La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica
Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite
di Guido Crainz (la Repubblica, 02.06.2016)
Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove».
Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”.
Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove.
Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa.
E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento.
Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ».
Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 02.06.2016)
LA festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti » scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il testo della liquidazione del passato. E per questo, nei resoconti successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta, scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”, anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità», un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione” era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non davvero grande, eppure enorme.
Il patto che ne scaturì fu un patto di unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro potrebbe essere questo - e questo è il più grande rischio che corre il Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente - perché sapevano che nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio. Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio, combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione, ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci.
La Repubblica è fondata su una stella
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 02 Giugno 2014)
Oggi è la festa della Repubblica: il due giugno di 68 anni fa i nostri nonni scelsero di non avere più un re. E un anno e mezzo dopo la Costituzione disse una volta per tutte che «la sovranità appartiene al popolo»: cioè ad ognuno di noi, non importa quanto sia piccolo o povero. La nuova Italia repubblicana aveva bisogno di un emblema: quello che oggi vedete sulle vostre pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all’ingresso dei musei e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell’artista Paolo Paschetto.
E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L’emblema dello Stato, approvato dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica italiana"».
La stella è il più antico simbolo dell’Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano l’Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo ’stellone’ è stato sempre raffigurato sulle figure dell’Italia: e ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell’inizio, oltre che della fine.
La ruota dentata d’acciaio è l’ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: e ci ricorda come dovremmo essere. L’ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: e che speriamo ripudi anche le spese per i bombardieri.
Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d’arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è proprio bellissimo. Ma sbaglia chi, ciclicamente, lo vorrebbe cambiare: perché si è ormai avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro». E soprattutto perché ancora non ne abbiamo attuato il programma: quando la nostra Repubblica sarà davvero forte e pacifica, davvero fondata sul lavoro, beh, allora magari ne riparleremo.
GOVERNO
Monti, nel Pdl si arriva agli insulti
Frattini contro gli ex An: "Fascisti"
Il ministro degli Esteri vede con favore l’ipotesi di un esecutivo guidato dall’ex Commissario ue e tira una frecciata - poi ridimensionata - ai vari La Russa, Matteoli e Meloni. La replica del ministro della Difesa: "Ma chi parla? Un attivista del Manifesto?". Formigoni: "Dibattito armonico". La Lega insiste su Lamberto Dini *
ROMA -Il governatore lombardo Roberto Formigoni lo chiama "un dibattito armonico". Un eufemismo, a dire poco, se si scorre sul rullo delle agenzie il nervoso botta e risposta all’interno del Pdl sull’appoggiare o meno il governo Monti. Da una parte ministri come Sacconi, Brunetta e gli ex An - Matteoli, Meloni, La Russa - (che potrebbero contare su circa 100 parlamentari) che alzano barricate verso un governo guidato dall’ex commissario Ue. E lo fanno dando vita ad un scontro senza risparmio di colpi all’interno del partito del Cavaliere. Il quale, da parte sua, sembra in seria difficoltà a far quadrare il cerchio. 1 Sulla barricata dei "montiani". invece ci sono il segretario del Pdl Alfano, ministri come Frattini e uomini di peso come Quagliariello e Cicchitto.
Che i toni siano alti lo si capisce da uno sfogo di Frattini - poi ridimensionato - raccolto da un cronista della Dire: "E’ bastato che crollasse tutto che questi fascisti sono tornati fuori: già ci hanno fatto rompere con fini, e adesso provano di nuovo a mandare tutto all’aria...". Per il titolare degli Esteri ogni ipotesi di appoggio esterno a Monti (ipotesi ventilata da alcuni settori del Pdl) non ha senso: "L’impegno a sostenere il futuro governo deve essere pieno". La Russa, uno dei destinatari della frecciata di Frattini, si fa perfido: "Frate chi? Frate chi? Non lo conosco, chi è un militante del Manifesto?". Contro Frattini si schiera anche Giorgio Holzmann, deputato ex Msi poi transitato in An, che perfidamente ricorda come Frattini sia "lo stesso ministro degli esteri che qualche mese fa si è recato alle camere per rendere pubblico un fascicolo riguardante il famoso immobile di Montecarlo e la nebulosa vicenda di società off-shore, cui lo stesso sarebbe stato venduto". Tocca al titolare della Farnesina abbassare i toni: "Mi spiace che mi siano state attribuite frasi certamente travisate, non corrispondenti al mio pensiero e al mio usuale modo di esprimere pubblicamente la mia opinione".
Per il governo tecnico si schiera Quagliariello chiedendo, però, che "lasci intatte le differenze politiche che esistono nell’emiciclo. Non sacrificheremo le differenze con la sinistra su temi come giustizia, legge elettorale, principi non negoziabili". E se Altero Matteoli dice di non escludere "spaccature" nel Pdl, il governatore lombardo Formigoni crede che Monti "riuscirà a formare un governo che ha un unico obiettivo, salvare l’Italia dalla rovina economica e dall’attacco fortissimo della speculazione internazionale".
E proprio sul che farà Monti e che squadra di governo formerà, si appuntano le perplessità del capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: "La situazione va chiarita. Il Pdl sta discutendo ma non ha fatto ancora nessuna scelta. Certo, alla fine del confronto ci sarà una voce sola", ma non può avvenire tutto come fosse "una corsa contro il tempo". E il nodo rimarrà "finchè non Verrà chiarito quali saranno il suo programma e la sua struttura". Struttura, ovvero ministri. Ed è forse questo il tasto dolente che agita e preoccupa, le varie anime del partito del Cavaliere.
