Il falso specchio
L’opera che condanna la verità dell’immagine
Le nuvole dell’illusione
Così un grande occhio mette in crisi il mondo
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 22.11.2008)
«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde Damide. «E perché si fa?». «Per l’imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all’epoca di Cristo, arrivò fino in India.
E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni: «Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la mente».
Quasi mille anni di storia dell’arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l’intero giro della mimesi passando attraverso l’illusione e i cieli sfondati barocchi di Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la speculazione filosofica al punto dove l’aveva lasciata Apollonio di Tiana.
Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L’immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero.
Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l’occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?
La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un’enorme pipa e, sotto, un cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la scritta: «Ceci n’est pas une pipe».
Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera, oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l’uno né l’altra e a che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro?
Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione mimetica, che l’arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a quella concettuale. La qualità dell’opera d’arte, dice, non sta nell’abilità esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già sperimentato Duchamp e che porterà all’arte concettuale, ma Magritte lo attua attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l’accostamento incongruo di oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire l’irrealtà dell’apparenza.
Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall’esterno all’interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou » in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che taglia l’occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e dell’interpretazione della realtà attraverso la vista.
Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito Apollonio di Tiana, nella visione c’è sempre una componente soggettiva, la tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella testa.
Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia della mimesi, messa già in crisi dal trompe l’oeil fin dall’epoca rinascimentale e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell’ambito dell’imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e non metteva veramente in discussione la verità dell’immagine che restava sempre uno strumento di conoscenza della realtà.
Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura: perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l’oggettività del mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano, sappiamo quanto questo sia vero.
L’ITALIA NELLA TRAPPOLA DELLO SPECCHIO E DEL PARADOSSO DEL MENTITORE ISTITUZIONALE
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Milano esplora il rapporto con la natura dell’artista più misterioso del Surrealismo
Enigma Magritte
di Francesca Montorfano (Corriere della Sera, 22.11.2008)
«Magritte, il mistero della natura», da oggi al 29 marzo a Palazzo Reale (piazza Duomo 12), a Milano: 110 dipinti a olio, gouaches e sculture (a destra, «Le tombeau des lutteurs», 1960).
Orari: martedì-domenica 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, giovedì 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 e, ridotto 7
e.
Catalogo della Giunti Arte (288 pag), 38 e
La vita
René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all’Accademia di Bruxelles, s’interessò alle ricerche d’avanguardia (Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925
quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l’anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967
C’è sempre qualcosa di profondamente enigmatico, di impenetrabile, nelle opere di René Magritte. Qualcosa che pare sfuggire all’ordine delle cose, che non può essere interpretato con i soli strumenti della ragione e della cultura perché tocca le corde dell’insolito, dell’irrazionale, del mistero. «Senza mistero nulla davvero esiste», amava dire. E in questo paradosso, nella consapevolezza che il mistero è il significato più vero di tutto il reale e la natura è il luogo in cui esso si manifesta, si rivela tutta la profondità del pensiero e l’attualità del grande maestro belga del Surrealismo.
A delinearne più compiutamente la poetica, andando oltre quelle immagini ormai troppo famose, diventate icone del nostro tempo, a scoprire un inedito e ancor più sorprendente Magritte, è un nuovo livello di lettura delle sue opere, che si propone di indagare la sua particolare visione della natura. E proprio la natura, con il mistero che racchiude in sé e che solo l’artista può svelare guardando oltre l’apparenza delle cose, è il filo conduttore della grande rassegna che si apre oggi a Palazzo Reale e che si presenta come un evento assolutamente straordinario, perché vede riunite in Italia più di cento opere di Magritte, quadri famosi provenienti da importanti musei e lavori appartenenti a collezioni private e mai esposti prima d’ora.
«Sono pochi gli artisti del Novecento che hanno posto la natura al centro della loro ricerca, preferendo l’esaltazione delle conquiste della scienza e della tecnica, ma Magritte è stato uno di questi », ha dichiarato Claudia Beltramo Ceppi, curatrice della rassegna insieme a Michel Draguet, direttore generale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique. «La natura è sempre presente nel suo percorso artistico, protagonista o cornice di ogni immagine, esplorata in una miriade di declinazioni e sfaccettature dove la logica comune dei luoghi e delle cose è sovvertita, gli oggetti e le figure spostati in contesti paradossali, la realtà reinterpretata attraverso l’occhio lucido e spregiudicato di un intelletto moderno».
Il complesso rapporto che lega Magritte alla natura è raccontato in un’esposizione tematica e cronologica insieme, dove a condurre lo spettatore è lo sguardo stesso dell’artista, a parlare non sono cartelli o locandine, ma le sue immagini e le sue riflessioni. «Con questa mostra abbiamo voluto costruire una storia che abbia un inizio e una fine - continua Claudia Beltramo Ceppi -, che sia spettacolo e approfondimento insieme, che possa suscitare emozioni e trasportare in un luogo dove anche l’enigma, anche i limiti dell’uomo si dissolvano nel mondo del sogno ».
La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d’amour di De Chirico) e alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta.
E se nella mela di Souvenir de voyage del 1961 la natura appare mascherata, quasi a voler celare la sua vera essenza, nella rosa immensa e palpitante de Le tombeau des lutteurs del 1960 sembra invece esplodere in tutta la sua potenza. Così, ne La découverte del 1927 il corpo della donna si trasforma rivelando tratti animaleschi, ne Le retour del 1940 la colomba diventa nuvola (o è la nuvola che si fa uccello?), nello stupefacente notturno sotto un chiaro cielo diurno de L’empire des lumières del 1954 incanta con la forza della poesia.
Ma il percorso va ancora avanti, a scoprire foto e spezzoni di film, manoscritti (come il carteggio autografo con Camille Goemans, tra gli esponenti del gruppo surrealista di Bruxelles) e grandi pannelli, come quelli usciti per la prima volta dal Palais des Beaux Arts di Charleroi, che sembrano riassumere tutta la magia dell’universo pittorico di Magritte. «Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario. Un mondo dove la natura possa offrire al corpo e allo spirito quella libertà di cui hanno bisogno.
Il pittore vallone ha rappresentato il carattere del suo Paese rebus
Riservato e imprevedibile Era l’alfiere della «belgitudine»
Viveva nella noia ma aveva sempre pronta la battuta beffarda
di Isabelle Gerard (Corriere della Sera, 22.11.2008)
Nato nel 1898 a Lessines, in Vallonia, René Magritte è diventato oggi ambasciatore del Belgio nel mondo intero. È il più noto rappresentante del Surrealismo belga ed è uno dei pittori più illustri del Paese. Le sue immagini, sebbene surreali, parlano a tutti grazie al realismo della loro esecuzione. Del resto, è partendo dal reale, con tutto quello che esso comporta di più banale, che Magritte imposta i misteri, i non-sensi e le sorprese che riempiono le sue opere. Una tradizione che dura da parecchi secoli in Belgio, dove artisti come Bosch, Breughel, Ensor e, ai giorni nostri, Panamarenko, hanno sfruttato la realtà per immaginare universi fantastici che flirtano spesso con il sogno e l’inconscio.
In Belgio, questo sentimento del fantastico riguarda anche la corrente simbolista della fine del XIX secolo (Khnopff, Rops) e i fumetti del XX secolo (François Schuiten). Sembra che da molto tempo artisti in genere e artisti plastici abbiano questo bisogno di creare universi onirici colmi di fantasia e di mistero.
Quanto a Magritte, egli viveva semplicemente, in un piccolo spazio, decorato con cura dalla moglie Georgette. Le sue giornate trascorrevano nella noia, poiché gli unici contatti erano quelli che manteneva con i membri del gruppo surrealista belga (Scutenaire, Nougé, Mariën). Questa vita lontanissima dagli universi dei suoi quadri era una propria scelta.
Il fatto di rinchiudersi in se stesso, Magritte lo condivide con altri artisti belgi che, come lui, non hanno seguito la strada già tracciata che si apriva davanti a loro, preferendo gli abbandoni e talvolta gli insuccessi a vantaggio della loro arte. Citiamo Simenon, Jacques Brel o ancora Hugo Claus, i quali, come Magritte, vissero nell’isolamento.
Una discrezione che, stranamente, caratterizza numerosi artisti e personalità belgi. In un Paese così piccolo, dove tanto più i geni avrebbero motivo di esporsi, loro tendono piuttosto a non farsi notare. Raggiunto il successo, continuano a vivere ritirati, dedicandosi solo alla creazione. È proprio questa forse la loro forza, e la ragione per cui «piccoli belgi» come Magritte, Hergé, Simenon o Brel sono riusciti a diventare artisti mondialmente noti.
È incontestabile che ci sia molto del «belga» in René Magritte, il cui accento vallone fu oggetto di tanti scherni quando l’artista si trovava a Parigi (1927-30). Nella vita quotidiana, Magritte viveva come il belga medio, giocando a scacchi nei bar del centro e portando a passeggio il cane Loulou per le stradine del suo quartiere.
Ma è soprattutto con l’umorismo, caustico e volgare come non mai, che Magritte affermava (forse suo malgrado) la propria belgitudine. Così, alla domanda «Come sta?» gli piaceva rispondere «Come vuole lei». Magritte, che amava terminare le lettere con un affettuoso «buona inculata», creò nel 1948 a Parigi il periodo «Vache», una sorta di parodia del fauvismo, per farsi beffe di quei parigini che avevano impiegato tanto tempo prima di prendere sul serio il suo lavoro.
Eppure, Magritte non ha sfruttato deliberatamente la belgitudine nei suoi quadri. Questi brulicano di elementi chiave che comunque hanno solo di rado una connotazione belga (per quanto, l’ombrello non è un elemento caratteristico degli abitanti di questo piatto Paese?). Al massimo, nelle sue immagini troviamo paesaggi che ricordano quelli del Mar del Nord, case dal profilo tipico di quelle di Bruxelles, cieli spesso grigi o nuvolosi, o ancora un leone la cui sagoma evoca la marca dei supermercati belgi Delhaize. È forse questa atmosfera cupa che dà un carattere «belga » all’opera di Magritte, senza che egli abbia mai voluto tingerla di belgitudine. Infatti l’artista, come di molte altre cose, se ne infischiava altamente d’essere belga, vallone, fiammingo o brussellese.
Tuttavia l’opera di René Magritte oggi è diventata un’immagine del Belgio, che esso vuole diffondere nel mondo intero. È servita da simbolo a una delle grandi compagnie aeree (l’uccello della Sabena); i grandi musei gli dedicano una quantità di mostre e nel giugno del 2009 a Bruxelles sarà inaugurato in pompa magna un nuovo Museo Magritte destinato ad attirare un pubblico internazionale. È tutto un programma, per colui che dipingeva nella sala da pranzo sparlando della famiglia reale...
Isabelle Gerard è storica dell’arte, conservatrice del Museo Magritte a Bruxelles e saggista
(traduzione Daniela Maggioni)
Magritte, «La ricerca della verità», 1963 (Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce, 1955)
(per questo quadro e l’art. di Maurizio Cecchetti "Magritte, paradosso logico", si cfr. in fondo al Forum - qui di seguito)
Specchio: storia simbolica di un’immagine
di Francesca Rigotti *
Lo specchio è un artefatto antico: ne sono stati trovati esemplari in tutto il mondo, alcuni dei quali risalenti al VI millennio a.C. Oltre allo specchio artefatto, prodotto dall’azione e dall’intenzione di qualcuno, c’è però anche lo specchio naturale, la superficie liquida, l’acqua. Noi che in genere non ci specchiamo mai sulla superficie dell’acqua potremmo considerare sfocata l’immagine che riflette, senza sapere che può dare invece risultati di altissimo nitore e grande precisione.
Ben lo sapeva il giovinetto Narciso, il cui mito ci viene subito alla mente se pensiamo al gesto di specchiarsi nell’acqua e alle sue, per Narciso, terribili conseguenze. Tutti conoscono Narciso, la cui struggente vicenda è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. Forse non tutti sanno però che il suo destino equoreo era in qualche modo predestinato dalla natura dei suoi genitori, un fiume (il Cefíso) e una ninfa acquatica, la cerulea Liríope (dagli occhi sfacciati, da lirós, sfacciato, e ops, opós, femm., occhio). Occhi sfacciati che la madre trasmise in eredità al figlio, dal momento che questi li usò in maniera sfacciata, per innamorarsi cioè della sua immagine riflessa nell’acqua di una fonte. Eppure l’indovino, il cieco Tiresia, interrogato dalla madre se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga vecchiaia, l’aveva avvertita. Ci arriverà, aveva risposto, «se non conoscerà se stesso» (si se non noverit, v. 348).
