risponde lo psichiatra Luigi Cancrini (l’Unità, 14.o9.2009)
Qualche giorno fa lei adombrava una diagnosi psichiatrica per il cav. Berlusconi. I telegiornali di qualche giorno fa l’hanno «immortalato», a fianco di Zapatero, mentre si attribuiva la palma di «miglior presidente del Consiglio» dall’unità d’Italia ad oggi. Berlusconi è il capo del governo. C’è da preoccuparsi?
Giovanni Cappellari
RISPOSTA Sì. Il potere fa male alle persone che soffrono di un disturbo narcisistico di personalità e la diretta televisiva da La Maddalena ha proposto, in modo a tratti perfino imbarazzante, l’idea di una persona malata che sta perdendo il controllo di quello che dice e la percezione dei contesti in cui si muove. Il disagio di Zapatero, le risatine del pubblico, la lunghezza spropositata dell’intervento, l’ingenuità quasi infantile di alcune affermazioni («A me piace la conquista, pagandole che piacere ne avrei?»), il bisogno irresistibile di parlare di sé dimenticando i contenuti e le ragioni politiche di un incontro fra capi di governo, le minacce fuori misura alla D’Addario e a “El País” proponevano in modo quasi caricaturale la comicità involontaria dell’uomo che straparla, che sta «fuori di testa», di fronte a persone che non sanno che fare per fermarlo. In prima fila impassibile, estasiato senza capire nulla di quello che stava accadendo c’era solo Frattini. Innamorato di un capo che sta male e pericoloso assai: per lui, che di tutto ha bisogno tranne che di una ammirazione incondizionata, e per tutti noi.
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
SUL TEMA, ALCUNE ’VECCHIE’ CONSIDERAZIONI:
Messaggio originale----- Da: La Sala
Inviato: domenica 27 gennaio 2002 0.09
A: posta@magistraturaassociata.it
Oggetto: Per la nostra sana e robusta Costituzione...
Stimatissimi cittadini-magistrati
"Nella democrazia - come già scriveva Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) - comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto. L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).
Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato "Forza Italia", discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: "Prima potevo gridare "forza Italia" e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!". Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: "Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!".
Oggi, più che mai, contro coloro che "vogliono costruire una democrazia populista per sostituire il consenso del popolo sovrano a un semplice applauso al sovrano del popolo"(don Giuseppe Dossetti, 1995), non è affatto male ricordarci e ricordare che i nostri padri e le nostre madri hanno privato la monarchia, il fascismo e la guerra del loro consenso e della loro forza, si sono ripresi la loro sovranità, e ci hanno dato non solo la vita e una sana e robusta Costituzione, ma anche la coscienza di essere tutti e tutte - non più figli e figlie della preistorica alleanza della lupa (o della vecchia alleanza del solo ’Abramo’ o della sola ’Maria’) - figli e figlie della nuova alleanza di uomini liberi (’Giuseppe’) e donne libere (’Maria’), re e regine, cittadine-sovrane e cittadini-sovrani di una repubblica democratica.
Bene avete fatto, con la Vs. Lettera aperta ai cittadini, a rendere pubbliche le vostre preoccupazioni e a dire e a ridire che la giustizia non è materia esclusiva dei magistrati e degli addetti ai lavori, ma un bene di tutti e di tutte, e che tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali davanti alla legge.
E altrettanto bene, e meglio (se permettete), ha fatto il Procuratore Generale di Milano Borrelli, già all’inizio (e non solo alla fine) del suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha detto: "porgo il mio saluto, infine, ai cittadini, anzi, alle loro maestà i cittadini, come soleva dire il compianto Prefetto Carmelo Caruso, avvicinati oggi da un lodevole interesse a questa cerimonia, del resto non esoterica nonostante il paludamento, ma a loro destinata"; e, poco oltre, riferendosi specificamente alle "difficoltà che la giustizia minorile incontra", ha denunciato che "il denominatore comune - generatore del disagio donde nascono devianze, sofferenze, conflitti - è rappresentato dalle carenze di un’autentica cultura dell’infanzia, a volte necessitata dalle circostanze, a volte frutto di disattenzione, spesso causata dall’incapacità negli adulti di trasmettere valori che si discostino dall’ideologia di un’identità cercata, secondo la nota espressione di Erich Fromm, nell’avere piuttosto che nell’essere".
Da cittadino-magistrato non ha fatto altro che dire e fare la stessa cosa che don Lorenzo Milani, il cittadino-prete mandato in esilio a Barbiana, in tempi di sonnambulismo già diffuso (1965): suonare la campana a martello, svegliare - praticare la tecnica dell’amore costruttivo per la legge e, ricondandoci di chi siamo e della parte di corona che ancora abbiamo in testa, avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani....
Cordiali saluti
Federico La Sala
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica della propaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona. E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
IL DIALOGO, Sabato, 31 gennaio 2004
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! -"IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani.
Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia.
E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
* IL DIALOGO, Mercoledì, 05 aprile 2006
Le idee
Nevrosi di Palazzo
La politica sul lettino dello psicoanalista
Lo aveva già scritto Freud in un celebre saggio del 1921: essere leader non è solo frutto di ambizione ma anche un disturbo della personalità. Provocato da un incontrollabile sentimento di hybris
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 20.07.2018)
È quasi impossibile rispondere alla domanda su come e soprattutto chi può diventare un grande capo o un leader politico carismatico. Il carattere del leader è fondamentale, come anche la sua capacità e la sua determinazione nel prendere decisioni necessarie per la vita del Paese. E poi deve essere in grado di mediare quando è necessario. Tutto questo non è sufficiente, sono importanti anche i suoi gesti, il suo modo di parlare e di rivolgersi ai cittadini, le sue pause, le sue espressioni facciali, la sua postura, in altri termini la fenomenologia corporea che viene ad incarnare il senso del potere e l’intima convinzione di essere un predestinato.
Ma quello che sancisce definitivamente la leadership è l’investitura popolare. Come nella dinamica che lega il predatore alla preda anche il leader è tale in quanto viene riconosciuto nel suo ruolo dai cittadini e dall’opinione pubblica. La natura di questo rapporto è stata indagata da Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, nel suo scritto del 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io. È un’attrazione fatale quella fra la massa e il capo, difficile da spiegare in termini razionali e che può offuscare le capacità critiche dei cittadini. La possiamo visualizzare come un’onda sismica che si sprigiona dalla psicologia collettiva dei cittadini ed investe la figura del leader, attribuendogli qualità ideali, addirittura sovrannaturali. E questa identificazione inconscia a volte dura dalla sera alla mattina, perché il capo in breve tempo perde il suo carisma non sapendo gestire il potere, mentre altre volte il capo è in grado di incarnare anche per un lungo periodo gli investimenti ideali dei suoi ammiratori.
La seduzione del potere altera spesso la percezione personale del capo, è quasi inevitabile che provi un orgoglio smisurato e un senso di sé grandioso che mette alla prova il suo giudizio di realtà. Giulio Andreotti aveva coniato la famosa frase «il potere logora chi non ce l’ha», rifacendosi al grande politico francese Charles Maurice de Talleyrand, ma si era dimenticato di aggiungere l’affermazione simmetrica «il potere fa impazzire chi ce l’ha».
Ci si può chiedere se il potere non possa addirittura provocare un disturbo di personalità. Non è un interrogativo banale se una Rivista Scientifica di grande prestigio come Brain della Oxford University Press ha pubblicato un articolo su questo tema a nome di due autori apparentemente molto lontani, David Owen della Camera dei Lord britannica e Jonathan Davidson, professore di Psichiatria della Duke University negli Stati Uniti.
I due autori si interrogano se la sindrome della hybris che può colpire i capi e i leader politici non sia un disturbo di personalità che si sviluppa nella gestione del potere. Pur riconoscendo che spesso la leadership si associa al carisma, alla capacità di ispirare e di persuadere, all’ampiezza della visione, alle aspirazioni grandiose e alla fiducia in se stessi può succedere che possa prendere il sopravvento la faccia più oscura del potere. Si cede agli impulsi col rischio di lanciarsi in comportamenti e decisioni spericolate e non si è più in grado di ascoltare i pareri degli altri, perdendo di vista la complessità e i dettagli delle situazioni. Quello che lega tutto questo è la hybris, ossia una tracotanza eccessiva e un’arroganza con una fiducia spropositata di sé e un disprezzo nei confronti degli altri.
Questa sindrome della hybris è generata dal potere che corrompe la mente ma anche il cervello del capo. Una ricerca ha documentato che quando si ricorda un episodio della propria vita, in cui si è esercitato un particolare potere nei confronti degli altri, si perde la capacità cerebrale di entrare in risonanza con gli altri e di provare empatia verso di loro. In altri termini i neuroni specchio si disattivano perché probabilmente si è troppo concentrati su se stessi e sulla propria potenza per prestare attenzione agli altri.
La storia ha ampiamente confermato queste osservazioni. Questa sindrome del potere può insorgere sia che il leader ottenga grandi successi, sia che vada incontro a sconfitte e fallimenti. Probabilmente quando non ci si guarda più allo specchio e si perde il contatto con se stessi è più facile che ci si faccia sedurre dall’ammirazione dei propri seguaci. Ma anche l’allontanamento dei consiglieri può rendere ancora più solo il leader, come successe anche al primo ministro britannico Margaret Thatcher quando fu lasciata dal suo consigliere Willie Whitelaw. Fece approvare in seguito leggi impopolari e alla fine fu costretta dal suo stesso partito a dimettersi.
Ma non è un esito inevitabile, vale la pena di ricordare quello che scrisse il grande economista John Maynard Keynes dopo aver cenato con Winston Churchill nel 1941, all’apice della sua popolarità: «L’ho trovato assolutamente in perfette condizioni, molto bene, sereno, ricco di sentimenti umani e non gonfiato. Forse in questo momento è al massimo del suo potere e della sua gloria e non ho mai visto nessuno meno contagiato da arie dittatoriali e dalla hybris».
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
*
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli (il manifesto, 02.06.2018)
«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani - quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini...
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» - da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti... È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove... Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro - di due entità per definizione «prive di forma» - i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" --- "Popolo e democrazia" (Yascha Mounk): il populismo come requiem della democrazia liberale (di Nello Barile).
Il populismo come requiem della democrazia liberale
Nello Barile (Doppiozero, 30.05.2018)
La fase politica che viviamo in Italia si contraddistingue per una distonia drammatica. Da un lato la permanenza del vecchio, ovvero dei protagonisti di un ventennio politico che ha al contempo plasmato e saturato l’immaginario degli elettori. Dall’altro l’emergere del nuovo che tenta di emanciparsi dal recente passato - la Seconda Repubblica - per inaugurare una nuova stagione in cui finalmente saranno protagonisti i cittadini.
Non è un caso che a surriscaldare uno dei momenti più instabili della democrazia italiana contribuisce anche il film di Sorrentino Loro 1 e 2, in cui si mette in scena un frammento della vicenda berlusconiana attraverso un iperrealismo agonistico in cui realtà e immaginazione (sempre più simili) competono a chi è più inimmaginabile. Nel film è palese la relazione tra la frenesia compulsiva di ciò che accade intorno alla figura del leader e che vuole catturarne l’interesse, e la pace serafica della sua dimensione quotidiana, sostanzialmente inerte e fuori dal tempo. Lo stesso rapporto ciclico tra stasi e velocità è usato da un autore che condivide con il film di Sorrentino anche il periodo d’uscita in Italia, insieme a una certa idea di inossidabilità del berlusconismo rispetto alla vicenda politica nazionale.
Sin dall’introduzione di Popolo e democrazia, pubblicato in Italia per i tipi de La Feltrinelli, Yascha Mounk considera il berlusconismo come matrice dialettica dell’attuale populismo, nel senso che quest’ultimo ne rappresenta la reazione ma anche il più degno discendente. Per questo egli dubita dell’efficacia di “combattere il populismo corrotto che ha prevalso in Italia per vent’anni con un populismo un po’ meno corrotto” (p. 12). L’autore coglie con un certo anticipo l’ambiguità post elettorale del leader di Forza Italia: al contempo argine filo-europeista e precondizione dell’avvento del nuovo governo populista. Sino al colpo di scena della sua “riabilitazione” tanto discussa dai media, in seguito alla quale l’accordo 5 Stelle/Lega è entrato in una fase di forte turbolenza.
Come nota Mounk, i due fenomeni politici corrispondono esattamente a due cicli diversi della vita democratica del paese: il berlusconismo è la massa inerte che per vent’anni ha mantenuto pressoché immutate le relazioni di potere all’interno del sistema democratico. Il populismo contemporaneo è invece l’accelerazione improvvisa che, sebbene ambisca a rigenerare il sistema dalla base, potrebbe decretarne il declino inesorabile. Per questo la “fusione” a freddo tra due diversi orientamenti populisti è salutata con orrore dalla stampa nazionale e internazionale che, paradossalmente, cade nella trappola semiotico-interpretativa in cui si sono già arenati parecchi opinionisti nel caso della vittoria di Trump o della Brexit: scagliarsi contro il verdetto del popolo, antiestablishment e antieuropeista, per demonizzare il nascente programma di governo - ovvero il famigerato “contratto - che nelle sue imprecisioni e nei suoi eccessi non è altro che la traduzione operativa della volontà stessa del corpo elettorale.
Dal mare magno di pubblicazioni sul tema caldo del populismo - che come hanno dimostrato Manuel Anselmi e Marco D’Eramo si è gonfiato impressionantemente negli ultimi 5 anni - lo studio di Mounk si distingue per il suo livello di sistematicità e di attenzione all’attualità. Sin dall’introduzione, aggiornata alle elezioni politiche italiane a mo’ di commentario del loro risultato indeciso, si capisce che il punto di vista dell’autore, seppur critico, va alla ricerca di un’interpretazione profonda e non di un semplice stigma capace d’esorcizzare l’ulteriore propagazione del fenomeno. Per questo motivo l’autore fa spesso riferimento al lavoro di Müller (Egea 2016, da me già recensito per doppiozero ), dal quale si discosta proprio per il tentativo di formulare una comprensione autentica del populismo, senza volerlo esecrare programmaticamente. Un’operazione paradossale proprio perché l’autenticità non è solo il fine di un metodo d’analisi comparativo e interdisciplinare che esamina le affinità e differenze tra i numerosi tipi di populismo, attraverso una varietà di approcci: storico, politologico, mediologico ecc. L’autenticità, o meglio la pretesa di autenticità, è l’oggetto stesso dello studio di Mounk.
Il populismo difatti, nelle sue molteplici espressioni, si caratterizza per essere la voce autentica del popolo. Da Trump alla Le Pen, dai 5Stelle allo Ukip, l’idea di questa contrapposizione tra noi e loro, ovvero tra la radice autentica della sovranità - il popolo - e l’establishment che ha dirottato la democrazia dalla sua missione originaria, anima il linguaggio della nuova politica. Tale esigenza influenza fortemente la comunicazione stessa delle nuove formazioni politiche che, ben lungi dal voler rievocare le magnifiche sorti e progressive di un certo utopismo sviluppista, optano per formule nostalgiche in linea con la loro vocazione retrotopica (direbbe Bauman). Ne è un esempio la strategia di marketing esperienziale di Alternative Fur Deutschland tutt’altro che “esotica”, dato che ricorda nella scelta delle location e in ogni minimo dettaglio l’estetica delle cittadine della provincia tedesca tra anni ottanta e novanta, come lo “squallido palazzetto dello sport”, insieme ai manifesti che somigliano alle “slide del Power Point” (p. 53).
Altra importante dicotomia su cui lavora l’autore è la contrapposizione tra semplicità e complessità. Si tratta di una questione chiave e non semplicemente politica ma direi peculiarmente epistemologica (Mounk del resto cita spesso l’apologo del pollo di Russel). Dopo la sbornia di affascinanti teorie della complessità che dagli anni cinquanta sino a oggi hanno animato il dibattito scientifico e in qualche modo sostenuto l’avvento di una società postindustriale, globalista e tecnocratica, tanto il marketing quanto la politica scoprono la forza dirompente della semplicità (si pensi alla simplicity di John Maeda applicata al primo iPod). Il populismo non fa altro che tradurre questa voglia di semplicità nei termini di un programma e di un’azione politica alternativi. Difatti la “propensione dei leader populisti a offrire soluzioni semplici” assume già il rischio che le nuove soluzioni proposte possano “aggravare proprio quei problemi che avevano scatenato la rabbia popolare” (P. 45). Ma allora perché i partiti dell’establishment hanno seguito un approccio complesso laddove le soluzioni erano così semplici? O perché sono corrotti o perché lavorano in segreto per interessi esterni.
Da un punto di vista di framework teorico sono due le categorie politiche che orientano il discorso di Mounk: la democrazia illiberale e il liberalismo antidemocratico. Queste due categorie, disposte tra loro in relazione di chiasmo, rappresentano da un lato le forze che stanno letteralmente smembrando la democrazia liberale, dall’altro il limite stesso verso cui tendono i processi politici contemporanei. Se il liberalismo antidemocratico riguarda difatti le istituzioni non elette, la tecnocrazia e infine le strutture sovranazionali che imbrigliano la sovranità “locale”, la democrazia illiberale invece segue il verdetto popolare che si rivela esemplarmente in alcuni istituti specifici, come nel caso discusso del referendum svizzero contro le moschee. La costruzione dei minareti fu difatti ammessa o se si preferisce imposta dal Tribunale amministrativo del Canton Soletta, nonostante il ricorso in appello degli abitanti del posto (p. 52), ma poi rinnegata dal referendum popolare che fu sostenuto da una “coalizione di attivisti di estrema destra”, la cui iniziativa vittoriosa impose il divieto di costruire nuove moschee in Svizzera.
Uno dei momenti analiticamente più validi del libro è il paragrafo in cui si esamina la questione legalistica, in cui l’autore discute il rapporto tra istituzioni votate e non votate e da cui emerge chiaramente che la maggior parte delle conquiste liberali delle democrazie moderne sono non votate, cioè decise da istituzioni giuridiche. Ovvero dalla “revisione giudiziale” che a detta dell’autore si è diffusa dal 38% dei paesi che la praticavano nel 1951, fino all’83% nel 2001 (p. 73). Dal suffragio universale per le donne alla fine della segregazione razziale, dall’abolizione (e reintroduzione) della pena di morte alla legalizzazione dell’aborto, dalla censura per i media sino alla depenalizzazione dell’omosessualità, in Usa la Corte Suprema ha affermato i principi liberali senza passare per la volontà popolare (che con buona probabilità non li avrebbe sposati). Ciò è ancor più evidente nei “momenti di crisi” (p. 75), quando la revisione giudiziale rappresenta forse l’unica tutela delle minoranze, i cui diritti potrebbero essere minacciati da un legame meno razionale e più emotivo tra leader politici ed elettori. In queste pagine, anche senza citarlo, viene messo efficacemente in discussione un argomento molto caro ai pochi intellettuali populisti che si scagliano contro ciò che Christopher Lasch chiamava “strategie legalistiche” (si veda la mia recensione per doppiozero del libro di Lasch). Ovvero il modo in cui la sinistra americana e poi europea ha rimosso le radici stesse della sua missione - la lotta contro la diseguaglianza economica - per sposare invece la vulgata dei diritti civili tout court, in protezione delle molteplici minoranze, che la colloca dalla parte delle istituzioni non votate e dunque più generalmente dalla parte della tecnocrazia e contro la volontà autentica del popolo.
Prima d’esaminare dettagliatamente i fattori che stanno determinando il progressivo sgretolamento della costruzione democratica, l’autore si cimenta con la descrizione di una deriva per così dire interna, in un capitolo in cui trionfa una sequenza sconcertante di grafici che dimostrano l’impressionante crisi di credibilità delle istituzioni democratiche, in Occidente ma anche nel mondo, insieme alla crisi di fiducia degli elettori nei confronti dei politici. Se negli anni settanta il 40% degli elettori americani mostrava fiducia nei membri del Congresso, nel 2014 “il dato era precipitato al 7% (p. 97). Come dimostra anche la crisi di fiducia nei confronti dei Presidenti francesi, già bassa con Chirac ma in declino vertiginoso con i successivi, fino all’inesorabile tonfo di Hollande. È impressionante la testimonianza di un senatore americano che ammette di aver visto acuirsi rabbia e diffidenza del corpo elettorale (p. 99) nei suoi confronti, forse anche a prescindere dall’azione incoraggiante dei social media. Questa “recessione democratica” (p. 100) è inoltre confermata da sondaggi che registrano la sostanziale indifferenza di alcune fasce di cittadini all’eventualità di una deriva autoritaria.
Se gli anziani che hanno conosciuto guerre e dittature si pronunciano decisamente contro l’autoritarismo, un terzo dei millennial dei paesi occidentali non teme per la morte della democrazia, a eccezione di quelli usciti da pochi decenni da esperienze totalitarie (pp. 108-117). Il titolo efficace di geografia del risentimento aiuta Mounk a introdurre ridiscutere il medesimo problema da una prospettiva diversa, passando dalla questione anagrafica a quella geografico-culturale (p. 156). Nel tentativo di smontare l’argomento che vuole il populismo come reazione alla convivenza multietnica, laddove i leader populisti stravincono solo nelle aree periferiche più omogenee e in cui la presenza di una singola etnia è prevalente.
Tra i fattori “esogeni” che intervengono sul cambiamento, Mounk dedica un intero capitolo alla questione dei social media, introdotto da un interessante panegirico sulle virtù dei mass media che hanno “limitato la diffusione di idee estremiste”, alimentato valori condivisi e “rallentato la diffusione delle fake news” (p. 128). Tale sistema, sostenuto dalla fase di boom economico e dai nuovi stili di vita, in seno a società monoetniche o a dominanza di una singola etnia, ha consolidato la struttura delle democrazie moderne. Tali elementi, descritti in modo forse troppo valutativo come implicitamente positivi, ci aiuta però a riflettere sugli sviluppi stessi della questione. Se una serie di fattori contingenti ha cioè reso possibile la cristallizzazione stessa della democrazia moderna come una pacchetto, potremmo quasi dire un prodotto con uno specifico ciclo di vita, si pone necessaria una riflessione attenta sulla sua senescenza e/o sulle possibili traiettorie della sua diversificazione. In questo senso il populismo potrebbe essere nella peggiore delle ipotesi un velo, una copertura che cela dietro la sua hipness una pericolosa deriva autoritaria.
Oppure, tornando alla metafora del ciclo di vita, esso potrebbe semplicemente essere una modalità di diversificazione del prodotto “democrazia”, ovvero di superamento verso qualcosa che meglio corrisponde ai gusti e ai punti di vista del consumatore-elettore. In questo sta la profonda paradossalità del fenomeno. Esso difatti si scontra con l’idea di una politica pervasa dal marketing e dalla comunicazione, ma esso stesso è la prosecuzione di tale approccio con altri mezzi. Nelle stesse pagine difatti l’autore torna a criticare giornalisti e politologi per aver semplificato troppo il discorso sul populismo attraverso un approccio monocausale. Torna dunque il tema epistemologico della complessità di un fenomeno che appunto richiederebbe una visione più ampia, ovvero multidimensionale ma che è proprio quella a cui la “semplicità” del populismo si contrappone, considerandola come lo strumento analitico della tecnocrazia. Nella parte finale del libro colpisce la sequenza di titoli all’infinito con funzione di imperativo - Addomesticare il nazionalismo, Risanare l’economia, Rinnovare la democrazia, Lottare per le nostre convinzioni - come fece qualcuno in passato, che di populismo se ne intendeva.
Christopher Lasch sulla strada per il nessun-dove
di Nello Barile (Doppiozero, 08.03,2017)
Il videoclip Road to nowhere dei Talking Heads (band incensata da Sorrentino in più occasioni) racconta con ritmo compulsivo la crisi dell’America degli anni ottanta attraverso un vasto campionario di icone e simbologie tipiche della società dei consumi. I membri di una comunità di provincia si stringono in coro per intonare le note e le parole dell’incipit, che parla appunto del loro spaesamento dinnanzi alla “strada per il nessun-dove”. Una nutrita serie di microsequenze della durata di pochi secondi squarcia la consistenza del sogno americano, mettendone in discussione la sostanza. L’immagine più significativa ed esplicita è forse quella del giovane che insegue il carrello della spesa, segno inequivocabile di uno strumento - il consumo - che si è fatto fine e ha spiazzato definitivamente il ruolo di colui che lo aveva creato per soddisfare determinati bisogni. Il personaggio simbolo di tutta un’epoca, lo yuppie, litiga con un suo antagonista mascherato da catch messicano, ma la loro mimica ricorda quella dei bambini che si contendono un giocattolo. Il clip si conclude con il delirio schizofrenico del protagonista (David Byrne) amplificato dagli effetti di stop motion mentre resta seduto su un trono instabile.
Poche opere dell’epoca hanno saputo esprimere tanta consapevolezza sulla criticità di quel passaggio storico con le sue implicazioni sull’uomo e sulla società. Lo scrittura del video pare quasi infarcita dei temi chiave che caratterizzano la riflessione di C. Lasch. Risuonano infatti nel video del 1985 le questioni che caratterizzano la riflessione laschiana tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni novanta (ovvero poco prima della sua scomparsa): da La cultura del narcisismo a L’io minimo, da Rifugio in un mondo senza cuore a Il paradiso in terra.
Con La cultura del narcisismo lo studioso americano fu consacrato come uno degli autori più profondi ma anche più capaci di impattare sul mercato, anticipando il ruolo di grandi autori di saggistica “pop” come J. Rifkin e Z. Bauman. Il libro in questione riflette sulla crisi culturale che anima l’Occidente e che decreta la trasformazione del narcisismo da disturbo psicologico a forma mentis di un’intera società. In varie opere del resto l’autore ammise il suo apprezzamento per la Scuola di Francoforte, soprattutto per l’idea di conciliare la dottrina marxista - da cui egli stesso proviene - con i temi e i modelli della psicoanalisi. Se l’individualismo borghese si era edificato a partire dall’idea della “terra di nessuno” (p. 23) da modificare attraverso un atteggiamento autoassertivo (lo spirito della frontiera), il narcisista invece vede il mondo come uno specchio in cui verificare continuamente lo stato della propria identità messa in crisi dal progresso.
Il narcisismo impatta potentemente sulla percezione del tempo e della storia, determinando ciò che in modo diverso i teorici del postmoderno avrebbero chiamato “presentificazione”. Per dirla con le parole di Lasch “dal momento che la società è senza futuro, acquista un senso vivere solo in funzione del presente, occuparsi soltanto delle proprie “realizzazioni personali”, diventare fini conoscitori della propria decadenza, coltivare un’“auto-osservazione di ordine trascendentale”” (p. 19). La visione del manager è quella più propriamente narcisista, proprio perché egli vede “il mondo come specchio di se stesso e non si interessa degli avvenimenti esterni tranne nel caso in cui gli rimandino un riflesso della sua propria immagine” (p. 62).