Il tutto mentre Berlusconi chiede "uno scatto d’orgoglio", rivendicando un ruolo decisivo per il Pdl. "Serve un confronto, un tavolo sia sui nomi che devono entrare al governo, sia sul programma" ragiona il Cavaliere. In pratica una sorta di ’golden share’ del nuovo esecutivo". IN caso contrario meglio il voto. Come chiede la Lega a gran voce: ""Noi siamo assolutamente contrari a governi che non siano quelli usciti dalle urne e saremo all’opposizione" afferma il ministro Roberto Calderoli. Per la verità la Lega pensa ad un governo guidato da Lamberto Dini (rilanciato ieri sera dallo stesso premier). E proprio in questa direzione gli uomini del Carroccio starebbero pressando il Cavaliere. Stando alle cifre che i leghista ostentano al Senato Monti non avrebbe i numeri. Ed è a questo punto che scatterebbe l’opzione Dini che già nel ’95 prese il posto di berlusconi, sfiduciato in quel caso proprio da Bossi.
* la Repubblica, 11 novembre 2011
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
La complicità del silenzio
di Adriano Prosperi(la Repubblica, 25.08.2009)
Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni. E’ ricoverata all’ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti, l’incriminazione per il reato di immigrazione clandestina.
I procuratori competenti per territorio non hanno alternative: non possono ignorare l’art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli italiani che vanno per mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l’omertà, la volontà di chiudere gli occhi, la capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di deportati del Terzo Reich e di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani. Dietro la paura c’è il potere. Noi tutti dimentichiamo volentieri quanto l’opera del potere sia efficace nel modellare la pasta morale dell’umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte, cancella le reazioni umanitarie.
Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo, sperare nell’intervento di autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese. Ma per ora, aspettando il processo e l’espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la cercano, lei risponde in uno stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui».
A questa domanda si deve dare una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti. Perché al disopra della legge scritta c’è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema ingiustizia. Chi ha attraversato l’inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli infiniti natanti che lo affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini abortiti poi le loro madri poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se accettassimo in silenzio questo esito saremmo complici di un infame gioco dell’oca. Titi e i quattro sopravvissuti con lei hanno conquistato un diritto.
Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani scopriamo all’improvviso nella sua frase la risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e sul come celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Lo ha capito subito con una dichiarazione che gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far sentire «l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani». Patria è la parola giusta.
Oggi se ne parla guardando solo al passato. Ritengono alcuni che si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che avremmo ereditato perché qui siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di sostituire all’Italia la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di cui vorrebbe chiudere le porte agli altri. Ebbene, in questione non è l’indiscutibile appartenenza di fatto e di diritto della popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre istituzioni di esplorare e commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali dell’esistenza del paese. Tutto questo è doveroso, ma non sufficiente.
Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo conquistarlo perché possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell’eredità ricevuta è moltiplicata dagli abissi di ignoranza di un paese in preda all’analfabetismo di ritorno. Oggi il problema è ancora quello antico: la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni, diceva Ernest Renan. A questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e l’orrore in nome di una speranza e di un desiderio che ha nome Italia.
Quanto a noi italiani, con lei e con tutto il suo popolo abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di un popolo che fu unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre coloniali. Accanto agli eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro, spediti in guerra da una patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore dell’indimenticabile Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia" fascista che li mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con la riconquistata libertà del paese.
La storia della patria italiana è quella dei processi di integrazione che hanno portato le masse a diventare coscienti del loro essere l’Italia. Processi lunghi, difficili, spesso bloccati e rovesciati da scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata l’Italia bisognava creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare hanno attraversato e ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile compito di seminare tra le classi popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.
E si può ben capire che non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l’esercito nel Mezzogiorno a piegare i cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli scioperanti. Come disse Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all’accusa di Crispi ai socialisti di essere "senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla massa dei diseredati, ai braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si affollavano sulle banchine di Genova. L’integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte durissime, passò attraverso lacerazioni profonde, costò l’immane bagno di sangue della prima guerra mondiale.
Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell’agro napoletano e loro eredi non sono costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi di studiare, viaggiare, sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli che sono per ora degli schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come lui dalla ribellione allo sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi italiani.
Davanti a noi c’è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di espulsione, oppure tentare la scommessa dell’integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato, con quei contadini e operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e cancellazione delle patrie borghesi, l’integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha portato un’Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900. È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e più coraggiosa integrazione.
L’impudente imprenditore che gestisce il governo come fosse un suo feudo personale, è alleato di un partitino razzista e inseguito dagli scandali sessuali
L’incontro tra Obama e la sua antitesi l’Imperatore italiano
Come sarebbe stato bello essere una mosca il 15 giugno quando Barack Obama ha incontrato Silvio Berlusconi!
di Federika Randall, The Nation *
Berlusconi, l’impudente imprenditore miliardario che gestisce il governo italiano come fosse un suo feudo personale. Proprietario di diverse emittenti tv, riviste e quotidiani. Creatore di ministre giovani ed attraenti ma con poche credenziali professionali. È l’uomo che si è cucito addosso la totale immunità giudiziaria, tanto che quando il suo avvocato inglese, David Mills, cui si deve la creazione della catena di conti correnti offshore, è stato recentemente condannato per aver intascato da Berlusconi una grossa mazzetta per testimoniare il falso sui suddetti conti correnti, Berlusconi non è stato nemmeno sfiorato dalla giustizia.
«L’Imperatore», come l’ha definito il 3 maggio sua moglie, Veronica Lario, annunciando la sua intenzione di chiedere il divorzio. L’uomo che ama intrattenere gli ospiti (come l’ex premier ceco Mirek Topolanek) nella sua villa privata in Sardegna con dozzine di giovani donne appetitose, alcune minorenni, per piacevoli pomeriggi di musica e topless accanto alla piscina.
