Cambiano i disturbi si adeguano le cure
Giù dal lettino
La «società dei narcisi» teme l’analisi classica
Oggi soltanto la metà delle ore vengono dedicate alle terapie tradizionali. Oltre il 50 per cento dei pazienti presenta nuove patologie (problemi identitari, dipendenze, perversioni, difficoltà a reggere lo stress) che sono più gravi e diverse da quelle affrontate dalla pratica freudiana
di Dino Messina (Corriere della Sera 13.02.2011)
La psicoanalisi è in crisi? Domanda banale per una teoria e una terapia che si aggiorna in continuazione sin dal suo nascere. No, la domanda che oggi gli psicoanalisti si pongono, in particolare quanti si richiamano direttamente al padre fondatore Sigmund Freud, è la seguente: come mai, dopo il successo della terapia analitica in Usa negli anni Sessanta e in Italia negli anni Settanta e Ottanta, un numero sempre minore di persone è disposto a stendersi sul lettino? Non ci riferiamo alla crescente richiesta di aiuto e all’offerta di psicoterapie che ormai formano una vera e propria giungla.
Simona Argentieri, membro dell’AIPsi, psichiatra e psicoanalista a Roma, una delle studiose più attente a leggere i cambiamenti sociali con gli strumenti dell’analisi (ricordiamo i saggi Ambiguità e A qualcuno piace uguale, editi da Einaudi) ha censito almeno 350 scuole di psicoterapia in Italia: una ricchezza di offerta che si confronta con un contesto culturalmente povero, se una persona di media scolarità oggi chiama analisi qualsiasi terapia della parola.
Un impoverimento, ha notato Argentieri a conclusione della voce «Psicoanalisi» scritta per l’enciclopedia Treccani, che si manifesta proprio quando nei grandi magazzini vengono messi in vendita lettini sul modello di Le Corbusier. All’inflazione commerciale di lettini corrisponde una diminuzione di terapie sul lettino.
A dirlo non sono i nemici della psicoanalisi ma gli stessi analisti freudiani, che proprio mentre confermano la validità delle loro terapie, fanno una ammissione. «Oggi registriamo un dato nuovo, ossia che il trattamento classico a 3-4 sedute alla settimana sul lettino è diventato quasi una rarità e che al suo posto si fa la terapia psicoanalitica» dice Guido Medri, medico e psicoanalista, direttore scientifico della Scuola di Psicoterapia psicoanalitica di Milano.
Tanta franchezza è un punto di partenza per un’inchiesta tra le più difficili, perché ha a che fare con quella componente fondamentale ma invisibile della nostra vita che è la psiche, alla ricerca delle spiegazioni cliniche e culturali alla base di un cambiamento in atto.
Qualche dato di inquadramento lo offrono le statistiche che parlano per l’Italia di settantamila psicologi, un terzo di tutti quelli esistenti in Europa, e di 37mila psicoterapeuti iscritti all’albo, un terzo dei quali laureati in Medicina.
Ma per sapere qualche dato più specifico ci siamo rivolti alla Spi, Società di psicoanalisi italiana che, con la AIPsi, è una delle due società italiane affiliate all’Ipa (International Psychoanalytical Association) fondata da Sigmund Freud.
In particolare chiediamo lumi al dottor Leonardo Resele, psichiatra e psicoanalista a Milano, che ha scritto un articolo per la «Rivista di Psicoanalisi» sui risultati di una ricerca commissionata nel 2004 dalla Spi a Gfk Eurisko e da lui coordinata.
L’indagine condotta tra i membri della Spi, che oggi sono circa novecento oltre ai circa trecento candidati in fase di formazione, ci dice che gli psicoanalisti della società più ortodossa e in linea con i canoni freudiani su 43 ore di lavoro ne dedicano 21-22 all’analisi tradizionale con l’uso del lettino. Il resto a consulenze e psicoterapie.
Se si dà un occhio al tipo di patologie affrontate ci si rende conto del perché diminuisce il lettino e cresce la psicoterapia vis à vis. Ecco la divisione dei pazienti per categoria patologica: il 25 per cento soffre di disturbi della personalità, il 18 presenta disturbi dell’umore, cioè depressione, il 10 disturbi del comportamento.