In una posizione non distante ma diversa dall’analisi della merce di G. Debord, che Lasch cita senza nominare parlando appunto di “società dello spettacolo”, qui il fattore profondo che innesca l’epidemia narcisistica è la burocrazia. Questo perché “l’ambiente densamente interpersonale della burocrazia moderna sembra provocare e gratificare una risposta narcisistica - un’ansiosa preoccupazione riguardo all’impressione che si produce sugli altri, una tendenza a trattare gli altri come specchio di sé” (p. 265).
Si tratta dunque di uno spunto di riflessione utilissimo dato che, anche recentemente, le scienze sociali tornano a porsi il problema della burocrazia, proprio all’epoca dei Big Data e di una razionalizzazione ancor più intransigente della società, del diritto e della politica (come nella “regolazione algoritmica” di E. Morozov).
La cultura del narcisismo è quella che ha consacrato come dominante la metafora dello specchio, ma è anche quella che, seguendo le dichiarazioni di A. Warhol, scopre che di fronte allo specchio c’è il vuoto assoluto (Warhol si descriveva appunto come uno specchio che si guarda in uno specchio). I’ll be your mirror, cantava Nico insieme ai Velvet Underground, “rifletto ciò che sei, nel caso tu non lo sappia”, e anche questo anticipava la dimensione puramente speculativa ma personalizzata dei nuovi specchi, ovvero quelli che popolano i nostri quotidiani attraverso le piattaforme digitali, offrendoci appunto risorse rispecchianti esattamente il nostro profilo.
Se negli anni novanta abbiamo imparato a considerare la riflessione laschiana come obsoleta per via dei valori emergenti che confutavano l’ipotesi narcisista, i primi decenni del nuovo millennio ci ricordano invece che parecchi cambiamenti culturali del nostro tempo sono riconducibili alle matrici studiate da Lasch. Il dispositivo della confessione ad esempio, che solitamente riconduciamo alla Storia della sessualità di M. Foucault e che oggi diventa strategico per capire il web 2.0, viene qui esplorato in modo diverso, passando soprattutto per il lavoro degli artisti.
Mentre la Cultura del narcisismo è tornata in auge oggi anche sulla scia di alcune innovazioni tecniche come i social media e i selfie, Il paradiso in terra spaventa per la sua capacità di sistematizzare tematiche talmente attuali da aiutare lo sguardo prospettico sul passato e sul futuro. Dal populismo alla postverità, passando per la questione chiave del libro che è lo sfondo valoriale sul quale si è innestata la ideologia/utopia del progresso dalle dottrine liberali fino a ciò che oggi chiameremmo neoliberismo: la produzione e la soddisfazione di un bisogno illimitato (il “crazy greed” cantato in Society di Eddie Vedder), l’idea squisitamente moderna che “gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica” (p. 49).
L’analisi del populismo, ad esempio, non si limita a discutere le ragioni di tale orientamento politico ma lo considera una variabile dipendente dell’economia, anzi quasi un meccanismo di compensazione che tendeva a contenere la “brama sconfinata dei beni in sempre maggiore quantità” e allo stesso tempo di preservare il senso della comunità drasticamente messo in discussione dalla stessa logica dello sviluppo illimitato. Temi ancora oggi presenti nei programmi e nelle proposte delle formazioni populiste che tentano di resistere al meccanismo dissipativo e universalistico della globalizzazione.
Allo stesso modo Lasch mette in discussione alcuni atteggiamenti tipici degli intellettuali nei confronti della questione del progresso, tra cui i più radicati sono specularmente un “pessimismo malinconico” alla ricerca del bel tempo che fu e un “ottimismo fatalistico” che si abbandona completamente a uno slancio verso il futuro, sacrificando la valutazione ponderata delle conseguenze. Certo, in una fase immediatamente successiva alla Guerra fredda, non era difficile ragionare nei termini di obsolescenza dei concetti di destra e sinistra. Ma l’autore è anche capace di penetrare nel profondo lo schema logico che deriva dal collasso delle ideologie politiche - e che Lyotard anni prima aveva già individuato come atteggiamento pragmatico ed efficientista - sottolineando come le differenze di posizionamento politico sarebbero perlopiù riducibili a scelte tattiche. Sempre sullo stesso punto, l’autore sviscera una questione che, se studiata attentamente, avrebbe forse aiutato Matteo Renzi a risolvere alcuni problemi di carattere programmatico. Lasch difatti criticava la scelta del senatore Paul Tsongas di invitare i “liberali” (così tradotti ma in realtà riferiti ai “liberal” americani), a diventare “più conservatori sulle questioni economiche e più radicali su quelle “sociali” come i diritti degli omosessuali...” (p. 16). Rispetto alla quale egli prediligeva decisamente la posizione inversa, sostenuta da Bernard Avishai del Mit, per cui la “sinistra doveva combinare il radicalismo economico con il conservatorismo culturale” (p. 16).
Senza nominare il vero oggetto del suo discorso, ovvero l’affermazione della postideologia neoliberista, Lasch ci regala uno spaccato degli anni ottanta americani in cui al contempo si celebrava disperatamente il mito del successo, come nel caso del “carrierismo” (p. 29) degli Yuppies, mentre s’innescava un dispositivo di “degradazione del lavoro” che, a detta degli attuali teorici del capitalismo cognitivo, è diventato oggi del tutto patologico.
Oltre ai suddetti motivi, il senso di sfiducia dei cittadini comuni nei confronti della politica era inoltre indotto da quelle che Lasch chiama strategie “legalistiche” adottate dai democratici per imporre forzosamente e al di là del consenso popolare una parità di diritti che produceva delle frizioni tra le placche sociali ed etniche del tanto decantato villaggio globale. Infine, ancor più simile a ciò che oggi stiamo vivendo, la relazione tra populismo e postverità era già del tutto presente nell’America degli anni ottanta, condensata nell’icona di R. Reagan. Il presidente che da un punto di vista comunicativo inaugurò l’epoca della politica spettacolare, fu anche colui che giunse al potere grazie alla “rivolta della classe lavoratrice contro il liberalismo” (p. 34).
La figura di Reagan fu assolutamente paradossale perché tentava di coniugare la difesa dei valori tradizionali - a cui lo stesso Lasch in vari momenti prova ad appellarsi - con invece uno spietato culto della crescita economica e dell’iniziativa commerciale, ovvero “quelle forze che hanno minato la tradizione”. Lo stridente contrasto tra le due vocazioni in realtà si risolveva in un uso ipocrita e dunque menzognero del pretesto della tradizione. In ultima analisi, mentre il conservatorismo difendeva una concezione etica della politica come scienza del limite, l’esordiente ideologia neoliberista spingeva già verso la messa in discussione di ogni limite. Le origini di questa concezione che oggi definiremmo semplicemente nichilista, sono individuate dall’autore nel pensiero di Adam Smith che in un sol colpo fornì una base scientifica all’economia, ma anche la spinta propulsiva all’espansione capitalistica per “dare origine a una forma di società capace di espandersi indefinitamente (p. 50).
Nei capitoli che affrontano il tema della nostalgia dei moderni e quello ancor più marcatamente sociologico sull’idea di comunità, la capacità analitica dello studioso va di pari passo con lo spaesamento dinnanzi a un processo che, già da allora, si presentava come incontenibile. Rispetto al primo tema, lo studioso vuole precisare la relazione tra la nostalgia, che congela il passato e lo eleva a momento esemplare e irraggiungibile, e la memoria che invece opera in funzione del presente, ricostruendo il senso della continuità storica. Lasch ritorna sulle tappe attraverso cui si è sviluppata la relazione tra nostalgia e memoria, a partire dall’immagine della società pastorale, passando per l’utilitarismo di Bentham votato a denigrare la saggezza degli antenati e delle “popolazioni primitive” (p. 93), ripassando al setaccio il mito della frontiera e del West come infanzia della nazione fino agli anni venti del novecento e oltre. Se fosse vivo oggi, dovrebbe sicuramente aggiornare il suo compendio osservando una cultura talmente ossessionata dal passato da aver piegato ogni sua estetica sotto il penso di quel sentire che S. Reynolds ha ribattezzato “retromania”.
Allo stesso modo la questione della comunità, oggetto d’indagine squisitamente sociologica, ha segnato il passaggio dal globalismo universale al glocalismo degli anni novanta - quando la comunità era principalmente una questione estetica, fino al recupero esacerbato di tale dimensione in una chiave più tragicamente politica. Lasch vaglia criticamente, grazie anche a Rousseau, la relazione tra Illuminismo e Cosmopolitismo per mostrare come quest’ultimo degeneri in una sorta di “arroganza e di disprezzo per le masse meno illuminate” (p. 131).
Per smantellare l’architettura concettuale del cosmopolitismo, il suo studio torna alle fondamenta stesse del pensiero occidentale, al cogito cartesiano e alla fondazione di una scienza sviscerata da condizionamenti emotivi e da radicamenti culturali. Oltre all’ambivalenza del marxismo, che vuole spezzare le catene della tradizione ma che allo stesso modo è spaventato dalla potenza distruttiva dell’individualismo (per Engels a Manchester) e del colonialismo (in India per Marx), Lasch passa a esaminare la medesima problematica nell’ottica del nascente pensiero sociologico.
Allo stesso modo anche la fondazione della scienza sociologica è sospesa in una sostanziale ambivalenza. Così l’opera di un classico della sociologia - il Gustav Tönneis di Comunità e Società - è letta come una sorta di mare che “rispecchiava l’umore di chi vi si rifletteva” (p. 150). Se l’analisi che gettava le basi della storia del pensiero sociologico, lavorava su dicotomie troppo nette (la comunità come luogo inclusivo e cooperativo versus la società come luogo esclusivo e competitivo), la valutazione complessiva sulla questione del progresso era molto meno chiara e distinta. Alle immagini di un’innocenza perduta della comunità si sovrapponevano i sogni di un “futuro dorato” che inaugurava una sorta di mistica del mutamento sociale. Forse più interessante la constatazione che Tönnies vedeva il mondo trasformarsi in una “sola grande città” (p. 151), anticipazione dell’idea jungeriana di uno stato mondiale, ma anche delle più recenti visioni sulla monocultura globalizzata.
L’esigenza di difendere il valore della comunità, conduce Lasch a esplorare le ragioni di crisi del pensiero “liberal” (ma anche liberale). Per questo nell’ultimo capitolo del libro, lo studioso si cimenta con l’attualissimo tema dell’insorgenza del populismo di destra. Una serie di analisi che alle nostre orecchie suonerebbero come contemporanee, scavano invece nelle viscere della politica americana. Dal momento in cui le “minoranze etniche bianche hanno abbandonato i democratici... l’ansia di status rafforza il razzismo dei loro esponenti e li rende irrazionalmente gelosi delle minoranze razziali favorite” (p. 539). In un resoconto che pare cronaca giornalistica dell’America nel 2017, il pensiero della destra populista trae linfa dalla reazione contro le politiche “liberal”, proprio quando “l’appoggio liberale alla causa dell’aborto, delle azioni dimostrative, e del busing, aveva già allontanato grandi masse di democratici dal partito e non si poteva trovare nulla di meno appropriato all’obiettivo di riportarcele di questa scuola di liberalismo manageriale, tecnocratico e suburbano” (p. 573).
Il mito del progresso diventa ora mezzo di fusione tra le strategie legalistiche dei democratici, un approccio manageriale alla politica e un pensiero tecnocratico che insieme disegnavano un sistema intollerabile dal punto di vista del comune cittadino. Questo è il grande tema del declino dei ceti medi su cui Lasch insiste come uno dei fattori chiave nella spiegazione della deriva populista. Un declino già iniziato nel corso degli anni ottanta in USA ma destinato, come ben sappiamo, ad acuirsi e a diffondersi a mo’ di epidemia nel resto dell’Occidente. Dato che il confine tra classe media e classe operaia “si faceva sempre più incerto” (p. 556), diventava sempre più chiaro che le questioni sociali “fungevano da discriminante tra la destra e la sinistra”, mentre una stirpe di nuovi populisti cominciò a costruire una nuova coalizione politica attorno al risentimento della classe media” (p. 570).
Tali condizioni riportarono in auge i temi sollevati dall’American Indipendent Party di G. Wallace, grazie anche a P. Weyrich, ideologo dell’allora nuova destra, che si batteva per un “conservatorismo fondato su base morale” ovvero “contro il laissez-faire, contro i cartelli del petrolio, dell’acciaio, delle assicurazioni e delle banche” che già dominavano la politica americana. In una sentenza dal sapore sorprendentemente oracolare, l’autore pare quasi riferirsi al nostro tempo. Riferendosi ai simboli della famiglia, della bandiera e del ritorno del sogno americano, Lasch pare quasi anticipare il motto trumpiano “make America great again”, sottolineando che i Repubblicani, “una volta affermato il loro diritto di richiamarsi alla tradizione populista”, sarebbero riusciti a vincere “un’elezione presidenziale dopo l’altra con monotona regolarità” (p. 574).
Il lungo excursus di C. Lasch sulla storia della cultura e della politica americana - dopo aver messo in discussione le ambivalenze di numerose scuole di pensiero nei confronti del mito del progresso (dai marxisti, alla nascente sociologia, a Freud ecc.) - giunge a una posizione altrettanto sfumata. Qualcuno l’ha definita “conservatorismo di sinistra”, oppure potremmo considerarla una sorta di neocomunitarismo senza razzismo. Ma così facendo egli ha anche fornito una base di legittimazione teoretica a ciò che nel mio pamphlet La mentalità neototalitaria ho definito come la “sindorme di Dogville”, ovvero l’emersione del lato oscuro del glocale che prepara la rivincita delle comunità terribili sulla scena della politica internazionale. Pare dunque che il lungo viaggio intellettuale dello studioso non abbia risolto la dicotomia tradizione vs progresso e come nel videoclip dei Talking Heads sopracitato, la comunità da cui si è partiti all’inizio del viaggio si ritrova alla fine ancora unita ma spaesata, senza punti di riferimento e ancora sperduta lungo la strada per il nessun-dove.
L’analisi
Berlusconi e Di Maio sul lettino
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 20.02.2018)
La scelta politica, compresa quella che si esprime nel voto, non dipende mai solamente da valutazioni razionali, ma incorpora sempre il carattere tumultuoso della spinta pulsionale. E in una congiuntura difficile per il nostro Paese come quella che stiamo attraversando questa spinta è fortemente sollecitata.
Il fenomeno populista, nelle sue diverse facce, esprime l’essenza di questo dominio della pulsione sulla dimensione critica della ragione. La promessa di incantesimi di ogni genere che la campagna elettorale moltiplica quotidianamente non è un fenomeno tipicamente populista? Enunciare soluzioni magiche e semplificate di fronte a problemi complessi non è appellarsi alla “pancia” del popolo più che alla sua ragione critica?
Il ritorno spettrale del berlusconismo e la bipolarità politica del grillismo, che alterna con una frequenza impressionante cambi di rotta radicali su questioni decisive, sono ai miei occhi due sintomi inquietanti di una politica che si lascia interamente guidare dalla spinta pulsionale. Il berlusconismo appare come un chiaro residuo (immortale?) del discorso della pubblicità, dell’azione porta a porta dell’imbonitore, del pasticcere di cui narra Platone nel Sofista che di fronte a dei piccoli pazienti doloranti, anziché prescrivere, come farebbe un medico coscienzioso, un rimedio restrittivo e impopolare, promette accessi illimitati a prelibatezze di ogni genere e specie. In questo modo egli guadagna un consenso facile mettendo però a rischio la salute dei suoi piccoli clienti.
Nel fenomeno del berlusconismo tutto sembra ripetersi uguale a se stesso a dispetto della mutazione dei tempi e dei problemi. La formula resta sempre valida: evocare il pericolo comunista, criticare l’azione vessatoria dello Stato, evocare l’invasione apocalittica dei barbari, promettere soluzioni miracolose che sono in realtà criticate da ogni valutazione tecnica ( vedi, per fare un solo esempio, la cosiddetta “ tassa piatta”).
Solo la maschera mummificata di questo leader monco - reso dalla Legge incandidabile - enuncia in modo inequivocabile la verità che le sue parole vorrebbero nascondere: il tempo esiste e lascia dei segni e questi segni parlano di un tramonto fatale e inaggirabile.
Resta impressionante constatare come la tradizione liberale del centrodestra italiano si regga interamente sul fantasma della potenza incorruttibile del suo leader, come se la sua politica si riducesse alla custodia di una sorta di talismano ipnotico senza il quale di questo attuale centrodestra non resterebbe nulla se non le urla scomposte delle sue componenti più razziste e xenofobe. La difesa liberale dell’individuo e dei suoi insopprimibili diritti si è tristemente ribaltata nell’idolatria di un solo individuo e dei suoi poteri carismatici, ovvero in una vera e propria psicologia delle masse.
Il polo grillino è invece afflitto da una patologia bipolare sempre più evidente. Anche in questo caso bisognerebbe valutare attentamente l’incidenza della pulsione del loro leader (Grillo, non Di Maio) su questa oscillazione umorale che caratterizza la politica del M5S: non c’è una sola decisiva questione sulla quale questa oscillazione non appaia nei suoi caratteri più grotteschi.
L’esempio dell’uscita o meno dall’euro e quello della cosiddetta democrazia interna (sospesa alla regia occulta di una Srl) sono, sempre ai miei occhi, inequivocabili. Bipolarismo inquietante che coinvolge innanzitutto il suo candidato premier.
Senza troppi giri di parole il mio mestiere di psicoanalista mi impone una domanda. Non quella consueta che da più parti viene rivolta a Di Maio, ovvero: come può un soggetto che non ha maturato nella sua vita competenze specifiche su nulla, che non ha mai lavorato in una istituzione, che non ha mai avuto incarichi di governo ( di una azienda, di una città, di una qualunque cosa pubblica) essere candidato alla guida di un Paese di sessanta milioni di abitanti?
La mia domanda è un’altra e tocca un piano più pulsionale. Quale assenza di giudizio critico su se stessi comporta l’aver accettato questa candidatura? Lo sgomento di fronte all’ipotesi di Di Maio premier non è per me tanto relativo alla sua incompetenza tecnica, quanto al gesto personalissimo dell’aver accettato questa investitura. Quanti accetterebbero un incarico di questa rilevanza senza avere la più pallida idea di cosa significhi governare la cosa pubblica? È questa assenza di consapevolezza dei propri limiti che fa davvero tremare i polsi. È il polo chiaramente maniacale o, se si preferisce, puramente adolescenziale del M5S. Un fantasma di onnipotenza e di purezza totalmente sganciato dalla realtà. Mi chiedo: ma avrà avuto o avrà almeno una crisi di panico, un momento di vertigine o di angoscia? Glielo auguro perché sarebbe il segno che quell’onnipotenza maniacale che egli, così diverso nel sembiante, sembra aver ereditato dal suo fondatore, in realtà, non lo assorbe integralmente.
Lo stato di salute di Trump
Un analista alla Casa Bianca
Sicuramente il potere può corrompere le persone e può amplificare delle patologie psichiche sottostanti, perché si perde la possibilità di riconoscere i propri limiti e di valutare adeguatamente la realtà
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 09.01.2018)
In questi mesi sono stati sollevati ripetuti interrogativi sull’equilibrio mentale di Donald Trump, soprattutto ora in seguito alla pubblicazione del libro Fire and Fury che sembra aver scoperchiato il mondo della White House. Emerge, ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, la figura di un presidente totalmente assorbito da se stesso, impulsivo, privo di empatia, ossessivamente concentrato su fatti irrilevanti e pronto ad accogliere teorie cospirative. Ma la risposta di Trump non si è fatta attendere, ancora una volta ha magnificato se stesso dicendo che è «un genio molto stabile ».
La pericolosità di Donald Trump non solo viene riconosciuta da una parte dell’opinione pubblica e dei media, ma anche da un gruppo di psichiatri americani che hanno pubblicato recentemente un libro The dangerous case of Donald Trump ( Il caso pericoloso di Donald Trump, St. Martin’s Press, 2017) curato dalla psichiatra dell’Università di Yale, Bandy Lee, che ha raccolto gli interventi di 27 psichiatri.
Prima di presentare il libro devo premettere che sono molto scettico quando gli psichiatri fanno delle diagnosi psichiatriche su figure pubbliche riferendosi ai loro comportamenti come vengono riportati dai media, senza aver avuto la possibilità di intervistarle direttamente. Ero ugualmente molto critico quando in passato qualche collega psichiatra riteneva che Silvio Berlusconi avesse una personalità narcisistica senza mai averlo incontrato. E d’altra parte questa diagnosi è stata ampiamente disconfermata dai fatti perché Berlusconi, a differenza di chi presenta un disturbo narcisistico, è stato in grado di affrontare un lungo periodo di sconfitte politiche e personali senza andare incontro ad un crollo psicologico.
Per ritornare al libro su Donald Trump, gli psichiatri che ne sono i coautori riconoscono la problematicità di fare una diagnosi psichiatrica in absentia del diretto interessato, citando la regola di Goldwater dell’American Psychiatric Association. Non è etico, secondo questa regola, fornire pareri psichiatrici su personaggi pubblici che non siano stati intervistati e che non abbiano autorizzato la pubblicizzazione.
Gli psichiatri e gli operatori della salute coinvolti in questo libro-denuncia sono tutti consapevoli di questo limite etico e pertanto esprimono dubbi nel fare una diagnosi di Donald Trump, ma propongono di valutare la pericolosità della situazione, che non richiederebbe una diagnosi, quantunque possa essere sostenuta da comportamenti irregolari. Questa è la posizione di Judith Herman che insegna Psichiatria presso l’Harvard University, famosa in tutto il mondo per i suoi studi sulle conseguenze dei traumi, che tuttavia ritiene che in una situazione di emergenza per la sicurezza sociale, come quella attuale negli Usa, si possa infrangere il vincolo e si possa denunciare la situazione.
Sicuramente il potere può corrompere le persone e può amplificare delle patologie psichiche sottostanti, perché si perde la possibilità di riconoscere i propri limiti e di valutare adeguatamente la realtà. Questo è il tema centrale di molte tragedie di Shakespeare, come ad esempio i drammi Riccardo II e Riccardo III, in cui si pretendeva che il potere regale discendesse direttamente dalla volontà divina, che santificava la grandiosità e l’onnipotenza dei sovrani a cui nessuno si doveva opporre.
Leggendo i vari contributi del libro emerge la convinzione che Trump abbia una personalità pericolosa, così preso da sé stesso e dalla propria megalomania, incapace di controllare i propri impulsi e di valutare le possibili conseguenze dei propri comportamenti. Molti comportamenti di Trump sono a rischio come avveniva per molti pionieri della corsa all’oro in America, ma se quelli erano comportamenti individuali o di gruppo che venivano riassorbiti da un tessuto sociale che li conteneva, oggi il pericolo è ben più grande.
Come viene discusso nella terza sezione del libro, Trump può creare un clima di allarme nel paese, creando una forte divisione fra i suoi sostenitori e gli oppositori e suscitando odi ed intolleranze soprattutto nei confronti degli immigrati più recenti, come già era avvenuto alla fine del diciannovesimo secolo e di cui il film di Scorsese Gangs of New York ha mostrato la drammaticità.
Ma forse, come viene illustrato in una vignetta del Financial Times, i bottoni nucleari nelle mani di Trump e del suo nemico, il leader nordcoreano, dovrebbero essere sostituiti da bottoni che cuciano la bocca di entrambi. Ma questo non è un compito psichiatrico, è un impegno politico che riguarda tutti noi e soprattutto gli elettori americani.
*
Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista, è professore onorario dell’Università La Sapienza di Roma.
Il suo libro più recente è La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età (Mondadori, 2017)
L’intenzione di raggirare chi ascolta parte dalla scelta delle parole (da usare e da bandire). Trump insegna
Parole proibite
di Sara Antonelli (Il Mulino, 05 gennaio 2018)
Lo scorso 15 dicembre una fonte anonima ha rivelato al «Washington Post» che in una riunione tenutasi il giorno precedente al Center for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta, alcuni funzionari avrebbero chiesto agli analisti impegnati a compilare il budget 2019 di astenersi dall’utilizzare sette parole: «vulnerable», «entitlement», «diversity», «transgender», «fetus», «evidence-based» e «science-based». In qualche caso, tuttavia, agli analisti sarebbero state proposte soluzioni alternative.
Al posto di «evidence-based» e di «science-based», ad esempio, pare sia stato suggerito loro di utilizzare la frase «Cdc bases its recommendations on science in consideration with community standards and wishes». In altre parole, le raccomandazioni del Cdc prendono in considerazione sia i risultati scientifici sia i principi e le richieste della comunità. Come se scienza e opinioni fossero sullo stesso piano.
Nonostante un portavoce del Dipartimento della salute statunitense (Hhs), l’organo dal quale dipende il Cdc, si sia immediatamente affrettato a dichiarare che la notizia era stata riportata in modo errato; e nonostante la direttrice dello stesso Cdc abbia affermato che non esistono parole proibite, ce n’è abbastanza per allarmarsi. Sia perché le due smentite non coincidono (la lista di parole proibite esiste oppure no?) sia perché, se esistesse, secondo molti scienziati e ricercatori statunitensi questa avrebbe un unico scopo: cancellare intere categorie di persone, di malattie, e di politiche di prevenzione e assistenza dal prossimo bilancio federale. Secondo altri - la «National Review» ad esempio - si ricorrerebbe alla lista solo per mitigare l’impatto che parole come “transgender” avrebbero sui membri più conservatori del Congresso. Detto altrimenti, ciò che a molti appare una censura sarebbe un modo per placare gli animi dei repubblicani e promuovere l’approvazione del budget in tempi brevi.
Se lo scopo della presunta lista fosse davvero questo, però, si direbbe che lo Hhs e il Cdc (oggi guidati entrambi da funzionari nominati dal presidente Donald Trump) considerino i congressmen repubblicani non solo esaltati, ma anche ingenui a sufficienza per essere circuiti con un’operazione di cosmesi linguistica. Questa motivazione non appare convincente per diverse ragioni. La più rilevante per il nostro discorso è la seguente: possibile che la lista sia stata compilata per ammorbidire proprio coloro che della cosmesi linguistica a scopi di propaganda politica sono stati i maestri?
