2016)
Odifreddi, nel suo dizionario c’è anche la voce: Matteo Renzi. Perché?
Se vogliono conquistare voti, i politici devono dire alle persone ciò che si vogliono sentir dire. Tendenzialmente, delle stupidaggini. E Matteo Renzi è l’erede perfetto di Berlusconi: il Cavaliere ha imparato a farlo cantando sulle navi, lui esordendo alla Ruota della fortuna.
Ma politicamente?
Renzi ha realizzato il programma berlusconiano, andando addirittura oltre con il Jobs act, che ha dissolto le tutele dello statuto dei lavoratori.
Dedica un lemma anche a Grillo.
Grillo ha iniziato a dire scemenze prima di cominciare a fare politica. Per dire: sosteneva che l’AIDS era una bufala, che l’OGM ammazza, che le radiazioni dei cellulari cuociono le uova. Ma lui ci crede. È questa la grande differenza tra Grillo e un politico di professione: che il politico deve dire delle cretinate per racimolare voti, lui le dice per convinzione.
Eppure ha un gran consenso.
Non voglio dire che il suo pubblico sia fatto di deficienti. È una parola brutta. Dico: ingenui. Ma rimane il fatto che sono persone che credono alle scie chimiche e fanno battaglie contro i detersivi. È la parte della società con meno mezzi culturali per giudicare.
Possibile che siano tutti così?
Bertrand Russell diceva che i politici hanno nei confronti degli elettori un vantaggio: che gli elettori sono più stupidi di loro. E giudicare Grillo, per me, è troppo difficile: mi è così distante che lo considero un minus habens. Quando lo sento, mi viene la pelle d’oca. Dicono che i suoi siano argomenti di pancia. Io fatico a considerarli proprio argomenti.
A Palermo, però, molte persone sono andate per ascoltarlo alla Festa nazionale dei 5 stelle.
Il novanta per cento delle persone è stupido. Quindi, considerato che siamo 60 milioni, in Italia ci sono almeno 54 milioni di stupidi: non credo ve ne siano di più a quella festa.
E gli altri dove vanno?
Vanno anche alle feste dell’Unità. Come si fa a pensare che dopo due anni di governo Renzi quella festa abbia un senso? Almeno, per decenza, cambiassero nome.
Non le sembra di sottovalutare? Il partito democratico governa il Paese, i Cinque stelle hanno conquistato due grandi città alle ultime elezioni.
C’è una differenza enorme tra le due città: a Torino, Chiara Appendino è il prodotto di ciò che i 5 stelle stessi chiamano poteri forti; a Roma, invece i poteri forti li hanno contro.
Può essere più esplicito?
Dietro Appendino c’è la Fiat. Appena aletta, John Elkan è subito corso a incontrarla. Viceversa, Virginia Raggi è dovuta recarsi in visita dal Papa.
C’è solo questa differenza tra le due?
No, Appendino ha le qualità per governare, Raggi le ha solo per vincere le elezioni.
Scrive: "E’ venuto il momento di tornare a considerare i banchieri paria della società e reietti da Dio".
Nel Medio Evo, era considerato usuraio chiunque prestasse denaro, a qualsiasi tasso. Oggi il fastidio per i banchieri è tornato a essere forte. Quando la gente vede i posti di lavoro che evaporano, le tutele che si dissolvono, e dall’altra gli aiuti di stato per tenere in vita istituti che hanno fallito, s’incazza.
Però è difficile vivere in un mondo senza banche.
Certo che si può vivere in un mondo senza banche. Per metà del secolo scorso, l’Unione Sovietica ne ha fatto a meno.
Non è andata benissimo, però.
Non per quel motivo. Mi domando perché non si possano nazionalizzare le banche che vengono salvate. Perché è diventata una bestemmia?
In Europa, nazionalizzare è contrario alle regole dell’Unione.
È per questo che l’UE suscita l’astio dei suoi cittadini: perché è solo un’unione economica.
Nel suo libro, mostra di preferire Ratzinger a Papa Francesco. Perché?
Da ateo, con Benedetto XVI ho avuto un dialogo. Mi è interessato leggere le cose che scriveva, Ratzinger aveva una profondità di pensiero. La statura intellettuale Papa Francesco lascia perplessi. Quando parla, mi cadono le braccia. La misericordia, il vogliamoci bene, l’amore: sono cose talmente banali. Chi può essere contrario?
È facile criticare l’Islam allo stesso modo in cui lei, ora, ha fatto con il Cattolicesimo?
Penso che, in realtà, sia molto più facile criticare l’islam che il Cristianesimo. Farlo, è politicamente corretto. Ci sono partiti politici che fanno propaganda sull’equazione musulmano uguale terrorista. E l’opinione pubblica è sempre sul chi va là.
Dimentica quello che è successo in Francia per le vignette di Charlie Hebdo su Maometto?
La diversità è che i cristiani non vengono sotto casa ad aspettarti se li prendi di mira con la satira. Ma ricorda la parodia di Ratzinger fatta da Crozza? A un certo punto ha dovuto smettere di farla. E potrei fare altri esempi. Nei risultati, non è molto diverso da quello che accade con l’Islam.
Lei è stato compagno di classe di Flavio Briatore. Ha letto della polemica sul turismo al sud, secondo lui poco sensibile ai bisogni dei ricchi?
Non saprei dire se è così. So che con Briatore studiavo al geometra. Lui fu bocciato al secondo anno, poi lasciò e fece una scuola privata per recuperare tutti gli anni in uno. Credo sia la dimostrazione che il detto popolare - "ultimi a scuola, primi nella vita" - è vero.
GOVERNO Monti, nel Pdl si arriva agli insulti Frattini contro gli ex An: "Fascisti"
Il ministro degli Esteri vede con favore l’ipotesi di un esecutivo guidato dall’ex Commissario ue e tira una frecciata - poi ridimensionata - ai vari La Russa, Matteoli e Meloni. La replica del ministro della Difesa: "Ma chi parla? Un attivista del Manifesto?". Formigoni: "Dibattito armonico". La Lega insiste su Lamberto Dini *
ROMA -Il governatore lombardo Roberto Formigoni lo chiama "un dibattito armonico". Un eufemismo, a dire poco, se si scorre sul rullo delle agenzie il nervoso botta e risposta all’interno del Pdl sull’appoggiare o meno il governo Monti. Da una parte ministri come Sacconi, Brunetta e gli ex An - Matteoli, Meloni, La Russa - (che potrebbero contare su circa 100 parlamentari) che alzano barricate verso un governo guidato dall’ex commissario Ue. E lo fanno dando vita ad un scontro senza risparmio di colpi all’interno del partito del Cavaliere. Il quale, da parte sua, sembra in seria difficoltà a far quadrare il cerchio. 1 Sulla barricata dei "montiani". invece ci sono il segretario del Pdl Alfano, ministri come Frattini e uomini di peso come Quagliariello e Cicchitto.
Che i toni siano alti lo si capisce da uno sfogo di Frattini - poi ridimensionato - raccolto da un cronista della Dire: "E’ bastato che crollasse tutto che questi fascisti sono tornati fuori: già ci hanno fatto rompere con fini, e adesso provano di nuovo a mandare tutto all’aria...". Per il titolare degli Esteri ogni ipotesi di appoggio esterno a Monti (ipotesi ventilata da alcuni settori del Pdl) non ha senso: "L’impegno a sostenere il futuro governo deve essere pieno". La Russa, uno dei destinatari della frecciata di Frattini, si fa perfido: "Frate chi? Frate chi? Non lo conosco, chi è un militante del Manifesto?". Contro Frattini si schiera anche Giorgio Holzmann, deputato ex Msi poi transitato in An, che perfidamente ricorda come Frattini sia "lo stesso ministro degli esteri che qualche mese fa si è recato alle camere per rendere pubblico un fascicolo riguardante il famoso immobile di Montecarlo e la nebulosa vicenda di società off-shore, cui lo stesso sarebbe stato venduto". Tocca al titolare della Farnesina abbassare i toni: "Mi spiace che mi siano state attribuite frasi certamente travisate, non corrispondenti al mio pensiero e al mio usuale modo di esprimere pubblicamente la mia opinione".
Per il governo tecnico si schiera Quagliariello chiedendo, però, che "lasci intatte le differenze politiche che esistono nell’emiciclo. Non sacrificheremo le differenze con la sinistra su temi come giustizia, legge elettorale, principi non negoziabili". E se Altero Matteoli dice di non escludere "spaccature" nel Pdl, il governatore lombardo Formigoni crede che Monti "riuscirà a formare un governo che ha un unico obiettivo, salvare l’Italia dalla rovina economica e dall’attacco fortissimo della speculazione internazionale".
E proprio sul che farà Monti e che squadra di governo formerà, si appuntano le perplessità del capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: "La situazione va chiarita. Il Pdl sta discutendo ma non ha fatto ancora nessuna scelta. Certo, alla fine del confronto ci sarà una voce sola", ma non può avvenire tutto come fosse "una corsa contro il tempo". E il nodo rimarrà "finchè non Verrà chiarito quali saranno il suo programma e la sua struttura". Struttura, ovvero ministri. Ed è forse questo il tasto dolente che agita e preoccupa, le varie anime del partito del Cavaliere.
