INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO ALL’INCONTRO CON IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
PALAZZO DEL QUIRINALE, 25 GIUGNO 2008 *
Innanzitutto, un cordiale saluto e augurio a voi tutti, e lo rivolgo conoscendo l’importanza dell’universo professionale e associativo che voi rappresentate.
La ringrazio, Professor Alpa, in modo particolare per le espressioni di apprezzamento e di fiducia che ha voluto rivolgermi ed anche per aver ricordato la mia vicinanza - per tradizione familiare - al mondo e ai valori della professione forense.
Credo che sia stato molto significativo l’accento che lei ha voluto porre sullo spirito di cooperazione e sulla concreta volontà di collaborare che l’Avvocatura oggi esprime.
Lei ha fatto riferimento a iniziative concrete da voi assunte, dirette al soddisfacimento delle esigenze più pressanti di corretto funzionamento della macchina della giustizia, a cominciare - lei ha detto - dall’abbreviazione dei processi: mi permetto di aggiungere (dopo avere ascoltato insieme con lei qualche giorno fa in Cassazione il presidente Carbone), mirando anche a quel decongestionamento dell’attività della Suprema Corte che egli ha, credo, comprensibilmente invocato. Si tratta di esigenze da soddisfare anche a fini di recupero della fiducia dei cittadini, come lei ha ben detto. E ha quindi espresso più specificatamente l’auspicio che la nuova stagione parlamentare riprenda e porti a termine il lungo e accidentato - come lo ha definito - percorso della riforma della professione forense.
Più in generale, direi che dobbiamo auspicare che la nuova stagione parlamentare porti avanti il percorso delle riforme di cui ha assoluto bisogno l’amministrazione della giustizia nel suo insieme.
Perché vi si riesca deve affermarsi - ne sono convinto, e non è la prima volta che lo sottolineo - un clima di ascolto reciproco e di confronto costruttivo su questi problemi tra tutte le componenti del mondo della giustizia e del mondo politico e istituzionale.
Il mio invito si rivolge, quindi, a tutti i soggetti dell’impegno da portare avanti a questo riguardo. È un invito alla misura e all’equilibrio che in questo momento di tensione mi auguro non venga lasciato cadere da nessuna parte, nella consapevolezza del danno che porterebbe a ciascuno e a tutti il riaccendersi di una deleteria contrapposizione tra politica e giustizia.
A quel tema dedicai l’intervento nella seduta del Consiglio Superiore della Magistratura del 14 febbraio. Vorrei che quanti mostrarono di apprezzare gli argomenti che in quella occasione sviluppai, si comportassero oggi di conseguenza.
Dicendovi questo io non dissimulo la mia forte preoccupazione. Non sono in grado, purtroppo, di fare alcuna previsione. Il mio ruolo è quello, come si dice spesso, di moral suasion: spesso equivale a lanciare dei messaggi nella bottiglia non sapendo chi vorrà raccoglierli. E bisognerebbe che li raccogliessero tutti perché abbiano effetto.
WWW.QUIRINALE.IT, 25-06-2008
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Se fallisce la "moral suasion"
Per il Presidente della Repubblica un compito arduo: può riuscire solo di fronte a una sensibilità istituzionale che sembra estranea alla cultura del premier
di STEFANO PASSIGLI (La Stampa, 27/6/2008)
L’avvio della legislatura aveva fatto registrare un clima nuovo nel rapporto tra maggioranza e opposizione, e con esso la speranza che fosse possibile perseguire consensualmente le più urgenti riforme costituzionali, ponendo così fine alla nostra transizione. Ma sono bastate poche settimane per mostrare che, assieme ai provvedimenti per fronteggiare l’emergenza rifiuti e per rispettare le promesse elettorali in materia di sicurezza, i «cento giorni» di Berlusconi avrebbero riproposto una serie di controversi interventi sulla giurisdizione. Come già nel caso della Bicamerale, ancora una volta le vicende giudiziarie del premier e la sua decisione di andare a uno scontro frontale con la magistratura sembrano avere spento ogni possibile accordo sulle riforme istituzionali.