Negli ultimi vent’anni i repubblicani hanno utilizzato la lingua con grande sagacia. Il linguista George Lakoff, per esempio, lo ricordava ai lettori di «Repubblica» in un’intervista del 2016 dedicata alla campagna presidenziale in corso. In quell’occasione Lakoff ha esemplificato la strategia comunicativa del Partito repubblicano citando, tra gli altri, il caso di «riscaldamento globale». Il tramonto di questa espressione in favore di «cambiamento climatico», ha spiegato Lakoff, non è stato casuale, bensì frutto di una scelta (elaborata dal linguista cognitivista Frank Luntz), fondata su considerazioni di natura sia terminologica sia concettuale: con un cambio di parole apparentemente impercettibile siamo stati incoraggiati a trasformare un fatto innescato dai nostri comportamenti errati (il riscaldamento) in un inevitabile processo naturale (il cambiamento). I presupposti e le aspettative politiche che derivano dal cambio di frame sono evidenti: se è naturale perché opporsi?
Seguendo Lakoff, diventano più chiari sia gli scopi della presunta lista di parole proibite emanata dal Cdc sia i comportamenti linguistici del presidente Donald Trump.
Come parla Trump? Una ricerca presentata all’Università di Birmingham nel luglio del 2017 ha mostrato che l’odierno presidente degli Stati Uniti si affida a parole e frasi molto brevi, a espressioni e costruzioni prevedibili, a un vocabolario ristretto in cui abbondano i verbi e scarseggiano gli indicatori primari del ragionamento complesso: i sostantivi. A fine anno il sito dictionary.com ha contribuito a definire la questione con una classifica dei dieci termini più usati dal presidente statunitense, rilevando così che nella lingua di Trump regnano gli aggettivi superlativi.
Riassumendo: la lingua di Trump esprime concetti molto semplici con un’enfasi e un coinvolgimento che vengono percepiti come indici di sincero trasporto e spontaneità. Nulla che non si sia già visto altrove. E tuttavia, forse perché si tratta del presidente degli Stati Uniti e forse perché l’oratoria è stata da sempre un elemento essenziale del progetto politico statunitense, è sorprendente che una personalità politica linguisticamente tanto povera e prevedibile abbia mantenuto intatta la fiducia del 35% dei votanti dopo un anno che alla gran parte degli osservatori appare disastroso.
Per un’analisi più approfondita degli aspetti linguistico-cognitivi che stanno dietro a questa tenuta è opportuno rivolgersi proprio ai lavori di Lakoff. Qui basterà ricordare due eventi eloquenti dell’ultimo anno. Come «consolare» i suprematisti bianchi all’indomani dei violenti scontri avvenuti a Charlottesville dello scorso agosto, in cui un manifestante suprematista ha ucciso una manifestante antirazzista? Affermando che la responsabilità dei gravi fatti accaduti in città andava ascritta a entrambe le fazioni e che dunque anche la alt-left ha le sue colpe. Peccato che la alt-left non esista. E come condannare gli atleti neri che non si alzano in piedi quando in campo viene suonato l’inno nazionale? Definendoli degli ingrati. Dopo tutto quel che noi (i bianchi) abbiamo fatto per loro (i neri).
Il progetto politico di Donald Trump è reboante e al contempo sottile, tale e quale al suo stile linguistico-comunicativo. Nonostante i twitter compulsivi suonino a molti osservatori infantili, sgraziati e inquietanti, Trump sa come dire le cose giuste al momento giusto e soprattutto alle persone giuste (il suo 35%). E ha dimostrato di non aver bisogno delle imbeccate di Steve Bannon. Conosce il suo elettorato a sufficienza per centrare il bersaglio da solo.
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA... *
____________________________________________________________________
Le idee
La vergogna è morta
Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi
di Marco Belpoliti (l’Espresso, 15 dicembre 2017)
Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.
* * *
Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta.
La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
* * *
L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
* * *
Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano.
Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.
* * *
Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora.
Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA. Sul filo di una nota di Tullio De Mauro
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis (la Repubblica, 12.12.2017)
Il populismo è fin troppo popolare. La parola - se non anche la cosa - rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie. Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione - anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno. Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.
Ritorna Berlusconi l’alleato necessario
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 13.11.2017)
IL successo di Nello Musumeci alle Regionali in Sicilia ha posto in evidenza la debolezza del Centrosinistra. Ma anche, ovviamente, la capacità competitiva del Centrodestra. Il diverso rendimento dei due poli si spiega con la differente capacità di coalizione. Prima causa della sconfitta del M5s, irriducibile a ogni alleanza. Mentre sull’altro versante, l’accordo fra il Pd e le diverse formazioni di Sinistra è risultato impossibile. Questa situazione non appare condizionata da specifici fattori territoriali.
MA DETTATA, piuttosto, da difficoltà sostanziali, che riguardano i rapporti tra i leader e le forze politiche di quest’area. Anche il centrodestra appare segnato da rilevanti differenze interne: di progetto e di strategie. Eppure, le distanze tra FI, Lega (NcS: Noi con Salvini), FdI e la stessa UdC, per quanto profonde, non hanno prodotto fratture insuperabili. Da ciò il successo del centrodestra. Che costituisce un precedente significativo. Perché delinea uno scenario che potrebbe riprodursi altrove, soprattutto nel Nord, alle prossime elezioni politiche. Tanto più quando entrerà in vigore la nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum (bis), che prevede la possibilità di presentare candidati di coalizione nei collegi uninominali. Diventa, così, probabile l’eventualità che il modello siciliano si riproponga altrove. Nei collegi e in prospettiva nazionale. Con effetti analoghi. Per gli analoghi tipi di relazione fra i partiti. Sulla diversa capacità di coalizione gravano diverse cause. Politiche, ma anche “personali”. Che hanno favorito, fin qui, e potrebbero avvantaggiare - ancora soprattutto - il centrodestra. Fra le altre, vale la pena di sottolinearne una, particolarmente evidente e influente. Il ruolo e la presenza di Silvio Berlusconi.
È infatti lui, il Cavaliere, il principale artefice dell’intesa in Sicilia. E del progetto di coagulare gli altri principali pezzi della destra, ma anche del centro. Per prima: la Lega. Quindi i FdI di Giorgia Meloni. Ma anche l’Udc. Mentre lo stesso Alfano tenta di accodarsi alla compagnia, per non rimanere appiedato - ed escluso - nella prossima legislatura. Silvio Berlusconi, peraltro, è anche l’interlocutore “necessario” per il PdR, il Pd di Renzi. Nella prospettiva di confermare e allargare il programma di riforme avviato negli ultimi anni dal governo. Con il sostegno essenziale di Berlusconi. A partire dal gennaio 2014, quando proprio Renzi e Berlusconi siglarono il Patto del Nazareno. Spezzato e concluso, nel febbraio 2015, dall’elezione di Sergio Mattarella. Ma oggi, meglio: domani, quell’intesa potrebbe divenire nuovamente necessaria. Nella prospettiva - molto realistica - di un Parlamento senza alcuna maggioranza possibile. Perché nessun Partito, nessun Non-partito, nessun Polo (e Non-Polo) pare in grado di affermarsi, alle prossime elezioni. Da solo. E soprattutto di governare. Da solo.
Così, Berlusconi diventa l’alleato necessario, seppure non gradito, per fare le riforme. Istituzionali, ma, ancor prima, economiche, necessarie al Paese per “rimanere in Europa”. L’unico in grado di “coalizzare” - quantomeno, “aggregare” - il centrodestra. O, se si preferisce, le destre di diverso orientamento. Per cercare l’intesa con il centrosinistra e, anzitutto, con il PdR.
La centralità ritrovata - ma, in fondo, mai perduta - di Berlusconi può apparire singolare. Perché il suo partito, FI, attualmente è stimato circa il 14%. Un paio di punti sopra, rispetto a un anno fa. Ma quasi 3 in meno, rispetto alle europee del 2014. E oltre 7, rispetto alle politiche del 2013. Senza risalire al periodo 2008-2009, quando il Pdl si attestò intorno al 35-37%. Mentre Berlusconi stesso, ha visto la fiducia nei suoi confronti, come leader, attestarsi al 30%. In risalita dopo l’uscita dal governo, nel 2011. Ma sostanzialmente stabile, negli ultimi anni.
In altri termini, Silvio Berlusconi si è imposto come tessitore politico proprio mentre lui, “personalmente”, ma soprattutto il suo partito “personale” appaiono deboli. Comunque e sicuramente: “più” deboli che in passato.
Tuttavia, la coincidenza fra i due dati non appare “casuale”. Anzi, in qualche misura è “causale”. Berlusconi, in altri termini, diventa un alleato possibile anche per gli altri, gli avversari politici, perché è più debole che in passato. Personalmente e politicamente.
Perché lui, per primo, ha bisogno di contare, sulle scelte di governo. Per ragioni politiche, personali. E per interessi aziendali. In secondo luogo, nessun soggetto politico, conviene ripeterlo, è in grado di governare da solo. Ma l’area di Centro-Destra, dove si collocano, FI, Udc, Lega e FdI, oggi appare il Polo che attrae maggiori consensi. Oltre un terzo dei voti. È, inoltre, il accreditato nella competizione per conquistare i collegi del Nord.
Ma Berlusconi è, sicuramente, l’unico a poterlo tenere insieme. L’unico in grado di trasformarlo da un’area confusa in un Polo effettivo. Non per caso, intercetta le simpatie dei due terzi degli elettori che si collocano a Centro- destra. Ma convince anche la maggioranza di quelli che si dicono di Destra. Senza “mezzi termini”. Berlusconi, infine, negli ultimi anni, ha visto crescere la fiducia nei suoi confronti presso gli elettori di Centro, ma anche di Centrosinistra.
Per questo oggi si propone, e può agire, come un “mediatore”. Mentre ieri era la bandiera di una “parte”, più che di un partito. E ciò segna un passaggio e un cambiamento significativo, rispetto alla nostra storia recente, segnata dalla sua presenza. Perché, dal 1994 fino a ieri, egli ha segnato la principale frattura del nostro sistema politico. Di più: del sentimento politico del nostro Paese. L’alternativa fra berlusconismo e anti- berlusconismo, infatti, ha rimpiazzato - in parte assorbito - il muro dell’anti-comunismo. Oggi neppure Berlusconi è in grado di erigere muri, intorno a sé. Per volontà e/o debolezza propria. E degli altri. Non importa. Ma il suo muro è divenuto una tela. Così, un’epoca della nostra storia è finita. E non è chiaro cosa ci attenda domani. Anzi: oggi stesso.
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
Un team di psichiatri valuti Trump
di Claudio Giua *
I muri ai confini, le espulsioni di massa, i miliardi di dollari agli arsenali militari, la schizofrenia sul ruolo della Russia, la cacciata dei media fuori linea, la controriforma sanitaria. Bastano i fatti politici a definire la follia trumpiana. Ma c’è dell’altro. È forse è l’ora di prenderlo in considerazione.
In "Oltre il Giardino", film di Hal Ashby del 1979, un presidente degli Stati Uniti a fine mandato parla estasiato di Chance il Giardiniere, misterioso personaggio spuntato dal nulla sul palcoscenico di Washington: "Pochi uomini nella vita pubblica hanno il coraggio di non leggere i giornali, nessuno ha il fegato di ammetterlo". Non sa che se l’oggetto della sua ammirazione mai ha letto un articolo, non è per scelta: è analfabeta. In compenso, Chance guarda tanta tv, dunque sarà lui, intuiamo nell’ultima scena, il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Quanta preveggenza nella sceneggiatura di Jerzy Kosinski: nemmeno Donald Trump legge i giornali e si dice non abbia mai finito un libro. Se li fa riassumere a voce, così come i report quotidiani dei ministeri e dei servizi segreti. Anche lui sta davanti al televisore giorno e notte. In più, a surclassare Kosinski in fantasia, Trump è stato davvero eletto presidente dal popolo americano.
Il gioco delle similitudini può spingersi avanti. Chance ha comportamenti eccentrici che vengono scambiati per lampi di intelligenza e lo rendono simpatico, quasi irresistibile. "The Donald" ne sfoggia altrettanti, pur senza innescare alcuna empatia. Sia Chance sia Trump sono coinvolti in episodi che indicano la presenza di un malessere irrisolto. Un paio di esempi forniti dal realissimo neopresidente. L’8 febbraio, appena insediato, minaccia i grandi magazzini Nordstrom perché hanno annunciato la rinuncia alla linea di intimo firmata da Ivanka, la first figlia prediletta.
Sabato 18 febbraio, parlando alla folla dell’Orlando Melbourne International Airport, dice: "Avete visto cos’è accaduto la scorsa notte in Svezia. Chi l’avrebbe creduto? In Svezia! Ne ha accolti in grande quantità (di immigrati ndr) e ora ha problemi che non s’immaginava fossero possibili". Basta un check: nella notte precedente nel regno di Carlo XVI Gustavo tre fatti si sono guadagnati un titolo nei tg, un tentato suicidio con il fuoco, un mortale incidente sul lavoro, l’inseguimento di un tossico alla guida di una Peugeot nel centro di Stoccolma. Nulla in grado d’attrarre l’attenzione della più curiosa casalinga di Norrköping. Invece, insonne, Trump nella notte tra venerdì e sabato incappa su Fox News, la rete che segue ossessivamente, nel breve trailer di un reportage "freddo" sulle tensioni tra immigrati e governo in Svezia. Scambiandolo per una vicenda in corso, lo cita a sproposito nel discorso di metà pomeriggio.
Di sospetti problemi cognitivi, relazionali e comportamentali di Trump si discute da molto tempo. Durante le primarie, il suo staff aveva ammesso off-the-record che il candidato repubblicano è affetto da gravi problemi di concentrazione. Da più parti sono state proposte verifiche mediche. Ovviamente, con il passare del tempo le richieste sono raddoppiate.
L’edizione americana di Huffington Post ha raccontato della lettera mandata il 29 novembre a Barack Obama da tre psichiatre, Judith Herman di Harvard, Nanette Gartrell e Dee Mosbacher, entrambe di San Francisco. Le loro analisi sono impietose: "Siamo molto preoccupate riguardo la stabilità mentale del presidente eletto. Gli standard professionali non ci permettono di avventurarci in una diagnosi di una persona pubblica che non abbiamo personalmente valutato.
Tuttavia, il racconto dei suoi sintomi di instabilità mentale - eccessività, impulsività, ipersensibilità alle offese e alle critiche e apparente incapacità di distinguere tra fantasia e realtà - ci conduce alla questione dell’adeguatezza di Trump rispetto alle immense responsabilità connesse alla sua carica". La conclusione spaventa: "Raccomandiamo che riceva una piena valutazione medica e neuropsichiatrica da parte di un team imparziale". L’ipotesi è che il presidente sia affetto da disordini della personalità di natura narcisistica.
Dopo l’Huffington, il tema viene affrontato, in un crescendo del quale forse nessuno ha avuto il coraggio d’informare Trump, dal New York Times, da Forbes, da UsNews e da altre testate, sempre con attenzione a non esagerare nei toni.
Tanta cautela trova ragione nella formula usata dai tre psichiatri: "...gli standard professionali non ci permettono di avventurarci in una diagnosi su una persona pubblica che non abbiamo personalmente valutato". E’, questa, una storia che parte da lontano, dalla campagna elettorale del 1964, quando il guerrafondaio e razzista Barry Goldwater, secondo solo a Trump in quanto a estremismo di destra, ottenne la nomination repubblicana (sarà sconfitto dal democratico Lyndon Johnson).
Un controverso periodico, il Fact, chiese allora a 12.356 psichiatri se ritenevano che il candidato conservatore fosse "psicologicamente inadatto" alla presidenza. Tra quanti risposero, prevalsero i no. Tuttavia, dopo quel sondaggio l’organizzazione professionale degli psichiatri, l’APA, stabilì che dare giudizi di sullo stato mentale di personaggi pubblici fosse eticamente inaccettabile per i propri associati. Venne creato ad hoc un codice che fu chiamato "Goldwater Rule". Da qui la cautela con la quale tutti i media, anche nel caso di Trump, affrontano l’argomento.
La CJR, autorevole rivista della facoltà di giornalismo della Columbia University, approccia il problema con un altro taglio: "Evitare le domande sulla salute mentale di Trump è un tradimento della fiducia pubblica". Insomma, la questione non è più eludibile né da parte della politica americana né dai media. Non ci sono codici deontologici che tengano. Bisogna accertare se Trump è psichicamente instabile. Se no, bene. Se sì, il Congresso e il Senato dovranno occuparsi della faccenda, si spera senza, per questo, trovarsi assediati dai milioni di americani che vedono nel nuovo presidente il loro campione.
22 Feb 2017 13.37
Gli attacchi di Donald Trump contro i giornalisti riguardano tutti noi
di Pierre Haski *
Un lontano predecessore di Donald Trump alla Casa Bianca, il terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, ha scritto questa frase spesso citata e che non smette mai di stupire: “Preferirei vivere in un paese che ha dei giornali e nessun governo piuttosto che in un paese che ha un governo e nessun giornale”.
Jefferson si trovava a Parigi quando scriveva queste righe, in un momento preciso: viaggiava in Europa nel 1787-1788, alla vigilia della rivoluzione francese. E le sue osservazioni sulle società dispotiche e profondamente ineguali dell’epoca sono piene di insegnamenti.
Duecentotrent’anni dopo, Donald Trump, divenuto il 45º presidente degli Stati Uniti, twitta che i “fake news media”, ossia i mezzi di comunicazione che producono “false informazioni” - e in particolare il New York Times e la Nbc, la Cbs, la Abc e la Cnn, cioè i principali canali televisivi americani - “sono nemici del popolo americano”.
Che differenza tra le due frasi! È successo qualcosa di importante se un presidente degli Stati Uniti ha maturato una tale ostilità nei confronti dei mezzi d’informazione da spingere uno dei suoi rivali in seno al partito repubblicano, il senatore ed ex candidato alla presidenza John McCain, a commentare velenosamente: “È così che nascono le dittature”.
La vera strategia di Trump
Il rapporto confuso del presidente americano con i fatti e la verità è stato abbastanza documentato durante la campagna elettorale e ancora, a più riprese, nel corso del suo primo mese alla Casa Bianca. Ultimo esempio barocco, la storia dell’attentato in Svezia che non c’è mai stato.
Ricordiamo i fatti: grande consumatore di televisione, il presidente vede su Fox News, il contestato canale di Rupert Murdoch che secondo lui non è incluso nella lista dei “nemici del popolo americano”, un documentario di denuncia sull’aumento della criminalità in Svezia, un paese che ha accolto un gran numero di profughi negli ultimi due anni. Il giorno dopo, davanti ai suoi elettori, il presidente rievoca “quello che è successo ieri sera in Svezia” e aggiunge perfino “sì, in Svezia, chi l’avrebbe detto?”. Il problema è che la sera prima non era accaduto niente in Svezia, come hanno commentato divertiti gli internauti svedesi, provocando perfino un passo diplomatico di Stoccolma.
L’esempio però la dice lunga sulla strategia, e non solo sull’incoerenza, messa in campo da Donald Trump sin dal primo giorno. Già all’indomani del suo insediamento, durante una visita alla Cia, dichiara che “i giornalisti sono le persone più disoneste della terra”. Un modo per delegittimare i mezzi d’informazione e di ostacolare il loro ruolo di “contropotere” non istituzionale nel sistema democratico americano e nel sistema delle democrazie liberali di tutto il mondo.
I giornalisti rifiutano di imbavagliarsi, né lo fa quella parte dell’opinione pubblica attaccata alla necessità del sistema di controlli e contrappesi (check and balance) che determina l’equilibrio di poteri previsto dai padri fondatori degli Stati Uniti. Ma un’altra parte dell’opinione pubblica, quella che ha votato Trump e gli resta fedele nella tempesta, applaude e gioisce.
Questo divario profondo si manifesta in continuazione: quando l’America liberale piange e soffre, l’America “trumpiana” ottiene la sua vendetta, anche a costo di calpestare alcuni valori cardine della società americana.
Questa profonda guerra culturale non è nuova, ma ha acquisito un’ampiezza inedita dopo che la Casa Bianca ha “vacillato”, diventando il quartier generale degli “illiberali” ostili a qualsiasi contropotere, mediatico o giudiziario che sia.
Due Americhe contrapposte
Il fossato diventa sempre più profondo: il New York Times, bersaglio privilegiato del presidente e del suo clan, non smette di ammassare numeri record di abbonamenti di cittadini desiderosi di preservare uno spazio di informazione professionale e di qualità, ma la Casa Bianca favorisce lo sviluppo di piattaforme conservatrici dall’etica discutibile, come il sito Breibart News in passato diretto da Stephen Bannon, oggi consigliere speciale del presidente, o The Gateway Pundit, un blog conservatore all’origine di numerosi pettegolezzi contro Hillary Clinton e che ha appena ricevuto l’accredito ufficiale dalla Casa Bianca.
Sono due Americhe contrapposte, che non attingono più alle stesse fonti per le loro informazioni e dunque non hanno più accesso agli stessi “fatti” per stabilire il loro punto di vista o valutare l’azione del governo.
Non si tratta di un fenomeno puramente americano. In tutte le società occidentali il rapporto dei cittadini con i mezzi d’informazione si è guastato. Negli Stati Uniti come in Francia o nella maggior parte dei paesi europei, tutti i sondaggi di opinione da trent’anni a questa parte illustrano questa erosione della credibilità dei mezzi d’informazione, sempre più assimilati all’élite politico-amministrativa screditata.
Donald Trump e i populisti europei giocano dunque su un terreno favorevole alla delegittimazione dei contropoteri, forse a ragione, perché questi contropoteri non sempre sono stati all’altezza, non hanno giocato con sufficiente determinazione il loro ruolo a fronte dell’aumento delle disuguaglianze, dell’importanza assunta dalla finanza, degli sconvolgimenti economici e sociali degli ultimi decenni.
Lo sviluppo di internet ha con tutta evidenza favorito questo fenomeno, sottraendo ai mezzi d’informazione tradizionali il loro monopolio della parola. Ma proprio quando l’utopia digitale consentiva di sperare in una maggiore democratizzazione, in un più ampio e salutare pluralismo, è emersa la confusione, l’interferenza dei messaggi e, peggio ancora, la manipolazione attuata da gruppi organizzati. Una battaglia è stata di sicuro persa, ma forse non è ancora persa la “guerra dell’informazione”.
Accusando il New York Times, vessillo del giornalismo tradizionale, di essere a sua volta un mezzo d’informazione che produce “bufale”, Donald Trump priva questo giornale del diritto di definire i “fatti”: se i fact-checker, coloro che verificano i fatti, sono a loro volta dei “bugiardi”, non esiste più un arbitro, né un punto di riferimento assoluto.
È questa la confusione che creano Donald Trump e quelli che, come ha fatto François Fillon in Francia per uscire dal groviglio del “Penelope gate”, gli si accodano su questa strada di guerra al giornalismo.
Le conseguenze sono pesanti Nelle società democratiche, questa confusione avvantaggia solo quelli che sfruttano la perdita di punti di riferimento per far avanzare la loro agenda antidemocratica. Nei regimi autoritari, esonera i leader che si convincono di potersela prendere senza alcun complesso con la libertà di informazione poiché tanto ormai l’esempio viene addirittura dall’America... e lo fanno senza mezze misure.
I mezzi d’informazione non possono accontentarsi di comportarsi da vittime di una ingiusta vendetta del potere: sta a loro riconquistare la fiducia perduta di una buona parte di cittadini su entrambe le sponde dell’Atlantico. Questo può avvenire solo con mezzi d’informazione vigorosi, cosa sempre più difficile per la diminuzione delle loro disponibilità economiche in questo periodo di crisi e di profondi mutamenti.
Questo non riguarda solo i giornalisti, ma tutti i cittadini che vogliono preservare non tanto un sistema economico e sociale ingiusto, ma uno spazio di libertà e soprattutto di libera scelta fondato su informazioni verificate e non su pettegolezzi.
L’informazione è una cosa troppo seria, troppo necessaria per il funzionamento democratico, per essere lasciata solo in mano ai giornalisti, ma senza di loro non non ci sarà più informazione, come dimostra l’esempio fornito da Donald Trump e dal suo universo velato di menzogna e manipolazione.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
* Pierre Haski, L’Obs, Francia (Internazionale, 22.02.2017)
Politica della post verità o potere sovralegale?
di Ugo Morelli *
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni:
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo , il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti:
«Mia madre chiese: che cosa vogliono da te?
Risposi: paura.
Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
* DOPPIOZERO, 18 febbraio 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Elezioni USA 2016
Trump, la seconda profezia del regista Moore: “Non arriverà a fine mandato”
Il documentarista americano aveva già profetizzato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali. Ora è sicuro che il tycoon si dimetterà o subirà l’impeachment: "Un narcisista come lui è probabile possa infrangere la legge"
di F. Q. (12 novembre 2016)
“Donald Trump non porterà a termine il suo mandato”. E’ la seconda profezia di Michael Moore. Il regista, che a luglio aveva preannunciato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali, sostiene che si dimetterà o dovrà subire l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente, prima della fine del suo mandato. “Il motivo per cui non dovremo soffrire per 4 anni è il fatto che Trump non ha nessuna ideologia se non la sua - ha detto alla Msnbc il premio Oscar del 2003 con ‘Bowling for Columbine‘ - e quando ti trovi davanti a un narcisista come lui, è probabile che possa, anche involontariamente, infrangere le leggi”.
Moore è sicuro: “Trump infrangerà le leggi perché penserà solo a ciò che è meglio per lui”. Secondo il regista, la vittoria del tycoon si rivelerà una benedizione per la sinistra e i democratici non cadranno nella disperazione dopo il risultato inaspettato delle elezioni. “Resisteremo e ci opporremo - ha aggiunto Moore - sarà una resistenza massiccia, un milione di donne hanno già annunciato che marceranno nel giorno del suo insediamento. Sarà la più grande manifestazione mai organizzata”. Il documentarista americano è ormai una bandiera della sinistra schierata contro il miliardario newyorchese: a ottobre è uscito il suo ultimo film ‘Michael Moore in TrumpLand‘, una sorta di instant movie realizzato per contrastare la corsa alle presidenziali americane del candidato repubblicano.