Il tutto mentre Berlusconi chiede "uno scatto d’orgoglio", rivendicando un ruolo decisivo per il Pdl. "Serve un confronto, un tavolo sia sui nomi che devono entrare al governo, sia sul programma" ragiona il Cavaliere. In pratica una sorta di ’golden share’ del nuovo esecutivo". IN caso contrario meglio il voto. Come chiede la Lega a gran voce: ""Noi siamo assolutamente contrari a governi che non siano quelli usciti dalle urne e saremo all’opposizione" afferma il ministro Roberto Calderoli. Per la verità la Lega pensa ad un governo guidato da Lamberto Dini (rilanciato ieri sera dallo stesso premier). E proprio in questa direzione gli uomini del Carroccio starebbero pressando il Cavaliere. Stando alle cifre che i leghista ostentano al Senato Monti non avrebbe i numeri. Ed è a questo punto che scatterebbe l’opzione Dini che già nel ’95 prese il posto di berlusconi, sfiduciato in quel caso proprio da Bossi.
* la Repubblica, 11 novembre 2011
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
150 anni dell’Unità d’Italia: il 17 marzo
festa nazionale, ma solo per quest’anno *
ROMA - Il 17 marzo, festa del tricolore per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, sarà festa nazionale. Lo ha annunciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta: «Penso che non si andrà a scuola né al lavoro. Ma sarà festa nazionale solo per il 2011, l’anno della ricorrenza», ha precisato.
Letta ha poi spiegato alcuni dettagli: «Il 2 giugno prossimo saranno invitati 26 capi stato europei, più quelli degli Stati Uniti e Russia, a cui si aggiungeranno quelli dei paesi in cui ci sono le comunità italiane più numerose, più radicate e più legate all’Italia. I capi di stato parteciperanno alla parata del 2 giugno caratterizzata sui 150 anni, poi, dopo la colazione al Quirinale, in Campidoglio daranno un saluto all’Italia».
Ancora il 17 marzo il presidente Napolitano si recherà non solo all’Altare della patria, ma anche al Pantheon, dove è sepolto re Vittorio Emanuele II che fu il primo Capo di Stato italiano. Ma, prevenendo ogni ulteriore quesito o polemica, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni, ha precisato: «Questo non significa che altri successori potranno essere più o meno traslati nella stessa sede. L’Italia - ha sottolineato - fu fatta da Mazzini, Cavour, Garibaldi e da Vittorio Emanuele».
* Il Messaggero, Giovedì 20 Gennaio 2011 - 14:44 Ultimo aggiornamento: Venerdì 21 Gennaio - 14:54
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 01.02.2011)
L’Italia s’è desta? Le parole un po’ logore dell’Inno di Mameli sono forse quelle che meglio descrivono un panorama sociale che ha visto in queste ultime settimane appunto un risveglio civile. Un risveglio persino inatteso, e che fa riemergere una idea e una pratica della politica che sembravano scomparse, sequestrate dall’intreccio perverso tra derive oligarchiche, uso privato del potere, perdita dell’etica pubblica, degrado del linguaggio, azzeramento della dimensione argomentativa.
E’ sempre opportuno non abbandonarsi ad entusiasmi frettolosi. Ma è altrettanto sbagliato non cogliere i segni del mutamento, sottovalutarli solo perché non stanno negli schemi canonici, e anzi se ne distaccano.
Nei mesi passati avevamo sofferto il silenzio della democrazia, emblematicamente testimoniato dalla chiusura del Parlamento, e l’assenza della politica come capacità di guardare a fondo nelle dinamiche reali. Ora quel silenzio è stato rotto, la voce è quella di persone che trasformano l’indignazione in richiesta perentoria di cambiamento, restituendo così alla politica quella presenza che sembrava scomparsa.
Elogio tardivo del movimentismo? Ricordiamo, allora, le parole che aprono Millennium People di
James Ballard: "Una piccola rivoluzione stava avendo luogo, così modesta e beneducata che quasi
nessuno l’aveva notata".
Chi sottovaluta, o pensa solo di strumentalizzare, il variegato mondo di quelli che protestano,
manifestano, si organizzano, non si rende conto che questa novità sociale interviene nel cuore di
una crisi drammatica, ne denuncia la gravità foriera di grandissimi rischi, e indica pure una via
d’uscita. Proprio la drammaticità della situazione che stiamo vivendo obbliga a cogliere la
profondità di un malessere che non si vuole più sopportare. Le persone rifiutano d’essere
considerate solo "carne da sondaggio", "consumate" da distruttive logiche di mercato, frammentate
dall’abbandono d’ogni logica sociale.
In un paese afflitto da egoismi e corporativismi, nessuno tra quelli che si uniscono per protestare sta rivendicando un interesse particolare. E’ una novità importante. Gli studenti, i professori, il mondo della cultura si sono fatti sentire perché non sia fatto tacere il sapere critico, per rivendicare la conoscenza come bene comune.
Gli operai hanno ridato forza alla parola "dignità", la stessa che guida le donne, che sono poi quelle che hanno individuato con più nettezza l’effetto devastante di un uso del corpo femminile che segna il punto estremo del degrado culturale e porta con sé una devastante idea del potere. E’ questa la ragione che spinge tanti uomini ad associarsi alle loro iniziative, nelle quale ricompaiono, inattese e benvenute, le ragazze, che tuttavia non si chiudono solo in questa "rivendicazione", ma sono presenti ovunque.
Si ricostruiscono così legami sociali, ceti e generazioni diverse tornano a parlarsi, parole che sembravano perdute, come "solidarietà", "interesse generale", "bene comune", "moralità" si ripresentano come ineludibili punti di riferimento.
Siamo al di là della categoria dei "ceti medi riflessivi" con la quale Paul Ginsborg aveva correttamente analizzato un’altra fase del risveglio della società civile. Quel che sta avvenendo in questo momento, infatti, è proprio l’emergere di una diversa società civile, composita, con una crescente capacità di auto-organizzazione, con una marcata autonomia.
Novità che hanno le loro radici soprattutto nell’uso della Rete, dov’è tutto un ribollire di iniziative, di discussioni magari sgangherate ma vitalissime. E, muovendo dalle piazze virtuali, i cittadini tornano ad affollare le piazze reali.
Vi sarà qualcuno, nello stanco ceto politico, capace di misurarsi con questo magma ribollente, realizzando quell’alleanza che tanto ha contato nel successo di Obama? Oggi, infatti, si fa più urgente il problema dell’"interlocutore politico" di questa nuova società.
Un interlocutore che dev’essere attento e umile, nel senso del rispetto dovuto a chi sta mettendo in gioco se stesso e, giustamente, rifiuta mediazioni troppo interessate. L’esempio è venuto dal Presidente della Repubblica quando, ricevendo gli studenti, ha colto la novità dei tempi, la richiesta, insieme, di un rapporto con le istituzioni e di un loro rinnovamento.
Non è un caso che i diversi movimenti siano unificati da un riferimento convinto alla Costituzione. Un’altra rilevante novità, infatti, è rappresentata proprio dal fatto che la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo. Se si vuole costruire una vera agenda politica, è da questo dato fondativo che bisogna partire, che illumina le diverse, puntuali indicazioni che vengono dai diversi soggetti del movimento in corso e che compongono un quadro programmatico selettivo e convincente.
Così, e non con improbabili alchimie, si costruisce un vero consenso politico. E si può contrastare un vizio impunito nella politica italiana, che si manifesta ciclicamente, e che consiste nel tentativo di cogliere qualsiasi occasione per cercare di liberarsi proprio del "programma costituzionale".
Un paese in ginocchio
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.09.2010)
L’immagine dell’Italia trasmessa dai media, per una persona per bene di buon senso, è raccapricciante. Lo squallore della sua politica ha sfondato ogni soglia della decenza. Il governo si da con maniacale accanimento alla distruzione delle fondamenta dello stato democratico con lo strumento della demagogia populista più vieta, dell’intorbidamento delle acque per cancellare le differenze fra il giusto e l’ingiusto, fra la legalità e il crimine.
Con questa tecnica antica e oscena vengono demoliti a colpi di mazza i pilastri dell’intera società: i principi costituzionali, la scuola pubblica, la cultura, i fondamenti morali, i diritti civili e i diritti sociali. L’opposizione parlamentare, con rare eccezioni, sembra - anche ad ad un osservatore non particolarmente smaliziato - assistere allo scempio pavida, divisa, balbettante, capziosa, arrogante e stonata. È difficile non pensare che l’unica sua cura sia la propria autoconservazione.
Quanto alla «sinistra fuori dal parlamento» si è virtualizzata. Se non fosse per la coraggiosa Fiom, per un leader carismatico capace di guardare il futuro e per qualche sparuta testa pensante potrebbe bene figurare in un film di Moretti come associazione di reduci.
