ARTE E FILOSOFIA. PER LA CRITICA DEL PLATONISMO E DEL CATTO-HEGELISMO DI MASSA - IL BERLUSCONISMO ....

AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE. Una riflessione di Francesca Bonazzoli e altre note e informazioni - a cura di Federico La Sala

«Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario.
domenica 30 novembre 2008.
 


-  Il falso specchio
-  L’opera che condanna la verità dell’immagine
-  Le nuvole dell’illusione
-  Così un grande occhio mette in crisi il mondo

di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 22.11.2008)

«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde Damide. «E perché si fa?». «Per l’imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all’epoca di Cristo, arrivò fino in India.

E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni: «Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la mente».

Quasi mille anni di storia dell’arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l’intero giro della mimesi passando attraverso l’illusione e i cieli sfondati barocchi di Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la speculazione filosofica al punto dove l’aveva lasciata Apollonio di Tiana.

Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L’immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero.

Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l’occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?

La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un’enorme pipa e, sotto, un cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la scritta: «Ceci n’est pas une pipe».

Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera, oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l’uno né l’altra e a che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro?

Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione mimetica, che l’arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a quella concettuale. La qualità dell’opera d’arte, dice, non sta nell’abilità esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già sperimentato Duchamp e che porterà all’arte concettuale, ma Magritte lo attua attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l’accostamento incongruo di oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire l’irrealtà dell’apparenza.

Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall’esterno all’interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou » in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che taglia l’occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e dell’interpretazione della realtà attraverso la vista.

Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito Apollonio di Tiana, nella visione c’è sempre una componente soggettiva, la tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella testa.

Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia della mimesi, messa già in crisi dal trompe l’oeil fin dall’epoca rinascimentale e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell’ambito dell’imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e non metteva veramente in discussione la verità dell’immagine che restava sempre uno strumento di conoscenza della realtà.

Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura: perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l’oggettività del mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano, sappiamo quanto questo sia vero.



-  L’ITALIA NELLA TRAPPOLA DELLO SPECCHIO E DEL PARADOSSO DEL MENTITORE ISTITUZIONALE

-  COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....


http://www.mostramagritte.it/


Milano esplora il rapporto con la natura dell’artista più misterioso del Surrealismo

Enigma Magritte

di Francesca Montorfano (Corriere della Sera, 22.11.2008)

«Magritte, il mistero della natura», da oggi al 29 marzo a Palazzo Reale (piazza Duomo 12), a Milano: 110 dipinti a olio, gouaches e sculture (a destra, «Le tombeau des lutteurs», 1960).
-  Orari: martedì-domenica 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, giovedì 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 e, ridotto 7 e.
-  Catalogo della Giunti Arte (288 pag), 38 e
-  La vita
-  René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all’Accademia di Bruxelles, s’interessò alle ricerche d’avanguardia (Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925 quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l’anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967

C’è sempre qualcosa di profondamente enigmatico, di impenetrabile, nelle opere di René Magritte. Qualcosa che pare sfuggire all’ordine delle cose, che non può essere interpretato con i soli strumenti della ragione e della cultura perché tocca le corde dell’insolito, dell’irrazionale, del mistero. «Senza mistero nulla davvero esiste», amava dire. E in questo paradosso, nella consapevolezza che il mistero è il significato più vero di tutto il reale e la natura è il luogo in cui esso si manifesta, si rivela tutta la profondità del pensiero e l’attualità del grande maestro belga del Surrealismo.

A delinearne più compiutamente la poetica, andando oltre quelle immagini ormai troppo famose, diventate icone del nostro tempo, a scoprire un inedito e ancor più sorprendente Magritte, è un nuovo livello di lettura delle sue opere, che si propone di indagare la sua particolare visione della natura. E proprio la natura, con il mistero che racchiude in sé e che solo l’artista può svelare guardando oltre l’apparenza delle cose, è il filo conduttore della grande rassegna che si apre oggi a Palazzo Reale e che si presenta come un evento assolutamente straordinario, perché vede riunite in Italia più di cento opere di Magritte, quadri famosi provenienti da importanti musei e lavori appartenenti a collezioni private e mai esposti prima d’ora.