Trump presidente, l’imprenditore-showman che ha distrutto i politici e convinto gli americani
Il ritratto - Miliardario di famiglia, ha sempre curato più l’immagine che la sostanza. Berlusconi tra i modelli, la politica come il luogo in cui appagare il suo ego smisurato. Le tante ombre della sua carriera non hanno minimamente pesato davanti al messaggio-chiave, quello che gli elettori atterriti dagli effetti della globalizzazione volevano sentirsi dire: "L’establishment vi ha tradito"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI *
NEW YORK - Il Silvio Berlusconi americano. Molti lo hanno descritto proprio così, anche fra i più brillanti analisti dei media Usa, compresi alcuni opinionisti repubblicani. E’ proprio da qui che bisogna partire. Donald Trump, appena eletto presidente degli Stati Uniti, non ha inventato quasi nulla - solo un brillante show televisivo, The Apprentice - ma ha studiato modelli vincenti. Berlusconi è uno di quelli, altri più locali sono Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger, Jesse Venture (in decrescendo).
Grande imprenditore, geniale uomo d’affari. O affarista mediocre, truffatore seriale, bancarottiere, evasore fiscale. Doctor Jekyll e Mister Hide, insomma. La verità su Trump è sempre sfuggente. Come immobiliarista, non si è fatto da solo: ha ereditato una discreta fortuna dal padre, e secondo le stime più accurate della sua fortuna (molto poco trasparente) non avrebbe aggiunto molta ricchezza a quella paterna. Le "torri" (grattacieli) Trump che si vedono a New York, a Las Vegas, in Florida, spesso non sono più sue da tempo. I grossi immobiliaristi newyorchesi lo considerano un protagonista minore del loro business. Lui però ha curato il "brand", lasciando il suo marchio anche in cose che non gli appartengono più. Ha investito nei casinò, ma anche lì ha avuto meno successo di quanto si creda, le bancarotte sono state numerose. Trump è presidente degli Stati Uniti: la notizia sui siti internazionali
Ha varie linee di "merchandising", abbigliamento o vini, sempre utili ad alimentare la sua notorietà ma non necessariamente generose di fatturato. Ha posseduto e gestito il marchio di diversi concorsi internazionali per reginette di bellezza, come Miss Universo: anche lì, più immagine che sostanza. Non è un Bill Gates né uno Steve Jobs, nel mondo del grande capitalismo americano è un microbo. Solo come showman ha dimostrato un talento innegabile. The Apprentice, il reality tv in cui lui selezionava aspiranti imprenditori, è stato uno dei più grandi successi della tv americana.
La politica lo ha sempre attirato. Probabilmente perché sentiva che poteva appagare il suo ego, il suo narcisismo smisurato. E’ stato democratico prima che repubblicano, ha frequentato i Clinton e tutti i notabili del partito democratico newyorchese. Ha capito da tempo, però, che la sua fortuna poteva essere legata alla destra. Ne ha corteggiato le frange più radicali e razziste. Il suo vero ingresso sulla scena politica nazionale avviene quando lui si fa capo del movimento "birther": quattro anni fa, all’epoca della campagna elettorale del 2012, lui comincia ad accusare Obama di essere nato in Kenya, quindi ineleggibile, un usurpatore. La menzogna diventa leggenda metropolitana, vi si aggiunge l’insinuazione che Obama sia anche musulmano. Che sia falsa non conta, è un messaggio subliminale grazie al quale Trump diventa il beniamino di tutta l’America bianca e arrabbiata che non può ammettere un afroamericano come leader della nazione. Trump si accorge che manipolando i social media acquista rapidamente un seguito enorme, entusiasta. Comincia il suo uso intenso, quasi ossessivo, di Twitter. La campagna del 2012, anche se lui non si candida, diventa la prova generale di quel che verrà.
Nessuno lo prende sul serio quando lancia la sua candidatura nell’estate 2015. Gli altri repubblicani però esitano ad attaccarlo. Pensano che il fenomeno Trump si sgonfierà da solo. Lo corteggiano, sicuri che verrà il momento di ereditarne i fan. E lui li frega tutti, uno per uno cadono come birilli politici di professione come Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio. Li distrugge ridicolizzandoli. Azzecca tutte le parole d’ordine vincenti: il Muro, la denuncia dei trattati di libero scambio. All’America che soffre per la globalizzazione lui dice: l’establishment vi ha traditi, vi ha venduti alla Cina e al Messico. Ha interpretato, meglio di chiunque altro, l’aria del tempo.
Una campagna insurrezionale, rivoluzionaria, un’Opa ostile su un partito antico che ebbe come leader Abraham Lincoln, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan. E’ riuscito perfino a farsi votare dai mormoni e dagli evangelici, lui che è al terzo matrimonio e si vantato di numerose conquiste e avventure extra-coniugali, fino alla ex modella di riviste per soli uomini che è la sua moglie attuale, Melania. Non lo ha danneggiato la rivelazione che Melania ha lavorato come fotomodella violando le leggi sull’immigrazione. Non gli ha nuociuto il fatto di avere impiegato immigrati clandestini nei suoi cantieri. Mentre tutti gli scandali di Hillary l’affondavano incollandole addosso l’immagine di una disonesta, lui è diventato presidente dopo essere stato un candidato-teflon, come a suo tempo Reagan.
* * la Repubblica, 09 novembre 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
L’undicesima domanda a Silvio Berlusconi
L’ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un’altra
di Ezio Mauro (l’Espresso, 26 settembre 2016)
L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare.
Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia.
Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla "Stampa", l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo.
Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno "Specchio dei tempi", la rubrica di dialogo coi lettori della "Stampa". Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese».
Una sorta di "Bum!" silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari.
Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta.
Eppure, il Cavaliere senza accorgersene mi aveva consegnato il bandolo, la scintilla identitaria con quell’aggettivo buttato sul tavolo dopopranzo: reaganiano. Non democristiano, o moderato, o conservatore o liberale. No: reaganiano. Qualcosa di sconosciuto alla politica italiana, ma qualcosa che contiene il vero elemento fondante dell’intera operazione. L’outsider che in Italia come in America viene da un altro mondo, e guarda caso è il mondo dello spettacolo che dà la temperatura del rapporto con la folla, abitua ai riflettori, evoca intorno a sé un’avventura più che un progetto, in un paesaggio smart di successi, denaro e sorrisi.
La politica - per Reagan come per il Cavaliere - scoperta in età matura, come un’incursione estranea, senza l’imprinting originario dei professionisti. Proprio per questo, il tocco permanente del grande dilettante che non conosce il vocabolario istituzionale ma sa sfiorare perfettamente i tasti (basta leggere Lou Cannon, il biografo del presidente americano) dell’emozione popolare in ogni occasione, presentandosi come uomo nuovo, estraneo ai professionismi degli apparati. E infine, il nocciolo duro di quell’aggettivo: il profilo reaganiano disegnava fin dall’origine un progetto di destra, destra popolare ma destra vera, che dopo la mediazione democristiana puntava direttamente al comando, più che al governo.
La “rivoluzione conservatrice” non c’è stata. E anche la sinistra non è stata all’altezza del suo compito storico Naturalmente i denti d’acciaio (con cui il vecchio Gromiko misurava la durezza dei candidati alla guida del Cremlino) erano ben nascosti dentro il sorriso televisivo del Cavaliere, la cui iniziazione è insieme una grande dissimulazione. Deve nascondere i debiti che pesano come una macina al collo dell’azienda («ci vogliono vedere sotto un ponte», diceva allora Confalonieri), il debito politico dell’impero televisivo al Psi per le leggi che hanno consentito alla tv privata il volo nell’etere di Stato, la filiazione diretta del personaggio pubblico Berlusconi dal Caf, l’alleanza d’agonia della Prima Repubblica tra Craxi, Andreotti e Forlani, la macchia imprenditoriale nascosta (i tribunali l’accerteranno più tardi) del grande furto della Mondadori, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978, e soprattutto le obbligazioni sotterranee che ne derivano. Proprio queste fragilità e queste ambiguità celate dietro i mausolei berlusconiani auto-eretti consigliavano prudenza ai personaggi più vicini al Cavaliere, secondo un modello democristiano teorizzato da Confalonieri: non vale la pena di gettarsi in politica in prima persona correndo il rischio di rompersi l’osso del collo, anche perché con tre televisioni basta avere pazienza, verrà la politica a cercare il becchime nella tua mano.
E invece proprio qui c’è il rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento delle convenienze. Il Cavaliere si dimostra uomo d’avventura, l’egolatria fino a quel momento tenuta a bada lo trascina ad un protagonismo diretto e gli fa puntare l’intera posta su una nuova partita, dopo quella immobiliare, quella editoriale, quella televisiva: la politica, o meglio il comando, soprattutto il potere. La politica vista come il cuore del potere, ben più che il cuore dello Stato, qualcosa da conquistare più che da governare. C’è in questo la "pazzia" di cui parla Giuliano Ferrara, che tradurrei con l’azzardo di pensare l’impensabile, crederci costringendo gli altri a credere nell’incredibile realizzandolo prima ancora di renderlo plausibile. Farlo senza adattare la propria natura estranea alle regole auree e comunemente accettate del sistema, ma anzi deformando quelle regole e quelle modalità secondo la propria natura. Siamo a un passo - magari senza saperlo - da Carl Schmitt, secondo cui il vero sovrano non è il garante dell’ordinamento esistente ma è colui che crea un nuovo ordinamento decidendo sullo stato d’eccezione.
Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, quanto tutto ciò fosse puro istinto di destra - destra reale, realizzata, come c’era il socialismo reale - e quanto invece progetto teorico dissimulato nel rifiuto del "culturame", ma in realtà accumulato con cura. Certo, l’istinto di classe ha convinto fin dall’inizio il Cavaliere a puntare sul ceto medio emergente proponendogli di mettersi in proprio per diventare finalmente soggetto politico, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato. Il progetto lo ha spinto a evocare un vero e proprio sovvertimento della classe dirigente, quasi una ribellione dei garantiti, perché c’è sempre un’élite più o meno ristretta contro cui mostrarsi ribelle. Il calcolo gli ha suggerito di infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite, nel solco della prima seminazione di antipolitica della Lega, e di radunare queste incoerenze sotto il doppiopetto miliardario, paradossalmente credibile proprio perché rivestiva un outsider rispetto all’aristocrazia delle grandi famiglie industriali cresciute nel fordismo e nell’acciaio, che lo consideravano imprenditore dell’immateriale e lo tenevano in fondo al tavolo. Ancora l’istinto barbaro e redditizio lo ha spinto a consigliare al cittadino di disinteressarsi dello Stato cercando un demiurgo, nascondendogli che su questa strada lo Stato avrebbe finito per disinteressarsi di lui, perché quando la sua libertà non si combina con la vita degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta esclusivamente individuale, separato, lui diventa un’entità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.
Ma questo paesaggio misto, abitato da solitudine e ribellione, era in realtà lo scenario perfetto di un esperimento del tutto nuovo per l’Italia e per le democrazie occidentali. Era nella mia stanza il direttore di un grande giornale europeo, a dicembre del 1994, mentre sul video subito dopo il telegiornale scorrevano riflessi negli addobbi rotondi e lucenti di un gigantesco albero di Natale le immagini di un Berlusconi sorridente, magnanimo, circondato dai bambini su un prato, mentre accarezzava i cani, o alzava le coppe vinte dal Milan. Mascherati da innocenti auguri di Natale erano i primi spot subliminali di un’avventura politica del tutto nuova. «Il solito italiano», disse il mio amico, «manca soltanto la chitarra o il mandolino». Naturalmente arrivarono, insieme all’iperrealismo di una bandana sulla fronte. Ma era tutt’altro che il volto di un arcitaliano, quello che stavamo vedendo: piuttosto l’inizio di un esperimento che l’Europa non aveva ancora conosciuto, e che in questi anni non ho saputo chiamare altrimenti che neo-populismo, qualcosa di modernissimo e primitivo insieme, con la sua neolingua e una dilatata dismisura.
Ottimismo ad ogni costo, poiché le mani del demiurgo sono sul timone, soluzioni semplici davanti a problemi complessi (l’efficacia del "puerilismo", come lo chiamava Huizinga), invulnerabilità assoluta, tanto che le sconfitte sono sempre colpa di una truffa o di un inganno sopraffattore, in modo che il leader esca comunque dalla prova innocente, magari ferito ma superstite, nel cerchio intatto del carisma perenne. È un investimento sull’indebolimento dello spirito critico, a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura eroica. Il cittadino viene autorizzato a farsi i fatti suoi, elevati a cifra privata della nuova dimensione pubblica. In cambio il leader gli parlerà direttamente saltando ogni intermediazione partitica, istituzionale, politica, e mentre provvederà alla guida del Paese gli chiederà soltanto una vibrazione costante di consenso, e una delega elettorale periodica e fissa. Principio e fine di tutto questo, l’evocazione di una destra che il Paese nel dopoguerra non aveva conosciuto, perché il filtro democristiano drenava al centro gli istinti post-fascisti del Paese. Berlusconi ha fatto l’opposto, radicalizzando a destra una propensione politica sconosciuta a se stessa, camuffata e scusata dal doroteismo di potere, liberandola nella sua vera natura. Una destra sdoganata con un progetto puramente elettorale e non culturale, senza chiedere revisioni e abiure, con la complicità dell’intellettuale italiano strabico, che per vent’anni (fino al declino del nuovo potere col calcio dell’asino) non ha usato a destra la pedagogia liberale impiegata giustamente a sinistra con il Pci.
Il mix ha funzionato tre volte, perché il fuoco in pancia del Cavaliere lo ha trasformato in uno straordinario campaigner (salvo quando ha incontrato Romano Prodi), tanto quanto è risultato sempre un pessimo uomo di governo. A Palazzo Chigi quel fuoco si è ogni volta spento e tra le ceneri brillavano fisse le quattro anomalie del Cavaliere rispetto a qualsiasi moderna destra occidentale: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi, lo strapotere economico che gli consentiva di comperare i deputati a grappoli, lo strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso. A un certo punto l’uomo della grande avventura diventava un avventuriero, fino al punto di usare l’esecutivo per piegare il legislativo a fermare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. Le coalizioni assemblate senza il crogiuolo di una fusione culturale capace di dare al Paese una destra moderna, ogni volta si sfaldavano perdendo prima Bossi, poi Casini, quindi Fini, con gli intellettuali che se n’erano già andati. Infine la vicenda giudiziaria prese il sopravvento. Lui teorizzò la decapitazione per via processuale. In realtà aveva imposto una tale torsione al sistema che eravamo giunti al dubbio estremo: se la legge era ancora uguale per tutti, oppure no, nel suo unico caso.
Anche qui, la concezione carismatica del populismo era perfettamente coerente con il rifiuto di essere giudicato, anzi con la giustizia vista come sopruso. Il leader unto dal Signore col voto popolare infatti risponde solo al popolo, ed è per questa sua stessa speciale natura insofferente ad ogni controllo, costituzionale da parte delle autorità di garanza, politico da parte del parlamento, di legalità da parte della magistratura. La legittimità dell’investitura assorbe la legalità fino a soffocarla nell’irrilevanza, l’annulla subordinandola. Ma proprio la specialità di questa eccezione - ecco il punto - rende oggi impossibile sciogliere il nodo gordiano del dopo-Berlusconi. Politicamente, la sua creatura è ancora irrisolta così com’è nata per conquistare il potere e non per cambiare il Paese, ferma al bivio tra moderatismo e radicalità. Leaderisticamente, bisogna prendere atto che ogni successione nel senso democratico e moderno del termine è nei fatti impossibile perché Crono divora ogni possibile figlio tanto che si è davvero pensato al passaggio dinastico come unica soluzione, in quanto avrebbe trasmesso integrale il conflitto d’interessi insieme con il dna familiare, perpetuando l’anomalia berlusconiana nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Siamo davanti alla metafisica di sé, con un’avventura straordinaria che consuma se stessa replicandosi ogni giorno in sedicesimo, come una condanna infernale, ormai fuori dal tempo. E guardando quel poco che resta, da qui nasce l’undicesima domanda: Cavaliere, ne valeva la pena?
Il fantasma della libertà nella stagione dell’emoticon
Nel suo saggio “Psicopolitica” il filosofo Byung-Chul Han svela gli inganni del potere per renderci meno cittadini. Nell’era in cui i sentimenti sostituiscono le ideologie
Nasce la “società del serpente”, l’animale che si mimetizza per sedurre le sue prede
Mentre si pensa come autonomo, l’uomo di oggi in realtà sfrutta se stesso senza avere un padrone
di Ezio Mauro (la Repubblica, 30.06.2016)
VIVIAMO gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri.
Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica.
Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.
Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi.
Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.
Ma soprattutto - e proprio qui - nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere.
Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.
Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé.
Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.
La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.
Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.
Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.
Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.
Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti - puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere - ci fanno così paura.
La visione strumentale della religione di Berlusconi che ora si affida a Dio
di don Aldo Antonelli ( L’Huffington Post, 13/06/2016)
Dopo essersi sostituito a Dio negli anni della sua onnipotenza, ora lo risuscita come altro da sé, ma sempre a supporto del suo ego e come polizza assicurativa nei giorni della sua impotenza. "Mi affido a Dio!".
L’espressione non è la confessione di una improvvisa conversione, ma la prosecuzione di un’antica, strumentale visione della religione.
Sia chiaro. Qui non si vuole infierire sulla malattia del de cuius, cui auguriamo pronta guarigione, ma evidenziare l’uso, o meglio, l’ab-uso, cui spesso la religione si presta e a cui ancora più spesso molti ricorrono. È un cliché vecchio stampo ma sempre "disponibile", "pronto all’uso".
Nel suo bellissimo e molto interessante libro "Prego Dio che mi liberi da Dio" a pagina 45 Marco Vannini scrive testualmente: "Nel suo aspetto menzognero, la religione è la forma estrema di appropriazione, religio come legame non all’origine, alla verità, ma a se stessi, ovvero amor sui, che vuole impadronirsi di Dio per metterlo al proprio servizio, a sostegno dell’egoità - e lo fa con la costruzione di una teologia".
Il Cristianesimo, così come si evince dal messaggio evangelico, che è la carta costituzionale per la fede di un cristiano, è ben altra cosa: Dio mi libera da me stesso per aprirmi, in totale disponibilità e senza riserve, all’altro.
Chi grida al fascista
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 17 marzo 2016)
TORNANO le parole fascista, comunista, stalinista... non solo come "vecchi soprannomi per anziani" ma anche come gli stilemi di un’usurata comicità italiana che non fa più ridere, di un sottosopra logico che è diventato triste. "I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti" ha ieri denunziato l’indomabile comandante partigiano Silvio Berlusconi in difesa del fido Bertolaso che, come un eroe della Resistenza, dovrà ora affrontare la Decima Mas di Salvini, le legioni della Meloni, i manipoli della deputata ex missina Barbara Saltamartini, la quale, com’è ovvio, tiene il coltello tra i denti alla maniera del feroce Ettore Muti.
E, a fare pendant, intervistato sul Corriere da Aldo Cazzullo, Massimo D’Alema aveva dato dello stalinista a Matteo Renzi e di nuovo la parola aveva fatto cortocircuito con la sua storia. Perché anche "stalinista" non è un insulto qualsiasi, come per esempio populista o sleale o autoritario, ma è una grammatica politica, un codice etico, è la cassetta degli attrezzi che Massimo D’Alema ha giustamente relegato nella propria soffitta ideologica, la vecchia antropologia che modellò il suo carattere di duro e formò la sua selvatica personalità.
Ma veniamo a noi, che alla parola "fascisti" ancora ci armiamo di vigilanza democratica. Ieri mattina, ascoltando l’intervista che gli faceva Maurizio Belpietro, noi abbiamo cercato di capire chi sono i camerati, i cuori neri che fanno vibrare di indignazione liberale l’antifascista Berlusconi. Di sicuro non ce l’ha con Gasparri, Alemanno, Storace, Matteoli e con tutti quegli altri ex fascisti che lui ha fatto, nel corso degli anni, ministri, sindaci, presidenti di regioni, quelli che stavano nel Fuan e nel Fronte della Gioventù e lui ha messo a sedere al tavolo delle presidenze, nelle partecipate, nel sottogoverno, ha chiamato ad esercitare il potere, ha promosso classe dirigente del Paese, sino a nominare ministro della Difesa il futurista Ignazio La Russa, che sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con i suoi completi militari, le collezioni di soldatini, i voli dannunziani sopra Kabul... Insomma Berlusconi non può certo avercela con tutti gli ex giovani camerati che - Giovinezza Giovinezza - nel giorno in cui la destra berlusconiana fece eleggere Alemanno sindaco di Roma, lo salutarono sui gradini del Campidoglio con il saluto romano e il grido Eia eia alalà.
È vero che quando non lo soddisfacevano li chiamava ingrati, soprattutto Gianfranco Fini "il quale - disse nel 2009 all’agenzia Ansa - senza di me starebbe ancora dove stavano tutti loro sino al 1994" e voleva dire nelle fogne dello slogan ("fascisti carogne/ tornate nelle fogne"). Per la verità già un anno prima Berlusconi lo aveva tirato fuori dal sottosuolo della Storia. Non era ancora sceso in campo, quando Fini il fascista si candidò proprio a sindaco di Roma contro Rutelli. Ebbene, al cronista che gli domandava per chi avesse votato, l’imprenditore a sorpresa rispose: "Certamente Gianfranco Fini". Fu un lampo, un’epifania, probabilmente il suo scandalo più bello, un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Fini fu battuto ma raggiunse il 47 per cento e mai sconfitta fu più vincente di quella. Berlusconi infatti lo aveva smacchiato. Con il paradosso però che, da quel momento, più Fini si allontanava dalla destra e più Berlusconi si spostava a destra. E più Fini si sfascistizzava e più, agli occhi di Berlusconi, ritornava fascista, come vuole il vecchio adagio secondo cui bisogna fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa.
Ecco, appunto, Berlusconi in un’intercettazione con Lavitola lamentarsi che Fini gli bocciava uno dei suoi tanti lodi perché, secondo lui, subiva le lusinghe della sinistra: "non me l’approvano i fascisti, Fini non ci sta". E la cronaca racconta che non solo Berlusconi pagò 600 milioni per far nascere Fratelli d’Italia, ma che anche La Destra di Storace aveva avuto la sua concreta benedizione: "Ah, quando c’era la buonanima" disse mostrando a Storace il volume dell’editore Dino con il faccione del Duce sbalzato in oro. E Storace, che era a capo di una delegazione di fascisti sociali e dunque poveri: "Beato lei che ce l’ha, noi no, perché costa troppo".
Berlusconi fascista? Berlusconi antifascista? Nessuno meglio di noi, che lo abbiamo studiato per 20 anni, sa che Berlusconi non è stato niente, o se preferite è stato tutto e il contrario di tutto. Ci fu quello che difese Mussolini perché "non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino", e ci fu quell’altro che il 25 aprile del 2009 si annodò un fazzoletto rosso al collo e tenne un comizio ricordando la sua eroica mamma antinazista. Ci fu un Berlusconi che scelse la giornata della memoria per raccontare barzellette sugli ebrei e ce ne fu uno che, in tv, annunziò che sarebbe andato ad incontrare il papà dei fratelli Cervi senza neppure sentire Bertinotti che gli ripeteva: "guardi che papa Cervi è morto".
Nell’Italia del trasformismo, Berlusconi non è certo l’unico ad avere adattato le convinzioni alle convenienze, ma davvero oggi ha solo un suono acido la parola fascista usata dal vecchio sdoganatore dei fascisti. Allo stesso modo suona acida la parola stalinista usata dall’ultimo nipotino degli stalinisti. Sono solo parole morte che appartengono alla storia, un po’ come Orazi e Curiazi, turchi e mori, achei e troiani. Tanto più che Bertolaso, forse forse, in queste elezioni romane, è quello che della fascisteria parodiata - da affrontare con Ugo Tognazzi e non certo con Ferruccio Parri - esibisce di più i connotati: la virilità, gli attributi, la stessa spavalderia che mostrava sulle macerie dell’Aquila quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso. Cos’altro poteva dire alla Meloni incinta se non "vai a fare la mamma "? Spiace solo che, nelle polemiche, lo abbiano davvero trattato come se fosse l’uomo italiano medio, il rappresentante del maschio italiano, promuovendo lui e offendendo tutti gli altri.
Le parole impazziscono un attimo prima degli uomini. Ma non fanno tabula rasa. Remember è il titolo di un intelligente film tedesco che Berlusconi e D’Alema dovrebbero andare a vedere insieme, per ritrovare quel tanto che hanno in comune. Racconta di un vecchio che ha perso la memoria e va a caccia di nazisti. Senza ricordare che il nazista era lui.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Neuro
Codificazione facciale, misurazioni di onde cerebrali e battiti cardiaci scannerizzazione del cervello.
Dal Messico alla Polonia, i politici in campagna elettorale ora investono in tecnologie che ci “leggono dentro”.
Ci studiano per prevedere le nostre scelte dentro l’urna. E più ci conoscono più c’è il rischio che ci manipolino.
Pioniere della scienza è considerato Frans de Waal che scrisse un saggio nel 1982.
Oggi ci si avvale di Big Data e nanotecnologie per confezionare messaggi suadenti
di Federico Rampini (la Repubblica, 09.11.2015)
NEW YORK QUALI MECCANISMI del subconscio collettivo deve attivare Hillary Clinton, quali resistenze psichiche deve attutire e neutralizzare, per sfondare l’invisibile “soffitto di vetro”, cioè la barriera che fin qui ha impedito a una donna di diventare presidente degli Stati Uniti? Una risposta potrebbe venire da un nuovo ramo della scienza politica. Neuropolitics. È una dottrina che si sta raffinando rapidamente: lo studio del cervello umano per prevedere le nostre scelte politiche.
I test preliminari sono avvenuti già da tempo in settori paralleli al marketing elettorale: nel marketing tout court. Da molto tempo la Silicon Valley investe in tecnologie che “ci leggono dentro”. Per esempio l’Intelligenza Artificiale che opera nel campo della ricognizione facciale, la lettura delle nostre pupille e delle onde sonore della nostra voce, la catalogazione e interpretazioni delle nostre smorfie, sguardi, inflessioni di parlata.
Una volta imparato a decifrare l’animo umano, si analizzano le sue reazioni: dentro i reparti di un supermercato, o davanti alla vetrina di uno stilista, nell’atto di guardare una pubblicità. Il marketing incassa il “feedback” - l’informazione di ritorno, sulle nostre reazioni - e poi si adegua. Più ci conosce in profondità, meglio ci manipola. Se funziona per vendere uno smartphone, un’app digitale, un’automobile o un paio di jeans, forse vale anche per vendere un candidato.
La neuropolitica è meno nuova di quanto si creda. L’enciclopedia Wikipedia la definisce come la scienza che «indaga l’interazione tra il cervello e la politica, combinando i lavori delle neuroscienze, della psicologia comportamentale, della genetica, e delle scienze politiche». Ne fa risalire le prime intuizioni nientemeno che a Platone e John Locke, filosofi che s’interrogarono sulla natura del pensiero umano come fondamento per le scelte politiche. Nell’accezione contemporanea, un pioniere della neuropolitica è considerato Frans de Waal col suo saggio del 1982 sulla Chimpanzee Politics, sottotitolo Sesso e Potere tra i Primati.