Riassumendo, osserva Resele, «oltre il 50 per cento dei nostri pazienti non è affetto da una classica sindrome nevrotica, ma da patologie più gravi». L’aumento del numero di casi gravi è connesso con il minor uso del lettino. «Il nevrotico classico che deve superare dei blocchi, delle fobie, è portato a interrogare se stesso, ad abbandonarsi sul lettino, e a collaborare con l’analista. Per un paziente alle prese con problemi più gravi stendersi sul lettino può significare perdita del controllo, aumento dell’angoscia. Quindi può essere preferibile cominciare la terapia con colloqui senza l’ausilio del lettino», conclude Resele.
Se le tecniche analitiche si aggiornano, non vi è dubbio che le forme patologiche cambino con il mutare della società. «L’analisi - spiega Medri - è la terapia elettiva per le nevrosi nelle sue varie espressioni: fobie, ossessioni, ansia, depressione, difficoltà relazionali di ogni genere, impotenza, frigidità, psicosomatosi... Ma la patologia di oggi si presenta in larga misura sotto altre forme, decisamente più gravi. Si tratta di disturbi identitari, di grandiosità narcisistica, di scarso controllo degli impulsi, di difficoltà nel reggere la frustrazione e venire a patti con i propri limiti, di perversioni, di dipendenza da sostanze, di disturbi alimentari. Inoltre, mentre una volta l’analisi era l’unica terapia disponibile ora ve ne sono molte altre che per giunta promettono la "guarigione"in tempi molto più rapidi e quindi a prezzi più convenienti, la terapia cognitivo comportamentale, gestaltica, sistemica e tante altre, per non parlare della terapia farmacologica».
L’osservazione clinica va di pari passo con le spiegazioni culturali: «La psicoanalisi - dice Medri - ha perso la sua carica eversiva che le conferiva grande fascino nei confronti dei modelli sessuofobici del passato. Anzi, funziona come un freno verso una sessualità oggi troppo trasgressiva. La nostra poi è diventata la società del narcisismo, basato sul successo e sul consenso. L’analisi richiede invece la messa in mora del riscontro sul piano sociale, pone il progetto per la conoscenza di se stessi al centro dell’attenzione, proprio quel che il narcisista non sa fare. Per non parlare dei modelli oggi vincenti rispetto a quelli analitici: l’azione al posto della riflessione, l’informazione al posto dell’approfondimento, il futuro al posto del passato, il tutto e subito al posto dell’impegno nel tempo. Infine, il mondo oggi è costruito dalla tecnologia. Il terreno della psicoanalisi è quello del sogno, delle emozioni, delle fantasie; che cosa ci sta a fare vicino a un computer?».
Da una considerazione storico-culturale parte anche Stefano Bolognini, presidente della Spi. Divulgatore di temi analitici nei libri Come vento, come onda e Lo zen e l’arte di non sapere cosa dire (Bollati Boringhieri), Bolognini, medico e psicoanalista a Bologna, parte da una considerazione professionale autobiografica: «Nel 1980, quando ho cominciato a esercitare la professione, molte richieste di analisi avevano una motivazione culturale. Per fare un esempio, tanti professori universitari si facevano vanto di sdraiarsi sul lettino. Trent’anni dopo, il clima è radicalmente cambiato: ormai non si viene più dall’analista per motivi culturali ma ci si arriva dopo aver tentato altre strade, magari quella farmacologica, per curare il proprio disagio. L’aspetto economico è influente fino a un certo punto. Ho constatato infatti che i veri ricchi non vanno in analisi: preferiscono lenire il proprio malessere con un viaggio o l’acquisto di un bene di lusso. Così si crea il paradosso che chi vuole e ne ha bisogno non può andare in analisi, chi potrebbe non vuole».
Una volta sfatato il pregiudizio della «terapia per ricchi» (il costo di un trattamento che dura 4-5 anni equivale a quello di un’auto di grossa cilindrata), Bolognini tende a far fuori un altro luogo comune, in base al quale «più sedute fai più sei grave». Casomai, dice Bolognini, «è vero il contrario. Chi è in grado di stare 3-4 volte alla settimana sul lettino è già in condizione di compiere un percorso di guarigione. Chi non tollera il lettino ha maggiori resistenze». Analisi o psicoterapia, comunque nessun analista serio ti dirà mai che guarirai: «Potrà fare solo delle ipotesi una volta stabilito che sei adatto all’analisi».
Un altro fattore emerso negli ultimi trent’anni, secondo Bolognini, è «la diminuita capacità individuale di tollerare la dipendenza». Quando cominci ad accettare la dipendenza dal rapporto terapeutico, sei già sulla via della guarigione. «Ma la tendenza narcisistica del nostro tempo ci rende più refrattari ai legami. Tutto nasce dalla famiglia e dalle relazioni dell’infanzia, con genitori poco presenti e bambini che presto vengono messi in condizione di organizzarsi in assenza degli oggetti affettivi di base».