Spero con tutto il cuore di essere una cattiva Cassandra ma, sulla soglia dell’età della pensione, non riesco ad impedirmi di pensare che si tratti della bancarotta di quasi un’intera classe dirigente che ha sacrificato il benessere di un paese ai piedi di un grottesco omino, aspirante sovrano, truccato come un clown sinistro e sull’altare del cinismo e del conformismo. In questo sfacelo riesco a trarre conforto da quelle donne e quegli uomini dell’Italia reale che continuano a vivere, a lavorare e a lottare secondo i principi della dignità e della giustizia. Grazie a loro sento che essere italiano non è solo una iattura.
Ci hanno tolto la patria
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare
vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
Sì, si può fischiare Schifani
“Fuori la mafia dallo Stato”, “Mafioso”.
Alla festa Pd di Torino proteste contro il presidente del Senato per i suoi trascorsi siciliani
di Peter Gomez (il Fatto, 05.09.2010)
È sbagliato paragonare agli “squadristi” i cittadini che hanno rumorosamente contestato la presenza di Renato Schifani alla festa del PD. Ieri a Torino, chi ha tentato di partecipare al dibattito pubblico tra il presidente del Senato e Piero Fassino, senza però poterlo fare a causa del servizio d’ordine, era infatti spinto non solo da una perfettamente legittima e democratica indignazione. A convincerlo alla protesta c’era pure un altro desiderio. Porre delle domande e avere delle spiegazioni. Ottenere dei chiarimenti sul passato della seconda carica dello Stato e sul tipo di attività professionale da lui svolta in favore di personaggi legati a Cosa Nostra. Nell’ultimo anno, del resto, sebbene sul conto di Schifani siano emersi interrogativi di ogni tipo, nessuno in Parlamento ha detto una parola.
Il Fatto Quotidiano,assieme a pochi altri, con un duro lavoro d’inchiesta ha ricostruito parte della sua carriera di avvocato civilista e di affari. Ha fornito un primo elenco dei sui assistiti, i cui nomi erano fin qui rimasti segreti. E ha avanzato un quesito squisitamente politico: per il buon nome delle istituzioni è un bene o un male avere alla testa di Palazzo Madama un uomo che oggi si scopre aver fornito consulenze all’imprenditoria considerata mafiosa?
È ovvio che gli eventuali aspetti penali della vita di Schifani siano di competenza della magistratura. In Parlamento non si può e non si deve discutere delle dichiarazioni, ancora da verificare, dei pentiti (Spatuzza e Campanella). Si può, e si deve, invece, discutere di fatti. In ogni democrazia che si rispetti il primo potere di controllo su ciò che accade nelle istituzioni e sul loro decoro non è né dei giornali, né dei giudici, ma delle opposizioni.
Il Partito Democratico sul caso Schifani (e su molti altri), però non lo ha esercitato. E continua a non esercitarlo. Invitare alla propria festa il presidente del Senato, senza prima avergli domandato di chiarire tutto, magari rendendo nota la lista completa della sua discutibile clientela e dell’attività di consulenza legale e paralegale svolta per essa, vuol dire non capire ciò che chiedono gli elettori.
E soprattutto vuol dire venir meno a un proprio dovere. Perché i cittadini leggono, s’informano sul Web, e domandano di essere rappresentati. Non farlo, per la democrazia, è molto più grave di qualche fischio e urlo indirizzato, non verso un avversario politico, ma contro chi ostinatamente siede ai vertici delle istituzioni rifiutando la trasparenza.
SOCIETA’
Dal panino global al caffè low cost
piccoli Davide sfidano le multinazionali
La Regione Sardegna si schiera con McPuddu’s contro McDonald’s. Carlo Petrini: mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin per rispondere all’arroganza Usa
di MAURIZIO CROSETTI *
"E ITTE funtis narando?...", si chiede adesso il giovane imprenditore Ivan Puddu, in cucina tra un culurgione e una sebada. "Ma questi che stanno dicendo?...". Questi, cioè gli avvocati di McDonald’s che hanno intimato a Puddu di levare il "Mc" davanti al suo marchio "Mc Puddu’s". E lui, obbediente, ha eseguito, diventando nel giro di poche ore un più mite "De Puddu".
Era global, ora è di nuovo local. Una di quelle storielle tristi che fanno morire dal ridere.
"La multinazionale dell’hamburger sostiene che il mio Mc poteva confondere il consumatore. Ma quando? Ho due piccoli negozi alimentari con la mia fidanzata Martina, qui facciamo i culurgiones, sfoglie di pasta ripiena di patate e formaggio, anzi veramente li fa mia suocera. Mica panini imbottiti. Però non importa, non ho soldi da buttare in avvocati". Ora che tutta Italia parla di lui, c’è il sospetto di un’operazione pubblicitaria (involontaria?) colossale: "Ma io non posso mica sfornare migliaia di pezzi, mi limito a offrire una birra agli amici del paese, Santa Maria Navarrese, nell’Ogliastra, felice che si parli di prodotti e realtà locali. La pasta dei culurgiones cuciti con le dita la preparano anche i bambini, la domenica, nelle case sarde, sa di buono e di antico, è un rito di famiglia".
Dunque, Davide impasta e tira la sfoglia addosso a Golia, ai suoi cetrioli indigeribili e alle sue salse tremende. E la Regione Autonoma della Sardegna gli arma la mano contro il gigante. "L’Italia subisce ogni anno danni per 70 miliardi di euro a causa di falsi e imitazioni alimentari: diffidare un commerciante di tipicità sarde per il solo suffisso Mc, suona perciò come una beffa", dice l’assessore all’agricoltura Andrea Prato, nel cognome un destino.
Ma cosa racconta, questa bizzarra vicenda? I colossi patiscono davvero il solletico delle botteghe? "Un’arroganza così stupida, che mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin’s!", risponde Carlin Petrini, presidente di Slow Food. "Il prefisso Mc vale l’italiano De, oppure l’irlandese ’O, dichiara l’appartenenza a una famiglia, mica è un’esclusiva di McDonald’s. Il signor Puddu ha tutta la mia solidarietà: ha fatto male a cambiare nome, qui serve una risposta mondiale contro chi ha rotto proprio le scatole. Anche perché sono sicuro che, in tribunale, McDonald’s perderebbe".
Se Davide mangia i tortelli e Golia vuole imporre il cheeseburger (regalando magari i bicchieri colorati, compreso l’introvabile color azzurro), si tratta di commercio ma anche di antropologia. E allora che ne pensa l’antropologo? "Oltre il ridicolo dell’elefante che se la prende con la formica, questa vicenda segnala l’anomalia di un produttore globale che ignora il locale", risponde il professor Giulio Angioni. "Eppure, è dimostrato che il primo non sopravvive senza il secondo. Poi, mi chiedo se fosse davvero il caso di usare quel prefisso all’americana". Forse, l’errore è copiare i grandi e poi lamentarsi se questi si ribellano. "Perché richiamarsi a McDonald’s?", si chiede infatti lo scrittore Salvatore Niffoi. "Siamo di fronte a un imperialismo alimentare e linguistico, contro la cucina della memoria e il valore della lentezza. La definirei un’aggressività regressiva. È anche vero che certi prodotti popolari stanno diventando di nicchia, costosissimi e per pochi, dunque elitari. E ormai, per campare si va al discount".
E magari i grandi e piccoli negozi possono anche non litigare. "Anzi, è indispensabile convivere", dice Giuseppe Brambilla, amministratore delegato di Carrefour Italia, 1450 negozi, 24 mila dipendenti. "L’ottanta per cento dei nostri punti vendita, non solo ipermercati ma anche piccoli negozi, è gestito da imprenditori: se hanno prodotti locali da valorizzare, penso al pane o alla carne, possono farlo. Quello che conta è offrire qualità corretta a prezzi bassi, arrivando a un risparmio per il cliente di oltre il 15 per cento. I prodotti del territorio sono indispensabili, senza assurdi combattimenti. La nostra logica si basa sulla flessibilità dell’offerta. È chiaro che, talvolta, il piccolo negoziante può soffrirne, però il mercato va in una direzione chiara: ci sono sempre meno soldi da spendere. Nulla contro i prodotti di nicchia, però non tutti se li possono permettere".
Forse la soluzione del problema è un asse da stiro. Quello che l’economista Mario Deaglio ha comprato proprio ieri mattina, in un ipermercato: "Ma la prossima volta, forse, lo ordinerò su Internet e me lo farò consegnare a casa il giorno dopo, risparmiando. La rete mette d’accordo locale e globale, è il famoso terzo litigante che gode: lì c’è posto per tutti, senza limite di scaffali. Detto questo, alla grande distribuzione imporrei due regole. La prima: concedere sempre uno spazio ai produttori locali. La seconda: se chiude il negozietto di paese, si deve aprire un altro punto vendita per non lasciare scoperta la zona. Bisogna fare in modo che i centri commerciali non siano distruttivi". Altrimenti, si va a stirare col computer.