In questo contesto ben si comprende, e va apprezzato, che il Presidente della Repubblica abbia fatto ogni sforzo per tenere aperto un dialogo sulla questione giustizia e ricercare un possibile compromesso fondato sulla rinuncia da parte del governo a mantenere nel decreto sicurezza la norma blocca-processi, e sulla disponibilità dell’opposizione a esaminare senza ricorrere all’ostruzionismo una nuova versione del lodo Schifani.
L’indisponibilità di Berlusconi
Sforzo apprezzabile - ripeto - ma impresa tra le più difficili che un Capo dello Stato si sia mai trovato ad affrontare, per l’indisponibilità del premier a rinunciare alla sola strategia in grado di evitargli una probabile condanna nel processo Mills, ma anche per la necessità sottolineata dall’opposizione di procedere all’approvazione di un nuovo lodo Schifani solo con legge costituzionale. Molti sono infatti i dubbi di costituzionalità nei confronti di un’approvazione con legge ordinaria di una simile norma, specie alla luce della già dichiarata incostituzionalità del vecchio lodo Schifani. In cosa il nuovo lodo si distinguerebbe dal vecchio? E come superare il forte ostacolo posto dal vincolo di eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione?
Il compito del Presidente della Repubblica è dunque ben arduo e merita rispetto, ma evidenzia anche i limiti di una moral suasion che riesce a essere tale e ad avere successo solo se trova nelle controparti un’analoga sensibilità istituzionale. Ma la sua principale controparte, e cioè il presidente del Consiglio, è invece portatore di una cultura istituzionale ben diversa, che il suo consigliere Baget Bozzo ha così efficacemente descritto (Il Giornale del 24 giugno 2008): «Berlusconi, il Pdl, la Lega Nord \, queste forze vengono tutte dall’affermazione che il popolo sovrano che si manifesta nel corpo elettorale e nel Parlamento è la prima Costituzione della democrazia e che volerla bloccare con la lettera della Costituzione del ’48, con la Corte Costituzionale, con la Magistratura, è impossibile. \ La Costituzione scritta è diventata un blocco della costituzionalità reale che è la democrazia in crescita, la partecipazione in aumento, la volontà di contare del corpo elettorale. \ Questa dinamica della Costituzione e della democrazia non si può fermare alla lettera del testo scritto di cui la Corte Costituzionale è divenuta il gendarme. Democrazia contro Costituzione rigida, corpo elettorale contro Corte Costituzionale e Magistratura: questa è la crisi dello Stato italiano».
La voce della Costituzione
Tutte le recenti dichiarazioni di Berlusconi, tutta la sua insofferenza verso ogni forma di checks and balances, confermano che questa è la sua cultura istituzionale. E se questo è il caso, allora la moral suasion è inevitabilmente destinata al fallimento, o a progressivi cedimenti. Molto dobbiamo nella nostra storia recente alla moral suasion dei Presidenti. Ma quando la moral suasion incontra il suo limite, al Presidente della Repubblica, supremo garante della Costituzione, rimane solo un compito: quello di un’integrale applicazione della Costituzione vigente. Perfino un inveterato innovatore come l’ex Presidente Cossiga ha invitato a rinviare alle Camere una legge ordinaria che introducesse un nuovo lodo Schifani. Sarebbe ben lesivo del ruolo di garante degli equilibri costituzionali del Presidente della Repubblica se una successiva pronuncia della Corte Costituzionale sancisse l’incostituzionalità di una legge promulgata dal Capo dello Stato malgrado le riserve che nei confronti di tale legge da più parti (giurisprudenza, dottrina e forze politiche) si levano. È un vulnus alla funzione del Presidente della Repubblica che il nostro ordinamento non si può permettere. Quando la moral suasion è costretta a tacere occorre ascoltare solo la voce della Costituzione.
POLITICA
Il prezzo dell’impunità
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un’opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).
Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell’amministrazione giudiziaria, un’accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d’insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un’immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest’occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.
Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all’anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l’esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall’altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l’azzoppa irrimediabilmente.
Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d’uscita dalle molte crisi che lo affliggono.
In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.
C’erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell’interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un’immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C’era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio.
Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un’agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un’agevole previsione credere che molto presto toccherà all’informazione.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.