Così, al posto delle nevrosi classiche nate dal contrasto tra pulsioni e super io insorgono altri tipi di patologia. «Una volta - spiega Bolognini - il tema era di liberarsi del senso di colpa, dare spazio alle pulsioni contro un super-io troppo ingombrante, oggi il problema è costituito dalle relazioni mordi e fuggi e magari si invoca un super-io che opprime ma può anche simboleggiare protezione, sicurezza». Bolognini butta lì una battuta: «Ha notato che molti non usano più l’ombrello? È una ribellione narcisistica verso il super-io protettivo».
Scherzi a parte, non tutti quelli che hanno bisogno di cure possono reggere un’analisi. «Alcuni - dice Bolognini - necessitano solo di una psicoterapia: è il caso di soggetti che hanno avuto un lutto, una separazione, un insuccesso professionale. Allora si interviene con una psicoterapia di sostegno. In altri casi il paziente ha una diffidenza talmente forte verso il lettino che si comincia con la psicoterapia. Naturalmente l’obiettivo finale è quello dell’analisi classica ma si procede per gradi di avvicinamento, come con gli animali selvatici che a poco a poco superano le paure sino a cibarsi dalla mano dell’uomo».
Un viaggio attraverso gli eredi italiani di Freud non può non prevedere una sosta a Pavia dove lavora lo psicoanalista italiano più conosciuto all’estero per gli studi sul concetto di «campo» a partire da Wilfred Bion e, assieme a Thomas Ogden, di «rêverie», cioè la capacità di sognare che abbiamo anche da svegli e che condiziona sia l’analista sia l’analizzando. «Tutte balle - taglia corto Antonino Ferro, che ha appena pubblicato da Raffaello Cortina il libro Tormenti di anime -, che uno va dall’analista per sete di conoscenza. Uno ci va perché vuole star meglio. Come dice Ogden, compito della psicoanalisi è aiutare il paziente a fare quei sogni che non è stato capace di fare e che si sono trasformati in sintomi».
Sì, è vero, ammette Ferro, l’uso del lettino in alcuni casi non è scontato all’inizio del trattamento, ma ciò non vuol dire che non si faccia psicoanalisi. «Personalmente - dice Ferro - non faccio psicoterapie e ho detto soltanto due "no". La verità è che i criteri di analizzabilità si sono molto allargati, oggi si accettano pazienti borderline che prima venivano rifiutati, e a volte la terapia non può immediatamente cominciare dal lettino, che non è un feticcio. Prendendo in prestito un’espressione usata con i bambini disgrafici, "nuotare sino alla riga", io dico "nuotare sino al lettino", nel senso che la terapia tradizionale può essere in alcuni casi un punto di arrivo».
Antonino Ferro è anche uno dei maggiori esperti di psicoanalisi dell’infanzia. «Con i bambini- dice- mi sento come Fra’ Cristoforo dei Promessi sposi: "Omnia munda mundis", da un bambino non puoi pretendere il rispetto del setting, certe regole saltano, bisogna guardare la sostanza».
Circolarmente il viaggio si conclude dove l’abbiamo iniziato, con Simona Argentieri: «Da anni i professionisti seri fanno sia analisi sia psicoterapie. La mia idea è che fare una buona psicoterapia sia più difficile perché occorre saper considerare in breve tempo, qui e ora, fattori di realtà contingenti». È vero, ammette Argentieri, «il nostro tempo è caratterizzato da un’ansia dell’urgenza e dell’efficientismo che spinge verso le terapie brevi e allontana dall’analisi del profondo. Con il risultato che in alcuni casi assistiamo a psicoterapie brevi sequenziali a vita».
Ma va anche denunciata «la collusione dei terapeuti che vanno incontro alle difese dei pazienti anche quando la richiesta è di risolvere normali problemi della vita: lutti, separazioni, insuccessi. Spendiamo tante energie per diventare badanti dell’anima». A questa banalizzazione della cura corrisponde dall’altro lato «un minor uso della psicoanalisi per le patologie gravi».
La dottoressa Argentieri è convinta che «la psicoanalisi sia uno strumento di conoscenza e di cura che si deve confrontare con le patologie gravi, non semplicemente con i dolori dell’esistenza. Era proprio Freud a dire che l’analisi non può far altro che trasformare la sofferenza nevrotica in normale infelicità».