Ora, l’episodio narrato da Ovidio è due, se non tre volte, speculare: presenta cioè ben tre fenomeni di riflessione: di immagini, di sentimenti, di suoni. Narciso vede se stesso riflesso nelle acque; Narciso si innamora della sua immagine allo specchio, ma soltanto dopo aver rifiutato l’amore di un’altra ninfa, Eco, la cui caratteristica era quella di rimandare i suoni proprio come la superficie dell’acqua rimanda le immagini. Il suono riflesso è ingannevole tal quale l’immagine riflessa. Sembra di ritrovare nel mito di Eco e Narciso un risuonare del tema platonico secondo il quale le rappresentazioni che ci formiamo non corrispondono alla realtà in sé. Qualcosa di simile è detto nel dialogo platonico Teeteto (206d). Quando si traducono i pensieri in parole si dà forma alla propria opinione «nel flusso (roén) che scorre dalla bocca come in uno specchio o nell’acqua». La storia della ninfa Eco si propone insomma come la versione sonora del motivo visivo in Narciso: in entrambe riflesso e ripetizione senza contatto reale.
Le parole della filosofia
L’episodio di Narciso, che Tagliapietra articola sulla mímêsis del desiderio, con queste tre diverse elaborazioni del tema della specularità, ben mostra la densità di senso e di pensiero della cosa-specchio. Così densa e pregnante da aver consegnato al linguaggio della filosofia alcune delle sue parole più pregnanti: speculare/speculazione, riflettere/riflessione, ovvero il tornare a se stesso del pensiero dopo che si è posato su cose e su concetti e idee di cose. Dovendo tradurre i termini greci theoréin e theoría - i quali solamente a partire da Platone avevano assunto il senso di contemplare e considerare (mentre in epoca precedente designavano l’invio di ambasciatori per una festa religiosa) - il latino fece ricorso al verbo speculor, ari, derivato da specio, guardare, nel significato di pensare, meditare (anche se il significato originario di speculor era ben diverso, denotando propriamente lo stare su una specula, ovvero su un luogo elevato dal quale si può vedere) e che comunque si collegava al greco di sképtomai, osservo, da cui scopía e anche sképticos, colui che prima di credere a qualcosa la guarda e ci pensa sopra. Riflessione e speculazione, insomma, termini legati allo speculator, all’osservatore, allo speculum e alla reflexio, definiscono la stessa attività del pensare, il processo mentale del rinviare per riconsiderare.
Ecco, forse qui si può cogliere il nucleo centrale del densissimo e ricchissimo saggio di Andrea Tagliapietra (La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, nuova edizione rivista e accresciuta, Roma, Donzelli, 2023, pp. 464), sul quale il suo autore gira e rigira da decenni, arricchendo e perfezionando le intuizioni di base, come se lavorasse su un pilpul ebraico ai limiti della pensabilità. Come se sul pensiero centrale, che è quello del ruolo dell’immagine presentato con la metafora dello specchio, girassero in maniera concentrica altri pensieri e testi di tutta la tradizione filosofica riflettendosi su altri testi e fornendo materiali alla speculazione. Lo specchio, scrive Tagliapietra, è la porta dell’immagine, immagine e specchio nascono insieme. È stato grazie all’impiego della metafora dello specchio - assevera Tagliapietra - che Platone inventa la metafisica e il vocabolario ontologico e estetico dell’immagine. Anzi la metafora dello specchio è la metafora stessa della filosofia che riflette e specula sulla totalità delle cose, É la figura della persona che si guarda e che «con la vertiginosa fuga dell’autoreferenza, riassume, con la potenza che è propria dell’immagine, la ricorrente ambizione del pensiero filosofico per un sapere assoluto e senza resti, totalizzante e autofondato» (p. 25).
Lo specchio in mano alle donne
Un destino «alto» attendeva quindi lo specchio, oggetto peraltro considerato frivolo perché sempre in mano alle donne. Scriveva Rilke in un Sonetto a Orfeo (II, ii):
Lo specchio è cosa da donne, chi dice specchio dice donna, tanto nella cultura classica quanto in quella giudaico-cristiana - «gli specchi si affacciano nella Bibbia portati dalle mani delle donne», scrive Tagliapietra, e lo confermano le immagini, che illustrano con accortezza questo testo, da quelle della Grecia classica, a quelle della pittura europea medioevale e moderna. Come è possibile che, nonostante questa connotazione femminile, quindi di per sé svalutante, esso sia andato a designare nozioni così elevate come la conoscenza di Dio, del mondo, di sé? Io credo che siamo di fronte a un ennesimo caso di applicazione del «paradosso di Arianna». Il «paradosso di Arianna» è una nozione da me ideata e proposta per designare situazioni in cui l’oggetto femminile e l’attività ad esso legata sono considerati indegni dell’uomo (maschio), come il fuso e il filo, o proprio lo specchio; questi stessi oggetti e attività sono però accettati nel caso in cui abbiano subito un processo di purificazione, per esempio attraverso la metafora, che li rende astratti, quindi degni di designare attività virili: vediamo infatti nel mito del labirinto un filo di lana arrotolato su un gomitolo diventare il filo del logos e della ragione, come assistiamo alla trasformazione metaforica di uno strumento da toeletta in specchio della natura, o meglio nella filosofia come specchio della natura. Anche se proprio contro questa metafora della mente come un grande specchio che contiene rappresentazioni più o meno accurate della realtà si scagliò il filosofo americano Richard Rorty nel suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979. L’intera epistemologia moderna, cito Tagliapietra che cita Rorty, «non si discosta molto dallo sviluppo di una metafora originaria, quella del miglioramento di “una facoltà quasi visiva, lo Specchio della Natura». «Fu la fissazione su questa nostra presunta «essenza rispecchiante» (glassy essence), fatta di una sostanza «più pura, più fine, più sottile, e più delicata di molte altre...qualcosa che condividiamo con gli angeli», afferma Rorty, che portò i primi filosofi e poi tutti i loro discendenti a interpretare la conoscenza in termini di rappresentazione del mondo accurata, sempre più accurata, come nella versione contemporanea del realismo di John Searle da lui criticato; quest’ultima afferma che tanto più lo specchio della mente sarà pulito, chiaro e senza macchie, tanto più esso permetterà di cogliere la verità nel suo adeguarsi progressivo alla cosa. Purtroppo il paragone della mente umana con lo specchio impoverisce secondo Rorty l’attività della mente assegnandole una dimensione contemplativa, di riflessione e registrazione passive di dati, e cancellando la dimensione poetica, attiva, creativa, immaginativa, inventiva. E tutto perché ai primi filosofi greci venne in mente di concepire l’attività della mente come uno specchio riflettente.
Conoscenza di Dio e conoscenza di sé
Nel caso della conoscenza di Dio e del mondo, è la mente (o l’anima) che si fa metaforicamente specchio, al fine di assorbire la luce emanata dalla divinità o la struttura della realtà esterna. Per quanto riguarda la conoscenza di Dio, a partire da Platone e dai neoplatonici l’anima come specchio della divinità, che riflette la luce che da essa emana, è un tema costante del pensiero religioso. Luce e specchio catturano le fattezze sia attive sia passive della mente/anima, si legge nell’Alcibiade Maggiore di Platone (133 C). «C’è una parte dell’anima», dice Socrate interloquendo con Alcibiade, «in cui risiedono il conoscere e il pensare...». Questa parte dell’anima, continua Socrate, è come uno specchio chiaro e puro, più luminosa dello specchio dell’occhio, più luminoso e più puro del quale c’è solamente il dio, che altro non è che «lo specchio migliore».
In quegli specchi portati dalle mani delle donne si articola anche gran parte del pensiero ebraico e cristiano, con quell’umanità creata a immagine e somiglianza del Creatore, dove peraltro, nel pensiero cristiano, anche Cristo è immagine di Dio, è icona del dio invisibile. Da Platone al’ellenismo neoplatonico, alla teologia protocristiana di Paolo della Prima lettera ai Corinti: «Videmus nunc per speculum in aenigmate» (adesso vediamo come in uno specchio, in immagine, 1 Cor 13, 12), ove compare l’idea della visione indiretta, a sottolineare il fenomeno per il quale ciò che lo specchio ci dà è l’immagine della cosa, non la cosa stessa.
Oltre a ciò, lo specchio mostra un’immagine finché l’originale gli rimane davanti. Se l’immagine rimanesse in qualche modo fissata sullo specchio come sulla cera, l’originale non servirebbe più, sostituito dalla copia. Fenomeno che si è infatti verificato con la fotografia e tutti gli strumenti successivamente inventati per fissare e riprodurre immagini e suoni, e che fanno sì che noi uomini e donne globali viviamo in un mondo di copie e non di originali. Nel mondo degli specchi invece non era così, ed era quindi possibile distinguere tra originale e immagine, tra Urbild e Bild, e vedere in questo qualcosa di nuovo e diverso rispetto a quello.
Se poi gli specchi sono più di uno e si riflettono tra di loro, il numero di immagini riflesse potrà diventare infinito rispetto all’originale. È così che il potenziamento del riflesso serve, in Plotino, Porfirio, Macrobio, nello Pseudo-Dionigi come pure in Nicolò Cusano, come modello mentale di un’ontologia noeplatonica, in cui gli ordini di realtà si presentano come riflessi sempre più tenui dell’inaffebile luce divina. Nello Pseudo-Dionigi i fedeli di Dio e ancor più gli angeli sono «specchi, chiarissimi e immacolati», pronti a ricevere tutta la bellezza dello splendore divino (Dionigi Areopagita, De coelesti hierarchia, III, 1 [164D] e De divinis nominibus, 22 [210][724B]). In Cusano lo specchio primo della verità (il Verbo che permette di cogliere Dio) trasmette la sua chiarezza a un numero indefinito di altri specchi, gli intelletti umani, coi quali «la nostra mente rispecchia la verità». La verità di Dio, la verità del mondo da lui creato in cui, come illustra Tagliapietra, c’è concordanza di tutte le cose nella diversità di tutte.
Conoscenza e cura di sé
Nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e nelle Favole di Fedro si racconta che Socrate esortasse i suoi discepoli a guardarsi nello specchio per conoscere loro stessi. Lo strumento è materiale, ma la conoscenza di sé che si acquista guardando il proprio viso allo specchio non è più soltanto materiale bensì sta alla base di ogni progresso morale. La conoscenza allo specchio conduce alla cura di sé. «Esamina i tuoi atti - dice il saggio in un frammento presocratico attribuito a Biante, uno dei Sette Sapienti, vissuto nel VII-VI secolo a.C. - come se ti guardassi in uno specchio per dare onore a quelli nobili e nascondere quelli che ti procurano vergogna» (Diels- Kranz 10,3 [I, 65, 2]).
Come l’antico sapiente, anche Socrate raccomandava l’uso dello specchio in vista di perfezionamento morale, perché guardarsi nello specchio è il mezzo più sicuro per trionfare sui vizi e dominare le passioni. Così Socrate «invitava i giovani a guardarsi spesso, affinché, se erano belli, se ne rendessero degni, e se erano brutti, nascondessero a loro disgrazia con l’educazione». Diogene Laerzio ricorda ancora che Socrate raccomandava lo stesso rimedio agli ubriachi: guardarsi allo specchio sarebbe stato sufficiente perché si allontanassero da un vizio che tanto li sfigurava (Diogene Laerzio II, 53 e III, 39).
Pure Seneca, l’amico degli stoici, mise in rilievo l’importanza dell’esame di sé condotto allo specchio a scopi morali: gli specchi, scriveva, sono stati inventati perché l’uomo conosca se stesso. L’insegnamento stoico incoraggia l’uso dello specchio nel caso di passioni che deformano il volto e l’anima, come l’ira. Se l’anima potesse apparire agli occhi nera, schiumante, sconvolta, chi si contempla ritornerebbe al buon senso. Anche perché, conclude Seneca con toni alquanto moderni, «ricorrere allo specchio per guarire vuol dire essere già guariti» (Seneca Nat. quaest. I, 17, 4 e De Ira, II, 36, 1).
Non poteva mancare, nelle potenti pagine di Tagliapietra, l’autore che riprese e ripropose il tema cinico-stoico dell’occuparsi di sé. Mi riferisco a Michel Foucault e a quello che fu l’interesse teorico che caratterizzò l’ultima fase del suo pensiero, ovvero l’analisi delle forme e delle modalità del rapporto con se stesso. Foucault ritiene che nel pensiero greco il precetto di prendersi cura di sé sia prioritario al conoscersi. Per i Greci, scriveva Foucault, era necessario «occuparsi di sé, aver cura di sé, e questo al fine di conoscersi e al fine di formarsi, di andare oltre se stessi, per padroneggiare dentro di sé gli appetiti che altrimenti rischierebbero di prendere il sopravvento». Ma forte è anche l’interesse per il primo Foucault, quello di Le parole e le cose (1966), con la sua analisi della rappresentazione della rappresentazione nel gioco di specchi de Las meninas di Velázques, che genera in Tagliapietra l’occasione per studiare altre immagini riflesse negli specchi, e per ribadire il concetto centrale, quasi la sua metafora assoluta: lo stacco del sé da sé stesso nel guardarsi allo specchio e il ritorno della mente/anima su se stessa nel processo di speculazione e riflessione.