* la Repubblica, 25 agosto 2010
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
I risultati di una ricerca mondiale presentata al Meeting internazionale di Bari
Ai primi posti il Turkmenistan e il Laos, ma anche nazioni sviluppate come Canada e Svezia
L’ottimismo? Non abita più qui
i giovani italiani ultimi in classifica
La scarsa fiducia nel futuro è quasi sempre legata al problema del lavoro
di GIULIA CERINO *
La platea dei delegati al Meeting internazionale dei giovani in corso a Bari BARI - Ultimi in classifica, insieme al Portogallo, Singapore, India e Ghana: l’ottimismo globale dei giovani italiani è sotto terra. A dirlo è un sondaggio condotto da Gallup Europe e presentato dal suo direttore, Robert Manchin, in occasione del Meeting internazionale dei giovani a Bari. I numeri parlano chiaro: l’indice di ottimismo dei giovani italiani è ben al di sotto della media mondiale, lontano anni luce dalla top ten della speranza, e li relega al 118esimo posto della classifica con un indice di ottimismo del 44 per cento.
Forse perché chi è più indietro non può che sperare in meglio, nella top ten ci sono paesi come il Turkmenistan (primo con un indice di ottimismo dell’87 per cento), il Laos, l’Uzbekistan e le Filippine. "Certo - dice Ila, 23 anni, delegato al Meeting - nei nostri paesi, peggio di così non si può stare". Eppure, il livello di sviluppo economico non è determinante. Rispetto ai coetanei italiani, ad esempio, ben altra fiducia nel futuro hanno gli svedesi, i canadesi, gli australiani e gli olandesi, tutti nelle prime dieci posizioni della classifica.
In bilico invece è la Francia che, con il suo 71esimo posto, si attesta sul valore medio mondiale di ottimismo (indice a quota 54%). "E chi ci crede che troveremo lavoro domani. Io non credo più a niente, mi sento inerme, incapace di realizzarmi". Nicola, che vive a Bari e al Meeting è presente come partecipante, sembra esprimere perfettamente la condizione rilevata dalla ricerca Gallup Europe. Le ragioni dietro il pessimismo delle giovani generazioni italiane si nascondono dietro due parole chiave: disoccupazione e precariato. Secondo l’inchiesta, infatti, la questione del lavoro rimane in testa a tutte le priorità indicate dagli interpellati.
"L’immigrazione, il crimine e le tasse - dice Lorenzo, delegato al Meeting barese - contano di meno quando si tratta di mangiare e poter vivere sereni, andarsene di casa e sentirsi soddisfatti di sé stessi e realizzati. Oggi si anche tenuto un workshop che si chiama ’A decent job is a right’. Non a caso era pieno d’italiani...". In realtà, neppure il problema della disoccupazione basta a spiegare il prevalere del pessimismo tra i giovani italiani: "Quella è un’emergenza che tocca tutti - dice Virginie, ventiquattro anni, francese di nascita - . Io ho vissuto in Francia, in Belgio e Inghilterra e loro sono messi anche peggio degli italiani. La questione non è solo la precarietà. Si tratta di un modus vivendi. Di un pessimismo generale e fisiologico intrinseco alla nostra generazione di insofferenti".
Dall’inchiesta Gallup emerge del resto che la ridotta spearanza dei giovani italiani non è isolata. Nel mondo, tra le nuove generazioni il 49% pensa infatti che nel futuro la vita sarà peggiore di come è adesso. In Europa, inoltre, gli ottimisti sono in netta minoranza: il 38 per cento. "Non andrà mai bene niente - dice Luca, 24 anni, anche lui al Meeting come spettatore - : siamo in Europa ma ci posizioniamo nelle classifiche con l’Africa. Prima eravamo quasi in Africa e volevamo l’Europa. Non ne usciremo mai".
Non è un caso, forse, che tra i ragazzi italiani la ridotta fiducia nel futuro vada di pari passo con la scarsa considerazione per gli effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente. I giovani italiani se ne curano poco, anzi, quasi per nulla. Dai dati riportati dall’inchiesta emerge infatti che sotto i 30 anni di età, le conoscenze in materia di climate change sono bassissime. Tanto basse da fare del Belpaese l’unica nazione europea con la0 Grecia a rientrare nella "fascia della bassa consapevolezza", la stessa di cui fanno parte tutti i paesi dell’Africa e buona parte dell’Asia. In altre parole, su una scala da 10 a 60 in cui 60 è la massima consapevolezza di ciò che accade e accadrà nel mondo a causa del climate change, i giovani italiani si fermano a quota 20/30. L’unica certezza condivisa con gli altri è che "la causa dei cambiamenti climatici è da ricercare nell’azione irresponsabile dell’uomo".
© la Repubblica, 20 gennaio 2010
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
Il futuro della ’meglio gioventù’: rimanere o andare all’estero?
La lettera di Celli apre il dibattito: "Figlio mio, devi lasciare l’Italia". La risposta: papà ci voglio pensare
ultimo aggiornamento: 30 novembre, ore 22:08
Roma - (Adnkronos/Ign) - Critiche e approvazioni sul testo del direttore generale della Luiss, pubblicato da ’Repubblica’, che invita i giovani ad abbandonare il Paese. Dì la tua nel FORUM. Meloni: ’’Dichiarazioni molto snob’’. Casini: "Preoccupazioni condivise". Mons. Sigalini: "No a fuga ma tentare tutte le strade". ’Ffwebmagazine’: "Ragazzi restate, aiutateci a cambiare l’Italia". (VIDEO). AAA cercasi lavoratori laureati o diplomati. La disoccupazione sale al 7,4%
Roma, 30 nov. (Adnkronos/Ign) - "Avremmo voluto che l’Italia fosse diversa e abbiamo fallito". Così scrive al figlio Pierluigi Celli, ex direttore generale della Rai e attualmente direttore generale della Luiss, in uno dei passi più rilevanti della lettera che ’La Repubblica’ mette in prima pagina. Una lettera in cui Celli incoraggia il suo ragazzo a lasciare l’Italia perché "non è più un posto in cui si possa stare con orgoglio". Si scatenano i commenti tra critiche e approvazioni.
E non manca la replica del figlio. ’’Condivido le riflessioni di mio padre, ma al momento non ho ancora deciso se andare a vivere all’estero. Deciderò dopo aver preso la laurea’’, dice all’ADNKRONOS Mattia Celli, 23 anni maturità scientifica, al secondo anno di specialistica in ingegneria meccanica alla Sapienza di Roma. Si tratta di una scelta difficile, "l’Italia è sempre l’Italia", sottolinea il giovane anche se d’accordo con l’analisi del padre. "L’idea di andare comunque all’estero per un paio di anni e dopo decidere se restare o meno dipenderà anche dall’argomento della tesi di laurea. Mi piacerebbe -spiega- fare qualcosa nell’ambito della ricerca. Un settore dove in Italia ci sono enormi difficoltà e quindi sarebbe inevitabile andare all’estero’’. Mattia Celli, comunque, ’’esclude scelte definitive’’. ’’Nel nostro paese gli ingegneri -osserva- hanno spazi e possibilità per sfondare se possiedono un’adeguata base di conoscenza, anche se spesso la loro professionalità non è adeguatamente considerata, soprattutto da un punto di vista economico’’.
A bollare come ’’snob’’ le dichiarazioni Pierluigi Celli è il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. ’’Mi sembrano dichiarazioni molto snob da parte di chi avrebbe avuto tempo e modo per offrire un futuro migliore alle nuove generazioni - sottolinea Meloni - ma evidentemente aveva ben altro a cui pensare. Ed ora piuttosto che porsi il problema di rimediare ai propri errori, invita i giovani italiani a disertare dalla speranza di potersi realizzare nella terra in cui si è nati’’. ’’A costoro - avverte Meloni - rispondo che la realtà di tutti i giorni fuori dai consigli di amministrazione delle grandi aziende è durissima, e questo la mia generazione lo sa bene, ma non smetterà mai di lottare né di respingere al mittente i consigli dei cattivi maestri’’.
Il messaggio di Celli è condiviso invece dal leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini che si dice altrettanto preoccupato per il futuro dei giovani. La questione posta "non è una casa banale -spiega -, è una preoccupazione che tutti avvertono per i loro figli, io lo sento per le mie figlie’’. ’’Noi 50enni -aggiunge il leader dell’Udc- abbiamo avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta, siamo cresciuti in un sistema che ci ha garantito libertà, democrazia e sviluppo economico. Ciascun genitore sogna che i suoi figli stiano meglio di lui e realizzino culturalmente e socialmente uno stadio e uno stato migliore di quello che li ha preceduti. Oggi tutti gli indicatori ci dicono che difficilmente i nostri figli riusciranno a garantirsi livelli sociali migliori di quelli che noi avevamo garantito’’.
Per Pino Sgobio (PdCI) "la lettera di Celli mette il dito nella piaga e svela la drammatica realtà che attraversa l’Italia. Nel nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda il Sud, c’è un vuoto impressionante, una vera e propria mancanza di futuro e di prospettiva per i giovani"
Non la pensa così FareFuturo che sul sito ’Ffwebmagazine’ lancia un messaggio di speranza per il futuro dei giovani. Se ne fa portavoce il direttore stesso, Filippo Rossi che scrive: "Un quadro fosco, quello di Celli, di un pessimismo forse esagerato". Ma senza entrare nel merito e dare consigli alternativi, "ci sentiamo" solo di fare una richiesta e dare una speranza. "La speranza che l’Italia non venga privata di una generazione che, oggettivamente, è stata abbandonata a se stessa, prigioniera del presente, senza prospettive, senza un sogno collettivo, senza un’idea di futuro". Per questo è necessario aggrapparsi ad "un ottimismo della volontà, a un ’boia chi molla’ che non significa nulla se non questo: ti prego, vi prego -è l’appello di Rossi- non ci abbandonate, aiutateci a cambiare un Paese che non si merita questo presente... aiutateci a non mollare".
Chi conosce da vicino i ragazzi è Monsignor Domenico Sigalini, secondo il quale "un giovane non va mai invitato a fuggire". L’assistente ecclesiastico generale di Azione Cattolica, organizzatore di diverse Giornate mondiali della gioventù nonché vescovo di Palestrina ritiene che sia "sbagliata" l’esortazione di Celli. "I giovani - dice all’ADNKRONOS- devono avere coraggio, rimboccarsi le maniche e tentare tutte le strade, mai fuggire. Del resto, quanti giovani, pur nelle immense difficoltà, tirano la cinghia".
Proprio nei giorni scorsi il vescovo di Azione Cattolica si è recato in Sicilia per incontrare i giovani. "Certamente si lamentavano tutti -spiega monsignor Sigalini-. In tanti lamentavano di non avere un lavoro e un guadagno certo ma è troppo facile espatriare o invitarli a farlo. Bisogna rimboccarsi le maniche. Proprio perché gli adulti hanno fallito, bisogna tenere alto il livello dei loro ideali e lasciare che i giovani abbiano uno slancio senza tarpare loro le ali".
ECONOMIA
Già 800 testimonianze a Repubblica.it. Racconti di chi si vede negata ogni chance
Dagli stagisti ai piccoli imprenditori, in diretta la condizione giovanile in Italia
Storie dalla generazione perduta "Ci avete traditi, restituiteci la vita"
di FEDERICO PACE *
C’è collera e disincanto. Avvilimento e indignazione. Nelle ottocento email spedite dai giovani, in poco meno di quarantotto ore, a Repubblica.it, si sovrappongono parole rabbiose e spietate analisi. I ragazzi che sono stati mandati a casa con la crisi, sono mortificati per il lavoro che non c’è. Pentiti del tempo e della dedizione riservata agli studi. Arrabbiati per l’assenza di meritocrazia che li tiene ancora fuori da tutto.
Nelle testimonianze arrivate da ogni parte d’Italia ci sono le peripezie quotidiane di quelli ingabbiati nella "trappola dello stage" e il disappunto degli eterni precari appesi alle promesse di un datore di lavoro. Ci sono i docenti e i ricercatori senza alcuna certezza. Ma anche i giovani avvocati e gli architetti che lavorano a "euro zero". I piccoli imprenditori alle prese con affari che vanno in malora. Ci sono quelli che il lavoro non lo hanno mai trovato. C’è chi è partito. E chi non sa più cosa fare.
Il lavoro perduto. Da Ascoli Piceno un ventottenne, che fino a poco tempo fa aveva un contratto a tempo indeterminato, ha spedito quello che sembra un epitaffio o una poesia bruciante di Toti Scialoja: "L’azienda ha chiuso. Sono rimasto a casa." Ogni altra parola sarebbe di troppo. Una ragazza della provincia di Venezia invece il posto c’e l’ha ancora. Ma sa che non durerà. "Sono assistente sociale - racconta la ventisettenne con un contratto a tempo -, lavoro con una cooperativa che mi paga molto meno delle mie colleghe di pari grado. Ora l’amministrazione comunale sta ’ridisegnando l’organico’: cioè sta per eliminare il mio posto. A volte non dormo di notte. Tra poco sarò di nuovo a spasso".
In questo labirinto senza via d’uscita, ci sono molti che accettano di ridursi le mansioni. Si fa anche questo per cominciare a vivere e non rimanere senza niente in mano a fine mese. Da Roma arriva una storia esemplare: "Laureato in giurisprudenza - scrive il nostro lettore - dopo tante collaborazioni a progetto, nel 2007 ho deciso di dequalificarmi spinto dal desiderio di creare qualcosa con la mia compagna. Ho accettato un posto da operaio messo a disposizione da un’agenzia per il lavoro presso una multinazionale". Ma purtroppo non è bastato neppure questo. "A giugno scorso l’azienda ha deciso che insieme ad altri novanta colleghi non era più necessaria la mia collaborazione lasciandomi a casa".
Il posto mai trovato. Ma molti un lavoro non l’hanno mai. Da Torino una ragazza scrive: "Sono diplomata in lingue da un anno. Dicevano che era un buon settore per l’impiego. Girando per le varie agenzie della mia città ho scoperto che non era così. Tutti mi chiedono se ho esperienze lavorative e, sentendo la mia risposta negativa, mi guardano con aria scocciata come se in realtà stessi chiedendo l’elemosina". Da Varese una ragazza di venticinque anni confessa la delusione per l’inutilità della laurea. Ha trovato solo qualche lavoretto pagato "250 euro al mese per fare la pendolare da Varese a Milano. Dopo sette mesi speri in qualcosa di meglio. E lo chiedi. Come risposta ti ritrovi senza niente. Niente di niente. La banca mi ha comunicato che il mio conto è a secco. Vivo di ’paghette’".
Troppi stage. Chi riesce a fare il primo passo è costretto ad accettare gli effimeri "surrogati" dell’assunzione. I tirocini soprattutto. Percorsi che difficilmente conducono al lavoro "stabile". Un ventisettenne di Padova racconta: "Dopo una laurea e un master sono caduto nel vortice degli stage. Prima in un’agenzia a Roma ed ora in un ufficio a Milano. Non ci sono prospettive di assunzione di alcun tipo. Non vi è un rimborso spese, non ci sono neppure i buoni pasto". Ma non basta. Il problema, dice il lettore, è che "molto spesso arrivo in ufficio e non mi viene assegnato neppure un compito in tutto il giorno. Non imparo. Perdo tempo."
Professionisti e imprenditori. In questo grande arcipelago della generazione a cui vengono concesse poche chance e nessuna prospettiva non ci sono solo le figure (addetti di call center o precari della scuola) che abbiamo imparato a conoscere. Una trentaduenne pugliese scrive: "Sono laureata in giurisprudenza, non vorrei fare l’avvocato ma non ho altra scelta. Sono sette anni che lavoro presso avvocati. Gratis o quasi perché la condizione dei praticanti e neo avvocati è di dipendenti a tempo pieno senza diritti. Se ti ammali o sei in maternità, sei finita."
A scrivere sono anche quelli che tentano la via della piccola imprenditoria. Da Milano arriva la lettera di un 34enne. "Avevo una mia piccola attività d’erboristeria. Ho deciso di fidarmi di un caro amico. Abbiamo costituito una nuova società. Avevamo un nuovo negozio più grande, c’era l’entusiasmo, la gioia per qualcosa che cresceva e che poteva dare di più. E’ trascorso un anno da quell’inizio ed oggi mi ritrovo senza più nulla." Anche a Napoli succede qualcosa di simile: "Disperato, dopo ennesimi mesi di ricerca di lavoro completamente vana, ho tentato l’ultima carta: mettere su un’attività, un piccolo negozio. Con un prestito familiare, ovviamente. Però l’attività non produce altro che debiti. Fra pochi mesi dovrò chiudere".
Lontani da casa. Più della metà di chi ci ha scritto, ha lasciato il posto dove è nato. Il 15 per cento è partito dalla città d’origine. Il 23 per cento ha cambiato regione. A partire sono quasi sempre loro. Quelli che dal Sud vanno al Nord. Qualcuno ha fatto più di 400 chilometri. Altri anche il doppio. Spesso senza ottenere nulla in cambio. Una laureata in ingegneria si è trasferita da Agrigento a Novara, in quello che lei definisce "il ricco Nord. Mi sono ben inserita come precaria. Fino al giugno 2009. Poi la catastrofe. Da un giorno all’altro senza lavoro, a inseguire il titolare per farmi dare quello che mi spetta per progetti fatti ma che non vuole pagare". Un trentunenne racconta, con rabbia, di avere lasciato la Calabria per Milano: "Mi sono laureato in ingegneria credendo di potere trovare un lavoro in modo più semplice. Non è stato così. Lavoro in una società dello Stato che mi sfrutta come un cane". Un ragazzo sardo di ventinove anni scrive: "Sono un giovane che, dopo la laurea, ha deciso di lasciare il Sud per salire a Milano, in cerca di fortuna. Non è che ne abbia trovata molta: contratti a tempo determinato (ho avuto anche un contratto di 1 settimana!!!), zero gratifiche lavorative, zero possibilità di carriera. A fine anno mi scade il contratto. Penso proprio che lascerò l’Italia." Ciascuna parola, scritta da questi ragazzi, chiama in causa un’intera classe politica e un sistema economico che sembra averli dimenticati, prima ancora di averli traditi.