«Sono pochi gli artisti del Novecento che hanno posto la natura al centro della loro ricerca, preferendo l’esaltazione delle conquiste della scienza e della tecnica, ma Magritte è stato uno di questi », ha dichiarato Claudia Beltramo Ceppi, curatrice della rassegna insieme a Michel Draguet, direttore generale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique. «La natura è sempre presente nel suo percorso artistico, protagonista o cornice di ogni immagine, esplorata in una miriade di declinazioni e sfaccettature dove la logica comune dei luoghi e delle cose è sovvertita, gli oggetti e le figure spostati in contesti paradossali, la realtà reinterpretata attraverso l’occhio lucido e spregiudicato di un intelletto moderno».

Il complesso rapporto che lega Magritte alla natura è raccontato in un’esposizione tematica e cronologica insieme, dove a condurre lo spettatore è lo sguardo stesso dell’artista, a parlare non sono cartelli o locandine, ma le sue immagini e le sue riflessioni. «Con questa mostra abbiamo voluto costruire una storia che abbia un inizio e una fine - continua Claudia Beltramo Ceppi -, che sia spettacolo e approfondimento insieme, che possa suscitare emozioni e trasportare in un luogo dove anche l’enigma, anche i limiti dell’uomo si dissolvano nel mondo del sogno ».

La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d’amour di De Chirico) e alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta.

E se nella mela di Souvenir de voyage del 1961 la natura appare mascherata, quasi a voler celare la sua vera essenza, nella rosa immensa e palpitante de Le tombeau des lutteurs del 1960 sembra invece esplodere in tutta la sua potenza. Così, ne La découverte del 1927 il corpo della donna si trasforma rivelando tratti animaleschi, ne Le retour del 1940 la colomba diventa nuvola (o è la nuvola che si fa uccello?), nello stupefacente notturno sotto un chiaro cielo diurno de L’empire des lumières del 1954 incanta con la forza della poesia.

Ma il percorso va ancora avanti, a scoprire foto e spezzoni di film, manoscritti (come il carteggio autografo con Camille Goemans, tra gli esponenti del gruppo surrealista di Bruxelles) e grandi pannelli, come quelli usciti per la prima volta dal Palais des Beaux Arts di Charleroi, che sembrano riassumere tutta la magia dell’universo pittorico di Magritte. «Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario. Un mondo dove la natura possa offrire al corpo e allo spirito quella libertà di cui hanno bisogno.


-  Il pittore vallone ha rappresentato il carattere del suo Paese rebus
-  Riservato e imprevedibile Era l’alfiere della «belgitudine»
-  Viveva nella noia ma aveva sempre pronta la battuta beffarda

di Isabelle Gerard (Corriere della Sera, 22.11.2008)

Nato nel 1898 a Lessines, in Vallonia, René Magritte è diventato oggi ambasciatore del Belgio nel mondo intero. È il più noto rappresentante del Surrealismo belga ed è uno dei pittori più illustri del Paese. Le sue immagini, sebbene surreali, parlano a tutti grazie al realismo della loro esecuzione. Del resto, è partendo dal reale, con tutto quello che esso comporta di più banale, che Magritte imposta i misteri, i non-sensi e le sorprese che riempiono le sue opere. Una tradizione che dura da parecchi secoli in Belgio, dove artisti come Bosch, Breughel, Ensor e, ai giorni nostri, Panamarenko, hanno sfruttato la realtà per immaginare universi fantastici che flirtano spesso con il sogno e l’inconscio.

In Belgio, questo sentimento del fantastico riguarda anche la corrente simbolista della fine del XIX secolo (Khnopff, Rops) e i fumetti del XX secolo (François Schuiten). Sembra che da molto tempo artisti in genere e artisti plastici abbiano questo bisogno di creare universi onirici colmi di fantasia e di mistero.