Il burlone che ha commissionato l’oscenamente servile inno «Meno male che Silvio c’è» e che, tra una applicazione e l’altra di fondo tinta e botox, e tra un lifting e un trapianto di capelli assomiglia sempre più al leader nordcoreano Kim Jong Il, anche sotto il profilo della lacca per capelli e del bavaglio alla stampa. Il dispensatore di «panem et circenses» che tre giorni prima delle elezioni è apparso in tv, ha guardato fisso nella camera e ha negato di aver già venduto la star della sua squadra di calcio, il Milan (e invece Kakà era stato venduto). Il gentiluomo che non ha protestato quando il tabloid di destra Libero ha pubblicato in prima pagina le foto della moglie Veronica a seno nudo durante uno spettacolo teatrale di molti anni fa e non ha protestato nemmeno quando Il Giornale ha pubblicato le foto del suo presunto amante.
In breve, il politico il cui Pdl ha preso più voti di tutti (35%) in occasione delle elezioni per il Parlamento Europeo del 6-7 giugno. Un solo motivo di conforto per la maggioranza che non lo ha votato: Berlusconi si aspettava un successo ben più clamoroso. Fino a due giorni dalle elezioni era ancora convinto che il Pdl avrebbe preso almeno il 45% consentendogli di superare il 50% dei suffragi insieme al suo alleato: il partito xenofobo e anti-immigrati della Lega Nord. Della cui visione angusta e piena d’odio Berlusconi ora è più che mai ostaggio.
I partiti xenofobi non hanno trionfato solo in Italia. In Olanda, Austria, Ungheria e Finlandia, partiti nazionalisti di estrema destra hanno ottenuto percentuali tra il 10 e il 18% e persino in Gran Bretagna l’estrema destra ha ottenuto due seggi. In tutta Europa i partiti socialdemocratici hanno ottenuto risultati deludenti mentre sono andati bene i conservatori. Ma l’Italia è un caso a parte a causa dell’immenso potere mediatico di Berlusconi, dei molti rinvii a giudizio collezionati e del suo sfacciato conflitto di interessi. E non di meno gli italiani votano per Berlusconi per alcune delle ragioni per le quali altri europei votano per la destra radicale.
Anzitutto Berlusconi è un faro per quel quasi 25% dei lavoratori italiani titolari di esercizi commerciali e di piccole imprese di servizi - un po’ come «Joe l’idraulico». Questo settore, a lungo sotto la tutela della Dc, al momento non ha gli strumenti per affrontare la concorrenza di mercato del ventunesimo secolo ed è colpito duramente dal declino economico. Molti di loro, comprese le piccole aziende manifatturiere che fanno profitti in periodi di vacche grasse, sono cronici evasori fiscali, realtà che Berlusconi, come ha fatto capire da tempo, tollera e non contrasta.
In secondo luogo, Berlusconi e i suoi alleati hanno investito pesantemente nella politica della paura e dell’odio. Facendo la sua comparsa a Milano il giorno prima delle elezioni, nell’ultimo disperato tentativo di strappare qualche voto alla Lega Nord, Berlusconi ha dichiarato che aveva visto così tante facce nere da fargli sembrare Milano una «città africana». Il governo non ha una politica economica in grado di affrontare la disoccupazione e l’impoverimento causato dal processo di globalizzazione. Attaccare gli immigranti è la sola vera strategia di Berlusconi.
Ma Berlusconi potrebbe essere la rovina di se stesso. E la «questione femminile» - le legioni di seducenti giovani veline che ama portare ai vertici della politica, i suoi legami non chiariti con Noemi Letizia, adolescente napoletana che aspirava a diventare velina, le accuse di sua moglie secondo cui sarebbe «malato» e «frequenta minorenni» - potrebbe essere la sua Waterloo.
Ad un incontro di Confindustria, Berlusconi ha tentato di adulare la presidente degli industriali, la 44enne Emma Marcegaglia, dicendole che sembrava «proprio una velina», uno sciagurato passo falso. Sì, gli imprenditori hanno allevato Berlusconi sperando di ottenere favori dal suo governo. Ma non pensano - e non lo pensa Emma Marcegaglia - che si troverebbero meglio nell’harem dell’imperatore.
© 2009, The Nation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
* l’Unità, 17.06.2009.
La Stampa, 13/6/2009 (13:47)
L’AFFONDO DEL PREMIER
"Contro di me un progetto eversivo"
Berlusconi dai giovani industriali: basta pubblicità ai media disfattisti. Poi frena: "Parlavo di Franceschini". La replica: "Non mi lascio intimidire"
SANTA MARGHERITA LIGURE (GENOVA) La campagna politica contro Silvio Berlusconi che ha fatto leva sulle vicende Noemi e Mills, che ha trovato una sponda anche nei media catastrofisti, è stata «scandalosa» e ha leso l’immagine dell’Italia, non semplicemente del premier, all’estero. È stata soprattutto orchestrata con «calunnie» da parte di chi aveva in mente un «progetto eversivo» per costringerlo alle dimissioni.
Davanti alla platea dei giovani imprenditori di Confindustria, il presidente del consiglio chiama in causa i poteri occulti dello Stato, che avrebbero tramato contro di lui per indurlo a gettare la spugna. «Su quattro calunnie messe in fila, veline, minorenni, Mills e voli di stato è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l’immagine dell’Italia all’estero - ha accusato Berlusconi - un comportamento colpevole da parte di chi l’ha pensata e anche, dietro queste calunnie, un progetto eversivo teso a voler far decadere un presidente del consiglio eletto democraticamente dagli italiani per metterne un altro. Se questa non è eversione ditemi cosa è».