È per questo che Simona Argentieri è favorevole a un’utile collaborazione tra la farmacologia e la terapia della parola proprio nelle malattie più gravi: «Sono preoccupata - conclude - per il divario che si sta creando tra psichiatria e psicoanalisi. A me sembra che la formazione medica possa dare un grande apporto all’analisi. È una matrice che non va persa, a dispetto dell’aumento esponenziale del numero di psicologi, che sembrano destinati a diventare maggioritari nelle società di psicoanalisi, e della crescente galassia di scuole psicoterapeutiche».
Materiali sul tema, nel sito:
FREUD, KANT, E I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEO-DEVOTA L’UOMO MOSE’, L’UOMO SUPREMO, E LA BANALITA’ DEL MALE.
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
Psicologia
Dalla tradizione freudiana alle sfide di oggi, il saggio di Paola Marion (Donzelli)
La tecnologia ha sconnesso persino il triangolo di Edipo
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 08.02.2018)
Nel secolo scorso due avvenimenti epocali hanno infranto il paradigma della procreazione umana: la sessualità si è resa autonoma dalla generazione e, successivamente, la procreazione si e disgiunta dalla sessualità. Si tratta di profonde infrazioni nella concezione che abbiamo di noi stessi, dei rapporti con gli altri, con la natura, la società, l’etica e la storia. Ma, come accade per i traumi più gravi, abbiamo preferito rimuoverli o minimizzarli considerandole come forme di liberazione o interventi terapeutici. Solo in un secondo tempo, nell’ après coup che separa il trauma dalla sua elaborazione, è iniziato quel lento, doloroso processo di consapevolezza che porta a valutare le conseguenze reali e fantastiche, oggettive e soggettive di quanto è accaduto fuori e dentro di noi, come si ripromette il saggio della psicoanalista Paola Marion, Il disagio del desiderio, pubblicato da Donzelli.
Si tratta di un libro tanto opportuno quanto esauriente, rivolto non solo agli addetti ai lavori ma a tutti, perché nessuno può considerarsi indifferente rispetto ai quesiti che questa epoca ci pone.
Invitando il lettore ad affrontare un ambito così mobile e complesso, Paola Marion fornisce, nella prima parte del libro, le competenze storiche e teoriche necessarie per seguirla in un’esplorazione psicoanalitica appassionante e innovativa. Poiché le biotecnologie procedono espellendo il sesso dalla procreazione, la sua ricerca prende le mosse proprio dalla sessualità che la psicoanalisi aveva posto al centro della vita biologica e psichica.
Integrando la teoria freudiana, che privilegia la pulsione, con quella post-freudiana, che sottolinea gli aspetti relazionali della sessualità, l’autrice appronta un dispositivo teorico e clinico particolarmente idoneo a cogliere la complessità dei mutamenti in atto. Primo tra i quali la disintegrazione del triangolo edipico (formato da padre, madre, figlio), gravato, come effetto delle biotecnologie, da un eccesso di protagonisti. Nella gravidanza indotta con dono di gameti e condotta per conto terzi, ad esempio, le madri possono essere tre: genetica, portante, committente.
La «vertigine tecnologica» tende ad annullare i limiti e le differenze tra le generazioni, i sessi e le posizioni. È possibile generare da soli, con partner dello stesso sesso, dopo l’età feconda, post mortem e così via. Ma queste soluzioni impreviste pongono richieste psicologiche ed etiche sempre più impegnative. Il comprensibile desiderio di prolungare la propria vita si può trasformare in un bisogno necessario e insopprimibile che conduce a una pericolosa coazione a ripetere.
L’autrice conclude la sua discesa verso le profondità della psiche con un appello alla responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
Lo stesso che, in una magistrale introduzione, esprime Giuliano Amato, preoccupato che uno sviluppo illimitato delle nostre potenzialità trasformative possa «creare intorno a noi un contesto nel quale non siamo più in grado di riconoscerci». Dietro le neutrali finalità terapeutiche della fecondazione medicalmente indotta si cela un ventaglio di desideri e di possibilità che minacciano, tra l’altro, l’interesse prioritario del nascituro.
Ma, prima di affidare al legislatore il compito di dirimere una materia così intricata e sfuggente, Amato chiede a tutte le componenti della società di interrogarsi e di confrontarsi in una dimensione etica perché «è solo l’etica che può entrare nelle coscienze e qui dettare, quando serve, il comando giusto».
I ragazzi immortali sull’isola di Pasqua
Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti. Analizza come medicina, genetica e stili di vita ci regalino l’illusione di un’esistenza eterna. Rompendo il patto con le generazioni che verranno
di EZIO MAURO (la Repubblica, 26 gennaio 2016)
Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre - in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.
Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto "vita" con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre.
A l suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta. Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla de-generazione e alla ri-generazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani "impetuosi" e "feroci" come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la "fortuna".
Oggi poi questa riserva di credito dei "saggi" è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge.
Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che "la Terra appartiene alla generazione vivente" intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: "Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età".
La follia di Narciso divenuta trappola del nostro tempo
L’epoca in cui viviamo ha esaltato la figura raccontata da Ovidio come emblema di un soggetto che basta a se stesso e che vorrebbe annullare la dipendenza dall’Altro.
L’Io è diventato il nuovo idolo pagano altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo è riuscito a smascherare
Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 17.01.2016)
Caravaggio, seguendo il mito raccontato da Ovidio, ci presenta il giovane Narciso affacciato sulle acque che gli restituiscono - in una perfetta simmetria avvolta dal buio - la sua immagine adorata. La bellezza di Narciso contiene, si capisce, una trappola mortale: la fascinazione per se stessi può essere fatale. È quello che accade anche nel mito: nel tentativo di afferrare la propria immagine riflessa il giovane Narciso sprofonda nell’abisso delle acque perdendo la propria vita.
Freud aveva coniato da questo mito una figura fondamentale della clinica psicoanalitica: il narcisista è colui che perde la propria vita restando alienato nell’infatuazione esaltata ma sterile per la propria immagine. Nel mito di Ovidio Narciso è, infatti, colui che suscita ammirazione e amore, ma che non può, a sua volta, né provare, né ricambiare in nessuna forma.
L’anestesia affettiva è un tratto anche clinico della personalità narcisistica che segnala la sua impossibilità di entrare in una forma di legame con l’altro in quanto tutta la sua libido appare sequestrata dal proprio Io. Non a caso per Freud l’Io è il primo oggetto di investimento libidico, il suo “serbatoio” originario. Il che significa che l’essere umano non nasce predisposto all’altruismo, ma, casomai, al culto di se stesso. Il narcisismo definisce la tendenza egocentrica dell’uomo che contrasta radicalmente con la tesi aristotelica dell’uomo come animale sociale: il nostro Io è il primo grande e insidioso idolo alla cui potenza immaginaria la nostra vita si consacra.
L’illusione narcisistica vorrebbe cancellare il tabù della dipendenza dell’uomo dall’Altro. Il suo fantasma è partenogenetico, esclude ogni fecondazione dell’Altro. Il suo disegno è quello dell’auto-costituzione, dell’auto-fondazione, dell’auto-realizzazione. Mai nessun tempo come il nostro ha esaltato a dismisura la figura di Narciso come emblema di un soggetto che basta a se stesso, indipendente, autonomo.
È una patologia non solo individuale. Narciso può, come nel mito di Ovidio, innamorarsi solo di ciò che gli assomiglia, solo della propria immagine ideale; egli non conosce l’alterità, non conosce l’amore come esposizione assoluta verso il dissimile. Il fantasma di autoconsistenza che governa la vita di Narciso ispira da capo a piedi il mito neo-liberale del “farsi un nome da sé”. Esso domina le nostre vite come una vera e propria forma pagana di idolatria. L’ideale seduttivo dell’auto-generazione vorrebbe negare ogni debito, ogni provenienza dall’Altro nutrendo la credenza folle dell’Io che basta a se stesso.
Tuttavia, il mito di Narciso non si limita a mostrare la potenza seduttiva dell’illusione di farsi un nome da sé, ma ne evidenzia anche il rischio mortale. Narciso vorrebbe cancellare la distanza che lo separa da se stesso, reintegrare il suo doppio che vede riflesso, negare quella divisione che attraversa tutti noi impedendoci di credere troppo al nostro Io. Nessuno di noi, infatti - salvo i grandi paranoici - può pensare di coincidere perfettamente con l’Io che crede di essere. Nel tentativo di realizzare questa coincidenza, Narciso perde la sua vita. Per questa ragione Lacan ha messo in evidenza il carattere profondamente suicidario del narcisismo umano: idolatrando la propria immagine, perseguendo il sogno onnipotente di cancellare l’alterità, il sogno di Narciso naufraga nell’abisso oscuro delle acque.