Sissignori, gli etologi hanno molto da insegnarci sul comportamento della specie umana, meno “superiore” di quel che crediamo: gorilla, oranghi e scimpanzé padroneggiano varie tecniche di “manipolazione psicologica degli altri”. Dopo de Wallas i luminari più rispettati in questi campi arrivano al passaggio del millennio: Drew Westen, James Fowler, Darren Schreiber, William Connolly, con varie ricerche che stabiliscono collegamenti sistematici fra la biologia, i “neuroni del ragionamento”, e i comportamenti degli elettori alle urne. Connolly scrive Neuropolitics (sottotitolo Pensiero, Cultura, Velocità) nel 2002 per la University of Minnesota Press.
Il best-seller di Drew Westen, del 2008, è tradotto anche in italiano: La mente politica, Il Saggiatore. E tuttavia all’epoca della sua uscita - il 2008 è la prima campagna presidenziale di Barack Obama - la neuropolitica era ancora una curiosità, una sfida intellettuale, che molti consideravano fantascienza. Non risulta che gli strateghi di Obama abbiano fatto un uso significativo di questi metodi di analisi della mente degli elettori, e poi di convincimento. Ma l’innovazione avanza a ritmi sostenuti.
La neuropolitica oggi si avvale di due parole chiave maturate nella Silicon Valley: Big Data e nanotecnologie. Micro-sensori e webcamere diventano pervasive, spiarci mentre osserviamo una vetrina o un’immagine pubblicitaria è sempre più facile e meno costoso. Big Data significa la moltiplicazione esponenziale nella potenza dei computer per dige-politics rire e analizzare informazioni nuove: quindi allargando i test neuropolitici ad una vastissima platea di elettori, situazioni, reazioni individuali.
Fino a stabilire dei trend, delle regole. Per poi confezionare messaggi politici sempre più sottili, personalizzati, suadenti, irresistibili. Può diventare realtà l’intuizione dello scrittore Philip Dick nel racconto Minority Report da cui fu tratto un film con Tom Cruise: in cui il protagonista sale sul metrò e le immagini pubblicitarie parlano a lui personalmente, interpellandolo per nome. In Minority Report è la pubblicità commerciale che si adatta all’individuo per catturarne l’attenzione e il portafoglio. Il salto alla pubblicità politica non è difficile immaginarlo. E di fatto sta già avvenendo, non solo negli Stati Uniti ma in molte parti del mondo. Anzi, secondo il New York Times gli esperimenti più audaci avvengono “alla periferia dell’impero”.
Dal Messico alla Polonia.
Un reporter del New York Times, Kevin Randall, è andato a Città del Messico per osservare e raccontare uno degli esperimenti più avanzati di neuropolitica. Con cartelloni pubblicitari elettronici che esortano a votare per i candidati alle elezioni parlamentari, ma al tempo stesso osservano, studiano, riprendono e analizzano l’espressione facciale di chi osserva quei manifesti. L’insieme dei dati raccolti viene elaborato da un algoritmo, che ne ricava indicazioni su come i candidati devono adeguare i propri messaggi. “Codificazione facciale, bio-feedback, scannerizzazione del cervello” sono alcune tecniche elencate.
In Messico secondo il reportage del New York Times il partito del presidente Enrique Peña Nieto fece un uso sistematico delle tecnologie neuropolitiche alle elezioni del 2012, con tanto di «misurazioni di onde cerebrali, battiti cardiaci, espressioni facciali ed alterazioni epidermiche». Sempre secondo la stessa inchiesta la neuropolitica è stata usata in Spagna, Polonia, Russia, Turchia, Argentina, Brasile, Colombia. Le maggiori società di indagini di mercato - Ipsos, Nielsen e Kantar - ammettono di padroneggiare da tempo il neuromarketing a fini commerciali ma negano di farne un uso estensivo nelle elezioni. Lo ammettono invece una società spagnola, Emotion Research Lab, ed una polacca, la Neurohm: quest’ultima ha lavorato anche per dei candidati presidenziali americani.
Il che ci riporta al quesito iniziale... ce la farà Hillary? Che la neuropolitica sia importante per un candidato donna, lo ricorda la columnist Gail Collins del New York Times. La Collins cita due studi sull’handicap femminile in politica. Il primo, individuato dall’esperta in demoscopea Celinda Lake: «Una donna deve passare agli occhi degli elettori degli esami di competenza molto più esigenti; del candidato maschio si dà per scontato che debba avere una certa competenza se è arrivato fin lì». Il secondo ostacolo, da uno studio della Barabara Lee Family Foundation: «La donna in politica deve anche essere piacevole; gli elettori non voteranno una donna antipatica mentre voterebbero un uomo sgradevole se pensano che sia all’altezza del compito».
La neuropolitica c’entra davvero, con tutto il suo apparato hi-tech. Perché certe resistenze psicologiche non uscirebbero allo scoperto usando i metodi tradizionali. Per esempio in un focus group i partecipanti ad una sessione sulle elezioni, possono auto-censurarsi per non rivelare (magari neppure a se stessi) i propri pregiudizi sessisti. Che invece l’Intelligenza Artificiale può smascherare, osservandoli a loro insaputa: movimenti delle pupille, alterazioni della pelle, battito cardiaco, di fronte alla candidata che deve frantumare il “soffitto di vetro” invisibile.
"Neuropolitica": anche in Italia
Ricevo e pubblico questa lettera:
"Scrivo a proposito dell’articolo di oggi di Federico Rampini su Neuropolitica. Ci sono vari studi italiani su questo argomento.
A parte la settimana mondiale del cervello su questo tema organizzata qui a Sapienza nel 2008 abbiamo pubblicato vari studi sull’influenza che i leader politici italiani (in primo luogo Berlusconi) esercitano sui loro elettori. Salvatore M Aglioti
1) http://agliotilab.org/ a questo sito potrete ottenere gli articoli scientifici riguardanti Berlusconi e vari altri leader italiani
2) http://www.fondazionetelecomitalia.it/eventi/neuroscienze-della-politica-di-destra-o-di-sinistra-si-nasce-o-si-diventa/52077/dettaglio
3) http://www.baw2008.altervista.org/programma.html
Social and Cognitive Neuroscience Laboratory
Department of Psychology
School of Medicine and Psychology
Sapienza University of Rome
Via dei Marsi 78, 00185, Roma, Italy
Voice and Facsimile: 0039-06-49917601;
e-mail: salvatoremaria.aglioti@uniroma1.it
http://agliotilab.org/
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Il Quirinale nel patto del Nazareno
risponde Furio Colombo (il Fatto, 19.12.2014)
CARO COLOMBO, quel galantuomo di Berlusconi non vuole giochi sotto il tavolo. Il 14 dicembre ha messo le cose in chiaro: il patto del Nazareno comprende anche l’accordo sul Quirinale. Vuol dire che cosa? Aloisio
VUOL DIRE MOLTO, vuol dire che quel giovanotto che ogni giorno rimprovera alcuni dei suoi di avere qualche dubbio sulla sua straordinaria qualità di giocatore politico, agisce sotto strette condizioni pattuite altrove, e prima che il gioco cominciasse e della sua strepitosa discesa in campo. Persino chi ha i pregiudizi (i miei, intendo, che i lettori conoscono) su Berlusconi ed è persuaso della sua fondamentale separazione da ogni tipo di scrupolo, sa che in questo gioco (il gioco del Nazareno) Berlusconi non ha mai bluffato e non è mai stato smentito. Non nei fatti.
Qualcuno avrebbe immaginato che l’intero Pd (meno cinque) si sarebbe messo nelle mani di Verdini e dei suoi giudizi su persone, cose, leggi, iniziative e divieti? Ma Berlusconi l’aveva detto subito e ormai lo sanno tutti che non cade foglia che Verdini non voglia.
Naturalmente anche Renzi ha i suoi poteri e ce lo fa capire con le minacce non velate di fare fuori tutti i suoi avversari. E infatti ha alle sue spalle, senza tentennamenti, tutte le sue ragazze e i suoi ragazzi. Nuovi, senza passato e senza idee che disturbano. Ma siamo all’interno di un contenitore stagno di “valori” istituito da Forza Italia e poi dal Popolo della libertà, mentre, per dirla con Renzi, l’Ulivo sprecava vent’anni nel niente.
Sarà anche vero. Ma adesso noi (noi italiani) condotti da Renzi, respiriamo l’aria di Berlusconi. E infatti sentite le parole di Berlusconi dette mediaticamente per bocca di Renzi a conclusione dell’ultima, umiliante assemblea del suo partito: “Vorrei giudici che rilasciano meno interviste e scrivono più sentenze”. Frase evidentemente minacciosa dell’esecutivo contro il giudiziario. Proprio per questo, il punto fermo di Berlusconi resta. Sentite la frase, che copio in tempo reale dal cellulare: “Non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi sembri non adeguato”.
La frase non è politichese, è contrattuale. “Non adeguato” è chiunque si sia immischiato, per esempio, negli affari di Berlusconi, e li abbia descritti in tutti gli aspetti, unici al mondo (per il tipo di amici e il tipo di affari) di un capo di governo, che infatti dispone, in tutto il mondo, di una discussa reputazione. Ma quella reputazione è buona abbastanza per Renzi, che fa scenate contro chi dissente. Lui però ubbidisce.
Che il patto sia con te, gli sta dicendo Berlusconi, ma ad alta voce, perché sentano tutti. Quel patto infatti è la forza di Renzi. Una forza che rinvia ad altre forze che neppure Berlusconi, che è uno col cuore in mano, ha mai voluto indicarci.
In ogni caso il contratto prevede (articolo 1) che un antiberlusconiano (nel senso del rispetto delle regole, delle leggi, delle sentenze, della morale corrente) al Quirinale non passa. Né in alcuna altra carica o funzione pubblica (dunque anche Rai, direzione di giornale, responsabilità scientifica, rettorato universitario, primariato, direttore di banca). Chiaro?
Berlusconi: "Patto del Nazareno? Logico che ci sia anche il capo dello Stato"
Il leader di Forza Italia: conseguenza dell’intesa è che "non potrà essere eletto un presidente della Repubblica che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire" *
ROMA - Nel patto del Nazareno è logico che ci sia anche il capo dello Stato. Lo ha detto Silvio Berlusconi intervenendo telefonicamente a una convention di Forza Italia a Imola.
Una frase che non mancherà di suscitare polemiche anche nel Partito democratico (riunito oggi in un’assemblea infuocata), dove l’intesa con Forza Italia sulle riforme è sottoposta ad un carico sempre maggiore di critiche. "Come conseguenza logica (dell’intesa sulle riforme, ndr) non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire".
"Sapete come è difficile in questo momento la posizione di Forza Italia - ha proseguito Berlusconi -. Abbiamo ritenuto di stipulare il patto del Nazareno, che ci dà tanto fastidio, perché non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo?".
* la Repubblica, 14 dicembre 2014 (ripresa parziale)
Psicologia & politica
Così il capo conquista la folla
Per Gustave Le Bon la massa vuole uno stile semplice, chiaro, aforistico e al contempo perentorio, assertivo, ripetitivo: è un gregge che non può fare a meno di un padrone
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore Domenica, 28.09.2014)
Nel 2009, dal 1 ottobre, il quotidiano francese «Le Monde» pubblicò ogni settimana un libro facente parte di una collezione intitolata «I venti libri che hanno cambiato il mondo». Il primo libro fu L’origine della specie di Charles Darwin, seguito da Come vedo il mondo di Albert Einstein. Il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels era al diciannovesimo posto, mentre al quattordicesimo vi era La psicologia delle folle di Gustave Le Bon, pubblicato per la prima volta nel 1895.
Scrittore poligrafo, autore di grossi volumi che trattavano di medicina, fisica, fotografia, equitazione, archeologia, antropologia, etnologia, filosofia, pedagogia, sociologia, Le Bon aveva cinquantaquattro anni quando pubblicò il libro che gli ha dato una notorietà mondiale. Ignorato dall’accademia francese, che mai lo accolse nelle sue istituzioni, Le Bon acquistò fama come divulgatore scientifico, anche se si considerava orgogliosamente uno scienziato che aveva fatto importanti scoperte: nel 1922 polemizzò per lettera con Einstein sostenendo di essere giunto prima di lui a scoprire l’equivalenza fra masse ed energia.
Le numerose edizioni delle sue opere di psicologia collettiva, tradotte in molte lingue, gli garantirono una fama mondiale per tre decenni, fino alla morte, avvenuta a novanta anni nel 1931. La Psicologia delle folle nel 1928 aveva avuto trentacinque edizioni e rimane tuttora il suo libro più noto e diffuso. Per propagare le sue idee, Le Bon adottò gli stessi modi di comunicazione che consigliò ai capi per conquistare le folle: uno stile semplice, chiaro, aforistico, e nello stesso tempo perentorio, assertivo, ripetitivo.
Le Bon ebbe l’ambizione di essere il Machiavelli della politica nell’era delle masse. Chi voleva governare nella società moderna doveva fondare il proprio potere sulle masse. Come Machiavelli fece con Il Principe, spiegando la psicologia delle folle, Le Bon voleva insegnare ai capi come conquistare e governare le masse.
La folla per Le Bon è un agglomerato di persone che assumono caratteristiche nuove e diverse da quelle dei singoli individui. Gli individui che compongono la folla, indipendentemente dal tipo di vita, dall’occupazione, dal temperamento e dall’intelligenza, acquistano una psicologia comune, una "anima collettiva" come la chiama Le Bon, che li fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come ciascuno di loro farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.»
E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folle composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori. «Le decisioni di interesse generale prese da un’assemblea di uomini illustri, ma di specializzazioni diverse, non sono molto migliori delle decisioni che potrebbero esser prese in una riunione di imbecilli.»
La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»
Ma sia i grandi che i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.» L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.»
Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»
Di conseguenza, Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo "consiste soprattutto nell’uso della parola", perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.
Nella psicologia delle folle, le immagini "acquistano la vivacità delle cose reali" e sono considerate reali: «L’irreale predomina sul reale». Ciò va tenuto presente soprattutto nelle elezioni a suffragio universale. Il capo candidato può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché l’elettore non si preoccupa mai di sapere se l’eletto ha rispettato la proclamata professione di fede, in base alla quale avrebbe dovuto giustificare la sua elezione. «Ma soprattutto il capo deve possedere il prestigio, "l’elemento fondamentale della persuasione", "la molla più forte di ogni potere", che Le Bon definiva come «una sorta di fascino che un individuo, un’opera o una dottrina esercitano su di noi».
Per Le Bon, l’era delle folle è inevitabilmente l’era dei capi. E i capi, scriveva Le Bon nel 1895, «tendono oggi a sostituire progressivamente i pubblici poteri via via che questi si lasciano contraddire e indebolire», perché grazie al potere conferito loro dal consenso popolare, i capi «ottengono dalle folle una docilità molto più completa di quella mai ottenuta dai governi.»
Nel secolo scorso, capi politici molto diversi, come Theodore Roosevelt, Mussolini, Lenin, Ataturk, Hitler, De Gaulle furono influenzati dalla lettura di Le Bon o da lui appresero come meglio utilizzare le doti personali per conquistare e governare le masse. Non sappiamo se i capi più popolari del ventunesimo si siano ispirati alla Psicologia delle folle. Ma non è difficile constatare che i loro modi di persuasione sembrano derivare letteralmente dai suoi insegnamenti.
Il fine (di Renzi) giustifica i mezzi?
risponde Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta *
Pur di fare le riforme è lecito parlare anche col diavolo, figuriamoci se Renzi non avrebbe dovuto parlare con Berlusconi che diavolo non è. È vero, per raggiungere un fine buono è lecito ricorrere ad un mezzo cattivo, nel caso del colloquio di Renzi con Berlusconi, però, occorre dimostrare non solo che il fine (le riforme) è assolutamente necessario. ELISA MERLO
Molto al di là delle malignità più o meno strumentali sul «soccorso rosso» ad un condannato, il progetto di Renzi si propone oggi, con grande chiarezza, come un progetto di disinfestazione radicale della scena politica italiana. Sconfitto solo sul piano giudiziario, Berlusconi sarebbe rimasto una mina vagante per l’equilibrio del nostro Paese.
Sconfiggerlo con il voto significherebbe (significherà) togliergli l’alibi (la legittimazione popolare) dietro cui sempre lui così abilmente ha nascosto, finora, insieme ai reati che ha commesso il grandioso conflitto d’interessi alla base del suo arricchimento spropositato e del suo potere personale.
Aprendo una fase nuova della nostra storia recente nel momento in cui, in Parlamento e nel Paese, ci si confronterà fra uomini di destra e di sinistra senza la presenza ingombrante di un uomo sceso in politica per difendere se stesso e la sua ricchezza dal rischio della concorrenza leale e dal controllo dei magistrati.
Quello che finirà con Berlusconi se il disegno di Renzi andrà in porto, infatti, è il tempo in cui un numero importante di elettori si è lasciato ingannare da un uomo che basava il suo carisma sulla presunzione malata di poter gestire il Paese come un’azienda. Dei cui profitti lui è stato, in gran parte, il padrone. O l’utilizzatore finale.
* l’Unità, 03.02.2014
NARCISIMO E POLITICA FASCISTOIDE-MAFIOSA. Una nota molto illuminante sul tema è nel lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Torino 1989):
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisisstica egli si è imbattuto in una metafore che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio.
Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente.
Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità" (cit. da: Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-162)
Federico La Sala
Sulla psicopatologia di Berlusconi
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta *
Una persona che ha un comportamento come quello di Berlusconi può essere definito clinicamente paranoico? Io lo considero tale da oltre 20 anni. Tra l’altro trovo conforto nella testimonianza di una Signora che lo conosce molto bene e scrive: «è malato, curatelo». Sono convinto che soffre di tante manie che a volte diventano deliri. LUIGI PINGITORE
Direi di no. Il disturbo di Silvio Berlusconi non è un disturbo paranoico nella misura in cui non è strutturato intorno ad un delirio sostenuto da una passione più o meno infondata e non corrisponde ad una perdita di contatto con la realtà.
I tratti di personalità esibiti nel corso di questi 20 anni fanno pensare piuttosto ad un disturbo narcisistico di personalità perché Silvio Berlusconi è una persona che ha vissuto a lungo nel culto della sua immagine ed ha creduto in modo perfino ingenuo in chi, traendone vantaggio (i Lavitola) o per puro e semplice innamoramento (i Bondi) ha alimentato il suo bisogno di piacersi e la sua illimitata fiducia in se stesso.
È proprio al disturbo narcisistico di personalità, d’altra parte, che si collegano naturalmente la sua tendenza allo svilimento del sesso e della donna che tanta parte ha avuto nel suo declino e la sua tendenza a proiettare sull’altro (il comunista o il magistrato «cattivo») la responsabilità dei suoi insuccessi.
Confuso (il discorso sui figli che vivono come gli ebrei nei lager) e in crisi, il Berlusconi instabile di oggi è il bambino ferito dall’offesa di chi non crede più di lui. Quello di cui avrebbe bisogno ed a cui avrebbe diritto è un lavoro terapeutico capace di farlo mettere in contatto con il bambino spaventato che si nasconde dietro l’angoscia dell’adulto.
* l’Unità, 18.11.2013
Psicologia della separazione
Se l’identità è un’ossessione
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 21.11.2013)
La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide - come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio - con il cogito, ma è abitato da più istanze. Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi.
La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
Ne deriva che la salute mentale di un individuo - ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni - non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile.
Quando invece questa flessibilità - “plasticità” per Freud - viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola.
Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.
IL FANTASMA POPULISTA
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 22.02.2013)
Sigmund Freud scrisse “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” nel 1921, quando l’Europa si stava avviando verso il baratro dei regimi totalitari. Il carattere straordinariamente preveggente di questo testo metteva in risalto la difficoltà dell’essere umano di sopportare il peso della propria libertà e della quota di incertezza e di instabilità che essa necessariamente implica. Freud vedeva nella pulsione gregaria la tendenza degli uomini a ricercare rifugio, protezione riparo dalla solitudine della libertà e dalla responsabilità individuale che essa comporta. Nel grande corpo omogeneo della massa i soggetti regrediscono ad una relazione infantile di servitù che spegne ogni facoltà critica e consegna la libertà in cambio del conforto ipnotico del sentimento di confondersi in una identificazione cementificata ad un solo popolo. Con l’aggiunta decisiva che questa identificazione si struttura sotto il cono luminoso e inebriante dello sguardo invasato del Padre-Duce, del Padre-Führer, del Padre-padrone che promettendo “magnifiche sorti e progressive” in realtà divora spietatamente i suoi figli impauriti nel nome della Storia, della Razza o dell’Impero.
Freud ci fornisce il ritratto del fantasma inconscio che ha animato tutti i populismi totalitari del Novecento: l’Ideale della Causa, incarnato nel corpo sacro del leader e del suo carisma sulfureo, dà senso alla vita della massa altrimenti in balìa di una precarietà economica, sociale ed esistenziale fonte di angoscia insopportabile. Il populismo novecentesco rivela l’incidenza del carattere gregario della pulsione; amare chi ci toglie la libertà, idolatrare chi cancella tutti i nostri diritti, baciare la mano di chi ci colpisce a morte.
Se ora proviamo a volgere lo sguardo sulle forme più attuali del populismo, per esempio quelle che si manifestano in questa campagna elettorale, ci troviamo di fronte ad un deciso cambio di segno. Il fantasma inconscio che le anima non è più quello che invoca il bastone del padrone; non è più un fantasma masochistico che esige il sadismo feroce del padre primigenio. I populismi contemporanei appartengono ad un’epoca che è stata definita post-ideologica. Essi fanno piazza pulita della funzione Ideale della Causa che ha invece nutrito i vecchi populismi. Quella funzione ha lasciato il posto ad un cinismo disincantato e radicalmente anti-politico che vede con sospetto risentito tutto ciò che viene proposto in nome del bene comune. Il populismo ipermoderno non si nutre di Ideali - non è più, come diagnosticava la Arendt, una malattia dell’ideologia - , ma di pubblicità (berlusconismo) e di tecnologia (grillismo).
Prendiamo, per esempio, un tema cruciale come quello della libertà. Si tratta di uno dei grandi cavalli di Troia dei populismi post-ideologici, in particolare di quello berlusconiano, ma non solo. La sua invocazione risponde ad una finalità semplicemente demagogica. Liberi dalle istituzioni, liberi dalla politica, liberi dall’Europa ... La libertà è ridotta ad un fantasma che riveste l’esigenza pulsionale di poter fare quello che si vuole senza dover tenere conto dell’Altro, dunque di qualunque limite istituzionale, procedura, Legge, condizione storica. Piuttosto è l’idea stessa della Legge che viene vista con sospetto, come se fosse un intralcio alla piena libertà del manovratore (Berlusconi), oppure viene invocata - ed è una variante rischiosa del populismo ipermoderno - come un principio assoluto in grado di garantire il Bene comune (Ingroia, Di Pietro). Se il populismo novecentesco nutriva un fantasma masochistico fondato sul sacrificio fanatico di sé, quello ipermoderno nutre un fantasma perverso e narcisistico, centrato sull’affermazione della Legge ad personam, su di una mentalità profondamente anti-istituzionale e anti-politica, che rigetta come un peso inutile la fatica del confronto e della mediazione, il calcolo e la strategia necessari alla politica. Il suo miraggio non è più sostenuto dall’appello infatuato agli Ideali collettivi, ma dalla difesa strenua e rancorosa dei propri interessi particolari.
Questo modifica sensibilmente la rappresentazione immaginaria del Leader e modifica la stessa psicologia delle masse. Il leader dei nuovi populismi non agisce più in nome della Causa anche quando la sbandiera. Piuttosto si autocelebra come un reuccio senza storia, come un capo popolo solo televisivo, senza più proporsi come strumento al servizio della Storia, come l’incarnazione folle di una volontà impersonale. Piuttosto esso accentua, nell’autocelebrazione della sua persona, quel trionfo dell’Io che sembra aver preso il posto della Causa. Come dire che la sola Causa che conta è quella del proprio Io o quella del proprio territorio come accade per il populismo regressivo di tipo leghista. Non è più l’Io che si immola masochisticamente nel nome dell’Ideale, ma è l’Io che, dopo aver tolto la maschera ad ogni Ideale, si propone come il solo Ideale che vale la pena servire.
In questo il populismo ipermoderno è schiavo del discorso del capitalista e della sua esaltazione dell’individualismo più cinico. Il nuovo leader aggrega le masse promettendo un accesso senza mediazioni - della politica - all’esercizio del potere. Non chiede il sacrificio per la patria, ma mostra piuttosto l’inutilità di ogni sacrificio. Anche il ricorso eventuale a tematiche ideologiche - siano esse legate ad antichi contrasti tra visioni del mondo contrapposte o a rivendicazioni etniche come accade per il populismo pseudo-mitologico della Lega - appare strumentalmente finalizzato a difendere il proprio orto.
Nondimeno il nuovo leader resta un padrone che divora i suoi figli, che non può pensare al suo tramonto, alla propria successione, che non può lasciare eredi credibili perché assolutamente insostituibile, che, dunque, pur proclamando la democrazia diretta del popolo si ritiene esserne, paradossalmente, il garante assoluto non cogliendo il fatto elementare che la sua stessa esistenza di leader contraddice la possibilità di una autentica democrazia interna. È il caso del grillismo che invoca grazie al potere della Rete una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta ogni genere di mediazione e che, di conseguenza giudica, come un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma i segni di discordie che attraversano questo movimento non annunciano niente di buono. È un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone, finisce sempre per generare il mostro che giustamente combatte.
Come tutti i leader, che hanno animato forme populistiche di consenso, il leader dei nuovi populismi non può sottomettersi a nessuna Legge se non quella che egli pretende di incarnare. Di conseguenza non può accettare la logica democratica della permutazione, il ricambio generazionale, la trasmissione dell’eredità. Il suo Io è lo specchio che riflette un corpo frammentato perché privo del cemento armato dell’ideologia. Basti pensare alla seduzione sfacciata con la quale Berlusconi interpreta la sua rincorsa elettorale comportandosi come quel tiranno demagogo, descritto da Platone, che di fronte a dei bambini gravemente malati non veste i panni scomodi del medico, ma preferisce indossare quelli di un pasticcere che anziché proporre l’amaro sapore delle medicine seduce il suo giovane popolo con l’offerta di carrellate di dolci prelibati.
Le lodi tattiche di Berlusconi a Mussolini
di Philippe Ridet (Le Monde, 29 gennaio 2013 - traduzione: www.finesettimana.org)
Le “gaffe” di Silvio Berlusconi sono raramente dovute all’improvvisazione. Affermando, domenica 27 gennaio, Giornata della memoria dell’Olocausto, che Benito Mussolini “ha fatto molte cose buone”, a parte “le leggi razziali che rappresentano la peggiore colpa del leader”, si è assunto il rischio di scatenare una nuova polemica, ma sa che una parte dell’opinione pubblica italiana lo ha capito.
Mentre Angela Merkel, il giorno prima, dichiarava che la Germania ha “una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo”, l’ex presidente del consiglio sostiene che “L’Italia non ha le stesse responsabilità”. “Il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. La connivenza con il nazismo, almeno all’inizio, non fu completamente consapevole.”
Non è la prima volta che Berlusconi minimizza il bilancio del regno di Mussolini, dal 1922 al 1943. Nel 2003 aveva sostenuto che “il fascismo non ha mai ucciso nessuno”. Il regime fascista ha adottato nel 1938 e del tutto liberamente, le leggi razziali, escludendo gli ebrei dall’esercito e dall’insegnamento e limitando il loro diritto di proprietà. Durante la seconda guerra mondiale, più di 7000 uomini, donne e bambini ebrei italiani furono sterminati nei campi della morte. Un bilancio a cui bisogna aggiungere gli assassini politici o l’esilio sistematico degli oppositori al regime.
Elettoralismo? Revisionismo? Impegnato in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio a capo di una coalizione che va dalla Lega Nord, favorevole alla secessione, a piccole formazioni neofasciste (La Destra, Fratelli d’Italia), nostalgiche di uno Stato forte, Berlusconi mirava domenica all’ala più nazionalista.
Ma, al di là del calcolo tattico, rafforza in molti italiani l’idea di un fascismo schizofrenico: uno efficiente (organizzazione dello Stato, lotta alla mafia, costruzione di infrastrutture, riorganizzazione dello Stato, instaurazione di un sistema pensionistico), l’altro cattivo (leggi razziali, privazione delle libertà civili), senza rapporto logico tra i due.
Il giornalista Massimo Giannini, autore del libro Lo Statista (Dalai), che sottolinea le analogie tra il Cavaliere e il Duce, analizza: “Berlusconi si rivolge a quella parte di opinione pubblica che crede ancora che si possa separare il buon grano dalla zizzania nel bilancio di Mussolini. Ma l’uno e l’altro hanno in comune la stessa fede nell’uomo della provvidenza, la stessa ricerca di un rapporto senza mediazione con il popolo, la stessa volontà di imporre la narrazione di una realtà virtuale con la propaganda. Ancora una volta, Berlusconi scommette sulla parte peggiore degli italiani”.
“Queste dichiarazioni non sono solo superficiali e inopportune, ma prive di senso morale e di fondamento storico, ha denunciato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna. Dimostrano a qual punto l’Italia faccia ancora fatica ad accettare la propria storia e le proprie responsabilità”.
Il Caimano visto dallo psicanalista Recalcati
intervista a Massimo Recalcati
a cura di Wanda Marra (il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2012)
Nietzsche afferma che la saggezza più grande per un uomo è quella di saper uscire di scena al momento giusto. Questa massima non sembra ispirare il nostro ex Presidente del Consiglio. Nel caso di Berlusconi essere sulla scena sembra una questione di vita o di morte”. Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, fotografa le ragioni psicologiche che stanno dietro ai comportamenti di Berlusconi (di cui si è occupato in molti dei suoi saggi), alle tante annunciate uscite di scena e altrettanti ritorni in campo.
Professor Recalcati, perché Berlusconi non molla?
Uscire di scena, saper tramontare, è la saggezza più grande perché rivela la capacità di non credere troppo al proprio Io, a quell’Io che crediamo di essere. Sappiamo che le vecchie glorie del passato fanno fatica a scegliere la via del tramonto restando aggrappate disperatamente ai sembianti del loro antico prestigio.
Ci vuole una potenza nevrotica enorme per tenere in ostaggio ancora una volta un intero paese.
Per Berlusconi è questione di vita o di morte. Senza l’Io illuminato dai riflettori e dai sondaggi di popolarità sarebbe costretto a confrontarsi con il senso dei propri limiti e della propria morte. Per questa ragione il palcoscenico televisivo non era più sufficiente e doveva necessariamente dilatarsi nell’arena politica. Certo si trattava di difendere i proprio interessi economici. Ma non solo. Si trattava di difendere anche la propria immagine fallica.
Oggi, cosa sta cercando di salvare rimanendo sulla scena?
Deve salvare la propria potenza fallica dal declino alla quale essa è fatalmente consegnata. Il fantasma berlusconiano incrocia quello del marchese De Sade: rendere il godimento eterno, sottratto allo scorrere del tempo e alla morte. Da questo punto di vista l’impossibilità di congedarsi definitivamente dalla sua carriera politica - come invece fece a suo tempo Prodi - non segnala tanto l’attaccamento al potere, ma l’impossibilità di esistere senza occupare la scena del mondo come protagonista. La psicoanalisi chiama questo angoscia di castrazione.
Ma perché negli ultimi mesi ha cambiato idea e posizione prima di tutto sul suo futuro tante volte?
È difficile rispondere a questo. Quel che è certo è che quest’uomo non sa accettare la dimensione finita dell’esperienza, la dimensione del lutto. Questa incertezza è dovuta al fatto che pur sapendo che il suo tempo è politicamente esaurito, da una parte percepisce, dall’altra lo nega.
Cosa vuol dire questo per l’Italia?
Deleuze diceva che non c’è niente di peggio che scoprirsi prigionieri del sogno di un altro. È quello che rischiano gli italiani con una nuova discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ma come mai ha ancora tanta forza, che nessuno, a cominciare dal suo partito, è in grado di fermarlo?
Come padre titanico non ha fatto crescere figli. Piuttosto li mangia: basta pensare al povero Alfano
E se fossimo tutti berluschini?
di Angelo d’Orsi (il Fatto. 28.01.2012)
Il primo era stato Alberto Asor Rosa, in articolo dell’estate 2008 a paragonare il berlusconismo al fascismo, spingendosi ad affermare che il primo era peggiore del secondo, suscitando non poche polemiche. Poi la battaglia quotidiana prevalse, contro il Cavaliere di Arcore, che andava collezionando epiteti di varia efficacia, a cominciare da quello di “Caimano”, con la variante, inventata da Marco Travaglio, ben nota ai lettori del Fatto Quotidiano, di “Cainano”. E cresceva intanto la produzione di libri sul fenomeno Berlusconi, sul suo “partito di plastica”, che qualcuno infine cominciò a prendere sul serio, esaminandone gli effetti pervasivi sulla vita pubblica, grazie a un sistema di cricche affaristiche, con contorno di escort, di cui gran collezionista risultava essere proprio il capo del governo, capitano di una nave tanto pronto a cianciare e farsi fotografare, quanto inetto al comando, assai più occupato a gestire affari e affarucci privati - d’ogni genere - che ad affrontare i problemi di un’Italia ormai piegata su se stessa, “Concordia” senza timoniere, ferita nella sua etica pubblica, più ancora che nella sua capacità produttiva.
Oggi scaffali di biblioteche e librerie sono debordanti di biografie e di studi sull’inventore di Forza Italia: memorabile quello del compianto Giuseppe Fiori (Il venditore, Garzanti 1995) ; ma da tempo si sono aggiunte analisi del fenomeno, anche in previsione di una uscita di scena dell’uomo, non foss’altro che per ragioni biologiche.
E LE ANALISI si sono infittite, anche sul piano giornalistico, dopo le “dimissioni coatte” dello scorso novembre. Analisi che interpretano forse una paura: che “quella roba lì” sia destinata a rimanere anche dopo la definitiva scomparsa del personaggio che l’ha messa in piedi? Dopo un memorabile fascicolo doppio di MicroMega - intitolato senza infingimenti, “Berlusconismo e fascismo” - sono arrivati altri libri, articoli, dibattiti. Oltre alla paura degli uni e al pessimismo di altri, tra le motivazioni, probabilmente, c’è un’attitudine scaramantica: ma è emerso altresì il bisogno di studiare il fenomeno berlusconiano, prescindendo dal capo, mettendone in luce i complessi aspetti politici, sociali, mediatici e di costume.
Si tratta di capire, insomma, se tanti di noi non siano stati contagiati dal virus, diventandone “portatori sani”, fino al suo manifestarsi in forma violenta. Una sorta di Invasione degli ultracorpi, l’angoscioso romanzo di Jack Finney, portato al cinema da Don Siegel. Ma allora - metà anni Cinquanta - si era in piena Guerra fredda e l’allusione possibile era ai comunisti che “sembrano come noi”, ma come noi non sono, e si impadroniscono un po’ alla volta delle nostre menti. Qui si tratta di capire se il berlusconismo, giunto apparentemente a fine corsa, abbia permeato di sé i nostri modi, abitudini, pratiche.
Se lo chiedono, per esempio, due libretti recenti, uno di un sociologo, Rino Genovese (Che cos’è il berlusconismo, Manifestolibri), l’altro, ancor più smilzo e sbrigativo, di un militante anarchico, Piero Flecchia (Da Mussolini a Berlusconi, Mimesis). Gli autori vanno a caccia delle costanti, delle manifestazioni che in un passato più o meno lungo hanno non solo preparato, ma evidenziato il berlusconismo.
Al di là insomma della traiettoria personale di Silvio Berlusconi, si tenta di mettere a fuoco il quesito: la sua affermazione prima, la durata poi, sono dovute, oltre che a capacità personali e incapacità dei suoi avversari (inevitabili le bordate, peraltro ormai inevitabilmente e giustamente divenute moneta corrente, contro una sinistra rinunciataria, debole, spesso connivente), e a specifiche cause storiche, anche a “precondizioni” antropologiche? E dietro affiora l’altro interrogativo: il berlusconismo - fusione di populismo, leaderismo, familismo, affarismo, immoralismo, antipoliticismo - sarebbe stato possibile senza Berlusconi?
Genovese risponde di sì: si tratta di un processo di “deformazione della democrazia” (che però ha risvolti sovranazionali) che può essere caratterizzata così: un fenomeno politico che vede lobby economico-finanziarie che non si accontentano di esercitare pressioni politiche, ma mirano (e con Berlusconi da noi giungono) alla conquista diretta del potere, in tal modo svuotando nella pratica il sistema democratico che rimane più o meno intatto nella sua forma esteriore.
UNA SORTA di parassitismo della democrazia, scaturito dal più generale fenomeno di “ibridazione del moderno”, la coesistenza sempre più problematica di modi, tempi, culture tipici della modernità (o addirittura postmodernità), e forme sconcertanti di arcaismo. In tale quadro, se il berlusconismo diventa paradigmatico a livello almeno europeo, la figura di Berlusconi non è essenziale, anche se, aggiungo, ha fornito all’Italia un primato sulla scena forse mondiale, con un’overdose di volgarità sconcertante, ma con peculiarità che a mio avviso non possono essere svalutate. E soprattutto, non va accolto il pessimismo totale di chi ritiene (come Genovese) che l’Italia sia ormai inguaribile. Oggi che il pifferaio sembra ritornato nel cono d’ombra da cui era balzato fuori un ventennio fa, il quesito deve essere: come facciamo non solo a impedire che torni a istupidire gli italiani, ma a risanare il corpo e l’anima dell’Italia dal morbo berlusconiano? Ma su questi due punti non bastano le analisi: sono necessarie le azioni.
Lo psicanalista Recalcati
“Nessun erotismo né passione, solo perversione”
di Wanda Marra (il Fatto, 18.09.2011)
"Nessun erotismo, nessuna arte della seduzione, nessuna passione. Nel sesso quest’uomo cerca piuttosto la prova della sua esistenza”. Dunque, “il vero luogo del bunga bunga non è il letto, ma il sacrario, il mausoleo cimiteriale dove si prepara illusoriamente un posto nell’eternità”. Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano così legge la figura (e la patologia) di Berlusconi, anche alla luce delle ultime vicende emerse dalle intercettazioni. Un crescendo angosciante di ossessione sessuale, che viene prima di ogni altra cosa, che copre ogni realtà (“Sono uno che non fa niente che possa essere assunto come notizia di reato... a me l’unica cosa che mi possono dire è che scopo”, diceva B. in una telefonata a Lavitola). Una “schiavitù” compulsiva e inesorabile che altro non è che “un potente rimedio nei confronti della sua angoscia della morte”.
“Perversione” la definisce tecnicamente Recalcati. Che spiega: “La prestanza fallica del proprio corpo è l’unico suo vero tarlo”. E dunque, non stupisce che arrivi a dire “faccio il premier a tempo perso”: “Come potrebbe dedicarsi, se non a tempo perso, ad altro? - spiega lo psicanalista - Magari ad assicurare un’immagine dignitosa delle istituzioni e una guida al governo del nostro paese... Meglio fare “girare la patonza” (testuale in un’altra intercettazione, ndr), l’amuleto che lo protegge dalla morte, assicurandogli di essere ancora vivo”.
Recalcati usa le stesse parole del premier citando “la moltiplicazione affannosa dei corpi”, “la ricerca incestuosa (‘ho due bambine’) e vampiresca della loro giovinezza (‘a 29 anni è già vecchietta’), la verifica ossessionata della propria resistenza fallica (‘me ne sono fatte otto’), per spiegare un punto centrale: “Il godimento perverso di S.B.” non dà in realtà “alcuna soddisfazione”, ma esige “la sua ripetizione compulsiva”. Per questo, lo psicanalista mette in relazione “il rituale del bunga-bunga” con “il sacrario monumentale che S.B. ha edificato nella sua villa di Arcore”. Con un’immagine forte: “Una specie di viagra di marmo che dovrebbe permettere all’uomo, mortale come tutti, di erigersi come un fallo gigante nell’eternità”.
Insomma, il sesso non è altro che un tentativo disperato di esorcizzare la morte: “Tutta la tragica e farsesca verità del bunga bunga” dunque è “in quest’esorcismo dello spettro della morte”, come “nel rifiuto del tempo che passa”. Altro che il tanto sbandierato “amore per le donne” che dovrebbe creare invidia e ammirazione. Dietro questo, infatti, “si nasconde un uso psicofarmacologico e non erotico dei corpi femminili”. Per questo, come avviene frequentemente in questi casi clinici, spiega Recalcati “gli fa perdere la testa esponendolo ai comportamenti più autolesivi, rendendolo, per esempio, vittima di ricattatori senza scrupolo”. Dunque, nessuna gioia, nessuna vitalità. Solo l’angoscia “che trasuda da questo corpo anziano”: “Il vero padrone non è lui, ma è, come per tutti, la morte”.
L’altrove del narcisista
di Barbara Spinelli (La Repubblica, 07.09.2011)
Forse, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell’inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile». Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s’accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell’Utri, e parecchi altri.
Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.
Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell’ombra. Si è avuta quest’impressione, netta, quando Dell’Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l’avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe».
Uno che accetta d’esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda». La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un’ordinaria abitudine omertosa, e questo nell’ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d’Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.
Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l’arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s’annebbia, più cresce il sospetto che anch’egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».
Ma c’è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l’odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l’immagine s’è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all’oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell’Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.
Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d’interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d’interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch’essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po’ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l’iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l’opera di Visco e Prodi contro l’evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘46. Come spiegare in altro modo l’incuria, l’impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?
Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d’aver acquistato a caro prezzo azioni dell’autostrada Serravalle, quand’era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall’imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l’ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l’allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l’uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s’espugna con i figli del berlusconismo.
Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s’imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d’interesse, Chiesa compresa. Liberare l’Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ’93-’94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.
Un paziente psichiatrico da aiutare
Luigi Cancrini
risponde a Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21
Il premier ci aveva fatto sapere che solo i matti votano a sinistra. Ieri ha infastidito Obama con la solita barzelletta della dittatura dei giudici. Un chiaro segno che i matti sono anche altrove. Se un matto fa il premier però bisognerebbe interdirlo. Forse se fossero stati negli Usa Obama avrebbe chiamato l’ambulanza...».
di Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21
L’espressione interdetta di Obama di fronte al poveretto fuori di testa che gli si avvicina con tanto di fotografo e di interprete per dirgli che in Italia c’è la dittatura dei giudici di sinistra è il migliore dei commenti possibili a questa ennesima sortita del premier.
L’immagine che ha suscitato immediatamente in me, dopo tanti anni, è quella del paziente di un Ospedale Psichiatrico che, vedendo una faccia nuova, subito gli si avvicina chiedendogli una sigaretta o sussurrandogli in fretta che "la colpa era della suocera" e con un gran senso di pena mi è venuto da pensare a quello che sta accadendo all’uomo del bunga bunga, ai fantasmi che ormai da troppo tempo occupano la sua mente, a chi potrebbe e dovrebbe fermarlo e gli corre ancora dietro, invece, cercando di prendere ancora da lui, così ricco e potente, tutto quello che ancora c’è da prendere. Un uomo che sta così male andrebbe aiutato a "staccare” un po’ la spina, godersi un po’ di riposo cercando, con l’aiuto di un tranquillante, qualcuno che lo ascolti. Nello spazio privato della terapia invece che al vertice del G8.
* l’Unità, 28.05.2011
Se il sogno tv non incanta Chiara e Ambra
Berlusconi ha rabbia contro tutto ciò che è bello giovane e felice.
Tutte queste cose il premier non le ha più e per questo attacca il corpo delle donne
di Luigi Cancrini (l’Unità, 16.04.2011)
La deposizione di Ambra e Chiara ai Pm di Milano è un documento che apre una finestra sul mondo (mercato) dello spettacolo televisivo, sui modi in cui esso viene vissuto (fantasticato) dai più giovani, sulle reazioni che produce su di loro e nelle loro famiglie. Propone un’immagine inquietante, nello stesso tempo, sul rapporto che c’è fra le caratteristiche attuali di questo mondo e la figura del premier. L’uomo intorno a cui tutto si muove.
L’accesso al mondo della tv
Diventare meteorina, si sa, non richiede la partecipazione ad un concorso o curricula. Chiede di esibire ad uno che conta (nel caso Emilio Fede) le curve o le scollature, assecondare qualche movimento galante facendo finta (con se stesse, in questo caso) di considerarlo innocuo: («avrebbe potuto essere mio nonno: di che dovevo preoccuparmi?»), accettare l’idea di correre qualche rischio. In due, in questo caso, per proteggersi a vicenda (o di testimoniare l’una per l’altra) se qualcosa andrà di traverso.
Il rapporto fra uomo (nonno) e donna.
Descritto con sobrietà e con grande precisione, il tipo di rapporto che l’uomo potente, che ha in mano le chiavi del tuo successo e/o del tuo guadagno (1800 euro al mese) è un rapporto di scambio ben sintetizzato, due secoli fa dal senatore di Donizetti nell’Elisir d’amore: «Io son vecchio/e tu sei bella/io ho i ducati/e i vezzi hai tu». Quello che il senatore prometteva ad Adina era il matrimonio, però, non il bunga bunga e/o l’acquisto del corpo che qui si intende interamente donato al compratore con tutti gli annessi e connessi (come un appartamento ) nel momento in cui accettando di concedersi (vendersi) le donne (fanciulla, ragazza, minore) mette la sua firma in calce al contratto. Chiaramente delineando il rapporto fra l’uomo che compra e la donna che vende: un rapporto di compravendita in cui lei mette in gioco tutto quello che ha (corpo e bellezza) in cambio di promesse vaghe, mantenute solo se lei si comporterà come vuole lui.
La psicopatologia della vecchiaia
Invecchiare bene non è facile, specie per l’uomo di successo. Accettare l’idea della morte, non più così lontana, e i limiti imposti dagli anni alla propria possibilità di fare richiede maturità e capacità di accettare la depressione: compito difficile e a volte impossibile, questo per le persone patologicamente innamorate di sé, del proprio carisma, del proprio potere o del proprio denaro. Quello che ne risulta è naturalmente (purtroppo) una rabbia contro tutto ciò che è bello, giovane, riuscito, potenzialmente felice che è l’espressione immediata dell’invidia vissuta da chi queste cose non le ha e non le può avere più e che si traduce, qui, in questo attacco al corpo della donna. Sezionato in tette, culi, cosce dallo sguardo avido di un desiderio capace di scordarsi del tutto della persona e della dignità personale della bellezza.
L’eleganza
Terribile di fronte alla descrizione delle cene e del bunga bunga, dei corpi così volgarmente esibiti e degli scherzi osceni del premier, il ricordo della parola che Berlusconi ha usato tante volte per caratterizzare quelle sue serate di “intrattenimento” quando di incontri eleganti e di conversazioni “raffinate” lui ci aveva parlato senza mai spiegare perché a quelle sue serate venissero invitate (a pagamento) solo donne giovani, belle e da lui “mantenute” (o mantenibili). Confondendo probabilmente anche in buona fede perché questo è il suo livello l’eleganza con la capacità di spendere e la raffinatezza con le mani bucate di un uomo vecchio e solo che si fa guardare e toccare da persone pagate per questo.
La dignità
Che esiste, per fortuna, perché Ambra e Chiara se ne vanno, rinunciando al loro sogno televisivo. Dicendo di no a Emilio Fede, a Silvio Berlusconi, ai loro soldi e ai loro “stipendi” e decidendo, a distanza di tempo, di fare pubblica denuncia di quello che è accaduto. Con l’appoggio di famiglie molto più dignitose di quelle che incitavano le loro figlie, sorelle (o fidanzate) a prendere tutto quello che si poteva prendere. Prendendosi insieme dei rischi per mettere la parola fine alle chiacchiere che giravano intorno alle loro serate ad Arcore. Rivendicando in questo modo la loro dignità. Orgogliosamente facendosi forti, (come l’Adina di Donizetti) della loro gioventù e della loro bellezza contro cui poco davvero possono, ora, i soldi di chi spudoratamente aveva tentato di comprarle.
Ruby, gli adulti e quelle cicatrici che ti condizionano la vita
Le violenze sui minori lasciano segni profondi nell’anima e nei comportamenti futuri. Purtroppo c’è sempre chi se ne approfitta. Indispensabile rivolgersi a un centro specializzato di terapia
di Luigi Cancrini (l’Unità, 23.01.2011)
Chi lavora con i minori abusati sa che la rivelazione dell’abuso è difficile e dolorosa. E, soprattutto, ha conseguenze laceranti per chi la compie. Si scontra con l’incredulità e il fastidio di quelli a cui si tenta di raccontare e apre contraddizioni insanabili fra gli adulti che si occupano del minore alienandogli, a volta per sempre, l’affetto degli adulti di cui ha più bisogno. Lo espone alla curiosità professionale dei periti e all’aggressività senza limiti degli avvocati nel corso dei processi in cui quella che viene esposta è prima di tutto una vergogna che ricade su di loro oltre che sulla loro famiglia: continuamente creando la possibilità di una ritrattazione che può fermare il processo ma non il disprezzo che ancora più pesantemente ricadrà su chi la mette in opera.
LA VITA DEI MINORI ABUSATI
I minori abusati e non curati al tempo in cui l’abuso fu perpetrato, vanno incontro regolarmente a problemi gravi nel corso della loro vita adulta. I comportamenti sessualizzati e, un po’ più avanti, la promiscuità sessuale sono segni tipici della disarmonia che accompagna il loro sviluppo, tossicodipendenza e prostituzione sono complicanze frequenti di questa disarmonia. Quella che si sviluppa nel tempo, infatti, è una tendenza forte a muoversi in modi che sono insieme trasgressivi e autopunitivi: dando spazio in modo più o meno disordinato alla rabbia per quello che hanno subito e al senso di colpa che comunque a quelle esperienze “vergognose” si lega.
RUBY
La storia di Ruby così come emerge dalle cronache e dalle sua stessa testimonianza è, da questo punto di vista, una storia tremendamente banale. L’abuso a nove anni da parte degli zii, il silenzio della famiglia, le fughe da casa e dalle Comunità, l’utilizzo disinvolto del proprio corpo (“ero il suo culo” dirà parlando di Berlusconi) per avere di volta in volta soldi e un po’ di affetto, affetto e un po’ di soldi, l’alternarsi di comportamenti trasgressivi e autopunitivi. Fino al momento in cui le sembra possibile, finalmente, avere una quantità di soldi, di ammirazione e d’importanza su cui poche delle persone come lei possono contare: l’incontro con “papi”, l’uomo anziano accecato dalla paura di essere vecchio fino al punto da prendere sul serio le manifestazioni di affetto di una ragazzina e indementito dal narcisismo fino al punto da credere di essere davvero, per lei, un benefattore.
L’UTILIZZATORE FINALE
È in questo contesto che si sviluppa l’incontro di Ruby con “papi” a cui viene presentata da due dei fedeli servitori di quest’ultimo: il giocatore d’azzardo e il manager senza scrupoli di ragazze e ragazzi che ostentano il loro corpo sulla linea grigia che così spesso divide il mondo dello spettacolo minore da quello della prostituzione. Fidati, ambedue, perché da lui generosamente retribuiti con soldi o incarichi prestigiosi. Ma imprudenti stavolta per eccesso d’avidità perché la minore età di Ruby dovrebbe essere nota a loro prima che a lui e perché se lei, come è possibile, gli piacerà, il rischio che si corre è davvero alto: una persona che soffre di una dipendenza da sesso non può più distinguere, nel momento dell’eccitazione, il lecito dall’illecito.
IL DOPO
L’incontro fra due avidità non è un incontro fra due persone. È un incontro che si nutre all’inizio di un entusiasmo un po’ forzato e che si scioglie poi nella soda caustica della necessità di negarlo. L’incontro (sessuale) non è mai avvenuto, dirà lui che altrimenti dovrebbe dimettersi e accettare il trasferimento da Arcore (o da Palazzo Chigi) a San Vittore e lo stesso un po’ più tardi dirà lei che accuratamente, tuttavia, dissemina in varie conversazioni le prove del rischio che lui correrebbe minacciandola o facendola passare per pazza (precedente illustre è quello di Mussolini con Ida Dalser). Reso più duro, lui, dalla conoscenza ormai non più evitabile del disprezzo, degli imbrogli, del fastidio e dell’umorismo di cui le sue battute da scemo del villaggio, le sue “canzoni” e le sue debolezze lo rendono oggetto anche fra quelli che le coltivano e le favoriscono (o le sfruttano) e resa più dura, lei, dalla verifica non certo inaspettata dell’aridità desolante di un uomo che fa sesso con il tuo corpo ma a cui nulla importa della persona che c’è dentro. Come al tempo dei tuoi nove anni.