Belpaese addio. Il 17 per cento delle testimonianze è di chi è andato via dall’Italia per riuscire ad avere un’occasione. Molti sono soddisfatti di averlo fatto. Come risulta evidente dal telegrafico messaggio che arriva dall’Austria. "Trasferito a Vienna. Felicissimo, occupato e per nulla nostalgico". Da Siracusa è partita anche una ragazza con laurea e master in nuove tecnologie perché "l’impiegata di un’agenzia interinale del nord mi offrì un posto come commessa in un negozio di alimentari. Così decisi che all’Italia avevo dato l’ultima possibilità e me ne andai all’estero". Dice di parlare correntemente quattro lingue e di avere vinto, "un concorso pubblico non italiano, per il quale ha davvero contato solo il merito" e di avere "un salario più che decente. Oggi guardavo il mio profilo su Linkedin e mi sono accorta che ho scritto il mio cv in inglese, francese e spagnolo e non in italiano...".
Ma c’è anche chi, pure al di là dei confini nazionali, non ha trovato alcun Eldorado. Dal Regno Unito un ragazzo napoletano racconta che all’estero le cose non vanno affatto bene. "Vivo in Inghilterra da più di cinque anni e ho sempre lavorato in ruoli da impiegato per grosse aziende. In cinque anni ho registrato tre redundacies, ovvero licenziamenti per motivi di trasferimento del business. L’ultima a marzo 2009. Adesso ho cominciato a lavorare con un rimborso di appena 100 sterline a settimana. Loro la chiamano probation (prova), io sfruttamento".
La fatica e il sogno. Infine a chi è ancora convinto, in buona o cattiva fede, che alle nuove generazioni manchi la forza per rimboccarsi davvero le mani, sembra rispondere Angelo, 32 anni da Brindisi: "Ho cominciato a lavorare da bambino nella piccola officina meccanica di mio padre. Mi sono diplomato come tecnico delle industrie e ho assolto la leva militare. Studiavo ancora quando ho preso un patentino come conduttore di caldaie a vapore che mi ha permesso di cominciare a lavorare. Ho iniziato con un lavoro stagionale. Dopo una stagione ero nuovamente disoccupato. Da allora è cominciata la mia storia di precario. Da quel momento ho fatto, in nero e non, il caldaista civile, l’operatore macchine utensili, il falegname, il carpentiere, il muratore, il pescivendolo, lo chef, il rappresentante, il letturista di contatori, l’agricoltore, il tubista..." e proprio alla fine, quando l’elenco sembra non finire mai, sintetizza in poche parole tutta l’essenza problematica di una generazione a cui la società non sembra offrire alcuna vera opportunità: "Ormai ho imparato a vivere della giornata e quel sogno del posto fisso, beh... mi sono reso conto che è davvero un sogno".
© la Repubblica, 30 ottobre 2009
LA LETTERA
La vera Italia da raccontare agli stranieri
-di FRANCO FRATTINI (La Stampa, 13/10/2009)
Caro direttore,
ho negli occhi, sotto la rete della pallavolo, l’abbraccio delle nostre ragazze ed il riflesso, la stoccata e l’assalto delle fiorettiste e delle spade azzurre. Nello sport non si vince per caso e l’eccellenza non è un dono del cielo. L’Italia della scorsa settimana è anche questa - come lo è sempre ogni giorno nei suoi cooperanti e nei suoi soldati di pace - ed è un bene che siano le donne a prenderla per mano.
Inizio da qui (e dallo sport macchina potente di identificazione e orgoglio quindi di benessere collettivo, quando si vince e non solo) perché all’origine della cattiva immagine c’è un’Italia che ancora non si ama e che non si rispetta. E che i media non raccolgono. Calabresi ci spiega, ricorrendo a un autorevole collega straniero, che la vicenda coniugale del premier ha tutti gli ingredienti per tenere le prime pagine dei media globali (come accaduto per Sarkozy) e che questo meccanismo è strutturale e cieco, non sarebbe arbitrario e soggettivo.
Lo stesso discorso varrebbe, purtroppo in negativo, per raccontare la fatica che il ministro degli Esteri ha fatto per sensibilizzare i media a raccontare il talento e il sacrificio di milioni di noi, le tante storie di successo italiano in tante parti del mondo. Non era una volta, il buon giornalismo, la ricerca ed il gusto per i miracoli della vita quotidiana e le storie di un’umanità nascosta?
E’ vero, però, che qui parliamo e polemizziamo di un’Italia che certo non può nascondersi le difficoltà che la sua immagine incontra. E allora se dobbiamo parlare di «anomalie», dobbiamo parlare del come si sono determinate, e del come poi i media siano percepiti come «watch-dog» della democrazia.
All’origine dei nostri problemi («anomalie») c’è una storia italiana ancora non condivisa, le delegittimazioni frequenti tra le parti e gli uomini politici, dunque l’autorappresentazione negativa. Un’autorappresentazione che non ha mai fatto i conti con se stessa, perché non li ha mai fatti una parte rilevante della politica italiana. C’è chi può dire che dopo il riformismo di Craxi qualcuno a sinistra abbia tentato una Bad Godesberg italiana? E che da questo malanno - di una sinistra prima rivoluzionaria e poi giustizialista (così comoda per la struttura della notizia mediatica che ama principalmente colpevoli e cattivi) - non sia derivata questa anomalia? Di un Paese che non sa darsi pace e che raccoglie mese dopo mese storie che appaiono sempre contrassegnate da opacità e da complotti? Con Di Pietro ambasciatore di manette e sciagure? L’anomalia - prima che il cosiddetto conflitto di interessi che è in Italia regolato da una legge (qui almeno meglio che a New York. O sbaglio? ) - è poi rappresentata dal fatto che la pace non si può fare perché un manipolo di magistrati appartenenti - alla luce del sole - a spezzoni o frange ideologiche organizzate in «correnti» che hanno nei loro documenti fondativi l’obiettivo di cambiare la società o di contribuire alla lotta tra le classi e che hanno perduto la battaglia e la credibilità politica in Italia, continuano in questo modo ad «amministrare giustizia». Questa non sarebbe la prima delle anomalie da denunciare in Italia e all’estero? O di cui dovrebbe temere un cittadino straniero in Italia? Badate: si tratta di anomalie che la stampa straniera dovrebbe prendere più a cuore, molto più influenti e devastanti di una battuta che loro definirebbero «boyish» e su cui c’è da lavorare, da capire: una cosa che i media spesso, per problemi di tempo, dimenticano. I nostri 150 anni potrebbero essere un traguardo per arrivare a questa voglia di ricominciare, una pace-pacificazione che interrompa il circuito e l’azione di chi è ormai un professionista dello scavo nella Prima Repubblica, molto spesso realizzando una manipolazione storica evidente e tutt’altro che innocente, per cercare di condizionare il presente. Alcune inchieste giudiziarie appaiono infatti allo storico onesto ed al contemporaneo delle incredibili «cantonate» interpretative, vestite purtroppo di una potenza di fuoco non trascurabile.
Un’esportazione di questa stessa immagine negativa trova nell’aggancio con i media il vantaggio strutturale che i media accordano ormai a tutto ciò che è, o peggio (appare), negativo senza alcuna distinzione. Un esempio: a chi, dotato di capacità di analisi politica, è potuto sembrare «spontaneo» e importante il fenomeno di qualche centinaio di italiani, in qualche capitale estera di questa nostra Europa, agitanti cartelli sulla libertà di stampa minacciata in questo nostro Paese? Non seguivano forse, ad esempio, quel meccanismo classico per cui un giornalista ed un operatore televisivo (magari senza allargare il campo dell’inquadratura) «hanno bisogno» per la loro notizia di documentare che sì, qualcosa è comunque avvenuto? In quale categoria dell’etica dell’informazione e dell’immagine di un Paese metteremmo questo esempio? Che è poi un altro modo «strutturale» per essere visibili - come «è costretto a fare» il Parlamento Europeo: rincorrere la visibilità alzando i toni e denunziando anche chi non lo meriti - senza alcun riferimento alla realtà e alla verità? E siamo soltanto in quella stessa logica strutturale che fa ritenere inevitabile la visibilità degli affetti familiari del nostro presidente del Consiglio. Il quale subisce, troppe volte, la «riduzione» che i media operano sulla simpatia e sull’ottimismo che sempre vuole infondere anche con una distanza istituzionale che i presenti, il contesto, sempre raccolgono e percepiscono. Mentre i media si divertono a non cogliere riducendola o a distorcerla.
E poi quando il presidente del Consiglio attacca i media non esercita la sua libertà di espressione, di critica - certo forte ed estrema come piace a ogni sincero liberale - ed il risultato non è forse una mediatizzazione globale di questa polemica? Non è questo proprio il contrario del «denunciato» silenzio e bavaglio? Non sono questi cultori della libertà di espressione degli involontari silenziatori della stessa? E se il «cane da guardia» è di proprietà della stessa persona che possiede la tessera nr. 1 del principale partito ora all’opposizione? E se questo «cane da guardia» sembra sviluppare un giornalismo investigativo che accomuna spazzatura a quella che sembra sempre più una sindrome dell’accanimento? Sono disposto a ritirare questa «deduzione» se tutti riconoscono a Vittorio Feltri la stessa autonomia. Per finire: nessuno che ami questo nostro Paese ha da guadagnare da un clima di veleni, particolarmente chi guardi ad un’Italia rispettata - come lo è - alle cui prospettive contribuiscano tutte le nostre culture e le anime politiche. Sono due i movimenti: guardare dentro di noi e produrre-promuovere un’immagine all’altezza delle vittorie delle nostre squadre e dei nostri militari o cooperanti per la pace nelle aree di crisi, forti, coesi. E poi, fuori dall’emergenza, dare alla nostra comunicazione un’attenzione strutturale, una presenza diffusa, una sensibilità alle cose buone, un’attenzione a quel che non va e a come rimediarvi. E’ quel che sto cercando di fare e che faremo seguendo il coordinamento di Palazzo Chigi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La bandiera ammainata dell’Unità d’Italia
di Marc Lazar (la Repubblica, 28.07.2009)
A due anni dalla commemorazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, le polemiche sono già incominciate. A denunciare il silenzio del governo su questa ricorrenza sono stati alcuni membri del Comitato per le celebrazioni, e il suo presidente, Carlo Azeglio Ciampi, ha minacciato addirittura di dimettersi. Sul Corriere del 20 luglio, Ernesto Galli della Loggia ha fustigato una classe politica che ha dell’Italia «un’immagine a brandelli, di fatto inesistente», suscitando reazioni molteplici. In verità, si tratta di controversie gravide di significati, a dimostrare - se ancora ve ne fosse bisogno - che come ha detto Giuseppe Galasso, l’Italia è una nazione difficile. Non può dunque sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche.
Nel 1911 gli organizzatori del cinquantenario dell’Unità vollero dimostrare agli italiani, ma anche all’Europa e al resto del mondo, che l’Italia era davvero unita, e si presentava oramai come un grande Paese in pieno sviluppo, con dichiarate ambizioni internazionali. L’anno 1911 segnò una tappa nell’affermazione dell’Unità nazionale intorno alla monarchia, ma registrò al tempo stesso l’affermazione crescente del nazionalismo italiano.
Il centesimo anniversario della Repubblica fu celebrato fin dal 1959, con manifestazioni ripartite su tre anni, per commemorare la seconda guerra d’indipendenza del 1859, la spedizione dei Mille del 1860 e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861. Le iniziative di maggior rilievo ebbero luogo in quest’ultimo anno, in particolare con l’Esposizione internazionale «Italia ‘61», concepita per onorare i padri della Patria e celebrare i successi di un Paese in pieno miracolo economico, il cui tenore di vita progrediva rapidamente, suscitando un indubitabile ottimismo. Ma le iniziative ufficiali venivano recepite solo limitatamente, tranne nei casi in cui si associavano a comme- morazioni della prima guerra mondiale e della Resistenza. Pur non ignorando la nazione, la Repubblica nata nel segno dell’antifascismo stenta a rivendicarla e a darne una definizione precisa, dopo l’uso che ne avevano fatto Mussolini e il suo partito. Inoltre, la costruzione europea è considerata come una priorità. Perciò il 1961 non dà luogo ad eccessi, né in un senso né nell’altro. Poiché si rivela sinonimo di miglioramento delle condizioni di vita, la Nazione è ben vista dagli italiani, ma non riveste un significato politico di grande rilievo. Così, una volta passata la data dell’anniversario, si torna a una forma di indifferenza nei riguardi della nazione, sempre più confinata alla sua dimensione di patrimonio culturale.
Qual è ora il contesto in cui si prepara il 150° anniversario dell’unità d’Italia? Da quasi due decenni questo Paese è scosso da un duplice processo, complementare e antagonistico. Da un lato si ripropongono gli interrogativi sul significato da dare a ciò che l’Italia rappresenta come nazione, mentre dall’altro si sta facendo strada una domanda proteiforme di nazione. Gli interrogativi nascono peraltro da fenomeni che interessano molti Paesi europei. Innanzitutto, la crescente europeizzazione, e la conseguente rinuncia a interi settori della sovranità nazionale. In secondo luogo, la globalizzazione dell’economia, dei rapporti sociali, della cultura e della vita quotidiana, che restringe gli spazi possibili della nazione. Infine, la reazione a questi due elementi porta ad accentuare la ricerca identitaria nell’ambito della prossimità: un fenomeno che spiega le crescenti rivendicazioni locali e regionali quasi ovunque in Europa. In Italia, la questione della nazione è inoltre acutizzata da due fattori specifici: l’ascesa della Lega Nord, che almeno in un primo tempo proclamava una volontà secessionista, provocando reazioni diametralmente opposte di difesa dell’integrità della Penisola; e lo shock migratorio, dovuto all’arrivo massiccio e pressoché improvviso di popolazioni straniere, con tutto il coacervo di problemi che ne derivano. Tutto ciò ha rilanciato un gran numero di interrogativi, in buona parte anche tradizionali. Su cosa si fonda la nazione? Su un passato comune, su valori comuni? E in questo caso quali: della Costituzione, della Chiesa, o altri ancora da ripensare? Un modo di essere? Un insieme di prassi identificabili? Si sono organizzati numerosi colloqui e trasmissioni radiofoniche o televisive, e sono usciti vari libri - ad esempio «Se cessiamo di essere una nazione» di Gian Enrico Rusconi (1993), o «La morte della Patria» di Galli della Loggia (1996) - che hanno suscitato a volte vivaci dibattiti.
D’altra parte, in Italia sta progressivamente emergendo una domanda di nazione, tanto maggiore quanto più aumenta la distanza dall’esperienza storica del fascismo. La modernizzazione accelerata del dopoguerra ha accentuato l’unificazione già intrapresa - in senso sia geografico che materiale, linguistico e culturale - della penisola. Dagli Anni ‘90 in poi, l’Italia non esiste più solo in occasione delle partite di calcio giocate dagli Azzurri. L’identità nazionale si traduce in una sensibilità a fior di pelle nei riguardi degli altri, delle emozioni collettive condivise, e nella coscienza di un «noi» italiano. A quanto emerge dai sondaggi, è in aumento anche la fierezza dell’italianità, identificata innanzitutto con l’«arte di arrangiarsi». E c’è un fatto nuovo, che non si registrava dal 1945: la politica tenta di rispondere a quest’aspirazione. È con chiara intenzione simbolica che Silvio Berlusconi crea Forza Italia, e Gianfranco Fini lancia Alleanza Nazionale. Su un registro diverso, il Presidente Ciampi riafferma con le parole e con gli atti le virtù politiche e civiche della nazione italiana. Ma tutto questo sembra scontrarsi con certi limiti. Come ha dimostrato Ilvo Diamanti (su Repubblica del 26 luglio) si sta nuovamente rafforzando la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud.
La commemorazione del 2011 fa dunque sorgere un interrogativo: l’Italia è in grado di proporre una narrativa comune, la rivendicazione di un passato a un tempo unitario e plurale, contrassegnato da invarianti, ma anche da lacerazioni? Un vivere insieme nel presente, non ripiegato su se stesso ma aperto e capace di integrare, in vista del progetto di un futuro comune? Se non saprà cogliere questa ricorrenza del 2011, l’Italia perderà un’occasione per costruire una nazione non illusoriamente nostalgica, ma adeguata al nostro tempo, capace di arricchire l’Europa e il mondo della sua storia e della sua cultura, certo, ma anche dei suoi valori.
Le voci di chi lavora fuori: «Per noi imbarazzo continuo»
di g.v. *
Se gli italiani che vivono all’estero cominciano ad inviare ai giornali, al nostro, lettere di preoccupazione e disagio qualcosa forse sta succedendo. Scrivere come per esorcizzare, per dire che non è vero. Oppure per cercare solidarietà, conforto, capire se passerà, prima o poi, che questo possa essere una volta buona un paese normale.
Ma così non è. Ed il motivo per cui vengono fermati i nostri connazionali a Parigi come a Washington, a Londra come a Barcellona è quasi sempre per parlare in tono canzonatorio delle gesta per nulla edificanti del nostro presidente del Consiglio. Il crescendo dei fatti privati e pubblici si somma alle gaffe compiute all’estero nei vertici internazionali ufficiali; alle considerazioni sull’abbronzatura di Obama; alle battute vecchie e nuove sui capi di stato, soprattutto se sono donne.
Leggete queste pagine e il coro è quasi unanime. Ci si può anche ridere su, ma a volte il disagio è troppo forte. Si può anche rispondere, ma alla lunga gli argomenti per dire che tutto il mondo è paese vengono a mancare. È vero che Francia, Stati Uniti e Spagna sono dei grandi paesi e che chi li ha scelti per lavoro (senza dimenticare che spesso per lavorare bisogna lasciarla per forza quest’Italia) ha altro a cui pensare: Berlusconi è un argomento da pausa pranzo. Singolare coincidenza: si vive anche con grande tranquillità il premier gaffeur a Mosca. Non è consolante constatare però che la popolarità del nostro è alta dove la democrazia è più debole.