Credere di essere un Io è, infatti, la malattia umana per eccellenza, la follia più grande, la forma più subdola e pericolosa di idolatria. Se la modernità ha segnato il tempo della giusta emancipazione dell’Io dagli oscurantismi irrazionali della superstizione, se la voce di Kant ha definito la stagione dei lumi come l’uscita necessaria dell’uomo dal suo stato di minorità, l’epoca ipermoderna, quella in cui viviamo, non ha forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo pagano, altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo ha smascherato nella loro impostura?
Bisognerebbe forse rileggere in questa luce un testo di immutata attualità com’è la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer per cogliere sino in fondo la portata di questo ribaltamento epocale: l’Io si emancipa dalle ombre della superstizione religiosa per trasformarsi esso stesso in un’ombra altrettanto inquietante. Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, di emanciparsi dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra.
Narciso è l’ombra spessa di cui l’uomo ipermoderno è preda. La sua passione furiosa, la sua superbia capricciosa, vorrebbe annullare lo scarto che lo separa da se stesso negando ogni forma di dipendenza dall’Altro. Questa è la sua follia mortale che il nostro tempo ha elevato ad una sorta di nuovo comandamento sociale. Senza dimenticare però che le forme forse più nocive del narcisismo sono quelle passive, della falsa umiltà, del rigetto dell’ambizione, della vita schiva, ma avvelenata.
Si tratta, in realtà, solo del retro di una stessa medaglia: lo sguardo torvo del risentito - scolpito magistralmente da Nietzsche ne La genealogia della morale - odia la vita capace di realizzarsi invocando l’umiltà e il nascondimento solo come segni grigi della sua impotenza rabbiosa. In essa dimora più che mai lo spettro narcisistico che anima, al suo fondo, ogni forma di invidia umana.
L’epidemia dei giovani narcisisti
Una psicologa lancia l’allarme: colpito un ragazzo su tre.
La colpa? Culto dell’immagine e Internet
La ricerca. Negli Usa analizzati i profili psicologici di16mila studenti: dilagano arroganza, egocentrismo, materialismo
Il motivo. «In un mondo così competitivo che esalta gloria, fortuna e ricchezza la forte autostima aiuta a stare a galla»
di Rita Sala (La Stampa, 04.04.2011)
Il narciso della specie umana sboccia tutto l’anno, ed è un peccato che non abbia una fioritura breve e intensa, come il suo omonimo vegetale. Invece è destagionalizzato, tipo i pomodorini in serra, e cresce ovunque, specialmente nel mondo giovanile, suscitando una pericolosa ammirazione. Proprio quello che vuole.
L’allarme narcisismo questa volta arriva da Jean Twenge, psicologa della San Diego State University, che ha condotto una ricerca su sedicimila studenti e li ha trovati malatissimi. I sintomi: arroganza, egocentrismo, scarsa empatia, materialismo spinto. Ed ecco i dati: negli ultimi trent’anni i narcisisti sono diventati un esercito, il 30 per cento, mentre nel 1982 erano soltanto il 15. Un altro studio su 35mila persone di varie età ha dimostrato che oggi i giovani sono molto più narcisisti degli anziani (il 10 per cento contro il 3) mentre prima era il contrario. Era l’esperienza ad alimentare questo disordine della personalità, mentre adesso narcisisti (quasi) si nasce. E lo si diventa facilmente, alla luce dei riflettori. Jean Twenge punta il dito contro genitori troppo permissivi, cultura delle celebrità e Internet. Un cocktail micidiale. Gli studenti intervistati hanno ammesso sereni che il narcisismo è una necessità: guai a esserne sprovvisti in una società così competitiva. Autostima, fiducia in se stessi, «io sono il migliore», «ho sempre ragione» e via di seguito, aiutano. Ma il narcisismo, spiega Twenge, non c’entra con la competizione: «Questi ragazzi che sognano fortuna e gloria, ricchezza, perfezione fisica ossessiva sono talmente convinti di essere dei fuoriclasse che nemmeno studiano». E fuori dalla classe ci finiscono sul serio.
È un discorso già sentito, anche se non ancora sostenuto da una tale massa di dati comparativi e adesso che ci sono, è ovvio: siamo circondati. Il protagonismo, il presenzialismo, lo sgomitamento per apparire, la capacità di manipolare gli altri sono considerati meriti un po’ in tutti i campi. Il modello è quello dei reality. Basta esprimere una personalità, avere un’abilità qualsiasi: raccontare barzellette, sedurre, far piangere. Involontariamente il tronista di «Uomini e Donne» è diventato il simbolo del narciso corteggiato (deliziosa la parodia di Claudio Bisio a «Zelig», dove Claudiano mastica gomma mentre Tatiana e Valeriana si accapigliano per lui), come Vittorio Sgarbi può essere considerato l’esempio perfetto dell’istrione, con un suo adorante pubblico.