Secondo il premier, le urne hanno confermato una «maggioranza chiara». Soprattutto nei Comuni e nelle Province «abbiamo avuto risultati straordinari - ha sottolineato - possiamo continuare a governare per i prossimi quattro anni». Il Cavaliere ha poi invitato a diffidare della stampa italiana. «Ormai faccio dichiarazioni, salvo pubbliche, solo scritte - ha affermato - e mi trovo sui giornali fra virgolette frasi che non solo non ho mai detto, ma nemmeno pensato. La stampa italiana dipinge un’Italia che non è quella vera». Accuse alle quali non manca l’immediata replica da parte dell’opposizione. Il segretario del Pd, Dario Franceschini, ariva addirittura a convocare una conferenza stampa ad hoc per farlo e per scandire che quelle di Berlusconi sono «intimidazioni» belle e buone. Ma, assicura, «non mi ha mai fatto nè mai mi farà paura: può avere tutto il potere, i soldi e l’arroganza che vuole ma non ci sono minacce o intimidazioni che mi fermeranno».
Il segretario del Pd suggerisce poi al premier un pò più di sobrietà spiegando che «in democrazia chi governa deve accettare le critiche e non parlare di eversione». Sulla stessa lunghezza d’onda anche i due capigruppo del Pd, Anna Finocchiaro e Antonello Soro. Per la prima «il premier si è esibito ancora in uno dei suoi tanti sproloqui» muovendo contro l’opposizione «un’accusa ridicola» per «nascondere una volontà intimidatoria tesa a delegittimarla» perchè non intralci «il suo delirio di onnipotenza». Il presidente dei deputati Pd, infine, sottolinea come questa volta «Berlusconi abbia passato il limite oltre il quale nessuno potrà più rimanere spettatore». Perchè nelle sue parole, spiega, «non c’è solo offesa e irrisione per quanti in questo paese, assuefatto e indifferente, non piegano la schiena a chi cerca di ostacolare la sua pretesa di dominio assoluto» ma c’è anche e soprattutto «il ricordo sinistro di un altro capo di Governo che chiedeva ai suoi avversari di tacere».
L’abuso di Stato
di Francesco Merlo (la Repubblica, o3.o6.2009)
Questa volta è solo cafonaggine perché non ci può essere una giustificazione politica. Se è stata una concessione a Bossi, è stato comunque un gratuito sberleffo all’Italia istituzionale, fuori dai partiti e dalla politica, l’Italia vera. Si può infatti irridere all’avversario politico o magari anche all’alleato, ma Berlusconi durante la parata ha fatto le boccacce alla Repubblica che è la forma del paese, forma nel senso di Gestalt, dell’anima: la forma-sostanza di tutto. Davvero non c’entrano il torcicollo e la stanchezza.
Guardate le foto (nessuno stavolta le sequestrerà), guardate la mimica facciale, guardatelo mentre parodizza il saluto militare, con le labbra a pernacchia, il finto sorriso di dileggio. Sembra davvero il clown descritto dal Times.
La sola spiegazione, prima di addentrarci nella psicanalisi o nella geriatria, è che davvero abbia voluto strizzare l’occhio a Bossi che era assente perché lui, che è ministro delle Riforme, non vuole la res pubblica ma la res privata: ognuno con il suo territorio e uno sberleffo al due giugno che significa il referendum e i morti ammazzati, la guerra ma anche la rinascita di un paese che si riscatta da un passato bellicista. Il due giugno sono anche le forze armate che si posizionano nel cuore degli italiani dopo viltà e disfatte. Questa volta dunque non c’è più nulla di simpatico, la canzonatura è odiosa persino più dell’abuso che Berlusconi fa degli aerei di Stato. E bisogna dirglielo chiaramente, all’uomo che vuole piacere a tutti i costi: anche abusare degli aerei di Stato è odioso. Legalizzare un abuso infatti non cancella l’abuso ma anzi lo raddoppia.
E non perché Berlusconi ci fa viaggiare i suoi artisti e le sue star, la delicata voce bianca di Napoli e le bambole di Ibsen che nella politica estera italiana sono, con le battutine, con le pacche sulle spalle, con le barzellette e da ieri anche con le smorfie di scherno, ormai più importanti degli ambasciatori, delle strategie di investimento economico, del governo dei mercati, della flotta area e marittima, del controllo delle acque e dei cieli. Insomma, abbiamo ormai tutti capito che, nella modernissima rivoluzione berlusconiana, Mariano Apicella è il Bismarck del Kaiser.
Ma vogliamo dire che, nonostante questo prestigioso kaiseraggiamento, che ovviamente merita il dovuto rispetto istituzionale, malgrado insomma il suo alto e certificato rango, neppure Sua Eccellenza Apicella dovrebbe abusare dell’aereo di Stato. Sì, sappiamo tutto dell’ormai famosa "Direttiva del 25 luglio 2008 regolarmente registrata alla Corte dei conti" che autorizza a salire sugli aerei militari "personale estraneo alla delegazione" ma accreditato su indicazione e firma di Gianni Letta. Ma il punto è che un abuso che viene legalizzato non solo diventa un privilegio, intollerabile come tutti i privilegi, ma è ripugnante proprio perché il delitto è stato trasformato in diritto.
E sarebbe stato così anche se per, assurdo, Riccardo Muti, che non gode dell’alta onorificenza di Velina, nel luglio del 2007, anziché viaggiare su un volo di linea, fosse stato anche lui imballato, come una cassetta di spigole del generale Speciale, su un aereo di Stato e depositato al Quirinale per dirigere il requiem di Verdi per la pace, trasmesso in diretta nel martoriato Libano dove erano e sono impegnati i nostri soldati. Eppure di sicuro quel concerto poteva essere classificato tra le relazioni di politica internazionale.
Poiché ormai anche noi abbiamo imparato a conoscerlo, sappiamo che Berlusconi ci farebbe a questo punto notare che quella sua sensuale ballerina di flamenco, fotografata mentre scendeva dall’aereo presidenziale, pur non avendo certo i titoli di Muti, ha comunque almeno una laurea, come del resto le belle candidate Lara Comi, Barbara Matera e Licia Ronzulli. Insomma, che c’è di male nell’affidare la politica (estera) agli artisti qualificati? Al Quirinale la bacchetta di Muti, e a Villa Certosa il topolanek.
Certo, a Muti nessun agente dei servizi segreti in tuta mimetica fece provare il piacere della minicar, come accade alle ragazze di Villa Certosa. Sul Corriere di ieri Fiorenza Sarzanini ci ha raccontato che gli agenti in servizio durante queste feste politiche hanno anche le armi. Kalashnikov? Chissà che brividi! Tanto più che la legge che ha introdotto il nuovo galateo istituzionale, bene illustrato dalle foto sotto sequestro, non obbliga le ragazze a portare gli slip.
Berlusconi può davvero spacciare per politica estera queste sue fughe nella prepotenza di Stato e per rispetto istituzionale l’irresponsabilità di irridere al due giugno. E può darsi che sia vero che Berlusconi esprime l’anima di un Paese che non riesce a prendere sul serio neppure la sua tragica storia, e che le feste di Villa Certosa siano la versione berlusconiana degli antichi protocolli d’intesa e dei balli a corte.
Ma non esistono leggi che possono cambiare la natura delle cose. Se per esempio a Berlusconi - nell’ambito di questa sua ruffiana politica estera - venisse in mente di invitare a Villa Certosa l’intero circo Togni, nessuna nuova disciplina d’urgenza firmata da Gianni Letta, renderebbe elastico l’acciaio permettendo ai servizi segreti e all’aeronautica militare di trasportare e ospitare a bordo gli elefanti e le giraffe.
Ecco: l’acciaio rimane acciaio e l’abuso rimane abuso. Anzi, legalizzare l’abuso non solo non lo cancella ma, come dicevamo, lo raddoppia e lo rende odioso. E ci pare un codice, questo della prepotenza odiosamente visibile, che dovrebbe almeno impensierire un uomo come Berlusconi che punta tutto sull’amabilità. è un po’ come se a Roma il sindaco consentisse il posteggio in doppia fila, ma solo alla sua auto e a quella dei suoi amici: una pernacchia istituzionale. Come quella che il nostro presidente del Consiglio ha fatto ieri alla cerimonia nella quale la Repubblica ferma il tempo. Tutte le istituzioni, al fianco del capo dello Stato, sono i custodi e i sacerdoti della sola forma che le legittima: il due giugno è la festa del presidente del Consiglio. Com’è possibile che Berlusconi abbia canzonato se stesso? Berlusconi fa una pernacchia agli italiani ogni volta che legalmente abusa dell’aereo di Stato. Ieri l’ha fatta anche a se stesso.
«Basta al modello mercificato dell’identità femminile»
Ecco l’integrale dell’appello dal titolo «2 giugno 2009 - Per una Repubblica che rispetti le donne». In fondo l’elenco delle firmatarie.
Noi donne siamo una risorsa importante del Paese, dall’ambito familiare e sociale a quello professionale e istituzionale.
Siamo in prima linea nell’impegno quotidiano di cura e di lavoro che svolgiamo con dedizione, competenza e serietà. Eppure oggi le donne assurgono agli onori delle prime pagine dei media se sono compiacenti verso i “potenti” e asservite ad un modello mercificato e lesivo dell’identità femminile.
Se il presupposto è questo, per le donne italiane si prefigura un futuro difficile. Non solo per la crisi economica di cui pagano, più degli uomini, lo scotto nel mercato del lavoro, ma soprattutto per la strisciante corruzione che aleggia, che gioca sull’apparenza come primo requisito dell’affermarsi, falsifica la valorizzazione dei talenti e tradisce le persone.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee e guardiamo all’Europa come allo spazio dove si può agire per cambiare questa mortificante situazione. Per portare avanti uno sviluppo personale e sociale basato sulle pari opportunità e sul merito.
Ma come arrivare a questo obiettivo se i contenuti, le candidate e i candidati per il Parlamento Europeo sono oscurati nei media, da un lato dai “finti candidati” che non andranno a Bruxelles e dall’altro dalla insopportabile telenovela che purtroppo riguarda la quarta carica dello Stato.
Se a questo si aggiunge il malizioso bizantinismo con cui sono applicate le regole per i passaggi televisivi, non stupisce la perdurante disinformazione dei cittadini sulle elezioni europee.
Non esiste il confronto tra opinioni diverse, non è permesso un incontro aperto: ma, ci domandiamo, l’Europa non è il nostro futuro? E le donne non hanno, come sempre, la responsabilità educativa nei confronti dei cittadini d’Europa?
In una fase critica dell’Italia, che vede le donne reali alle prese con l’impoverimento delle famiglie, con la precarietà o la perdita del lavoro, con la riduzione delle risorse pubbliche nell’istruzione, nella formazione e nel welfare, si parla d’altro, si censurano i loro progetti e le loro aspettative.
Diamo voce alle donne concrete, serie, costruttive, parliamo dei talenti delle donne impegnate in battaglie responsabili per il futuro dell’Europa, che interessa soprattutto i giovani e le famiglie.
Il 2 giugno 1946 le donne italiane hanno esercitato per la prima volta il diritto di voto, contribuendo alla nascita della Repubblica Italiana. Un diritto che oggi sembra scontato eppure è stato una conquista difficile. Oggi, 63 anni dopo, i principi costituzionali di uguaglianza, diritto al lavoro, dignità della persona appaiono ancora ampiamente inattuati e i toni della campagna elettorale in corso ne sono un’ennesima dimostrazione.
Noi donne insignite di onorificenze al merito della Repubblica; noi donne impegnate nelle Istituzioni, nelle professioni e nel sociale; noi donne candidate al Parlamento Europeo; vogliamo che il 2 Giugno, Festa della Repubblica, sia un’occasione per riaffermare il ruolo che la donna ha avuto nella costruzione della Repubblica Italiana.
Chiediamo agli uomini delle Istituzioni e della politica di condividere le ragioni e il senso profondo di questo Appello e di impegnarsi con noi per non tradire la fiducia e le aspettative delle nuove generazioni.
Silvia Costa Grande Ufficiale della Repubblica
Maria Luisa Spaziani Cavaliere di Gran Croce della Repubblica
Elena Doni Grande Ufficiale della Repubblica
Maria Bianca Bosco Tedeschini Lalli Grande Ufficiale della Repubblica
Suor Eugenia Bonetti Commendatore della Repubblica
Linda Laura Sabbadini Commendatore della Repubblica
Anna Maria Fecchio Comito Commendatore della Repubblica
Paola Spada Commendatore della Repubblica
Rosa Valentino Commendatore della Repubblica
Gigliola Zecchi Commendatore della Repubblica
Maria Josè Mendes Evora Cavaliere della Repubblica
Maria Marta Farfan Cavaliere della Repubblica
Clarice Felli Cavaliere della Repubblica
Patricia Adkins Chiti Ufficiale della Repubblica
Susanna Diku Mbiye Ufficiale della Repubblica
* l’Unità, 02.06.2009 - ripresa parziale, cliccare sul rosso per proseguire nella lettura delle adesioni).
Discorso televisivo del capo dello Stato in occasione della Festa della Repubblica
"Il Paese è unito nonostante le contrapposizioni politiche"
Riforme, Napolitano: "Più coesione Rispettare i ruoli istituzionali"
"Dare il via al più presto alla ricostruzione in Abruzzo" *
ROMA - "Basta guardare alla realtà senza paraocchi per vedere che c’è bisogno, come ho detto e non mi stanco di ripetere, di più coesione nel paese dinanzi alla crisi ed alle tensioni che scuotono il mondo". Giorgio Napolitano, nel discorso televisivo in occasione della Festa della Repubblica, torna ad auspicare un clima di dialogo che porti a quelle riforme di cui il Paese ha bisogno. Sottolineando, nello stesso tempo, come l’Italia sia "unita", nonostante "le contrapposizoni politiche". Coesione, dunque. Anche in vista del G8 e "per prendere finalmente la strada delle riforme necessarie al Paese ed al suo sviluppo".
Una coesione che passa "per il rispetto dei ruoli istituzionali" e che deve essere accompagnata da un impegno "straordinario" davanti a crisi e tensioni. Un clima di impegno e collaborazione continua il capo dello Stato, "anche in vista dell’importante, grande incontro internazionale che si terrà il mese prossimo a l’aquila e che costituirà per l’italia un impegno e un’occasione di straordinario rilievo".
E ai cittadini colpiti dal sisma, Napolitano manda messaggio che è di speranza e di stimolo: "L’augurio è che possano veder presto avviata l’opera di ricostruzione, rinata la città de L’Aquila, gettate le basi di un futuro migliore".
Napolitano, infine, sottolinea alcuni segnali della "ritrovata unità". Cita il 25 aprile, "l’omagggio alle vittime del terrorismo di ogni colore". Ed ancora la gratitudine per "gli eroici magistrati e appartenenti alle forze di polizia caduti nella lotta contro la mafia". Tutti segni di unità "tanto più importanti quanto più sono aspre le contrapposizioni politiche e istituzionali, soprattutto in periodo elettorale".
* la Repubblica, 1 giugno 2009
Italia, cronaca di un paese senza
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 1.06.2009)
Ricordate il titolo di un libro bello e premonitore di Alberto Arbasino, Un Paese senza? "Senza memoria, senza storia, senza passato, senza esperienza, senza grandezza, senza dignità", e via continuando. In questi anni il catalogo si è allungato in maniera inquietante, persino drammatica, e il Presidente del Consiglio, con una accelerazione impressionante negli ultimi mesi, ce la mette tutta nel dire quel che dobbiamo aspettarci.
Ecco, allora, un Paese senza Parlamento e senza magistratura (perché queste istituzioni saranno gusci vuoti se si realizzeranno i progetti tante volte annunciati). Un Paese senza eguaglianza e senza diritti fondamentali (perché questa è la deriva indicata dagli ultimi provvedimenti in materia di sicurezza). Un Paese senza rispetto per se stesso (perché è sbalorditivo che tutti i giornalisti rimangano disciplinatamente seduti quando, in una conferenza stampa, il Presidente del Consiglio intima a una loro collega "o via lei o via io"). Un Paese senza opinione pubblica, senza lavoro...
Ma vi è un "senza" che campeggia su tutti gli altri. Nell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, uno dei testi fondativi della moderna democrazia, si legge: "Una società, nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti e non è determinata la separazione dei poteri, non ha Costituzione". Quando il Presidente del Consiglio attacca frontalmente Parlamento e magistratura, quando cancella o rende labili i confini tra i diversi poteri dello Stato, quando pone la fiducia su provvedimenti lesivi di diritti fondamentali delle persone, il risultato è proprio quello deprecato dalla Dichiarazione del 1789. Un Paese senza Costituzione.
Con una mossa per lui abituale, Berlusconi ha accusato opposizione e stampa di aver falsificato le sue opinioni sulla riforma delle Camere. Ma quelle tre definizioni del Parlamento - pletorico, inutile, controproducente - gli sono sfuggite, vanno lette insieme e sono rivelatrici. Pletoriche le Camere lo sono certamente, ed è colpa non piccola della sinistra l’aver trascurato in passato i suggerimenti provenienti dal suo interno sulla riduzione del numero dei parlamentari, lasciando così incancrenirsi un problema che sarebbe poi finito nelle polemiche sulla "casta" e avrebbe alimentato l’antipolitica. Ma vi sono due modi per pensare e attuare questa riduzione. Avere meno parlamentari può rispondere all’obiettivo di avere un lavoro più serrato, di poter rendere più incisivi i controlli, attribuendo ai parlamentari poteri e risorse adeguati. Un Parlamento non indebolito dalla diminuzione dei suoi componenti, ma sostanzialmente rafforzato nelle sue prerogative.
Quando, però, la riduzione è invocata da chi ha detto di volere in Parlamento una pattuglia di competenti e una folla di docili gregari, che ha proposto di far votare solo i capigruppo, che pretende di avere le mani libere nella decretazione d’urgenza, emerge clamorosamente proprio l’immagine di una istituzione ritenuta inutile, che intralcia e ritarda, dunque controproducente. Quando Berlusconi richiama il numero di 100 parlamentari, riferendosi al Senato degli Stati Uniti (dimenticando, però, i 432 membri della Camera dei rappresentanti), parla di un modello dove il potere di quei cento è grandissimo, può bloccare anche iniziative essenziali del Presidente, si concreta in fortissime possibilità di controllo, è basato su risorse umane e finanziarie cospicue. Questo modello fa a pugni con la richiesta berlusconiana di maggiori poteri al Presidente del Consiglio, che eccede le esigenze di un’azione di governo più spedita, si concreta in una espropriazione di competenze del Parlamento e dello stesso Presidente della Repubblica, alterando così la forma di governo repubblicana.
Non a caso la riforma invocata da Berlusconi dovrebbe passare attraverso una ulteriore e radicale mortificazione del Parlamento. Non disegni di legge del governo, non iniziative di senatori e deputati dovrebbero contenere le ipotesi di riforma. Queste sarebbero affidate ad una proposta di legge di iniziativa popolare sulla quale raccogliere milioni di firme. Come sarebbe condotta la campagna per la raccolta delle firme? Dicendo che un Parlamento inetto e recalcitrante, incapace di riformarsi, deve essere obbligato a farlo dalla forza del popolo. Quali sarebbero gli effetti di questa scelta? La definitiva legittimazione del rapporto esclusivo tra Capo e Popolo. Berlusconi lo aveva già annunciato qualche tempo fa. Di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di firmare il decreto riguardante Eluana Englaro, aveva reagito dicendo di avere il diritto di seguire la via della decretazione d’urgenza senza alcun controllo, aggiungendo proprio che avrebbe fatto modificare la Costituzione da parte dei cittadini. Un Paese senza democrazia, allora, perché questa assumerebbe le forme della democrazia plebiscitaria.
Proprio questa linea è stata ribadita dal Presidente del Consiglio quando, rivolgendosi non a caso all’assemblea degli industriali, ha detto che il suo governo funziona come un consiglio d’amministrazione. In questa affermazione, peraltro non nuova, non si manifesta soltanto una idea autocratica e aziendalistica della politica. Si ritrova una visione della società che si esprimeva senza mezzi termini nella vecchia formula "la democrazia si arresta alle porte dell’impresa". Considerato appunto come un’impresa con il suo consiglio d’amministrazione, il governo vede come inammissibile intralcio ogni forma di controllo. Da questa visione generale, e non da singoli episodi, nasce l’assalto al Parlamento, alla magistratura, al sistema dell’informazione, sul quale si esercita un potere di normalizzazione (vedi le nomine Rai) e al quale si rifiuta ogni risposta.
Che cosa dire di questa continua pulsione verso un Paese senza democrazia, alla quale il Capo sostituisce i suoi riti, i suoi fedelissimi, i suoi bagni di folla? Non credo che gli anticorpi democratici siano del tutto scomparsi, e per ciò ritengo indispensabile che i politici d’opposizione guardino con rispetto e attenzione non strumentale a tutti quei cittadini che non si rassegnano a esser parte di un Paese senza. Questo, nell’immediato, significa che si possono certo presentare proposte di riforma istituzionale, ma essendo ben consapevoli del quadro politico del quale fanno parte. La riduzione del numero dei parlamentari, ha senso se non si presenta come una imbarazzata risposta all’appello berlusconiano, ma come l’occasione per ridare al Parlamento il ruolo che ha perduto, senza cadere in trappole come la concessione di ingannevoli statuti dell’opposizione. Altrimenti, il cerchio si chiuderebbe davvero, con una opposizione destituita della sua permanente funzione democratica, legittimata solo a pensare a una possibile rivincita alle prossime elezioni, alla quale viene elargita solo qualche minima possibilità di emendamento.
La stampa europea segue con attenzione i nuovi sviluppi della vicenda Noemi
Durissimo editoriale del quotidiano di Murdoch su Berlusconi: "Disprezza gli italiani"
Il Times: "Cade la maschera del clown"
Libération: "Lo scandalo è alle calcagna"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Uno scandalo che non riguarda più solo gli italiani, ma anche i paesi partner dell’Italia, nell’Unione Europea, nella Nato, nel G8 che l’Italia si prepara ad ospitare. E’ questo il severo giudizio di un editoriale del Times di Londra sulla vicenda che ruota da settimane attorno a Silvio Berlusconi, al suo rapporto con la 18enne Noemi Letizia, alle feste in Sardegna e al divorzio con la moglie Veronica Lario. E non è solo il Times a occuparsi ancora una volta di questa storia, che la stampa inglese sta seguendo con particolare attenzione: ci sono nuovi articoli anche sul Financial Times, sul Daily Telegraph, sull’Independent.
"Cala la maschera del clown", s’intitola l’editoriale del Times, il secondo su questa vicenda dopo quello altrettanto duro del 18 maggio, pubblicato al primo posto fra i tre commenti del giorno nella pagina degli editoriali. "La qualità del governo Berlusconi non è una questione privata", afferma il sottotitolo. "L’aspetto più sgradevole del comportamento di Silvio Berlusconi non è che è un pagliaccio sciovinista, né che corre dietro a donne di 50 anni più giovani di lui, abusando della sua posizione per offrire loro posti di lavoro come modelle, assistenti o perfino, assurdamente, come candidate al parlamento europeo", comincia l’articolo. "Ciò che è più scioccante è il completo disprezzo con cui egli tratta l’opinione pubblica italiana. Il senile dongiovanni può trovare divertente agire da playboy, vantarsi delle sue conquiste, umiliare la moglie e fare commenti che molte donne troverebbero grottescamente inappropriati. Ma quando vengono poste domande legittime su relazioni scandalose e i giornali lo sfidano a spiegare legami che come minimo suscitano dubbi, la maschera del clown cala. Egli minaccia quei giornali, invoca la legge per difendere la propria ’privacy’, pronuncia dichiarazioni evasive e contraddittorie, e poi melodrammaticamente promette di dimettersi se si scoprisse che mente".
Il Times riconosce che la vita privata di Berlusconi è appunto un affare privato, ma osserva che, come è si è dovuto rendere conto Bill Clinton, scandali e alti incarichi pubblici non vanno d’accordo. "Molti potrebbero dire che l’Italia non è l’America, che l’etica puritana degli Stati Uniti non ha mai dominato la vita pubblica italiana, e che pochi italiani si scandalizzano davanti ai donnaioli. Ma questo è un ragionamento insensato e condiscendente. Gli italiani comprendono quanto gli americani cosa è accettabile e cosa non lo è. E, come gli americani, giudicano spregevole il cover-up".
L’editoriale del quotidiano londinese nota quindi che pochi media in Italia possono fare simili affermazioni, senza timore di un castigo. "A suo merito, la Repubblica ha continuamente sollevato domande al primo ministro sulla sua relazione con Noemi Letizia, e alla maggior parte di queste domande non ci sono state risposte soddisfacenti. Quando e dove egli ha conosciuto la famiglia della ragazza? Mr. Berlusconi chiese di avere fotografie da un’agenzia di modelle per iniziare i contatti con la signorina Letizia? Che cosa c’è di vero sulle notizie di party con decine di giovani donne nella sua villa in Sardegna? Mr. Berlusconi ha promesso di spiegare tutto in parlamento. Ma non ha certo riassicurato i suoi critici con la sua iniziativa per bloccare la pubblicazione di 700 fotografie che potrebbero mostrare cosa succedeva a quei party. Né lo aiuta il suo sventurato ministro degli Esteri, che ha provato a difenderlo sottolineando che l’età per il consenso (a rapporti sessuali, ndr.) in Italia è 14 anni, come se ciò fosse rilevante".
Qualcuno potrebbe dire, si conclude l’editoriale, che tutto ciò non riguarda i forestieri. Ma gli elettori italiani, alla vigilia delle elezioni europee, dovrebbero riflettere sul modo in cui è guidato il loro governo, sui candidati selezionati per Strasburgo e sul livello di sincerità del premier. E la faccenda "riguarda anche altri", afferma il Times. "L’Italia ospita quest’anno il summit del G8, dove si discuterà di maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine internazionale. E’ un importante membro della Nato. Fa parte dell’eurozona, che è confrontata dalla crisi finanziaria globale. Non sono soltanto gli elettori italiani a domandarsi cosa sta succedendo. Se lo chiedono anche i perplessi alleati dell’Italia".
Il Times pubblica anche una lunga corrispondenza dall’Italia, intitolata "Berlusconi blocca la pubblicazione di foto di giovani donne in bikini a un party nella sua villa". Un articolo sul Financial Times, invece, osserva che "l’ondata di gossip" e "l’odore di scandalo" intorno a Berlusconi distolgono l’attenzione dell’opinione pubblica italiana da questioni ben più gravi, come le cattive notizie sull’andamento dell’economia italiana.
Una corrispondenza sul Daily Telegraph afferma che "gli alleati di Berlusconi mettono nel mirino la moglie" per il divorzio, con la rivelazione che Veronica Lario avrebbe un partner da tempo, fatta da Daniela Santanché sul quotidiano Libero. E l’Independent riporta le pesanti critiche fatte dal premio Nobel per la letteratura Josè Saramago, che hanno spinto la casa editrice Einaudi, "parte dell’impero Modandori di Berlusconi", a non pubblicare il suo ultimo libro, che descrive tra l’altro il primo ministro come "un delinquente".
Francia. Il quotidiano Libération dedica la copertina alla vicenda: "Lo scandalo alle calcagna" e nelle due pagine interne: "Rivelando la tresca il quotidiano Repubblica ha fatto vacillare la popolarità del presidente del consiglio. E’ una battaglia portata avanti nel nome di una certa concezione dell’interesse pubblico".
Spagna. Il quotidiano El Pais torna a trattare la questione in una corrispondenza da Roma: "L’opposizione italiana chiede a Berlusconi che spieghi in parlamento se abbia portato nell’organizzazione elettorale del partito i suoi invitati delle feste private in Sardegna" e si chiede: "Berlusconi utilizza gli aerei ufficiali dello stato Italiano per portare gli artisti, ballerine e veline a Villa Certosa? Ha fatto uso improprio dei beni dello stato? È l’ultimo capitolo del Naomigate che ha trasformato l’Italia in un manicomio semplicemente portando allo scoperto l’abitudinaria mescolanza tra vita privata e pubblica di Berlusconi e la sua tendenza a conquistarsi amici e amiche dell’ambiente televisivo portandoli in quello politico".
Sferzante il pezzo della Vanguardia: "La campagna elettorale per le Europee continua in Italia, astrusa e noiosissima, incapace di competere quanto a contestazioni, incanto mediatico, spessore del tema con la vita personale della stella più sgargiante della politica italiana degli ultimi quindici anni: Silvio Berlusconi. Nelle cerchia del potere si parla più di questa commediola che delle vicende poltico-continentali a Bruxelles. A volte diverte. La maggior parte delle volte preoccupa ed esaurisce tanta banale frivolezza".
(Ha collaborato Flaminia Giambalvo)
* la Repubblica, 1 giugno 2009 (ripresa parziale - cliccare sul rosso, per gli allegati).
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia
e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009