* Doppiozero, 27 Novembre 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
MAGRITTE, LA "RECIPROCITA’ DELLO SGUARDO", E LE "ANTINOMIE" DELLA "CURA" DELLA "TERRA" *
La reciprocità dello sguardo. John Berger e Jean Mohr
di GUIDO MANNUCCI (Antinomie, 20/12/2022)
«I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste, le loro disgrazie»[1]. Queste frasi, l’incipit di Un uomo fortunato, di John Berger e Jean Mohr (appena uscito per Il Saggiatore a cura di Maria Nadotti), appaiono stampate su una foto in bianco e nero di un paesaggio: nel lato inferiore dell’immagine, un fiume scorre placido e luminoso. A screziare la superficie dell’acqua, due uomini su una barca, uno prepara la canna da pesca, l’altro rema. L’argine si specchia nel fiume. Dietro, un campo incolto pianeggiante alla cui estremità più lontana c’è una casa. Dietro, la sagoma scura di due colline e sopra, il cielo. La luce è pura.
Un uomo fortunato è la storia di John Sassall, un medico di campagna che lavora in una piccola comunità isolata nell’ovest dell’Inghilterra. Nel 1966, John Berger, scrittore, pittore e critico d’arte, e il suo amico Jean Mohr, fotografo documentarista, seguono da vicino, per tre mesi, il lavoro di Sassall. A due autori corrispondono due modi di vedere e dunque due racconti della stessa storia: da un lato le parole di Berger, dall’altro le immagini di Mohr. I racconti procedono paralleli, l’uno mai ancillare all’altro, ciascuno autonomo. In questo caso, come in pochi altri, le parole e le immagini, coesistono pacificamente sullo stesso piano: nello sguardo del lettore, non smettono di ritrovarsi e di completarsi.
Ci si incontra solo se si condivide un modo di guardare il mondo che afferma la reciprocità.
Davanti a un’immagine bisogna prestare attenzione alla luce. Per esempio: i pochi oggetti che Giorgio Morandi dipingeva sono lì a ostacolare la luce per catturarla in un momento in cui la consistenza si mostra così fragile, così impalpabile ma così aderente da risultare poetica. Promettono che non svaniranno.
Eppure anche noi, dietro i nostri sipari, facciamo continuamente esperienza della luce e se si presta attenzione, è possibile comprendere come le sue oscillazioni seguano sempre il nostro paesaggio emotivo: la tristezza cambia la temperatura della luce e dei colori tanto che le cose che ci circondano appaiano irrilevanti. È come se la luce smettesse di essere fedele a un’ora. O la gioia quando illumina i legami tra le cose e lo sguardo salta da qui a lì. Quando il cielo invade gli occhi e li riempie. Oppure quando il cielo è una cappa e tutto appare spento e uniforme. Quando l’angoscia prende il sopravvento e lo sguardo si sposta e si rivolge verso il dentro. Quando si è angosciati «è quasi una questione di luce - o meglio di come la mente interpreta la luce. È una luce che oggettiva tutto e non conferma nulla»[2]. È un gioco di intensità, di spazi e tempi.
Berger e Mohr sono attenti alle variazioni della luce, riconoscono gli occhi e attraverso di essi decifrano ogni segno, ogni espressione. Un uomo fortunato è un libro di luce, di occhi e di sguardi. Non solo quelli fotografati da Mohr, ma anche tutti quelli attraverso cui la storia si costruisce: lo sguardo attento degli autori, lo sguardo fraterno di Sassall offerto ai suoi pazienti, i loro occhi angustiati, occhi che chiedono, che chiamano, che pregano o si rasserenano quando il medico li riconosce, gioiscono quando il peggio passa. Il primo contatto avviene attraverso gli occhi. Non è un caso che John Sassall senta la vita proprio lì: «è lì che penso di vivere, proprio sotto e dietro gli occhi»[3].
John Berger e Jean Mohr conoscono e usano così precisamente lo sguardo che sono capaci di intercettare e comprendere, in sé e negli altri, ogni sua singola, impercettibile, variazione, e intuire le direzioni e le provenienze di ogni minima emissione di segni e raccontarla.
Chiunque riesca a comprendere e a guardare il mondo con questa cura, non solo promette che le cose non svaniranno, ma crede nell’incrollabilità dell’amore e nell’affermazione della vita e del possibile.
Berger e Mohr, insieme, studiano, documentano e raccontano l’operato del medico, gli incontri con i pazienti, le emergenze, le continue visite a domicilio in una casa, poi in un’altra; riescono a tratteggiare un ritratto nitido della vita di Sassall ma anche della piccola comunità e dei suoi rapporti interni; descrivono accuratamente il fuori e il dentro: i paesaggi geografici e i corrispondenti biografici ed emotivi. John Berger, attraverso il suo sguardo e le sue parole, comprende così a fondo quest’esperienza, all’apparenza così minuta e privata, da elevarla a un vero e proprio manifesto della medicina generale. Di più: Un uomo fortunato è un libro sulla dedizione, sulla passione per la vita e il lavoro; sulla responsabilità come principio cardine di ogni azione; sul riconoscimento e la capacità di immaginarsi e inventarsi l’un l’altro; è un libro sulle crisi a cui vanno incontro tutti coloro che interpretano il vivere in modo così radicale; è un libro sulla cura.
Un uomo fortunato viene pubblicato nel 1967. In italiano nel novembre 2022. Leggerlo oggi, stravolti da ciò che è accaduto nel frattempo, dona consistenza a livelli di riflessione ulteriori, già presenti come sintomi nel libro, al tempo stesso concatenati e, oggi, cancellati. Tutti i personaggi che leggiamo e vediamo ritratti sembrano stare dall’altra parte della storia, quella dei vinti. Difatti, sembra impensabile oggi intendere così non solo la medicina e il rapporto tra medico e paziente, non solo il diritto a essere curati con umanità e civiltà, ma sembra recisa anche la possibilità di pensarsi insieme, responsabili, solidali. Eppure lo stesso Berger ci ricorda che è sempre possibile scegliere da che parte stare: «il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità»[4]. Berger e Mohr hanno scelto e l’umanità densa di cui ci regalano uno spaccato ci ricorda che la scelta, malgrado tutto, è ancora un’opzione, che il possibile è un rimedio all’asfissia. L’umanità di questo libro ci promette che non svanirà.
Ma resistere ha un costo. Chi resiste è sempre in disequilibrio.
John Sassall è un uomo che ha scelto di spendere la vita per gli altri, per il suo lavoro, per la ricerca, per il bisogno mai esausto di conoscenza; che è stato a contatto con la malattia e la sofferenza. Sa cos’è la morte, cos’è la guarigione, «diventa ogni paziente [...] e lo “migliora” curandolo o quantomeno alleviando la sua sofferenza»[5]. Dal rapporto con la comunità a cui apparteneva emergono un rispetto e una tenerezza radicali, un’idea di servizio pura per il semplice motivo che «coloro che vivevano semplicemente, coloro che dipendevano da lui, possedevano qualità e il segreto di vivere che a lui mancavano. Perciò, pur avendo autorità su di loro, sentiva di essere a loro servizio»[6].
John Sassall sente il peso della responsabilità, verso gli altri, verso se stesso. «La sua fame di esperienza tiene il passo della sua immaginazione che non è stata repressa. Nella nostra società è la consapevolezza dell’impossibilità di soddisfare un siffatto appetito di nuove esperienze a uccidere l’immaginazione nella maggior parte delle persone che hanno superato i trent’anni»[7]. Berger lo paragona a un capitano di una nave: Sassall è continuamente in mare aperto. La nave è ciò che lo salva dall’inimmaginabile, è la piega in cui respira. Resistere è creare spazio in cui respirare e ogni nave, seppur impercettibilmente, ogni volta piega il mare. John Sassall è stato un uomo fortunato.
John Berger, Jean Mohr Un uomo fortunato. Storia di un medico di campagna A cura di Maria Nadotti Il Saggiatore, 2022 pp. 208, € 22
[1] J. Berger, J. Mohr, Un uomo fortunato (1967), a cura di M. Nadotti, Il Saggiatore, Milano, 2022, p. 25;
[2] Ivi, pp. 148-149;
[3] Ivi, p. 68;
[4] Ivi, p. 162;
[5] Ivi, p. 96;
[6] Ivi, p. 72;
[7] Ivi, p. 97.
*
NOTA:
MAGRITTE, LA "RECIPROCITA’ DELLO SGUARDO", E LE "ANTINOMIE" DELLA "CURA" DELLA "TERRA":
#Critica della #Rappresentazione Pura, #Arte e #Filologia.
Federico La Sala
50 anni dalla morte di Magritte, icona del ’900
Il 15 agosto anniversario scomparsa del grande maestro belga
di Nicoletta Castagni *
ROMA. Pittore tra i più amati dal pubblico degli appassionati, soprattutto per la capacità di trasmettere con il suo segno pulito e la suggestione della luce il lato arcano delle cose, René Magritte si spegneva il 15 agosto del 1967 per un male incurabile che in breve tempo non gli aveva lasciato scampo. Maestro surrealista che ha saputo rispecchiare, al tempo stesso, con ironia e spietata efficacia narrativa le inquietudini dell’uomo contemporaneo e della sua mente affollata di quesiti perennemente insoluti, a 50 anni dalla morte Magritte si riconferma, più di ogni altro, icona del ’900, come dimostrano le numerose iniziative messe a punto per celebrare l’anniversario.
Nato a Lessines, in Belgio, nel 1898, ad appena 14 anni René Magritte subiva il fortissimo choc del suicidio della madre, buttatasi nel fiume Sambre e, secondo una versione ricorrente, rinvenuta con la testa avvolta nella camicia da notte. Un immagine tragica che avrebbe toccato profondamente la sensibilità del giovane, tanto da riproporla a più riprese anche nella propria produzione pittorica. Basti pensare a dipinti come ’L’histoire centrale’, ’Les amants’ o ’Le fantasticherie del passeggiatore solitario’. Nel giro di pochi anni, René rivolgeva i suoi interessi alla pittura, fino a iscriversi, nel 1916, all’Accademia di belle arti di Bruxelles, dove si era trasferita la famiglia e, poco dopo il matrimonio con Georgette Berger, nel 1923 iniziava a lavorare come grafico, principalmente nel design di carta da parati.
Se gli esordi da pittore si erano mossi nel segno delle avanguardie storiche, guardando sia al cubismo sia al futurismo, la svolta surrealista, sua cifra più evidente, prendeva invece corpo con la scoperta dell’opera di Giorgio de Chirico, in particolare di ’Canto d’amore’, in cui immediatamente Magritte individuava "un nuovo modo di vedere". L’incontro con André Breton lo introduceva con entusiasmo e definitivamente nella corrente surrealista, diventando nel corso dei due decenni successivi il punto di riferimento della scuola belga, i cui rappresentanti più importanti si riunivano proprio nell’appartamento dell’artista (ora casa-museo).
Pittore prolifico, con all’attivo ormai numerose esposizioni, nel periodo bellico trovava rifugio nel sud della Francia, a Carcassonne, dove, nella sua sperimentazione incessante, dava il via a una nuova fase espressiva ideando un nuovo stile, detto alla Renoir o solare. Ma fino alla morte, avvenuta il 15 agosto del 1967 a Bruxelles, poco dopo la comparsa di un improvviso cancro del pancreas, la sua originalissima cifra è costituita dal cosiddetto ’illusionismo onirico’, grazie al quale oggetti comuni e brani di realtà si mescolano, e si armonizzano, in modo assurdo.
Ecco il paio di scarpe che si tramutano nelle dita di un piede o il paesaggio simultaneamente notturno nella parte inferiore e diurno in quella superiore, la finestra aperta sulla natura che si trasforma nella tela di un quadro, poggiata sul cavalletto. Le tonalità sono fredde, ambigue come quelle del sogno, in grado di far scaturire dalle loro combinazioni un vero e proprio cortocircuito visivo e, unite a uno stile da illustratore (mai abbandonato), ribadiscono l’insanabile distanza, per l’artista, tra realtà e la sua rappresentazione pittorica.
* ANSA, 15 agosto 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Una mostra al Centre Pompidou di Parigi indaga i rapporti fra René Magritte e la filosofia
di Anna Maria Merlo (il manifesto, Alias, 01.10.2016)
PARIGI «Bello come l’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire» aveva scritto Lautréamont, considerato un precursore dai surrealisti francesi. Magritte, che era belga, dopo aver riflettuto su una riproduzione de Il Canto d’amore di Giorgio De Chirico, vista nel 1923, e dopo derito all’idea del bello come incontro fortuito, nel 1936 cambiò posizione. Dalla bellezza sprigionata da un automatismo di ciò che è arbitrario del primo surrealismo, passò alla bellezza ragionata. Quell’anno dipinse un quadro con un uovo e una gabbia: segnò la svolta verso un’arte come espressione del pensiero (Leonardo aveva parlato della pittura come «cosa mentale»).
Anni dopo (1958) Magritte riprese l’ombrello nell’opera Les Vacances de Hegel (titolo ironico sul riferimento dei surrealisti francesi all’Estetica di Hegel e alla sua dialettica). Sopra l’ombrello, c’è un bicchiere: la relazione è tra l’oggetto che respinge l’acqua e l’altro che la contiene. È la risposta a un «problema», cioè l’elucidazione metodica di un’equazione visiva nella quale si riconciliano «l’oggetto, la cosa a questo legata nell’ombra della coscienza e la luce dove tutto ciò deve pervenire», come spiegò l’artista in una conferenza al museo di Anversa nel 1938.
Surrealisti addio
A René Magritte filosofo, alle relazioni dell’artista con la filosofia è dedicata la mostra al Centre Pompidou Magritte. La trahision des images (fino al 23 gennaio 2017), attraverso un centinaio di quadri (molti anche di collezioni private), disegni e numerosi documenti d’archivio. È una rassegna allegra, il pubblico a volte ride persino (cosa rara di questi tempi a Parigi). Il titolo rimanda a un quadro omonimo del 1929, più noto come Ceci n’est pas une pipe, con il quale l’autore ironizzava con i surrealisti francesi, attraverso un finto riconoscimento del carattere menzognero dell’arte.
A tutti loro - più letterati che artisti - il belga Magritte rimproverava soprattutto il fatto che considerassero la pittura un’arte minore rispetto alla poesia. Le tensioni con André Breton saranno molto forti. Magritte, che si era trasferito in Francia nel 1927, decise di tornare nel suo paese d’origine già nel ’30. Un anno prima, aveva pubblicato un testo polemico sulla rivista La Révolution surréaliste, dove analizzava i rapporti tra parole e immagini. E, per sottolineare la presa di distanza da Breton, dipinse La Trahison des images e numerosi opere composte da figure e parole.
La polemica con i francesi durò nel tempo. Quando Magritte entrò in rapporti epistolari con Alphonse De Waelhens, primo traduttore (in francese) di Essere e tempo di Martin Heidegger, il filosofo gli suggerì di leggere L’oeil et l’esprit di Maurice Merleau-Ponty. Commento acido di Magritte: «Il discorso molto brillante di Merleau-Ponty è estremamente piacevole da leggere, ma non fa certo pensare alla pittura - argomento che peraltro pare essere il suo soggetto. Devo dire che quando questo avviene, si riferisce alla pittura come se parlando di un’opera filosofica ci si preoccupasse del portapenne e della carta che sono serviti allo scrittore». Diversa la relazione con Michel Foucault, con il quale, dopo aver letto Le parole e le cose nel 1966, iniziò una corrispondenza. Dopo la morte di Magritte, a partire da questi scambi, Foucault pubblicherà nel ’73 Ceci n’est pas une pipe. L’artista aveva però rimproverato a Foucault di confondere la rassomiglianza con la similitudine (una vecchia questione della Scolastica).
La realtà derisa
La mostra, curata da Didier Ottinger, dopo una prima sala che presenta Magritte filosofo che dalla bellezza degli incontri dell’azzardo passò ai «problemi», è divisa in capitoli. Tutti indagano i miti fondatori sullo statuto dell’immagine, a partire da quattro «questioni»: parole e immagini, l’invenzione della pittura, l’allegoria della caverna, tende e trompe l’oeil. L’episodio biblico di Mosé che spacca le tavole della legge con rabbia quando si accorse che il popolo di Israele adorava il vitello d’oro, è il testo di riferimento attraverso cui lo stesso Magritte, «pittore figurativo del pensiero astratto», secondo Bernard Blistène direttore del Pompidou, rivendica la dignità intellettuale della sua arte e riflette sull’adeguamento delle immagini (e delle parole) agli oggetti che rappresentano, nella tensione tra legge scritta e raffigurazioni pagane.
L’invenzione della pittura, come raccontata da Plinio il Vecchio nella Storia naturale, è «impronta» del desiderio amoroso. Sono i quadri con le ombre, evocate da Plinio. La fiamma è l’elemento del terzo motivo nella narrazione della creazione della pittura: qui il rimando è al mito della caverna di Platone. Magritte si considera come chi è uscito dall’illusione della caverna - la stessa in cui i surrealisti si sarebbero invece chiusi. Breton si rifiutò nel ’43 di seguire la proposta di portare il surrealismo «in pieno sole». «Siamo circondanti da tende», diceva Magritte. E proprio di tende parla ancora Plinio il Vecchio, nel racconto della sfida tra Zeuxis e Parrhasios: il primo aveva dipinto un grappolo d’uva in modo talmente realistico che gli uccelli cercavano di beccare gli acini. Ma nella notte Parrhasios dipinse una tenda sul quadro di Zeuxis: lui la prese per vera e cercò di scostarla. Zeuxis ammetterà la sconfitta. Quella tenda diventò - come già nell’interpretazione della pittura del secolo d’oro olandese - il modo per esprimere la distanza beffarda nei confronti di una virtuosità realista.
La mostra parigina termina con la storia delle giovani di Crotone, raccontata da Cicerone: sempre Zeuxis, per dipingere una creatura perfetta, aveva preso le parti più belle di varie fanciulle del luogo. E Magritte, nella Folie des grandeurs, propone una bellezza frammentata.
Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986)
di Gilles Deleuze (Alfabeta2, 15 giugno 2014
Dalla prima lezione (22.10.1985)
Oggi vorrei cominciare tastando in qualche modo il terreno. Vi faccio una richiesta, una richiesta a fidarvi dell’autore che studiate. Fidarsi dell’autore significa procedere tastando il terreno. Prima di comprendere a fondo i problemi che un autore pone è necessario, diciamo... rimuginare un bel po’. Bisogna assemblare e raggruppare le varie nozioni che ha inventato. Bisogna mettere a tacere le voci interne che muovono obiezioni, quelle che dicono troppo presto: “Ma qui c’è qualcosa che non va”. Insomma, bisogna lasciarlo parlare. Per capire bene il senso che dà alle parole, si deve analizzare la frequenza con cui esse compaiono. Bisogna inoltre mostrare sensibilità nei confronti del suo stile e delle sue ossessioni, anche se non è mai semplice. Ma anche il pensiero di Foucault non è semplice, perché è un pensiero che inventa le proprie coordinate e si sviluppa secondo i propri assi. A mio parere, il primo di questi assi è quello che Foucault chiama “archeologia”. L’archeologia è la disciplina degli archivi. Foucault cercherà di spiegare che cosa sono gli archivi in uno specifico libro, L’archeologia del sapere. Ma non prendiamo tutto alla lettera.
Il primo periodo di Foucault, direi da Storia della follia a Sorvegliare e punire, ruota attorno agli elementi che ci permetteranno di definire l’“archivio”. Senza dubbio l’archivio ha qualcosa a che fare con la storia, ha per oggetto una formazione storica. Gli archivi rinviano a formazioni storiche. A prima vista, questi sembrano solo giri di parole che non ci fanno fare passi avanti. L’archivio è sempre l’archivio di una formazione. Che cos’è una formazione storica? Foucault in L’uso dei piaceri, dunque in uno dei suoi ultimi libri, afferma che i suoi lavori sono “studi di ‘storia’”, “ma non lavori di ‘storico’” 1.
Foucault era in stretti rapporti con i fautori della nouvelle histoire, in sostanza gli allievi di Braudel, la cosiddetta “Scuola delle Annales”. Ma un rapporto può essere molto complesso. Foucault lo dice esplicitamente: non sono uno storico, sono e resto un filosofo. Eppure un’ampia parte del suo lavoro riguarda le formazioni storiche. Foucault replica: d’accordo, sono studi di storia, ma non il lavoro di uno storico. Che cosa vuole dire? L’affermazione viene precisata sempre in L’uso dei piaceri: “Non aspettatevi da me né una storia dei comportamenti né una storia delle mentalità” 2. Qui l’allusione è chiara. Infatti la Scuola delle Annales, o almeno una parte, proponeva una storia dei comportamenti e delle mentalità. Che cos’è, per esempio, una storia dei comportamenti? Anche qui abbiamo solo cenni molto sommari. Penso però a un libro di storia molto interessante, Les hommes et la mort en Anjou aux XVIIe et XVIIIe siècles 3. Come si muore in Anjou? Ottima domanda: questa è la storia di un comportamento, il comportamento della morte. Si potrebbe anche scrivere una storia su come si nasce. Per esempio, come si nasce in Piccardia in un dato periodo storico. Capite bene come per tutto ciò siano necessari gli archivi.
Ma Foucault ci dice: “non scrivo una storia dei comportamenti”. Si può pensare una storia dell’istinto materno, è stato già fatto. Insomma, il potenziale campo per una storia dei comportamenti è infinito. Come si mangia? Come si muore? Come ci si sposa? Come si crescono i figli? Come si partorisce? E così via. Ci può essere sia una storia dei comportamenti sia una storia delle mentalità. Credo che in molti all’inizio abbiano preso il lavoro di Foucault come una storiografia di tale genere. Per questo il nostro autore è stato associato così strettamente alla nouvelle histoire.
Ma Foucault ci dice chiaramente: non ho nulla a che vedere con tutto ciò. Questo non significa affatto che egli sostenga che tali argomenti non siano interessanti, ma solo che non sono il suo problema.
Ma allora che cosa gli interessa? All’improvviso, ecco una luce, che compare se avete letto un po’ di Foucault, o meglio ancora se l’avete letto molto. Se quello che gli interessa non sono i comportamenti, allora che cosa gli sta a cuore? Il “vedere”. Le ricostruzioni storiche di Foucault ruotano sempre attorno al “vedere”. Voi direte che oltre ai comportamenti non c’è nulla da vedere. Non per Foucault.
Procediamo con calma, la questione è molto complicata. Per Foucault, il vedere e i comportamenti cadono sotto due categorie ben diverse. Che cosa gli interessa quindi? Il “parlare”. Ma, si potrebbe aggiungere: “Le parole non rispecchiano forse mentalità?” Non per Foucault. È addirittura il contrario. Anche se non sarà facile, bisogna abituarsi all’idea che il vedere non è un comportamento come tutti gli altri, ma la condizione di tutti i comportamenti di una determinata epoca.
Il parlare non è l’espressione di una mentalità, è la condizione delle mentalità di un’epoca. In altre parole, quando scrive di parlare e vedere, Foucault vuole superare una storia dei comportamenti e delle mentalità per innalzarsi a considerare le condizioni dei comportamenti storici e delle mentalità storiche. Che cosa può giustificare una simile ambizione? Sta a noi cercare di scoprirlo.
Per Foucault il parlare e il vedere non sono variabili dei comportamenti o delle mentalità, ma condizioni alla loro base. La sua è una ricerca delle condizioni delle formazioni storiche. Che cosa si “dice” e che cosa si “vede” in una certa epoca? Per il momento definiamo un’epoca con parole molto inesatte (ma cambierà man mano che procediamo). Ogni epoca può venire definita, ci sembra, prima di tutto in base a ciò che vede e fa vedere, e in base a ciò che dice. -Vedere, far vedere e dire non si collocano sullo stesso livello del comportarsi in un certo modo o dell’avere questa o quella idea. Un regime del dire è la condizione di tutte le idee di un’epoca. Un regime del vedere è la condizione di tutto ciò che fa un’epoca. Ovviamente, ancor prima di aver capito, dieci o dodici obiezioni ci balzano alla mente. Calma! Aspettiamo. Erigere il vedere e il parlare a “condizioni” è cosa molto insolita. Indaghiamo. Dopotutto, può darsi che io mi sbagli. Se mi sbaglio, quello che dico non troverà conferma. Cerchiamo allora delle conferme. Proviamo a fare uno schema. Metto “vedere” da un lato e “parlare” dall’altro. Provo a completare lo schema in modo da essere sicuro di non tradire Foucault ancora prima di cominciare.
Mi rivolgo immediatamente, tralasciando l’ordine cronologico, a Le parole e le cose. Voi mi direte: ma le cose non sono solamente ciò che è visibile? Le parole e le cose, che dualismo strano! In fin dei conti, le cose sono visibili e le parole sono dicibili. Evidentemente questo non basta. Foucault sarà il primo a sconfessare il titolo del libro. Dirà: non è stato affatto capito quel che intendevo con “le parole e le cose”, questa espressione non significa le parole e non significa le cose. Il titolo deve essere inteso in chiave ironica 4. L’ironia è sfuggita al primo sguardo.
Una volta alle scuole elementari c’erano due discipline fondamentali: la lezione sulle cose e la lezione sulle parole, quella di grammatica. C’era l’ora in cui si studiavano le saline, e si mostrava una salina, o meglio l’immagine di una salina. La salina visibile, o l’ombrello visibile o, diciamolo pure, la pipa visibile. Questa era la lezione sulle cose. Il maestro diceva: questo è una pipa, questo è una salina. Poi nell’ora successiva c’era la lezione di grammatica, e allora si entrava nell’ordine del dire, diverso da quello del vedere. E se il dire è cosa diversa dal vedere, il dire “questo è una pipa” necessariamente si legge “questo non è una pipa”. Ovvero il dire non è il vedere.
La lezione sulle cose e la lezione di grammatica rinviano al libretto di cui parlavo, quello in cui Foucault commenta Magritte. Il quadro di Magritte, il disegno di una pipa, è la lezione sulle cose. Il titolo del quadro è Questo non è una pipa. Giocoforza, “questo è una pipa” diventa “questo non è una pipa”, nella misura in cui dire non è vedere. Se quello che vedo è una pipa, quello che dico, necessariamente, non è una pipa. Presto capiremo che cosa significa. Da cose e parole (prima coppia), siamo slittati a lezione sulle cose e lezione di grammatica (seconda coppia), o, se preferite, il disegno e il testo, come Foucault ci dirà in Questo non è una pipa. Arriviamo dunque a una terza coppia: disegno-testo. Il tema della terza coppia, “visibile-enunciabile”, torna costantemente in uno specifico libro di Foucault: Nascita della clinica. Che cosa rende visibile la malattia, all’epoca di cui il libro tratta? Il sintomo è ciò che fa vedere una malattia. Allo stesso tempo, la malattia non è solo l’insieme dei sintomi, cioè il visibile. È anche l’enunciabile, è una combinazione di segni. Tanto quanto il sintomo è visibile, il segno è leggibile. Il “visibile” e il “leggibile” non sono la stessa cosa. Il visibile e l’enunciabile, sul piano delle malattie, ma anche su quello della formazione della clinica e dell’anatomia patologica, costituiscono l’oggetto di Nascita della clinica.
Gilles Deleuze
Il sapere
Corsi su Michel Foucault (1985-1986)/1
Introduzione di Massimiliano Guareschi
ombre corte (2014), pp. 269, € 23,00
NOTE
Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 14. Quella di Deleuze è una parafrasi. Il testo della traduzione italiana è: “Gli studi che seguono, come altri che avevo intrapreso precedentemente, sono studi di ‘storia’ per il campo che investono e i riferimenti che assumono; ma non sono lavori ‘di storico’”.
Foucault non parla propriamente di “mentalità”, ma di “comportamenti”. Cfr. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 9.
François Lebrun, Les hommes et la mort en Anjou aux XVIIe et XVIIIe siècles. Essai de Démograpfie et de psicologie historique, Mouton, Paris-La Haye 1971.
Michel Foucault explique son dernier livre (Intervista con J.-J. Brochier), in “Magazine littéraire”, 28, aprile-maggio 1969; ora in Michel Foucault, Dits et écrits (1954-1988), tome I: 1954-1975, Gallimard, Paris 2001.
La settima arte crede al reale e vi accede dalla porta dell’istante
Filosofia Torna, come nelle prima opere, la domanda che Gilles Deleuze rivolge al cinema, negli anni ottanta: com’è possibile la filosofia speculativa? «L’immagine-movimento», primo di due volumi
di Rocco Ronchi (Il manifesto, 03.07.2016)
Michel Foucault affermò una volta che il «secolo» sarebbe stato deleuziano. La sentenza apparve al momento precipitosa - era il 1970 - forse più dettata dall’amicizia personale e dalla grande stima, peraltro totalmente ricambiata, che Foucault nutriva per l’amico filosofo.
Il secolo, se giudicato con gli occhi di quegli anni, non appariva infatti deleuziano. Deleuze era certo un filosofo rispettato. Le sue tesi, soprattutto quelle antipsichiatriche e antipsicoanalitiche - L’Anti-edipo, scritto con Felixd Guattari, uscì nel 1972 - avevano conosciuto un largo successo e avevano guadagnato consensi entusiastici presso i movimenti di contestazione, ma il secolo nel quale erano state elaborate era ancora il «secolo breve», il secolo del conflitto e delle utopie rivoluzionarie.
Deleuze, come Foucault del resto, non era certo estraneo a questo clima. Si era impegnato in tante battaglie politiche, seguendo l’esempio di Sartre, che continuava a considerare un suo «maestro», nonostante il discredito di cui era vittima presso le nuove generazioni della filosofia francese.
Tuttavia, nel pensiero di Deleuze era assente proprio la passione intellettuale che aveva caratterizzato il secolo breve: la passione per la negazione, per la dialettica, per il rifiuto. Non c’è niente di più estraneo a Deleuze del titanismo prometeico e ribelle. Niente è più lontano dallo spirito della sua opera di un elogio dell’uomo al lavoro, della finitezza radicale e angosciata, della lotta come mezzo di emancipazione.
Non c’è spazio per utopia, messianesimo ed escatologia nella filosofia deleuziana. Forse non c’è nemmeno spazio per la critica se non sotto la forma di una critica di ogni forma di negazione (così deve essere inteso il prefisso anti in espressione come anti-Edipo...). Se letto come lui stesso - un filosofo classico, dopotutto! - voleva che lo si leggesse, il pensiero di Deleuze risulta interamente affermativo, pervaso da una fede razionalista e quasi ottimistico nei suoi esiti.
D’altronde, per Deleuze il filosofo per eccellenza era Spinoza, quello del Deus sive natura, vale a dire il filosofo che afferma che tutto, senza eccezioni, è una modificazione della sostanza infinita di Dio. Per Spinoza, come per Deleuze, vale dunque una proposizione assolutamente indicibile nel Novecento, tant’è che Deleuze si guarda bene dal pronunciarla, lasciando però che sia il suo lettore-complice a intenderla.
La proposizione è: «tutto è bene»; o, come meglio si direbbe: «il bene è il tutto», il bene non è nient’altro che l’accadere del tutto, il suo aver luogo qui e ora, un «accadere» che Deleuze chiama «divenire» o «tutto aperto» o «evento» e che divinizza proprio, come già avevano fatto, nella prima metà del Novecento, due dei suoi grandi maestri: Bergson, il filosofo della «durata creatrice» e Whitehead, il filosofo del «processo» (si tenga presente che durata e processo sono, per entrambi, i veri nomi di Dio).Anche per questo la sentenza di Foucault suonava, al tempo della sua formulazione, avventata.
Il secolo breve, infatti, ha sempre preferito riconoscersi nella tesi opposta. Ad averlo persuaso sono i tormenti dialettici di Ivan Karamazov di fronte all’assurdità del male. Dopo Auschwitz, diceva Adorno, è impossibile seguire le orme di Spinoza. Impossibile fare filosofia speculativa, cioè ratificare mediante concetti la bontà del tutto. Il tutto, scriveva ancora il filosofo tedesco, è «falso» e, a consolare l’uomo, resta solo una speranza infondata, un’utopia che balugina negli istanti del ricordo e nelle immagini dialettiche che maculano l’orrore quotidiano.
Su queste discontinuità che come lampi di trascendenza illuminano il sempre uguale della storia (storia del male, secondo questo punto di vista) si sono scritte e si continuano a scrivere pagine e pagine.
Walter Benjamin, che, ben più di Adorno, ne è stato l’ispiratore, è diventato il riferimento obbligato di ogni teoria critica della cultura. Citarlo ammirati è indispensabile se si vuole essere accolti nei piani nobili della filosofia contemporanea. Di lui, non di Deleuze, si dovrebbe allora dire che è stato il filosofo del secolo.
La sfida di Deleuze è stata infatti quella di sperimentare, nel tempo del negativo e della critica, la via dell’immanenza assoluta, della continuità uomo-natura e dell’impersonale, mentre quella di Benjamin e di tutti i critici della cultura che a lui si richiamano è stata quella di provare ad ancorare l’esistenza umana alla possibilità residuale di un senso trascendente.
Proprio la recente ripubblicazione del primo volume degli scritti di Gilles Deleuze sul cinema, L’immagine-movimento Cinema 1 (traduzione di Jean-Paul Manganaro, Einaudi, pp. 288, euro 26,00) permette di misurare tutta la distanza che separa il filosofo francese dal secolo (che è invece ben rappresentato dalle tesi di Benjamin).
Deleuze si rivolge al cinema, negli anni ‘80, spinto da una urgenza puramente filosofica. La sua conoscenza della materia cinematografica è impressionante, tuttavia la domanda che Deleuze pone attraverso il cinema è la stessa che era presente fin nelle sue prime opere: come è possibile la filosofia speculativa? Come fare l’immanenza assoluta, come realizzare il Deus sive natura di Spinoza? Solo così si spiega come mai Deleuze, per definire il cinema, si rivolga a Bergson, il filosofo apparentemente meno indicato, dal momento che per il Bergson dell’Evoluzione creatrice (del 1907) il cinema valeva solo come esempio negativo di spazializzazione della durata (il tempo ricostituito assommando istanti immobili, cioè fotogrammi).
Ma Bergson è il filosofo della durata e la durata è il puro cambiamento: è il cambiamento come assoluto. In un cambiamento assoluto non conta più la cosa che cambia. Non c’è più una forma a cui il cambiamento tende come al proprio scopo e alla propria verità. Questo lo credevano semmai gli antichi filosofi, per i quali il cambiamento era una misteriosa degradazione di una forma eterna. Con Galileo e con la scienza moderna il movimento è invece considerato per se stesso. Non è più ricondotto a un istante privilegiato (una «posa»), a una acme, a una idea trascendente, a un valore di cui sarebbe una variazione inspiegabile, ma - scrive Deleuze, coniando un concetto straordinariamente fecondo - è ricondotto all’«istante qualsiasi».
Così si costituisce la scienza moderna e così si costituisce il cinema: «Il cinema è il sistema che riproduce il movimento in funzione del momento qualsiasi, cioè in funzione di istanti equidistanti scelti in modo da dare l’impressione di continuità».
A questa definizione generalissima del cinema data nelle primissime pagine del suo saggio Deleuze è sempre rimasto fedele. Il cinema è l’arte moderna per eccellenza perché al pari della scienza moderna, come suo fondamento, assume il più prosaico degli istanti, spogliandolo di ogni privilegio ontologico.
Nel secondo volume, L’immagine-tempo, Deleuze mostrerà l’esito a cui porta l’opzione per il cambiamento assoluto, che era già operante all’inizio del cinema (in Marey come nei Lumière): sganciandosi dall’azione, che ancora lo tratteneva nell’orbita del fatto (e cioè nell’ambito della vicenda narrata, dell’intrigo dell’avventura), il cinema, nelle sue più rigorose sperimentazioni contemporanee, presenta «un frammento di tempo allo stato puro». Deleuze intende con questa espressione il puro accadere, il puro aver luogo di quello che ha luogo. Intende l’evento.
Sta insomma provando a rispondere alla classica domanda che chiede quale sia lo specifico filmico: la sua tesi è che sia l’immanenza assoluta, lo spinoziano Deus sive natura. Il cinema è l’arte del reale, o, meglio, è la consacrazione del puro reale. Il cinema «crede» nella positività del reale e, proprio come aveva fatto tre secoli prima la scienza moderna, vi accede attraverso l’umile porta dell’«istante qualsiasi».
Non ci può essere, quindi, posizione più distante da quella teologica e dialettica di Benjamin per il quale l’istante era invece la porta regale dalla quale poteva ancora passare una trascendenza momentanea
Il Messia è chiamato in causa da Benjamin per «redimere», in istanti eccezionali, un reale di cui si percepisce tutta la intollerabile contraddittorietà. Al pari di tutto il secolo, Benjamin non crede nel reale.
Foucault non aveva però del tutto torto a fare di Deleuze il filosofo del secolo. Se infatti per «secolo» si intende il presente assoluto (l’istante qualsiasi) nel quale ogni vita non cessa di passare, allora veramente Deleuze ne è stato il filosofo e il cinema ne è stata l’arte.
Deleuze, il movimento reale del molteplice
Il saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica dello status quo
di Giso Amendola (il manifesto, 08.07.2016)
All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).
Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory.
Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica. L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.
Le tappe di un percorso
Oggi le carte in tavola sono cambiate: più che mirare a spegnere la sua forza critica edulacorandola, l’attacco al poststrutturalismo, e a Foucault e Deleuze in particolare, tende esplicitamente ad accusarlo per una sorta di complicità, più o meno consapevole, con lo stesso neoliberalismo. Il desiderio in Deleuze? Cedimento alle passioni “appropriative” del neoliberalismo. L’attenzione alle soggettività, alla pluralità, al divenire e alla trasformazione? Apologia, più o meno mascherata, dell’individualismo, del soggetto-impresa.
Davanti a questa nuova, fastidiosa chiacchiera, la ripubblicazione del libro di Hardt è una boccata d’aria salubre, e, insieme, una sfida quasi provocatoria a tutti i discorsi sull’ambiguità politica del poststrutturalismo. La lettura che Hardt offre di Deleuze, e più precisamente dei suoi primi grandi incontri filosofici con Bergson, Nietzsche e Spinoza, si separa infatti da qualsiasi concessione alle retoriche di un facile “postfondazionismo”: è anzi una rivendicazione fortissima del nesso tra ontologia, etica e politica nel discorso deleuziano. La forza di queste pagine, oggi forse ancor meglio apprezzabile, è mostrare come il poststrutturalismo, per quanto ci si affanni a mostrarlo come un astruso gioco culturale, se non “culturalista”, sia in realtà ben impiantato nel campo della produzione: produzione dell’essere, della soggettività, e infine dell’organizzazione.
Prima stazione del percorso: la questione ontologica. Questione spinosa, a cominciare dallo stesso uso del termine “ontologia”. Perché - ed Hardt ne è perfettamente consapevole - la tradizione filosofica ha operato un vero e proprio sequestro del discorso ontologico. La ripresa dell’ontologia nel Novecento richiama immediatamente la concezione della differenza in Heidegger, tutta nel segno del sottrarsi dell’essere, del ritirarsi del fondamento: non a caso, è ontologia frequentata da tutte le meditazioni sull’eclissi dell’essere, di indole sia tragica che ironica, che popolano il postmoderno.
Di ontologia in Deleuze, invece, si può parlare a buon diritto proprio in quanto la si installa all’interno di tutt’altra tradizione: quella affermativa e positiva che legge la differenza come produzione interna dell’essere, e immanente all’essere stesso. La differenza non “cade” dall’essere, non lo nasconde, non lo cancella, come avviene nell’emanazionismo di marca neoplatonica: la differenza non è destinata ad errare nel mondo delle ombre. Hegel imputava una concezione di questo tipo, dove l’essere fa impallidire ogni differenza, proprio a Spinoza: Deleuze invece ricolloca l’ontologia spinoziana al posto che le pertiene, all’interno di una concezione, che il filosofo francese chiarisce già nei suoi primi scritti su Bergson, secondo la quale la differenza, anzi le differenze, sono movimento dell’essere, non distanza e caduta dall’essere e suo infinito consumarsi.
Ma ancor più che contro la “differenza ontologica” di Heidegger, l’ontologia deleuziana ha come suo nemico principale la dialettica hegeliana. Per Hegel, la differenza non può che essere concepita come determinazione: a sua volta, la determinazione è un movimento di negazione. Ci si determina negando attivamente l’indifferenziato, l’indeterminato, in ultima analisi negando quel nulla che coincide con la purezza astratta dell’essere.
Oltre Hegel
È, per l’appunto, l’attacco fondamentale di Hegel a Spinoza, poi ripetuto da tutti coloro che vedranno nell’idea dell’essere produttivo sempre una minaccia dell’informe, del caotico, del mancante di differenziazione. La replica di Deleuze è molto decisa: la determinazione come atto di negazione non fa altro che introdurre una dimensione radicalmente esterna al movimento dell’essere. La negazione fa dipendere la determinazione da una causa esterna: l’essere che si determina negandosi è un essere eternamente dipendente, sempre bisognoso di qualcos’altro.
Hardt richiama giustamente l’attenzione sull’importanza che ha il concetto di causa efficiente nell’ontologia deleuziana: la causa necessaria, non contingente, non è mai la causa materiale, cui guardano tutti i materialisti ingenui, che interviene in modo del tutto contingente, e neppure la causa finale, amata dai platonici, che pone l’ordine come fine trascendente: l’unico concetto di causa che può muovere un materialismo fondato sulla potenza produttiva dell’essere, è la causa efficiente, la causa sui degli scolastici. L’effetto non cade mai al di fuori della causa, e, allo stesso modo, la differenza è sempre produzione interna del movimento dell’essere: l’essere non manca di nulla. Non opposita, sed diversa: non la determinazione per opposizione e negazione, ma l’essere come matrice di produzione di differenze.
Superamento del negativo
Questa opposizione netta all’idea di determinazione per negazione da un lato segna tutta l’ontologia produttiva deleuziana, dall’altro apre alla sua portata etica affermativa. Ci sono nel testo di Hardt alcune pagine bellissime, sulla dialettica servo-padrone, che chiariscono come la scelta deleuziana per il movimento positivo della differenza, contro la determinazione attraverso il negativo, ci porti nel cuore di scelte etico-politiche fondamentali.
Cosa significa, concretamente, immaginare la differenza come negazione? Significa per esempio, che il servo hegeliano sceglie di determinarsi, di fronte all’assoluto indeterminato che è la morte, rivolgendo la propria forza contro se stesso, realizzando la propria autocoscienza attraverso l’educazione al lavoro. Nei termini di Nietzsche, si tratta di una triste e infelice etica del risentimento contro la propria stessa potenza. In termini hegeliani, è attraverso il negativo, tenendo a freno il desiderio, che lo schiavo conquista la sua essenza.
Hardt ricorda qui l’Alfonso voce narrante e protagonista del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il giovane migrante meridionale nelle fabbriche del Nord Italia degli anni Sessanta e Settanta: “mai mi è venuto in mente di festeggiare il lavoro”, dice Alfonso, quelli che individuavano pane e lavoro come propria essenza erano irrecuperabili. Primo movimento: distruggere l’idea che ci si determini nel trattenimento, in un dirigersi della propria forza contro se stessi. Appunto, distruggere l’idea che “ogni determinazione è negazione”. Contemporaneamente, si apre il secondo movimento: la distruzione del negativo diventa scoperta felice che quella esigenza di lotta, di liberazione della propria forza, è esigenza condivisa negli incontri: “la gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti era la lotta di tutti”, sempre per dirla con le parole di Alfonso.
L’incontro con Spinoza
Non si potrebbe indicare meglio che con questa gioia di operai irriducibili al lavoro che scoprono la pars construens della loro lotta, il passaggio dall’ontologia all’etica: dall’essere come produzione, all’essere come producibile, per dirla con Hardt.
L’affermazione ontologica dell’essere come produzione immanente, causa sui, distrugge l’alterità del fondamento, la sua lontananza, e contemporaneamente, afferma l’essere stesso come il risultato, sempre aperto, di un processo di produzione da parte delle differenze. Hardt, indagando soprattutto l’incontro di Deleuze con Spinoza, aiuta qui a fare piazza pulita di un altro ritornello, spesso recitato dai custodi del “negativo”: quello per cui questa visione dell’essere come produzione ci consegnerebbe a una sorta di beatitudine statica, a un ottimismo metafisico paradossalmente impotente.
Il punto è che l’ontologia della produttività dell’essere ci apre sì a un essere “mobile e malleabile”, dinamico e produttivo: ma, allo stesso tempo, ricorda Hardt “alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto”.
Deleuze trova specialmente in Spinoza questa congiunzione tra produzione e affezione: affezioni attive, che corrispondono all’essere causa di noi stessi, adeguati alla nostra potenza attiva d’essere e produrre, ma anche affezioni passive, da cause esterne, dove la potenza non coincide con la propria causa.
E questo incrocio materialistico di produzione e affezione apre tutto il gioco degli incontri, felici o infelici, delle variazioni della potenza, del suo accrescersi in combinazioni che corrispondono felicemente alla struttura dei corpi, come del suo andare a male negli incontri inappropriati. L’essere non solo non è il fondamento che, immoto, ci sostiene, non solo è il processo sempre aperto che ci produce ma è, al tempo stesso, anche il prodotto della nostra capacità, sempre reversibile, di trasformarci attraverso affetti e passioni.
La politicità riscoperta
Da questa etica della produzione della soggettività, ontologicamente impiantata, si genera una politica degli assemblaggi e della sperimentazione di organizzazione, a partire dal piano sempre aperto della trasformazione sociale. Alla determinazione attraverso il negativo corrisponde l’idea di un Ordine che si impone sempre come causa esterna su un molteplice, letto inevitabilmente come campo del mancante e del carente, bisognoso dei suoi pastori: l’ontologia produttiva apre invece lo spazio di una politica che certo “benedice” il molteplice e la pluralità, ma che non per questo ignora il nemico, le sanguisughe che separano continuamente la potenza dalla sua causa, che provano a recintarla attraverso le “strutture verticali dell’ordine”.
Un campo aperto: e certo aperto resta completamente il tema, intensamente politico, dell’organizzazione e della costituzione, in altri termini il problema di come evitare che questa incessante produttività della società si affermi solo in un campo d’orizzontalità liscio, senza riuscire a darsi consistenza e durata. Molti materiali, nel lavoro remoto e recente sulla politica deleuziana, possono approfondire concetti fondamentali come, per esempio, quello di istituzione: pensiamo per esempio, alle ricerche che sull’istituzione in Deleuze ha condotto negli anni Ubaldo Fadini, nel segno di uno sviluppo originale del tema della “positività” in Deleuze, o a tutto il dibattito recente sulla giurisprudenza in Deleuze come modello alternativo alle concezioni legalistiche del diritto (ne è un esempio un libro di De Sutter su Deleuze e il diritto di qualche anno fa).
Intanto, questo solido materialismo radicato nella produzione/produttività dell’essere può lottare contro il neoliberalismo strappandogli il vero segreto della sua potenza: l’infamia con cui traduce nel linguaggio della proprietà e della valorizzazione capitalista la forza dell’autonomia della cooperazione sociale, del pluralismo e dell’autorganizzazione. Altro che alleati del neoliberalismo: questi poststrutturalisti che scansano felicemente il negativo e benedicono il molteplice sono quelli che insegnano come affrontare il nemico senza attestarsi su posizioni reattive o nostalgiche, come non lasciare ai neoliberali la forza di un sociale capace di affermazione e di trasformazione.
Michael Hardt: «Gilles Deleuze politico, filosofo della creazione»
Tempi presenti. Intervista a Michael Hardt, autore del saggio «Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia» (Derive Approdi) e, con Toni Negri, di «Impero», «Moltitudine» e «Comune»: «Non esiste un governo di sinistra, piuttosto possono esistere governi che aprono, più o meno, spazi per la sinistra. Il luogo reale della creatività politica non è lo Stato ma i movimenti sociali»
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 08.07.2016)
Michael Hardt il suo libro sul filosofo francese Gilles Deleuze ha un sottotitolo curioso: un apprendistato in filosofia. Cosa significa?
Ero interessato ai primi libri di Deleuze, per questo potrei dire che è stato un periodo di apprendistato. Ma per apprendistato volevo indicare il modo in cui affronta gli altri filosofi. In effetti Deleuze legge i filosofi in una maniera peculiare e selettiva. Raramente li critica, piuttosto seleziona le affermazioni e ciò che trova più utile. Non critica, ad esempio, il cristianesimo di Bergson, o le teorie misogine e anti-democratiche di Nietzsche, ma le mette semplicemente da parte e si concentra su quello che vuole. In Bergson, ad esempio, trova un’ontologia della molteplicità; in Nietzsche evidenzia la logica attiva contro quella reattiva. E in Spinoza, la pratica della gioia.
Si potrebbe dire che questo rende Deleuze un cattivo filosofo o uno storico della filosofia inaffidabile perché non fornisce un bilancio pieno ed equilibrato. Io invece lo considero come un processo di apprendistato. Come un artigiano in formazione, Deleuze lavora nell’officina di questi filosofi diversi, ma non è un loro schiavo. Non cerca di riprodurre il lavoro del maestro, ma semplicemente impara quello che vuole e va oltre. Alla fine degli anni Sessanta, l’apprendistato di Deleuze era completo e lui era capace di iniziare a scrivere diversamente, a cominciare da libri come Logica del Senso e Differenza e Ripetizione. Parlando di apprendistato intendevo anche riflettere sulla mia posizione. Leggere Deleuze, lavorare sui suoi testi, per me era un modo per entrare nella filosofia, una specie di allenamento. Era questo che speravo fosse il libro: uno strumento per usare il modo di fare filosofia di Deleuze.
Oggi Deleuze è uno dei filosofi più letti al mondo. Cosa pensa del suo successo nel campo dell’arte, delle accademie, o della critica estetica o architettura?
Deleuze sarà certamente ricordato come uno dei più grandi pensatori del XX secolo. Era un filosofo molto tradizionale nel senso che ha dedicato molta attenzione al canone della filosofia europea. Potrebbe sembrare paradossale il fatto che la sua opera abbia avuto una simile influenza fuori dall’università, ad esempio, tra gli artisti e gli architetti. Trovo molto interessante che per molti anni i due volumi di Deleuze sul cinema abbiano avuto poca influenza nel campo accademico dei film studies - gli studiosi non sapevano cosa farsen. I film-makers li hanno invece adottati insieme ai loro concetti. Nonostante la cornice filosofica tradizionale del suo pensiero, l’opera di Deleuze ha un nucleo pratico e i suoi concetti parlano ai bisogni e alla logica di coloro che operano. Questo carattere pratico - questa costante relazione con il fare - spiega anche perchè ho trovato la sua opera utile per la politica, anche quando Deleuze non si è occupato direttamente di questioni politiche.
Lei ritiene Deleuze un comunista. Mi sembra invece più articolato il giudizio sul suo rapporto con il marxismo. Perché?
Si, considero Deleuze un comunista anche se, a differenza della quasi maggioranza degli altri riconosciuti filosofi francesi della sua generazione, non è mai stato un membro del partito comunista. (Pcf). Questo potrebbe essere un buon punto di inizio per affrontare la sua curiosa relazione con il marxismo. Certamente Deleuze era disgustato dal materialismo dialettico sovietico (Diamat), ma si è confrontato a fondo con Marx, soprattutto grazie alle sue collaborazioni con Felix Guattari. Deleuze disse nella sua ultima intervista che stava lavorando a un libro su Marx, ma sfortunamente nessun materiale gli è sopravvissuto. Deleuze potrebbe anche avere avuto un problema con il marxismo, almeno con il marxismo dominante in Francia a quel tempo, ma certo non aveva problemi con Marx.
Questo è strettamente collegato alla sua allergia per la dialettica, che ho cercato di evidenziare nella prefazione al libro. Non direi che si opponeva a tutti i suoi usi, dall’antica Grecia in poi molti pensieri differenti hanno infatti usato questo termine. Deleuze si opponeva specificatamente alla dialettica hegeliana in cui le differenze sono spinte fino al punto della contraddizione e poi sussunte all’unità. Potremmo anche leggere Hegel per dimostrare che il suo uso della dialettica è diverso rispetto a questa versione diffusa. Ma ciò che è importante per Deleuze è riconoscere la differenza e la molteplicità. Lui riteneva che la dialettica danneggiasse questo aspetto.
Anche Foucault, un altro suo autore di riferimento, ha avuto un rapporto dialettico e problematico con Marx e il marxismo. Come mai, due degli autori radicali più letti al mondo, problematizzano il marxismo?
Anche per Foucault penso che la risposta stia nella sua relazione con le forze accademiche dominanti e gli intellettuali vicini al Pcf. A mio avviso Deleuze faceva molta più attenzione nel distinguere tra il marxismo dominante e l’opera di Marx. Tuttavia, io interpreto i pochi passaggi dispregiativi su Marx contenuti nell’opera di Foucault indirizzati principalmente contro gli ideologi marxisti contemporanei.
Diversamente da Deleuze, Foucault non ha mai affrontato direttamente e profondamente Marx. Considero l’AntiEdipo e Mille Piani di Deleuze e Guattari come un coinvolgimento profondo e uno sviluppo ulteriore dell’opera di Marx, nella piena coscienza di tutte le nuove potenzialità e i nuovi problemi emersi con il movimento del 1968.
Per lei Deleuze è un filosofo politico, della creazione e della costituzione. Oggi avverte invece il rischio di una lettura apolitica e postmoderna?
Era una delle mie principali preoccupazioni quando scrivevo il libro. Da studente universitario negli Stati Uniti imparai che la nuova generazione di pensatori francesi - Deleuze, Foucault o Derrida - erano apolitici o forse liberali. Ma quando lessi i loro libri, trovai che era vero esattamente l’opposto. Mi sembrava infatti che le loro opere parlavano degli stessi temi che noi affrontavamo nei movimenti sociali in quel momento e lo facevano in una maniera più chiara e più creativa di qualsiasi cosa avessi letto prima di allora.
Come prima cosa bisogna distinguere questi autori, considerati “post-strutturalisti”, dai postmoderni che sono a tutti gli effetti apolitici e liberali. In secondo luogo bisogna articolare e dimostrare la specificità politica del post-strutturalismo. Questo era il mio interesse allora.
È probabilmente vero che ancora oggi esistano molte letture apolitiche di Deleuze, e di Foucault. Ma questo non lo trovo un pericolo dato che esistono anche molte altre eccellenti interpretazioni che dimostrano l’utilità politica di questi lavori.
Quali sono i concetti principali della politica deleuziana e come li si può usare oggi?
In generale non trovo che i concetti di Deleuze possano essere applicabili direttamente alla politica, in particolare quelli dei primi libri. Anche sotto l’influenza di Guattari, nei loro libri a due, i concetti suggeriscono tuttavia l’esistenza di possibilità politiche, anche se non direttamente. Trovo invece che i loro concetti abbiano bisogno di essere sviluppati creativamente sul terreno della politica e della militanza.
Ad esempio: la molteplicità, un concetto che attraversa l’opera di Deleuze in varie forme. Questo è uno dei più ricchi in termini di possibilità politiche, anche se è necessario fare un altro passo in avanti per fare un discorso politico. Con Toni Negri ho sviluppato il concetto di moltitudine e la nozione deleuziana di molteplicità è stata uno dei punti di riferimento. Con “moltitudine” abbiamo cercato di ripensare il popolo, il partito e la classe che sono stati intesi prevalentemente nei termini dell’unità. Noi, invece, intendiamo questo concetto come il potere delle molteplicità politiche. Moltitudine dunque non è un concetto di Deleuze, ma è un esempio di come si può usare la sua nozione di molteplicità. E di certo questo non è l’unico uso possibile.
Oggi sono tornate di moda le politiche keynesiane e tardo-socialdemocratiche, centrate sul ritorno al salariato e ai suoi diritti. Dal punto di vista di una filosofia deleuziana della politica, è un’alternativa convincente?
Deleuze non era certo uno Stato-fobico, ma pensare che lo Stato possa risolvere i disastri sociali e politici del neoliberismo non coglie per nulla lo spirito del suo pensiero. Deleuze diede una risposta elegante nel video sull’abecedario quando Claire Parnet gli chiese di parlare della “sinistra”. Disse che non esiste un governo di sinistra, piuttosto che possono esistere governi che aprono, più o meno, spazi per la sinistra. Il luogo reale della creatività politica e del dinamismo, così interpreto questa frase, non è lo Stato ma i movimenti sociali. Un governo di sinistra può alimentare e favorire i movimenti, ma i movimenti dovranno essere i creatori di innovazioni politiche reali. Di conseguenza, direi che oggi per combattere i regimi dell’austerità e contro la precarietà dilagante del lavoro, quello di cui c’è bisogno è reinventare e rafforzare la militanza nei movimenti creativi.
Magritte, pensare con gli occhi
di Tomaso Montanari(il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2014)
«Babbo, cosa c’è scritto sotto quella pipa?»
«Questa non è una pipa».
«Tradimento! Come sarebbe "non è una pipa"? Ma, babbo, io vedo proprio una pipa...»
«Voglio dire che sotto quella pipa, c’è scritto "Questa non è una pipa"»
«Ma perché c’è scritto così, se è proprio una pipa?!?»
«Tu vedi una pipa, ma ...Prova a stendere una mano, a toccarla... ad accenderla!»
«Tradimento! Doppio tradimento!! Ma certo che non la posso accendere, lo sapevo. Non sono mica scema! Cioè, è una pipa, ma non una pipa vera. Insomma... è un quadro che rappresenta una pipa. O no?»
«Certo che sì. E io, che ti avevo detto? “Non è una pipa”. Infatti è un quadro»
«Ma che giochino scemo è? Allora su un quadro con un paesaggio si dovrebbe scrivere "questa non è una valle"? O sotto un ritratto "questo non è una persona vera". Ma tutti lo capiscono benissimo!»
«Hai ragione, Maria. Ma, vedi, per migliaia di anni i pittori e gli scultori hanno cercato di ingannarci facendoci credere che le cose e le persone che rappresentavano erano proprio vere».
«Infatti. Te lo dici sempre che un ritratto sembra vivo, o che un albero dipinto pare di toccarlo. E io mi diverto a vedere se hai ragione o no.»
«Giusto. Ma circa cent’anni fa, i pittori e anche gli scultori hanno cambiato idea, e ora cercano di farci credere che tutto quello fanno sia falso»
«Ma allora ci pigliano in giro?»
«Beh, forse sì. Ma, pensiamoci un attimo, ci prendevano più in giro prima, o ci prendono più in giro oggi? Qual è il tradimento vero: quello di prima, o quello di ora?»
«Non lo so proprio: chi è che dice le bugie?»
«Questo il punto. Se io ti dico "sto dicendo una bugia" dico una cosa strana. Perché se è vero che è una bugia, allora dico la verità. E se invece dico il vero, non sto dicendo una bugia».
«Ma babbo, volevi intendere che era una bugia una cosa che avevi detto prima!»
«Brava Maria! Ma, vedi, i quadri non sono come le parole, perché non hanno il prima e il dopo: succede tutto in un solo momento».
«Non lo so proprio, babbo: è troppo complicato. E io mi divertivo di più quando i quadri creavano un altro mondo. Ora sembra che abbiano paura di farlo».
«Beh, forse anche io mi divertivo di più. Ma questo quadro vuole farti pensare. Vuole farti pensare che le immagini, anche le fotografie, non dicono sempre la verità. O meglio: che per capire la verità che dicono, bisogna sempre pensare.»
«C’è poco da pensare: per conto mio, quella è proprio una pipa. È dipinta così bene che mi sembra di vederne il fumo. E a me piace pensare con gli occhi, quando vedo i quadri».
ARTURO SCHWARZ
Una giornata con René Magritte *
Ho incontrato René Magritte nel 1961. Era uno di quei giorni di maggio assolati e tersi che sono così rari a Bruxelles, e ci vedemmo in un appartamento accogliente, dì media grandezza, in rue des Mìmosas, dove l’artista si era trasferito nel 1957. Non aveva uno studio, e dipingeva in un angolo della sala da pranzo, dove aveva disposto il suo cavalletto. Di tutti gli atelier che ho visitato, nessuno era altrettanto pulito e ordinato. La sala da pranzo, come il resto della casa, era immacolata. La moglie Georgette, una persona bella e sottile, che aveva incontrato nel 1913, quando ella aveva solo 12 anni, e che aveva sposato dieci anni più tardi, ci offrì un cafè e discretamente si ritirò.
Conoscevo l’opera di Magritte, da tempo. Quando ero ancora un giovane studente di medicina ad Alessandria d’Egitto, mi ero innamorato del mondo sorprendentemente nuovo che egli aveva creato. Avevo sognato di possedere un giorno un suo quadro, e a stento avrei potuto immaginare allora che avrei finito per spostarmi dallo studio della psichiatria al mondo dell’arte e che, un giorno, avrei organizzato la prima retrospettiva italiana di Magritte. Questa venne inaugurata nella mia galleria di Milano il 6 dicembre del 1962, con alcuni dei capolavori più noti: Les Droits de l’Homme (1945), L’Evidence Eternelle (1946, ill. 6, p. 207), Journal Intime (1951), Les Promenades d’Euclide (1955), Le Territoire (1956), Fortune faite (1957), La Fontaine de jouvence (1958), L’Art de la Conversation (1961) Le Rossignol (1962) ecc.
Il desiderio di discutere la scelta dei quadri e di sistemare alcuni dettagli pratici fu solo un pretesto per il mio viaggio a Bruxelles; tutto avrebbe potuto infatti essere trattato con non minore efficacia per posta o per telefono. La verità è che desideravo incontrare la persona che ammiravo da così lungo tempo, e le cui opinioni estetiche e politiche erano così prossime alle mie. Non fui deluso. L’esperienza mi ha insegnato che più grande è l’uomo, più grande è la sua modestia e la sua mancanza di vanità. Magritte era una persona generosa, appartata, con una totale mancanza di interesse per le questioni finanziarie, e una fede incrollabile nell’umanità. Condivideva l’ottica lucidamente critica con cui i surrealisti guardavano il mondo. Come questi, era angosciato dalla condizione di una società governata dalla competizione, dall’avidità e dal selvaggio sfruttamento dell’uomo e della natura. La mente piena di speranze in un futuro di libertà, altruismo e fratellanza, Mageritte condivise le lotte di questi giovani arrabbiati ed era partecipe delle attese e delle illusioni suscitate da quella Rivoluzione d’ottobre che all’epoca era ancora poco nota e che così miseramente tradisse le speranze che aveva nutrito.
"Mistero" è la parola chiave per la poetica di Magritte. Durante la conversazione che avemmo, e che durò un’intera giornata, interrotta soltanto da una deliziosa colazione e da una breve sosta pomeridiana, ricordo che le parole con cui egli più spesso spiegava i suoi intenti e le sue vedute sull’arte erano "mistero". Per Magritte il mistero era lo strumento più idoneo per distruggere le abitudini visive e la logica dei luoghi comuni. Ricordò alcuni dei metodi preferiti per conseguire questo fine. Essi comportavano la trasformazione di un oggetto, o di una situazione, ad un livello sia fisico che semantico. Il primo caso implicava la creazione di nuovi oggetti, il loro spostamento in un contesto nuovo insolito o una modifica della loro naturalità (un cielo di legno per esempio). Un cielo notturno illuminato dal sole rappresentava, per lui, la tipica permutazione di una tale situazione e un altro modo di creare un’immagine misteriosa e perciò poetica. Il livello verbale implicava associare parole a oggetti che con esse non avessero alcun riferimento, definire un oggetto in modo deviante o sconcertante ("Questa non è una pipa"). Infine un’aura misteriosa poteva essere evocata traducendo figurativamente un’idea, un sogno, o una situazione immaginaria. "E’ importante, per me - Magritte aggiunse - evocare il più fedelmente possibile la misteriosa dimensione che risulta dall’unione o dalla trasformazione di oggetti familiari in modo tale che la nuova immagine contraddica completamente la nostra idea ingenua o erudita del mondo. L’arte è per me un modo meraviglioso per evocare il mistero, per nobilitare l’oggetto più comune e renderlo meritevole di essere rappresentato".
Sconcertava sentirlo sostenere che la conoscenza può dissipare l’ignoranza, ma non può chiarire un mistero. Al contrario, è il mistero che nutre la consapevolezza. Il compito dell’artista, secondo Magritte, doveva essere quello di creare apparizioni che rivelino il mistero assoluto. Senza mistero, nulla davvero esiste. Il mistero è ciò che deve esistere affinché la realtà sia possibile. È il mistero che ci consente di partecipare alla vita dello spirito. Le nostre sensazioni, noi stessi e la pittura, dovrebbero tutti e tre assieme divenire una cosa sola col mistero che ci appartiene. D’altro canto, fedele alla sua formazione marxista, Magritte non poteva ammettere che il mondo o l’universo potesse essere assurdo o incoerente. Egli sosteneva che questa nozione derivava da una logica egocentrica in contrasto con la logica della natura. Ciò che a noi può apparire assurdo o incoerente non lo è affatto nella realtà. Arp aveva ipotizzato che il caso non fosse altro che un ordine del quale ignoriamo le leggi, e la fisica moderna rivela un mondo di gran lunga più fantastico di qualsiasi cosa mai immaginata. Non era stato Petronius a dire che "il caso ha le sue ragioni"?
Milano, 21 novembre 2008
Milano
A Palazzo Reale i dipinti sono accompagnati da frasi che ne sottolineano il surrealismo.
-È una pittura che parla di se stessa: per lui tutto si risolve nell’enigma, in timore metafisico
Magritte, «La ricerca della verità», 1963 (Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce, 1955)
Magritte, paradosso logico
DA MILANO MAURIZIO CECCHETTI *
« Ceci n’est pas une pipe», il celebre quadro di René Magritte, è emblema di un’antinomia logica. Dire che la pipa raffigurata su un quadro non è una pipa, è un gioco linguistico che mette in scena un dispositivo antinomico come quello del mentitore cretese (il cretese Epimenide dice: «tutti i cretesi mentono»), oppure, e forse è ancora più vicino, come nel «paradosso del barbiere» formulato da Bertrand Russell. Un giovane barbiere di un piccolo villaggio decide di aprire la sua bottega. È l’unico barbiere del paese e sull’insegna del locale mette questa scritta: «Barbiere. Faccio la barba a tutti gli uomini, solo a quelli che non si radono da sé». Il giovane barbiere si mette in attesa del primo cliente, ma dopo un po’ che aspetta invano decide di occupare il tempo facendosi la barba... Mentre è intento all’opera su se stesso, passa il filosofo e gli fa notare che la situazione è ambigua. Può certo sbarbarsi da solo, ma allora (in quanto barbiere) sta facendo la barba a chi si rade da sé, dunque secondo la sua insegna non può farlo.
D’altra parte, se il barbiere non rade se stesso allora, sempre secondo la propria insegna, egli a rigor di logica rade se stesso. Questa antinomia occupò le menti di alcuni grandi matematici, e fu utile a Gödel quando definì il «teorema dell’incompletezza sintattica», dove si prende atto che nella matematica vi sarà sempre qualcosa di non dimostrabile. Il matematico, insomma, per essere tale deve anche accettare l’incompletezza. E l’arte? Magritte è il pittore che forse si è spinto più avanti su questa strada facendo dell’incompletezza e del paradosso la via stessa del ’vedere’. La sua celebre pipa dipinta in realtà è una pipa e non lo è.
Lo è sotto il profilo semantico (quell’immagine significa la pipa), ma non lo è sotto il profilo sintattico (quell’immagine non sarà mai una pipa da fumare). Quell’antinomia è però reale soltanto se si pretende di collegare la frasetta alla funzione di ciò che viene rappresentato.
Se, dunque, si pretende che l’immagine perda la propria natura di simulacro e diventi un assoluto concreto, l’idea realizzata (su questo, in effetti, si fonda la filosofia dell’icona, cui la teologia offre poi lo sfondo mistico nel quale naturale e soprannaturale si comunicano nell’immagine). Nel- la mostra che Palazzo Reale dedica ora al pittore belga, i dipinti sono ritmati sulle pareti da frasi dell’artista che confermano questo sfondo ’surreale’. «Qualunque sia il suo carattere manifesto, ogni cosa mantiene il suo mistero»; «Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a dire che questo rapporto conserva, degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla coscienza ma talvolta presentite in occasione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita a chiarire»; «Le parole che il sangue ci detta sembrano talvolta estranee.
Qui, sembra che ci voglia intimare di dischiudere magiche nicchie negli alberi». Mentre visitavo la mostra, un signore, con voce stentorea e sovreccitata, esclamava a ritmo incalzante: «Ecco, qui c’è De Chirico, qui Sironi... e qui? qui che cosa c’è?
Ah, sì, Max Ernst. Vedi (dice al compagno) molti guardano, passano di gran fretta, magari vengono per accattarsi il catalogo (era il giorno dell’inaugurazione), ma non capiscono niente dell’arte». Mi sono detto: con Magritte si può giocare a scoprire chi è stato vittima dei suoi furti d’arte, oppure tentare di immedesimarsi col dispositivo paradossale che sta all’origine del suo modo di pensare l’immagine. La seconda ipotesi mi pare l’unica produttiva (l’altra è, invece, il classico vizio ’professionale’ della critica dalle idee vuote).
In Magritte non esiste un problema di qualità pittorica. Ogni quadro, in un certo senso, vale l’altro: quello meglio dipinto non è meno esemplare della tela visibilmente più sciatta: nella mostra milanese, ad esempio, quello che mi è sembrato più intrigante è un quadretto di poca qualità pittorica che raffigura una rosa chiusa fra tre parole che, insieme, formano la frase «Una rosa nell’universo » (il titolo dell’opera è «La voce dell’assoluto»). È intrigante perché è tra i meno ’connotativi’ rispetto al sistema di rappresentazione paradossale di Magritte, sfiorando quasi la decorazione pura (l’ ’insegna’, ecco). E segue il filone allusivo dove le parole dipinte, pur riecheggiando una tipologia del passato che ha avuto funzioni illustrative ovvero spirituali e mistiche (padre Giovanni Pozzi vi dedicò alcuni saggi poi raccolti in libro), svelano la funzione ’autoreferenziale’ del quadro. La pittura parla di se stessa e della propria capacità illusionistica usando la parola come segno che ha funzione iconica e verbale al tempo stesso. Non è, questa tipologia, quella più ricorrente nell’opera di Magritte, ma la sua ’eccezione’ spiega appunto la regola.
I dipinti di Magritte sono teoremi ’iconologici’ dove la componente pittorica è quasi accidentale. Non è certamente un pittore grandissimo, ma fu capace di elaborare una iconografia ricca di secondi sensi, dunque una iconologia, per quanto il rappresentato non sia mai né il tema figurativo, né un contenuto preciso. L’immagine, per Magritte, ha sempre più dimensioni; un al di là (un oltre) e un al di qua (un prima); è un piano inclinato, ma non ha niente a che fare con la grammatica prospettica; unisce sincronia e diatopia (luoghi diversi entrano nel medesimo tempo pittorico: ma le diverse dimensioni spaziali non si conciliano nell’istante eterno del quadro).
Ciò che raffigura è il paradosso in quanto tale. Se i greci formularono antinomie come quella del mentitore cretese, che diedero lo spunto a Russell per escogitarne di nuove, potremmo anche dire che Magritte non sente il bisogno di spiegare i suoi paradossi, gli basta ’formularli’, cioè dipingerli, con quei colori da tappezzeria che non denoteranno mai, nemmeno nei quadri più riusciti, un genio pittorico, ma soltanto una psiche che riesce a portare in immagine gli oggetti che l’inconscio libera nel sonno. Si potrebbe altresì dire che in Magritte la ’surrealtà’ resta sempre al di qua della - per usare un termine caro al discorso estetico di Maritain - ’surnaturalité’. Magritte è come un giocoliere che volteggiando nell’aria i birilli non li eleva mai sopra la propria testa, perché se questo accadesse correrebbe il rischio, alzando gli occhi al cielo, di perdere la sincronia col proprio inconscio e gli oggetti onirici fuggirebbero dal recinto dove la mente li tiene segregati. Per Magritte tutto si riassume nell’enigma, il mistero sarà sempre e invariabilmente psichico: «È un atto di magia nera trasformare la carne della donna in cielo». Questa frase cela il timore metafisico che tutti i surrealisti hanno provato di fronte all’essenza primigenia del femminino, facendo della donna, del suo corpo, un idolo e, al tempo stesso, un oggetto sacrificale. Di fronte ai quadri di Magritte si viene attratti da un’energia accattivante, e bisogna sforzarsi di non battere le palpebre perché in un microsecondo si rischia di essere trasformati in automi servili di un paesaggio lunare, come i celebri omini con bombetta che si ripetono identici e si moltiplicano mentre sul mondo illuminato da luci per niente solari regna, avida e insaziabile, Circe-Natura.
Milano, Palazzo Reale
-MAGRITTE
-Il mistero della natura
-Fino al 29 marzo 2009
* Avvenire, 25.11.2008. - senza foto
LA RICERCA DELLA VERITA’ DI MAGRITTE E LA NARCISISTICA CECITA’ DI MAURIZIO CECCHETTI
Come volevasi dimostrare - Cecchetti (novello Narciso) cade nella trappola dello specchio e non esce. Si mette, in particolare, di fronte al "quadro": Magritte, «La ricerca della verità», 1963. E continua a ’dormire’.
Senza alcuna offesa, è come per l’apprendista zen: quando il dito del maestro indica la luna, l’imbecille guarda il dito.
E a dire che il quadro di Magritte, preso per illustrare il suo articolo (Magritte, paradosso logico), avrebbe anche potuto svegliarlo - per il suo rimando simbolico al grande ’Pesce’ (I.X.Th.U.S. = Gesù Christo Figlio di Dio Salvatore - dei viventi) - e metterlo sulla strada della "ricerca della verità": Io sono la Via, la Verità, la Vita.
Il quadro, infatti, mostra agli occhi dello spettatore due ’forme’ (una piccola ’palla’ e un grande pesce ’in piedi’ - verticalmente) che ’disegnano’ allo specchio appunto un "o" e un "I", che - rovesciate - dovrebbero e dicono a se stesso: "I" "o", Io.
Per dirla con Wittgenstein: "L’Io è il mistero profondo", "e non dell’io in senso psicologico"!!! Di questo parla "la ricerca della verità" di Magritte. Non di altro. Ceccetti dinanzi a se stesso ha preferito chiudere gli occhi e continuare a ’dormire’.
Federico La Sala