* l’Unità, 16 maggio 2009
Il potere unico
di EZIO MAURO *
SIAMO dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l’intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l’obiettivo del premier è più ambizioso.
O la modifica del principio previsto in Costituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.
Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall’origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall’Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.
Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall’inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l’establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.
Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l’attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l’obbligatorietà dell’azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell’esercizio dell’accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.
Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell’equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell’eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell’investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l’organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".
Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c’è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato.
* la Repubblica, 11 dicembre 2008
Sarkozy ’miglior dirigente europeo’, Berlusconi all’ultimo posto *
Nicolas Sarkozy è il leader europeo più amato tra il 27 capi di stato e di governo dell’Unione Europea secondo il quotidiano francese La Tribune, che ogni anno affida la scelta a una giuria di 12 giornalisti (corrispondenti da Bruxelles ed esperti di politica europea) di 9 diversi paesi. Ultimo della lista, invece, il leader italiano Silvio Berlusconi. Il premier italiano è stato duramente criticato dalla giuria e definito "un arruffapopolo imprevedibile e egoista".
Nella lista dei somari europei, a far compagnia a Berlusconi, ci sono anche il premier ceco Mirek Topolanek (25esimo) e il premier irlandese Brian Cowen (penultimo).
I francesi, si sa, sono chauvinisti e dunque non stupisce che al primo posto tra i "dirigenti europei" ci sia Sarkozy, senza contare che l’attività politica degli altri capi di Stato e di governo Ue è stata piuttosto opaca. Fatto sta che il presidente della repubblica francese ha vinto il premio, pur essendo - recita il verdetto degli esperti - "più apprezzato in Europa che in Francia".
Il capo dello stato francese, secondo la giuria della Tribune, "ha dato prova di un nuovo stile di presidenza dell’Unione, magari non perfetto ma comunque di eccezionale qualità". Sarkozy, proseguono gli esperti, si è anche distinto per le sue "qualità di leadership e per l’energia con cui ha affrontato delicati dossier come la crisi georgiana o quella finanziaria".
Sul podio, a seguire, si sono ben classificati il primo ministro lussemburgese Jean-Claude Juncker, presidente dell’eurogruppo, il premier britannico Gordon Brown e il cancelliere tedesco Angela Merkel.
* l’Unità, 11 dicembre 2008
Napolitano: "Non modificabili le fondamenta della Costituzione" *
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene nuovamente nel dibattito sulla riforma della giustizia difendendo le "fondamenta" della Carta costituzionale: "I principi fondamentali della Costituzione sono fuori discussione", afferma.
Ricevendo al Quirinale i membri del Fai, e raccogliendo il loro appello per una tutela continua del patrimonio ambientale e monumentale italiano, Napolitano ribadisce: "Per quanto si discuta su cosa cambiare e cosa no della Costituzione, certamente i princìpi fondamentali sono fuori discussione e nessuno può pensare di modificarli o di alterarli".
* la Repubblica, 12 dicembre 2008
Il premier a favore di una modifica delle norme primarie
"E poi l’ultima parola spetta ai cittadini: saranno loro a decidere sulla riforma"
Berlusconi: "No al dialogo con l’opposizione
Giustizia, cambieremo la Costituzione"
Anche il ministro della Giustizia Alfano per la distinzione delle carriere
E sull’azione penale dice: "Obbligatoria, ma bisogna fissare delle priorità" *
ROMA - La Costituzione non può essere considerata un ostacolo alla riforma della giustizia. Lo afferma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: "La Costituzione si può cambiare e poi l’ultima parola spetta ai cittadini. Ci sono due votazioni con 6 mesi di tempo l’una dall’altra poi a decidere se la riforma sarà giusta saranno i cittadini. Questa è la democrazia". Di contro, Berlusconi chiude al dialogo con l’opposizione: "Con questa opposizione non c’è possibilità di dialogare. non si può parlare con chi mi paragona ad Hitler, a un dittatore argentino, con chi mi accusa di essere il diavolo e non si permette di dire una parola sulla moralità pubblica. Non mi siederò mai a un tavolo con codesti individui".
Quanto ai contenuti della riforma, il premier ribadisce, durante la presentazione del libro di Bruno Vespa: "Le idee sulla giustizia le abbiamo chiare: siamo per la separazione degli ordini, non voglio dire delle carriere, ma degli ordini sì. Questo significa che chi giudica farà parte di un ordine e chi rappresenta la pubblica accusa farà parte di un altro ordine e quando dovrà andare a parlare con il giudice dovrà ottenere un appuntamento, bussare alla sua porta e dargli del lei".
L’intervento del Guardasigilli. Sui contenuti della riforma si è soffermato stamane anche il guardasigilli Angelino Alfano parlando a "Panorama del Giorno", su Canale 5: "Non interverremo sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma sul suo funzionamento", ha chiarito stamane il ministro.
"Il pubblico ministero - ha ricordato - ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, e questo principio è sacrosanto, il problema è quando le notizie di reato sono troppe e diventa quindi indispensabile una selezione. Ne parleremo nel nuovo anno, ma si pensa ad una legge ordinaria, per individuare dei canoni di priorità".
Quanto alla divisione delle carriere, Alfano ha ribadito che il governo pensa ad interventi di "rango costituzionale" per fissare parità tra accusa e difesa. Per "centrare l’obiettivo di rendere pari il pm che accusa con il cittadino che si difende attraverso l’avvocato - ha spiegato ancora il ministro - occorre che il giudice sia terzo, sia equidistante’’. In questi anni, ha lamentato Alfano, "la parità non c’è stata, giudice e pubblico ministero fanno parte dello stesso ordine e c’è quindi uno sbilanciamento".
Sempre per via costituzionale, il governo pensa anche a una modifica nel numero dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura e della sua sezione disciplinare, ma Alfano ha chiarito che la riforma della giustizia, oltre alla fase di intervento su alcuni dettati costituzionali, avrà anche "due fasi ordinarie", che riguarderanno le riforme del processo civile e del processo penale. "L’obiettivo - spiega Alfano - è quello di ridurre i tempi del processo civile, considerando i 5 milioni di procedimenti pendenti. Speriamo che il nuovo assetto possa aversi per l’inizio del nuovo anno".
Per quanto riguarda la riforma del processo penale questa si rende necessaria, secondo il ministro, "per avere maggiore efficienza e certezza della pena". "Spero potremo occuparcene già prima di Natale", ha concluso Alfano.
* la Repubblica, 10 dicembre 2008
Intervista
Franco Cordero «Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale. Vuole pm sottomessi»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 dicembre 2008)
Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».
Un atto fuori dalla normalità istituzionale?
«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».
Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.
«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».
Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.
«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».
Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?
«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le procure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».
È un obiettivo realizzabile?
«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».
Fino a che punto?
«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».
Quali sono i pericoli?
«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».
Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?
«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».
In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?
«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».
Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?
«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».
Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?
«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».
Nella sua casa a Bergamo
Morto Mirko Tremaglia, aveva 85 anni
È stato ministro per gli Italiani all’Estero. Eletto con il Pdl nel 2008 era poi passato a al gruppo di Futuro e Libertà *
MILANO. È morto, nella sua casa di Bergamo, all’età di 85 anni l’ex ministro Mirko Tremaglia. Lo si apprende in ambienti parlamentari. Tremaglia, nato a Bergamo il 17 novembre del 1926, è stato ministro per gli Italiani all’Estero. Eletto con il Pdl nel 2008 era poi passato a al gruppo di Futuro e Libertà.
LA LEGGE PER VOTARE ALL’ESTERO - Padre della legge per gli italiani all’estero, Tremaglia partecipò alla Repubblica sociale di Salò e fu imprigionato nel ’45 nel campo di concentramento di Coltano in provincia di Pisa. Deputato dal 1972, prima nel Msi, poi in An e nel Pdl. È passato in Fli nel luglio del 2010.
TERZI - «Sono profondamente addolorato e colpito dalla perdita di una così grande personalità del nostro mondo politico che per oltre 40 anni si era interamente dedicata alla causa degli Italiani nel mondo, alla difesa ed alla proiezione dell’italianità nel mondo, della cultura e dei valori del nostro Paese». Con queste parole il Ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha commentato la scomparsa di Mirko Tremaglia. «Come uomo di governo - prosegue Terzi - quale Ministro per gli Italiani nel Mondo, nonchè nella sua lunga attività parlamentare, Mirko Tremaglia si era affermato come insostituibile punto di riferimento delle nostre comunità all’estero in tutti i continenti, dall’Europa, alle Americhe, all’Asia, all’Africa, valorizzando gli organismi rappresentativi delle nostre collettività all’estero e contribuendo attivamente, con la promozione delle necessarie modifiche normative, all’attribuzione agli italiani all’estero del fondamentale diritto di voto».
* Corriere della sera, Redazione Online, 30 dicembre 2011 | 16:08