RIFLESSIONE PSICHIATRICA
Poiché è questo il mio mestiere, quella che non posso esimermi dal fare è una riflessione sulla patologia da cui tutto questo proviene e che tutto questo ulteriormente amplifica. Sui meccanismi difensivi tutti centrati sulla negazione collusivamente utilizzati da due persone unitamente che li muovono. Avesse il coraggio splendido di altri che lo hanno fatto, mi piacerebbe poter dire a Silvio: dimettiti e inizia un lavoro di terapia. Con il coinvolgimento e l’aiuto, magari, di Veronica. Avesse la forza di capire che è per il suo bene e per la sua vita, mi piacerebbe poter dire a Ruby: rivolgiti ai terapeuti di un centro come il Tiama di Milano e l’Hansel e Gretel di Torino cercando una cura, lì, per l’antica ferita che ancora ti condiziona. Un consiglio di cui so, tuttavia, che difficilmente verrà accettato perché la forza della negazione è molto superiore, ancora, a quella della ragione e del bisogno di ritrovare un equilibrio sano. Un consiglio, tuttavia, da cui non posso esimermi nel momento in cui penso al vuoto e all’infelicità profonda e negata che la clinica mi ha insegnato a intravedere dietro le maschere comportamentali degli abusati e dei loro carnefici. Iniziali e finali.
Perversione “narcinista”: è narciso e cinico
di Massimo Recalcati* (il Fatto Quotidiano” del 20 gennaio 2011
Silvio Berlusconi è un paranoico? No, non credo. Casomai lo fa (come quando recita il mantra dell’anticomunismo), ma non lo è affatto. La grande paranoia si nutre (seppur follemente) di ideali. Nella parola del Führer parlava la Storia che assegnava alle masse una missione scritta nel destino. La dimensione della paranoia è la dimensione del fondamentalismo e non del narcinismo (narcisismo più cinismo) berlusconiano. La perversione è la figura clinica che più ci consente di accostare il fenomeno del berlusconismo. In che cosa consiste? Non tanto nella presenza di comportamenti sessuali patologici, delle cose che si fanno sopra o sotto le lenzuola. In un lapsus esilarante una giornalista de La7, qualificando la Minetti, dice “igienista mentale” anziché “dentale”. Come sentenziava saggiamente Moana Pozzi: il sesso è nella testa. La perversione non è quello che si fa col sesso, ma l’igiene mentale di chi lo fa.
La perversione definisce clinicamente una patologia mentale il cui contenuto di fondo è l’angoscia profonda provocata dell’esperienza del limite. Il perverso non crede nella missione della Storia. Egli è totalmente disincantato. Vive solo per realizzare il maggior godimento possibile in questa vita. Tutto il resto viene dopo, è secondario, anzi è un ingombro alla realizzazione di questo compito che egli persegue come se fosse un vero e proprio cavaliere della fede. Solo che la fede del perverso non conosce ideali, anche se si ammanta di ideali, non conosce rispetto per la verità, anche se può spesso parlare in nome della verità e del suo giusto ristabilimento.
L’angoscia della morte o, che è lo stesso, l’angoscia per la propria impotenza sessuale impongono a Berlusconi di cancellare da un corpo che deve essere bionico tutti i segni della malattia e dell’invecchiamento. Per scongiurare l’angoscia egli si pone come un padrone apatico di questo godimento del sesso senza amore, anche se ne è un servitore inquietante. Perché il perverso può avere l’impressione di dominare tutto ciò che gli sta attorno, ma non la spinta a godere senza limiti.
È la patologia mentale che rende vulnerabile e ricattabile il nostro premier. Questa spinta a godere (Fabrizio Corona docet!) è più forte di lui, non ne può fare a meno, e lo costringe a moltiplicare infinitamente i suoi oggetti. Il denaro gli offre l’illusione che potrà evitare la morte (eternizzandosi nella propria tomba concepita non a caso come un vero e proprio mausoleo); la giovinezza delle sue prede garantisce il ricambio del suo sangue e allontana lo spettro sempre presente della fine. Mostrarsi potente sessualmente non dà soddisfazione e proprio per questa ragione non c’è limite alla sua volontà di sesso (Fabrizio Corona docet).
La riduzione della politica allo slogan pubblicitario si situa sulla stessa linea di forza del disincanto cinico; egli sa dire alla gente ciò che la gente vuole sentirsi dire perché è un raffinato conoscitore della natura del godimento. Il suo ottimismo è un negazionismo delle turbolenze della realtà. Il suo culto della libertà, un libertinismo senza vergogna e senso del pudore. La sua simpatia (la barzelletta sempre pronta) rivela che tutto può essere oggetto di scherno; che si può dire tutto e il contrario di tutto perché quello che si dice si può ritirare o contraddire a piacimento . Se, come pensa il perverso, la verità non esiste, la menzogna è legge. Un altro tratto della perversione è infatti la negazione del valore della propria parola e di quella degli altri. Il suo idealismo è materialistico. Egli crede solo in ciò di cui può godere. Gode dunque è.
Perché un uomo anziano non può abbandonare questa dimensione compulsiva del godimento? Si potrebbe rispondere: per amore della vita. La perversione insegna invece che il dio oscuro che ingiunge di godere ad ogni costo non è il dio dell’amore ma il dio della morte. Il perverso non può frenarsi nella ripetizione delle sue abitudini perché questo è il solo modo che conosce per rimediare all’angoscia della morte. Deve moltiplicare e ripetere infinitamente lo stesso godimento. All’amore non ci crede. È, come ogni ideale, una trovata propagandistica. L’amore infatti non può mai essere un partito perché non fa massa. Ogni tiranno invece ama le masse. L’immagine pubblica che egli vuole dare di sé è l’immagine di un umile soccorritore dei più bisognosi. Ma nel privato questa immagine sembra lasciare il posto a quella del “drago” o, a quella ancora più oscena e incestuosa di “papi”, che gode come una macchina che non conosce usura. I giovani corpi promettono un godimento senza castrazione perché cancellano i segni corrosivi del tempo. Come nelle scene del marchese De Sade tutto si ripete come se il tempo non dovesse mai scorrere.
Dietro il volto sempre più trasfigurato, tipico dei tiranni a fine corsa, di Berlusconi c’è il fenomeno del consenso che egli riesce a catturare. Un’analisi superficiale lo vuole spiegare come effetto della manipolazione mediatica della realtà. Il problema è invece che Berlusconi ottiene il consenso non per la verità che oscura, ma perché oscura la verità, non perché viene smascherato come protagonista di festini a luci rosse con giovani donne, ma perché realizza qui festini con dedizione, non perché mente ma perché rivela l’inconsistenza della differenza tra la verità e la menzogna, non perché è incapace di sostenere con la giusta dignità istituzionale la sua funzione pubblica, ma perché ci mostra che siamo tutti uguali, che tutto nell’essere umano è finalizzato al godere il più possibile in questa vita (Fabrizio Corona docet!).
*Psicanalista lacaniano, Università di Pavia, autore di un saggio sulle patologie del nostro tempo, “L’uomo senza inconscio” (Raffaello Cortina)
Ha lanciato l’allarme prima della moglie che invitava gli amici a portarlo dal medico. Otto anni fa il professor Mauro Mancia l’ha ripetuto a Gad Lerner in diretta tv. Feltri e Giuliano Ferrara hanno risposto furibondi. De Bortoli (direttore Correre della Sera) si è detto contento di non essere un paziente di Mancia. Adesso stanno cambiando idea...
La diagnosi di un grande analista: Berlusconi sta male, megalomania patologica, deve farsi curare
di Ippolito Mauri *
Ma Berlusconi è malato o l’ha inventato la moglie che pregava gli amici di aiutarlo a guarire? Nella scia delle intemperanze organizzate dal Lele Mora l’appello di Veronica Lario riattraversa i giornali: cortigiani indignati come Lupi di Comunione e Liberazione che si scompone in tv e avversari allegri anche se non c’è niente da ridere. Per capire come ci siamo distratti ecco un esercizio di memoria.
Il primo allarme dimenticato arriva otto anni fa. Gad Lerner propone un viaggio nel cervello del Cavaliere. Ha appena riconquistato Palazzo Chigi: sacrilegio sfiorarlo senza riverenze. E sorrisi di compassione accompagnano la diagnosi del professor Mauro Mancia, neurofisiologo alla Statale di Milano e psicoanalista didatta celebrato. «Il presidente ha detto di avere un complesso di superiorità...». Che conferma partendo per Seul: «Se mi guardo attorno non trovo un politico bravo come Silvio Berlusconi». «Complesso di superiorità? Complesso di inferiorità. Chiare le evidenze. E’ un personaggio piccolo con poca charme. Veste come un manichino di negozio di provincia. Linguaggio banale, interessantissimo trattato di sintomatologia. Esempio: la negazione. Nega tutto ciò che evidente. Collegata alla negazione c’è la menzogna. E la bugia sostituisce la regola relazionale Alla base, un processo che chiamiamo di identificazione proiettiva: consiste in un’operazione della mente per cui delle parti proprie, prevalentemente sgradevoli e negative, vengono proiettate su altre persone come l’attribuire alla sinistra e a ogni avversario, i difetti che sono suoi. In primo luogo la menzogna. Difficile prevedere se in futuro possa diventare patologia. C’è da augurarsi che senta il bisogno di far curare queste dimensioni megalomaniache e patologiche potenziate dal consenso che raccoglie. Molti italiani si identificano per convenienza nelle sue qualità peggiori. E’ venuto dal nulla, ha avuto successo, anch’io posso avere successo».
Mancia era uno specialista del sonno. Già allora Berlusconi raccontava di dormire pochissimo per lavorare il più possibile.
E il professore risponde: «il sonno aiuta a star bene mentalmente. Far pratiche per non dormire è come opporsi al proprio benessere mentale. Essendo un uomo senza qualità, il potere è l’essenza della sua vita. Ossessione delirante e pilotata. Non follia, ma dominio di una perversità etica. Manipola, pervertendole, realtà e verità. Se perde il potere perde l’identità e la sconfitta diventa una tragedia».
Correva l’anno 2002.
Il Feltri che oggi taglia i fili, scoppia in studio: «Mancia non sta bene. Va curato, è urgente. Mandiamogli se non due psichiatri, almeno due infermieri». Si improvvisa infermiere di fiducia. E tampona le accuse di Veronica sbattendo in prima pagina la signora a seno nudo: «quando faceva la velina».
Il Giuliano Ferrara, oggi dubbioso, sorride di compassione: «Sembra di essere nell’ex Unione Sovietica. Stupidaggini incredibili raggruppate con una certa spocchia».
Ferruccio De Bortoli, esterrefatto. «Sono contrario alla legge sul legittimo sospetto, ma sarei favorevolissimo alla legge del legittimo sospetto medico. Spero di non essere mai un paziente del professor Mancia. Siamo caduti nella provocazione televisiva di Gad».
Gad, sornione, che ripete: aspettiamo. L’ordine dei medici censura Mancia. Non per il contenuto della diagnosi ma per aver espresso la diagnosi infilato nel camice bianco. I baroni, non si sa mai, prendono le distanze. Adesso cosa pensano?
* Domani, 15-11-2010: http://domani.arcoiris.tv/la-diagnosi-di-un-grande-analista-berlusconi-sta-male-megalomania-patologica-deve-farsi-curare/
Il metodo diagnostico
Disturbo narcisistico e leadership patologica
Luigi Cancrini espone i nove criteri riconosciuti per l’individuazione dell’NPD dal «senso grandioso di importanza» alle «fantasie di illimitati successi»
Il difficile rapporto con le donne e le responsabilità delle persone amiche
Potenti ma fragili. Il successo predispone allo sviluppo del disturbo in età adulta
di Luigi Cancrini (l’Unità, 06.11.2010)
Proporre una diagnosi psichiatrica a proposito di una persona che non si conosce direttamente è possibile? È lecito? Belpietro e i suoi amici di Panorama hanno reagito con durezza alle cose che avevo scritto facendolo. Quella che vorrei presentare loro, molto semplicemente, è la lista dei criteri indicati dal DSM IV, il più importante e riconosciuto dei manuali psichiatrici per la diagnosi di “disturbo narcisistico di personalità” (NPD). Chiedendo loro se, dopo averli letti (meditati), non sono d’accordo anche loro con me nel porre questo tipo di diagnosi per un uomo come il nostro premier. I criteri, dunque, sono nove.
(1) Ha un senso grandioso d’importanza (per esempio esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore anche senza un’adeguata motivazione); (2) è assorbito da fantasie di illimitati successi, potere, fascino, bellezza, e di amore ideale; (3) crede di essere “speciale” e unico; (4) richiede eccessiva ammirazione; (5) ha la sensazione che tutto gli sia dovuto: cioè, la irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative; (6) sfruttamento interpersonale: cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi; (7) manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; (8) è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino; (9) mostra comportamenti e atteggiamenti arroganti o presuntuosi.
Nel caso, poi, in cui loro non siano d’accordo con me, potrebbero spiegarmene il perché? Evitando, se possibile, gli insulti?
Le esperienze infantili che preparano l’hardware del disturbo narcisistico sono collegate regolarmente ad un clima familiare in cui il bambino ha ricevuto una adorazione e un amore disinteressati ma fuori misura in quanto non accompagnati da una sufficiente empatia e da una genuina presentazione dei fatti. Il futuro narcisista non è informato circa i sentimenti e i bisogni distinti dei propri genitori.
La lezione è che i genitori vogliono solo apparentemente bearsi dello splendore del soggetto: una lezione che interferisce con il processo di apprendimento del soggetto circa il fatto che gli altri hanno bisogni, punti di vista e desideri loro propri. Il modo in cui questa predisposizione si sviluppa nell’età adulta intorno al “successo” viene bene illustrata, d’altra parte, da una delle studiose più importanti dei disturbi di personalità, Lorna Smith Benjamin: la psicoanalisi sostiene che lo sviluppo del carattere viene fissato in tenera età, in genere nella prima infanzia ma Sullivan già nel 1953 osservò che le prime esperienze interpersonali non sono le uniche a formare il carattere.
L’aspetto programmabile (il “software”) dell’NPD si può acquistare anche più avanti. Le persone ricche e famose sono particolarmente soggette a sviluppare l’NPD da adulte. Quanti ricevono gratificazioni per il successo raggiunto nell’ambito professionale cominciano a pronunciarsi su questioni ben lontane dalla loro sfera particolare! Stelle del cinema e imprenditori di successo si sentono improvvisamente adatti a concorrere per cariche politiche, che dovrebbero, invece, richiedere particolari capacità nell’unire, mobilitare e adempiere le volontà di persone molto diverse fra loro. Le capacità organizzative richieste per il buon governo sembrano non aver nulla a che fare con l’abilità di recitare o di guidare un’impresa.
Si badi, tuttavia. Non sono episodi sporadici di successo (e di consenso entusiasta) a far nascere il disturbo, ma è il loro ripetersi. La gente comune può offrire e offrirà adorazione incondizionata, come pure affetto deferente, ai ricchi e famosi. Se si verificano le condizioni adatte, non è mai troppo tardi per sviluppare l’NPD.
Una delle domande più comuni è quella che riguarda il modo in cui le persone che hanno un disturbo di questo tipo ottengono l’ammirazione incondizionata di tante persone. Scriveva in proposito Freud nel 1914: «Appare molto chiaro che il narcisismo di una persona esercita un certo fascino su quanti hanno rinunciato a parte del loro stesso narcisismo e che sono alla ricerca dell’oggetto d’amore; il fascino del bambino si basa in larga parte sul suo narcisismo, sulla sua autosufficienza e sulla sua inaccessibilità, proprio come il fascino di certi animali che sembrano non curarsi affatto di noi, come i gatti e i grandi predatori.
È come se invidiassimo loro la capacità di serbare uno stato di beatitudine, un’inattaccabile posizione di libido, alla quale noi abbiamo da tempo rinunciato». Carisma, nel tempo dei media, è sempre più questo e non richiede competenze reali sui problemi. È telegenico?, ci chiediamo, invece di chiederci: è davvero preparato e capace? E il più narcisista spesso vince. Kernberg (1984) parla di come i narcisisti tendono ad essere promiscui in quanto entrano in relazione solo con delle parti del corpo. I problemi sessuali del maschio con NPD possono essere attribuiti, secondo lui, ad un’invidia inconscia e ad una smania di possesso per le donne. Questo genere di maschio desidera sciupare e svalutare le donne. L’autonomia che così spesso lo caratterizza, non è altro che una difesa. Rappresenta una via d’uscita dalla proiezione della propria smania di possesso nei confronti delle donne.
Il narcisista di successo reagisce alle contrarietà con la collera, con la denigrazione dell’altro o con la teoria del complotto. Entra davvero in crisi solo quando quello che accade è irreparabile, come nel caso della morte di una persona cara, della perdita di un legame importante o dall’incontro, inevitabile, con la vecchiaia del corpo. Il movimento depressivo può debordare, in questi casi, dando luogo ad una esasperazione caricaturale dei suoi comportamenti meno riusciti. Il disprezzo per gli altri (le altre), l’aggressività e la rabbia vengono allora in primo piano insieme ad un bisogno maniacale di rifugiarsi nel proprio mondo personale: un mondo in cui trovano posto solo i complici e gli adulatori, quelli che hanno bisogno di lui e che più o meno autenticamente lo ammirano. Quando le vicende della vita lo portano ad una terapia, invece, quello che si può tentare di fare è di aiutarlo a diventare consapevole della sua potenza distruttiva. La nuova consapevolezza di nutrire dei sentimenti ostili darà luogo a sensi di colpa e ad una depressione costruttiva. Via via che la terapia continua, verrà, poi, fuori una matura considerazione degli altri e dei loro sentimenti. Voler bene a chi sta male vuol dire stargli vicino, sostenerlo, ascoltarlo ma, anche e a tratti soprattutto, confrontarlo sulle cose sbagliate e autodistruttive che fa. Amico del tossicodipendente da eroina è chi lo confronta per farlo smettere, non chi gli dà i soldi per comprarla. Amico di una persona che ha problemi di dipendenza dal sesso non è chi gli porta in casa le escort e le ragazzine: silenziosamente suggerendogli che lui è il Capo e può fare quello che vuole. Amico è chi, come fanno a volte le mogli, gli dice che sta sbagliando. Che deve smettere.
I guasti che un leader patologico può produrre nella struttura o nelle strutture di cui ha il comando o la responsabilità consistono essenzialmente nell’aumento della conflittualità all’interno di tali strutture, nella diminuzione brutale della loro efficienza e nel peggioramento forte della qualità della vita nelle persone che in esse operano.
Si tratta di conseguenza ampiamente descritte nella letteratura specialistica. Nelle organizzazioni in cui il potere è distribuito fra diverse persone o gruppi quello cui si va incontro in questi casi è una mobilitazione delle parti sane del gruppo che spinge per la deposizione e la sostituzione del leader. L’unificazione nelle sue mani di tutti i poteri può diventare in questa fase l’obiettivo primario del leader patologico.
L’esito di questa battaglia può arrivare ad essere, in alcuni casi di cui la storia del ventesimo secolo ci ha dato varie dimostrazioni (in Italia e in Germania, in Spagna e in Unione Sovietica) la scelta fra la tirannide o la democrazia.
Il «folle narcissico» di Gadda, ritratto immortale del “duke”
Da «Eros e Priapo», (Garzanti), ecco gli ultimi paragrafi del «saggio sulla psicologia e la fisiologia che permise vent’anni di dittatura fascista»
I tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro
Uno si crede Cesare perché fa inscrivere il nome Caesar sui sassi
Erezione perpetua. In lui tutto è relato alla prurigine erubescente dell’Io minchia
Lo jus è turibolo. L’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della sua persona
di Carlo Emilio Gadda (l’Unità, 06.11.2010)
Qualunque si affacci alla vita presumendo occupare di sé solo la scena turpissima dell’ agorà e istrioneggiarvi per lungo e per largo da gran ciuco, e di pelosissima orecchia, a tanta burbanza sospinto da ismodata autoerotia, quello, da ultimo, tornerà di danno a’ suoi e talora a sé medesimo. Il folle narcissico è incapace di analisi psicologiche, non arriva mai a conoscere gli altri: né i suoi, né i nemici, né gli alleati. Perché ? Perché in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo. E allora gli adulatori sono tenuti per genii: e per commilitoni pronti a morire col padrone, anzi prima di lui facendo scudo del loro petto. (In realtà, appena sentono odor di bruciato se la squagliano). I non adulatori sono ripudiati come persone sospette ed equivoche. I contraddittori sono delinquenti punibili con decine di anni di carcere. I derisori e gli sbeffeggiatori sono da appendere pel collo.
Seconda caratterizzaione aberrante e analoga alla prima, è la loro incapacità alla costruzione etica e giuridica: poiché tutto l’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della loro persona, chè è persona scenica e non persona gnostica ed etica, e alla titillazione dei loro caporelli, in italiano capezzoli: e all’augumento delle loro prerogative, per quanto arbitrarie o dispotiche, o tutt’e due. Lo jus , per loro, è il turibolo: religio è l’adorazione della loro persona scenica; atto lecito è unicamente l’idolatria patita ed esercitata nei loro confronti; crimine è la mancata idolatria.
Altra modalità dell’aberrazione narcisistica è la morbosa tendenza a ’innalzarsi’, ad eccellere in forma scenica e talora delittuosa, senza discriminazione etica: senza subordinare l’Io a Dio. L’autofoja, che è l’ismodato culto della propria facciazza, gli induce a credere d’esser davvero necessari e predestinati da Dio alla costruzione e preservazione della società, e che senza loro la palla del mondo l’abbi rotolare in abisso, nella Abyssos primigenia mentre è vero esattamente il contrario: e cioè senza loro la palla de i’mondo la rotola come al biliardo e che Dio esprime in loro il male dialetticamente residuato dalla non-soluzione dei problemi collettivi: essi sono il residuo mal defecato dalla storia, lo sterco del mondo.
Il contenuto del pragma narcissico è limitato a quel groppo di portamenti e di gesti che ponno attuare la relazione (ottica, acustica) con la desiderata platea, che soli possono procurargli l’applauso. Groppo che diviene persona: la è tutta lì la "persona". Il Golgota non è scena, non è disonor del Golgota degno di lui. Per lui non il legno della croce, ma il cesso di lapislazzuli o il bidet di onice. Esibisce voci e canti da magnificar l’Io nella voce, nel frastorno. La voce è richiamo sessuale potente e gravita, per così dire, sull’ovaio alle genti.
Il folle narcissico è desidera e brama le carte stampate, per quanto coartate e vane, i giornali magnificanti le su’ glorie, e de’ sua. Gli stessi annunci funebri, i soffietti pubblicitari se gli è privato uomo titillano la sua lubido narcissica. Morirebbe, "per andà in sul giornàal". Ma la nota dominante del pensiero, della parola e dell’atto è la menzogna narcissica. La menzogna narcissica è, nel procedere della storia, quel che è la dissipazione nella vita privata. Consiste nel negare una serie di fatti reali che non tornano graditi a messer "Io". La menzogna esce di getto dalla sua anima come dogma irruente, come uno spillo d’acqua da una manichetta de’ pompieri sotto pressione. Si sente che nessuna remora, nessuna obiezione potrà fermarla. Lo stesso vediamo fare con resultati pressoché identici, alla isterica o all’ipocondriaco e in genere a quelli che sono smagati da un "delirio interpretativo" dei fatti reali. (Questo termine è dello psicologo francese Capgras).
Il dato ormone
Se la isterica menta consapevole o no, è una delle questioni classiche dibattute dalla psicopatologia: e io non ho né dottrina né forze né tempo né carte da istruirne a questi anni per la millesima volta il dibattito. La menzogna narcissica, la reticenza narcissica, la calunnia narcissica direi, un po’ a lume di naso, che pertengono alle zone conscie dell’Io: e pure comportano un che di ineluttabile, di "fatale", di teso: di biologicamente predeterminato quasi dall’eccessivo esondare di un dato ormone: esse rasentano certi stati di sogno, di utopia folle e felice che da non so quali stupefacenti si procacciano. Uno si crede Cesare perché fa inscrivere il nome Caesar su alcuni sassi. Sogna. Le genti sensate gli ridono in faccia. Allora il malato li fa prendere e li fa carcerare per decine di anni. Sul palco, sul podio, la maschera dell’ultra istrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena. I tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro.
È vero, il Premier sta male
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 04.1120.10)
Berlusconi ostenta potere e ricchezza attraverso la pervicace esibizione di espressioni e atti di cattivo gusto e maleducazione che incardina e legittima con un potere senza controllo e senza pudore, insofferente al dissenso e agli organi istituzionali di garanzia. Queste sono le azioni di un malato, socialmente e politicamente disturbato. O no?
Gianfranco Pignatelli
RISPOSTA La moglie ne aveva parlato al tempo di Noemi, Scalfari ha riproposto il tema domenica, i fatti, alla fine parlano. Il premier sta male. Parla di un paese in cui la crisi va combattuta dicendo che non c’è, di rifiuti che scompaiono come cartoni animati di Disney, di uomini anziani che fanno del bene alle ragazze povere e belle, di un Consiglio d’Europa che si è svolto tutto intorno alle sue proposte, di profanatori di minorenni che sarebbero meglio dei gay, di giornali da non leggere. Alle spalle ha due anni in cui è riuscito a distruggere, con una serie di comportamenti impulsivi, l’esercito con cui aveva stravinto le elezioni del 2008.
Ma alle spalle ha anche, agli occhi di chi fa un mestiere come il mio, la morte della madre e il fallimento del secondo matrimonio: due eventi utili a spiegare, forse, il perché di questo crollo. È soprattutto nelle persone che utilizzano grandi difese narcisistiche, infatti, che il lutto è così difficile da elaborare. Soprattutto se quello che resta loro intorno è solo il silenzio complice, interessato e confuso di chi pensa di aiutarli facendo finta che stanno bene. Come lui ha fatto con Ruby.