Le società, è vero, hanno sempre avuto i loro narcisi, artisti, attori, ballerine e anche qualche nano, il problema è che adesso stanno diventando troppi, o troppo ingombranti, come segnala la presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio, Marialori Zaccaria. Ingombranti al punto da provocare un’ondata di manualistica specializzata. «Come difendersi da un narcisista» (il più venduto), «Guerra al narcisismo», «Ho sposato un narciso: manuale di sopravvivenza per donne innamorate» (graziosa cover con un cerotto sul cuore). Ma è una contraerea piuttosto debole.
Come ricorda Zaccaria, nel 2013, quando sarà pubblicato il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm V, a cura dell’American Psychiatric Association), «bibbia» della psichiatria internazionale, il narcisismo patologico non ci sarà. Cancellato. Perché non c’è una pillola che lo guarisca, non c’è business per le aziende farmaceutiche, e allora tanto vale non prenderlo in considerazione. Si profilano tempi duri, tra Grandi Fratelli e Lady Burlesque, tra personalità onnipotenti e successo dell’eccesso. E nessuno pensa di chiedere per i gli anti-narcisisti una «no fly zone» in attesa di tempi migliori.
Intervista
Lo studioso: “Alla fine si corre il rischio di rimanere da soli”
di R. SAL. (La Stampa, 04.04.2011(
Edoardo Giusti, direttore dell’Aspic (Associazione per lo sviluppo psicologico dell’individuo e della comunità), che ha 37 sedi in Italia, si è occupato a lungo di narcisismo. Il libro che gli ha dedicato, ripubblicato da poco da Soverato, ci spiega con chi abbiamo a che fare.
Professore, come si riconosce un narcisista?
«Ce ne sono di due tipi: uno esibizionistico, consapevole o inconsapevole (perciò più facile da riconoscere perché coltiva la propria onnipotenza, e desidera l’invidia degli altri), e uno nascosto, ipervigile, difficile da individuare. Tutti e due cercano soltanto una cosa: l’ammirazione».
Ci sono specie diverse di narcisismo?
«C’è l’istrione che gesticola, litiga e si crea un pubblico. C’è l’isterico che piange, cerca di ottenere compassione, simpatia. Questi due modelli sono molto televisivi, ne abbiamo tanti sotto gli occhi: il seduttore con l’harem, i vincitori di un concorso, i partecipanti ai reality. Ma è il web che esalta l’onnipotenza con il mito dell’interconnessione e l’infinità dei contatti». Come si diventa narcisisti?
«A livello emozionale si comincia con un abbandono reale o con la paura di subirne uno. I comportamenti, poi, possono essere diversi. Prendere droghe (cocaina, che è un euforizzante), l’inseguimento del potere, il denaro, il sesso, la bellezza».
Ci si può curare?
«Esclusivamente con la relazione terapeutica, non certo con i farmaci. Ma sono casi rari perché il narcisista non ha un’introspezione marcata, vive il qui e l’ora, usa gli altri e li fa soffrire, mentre lui non soffre. Può sentire la necessità di una cura soltanto di fronte a un abbandono che gli provoca depressione. Penso a Fabrizio Corona e Belen Rodriguez. Se lei lo lasciasse per sempre, sarebbe una ferita al suo narcisismo. Allora forse...».
Insomma, siamo al trionfo del narcisismo?
«Non è detto: un istrione è divertente in un salotto. Lo esibisci in pubblico, lo eviti nel privato. Il destino del narcisista è la solitudine».
INTERVISTA
Il male narciso: distruggo e mi realizzo
a c. di Giancarlo Ricci (Avvenire, 29 marzo 2011)
«L’uomo ama creare e aprirsi nuove strade - scrive Dostoevskji - ma allora perché egli ama così appassionatamente anche la distruzione e il caos?» Curiosa domanda e di grande attualità. La troviamo come esergo al libro L’eros della distruzione (Il Melangolo, pagine 142, 16 ) scritto dal filosofo Silvano Petrosino e da Sergio Ubbiali, teologo, saggista, docente di Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Il libro raccoglie i due contributi tenuti nell’ambito di un Seminario sul male e viene presentato oggi pomeriggio a Milano presso l’Università Cattolica da Gianfranco Dalmasso e Giuseppe Noberasco (sede di via Nirone, ore 14,45).