Quanto a Magritte, egli viveva semplicemente, in un piccolo spazio, decorato con cura dalla moglie Georgette. Le sue giornate trascorrevano nella noia, poiché gli unici contatti erano quelli che manteneva con i membri del gruppo surrealista belga (Scutenaire, Nougé, Mariën). Questa vita lontanissima dagli universi dei suoi quadri era una propria scelta.

Il fatto di rinchiudersi in se stesso, Magritte lo condivide con altri artisti belgi che, come lui, non hanno seguito la strada già tracciata che si apriva davanti a loro, preferendo gli abbandoni e talvolta gli insuccessi a vantaggio della loro arte. Citiamo Simenon, Jacques Brel o ancora Hugo Claus, i quali, come Magritte, vissero nell’isolamento.

Una discrezione che, stranamente, caratterizza numerosi artisti e personalità belgi. In un Paese così piccolo, dove tanto più i geni avrebbero motivo di esporsi, loro tendono piuttosto a non farsi notare. Raggiunto il successo, continuano a vivere ritirati, dedicandosi solo alla creazione. È proprio questa forse la loro forza, e la ragione per cui «piccoli belgi» come Magritte, Hergé, Simenon o Brel sono riusciti a diventare artisti mondialmente noti.

È incontestabile che ci sia molto del «belga» in René Magritte, il cui accento vallone fu oggetto di tanti scherni quando l’artista si trovava a Parigi (1927-30). Nella vita quotidiana, Magritte viveva come il belga medio, giocando a scacchi nei bar del centro e portando a passeggio il cane Loulou per le stradine del suo quartiere.

Ma è soprattutto con l’umorismo, caustico e volgare come non mai, che Magritte affermava (forse suo malgrado) la propria belgitudine. Così, alla domanda «Come sta?» gli piaceva rispondere «Come vuole lei». Magritte, che amava terminare le lettere con un affettuoso «buona inculata», creò nel 1948 a Parigi il periodo «Vache», una sorta di parodia del fauvismo, per farsi beffe di quei parigini che avevano impiegato tanto tempo prima di prendere sul serio il suo lavoro.

Eppure, Magritte non ha sfruttato deliberatamente la belgitudine nei suoi quadri. Questi brulicano di elementi chiave che comunque hanno solo di rado una connotazione belga (per quanto, l’ombrello non è un elemento caratteristico degli abitanti di questo piatto Paese?). Al massimo, nelle sue immagini troviamo paesaggi che ricordano quelli del Mar del Nord, case dal profilo tipico di quelle di Bruxelles, cieli spesso grigi o nuvolosi, o ancora un leone la cui sagoma evoca la marca dei supermercati belgi Delhaize. È forse questa atmosfera cupa che dà un carattere «belga » all’opera di Magritte, senza che egli abbia mai voluto tingerla di belgitudine. Infatti l’artista, come di molte altre cose, se ne infischiava altamente d’essere belga, vallone, fiammingo o brussellese.

Tuttavia l’opera di René Magritte oggi è diventata un’immagine del Belgio, che esso vuole diffondere nel mondo intero. È servita da simbolo a una delle grandi compagnie aeree (l’uccello della Sabena); i grandi musei gli dedicano una quantità di mostre e nel giugno del 2009 a Bruxelles sarà inaugurato in pompa magna un nuovo Museo Magritte destinato ad attirare un pubblico internazionale. È tutto un programma, per colui che dipingeva nella sala da pranzo sparlando della famiglia reale...

-  Isabelle Gerard è storica dell’arte, conservatrice del Museo Magritte a Bruxelles e saggista
-  (traduzione Daniela Maggioni)



Magritte, «La ricerca della verità», 1963 (Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce, 1955)

(per questo quadro e l’art. di Maurizio Cecchetti "Magritte, paradosso logico", si cfr. in fondo al Forum - qui di seguito)


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