Uno scontro tra due idee di democrazia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 31/7/2010)
C’è un conflitto più grave, più esteso e lacerante, della frattura che in queste ore ha spaccato in due come una mela il maggiore partito politico italiano. È il conflitto tra due concezioni della democrazia, della legalità costituzionale. La prima è una democrazia plebiscitaria: significa che la sovranità si trasferisce dagli elettori al leader, il quale poi la esercita dettando in solitudine l’agenda di governo così come l’organigramma dello Stato. La seconda è una democrazia parlamentare, con i suoi riti, con i suoi tempi, con i suoi equilibri perennemente instabili. È alla prima concezione che si è richiamato Silvio Berlusconi, cacciando dal partito Fini e licenziandolo dallo scranno più alto di Montecitorio. È alla seconda che s’appella viceversa il presidente della Camera, alla sovranità del Parlamento anziché del Capo carismatico. Non che le democrazie debbano temere le occasioni di contrasto. Meglio portarle allo scoperto che nascondere la polvere sotto i tappeti. Non per nulla la nostra Carta regola il conflitto d’attribuzioni fra i poteri dello Stato. E infatti la nascita d’un gruppo parlamentare autonomo chiude una stagione di congiure, dove non era chiara nemmeno l’identità dei congiurati.
Ora finalmente potremo fare un po’ di conti, ma soprattutto dovrà farli Berlusconi. Perché sta di fatto che sbarazzandosi del proprio oppositore interno in nome della democrazia plebiscitaria, paradossalmente ha rivitalizzato la democrazia parlamentare. È in Parlamento, difatti, che il suo gabinetto dovrà trovare i numeri per continuare a governare. È lì che le forze politiche potranno decidere di battezzare un altro esecutivo. Ed è sempre al Parlamento che il Premier dovrebbe riferire circa la fase politica che si è aperta nel Paese. Lo farà? È giusto dubitarne: nella democrazia plebiscitaria le Camere sono un orpello, un accidente inutile. Ecco allora l’autentico conflitto che in Italia si consuma ormai da molti anni: quello fra Costituzione scritta e Costituzione materiale.
È un conflitto fra diritto e anti-diritto, che in ultimo ci rende viandanti nel deserto del diritto, perché i due regimi s’elidono a vicenda. Eppure si profilano entrambi all’orizzonte specie durante il frangente d’una crisi, quando sarebbe maggiormente necessario il salvagente delle regole.
Accadde per la prima volta nel 1994, dopo il ribaltone di Bossi che colò a picco il primo governo Berlusconi. Lui reagì chiedendo elezioni anticipate, in nome per l’appunto della democrazia plebiscitaria; invece il presidente Scalfaro insediò il governo Dini, in nome della democrazia parlamentare. Adesso ci risiamo: Fini non si dimette, le regole scritte non contemplano alcuna mozione di sfiducia verso i presidenti delle assemblee legislative, Berlusconi tira in ballo le regole non scritte. C’è però un colpevole, c’è un killer a viso scoperto, in questa strage delle regole di cui siamo costretti a celebrare i funerali. Questo colpevole è il sistema dei partiti: tutti, di destra e di sinistra.
Nella seconda Repubblica si sono avvicendati a turno sui banchi del governo, senza mai adeguare la Costituzione scritta al nuovo ordinamento materiale, o senza contrastarlo in nome della legalità formale. In più trattano le istituzioni come la propria cameriera. Ne è prova lo scandalo del nuovo Csm, dove hanno trovato un posto al sole l’avvocato di Bossi (Brigandì), quello di Berlusconi (Palumbo), quello di D’Alema (Calvi). Ne è prova altresì la lunga occupazione della presidenza di Montecitorio da parte dei segretari di partito, ancora senza differenze tra sinistra e destra: nell’ordine Casini, Bertinotti, Fini. E poi ti meravigli se il capopartito continua a fare il primattore anche da lassù? Non sei stato proprio tu - Prodi, Berlusconi - a farlo votare? Nella prima Repubblica, quando s’affermò la convenzione che la presidenza della Camera spettasse al Pci, Berlinguer ci mandò la Iotti, senza mai sognarsi d’occuparla in prima persona. Ma Berlinguer è morto, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.
michele.ainis@uniroma3.it
Lo Ior e il Vaticano
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 30.01.10)
Non posso fare a meno di ringraziare Margherita Hack che a «Otto e mezzo» ci ha ricordato che in Italia oggi comanda un Vaticano che, francamente, non mi pare intenzionato a diffondere il messaggio evangelico sull’eguaglianza degli uomini, ma quello più redditizio del profitto economico.
Silvana Stefanelli
RISPOSTA
In «Qualunque cosa succeda» (Sironi editore), dedicato alla memoria di suo padre Giorgio, Umberto Ambrosoli ha lucidamente ricostruito l’imbroglio che Sindona aveva organizzato ai danni del nostro paese. C’erano, con lui, la Democrazia Cristiana di Andreotti e lo Ior, la banca del Vaticano legata alla P2 che tanta parte ha avuto nella vicenda politica italiana del secondo dopoguerra. Margherita Hack fa bene a ripeterlo, c’è una continuità impressionante fra quello che accadeva allora e quello che accade oggi che a capo del Governo c’è un uomo che nella P2 ha iniziato la sua carriera. Di lui infatti il Vaticano (che la rappresenta ma, per fortuna, non è la Chiesa) ha sfacciatamente auspicato e favorito (scendendo in capo col Family Day) il ritorno al potere. Continuando a godere senza problemi di coscienza i frutti di questo appoggio: la spregiudicatezza della finanza tanto cara agli uomini (o ai prelati) dello Ior, la tutela degli insegnanti di religione nominati dai Vescovi nella scuola pubblica e la difesa di leggi (l’ultima è il testamento biologico) ipocritamente confessionali. Come con la Dc di Sindona.
IL COMMENTO
Il coltello del potere
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Ora che si annuncia il character assassination di Gianfranco Fini, come per la brutale liquidazione del direttore dell’Avvenire, non tiene conto discutere di chi preme il grilletto.
Quel che conta è mettersi dinanzi la figura del mandante, le ragioni della sua mossa intimidatoria per fermare l’immagine della scena distruttiva in cui siamo precipitati. Quel che accade, non c’è altro modo per dirlo: Silvio Berlusconi, con il suo giornale, avverte il partner che, en passant, è anche la terza carica della Repubblica. Lo minaccia con formule che fanno venire il freddo alla nuca: "Ultima chiamata per Fini... Fini ha l’esigenza immediata di trovare una ricollocazione: o di qua o di là. Non gli è permesso... Deve risolversi subito... E ricordi che, bocciato un Lodo Alfano, se ne approva un altro". E infine, lo scintillio del coltello: "Ricordi che delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. E’ sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme".
Nella "strategia della tensione" (le Monde), inaugurata per l’autunno dal capo del governo, il giornalismo diventa strumento di intimidazione e minaccia. Ce ne possiamo meravigliare? L’avevamo già visto all’opera contro Dino Boffo, quel giornalismo assassino. Quel che conta è scorgere dietro quell’alterazione dell’informazione, la manovra politica, seguire i passi del manovratore. Anche quel dispositivo si era avvistato per tempo. Dopo il rimescolamento nell’informazione controllata direttamente o indirettamente dall’Egoarca, era già chiaro in luglio che sarebbe cominciato il tempo dell’aggressività. Non era difficile prevedere che una stagione di prepotenza avrebbe demolito deliberatamente i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti. Dentro la maggioranza o nell’opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell’impresa, della società, della cultura, dell’informazione. Nessuno oggi - si deve aggiungere - può dirsi al sicuro dalle ritorsioni dell’Egoarca. Non lo è stata la moglie del premier, la madre dei suoi figli, che per prima ha subito un mortificante rito di degradazione. Non lo è stata la Chiesa dei vescovi italiani, umiliata con le accuse taroccate al direttore dell’Avvenire.
Ora tocca al presidente della Camera al quale viene interdetto, con la minaccia di "uno scandalo", di manifestare il proprio pensiero, che poi dovrebbe essere un suo diritto costituzionale. Vale la pena di parlare di Costituzione. Nel lavoro assegnato dal capo del governo al suo giornale, c’è innanzitutto la distruzione dei principi della Carta. L’Egoarca sa che la Corte costituzionale potrebbe cancellare la legge che lo rende immune e fa sapere che se ne impiperà. Farà approvare una nuova legge. Disporrà che sia "immediatamente in vigore".
I giudici sono avvisati. Del Parlamento l’Egoarca non se ne cura, è un trascurabile accidente. Se il presidente della Camera ritiene di doversi mettere di traverso, magari rispettando i regolamenti, sappia che finirà nel tritacarne di uno scandalo che non c’è, ma che i media controllati faranno credere vero e infamante. Fini è anche co-fondatore del partito del presidente del Consiglio, è un uomo libero che liberamente - anche se in contrasto con il partner politico - esprime le sue convinzioni su temi (immigrazione, fine-vita) sensibili e controversi. Il presidente del Consiglio gli fa sapere che deve tacere, adeguarsi, rendere le sue idee conformi. In caso contrario, la "macchina della calunnia", che ha organizzato in Sardegna e ad Arcore quest’estate, lo stritolerà.
Il paradigma che informa, in questa stagione, l’Egoarca è soltanto un fragoroso, orientale abuso del potere. Berlusconi ha rinunciato anche all’obiettivo dichiarato di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier cancellando il quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, rivendicando le sue decisioni direttamente in televisione in nome della legittimità conquistata con il voto.
Oggi, Berlusconi non reclama più nemmeno la legittimità di quel potere. Preferisce mostrarne, senza alcuna finzione ideologica, con immediata concretezza, soltanto la violenza pura. Gli interessa soltanto alimentare l’efficienza di una macchina di potere che non vive di idee, progetti, discussioni, riforme, alterità, ma di brutalità, imperio, conformismo e terrore. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da cattivi consiglieri, prigioniero di una sindrome narcisistica, incapace di fare i conti con una realtà che non controlla più, che non riesce più annullare. Illiberale fino alle midolla, avverte il declino e vede ovunque oscuri pericoli.
Nella stampa estera, nelle cancellerie europee, nell’Ue, tra i suoi alleati di governo e di partito, nelle gerarchie ecclesiastiche, nella magistratura, nell’informazione pubblica. Ogni dissenso - anche il più motivato e amichevole - gli appare un atto persecutorio cui replicare "colpo su colpo". Questa deriva rende oggi Silvio Berlusconi un uomo violento e pericoloso. Nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Lo abbiamo già detto e ogni giorno diventa più vero. La scena in cui siamo precipitati è la decadenza di un leader che non accetta e non accetterà il suo fallimento. Trascinerà il Paese nella sua sconfitta, dividendolo con l’odio.
* la Repubblica, 15 settembre 2009
Italia anche questa è democrazia
di GIAN ENRICO RUSCONI (la Stampa, 15/9/2009)
Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici esattamente?
L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.
Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?
Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?
Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.
I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico continuo.
Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.
Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.
Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.
Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.
E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.
Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?
Né Stato di diritto, né legge di mercato
Berlusconi, teorico dell’ “arte di sapersela sbrogliare”
di Carlo Galli
da Le Monde Diplomatique, settembre 2009, pag. 3
(traduzione dal francese di José F. Padova) *
Inossidabile, così appare il capo del governo italiano. Gli scandali personali e finanziari che si succedono non sembrano raggiungerlo, attribuiti come sono alla malevolenza della magistratura, della stampa o di un’opposizione che pure è al collasso. E se fosse precisamente questa sfacciataggine e questo disprezzo delle regole comuni che, molto più del suo liberismo economico, d’altra parte relativo, o delle sue misure anti-immigrati, spiegassero la longevità politica di Silvio Berlusconi?
Di Carlo Galli, professore di Storia del pensiero politico all’Università di Bologna, presidente dell’Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna
Il successo politico di Silvio Berlusconi non ha nulla di un lampo nel cielo sereno della storia d’Italia, né di un ufo caduto nel bel mezzo di una democrazia efficiente e di un mercato trasparente. Egli al contrario rappresenta la realizzazione e la garanzia del loro declino come pure del loro immobilismo - per una parte ne è la causa.
A partire dal 1978, anno dell’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, l’Italia ha sofferto di una mancanza di obiettivi politici e di slancio riformatore; ha subito una decadenza del senso civico legata all’estinzione progressiva del fondamento di legittimità della Repubblica: l’antifascismo. In seguito, e dopo gli anni ’80, il ruolo regolatore della politica e del diritto è diminuito a favore del peso delle esigenze economiche. Ma di un’economia il cui carattere «liberale» dipende da una definizione puramente ideologica, mentre la sua sostanza è neo-corporativa, clientelare.
L’Italia è un Paese frammentato in gruppi d’interesse, dai più potenti ai più miserevoli, in guerra gli uni contro gli altri e dimentichi della legalità comune, perfino dello spirito civico. La sua società è una giungla, con qualche radura più ospitale - come certe regioni del Nord o quelle, «rosse», del Centro - dove non intervengono pienamente né la logica del mercato né la logica dello Stato, ma quella del privilegio, dell’appartenenza, del risentimento o della paura.
Non è per caso se l’insicurezza caratterizza questo «stato di natura», tipico di una società che comprende sempre meno la necessità di norme per vivere insieme. Gli italiani sentono intuitivamente che la crisi della legalità li penalizza tutti, ma la maggior parte preferisce giocare allo «scrocco», tentando d’intrufolarsi fra le maglie della legge, senza mai sforzarsi di ritornare a un’azione collettiva rispettosa delle regole.
L’incremento della corruzione, compresa quella nell’ambito dell’amministrazione pubblica, deriva da questa logica del «particolare» o del «familiare amorale», che ormai costituisce la norma (1). Lo spazio pubblico della legalità, della trasparenza e dell’universalità si riduce. Lo rimpiazza un conglomerato d’interessi privati e di particolarismi con influenze e pesi diversi, in lotta per un equilibrio precario. La società si struttura sempre in funzione delle fedeltà personali e delle clientele: alla legge, ai diritti e ai doveri preferisce le astuzie e i favoritismi. Alla crisi economica, sociale e politica si aggiunge così una crisi morale, vero e proprio spreco del capitale sociale che è rappresentato dalla fiducia.
Lo sfaldamento della sinistra ha svolto un grande ruolo nell’avventura berlusconiana. Minata da incertezze e contraddizioni quando si trovava al potere, essa ha concluso un’alleanza con una parte minoritaria dei cattolici e formato con essi un polo politico d’intellettuali (sempre meno numerosi), di stipendiati del settore pubblico e di pensionati. Rimane egemonica (non senza difficoltà) in qualche regione dell’Italia centrale, come l’Emilia-Romagna e la Toscana, mentre altrove domina il sistema clientelare della destra.
Complicità della gerarchia religiosa
Perché Berlusconi è riuscito a incarnare la «ribellione delle masse» provocata dalla fine del sistema dei partiti della I. Repubblica, accelerata dai processi giudiziari di «Mani pulite» (2), che hanno decimato una parte della classe politica. Berlusconi ha approfittato della rivolta contro la politica, contro la cultura, contro le élite, che ha segnato gli anni ’90 e continua ancora.
La sua forza si basa su un populismo plebiscitario che si nutre di potere mediatico, di un autentico carisma personale e di un patto con gli italiani fondato su inclinazioni, interessi, paure e passioni. Berlusconi offre ai suoi elettori una retorica e una cultura politica ciniche e anti-istituzionali. I valori che difende a parole - ma che non mette per niente in pratica - derivano da convinzioni tradizionali anti-intellettuali e piccolo-borghesi. Egli non accetta alcun limite al proprio potere, come lo provano le sue polemiche con il Parlamento, nel quale tuttavia dispone di una maggioranza, e contro la magistratura, dalla quale si è voluto proteggere con una legge che gli garantisce l’immunità giudiziaria personale, senza dimenticare la sua interpretazione dispotica del ruolo di presidente del Consiglio.
Per Berlusconi quest’ultimo rappresenta l’espressione diretta del favore popolare, un’investitura che fornisce al fortunato eletto l’unzione del Signore (come l’aveva lui stesso affermato qualche anno fa) e lo pone ampiamente al disopra delle leggi e delle istituzioni. In quest’ottica la delegazione non proviene da una procedura razionale ma da una rappresentazione simbolica, personale e plebiscitaria, grazie alla quale un popolo riconosce la propria identità nel corpo mistico del capo. Lo ama perché lo capisce e ne ricava un senso di sicurezza, per lo meno quando odia (ve lo si spinge) i «comunisti», termine col quale la retorica di destra definisce gli spiriti critici e più in generale chiunque non si allinei sui valori della maggioranza. Per Berlusconi la sfera pubblica non è per nulla uno spazio critico, ma piuttosto quello della pubblicità - nel senso commerciale della parola -, della propaganda e del consenso entusiasta.
Questa politica autoritaria e carismatica è naturalmente estranea all’antifascismo - d’altra parte nessuno dei grandi partiti storici del CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) partecipava al primo governo Berlusconi del 1994. Essa non ha nulla in comune con la democrazia liberale, come lo confermano i reiterati attacchi contro la libertà della stampa e della televisione, l’abbandono di qualsiasi nozione laica in politica (privilegi economici della Chiesa e ostentato rispetto delle direttive della Gerarchia ecclesiastica in materia di bioetica e di biopolitica), l’assenza di qualsiasi scrupolo nell’eccitare la xenofobia e le paure sociali (3).
Si tratta anche del passaggio dal potere dei partiti a quello delle persone, addirittura di una persona, e dall’ «arco costituzionale» (4) a una politica di scissione verticale del Paese in due blocchi opposti fin dentro alle loro antropologie. La ripetizione costante della logica amico/nemico permette di forgiare un’unità simbolica in un Paese del quale si mantiene deliberatamente la frammentazione e le disuguaglianze economiche e sociali (5).
Più che l’ «uomo del fare» - come lui ama definirsi, in contrasto con i politici di professione che si accontenterebbero di parlare - Berlusconi è l’ «uomo del lasciar fare». Ma non nel senso del protoliberismo di François Guizot: il suo consiste nel lasciare che ogni gruppo di potere o d’interessi conservi i suoi privilegi e nel cercare di accrescerli a detrimento dei gruppi più deboli, ivi compreso lo strumento fiscale (la lotta contro l’evasione ha perso la sua efficacia), e più in generale della dimensione collettiva della coabitazione nazionale.
Il premier ha di che trarre benefici, evidentemente proprio lui, il cui conflitto d’interessi non risolto appartiene ormai al panorama politico e non attira ormai più neanche l’attenzione. Al contrario: la posizione anormale del capo lo spinge a garantire l’impunità di tutti i cittadini per le loro trasgressioni alla regola comune, piccoli e grandi. La legge universale della Repubblica diventa l’anomalia, della quale Berlusconi costituisce l’icona: saturare la vita pubblica con logiche e pratiche private rappresenta la forza della sua posizione e la ragione del consenso del quale gode. Il lavoro salariato, innanzitutto pubblico, nondimeno fa eccezione, «preso di mira» dai controlli del ministro Renato Brunetta, che eccita il risentimento della maggioranza degli italiani contro l’amministrazione pubblica senza per questo migliorarne le prestazioni (6).
L’elettorato di Berlusconi non si riduce ai ricchi e ai potenti. Le classi medie, gli impiegati e una parte degli operai votano per lui, delusi dalla politica di sicurezza collettiva della sinistra, dallo Stato-provvidenza e dal principio stesso di eguaglianza. Essi preferiscono credere alle speranze, alle illusioni (e ai rancori) che la destra alimenta. Essi contano su Berlusconi per essere aiutati a venirne fuori, magari con l’appoggio, tradizionale, della pubblica amministrazione.
All’opposto, fra i discorsi e gli atti di Berlusconi si scava un fossato più profondo di quello dei professionisti senza scrupoli della politica. Che cosa è stato della promessa elettorale del 2001 - «meno imposte per tutti»? La destra l’ha rinnegata: la sua politica reale va in direzione opposta a quella degli interessi delle categorie più modeste. Si pensi anche alle misure contro i trust e per la libera concorrenza del mercato prese dal governo di Romano Prodi, che in particolare introducevano, con prudenza, un genere di class action (possibilità per i consumatori di opporsi collettivamente contro una pratica disonesta di una società privata): la destra le ha svuotate della loro sostanza moltiplicando gli emendamenti, tutti destinati a favorire le grandi imprese (7).
In breve, come d’abitudine, la corsa all’interesse a breve termine ricompensa i più forti: moltissimi italiani si credono furbi, ma in realtà si fanno prendere per il naso, quando non si ingannano da sé. Se Berlusconi appare come un mago che, simultaneamente, delude e affascina, non arriverà mai a modernizzare autoritariamente alcunché, perfino in modo indiretto. Dalla vecchia Democrazia Cristiana ha ereditato l’elettorato, ma non la politica: questa consisteva nel prendere voti a destra per riciclarli al centro-sinistra, al servizio di uno sviluppo democratico. Lui prende i suoi voti dal «ventre» del Paese e li utilizza per lasciare l’Italia nello stato in cui si trova e affermare il proprio potere.
Forse la maggioranza degli italiani si risveglieranno dal fascino berlusconiano e romperanno il patto firmato con lui il giorno in cui si renderanno conto che la politica del «fare nulla» risulta rovinosa. Che il rifiuto di vedere la crisi, come sta facendo la destra, non basta per superarla. Resta il fatto che nel giugno scorso il «Cavaliere» ha attraversato la crisi più grave della sua carriera, che avrebbe distrutto qualsiasi altro uomo politico occidentale: lo scandalo dei festini nelle sue residenze private a Roma e in Sardegna, la partecipazione di prostitute di lusso, il loro trasporto con voli noleggiati dallo Stato... tuttavia gli italiani continuano a manifestargli in maggioranza la loro fiducia, anche se ridotta, nei sondaggi e nelle elezioni (8), come se la vera essenza della sua politica, la sua funzione pubblica restassero intatte.
Da qui il ritorno alla nostra domanda iniziale: Berlusconi si è adattato agli italiani al punto che, quando lascerà la scena, il Paese non potrà più tornare a una politica che non pratica più da molti anni?
(1) Il barometro della corruzione di Transparency International, « Global Corruption Barometer 2009 » pone l’Italia in una posizione disonorevole sul piano mondiale della corruzione - reale e percepita.
(2) «Mani pulite»: indagine penale lanciata da magistrati milanesi il 17 febbraio 1992, allo scopo di mettere in luce la corruzione generalizzata del sistema dei partiti.
(3) Si pensi ai recenti commenti su Milano, che «rassomiglia a una città africana»: v. Il Corriere della Sera, 4 giugno 2009.
(4) Espressione usata nel dibattito politico degli anni ’60 e ’70 per definire i partiti che avevano partecipato alla redazione e all’approvazione della Costituzione del 1948, dai comunisti ai liberali. Ne era escluso il Movimento sociale italiano (MSI), che non condivideva i valori antifascisti.
(5) Per Berlusconi la sinistra è il «nemico dell’Italia», v. la Repubblica, Roma, 30 giugno 2009.
(6) Il 25 giugno 2008, su proposta del ministro della Funzione pubblica, il governo ha approvato il decreto-legge 112/2008, noto come «decreto anti-fannulloni», che punisce le assenze dal alvoro dei funzionari e prevede fra l’altro riduzioni di stipendio per i primi dieci giorni d’assenza, indipendentemente dalla durata del congedo per malattia.
(7) V. il Rapporto annuale dell’Autorità per la concorrenza e il mercato, 30 aprile 2009, www.agcm.it.
(8) Alle elezioni europee e regionali del giugno 2009 il partito del presidente del Consiglio ha riportato un reale successo, ma senza raggiungere la soglia del 40% che Berlusconi aveva presentato come suo obiettivo.
Da Hitler a Stalin: ecco i profili psicologici Firmati dall’allievo di Freud e ora in un libro La psiche dei dittatori spiegata agli Usa Venne assoldato dall’Oss, l’Office of Strategic Service Nome in codice "agente 488"
di Franco Zantonelli (la Repubblica, 20.12.2010)
ZURIGO. Per sconfiggere Hitler ed il nazismo il controspionaggio statunitense arrivò a reclutare, come agente segreto, anche uno dei padri della psicanalisi, lo svizzero Carl Gustav Jung, prima discepolo poi antagonista di Sigmund Freud. Fu l’Oss, l’Office of Strategic Service, come si chiamava all’epoca la Cia, ad ingaggiare Jung, attribuendogli il codice di agente 488. Lo psicanalista, all’epoca settantenne, incontrava, nella sua esclusiva residenza di Küsnacht, sul lago di Zurigo, Allen Dulles, il numero uno dell’Oss in Europa. «Insieme, i due - ha rivelato ieri il settimanale svizzero Le Matin Dimanche - hanno dato vita al primo serio tentativo di utilizzare i profili psicologici nelle operazioni di spionaggio».
Giunto in Svizzera nel 1943, Allen Dulles iniziò, ben presto, a frequentare il celebre medico svizzero. Dei suoi incontri sul lago di Zurigo dava poi conto a Washington tramite l’ambasciata americana a Berna. «Le analisi del Dottor Jung sul comportamento dei leader nazisti, soprattutto delle tendenze psicotiche di Hitler, vanno prese molto sul serio», scriveva tra l’altro il capo dell’Oss. Del Führer Carl Gustav Jung, in effetti, si era fatto un’idea molto chiara. «Sono persuaso che Hitler farà ricorso, fino alla fine, a tutti i metodi, anche a quelli più disperati», spiegava lo psicanalista a Dulles. Una previsione azzeccata, se si pensa all’ultima battaglia che il dittatore condusse nella cancelleria del Reich, circondata dai Sovietici. Come pure azzeccata fu quella secondo cui «Hitler, in un momento di crisi, potrebbe ricorrere al suicidio».
Carl Gustav Jung elaborò per il controspionaggio americano un profilo accurato della tipologia dei dittatori europei dell’epoca. Mussolini e Stalin erano «due capi clan, fisicamente più forti e più solidi dei loro avversari». Più sottile, invece, il ritratto di Adolf Hitler. «Una sorta di medico-taumaturgo, non forte in quanto tale, ma per il potere che gli altri proiettavano su di lui», affermava convinto l’agente 488 dell’Oss, e ancora: «Hitler è uno specchio dell’incoscienza tedesca. Più un mago che un politico, è in grado di captare quello che i suoi compatrioti, inconsciamente, pensano del destino della loro nazione». «Nessuno - dirà più avanti ad un amico Allen Dulles - saprà mai quale grande contributo abbia dato alla causa della vittoria alleata il dottor Jung».
Con l’apertura degli archivi e in contemporanea con l’uscita, a Zurigo, del Libro Rosso, sorta di sofferta autobiografia di Carl Gustav Jung oggi si sa tutto dell’importanza dell’attività dell’agente 488. Come ha scritto l’americano Deirdre Blair, autore di una biografia di Jung, lo stesso comandante in capo delle truppe alleate in Europa, il generale Dwight Eisenhower, si basò sulle analisi dello psicanalista svizzero per individuare la strategia migliore da impiegare per convincere i cittadini tedeschi della sconfitta. La sua conoscenza dei metodi della propaganda nazista ci è stata preziosa ha, successivamente, riconosciuto Eisenhower in persona.