Abbiamo incontrato Petrosino, filosofo, docente di Filosofia morale alla Cattolica di Milano e di Piacenza, noto come uno dei più importanti studiosi del pensiero di Derrida e di Lévinas. Di recente ha pubblicato La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas (Jaca Book) in cui ripercorre criticamente il compiacimento con cui la modernità ha celebrato l’"era delle fini", della morte di Dio, della verità, del soggetto.
Per quale via la sua riflessione si sofferma sul paradosso enunciato da Dostosvskij quando dice che l’uomo ama tremendamente il male e la sofferenza?
«Per me il problema del male s’inserisce in una problematica più ampia che è il soggetto umano. È il tentativo di una riflessione sull’umano che non sia un’immagine caricaturale dell’umano. La banalizzazione del male si attua con la sua riduzione a un gesto di follia o di debolezza. Talvolta, anche nel mondo cattolico, si afferma un’idea un po’ intellettualistica: si commetterebbe il male per stanchezza o per distrazione. Il male invece è una possibilità data al soggetto, è una scelta del soggetto. Questo, per molti aspetti è inquietante, però è fondamentale. Kant si chiede quale uomo farebbe del male a se stesso. Del resto mi sembrerebbe una concezione ingenua affermare che l’uomo a volte fa il male, ma in realtà cerca il bene».
La modernità è lacerata, assediata da un’idea di male assoluto...
«Certo il male assoluto è una forma di male spaventoso come l’Olocausto o il Gulag. Intravedo tuttavia il pericolo di un’enfatizzazione del male assoluto: da una parte si ipostatizza il male assoluto, dall’altra si mette in ombra il soggetto. Questo comporta il rischio di una cancellazione della soggettività. Più che all’esistenza effettiva di un male assoluto direi, come afferma Jankelevitch, che ci sono i malvagi, ci sono coloro che compiono il male: sono uomini. La scommessa è che il male possa diventare un’opportunità per il soggetto umano. E costantemente dobbiamo chiederci: che cosa cerca il soggetto facendo il male, perché sceglie di distruggere? Qui è importante notare che il male s’intreccia in modo inquietante col tema della giustizia: il soggetto distrugge per rincominciare tutto da capo, per non avere più un debito originario, quel debito che Gesù interpreterà invece come dono. Il soggetto distrugge per imporsi all’origine di se stesso. Nel mio lavoro La scena umana distinguo l’inizio dall’origine, non sono la stessa cosa. Il distruggere umano, quel distruggere "di fronte al quale persino gli animali feroci recedono inorriditi", come dice Lacan, non è nient’altro che un tentativo di risolvere l’origine nell’inizio».
Ma questo non significa escludere l’altro, comportarsi come se non esistesse?
«Certo! Infatti intorno a una soggettività narcisistica si raccoglie sempre una scena di distruzione. L’io è un’organizzazione passionale, affermava Lacan. Anche Gesù vive come organizzazione passionale, ma questa si struttura come dono, riguarda il debito. In effetti l’io è sempre un’organizzazione passionale, che si organizza o nella forma del distruttore nei confronti dell’altro, oppure, come nel caso di Gesù, nella forma del dono, in definitiva dell’amore».
Spesso i media propongono il male come qualcosa di necessario quasi per dire che dobbiamo essere sospettosi dell’altro...
«Significa allora che i media, che sono fatti da uomini, perseguono la passione per il distruggere. Direi che ciò accade, in un certo senso, perché il distruggere appare come una strada più facile rispetto all’accogliere. Chi non accoglie distrugge! È come un bambino che vede il castello di sabbia di un altro bambino: glielo distruggo. Ma domani potrà sorgere sempre un castello più bello. Posso distruggere anche quello... ma allora il male non avrà mai fine. Con il male non si scherza, ha una forza di attrazione. I media a volte sembrano scherzare con il male: mostrano questo o quest’altro, la morte, gli omicidi... Cercano di essere neutrali ma in realtà è pericolosissimo. È un’ubriacatura, non ti fermi più, devi proseguire, devi arrivare fino al punto più alto. È un po’ come accade con la torre di Babele: arrivati in cima, gli uomini provavano nausea a guardare giù. Non ci si accorge che le vertigini le provi nei confronti dell’uomo, ancor prima che nei confronti di Dio. Allora ti diventa insopportabile l’altro e quindi lo distruggi».
Giancarlo Ricci
CRISI COSTITUZIONALE (1994-2010). DUE PRESIDENTI GRIDANO: FORZA ITALIA!!! .... E IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE DELLE ISTITUZIONI E DEGLI INTELLETTUALI: