2 febbraio 1970: quarant’anni fa moriva il filosofo
Quarant’anni fa moriva il grande filosofo che fu tra i padri della logica del 900. Una grande avventura di pensiero e di libertà, nel segno del socialismo umanitario culminata in un’intensa attività pacifista e nella creazione nel 1966 del «Tribunale Russell contro i crimini di guerra»
Bertrand Russell. Storia del Voltaire del nostro tempo
Aristocratico eccentrico, padre della logica matematica, diventò un guru mediatico adorato dalle generazioni del secondo dopoguerra: la sua passione per la verità era anche ricerca del vero e del giusto. Per questo ha combattuto la guerra e le armi nucleari
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità. 02.02.2010)
Parlare di Sir Bertrand Artthur William Russell, figlio del Visconte di Amberley e nipote di di Lord J. Russell, significa parlare di uno dei più grandi logici e filosofi analitici del 900. Non già semplicemente di un eccentrico aristocratico nato a a Trelleck nel Galles nel 1872 e scomparso a Plas Penthrin il 3 febbraio 1970 capace di dare scandalo per il suo «immoralismo» (quattro mogli e numerosi amanti). Di fustigare i potenti di ogni ideologia, e di rivelarsi al mondo come guru mediatico ante-litteram, adorato dalle generazioni del secondo dopoguerra.
Grande filosofo e logico matematico dunque, al pari di Moore, Wittgenstein, Frege, Dewey, Whitehead e sul fronte opposto di Heidegger. Persino in anticipo su Goedel e in sintonia con Einstein suo contemporaneo. E tutto ciò senza nulla togliere alle ragioni più immediate che gli regalarono la fama: le qualità mediatiche, polemiche e letterarie. Quelle che gli fruttarono il Nobel per la letteratura nel 1950, e in virtù di scritti come Matrimonio e Morale(1928), La conquista della felicità(1930) e Educazione e ordine sociale (1932).
Insomma, per intendere il segreto di tanta vitalità e successo mondiale, esplosi in ambiti del tutto diversi dallo specimen professionale russelliano, occore andare al vero «demone» della personalità di Bertrand Russell: la passione filosofica della verità. La ricerca del vero, dell’esatto e del giusto. Perseguita ad ogni costo, con temerarietà tenace. Contro ogni conformismo e pigrizia, anche a costo di mettere a repentaglio carriera e rispettabilità, privilegi e libertà personale, onori e tranquillità. E anche a costo di doversi rimangiare per intero, e dover riscrivere, opere concepite con fatica e accademicamente celebrate.
Ecco, Russell, orfano inquieto di entrambi i genitori e allevato da nonni e governanti, fu essenzialmente questo. Fu un eroe della certezza intellettuale come criterio di vita morale, certezza investigata a caro prezzo. Uno straordinario cercatore di verità, approdato alla fine alla posizione di uno «scettico appassionato», come suggerì il suo biografo A. Wood in un’opera dal titolo analogo. Il che ne fece, come ha scritto A. Granese in Che cosa ha detto veramente Russell un «Voltaire del nostro tempo». Vediamo allora, per meglio capire questo approdo che ne ha scolpito poi la fama, le tappe dell’avventura filosofica di Russell.
Studia matematica e filosofia a Cambridge, al Trinity College, dopo aver già a 15 anni assimilato Euclide e Staurt Mill. E aver contestato da adolescente, smontandone la teologia, i principi della fede cristiana. Dapprima idealista, sotto l’influsso di Bradley, esce dall’idealismo e si muove verso «l’oggettività del reale».
Movimento liberatorio coronato dall’incontro con Peano: la matematica come regno oggettivo degli enti. E la logica come fondamento della matematica, che della logica è la traduzione quantitativa. Numeri quindi come «entità reali», corrispondenti a oggetti veri, relazionati dentro la «logica delle classi», delle «proposizioni» e delle «relazioni». Di qui le due grandi opere russelliane: Principi della Matematica(1903) e Principia Mathematica (1910-1913).
In realtà è qui che comincia l’Odissea. Perché ben presto Russell si accorge che l’«assiomatica» non funziona ed è autocontraddittoria. Ovvero: i costrutti logici sono autoreferenziali e non si autoesplicano. Le essenze logiche a priori, fuori dall’esperienza, danno luogo ad antinomie irrisolvibili e a paradossi come quello del «mentitore» e della «classe di tutte le classi» da spezzare con il rinvio ai limiti delle sensazioni. Dell’esperienza finita e limitante. L’unica, che può dar senso alla logica, ridotta a «funzione» operativa, come in Cassirer e Kant, e negata come verità autoesplicativa. La logica insomma non è verità, ma al massimo è «significato», come nell’espressione «Il re di Francia è calvo», sensata, ma falsa.
E siamo a Significato e verità(1940), influenzata da Wittgenstein suo allievo, a sua volta da Russell influenzato nella sua seconda fase. La conoscenza a questo punto è fatta di due mattoni: esperienza diretta e descrizioni derivate (tramite ipotesi, relazioni, inferenze, induzioni e deduzioni). Contano a questo punto linguaggio e condivisione con gli «altri spiriti», senza più certezze però. Perché l’esperienza iniziale stessa è diversa per ciascuno e non si acquista per esperienza, ma è un «costrutto» mobile da condividere.
Qui viene il Russell morale: socialista umanitario, libertario. Teorico della liberazione tramite il desiderio, contro i desideri del Potere fintamente travisati per desideri (obbligati) dei singoli. La vera etica «erotica» per Russell è decostruttiva, da un lato. E dialogica dall’altro. Nasce dall’incontro possibile dei desideri di ciascuno con quelli dell’altro. Senza coercizione, e per continua disarmonia prestabilità. Ma qui anche lo scetticismo laico e libertario del grande cretore del Tribunale Russell contro i crimini di guerra, perseguitato dai vescovi e dai fanatici della guerra: «Non morirei mai per le mie convinzioni, perché potrebbero essere sbagliate».❖
L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO [17 gennaio 1953]
Compendio per la «formazione dei giovani»
di Bertrand Russell (l’Unità, 02.02.2010)
Questo libro, riteniamo, colmerà una lacuna che per troppo tempo ha disonorato il nostro sistema scolastico. Coloro che hanno accumulato la maggiore esperienza nelle prime fasi del processo pedagogico sono stati costretti a concludere, in un ben ampio numero di casi, che molte inutili difficoltà ed evitabilissimi dispendi di ore scolastiche si devono al fatto che l’alfabeto, la porta a ogni saggezza, non è stato reso sufficientemente attraente per le menti immature cui abbiamo la sfortuna di doverci rivolgere.
Questo libro, piccolo quanto il suo ambito e umile quanto i suoi scopi, è crediamo e speriamo esattamente ciò che serve nella perigliosa congiuntura attuale per guidare i primi passi della mente infantile. Lo diciamo non senza il conforto di riscontri empirici.
Abbiamo messo alla prova il nostro alfabeto su numerosi soggetti: alcuni lo hanno trovato saggio, altri assurdo. Alcuni lo hanno trovato pieno di buon senso; altri sono stati tentati di giudicarlo sovversivo. Ma tutti e lo diciamo con la più completa e assoluta certezza tutti coloro cui abbiamo mostrato questo libro hanno avuto da allora in poi un’impeccabile conoscenza dell’alfabeto.
Sulla base di questi presupposti siamo convinti che le nostre autorità preposte alla formazione dei giovani, dal momento stesso in cui quest’opera verrà portata alla loro attenzione, daranno immediatamente disposizione affinché sia adottata in tutte quelle istituzioni scolastiche dove vengono inculcati i primi rudimenti dell’alfabetizzazione.❖
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’APOLOGIA DEL MENTITORE E LA FILOSOFIA ITALIANA.
FRANCO VOLPI: "Aveva la vocazione dell’organizzatore oltre che quella dello studioso. Sotto questo aspetto va elogiato per il Dizionario delle opere filosofiche (Bruno Mondadori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma si avvale di decine e decine di collaboratori per le singole voci. Di più: Volpi, insieme ad altri, curò nel 1988 l’edizione tedesca di questo Lexicon der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemò per gli italiani. Le polemiche corse all’uscita sono ormai evaporate e oggi ci rendiamo conto che l’aver dimenticato - o volutamente non ospitato - i Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non è peccato che richiede assoluzioni speciali"(Cfr. Armando Torno, Franco Volpi, la filosofia al di là del nichilismo Corriere della Sera, 15.04.2009. - Ripreso nel sito, cfr. negli allegati a: Lo storico della filosofia Franco Volpi in coma. Gravissime le sue condizioni).
“L’amore è saggio, l’odio è folle”. Il messaggio di Bertrand Russell per le generazioni future
3NZ.IT (la Repubblica, 3 aprile 2015)
Nel 1959, il grande filosofo Bertrand Russell venne intervistato dalla Bbc. In chiusura del faccia a faccia, l’intervistatore gli chiese: “Supponiamo, lord Russell, che questo filmato venga trovato dai nostri discendenti tra mille anni come i manoscritti del Mar Morto. Cosa pensa varrebbe la pensa di dire a quella generazione riguardo alla vita che lei ha vissuto e alle lezioni che ha appreso da essa?”
La risposta di Russell è un condensato di saggezza morale che vale la pena di trascrivere e tramandare alle generazioni future, poiché in poche parole contiene il seme del senso della vita umana:
Russell, il cui nome completo era Bertrand Arthur William Russell, III conte Russell di Bedford, nacque a Trellech, nel Galles, il 18 maggio 1872 e morì a Penrhyndeudraeth il 2 febbraio 1970.
Oltre ad essere un illustre filosofo, logico e matematico, fu anche un grande divulgatore e un attivo esponente del movimento pacifista.
Come riporta Wikipedia, “riteneva che il miglior governo fosse una federazione mondiale tra stati liberi. Si oppose alla partecipazione del Regno Unito alla prima guerra mondiale. Per la sua posizione fu prima allontanato e poi perse la cattedra al Trinity College dell’Università di Oxford; infine fu incarcerato per sei mesi nella prigione di Bixton in quanto ‘dissidente’”.
Ricordando Smullyan
Il logico matematico più divertente del mondo
di Piergiorgio Odifreddi *
Un giorno Raymond Smullyan andò alla lavagna per una conferenza e disse: «O io ho una moneta tra le dita, o 2 più 2 fa 5». Poiché stava tenendo la moneta in mano, aveva detto il vero. Ma di colpo la moneta scomparve misteriosamente e Smullyan se ne tornò sornione al proprio posto.
L’uditorio di logici capì immediatamente lo scherzo di cui era stato vittima. Mostrando la moneta, Smullyan aveva dimostrato la verità della propria affermazione basandosi sulla prima alternativa. Ma facendola sparire, diventava vera la seconda alternativa: dunque Smullyan aveva dimostrato che 2 più 2 fa 5.
Strana e paradossale dimostrazione di un’assurdità, che solo un mago poteva permettersi di fare. E Smullyan era effettivamente un mago, che divertiva amici e studenti con una serie di trucchi da prestigiatore, anche se la sua reale professione era la matematica. Più precisamente, la logica matematica, nella quale aveva lasciato il segno nel 1961, mostrando in un famoso libro sulla teoria dei sistemi formali che i teoremi di limitatezza dimostrati da Kurt Gödel e altri negli anni Trenta erano molto più generali di quanto si fosse inizialmente sospettato.
Ma la sua notorietà si estese al grande pubblico con Qual è il titolo di questo libro? (Zanichelli, 1981). Come suggeriva fin dal titolo, il libro conteneva una serie di paradossi e indovinelli che mettevano alla prova l’abilità logica e la pazienza psicologica del lettore. Una serie di questi giochi coinvolgeva l’Isola dei Cavalieri e dei Furfanti (dall’inglese knight, "cavaliere", e knave, che significa sia "fante" che "furfante"), nella quale ciascun abitante o è un cavaliere, e dice sempre la verità, o è un fante, e dice sempre il falso. Se uno incontra un abitante, che domanda deve fargli per sapere se sia un cavaliere o un fante? Naturalmente non basta domandargli se è un cavaliere, perché la risposta sarebbe affermativa in ogni caso: cioè, una verità per un cavaliere e una falsità per un fante. Analogamente, non basta domandargli se è un fante, perché la risposta sarebbe negativa in ogni caso.
In realtà bisogna ricorrere al pensiero laterale: basta fargli una domanda della quale si conosce già la risposta. Per esempio, basta domandargli se è una mucca: il cavaliere dirà di no, ma il fante dirà invece di sì.
Smullyan spinse al limite questo genere di rompicapi in due libri memorabili: Fare il verso al pappagallo del 1985 (Bompiani, 1990) e Perenne indecisione del 1987. Il primo fornisce un’introduzione alla logica combinatoria. Il secondo è invece un trattamento completo dei teoremi di incompletezza e indecidibilità.
Prima ancora di pubblicare il suo primo libro di paradossi, Smullyan aveva percorso una strada diversa per la divulgazione della logica: quella della cosiddetta "analisi retrograda" degli scacchi, in cui si presenta una scacchiera con alcuni pezzi disposti in un certo modo, e si chiede al lettore di individuare l’unica serie di mosse che ha potuto portare a quella disposizione.
Ma Smullyan si interessava anche di religione e filosofia: nel 1977 uscì Il Tao è silente, professione di fede nel taoismo. Ritornò sul tema nel 2003 con Chi lo sa?, presentato nel sottotitolo come "uno studio della coscienza religiosa".
D’altronde, già dal suo aspetto fisico si sarebbe detto che Smullyan era un immortale taoista o un vecchio saggio: la lunga chioma e la folta barba bianche, oltre allo sguardo penetrante, lo facevano infatti assomigliare a Tagore o al mago Gandalf del Signore degli anelli.
Anche nel campo etico Smullyan ha lasciato un segno, inventando un paradosso che porta il suo nome: "In un’oasi A e B decidono indipendentemente di assassinare C. A mette del veleno nella sua borraccia, B la buca e C muore di sete. Chi è colpevole della sua morte, visto che A ha messo del veleno che lui non ha bevuto, e B ha bucato una borraccia che conteneva acqua avvelenata?".
Come se non bastasse Smullyan era anche un ottimo pianista, e in rete si trovano molti video in cui suona.
Per questo il suo allievo Jason Rosenhouse ha intitolato Quattro vite il libro che gli ha dedicato nel 2014. E per questo sono morti quattro Raymond Smullyan il 6 febbraio di quest’anno, tutti di novantott’anni. Ed è doveroso ricordare "il più divertente logico mai esistito". Così Martin Gardner ha definito Smullyan. E dichiarato dal curatore di Alice nel paese delle meraviglie oltre che dal più celebre divulgatore di matematica del Novecento, è tutto dire.
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
C’era una volta un paradosso... *
Il governo m5s-lega e il barbiere di Lenin
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto, 03.11.2018)
Secondo Silvio Berlusconi, il governo gialloverde è “il più sbilanciato a sinistra della storia del Paese”. Poiché però il leader di Forza Italia è notoriamente ossessionato dai comunisti, che secondo lui sono insediati in ogni luogo e responsabili di ogni male, la sua opinione non va presa troppo seriamente. Ma può fornire lo spunto per ricercare analogie tra ciò che è successo a Palazzo Chigi dopo il 1° giugno 2018, con il governo del cambiamento italiano, e ciò che è accaduto allo Smolnij e al Cremlino dopo il 7 novembre 1917, con il governo rivoluzionario russo.
Lasciando da parte le opinioni ideologiche, grillo-leghiste da un lato e marxiste-leniniste dall’altro, concentriamoci sui fatti concreti, a cominciare dall’atteggiamento pauperista e semiascetico che i partiti pentastellato e bolscevico hanno imposto ai propri vertici e proposto ai propri militanti. Ad esempio, gli scontrini dei rimborsi spese dei parlamentari 5S della scorsa legislatura e i viaggi in economy dei nuovi ministri richiamano lo stile di vita modesto adottato da Lenin, che si accontentava di vivere insieme alla moglie e alla sorella in quattro sole stanze al Cremlino, e attendeva pazientemente in coda il proprio turno per passare dal barbiere.
Anche l’astio verso i tecnici e il sospetto nei confronti delle loro “manine”, uniti alle minacce e alle promesse di epurazione politica nei ministeri, trovano un’antecedente molto più drastico e radicale nell’esecuzione degli alti comandi zaristi e nel licenziamento degli ufficiali dell’esercito, che furono sostituiti da una nuova gerarchia tratta dalle truppe rivoluzionarie, di scarsa preparazione ed esperienza militare, ma di fidata fede bolscevica.
Quanto alla rimozione del pessimismo dei fatti e alla sua sostituzione con l’ottimismo della volontà, sintetizzate nel rifiuto del nuovo governo grillo-leghista di farsi condizionare dai mercati e dai trattati europei, e nel proposito di abolire la povertà per decreto, impallidiscono di fronte all’analogo rifiuto del nuovo governo bolscevico di farsi condizionare dalla situazione bellica al fronte e dai trattati internazionali, e al proposito di uscire unilateralmente dalla guerra con il decreto sulla Pace, approvato già l’8 novembre 1917.
In fondo non è sorprendente trovare simili analogie, in governi che si propongono programmaticamente di apportare cambiamenti radicali nello status quo del proprio Paese, e quelli fatti non sono che esempi paradigmatici delle novità da introdurre nel comportamento individuale dei nuovi leader, nell’organizzazione interna del nuovo Stato e nelle relazioni esterne con i Paesi stranieri. Novità che devono essere introdotte, per mantenere le promesse di cambiamento, ma che non necessariamente si possono introdurre.
Al proposito, la storia sovietica lascia poche illusioni al riguardo. Ad esempio, fare la fila dal barbiere poteva essere naturale per un politico disoccupato in esilio, ma diventava velleitario e sciocco per un capo di governo occupato a condurre una Guerra civile che impegnava tutto il suo tempo e richiedeva tutte le sue energie. Infatti, poco dopo Lenin capì che era meglio fare meno gesti simbolici, ma meglio il proprio lavoro. Anche aggirare e rimuovere i tecnici nell’esercito non si rivelò essere una grande idea, visti i risultati ottenuti al fronte. Infatti, durante la Guerra civile non si poterono risuscitare gli alti comandi zaristi fucilati, ma si dovettero reintegrare di corsa gli ufficiali rimossi, pur mettendo al loro fianco dei commissari del popolo a controllare le loro “ditine” posate sui grilletti. Perché con i dilettanti si stava perdendo la guerra, mentre per vincerla servirono i professionisti. Quanto ai condizionamenti esterni, si possono anche rimuovere nella propria testa, ma non per questo essi svaniscono miracolosamente.
Il decreto della Pace portò in poche settimane a un ultimatum tedesco e alla capitolazione di Brest-Litovsk, con la perdita di un terzo dell’impero russo: a sconfiggere in seguito la Germania non fu certo l’unilateralismo sovietico, ma l’azione comune degli Alleati.
I sovietici impararono presto la lezione che i proclami utopici e le azioni dimostrative sono malattie infantili del cambiamento, e li sostituirono con un realismo e un pragmatismo che permisero loro di sopravvivere per settant’anni, tanti quanti la nostra Repubblica.
Se il governo giallo-verde vuole provocare un cambiamento serio e desidera durare a lungo, dovrà imparare anch’esso presto la stessa lezione e vaccinarsi velocemente contro le stesse malattie infantili.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
RIFARE UNO STATO?! BASTA UN NOTAIO, UN FUNZIONIARIO DEL MINISTERO DELL’INTERNO E LA REGISTRAZIONE DI UN SIMBOLO DI PARTITO CON IL NOME DEL POPOLO!!! A futura memoria, note e appunti sul caso
Federico La Sala
SENZA PIU’ PAROLA E SENZA PIU’ CARTA D’IDENTITA’. Alla ricerca della dignità perduta...
Le idee. Per una biopolitica illuminista
L’ultima lezione di Stefano Rodotà
di Roberto Esposito (la Repubblica, 31.03.2018)
«Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata». Il nuovo libro, postumo, di Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, appena pubblicato da Laterza, può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini evocati da Levi - identità, dignità e vita - s’incrociano in una riflessione aperta ma anche problematica, che ha fatto di Rodotà uno dei maggiori analisti del nostro tempo.
Composto da saggi non tutti rivisti dall’autore, scomparso lo scorso giugno nel pieno del suo lavoro, il libro ci restituisce il nucleo profondo di una ricerca che definire giuridica è allo stesso tempo esatto e riduttivo. Esatto perché il diritto costituisce l’orizzonte all’interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro. Riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici che ne eccedono il linguaggio. Rodotà ha posto il diritto, da altri irrigidito in formulazioni astratte, a contatto diretto con la vita. E non con la vita in generale, ma con ciò che è diventato oggi la vita umana nel tempo di una tecnica dispiegata al punto da penetrare al suo interno, modificandone profilo e contorni.
Ma cominciamo dalle tre parole prima evocate, a partire dall’identità. Come è noto a chi si occupa di filosofia, l’interrogazione sul significato della nostra identità attraversa l’intera storia del pensiero, trovando un punto di coagulo decisivo nell’opera di John Locke.
Cosa fa sì che il vecchio riconosca sé stesso nel ragazzo, e poi nell’adulto, che è stato nonostante i tanti cambiamenti che ne hanno segnato l’aspetto e il carattere? La risposta di Locke è che a consentire alla coscienza di sperimentarsi identica a se stessa in diversi momenti dell’esistenza è la memoria. Ma tale risposta bastava in una stagione in cui natura, storia e tecnica costituivano sfere distinte e reciprocamente autonome. Una condizione oggi venuta meno. Nel momento in cui politica e tecnica hanno assunto il corpo umano a oggetto del proprio operato tutto è cambiato. Sfidata dalle biotecnologie e immersa nel cyberspazio, l’identità umana si è andata dislocando su piani molteplici, scomponendosi e ricomponendosi in maniera inedita.
È precisamente a questa mutazione antropologica che Rodotà rivolge uno sguardo acuminato. A chi appartiene il nostro futuro? - egli si chiede con Jaron Lanier (La dignità ai tempi di internet, Il Saggiatore) - quando l’identità non è più forgiata da noi stessi, ma modificata, e anche manipolata, da altri? Si pensi a come è cambiato il ruolo del corpo in rapporto alla nostra identificazione. Dopo essere stato centrale, al punto che sulla carta d’identità comparivano, insieme alla foto, colore di occhi e capelli, il corpo è stato in qualche modo soppiantato dalle tecnologie informatiche - password, codici, algoritmi. Per poi tornare, una volta tecnologizzato, come oggetto di attenzione da parte delle agenzie di controllo.
Impronte digitali, geometrie della mano, iride, retina, per non parlare del dna.
Tutto ciò quando la chirurgia plastica è in grado di cambiare i nostri connotati.
E qui entra in gioco il secondo termine del libro, la dignità, assunta non in maniera generica, ma come un vero principio giuridico. Che ha già trovato spazio nella nostra Costituzione e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma ciò non basta, se si vuol passare dal tempo dell’homo aequalis a quello dell’homo dignus. Il richiamo alla dignità, che è stato un lascito importante del costituzionalismo del Dopoguerra diventa, per Rodotà, un elemento costitutivo dell’identità personale.
Naturalmente a patto che il concetto stesso di “persona” spezzi il guscio giuridico di matrice romana, per incarnarsi nel corpo vivente di ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, provenienza.
Anche la questione, largamente discussa, dei beni comuni va inquadrata in questo orizzonte storico, misurata alle drastiche trasformazioni che stiamo vivendo. Solo in questo modo anche il terzo termine in gioco - la vita - può diventare oggetto di una biopolitica affermativa. Rodotà ne offre un esempio illuminante.
Nel 2013 la Corte suprema dell’India ha stabilito che il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco di largo consumo è subordinato al diritto fondamentale alla salute di chi ne ha bisogno. Che prevale sull’interesse proprietario.
Come è noto, a partire dall’entrata in vigore del Codice civile napoleonico, il principio della proprietà è stato sostituito a quello, rivoluzionario, di fraternità, anteponendo la figura del proprietario a quella del cittadino. Che non sia arrivato il momento di riattivare la fraternità ricucendo il filo, spezzato dell’uguaglianza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
B
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ... *
Giorello: il sapere ha un’anima ribelle
Nel libro intervista con Pino Donghi il filosofo elogia le rotture traumatiche che smuovono il mondo. E la lezione di Jünger: la libertà più importante è quella interiore
di ANTONIO CARIOTI *
Se deve indicare parole capaci di esprimere al meglio L’etica del ribelle, titolo del suo libro intervista a cura di Pino Donghi, edito da Laterza, Giulio Giorello non cita Ernesto Che Guevara, ma neppure i suoi amati filosofi Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Le scelte scontate non gli appartengono. Ricorre invece a un autore spiritualista e aristocratico, eroe di guerra tedesco caro alla destra: Ernst Jünger. Dal suo Trattato del ribelle ricava il concetto che la resistenza al dispotismo nasce dalla libertà interiore di chi assegna «più valore al modo di essere» che «alla pura sopravvivenza». Certo, è una visione elitaria, perché «una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura». Proprio per questo è necessario creare un contesto istituzionale nel quale andare contro i detentori del potere, politico, economico e culturale, non comporti rischi troppo gravi: solo così si promuove l’innovazione che fa avanzare la conoscenza.
Non stupisce quindi che Giorello indichi nel mondo anglosassone e protestante (apprezza anche Martin Lutero) l’ambiente culturale con cui si sente in maggiore sintonia. E proponga considerazioni piuttosto controcorrente in questi tempi di rinnovato furore antiborghese. Ricorda per esempio che «soltanto col sorgere del capitalismo e con lo sviluppo delle istituzioni scientifiche» l’autonomia della ricerca è riuscita a imporsi e agli studiosi, dopo l’epoca in cui personalità geniali come Galileo Galilei finivano sotto processo, è stata concessa «la libertà di esplorare le ipotesi più bizzarre, persino implausibili dal punto di vista del senso comune e delle loro applicazioni immediate».
In effetti traspare a più riprese nel discorso di Giorello un’evidente analogia tra il progredire del sapere, che introduce rotture traumatiche «nella costellazione delle credenze stabilite» costringendoci a «buttarle a mare», come scriveva Carlo Emilio Gadda, e la «distruzione creatrice», per usare un’espressione pregnante dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, generata dal mercato nel campo della produzione di beni e servizi. In entrambi i campi vince chi innova: «Le eccezioni non confermano la regola, diventano una nuova regola». Andrebbe forse riconosciuto che la vera rivoluzione permanente (tutt’altro che morbida e indolore, anzi spesso spietata nel mutare la faccia del mondo) è quella derivante dall’intreccio tra ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e libera intrapresa economica, una vera «macchina da guerra» di fronte alla quale gli strumenti della politica e le teorie filosofiche solitamente arrancano.
Giorello di tutto questo si mostra ben consapevole, ammaestrato dalla consuetudine con il pensiero di autori come Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ma anche dagli insegnamenti di un marxista decisamente eretico come il suo maestro Ludovico Geymonat. Sa che anche le rivoluzioni tecnologiche e produttive «sono violente, almeno in senso sofisticato», perché cancellano certezze, abitudini, posti di lavoro. Ma ribadisce la sua profonda estraneità all’impostazione dogmatica storicamente maggioritaria nella sinistra italiana (e ancora nient’affatto estinta), che pretendeva di pianificare lo sviluppo scientifico in base a non meglio identificate «istanze più progressive», destinate inevitabilmente a divenire, in un auspicato sistema collettivista, le priorità fissate dal potere della burocrazia. E resta insensibile anche alle sirene del cattolicesimo sociale, divenute più seducenti, per il pensiero di stampo progressista, con l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio.
Quando Giovanni Paolo II parlava di «verità dell’essere», detenuta dalla Chiesa, e affermava la superiorità della «legge di natura» su quella umana non faceva altro che ribadire una vocazione autoritaria non troppo dissimile da quella che si manifesta in altre forme (per ragioni storiche oggi di gran lunga più violente e deleterie) d’integralismo religioso. E Giorello lo sottolinea con forza, pur non escludendo in linea di principio che Papa Bergoglio sappia «assumere non solo toni diversi, ma atteggiamenti sostanzialmente differenti a livello di prassi».
Del resto tra coloro con cui il filosofo della scienza milanese va più d’accordo c’è un suo collega cattolico come Dario Antiseri, che si è sempre adoperato per coniugare la fede nel Vangelo con la difesa dei diritti individuali. E tra i ribelli che Giorello sente idealmente più vicini troviamo, accanto a «figure indimenticabili come Pancho Villa ed Emiliano Zapata», protagonisti della rivoluzione messicana, i repubblicani irlandesi in lotta contro il dominio della corona britannica. Insorti a più riprese in nome della libertà politica, non certo di un credo religioso, ma nella quasi totalità (sia pure con importanti eccezioni) ferventi cattolici. Non importa tanto quale Dio si prega, ma per quale causa ci si batte: un altro principio ben presente in tutto il dipanarsi del libro di Giorello.
* Corriere della Sera, 27 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Il 18 maggio 1872 nasce Bertrand Russell.
"La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi".
"Gli uomini temono il pensiero più di qualsiasi cosa al mondo, più della rovina, più della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile.
Il pensiero non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite e alle abitudini confortevoli. Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità, noncurante dell’approvata saggezza dell’età.
Il pensiero può guardare nel fondo dell’abisso e non avere timore.
Ma se il pensiero diventa proprietà di molti e non privilegio di pochi, dobbiamo finirla con la paura."
Bertrand Russell
ITALIA E USA - USA E ITALIA: DAL MITO DEL DUCE AL MITO DELL’AMERICA E DAL MITO DELL’AMERICA AL MITO DEL DUCE. LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA ...
ALLA LUCE DEL NOSTRO PRESENTE STORICO, E DELLA CORAGGIOSA E PREZIOSA ANALISI E AUTOANALISI di Fabrizio Denunzio ("La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, ombre corte, 2016, 119 pp., € 10), PER NON CONFONDERE I PIANI E NON SCAMBIARE la "RIPRESA" CON LA "ripetizione", non è per niente male rileggersi il bel saggio di Simona Urso, "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (Marsilio, Venezia 2003) e, insieme, il già citato lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare"(cfr.:http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882) e RIMEDITARE la "vecchia" LEZIONE DI FRANZ KAFKA (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1367).
Federico La Sala
Spiegel, Trump ’sgozza’ Statua Libertà
Prima pagina shock del settimanale che titola ’America First’ *
(ANSA) - BERLINO, 3 FEB - Un disegno di Donald Trump a figura intera, con un coltello insanguinato in una mano e la testa mozzata della Statua della libertà nell’altra, è la provocatoria copertina di Der Spiegel in uscita domani. La rivista accompagna l’immagine con il titolo "America First", il motto della campagna elettorale di Trump. Nel disegno, la faccia del presidente non ha lineamenti, tranne che per la bocca spalancata nell’atto di urlare la sua rabbia.
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Politica della post verità o potere sovralegale?
di Ugo Morelli *
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni:
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo , il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti:
«Mia madre chiese: che cosa vogliono da te?
Risposi: paura.
Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
* DOPPIOZERO, 18 febbraio 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA RISPOSTA A "SPECIALE C17":
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino *
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle "spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere" (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA "MORTE NERA" (cfr.: Massimo Palma,"Waler Benjamin, l’inquilino in nero", cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a "Infanzia salentina", pagine del lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini" - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo fa, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: "Tutti i cretesi mentono"! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome "Forza Creta", e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA "BATTUTA" FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: "GUAI AI VINTI"!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... "TUTTI I CRETESI MENTONO" ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Illusi e confusi
Tristram Shandy siamo noi
L’inizio della modernità liquida e del mondo di oggi: ritorna il capolavoro di Laurence Sterne
In anticipo su Charlie Chaplin e Buster Keaton è l’eroe di un’epica dell’irrilevanza dove l’effetto comico serve a risvegliarci
di Nadia Fusini (la Repubblica, 14.12.2016)
Un piccolo Meridiano tutto per lui, Tristram Shandy se lo merita. Perché è senz’altro un fenomeno quel gentiluomo nato nella seconda metà del secolo dei Lumi. E niente affatto invecchiato malgrado duecento e più anni siano passati dalla sua nascita. Anzi, lo ritroviamo oggi vivo e vegeto grazie alle cure sollecite di Flavio Gregori, settecentista doc, e nella traduzione impeccabile di Flavia Marenco. Rinascono così “la vita e le opinioni” dell’eccentrico personaggio cui Laurence Sterne affidò la sua buona novella, ovvero la comica narrazione della nascita di un bambinello. Non in una capanna, ma a Shandy Hall.
Ne risulta un ritratto di famiglia con tanto di padre Walter genialoide e madre Elizabeth ottusa e zio Toby ex ufficiale a riposo pacifico, con al seguito il caporale Trim e la vedova Waldman e il parroco Yorick, buffo e ingenuo fool di shakespeariana memoria. Quanto al narratore, e cioè Tristram, già nel nome segnato dalla tristezza, mentre narra la propria venuta al mondo commenta non solo le disgrazie che gli capitano, ma anche l’inesorabile fatica di un processo di scrittura, virtualmente interminabile, che lo induce a un sentimento di impotenza.
Impotenza, inconcludenza, disastro, fallimento emergono come i contenuti di un’esistenza che si configura sulla pagina nella forma spezzata, interrotta, di una rappresentazione che si offre come una lotta tormentata con il principio e con la fine, mentre nel mezzo tutto prende il senso di una deviazione incontrollabile. Tutto sfugge. È così che in un virtuosismo sperimentale anticipatore di avanguardie future, la forma e il contenuto del romanzo e l’esistenza del protagonista narratore si specchiano l’uno nell’altro.
Da vero “spirito libero” - così lo definì Nietzsche - Sterne onora il suo secolo con l’invenzione di una nuova forma narrativa, che eccede ogni regola in un prodigio di stravaganze, che verranno accolte in tutta la loro portata, non solo tecnica, ma di concezione del mondo, qualche secolo dopo, da scrittori e critici d’avanguardia del Novecento.
Se c’è un effetto Sterne, che con piena evidenza si dispiegherà nel Modernismo europeo, lasciando tramortiti scrittori come Beckett e Joyce, e critici come Sklovskij, quell’effetto a tutt’oggi non s’è spento. In che consiste?
Nel paradosso che perfettamente Bertrand Russell colse e nominò per l’appunto come “paradosso Shandy”. E’ un problema di logica matematica che il gentiluomo Tristram ci pone: ovvero, se un campo di possibilità aperte all’infinito possa o no risolversi in un che di concluso. Se per descrivere i primi due giorni della mia vita, ragiona il gentiluomo, ci ho messo due anni, a questo ritmo, con il materiale che si accumula così in fretta, mai e poi mai riuscirò nella scrittura a tenere il passo dell’esistenza. Nei suoi Principi della matematica Bertrand Russell contestò il ragionamento come fallace: fosse Shandy vissuto per sempre e non si fosse stancato del compito e fosse la sua vita continuata piena di casi e accidenti, nessuna parte della sua biografia sarebbe rimasta non scritta.
Ecco il paradosso: riguarda il rapporto tra il finito e l’infinito. Quanto all’eccentrico protagonista di questo libro tra i più stravaganti mai scritti, e non solo, ripeto, dal punto di vista formale, ma concettuale, se pianifica una narrazione piena di digressioni e di incidenti, è proprio perché in un empito sperimentale prova a salvarsi dal vettore del tempo, che va nell’unico verso della fine. Chi non segua una linea retta, avrà molte probabilità di perdersi, ragiona Tristram; ma anche di durare, perché chi non arriva a destinazione, non termina. Non conclude, non finisce, non muore.
Arte concettuale? Gioco del wit? e cioè messa in campo di quella virtù suprema di una lingua, l’inglese, che nell’ironia e nel tocco parodico raggiunge altezze sublimi? Sì, certo, ma anche una visione del mondo che dal nome del protagonista si può condensare nell’aggettivo “shandiano”. Cangiante, mutevole, attraente, insidioso, indecente, sarcastico, licenzioso, sono alcuni dei significati del termine. È il modo in cui un soggetto prende coscienza del mondo che lo circonda come intensamente sfuggente e rispetto ad esso della propria impotenza.
«Vorrei tanto che mio padre e mia madre, o tutti e due in egual modo coinvolti, avessero badato a che cosa stavano combinando quando mi generarono... »: così inizia la personalissima narrazione dell’avventura infausta cui il piccolo Tristram si trova esposto nel momento stesso in cui è concepito. E nel suo caso il concepimento non potrebbe essere più ridicolo: in un fatidico innesto tra la carica dell’orologio di casa e dell’organo riproduttivo del padre, che la madre impassibile accosta nella domanda: «Scusa, caro, ti sei mica scordato di caricare la pendola?»; il «Buon D-!» del padre fa temere una pericolosa cilecca dell’organo. Da cui la conseguenza irreparabile di una dispersione degli “spiriti animali” - ovvero il danno collaterale di una generazione su cui peseranno «forza muscolare e virilità ridotte al lumicino ». Povero Tristram!
Da questa prima fatale interruzione è segnato il destino del protagonista, che farà della digressione la sua strategia d’attacco e difesa. In anticipo su Chaplin e Keaton Tristram sarà l’eroe di un’epica dell’irrilevanza con l’effetto comico di risvegliarci al pericolo dell’esistenza. Se davanti alla porta per uscire più volte Keaton rompe il vetro, chi non sia irrimediabilmente caduto nell’automatismo della percezione riscoprirà tutta l’audacia dell’azione. Ecco comparire nella narrazione il fantasma di Yorik e di Don Chisciotte e i nomi di Rabelais e Cervantes, nel tono di una gioco-mania, che Sterne chiama hobby-horse. Il primo degli hobby-horse è il romanzo che sta scrivendo.
Con in mente Nietzsche, suo ammiratore, viene da pensare che il personaggio che così si disegna è in chiave paradossale un uomo di specie diversa. Un “oltre-uomo”? Non dimentichiamo che Sterne è lo stesso che scrive The sentimental journey, ovvero il viaggio sentimentale, come tradusse Foscolo. Dove il personaggio-uomo si presenta come un apparato di sensibilità in cui esperienza morale ed estetica si intrecciano privilegiando nella definizione dell’identità il cuore e la coscienza.
Sono Tristram, eroe moderno
Con il suo personaggio Laurence Sterne rivoluzionò le regole del romanzo
In libreria per i Meridiani Mondadori l’opera che valorizzò incoerenze e discordanze
Tristram, un Simpson tra i Lumi di Emanuele Trevi
di PIETRO CITATI *
Appena prendiamo in mano La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne (di cui è uscita un’eccellente edizione, a cura di Flavio Gregori, Mondadori, I Meridiani), veniamo affascinati. Per noi, è un bellissimo libro. Per i lettori del Settecento e dell’Ottocento, il Tristram Shandy era molto di più: il meraviglioso inizio della letteratura moderna. Goethe diceva che «Sterne è lo spirito più libero che sia mai esistito. Chi lo legge, si sente subito felice». Nei suoi primi libri Tolstoj imitò con eleganza la musica inafferrabile dello Shandy. Nietzsche diceva che Sterne era «il grande maestro dell’ambiguità».
Laurence Sterne, che nacque il 24 novembre 1713 in Irlanda, fu pastore per quasi vent’anni a Sutton, nello Yorkshire. Con grande passione, recitava i suoi bellissimi sermoni, di cui una parte ci è pervenuta. Con la stessa passione fu un libertino: corteggiò molte donne: si procurò una malattia venerea: fece un’intensa, a volte frenetica vita mondana, in Inghilterra e in Francia: conversò e chiacchierò insaziabilmente: fu malato di tisi: perse la voce: i suoi vasi sanguigni si ruppero; la morte «lo prese per la gola», sebbene egli si prendesse inesauribilmente gioco di lei. «Non posso morire - disse - perché ho quaranta volumi da scrivere e quarantamila cose da dire e fare».
Viaggiò, fuggì per scansare la morte: la trattava come Tristram Shandy trattava il suo farmacista: se la lasciò a lungo dietro alle spalle; finché anche lui morì nel suo appartamento di Londra, a Old Bond Street, alle ore 16 del 18 marzo 1768. Sino alla fine tenne in mano la penna. Secondo quanto sembra, il suo corpo venne trafugato dal cimitero di St. George e condotto a Cambridge: lì fu usato in una lezione di anatomia, e poi riportato a Londra per essere seppellito una seconda volta. Sono certo che questa storia sarebbe piaciuta moltissimo a Sterne - tanto egli aveva giocato lietamente e assurdamente con la morte ed i cadaveri.
La funzione di pastore imponeva a Sterne di venerare Dio: in uno dei suoi sermoni parlò dell’«Essere sempre sul nostro capo e vicino al nostro letto»; e nel Tristram Shandy zio Toby esaltò «la grazia e l’assistenza di quell’Essere che è il migliore di tutti». Dunque Sterne credette in Dio. Forse: probabilmente; sebbene nel suo caso le parole credere e fede debbano essere dette e subito dimenticate; egli credeva e aveva fede in tutto e in nulla. Non possiamo negare che, qualche volta, conversasse con Satana: forse lo incontrò in un salotto di Londra, o viaggiò velocemente insieme a lui, come con un compagno silenzioso; ma non aveva per Satana nemmeno una piccola parte di quell’oscuro e tenebroso rispetto che nutrivano per lui molti tra i suoi amici libertini.
Sterne e il suo libro vissero sotto il segno di Ermete Trismegisto, che prestò il proprio nome a Tristram Shandy. Egli aveva un temperamento «mercuriale», ora grave ora frivolo: coltivava sia l’Uno sia il molteplice. Come Ermete, la sua mente aveva molte forme, pieghe ed aspetti: molti colori: si volgeva, sempre sinuosa, da tutte le parti: amava le cose segrete e nascoste: era flessibile: si trasformava incessantemente; come la mente di un attore di genio, Garrick, che Sterne esaltava.
Se la realtà era molteplice, Sterne diventava ancora più molteplice e diverso. Detestava la linea retta, la rigida e implacabile simmetria, i progetti coerenti dei teologi e dei filosofi. Invece di seguire la via diretta, andava indietro, poi avanti, poi di nuovo indietro. Coltivava le incoerenze, le contraddizioni, le discordanze, le interruzioni, le digressioni, sebbene cercasse (qualche volta) di risolverle in un misterioso equilibrio. Giocava con il possibile e l’impossibile, con il probabile e l’improbabile, che preferiva al reale e al certo.
Pensava che «divagare faccia bene alla salute»: mentre stare immobile provoca malattie; soltanto il movimento ci salva. Era un modo per sconfiggere il tempo degli orologi, il nostro grande nemico, sostituendolo con un tempo esclusivamente mentale, dominato dal capriccio, dall’estro e dal ghirigoro. Tutto è fluido, ambiguo, pieno di vuoti, di strappi e di nodi, talvolta di grovigli: ogni minima cosa assomiglia a una «matassa intricata», a una «ragnatela». Sterne amava l’incompleto: difatti il suo libro non finisce mai, o finisce all’improvviso, o meglio non sappiamo mai se sia veramente finito.
Sterne viaggiava con grande piacere: «Il viaggio - disse - è stato il periodo più fruttuoso della mia vita». Come lui il suo libro viaggia all’impazzata, fuggendo vittoriosamente la morte, imitando la corsa dei cavalli e delle carrozze, interrotta ogni tanto da imprevedibili soste, e guardando ora davanti ora indietro ora di lato. Ogni momento del viaggio è ricchissimo: pieno di tantissime cose da pensare, da sognare, da fare e da dire. A volte gli obiettivi desiderati non esistono affatto. Il viaggio non ha mai lo stesso ritmo: ora è lento, fino a far addormentare i viaggiatori; ora furioso e velocissimo.
Sterne cominciava a scrivere la prima frase, e «per la seconda si affidava a Dio onnipotente o al caso»: coglieva al volo l’idea, talvolta addirittura prima che essa lo sfiorasse. Stava al tavolo o disteso sul letto, indossando un farsetto viola e un paio di pantofole gialle, senza parrucca e senza berretto. Se talvolta si ritrovava «con una vena fredda, vuota di metafore», questa aridità non durava mai a lungo, perché l’ispirazione tornava sempre a visitarlo allegramente.
Ma scrivere un libro era molto più difficile che risolvere un arduo problema di geometria. Ora il libro era una musica: ora una recitazione teatrale, sotto il segno di Garrick: ora un difficilissimo gioco di carte; stava seduto a un tavolo e accanto a lui e dietro le sue spalle c’era il diavolo. Quasi sempre il libro era una conversazione con un lettore visibile o invisibile e al tempo stesso una enciclopedia - divisa in frammenti minimi, minimissimi, quasi invisibili.
Sterne era posseduto da due sentimenti opposti. Da un lato, il suo libro avrebbe potuto essere diverso trasformandosi, come «un’opera rapsodica», in una forma eventuale e imprevedibile. «Quando uno si mette a scrivere - insisteva - non immagina neppure quali intoppi e dannati ostacoli dovrà incontrare sul suo cammino». Non si può progettare e calcolare niente: o, almeno, niente di preciso. Lo scrittore ha un gran numero di versioni e tradizioni diverse da raccogliere, decifrare, conciliare.
Alcuni capitoli del libro non contengono «un bel nulla»: altri sono progettati, accarezzati, ma non scritti; altri ancora non vengono compresi da nessuno, nemmeno dall’autore. La prefazione appare - improvvisa, inattesa - a metà del libro. Bisogna rinviare incessantemente le parole verso la fine, che però non esiste. E poi, chi ha veramente scritto il Tristram Shandy? Sterne ripete che non l’ha scritto lui. Ma chissà chi: forse l’intelligentissimo padre di Tristram: certo un altro - quell’altro - che Sterne portava dissimulato, nelle oscure e trasparenti profondità della sua natura.
Come diceva Nietzsche, non sappiamo mai cosa Sterne pensasse: certo discorreva su qualsiasi argomento: giungendo, come Raimondo Lullo, a tale perfezione «nell’usare i verbi ausiliari, che in poche lezioni riusciva a insegnare a un giovane a discorrere con proprietà su qualsiasi argomento»: pro e contro, dicendo e scrivendo tutto quello che si poteva, senza cancellare una sola parola. Sorrideva, rideva: convinto che «ogni volta che uno sorride - ma ancor più quando ride -, ciò aggiunge qualcosa a questo frammento di vita». Tutti i personaggi ridono di tutte le cose, ma sopratutto di sé stessi, con un riso unico, che parodizza lo stesso riso. Poi all’improvviso, come Cervantes, diventano gravi: o piangono con lacrime di cui non riusciamo a comprendere il significato - lacrime assolute che splendono a tratti sulle loro ciglia. Chi potrebbe essere più sensibile di loro?
Come Rousseau, Sterne amava questa parola, sensibile; e la tenera e complicata compassione, e l’avvolgente malinconia, che Dürer aveva rappresentato mirabilmente nella figura di un angelo. Poi, all’improvviso, Sterne scriveva contro la malinconia, «sollecitando con una risata il diaframma ad alzarsi e abbassarsi più frequentemente». Infine, si compiaceva di giochi osceni: stringeva l’occhio all’osceno; tingeva ogni riga, in modo quasi ossessivo, di allusioni erotiche. Ciò che contava era soprattutto l’arte della vibrazione - le vibrazioni nate nel «delicatissimo sistema dei nostri nervi», nel grande «Sensorio dell’uomo». Lì i nervi, incredibilmente sottili ed elettrici, colgono il movimento di un cappello che cade o il fruscio improvviso di una seta: ciò che deve ancora nascere - capricci, fantasmi vaganti, che non hanno ancora raggiunto la coscienza di nessuno.
Sterne conosceva perfettamente la tradizione che aveva alle spalle. Come Montaigne, amava Socrate . Gli importava poco delle idee di Socrate e di Platone: o non le amava, per lui le Idee che per Platone stavano lassù, nell’alto dei cieli, erano vibrazioni nervose. Gli piaceva Socrate perché andava in giro, oziava, vagabondava, interrogava, chiacchierava insaziabilmente degli eventi più futili (o più sublimi): gli piaceva per la sua incantevole naturalezza e il suo dilettantismo. Adorava gli Essais di Montaigne, il suo vero maestro. Lì le cosiddette idee erano «fantasticherie», «chimere», mostri fantastici, grotteschi, linee tortuose, ghirigori, riccioli, grovigli, salti di tema, divagazioni, contraddizioni. Il Tristram Shandy è gli Essais trasformato in romanzo: mobilissimo, inquieto, pieno di variazioni e di vagabondaggi.
L’altro grande modello di Sterne fu il Don Chisciotte di Cervantes. Adorava «l’impareggiabile cavaliere della Mancia, con tutta la sua follia, più del più valente eroe dell’antichità, tanto che sarebbe andato chissà dove pur di incontrarlo di persona». Per Sterne la felicità dell’umorismo cervantiano dipendeva dal fatto che descriveva eventi futili e insignificanti con tutta la gravità di quelli importanti. A volte Sterne ripeteva alla lettera frasi di Montaigne, del Don Chisciotte, o dell’Anatomia della malinconia di Robert Burton, «torcendo o sbrogliando sempre la stessa corda». Era uno sfrontato plagiario: eppure, proprio plagiando riusciva a trovare, come avrebbe detto Borges, la propria natura irripetibile.
Sebbene vivesse sopratutto di libri, spesso Sterne rappresentava eventi storici reali, come la guerra tra la Spagna e l’Impero: le battaglie accadute, qualche decennio prima, in Francia e nelle Fiandre, a Dunkerque, o a Amberg, o Landen, o Limburg, o Bonn, o Drusen, o Dendermonde. Il mitissimo zio Toby, a volte, anticipava la storia: adorava la guerra; e lui e il fedele caporale Trim riproducevano tutto ciò che era accaduto nelle Fiandre e in Francia nel campo di bocce vicino a casa. Così la storia diventava minuscola, e veniva parodiata e ridicolizzata.
Spesso Sterne parlava dell’Inghilterra. L’amava perché era un paese inquieto, bizzarro, sregolato, eccentrico: il luogo della Fortuna - dunque il paese migliore della terra, dove era felice di vivere. Solo in Inghilterra riusciva ad abitare nel suo vero luogo: l’altrove.
Per dizionario Oxford ’post-verità’ è parola del 2016
Scelta fatta sullo sfondo di elezioni Usa e referendum Brexit
di Redazione Ansa *
LONDRA E’ ’post verità’, in inglese ’post-truth’, il neologismo dell’anno secondo gli esperti di Oxford Dictionaries. La scelta e’ quella di un’espressione che secondo un comitato di esperti ha segnato profondamente la scena politica internazionale durante il 2016, con riferimento in particolare alle polemiche legate alla campagna referendaria britannica sfociata a giugno nella vittoria della Brexit (il divorzio dall’Ue) e a quella americana per le presidenziali appena culminata nel trionfo di Donald Trump.
L’annuncio è arrivato in queste ore, riporta la Bbc: ’post-truth’ ha prevalso in una short list finale che comprendeva anche termini come ’Brexiteer’ (sostenitore della Brexit). Si tratta, ha sentenziato Casper Grathwohl, fra i curatori dei prestigiosi dizionari editi a Oxford, "di una di quelle parole che definiscono il nostro tempo".
Il dizionario della stupidità di Odifreddi
di Marco Grimaldi (Le Parole e le Cose, 9 ottobre 2016)
Su Dante e Odifreddi ho già scritto qualche tempo fa (e non so se almeno uno dei due gradirebbe ritrovare così spesso il proprio nome accanto a quello dell’altro). Ma Odifreddi è recidivo e ammette difficilmente di avere torto. Oppure si riscrive senza pensarci troppo. O ha un ghost writer che lo riscrive di continuo. Nel Dizionario della stupidità appena pubblicato da Rizzoli (sottotitolo: Fenomenologia del non-senso della vita), alla voce Dante, si legge infatti (p. 79):
In questa paginetta Odifreddi condensa una tesi già esposta in Il giro del mondo in 80 pensieri (Rizzoli, 2015, pp. 285-89): Dante non ha scritto gli ultimi canti della Commedia; li hanno scritti i figli e hanno finto di averli ritrovati per non guastare il brand “Dante” che già allora si rivelava redditizio.
In Il giro del mondo Odifreddi se la prendeva con il poeta: dato che gli ultimi canti non li ha neanche scritti lui, perché continuare a leggerlo a scuola? Meglio passare a Newton e Galileo che almeno ci insegnano il pensiero scientifico. Nel Dizionario se la prende con gli stupidi, cioè quelli che non accettano la sua tesi. La domanda è quindi retorica: secondo Odifreddi è stupido pensare «che egli avesse nascosto gli ultimi canti [...], e che essi siano stati ritrovati in seguito a un sogno», proprio come è stupido pensare che il Deuteronomio l’abbia scritto Mosè. E a rigor di logica Odifreddi, che logico è, avrebbe anche ragione.
Il problema - che è poi un problema classico dell’applicazione della logica astratta alla realtà concreta - è che quelle non sono le due sole risposte possibili. Prima di tutto Boccaccio, che è l’unico appiglio per la tesi di Odifreddi, non è una fonte totalmente affidabile. La storia del ritrovamento in sogno non è per forza vera ed è difficile capire perché Boccaccio la riferisca: forse semplicemente perché era una bella storia che aveva sentito in giro.
La cosa più stupida da pensare è che si debba scegliere tra quelle due alternative; è infatti molto meno stupido ritenere che il racconto sia stato inventato da Boccaccio o dalla sua fonte e che Dante abbia davvero concluso la Commedia, dato che gli ultimi canti sono perfettamente integrati e coerenti con il resto dell’opera. E che i suoi figli, che quando scrivono in versi sono poeti infinitamente meno bravi del padre, non abbiano avuto alcun ruolo nella sua realizzazione, mentre sappiamo con certezza che ne hanno avuto uno, fondamentale, nella divulgazione e nell’opera di interpretazione del poema.
Tuttavia, la Commedia non è l’unica cosa che conta: il vero motivo per cui vale la pena preoccuparsi dell’opinione di Odifreddi su Dante è che questo Dizionario della stupidità, assieme a gran parte dei suoi libri recenti, è un buon esempio di cattiva divulgazione. E sarebbe fin troppo facile sostenere che Odifreddi faccia cattiva divulgazione perché è stupido a sua volta.
Ma che cos’è uno stupido? Secondo Carlo Maria Cipolla, che ha scritto un famoso libretto intitolato Le leggi fondamentali della stupidità umana, lo stupido è chi causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.
Odifreddi trae certamente un vantaggio scrivendo dei libri che qualche copia dovranno pur venderla se Rizzoli continua a stamparglieli. Quindi non è uno stupido (anche se qualche tempo fa si è fatto fregare dalla Zanzara). Cipolla identificava però altre tre categorie, disponendole assieme allo Stupido su un diagramma: lo Sprovveduto, l’Intelligente e il Bandito. L’idea era che non esistano né uomini perfettamente stupidi, sprovveduti o intelligenti né dei perfetti banditi, ma che le categorie siano fluide e la realtà sia più complessa. Ciò non toglie che ciascuno di noi tende ad assomigliare più all’una che all’altra categoria.
Se Odifreddi non è uno stupido, non è neanche uno Sprovveduto, che per Cipolla è chi compie un’azione e ne ricava una perdita mentre nello stesso tempo procura un vantaggio a qualcun altro. Restano l’Intelligente e il Bandito. Il primo è chi compie un’azione dalla quale ottiene un vantaggio e nello stesso tempo procura un vantaggio anche a qualcun altro.
Odifreddi vende e Rizzoli ne trae vantaggio: se tutto finisse lì, potremmo classificarlo tra gli intelligenti. Ma il fatto è che Odifreddi, oltre a creare un vantaggio per sé e per il suo editore (e forse si possono far coincidere questi due interessi), allo stesso tempo danneggia qualcun altro. Questo qualcun altro sono tutti quelli che in varie sedi - a scuola, all’università, in televisione, sui giornali - cercano di parlare di cose serie come Dante, Galileo e Darwin in modo semplice ed esatto, ma sono soprattutto i lettori di Odifreddi, i quali credendo di trovare nel Dizionario della stupidità un elenco di cose stupide delle quali ridere, trovano un catalogo di stupidaggini nelle quali rischiano di credere. E questa (chi compie un’azione dalla quale trae vantaggio causando una perdita a qualcun altro) è la definizione del Bandito.
’Rischio oligarchia’. ’Offende Italia’, duello Zagrebelsky-Renzi
Il premier: ’Riforma dà credibilità. Ho accettato di fare un passo indietro sull’Italicum. Vorrei cambiare sistema capilista’
Renzi: ’Come Pd prenderemo iniziativa di modifica Italicum’
"Io ho accettato di fare un passo indietro"
di Serenella Mattera (ANSA, 01 ottobre 2016, 10:49)
ROMA La "palude" da superare e la credibilità da difendere, per Matteo Renzi. Il "rischio per la democrazia" e lo spettro di una "oligarchia", per Gustavo Zagrebelsky. E’ una visione "culturale" di fondo inconciliabile, a separare profondamente il presidente del Consiglio e il professore. I due capifila del Sì e del No al referendum costituzionale si confrontano per la prima volta nello studio tv di La7. Ed è subito scontro, in un continuo botta e risposta, tra battute, punzecchiature e divergenze inconciliabili nel merito. Le oltre due ore di confronto si aprono con un insolito scambio di ruoli: Renzi difende i punti cardine di una riforma "voluta dal Parlamento e non solo da me", Zagrebelsky esordisce con una punzecchiatura.
"Sono contento che abbia ripensato ai discorsi su parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo con uno di loro...", sorride il costituzionalista. E il premier si indigna: "Non mi sono mai permesso di chiamarla parruccone. Io ho studiato sui suoi libri: prof, venga al merito". Da qui in poi, inizia uno scambio che passa spesso (e all’inizio Renzi se ne lamenta) dal piano costituzionale a quello politico.
Anche perché, afferma Zagrebelsky: "Le istituzioni vanno calate nel contesto. La Costituzione di Bocassa, dittatore centroafricano, è molto simile a quella Usa". "Lei dice che la riforma costituzionale non tocca in nessun punto i poteri del presidente del Consiglio. Ma molti di noi sono preoccupati per rischi di derive autoritarie o di concentrazione al vertice delle istituzioni: rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia", attacca il costituzionalista. E Renzi ribatte: "L’appello di ’Libertà e Giustizia’ da lei firmato, che parla di svolta autoritaria, offende l’Italia. Tra l’altro, ricorda il premier, Zagrebelsky ha firmato anche l’appello dei 56 costituzionalisti che "dice esattamente il contrario". "Non è vero. E io comunque non mi sono preparato sulle sue contraddizioni...", è la replica.
Il rischio, sottolinea l’esponente del No, non è il governo Renzi ma "quelli che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti": mentre in Europa avanzano le estreme destre "dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie". Il leader Dem però sul punto dell’Italicum ha un asso nella manica: "L’Italicum non è un rischio e il referendum non è sulla legge elettorale ma come Pd prenderemo un’iniziativa per cambiarla e togliere ogni dubbio".
Il prof però non si fida: "Lei diceva che era la legge più bella del mondo, ora i sondaggi dicono che al Pd al ballottaggio perde e volete cambiare, ma non basta: serve un accordo sul come". Non solo l’Italicum, però. Lo scontro è anche sul nuovo meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, sulle competenze e sui poteri del nuovo Senato. "Le garanzie aumentano - afferma Renzi - più poteri alla Corte costituzionale, quorum più alto per l’elezione del presidente della Repubblica e statuto delle opposizioni. Invece il presidente del Consiglio non ha poteri in più". "Se lo Statuto delle opposizioni lo scrive la maggioranza - replica Zagrebelsky - dov’è la democrazia? E la maggioranza potrà eleggersi da solo il presidente della Repubblica".
"Dico che c’è un pericolo per la democrazia pensando non al suo governo ma ai governi che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti. Dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie e bilanciato", rilancia Gustavo Zagrebelsky . "Lei ha sostenuto - prosegue - che l’Italicum era la legge più bella del mondo e sarebbe stata invidiata da tutti. Invece poiché cambiano le condizioni e non siamo più in un sistema bipolare ma tripolare e i sondaggi dicono che quando il Pd si presenta contro qualcun altro vince qualcun altro, il ballottaggio non è più nel cuore del Pd, forse è nel suo...". "E la rottura del Nazareno fa sì che venga imposta da un parte e il nostro è un Paese diviso in due, il suo partito è diviso in due". Ma il presidente del Consiglio ribatte colpo su colpo, citando anche il maestro di Zagrebelsky, Leopoldo Elia: "La riforma semplifica, a partire dai poteri delle Regioni. E dire che taglia i costi non è demagogia. I poteri del premier non aumentano: non posso neanche rimuovere un ministro. La sua parte culturale si è sempre preoccupata di andare contro Berlusconi ma adesso lei ora vota No come Berlusconi. Noi abbiamo smosso la palude, perché non volete parlare di futuro? Un No rischia di pregiudicare il nostro recupero di credibilità in Europa e nel mondo. Quest’occasione perduta non tornerà per i prossimi venti anni".
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)
«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi semina[ria]li e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.
Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».
L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.
Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».
Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.
Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.
A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.
Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.
Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
(federico la sala)
Piergiorgio Odifreddi, intervista Huffpost: "Il 90 per cento degli italiani è stupido"
di Redazione (l’Huffington post, 25/09/2016)
Odifreddi, nel suo dizionario c’è anche la voce: Matteo Renzi. Perché?
Se vogliono conquistare voti, i politici devono dire alle persone ciò che si vogliono sentir dire. Tendenzialmente, delle stupidaggini. E Matteo Renzi è l’erede perfetto di Berlusconi: il Cavaliere ha imparato a farlo cantando sulle navi, lui esordendo alla Ruota della fortuna.
Ma politicamente?
Renzi ha realizzato il programma berlusconiano, andando addirittura oltre con il Jobs act, che ha dissolto le tutele dello statuto dei lavoratori.
Dedica un lemma anche a Grillo.
Grillo ha iniziato a dire scemenze prima di cominciare a fare politica. Per dire: sosteneva che l’AIDS era una bufala, che l’OGM ammazza, che le radiazioni dei cellulari cuociono le uova. Ma lui ci crede. È questa la grande differenza tra Grillo e un politico di professione: che il politico deve dire delle cretinate per racimolare voti, lui le dice per convinzione.
Eppure ha un gran consenso.
Non voglio dire che il suo pubblico sia fatto di deficienti. È una parola brutta. Dico: ingenui. Ma rimane il fatto che sono persone che credono alle scie chimiche e fanno battaglie contro i detersivi. È la parte della società con meno mezzi culturali per giudicare.
Possibile che siano tutti così?
Bertrand Russell diceva che i politici hanno nei confronti degli elettori un vantaggio: che gli elettori sono più stupidi di loro. E giudicare Grillo, per me, è troppo difficile: mi è così distante che lo considero un minus habens. Quando lo sento, mi viene la pelle d’oca. Dicono che i suoi siano argomenti di pancia. Io fatico a considerarli proprio argomenti.
A Palermo, però, molte persone sono andate per ascoltarlo alla Festa nazionale dei 5 stelle.
Il novanta per cento delle persone è stupido. Quindi, considerato che siamo 60 milioni, in Italia ci sono almeno 54 milioni di stupidi: non credo ve ne siano di più a quella festa.
E gli altri dove vanno?
Vanno anche alle feste dell’Unità. Come si fa a pensare che dopo due anni di governo Renzi quella festa abbia un senso? Almeno, per decenza, cambiassero nome.
Non le sembra di sottovalutare? Il partito democratico governa il Paese, i Cinque stelle hanno conquistato due grandi città alle ultime elezioni.
C’è una differenza enorme tra le due città: a Torino, Chiara Appendino è il prodotto di ciò che i 5 stelle stessi chiamano poteri forti; a Roma, invece i poteri forti li hanno contro.
Può essere più esplicito?
Dietro Appendino c’è la Fiat. Appena aletta, John Elkan è subito corso a incontrarla. Viceversa, Virginia Raggi è dovuta recarsi in visita dal Papa.
C’è solo questa differenza tra le due?
No, Appendino ha le qualità per governare, Raggi le ha solo per vincere le elezioni.
Scrive: "E’ venuto il momento di tornare a considerare i banchieri paria della società e reietti da Dio".
Nel Medio Evo, era considerato usuraio chiunque prestasse denaro, a qualsiasi tasso. Oggi il fastidio per i banchieri è tornato a essere forte. Quando la gente vede i posti di lavoro che evaporano, le tutele che si dissolvono, e dall’altra gli aiuti di stato per tenere in vita istituti che hanno fallito, s’incazza.
Però è difficile vivere in un mondo senza banche.
Certo che si può vivere in un mondo senza banche. Per metà del secolo scorso, l’Unione Sovietica ne ha fatto a meno.
Non è andata benissimo, però.
Non per quel motivo. Mi domando perché non si possano nazionalizzare le banche che vengono salvate. Perché è diventata una bestemmia?
In Europa, nazionalizzare è contrario alle regole dell’Unione.
È per questo che l’UE suscita l’astio dei suoi cittadini: perché è solo un’unione economica.
Nel suo libro, mostra di preferire Ratzinger a Papa Francesco. Perché?
Da ateo, con Benedetto XVI ho avuto un dialogo. Mi è interessato leggere le cose che scriveva, Ratzinger aveva una profondità di pensiero. La statura intellettuale Papa Francesco lascia perplessi. Quando parla, mi cadono le braccia. La misericordia, il vogliamoci bene, l’amore: sono cose talmente banali. Chi può essere contrario?
È facile criticare l’Islam allo stesso modo in cui lei, ora, ha fatto con il Cattolicesimo?
Penso che, in realtà, sia molto più facile criticare l’islam che il Cristianesimo. Farlo, è politicamente corretto. Ci sono partiti politici che fanno propaganda sull’equazione musulmano uguale terrorista. E l’opinione pubblica è sempre sul chi va là.
Dimentica quello che è successo in Francia per le vignette di Charlie Hebdo su Maometto?
La diversità è che i cristiani non vengono sotto casa ad aspettarti se li prendi di mira con la satira. Ma ricorda la parodia di Ratzinger fatta da Crozza? A un certo punto ha dovuto smettere di farla. E potrei fare altri esempi. Nei risultati, non è molto diverso da quello che accade con l’Islam.
Lei è stato compagno di classe di Flavio Briatore. Ha letto della polemica sul turismo al sud, secondo lui poco sensibile ai bisogni dei ricchi?
Non saprei dire se è così. So che con Briatore studiavo al geometra. Lui fu bocciato al secondo anno, poi lasciò e fece una scuola privata per recuperare tutti gli anni in uno. Credo sia la dimostrazione che il detto popolare - "ultimi a scuola, primi nella vita" - è vero.
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Ecco il suo "decalogo liberale" uscito in un articolo pubblicato sul New York Times Magazine nel 1951:
1 Non sentirti assolutamente certo di nulla.
2 Non pensare che valga la pena procedere nascondendo la realtà dei fatti, perché è sicuro che essa verrà alla luce.
3 Non cercare di scoraggiare la riflessione perché è sicuro che ci riuscirai.
4 Quando sei confrontato da una opposizione, anche se dovesse trattarsi di tuo marito o dei tuoi figli, cerca di superarla con la discussione e non con l’imposizione, perché una vittoria ottenuta con la forza è fittizia e illusoria.
5 Non avere alcuna venerazione per l’altrui autorità, in quanto si possono sempre trovare altre autorità ad essa contrarie.
6 Non utilizzare il potere per sopprimere opinioni che ritieni dannose, perché così facendo saranno le opinioni a sopprimere te.
7 Non aver paura di essere eccentrico nelle tue idee perché ogni idea ora accettata è stata una volta considerata eccentrica.
8 Trova più gusto in un dissenso intelligente che in un consenso passivo, perché, se apprezzi l’intelligenza come dovresti, nel primo caso vi è una più profonda consonanza con le tue posizioni che non nel secondo.
9 Sii scrupolosamente sincero, anche se la verità è scomoda, perché è ancora più scomodo il tentare di nasconderla.
10 Non provare invidia per la felicità di coloro che vivono di illusioni, perché solo uno sciocco può pensare che in ciò consista la felicità.
una straordinaria donna moderna
(Dora Russel Ipazia e la guerra tra i sessi)
di Francesca Magni ("Letto fra noi", 29 gennaio 2013)
«Se volessimo aggiungere qualcosa alle conquiste di coloro che vennero prima di noi, dovremmo dire che per noi adesso il corpo non è più un semplice contenitore per la mente, ma quel tempio di gioia e di estasi che, se lo vorremo, già racchiude il nostro futuro. Il compito fondamentale per il femminismo moderno, per me, è dunque quello di accettare e proclamare il sesso. Di seppellire per sempre la menzogna che per troppo tempo ha corrotto la nostra società, quella secondo la quale il corpo non è che un impaccio per la mente e che il sesso è solo un male necessario alla sopravvivenza della specie. Comprenderlo, donargli dignità e bellezza, conoscerlo anche su base scientifica, in luogo dell’istinto brutale e dello squallore, credo sarà la chiave di volta a colmare la breccia fra Giasone e Medea» (pag, 38).
Rompo il lungo silenzio su questo blog - e mi scuso di questo silenzio, e vi ringraizio per non esservene andati - con una citazione.
Vi invito a rileggere con una domanda: quando è stata scritta?
Difficile indovinare che parole così moderne siano uscite dalla penna di una donna nel 1925 ["Una stanza tutta per sè" di Virginia Woolf, è del 1929 - fls].
Dora Russell, seconda moglie del filosofo Bertrand Russell, ci regala cento pagine colme di saggezza senza tempo, di impegno politico e civile, di riflessioni mai abbastanza assimilate su una parità fra i sessi che nasca dal riconoscere una verità: siamo, uomini e donne, uguali a cominciare dal bisogno naturale di una vita sessuale che non reprima gli istinti ma sappia guidarli con educazione e intelligenza. «Gli amanti sanno che attraverso l’intesa sessuale ciascuno comprende meglio le qualità della mente dell’altro» dice, ed è una consapevolezza che non a tutti è dato raggiungere.
È un testo imprescindibile che mette una parola di verità su tutte le ciance da guerra dei sessi. Un libro da regalare a tutti, uomini e donne, a chi ha vissuto gli anni del femminismo e a chi viene dall’onda di ritorno della generazione successiva. A questa, alla quale appartengo, dedico un brano su cui non si è ancora riflettuto abbastanza.
«C’è dunque qualcosa di sbagliato nell’educazione delle donne, e nel caso che cosa? Penso proprio che dobbiamo rispondere affermativamente. E la ragione sta nel senso di inferiorità inculcato nelle donne da tanta oppressione, e il risultato inevitabile fu che il loro primo obiettivo, mentre combattevano dal basso, fosse quello di provare che valevano tanto quanto gli uomini. Il secondo fu invece di dimostrare che potevano spassarsela tranquillamente anche senza gli uomini. Esattamente come il lavoratore, avanzando nella scala sociale, cerca di provare a se stesso di essere un borghese. Entrambi gli sforzi sono sbagliati. Ciascuna classe ed entrambi i sessi hanno qualcosa di unico da dare al progresso, alla conoscenza, al pensiero di cui la comunità viene privata con questo scimmiottamento».
* Scritto da: Francesca Magni
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
GLI SCIENZIATI E IL PAESE ...
Il Paese e gli scienziati
di Elena Cattaneo
Docente all’Università Statale di Milano e senatore a vita
(la Repubblica, 24.01.2016)
Q UESTO non è più un Paese per scienziati, malgrado il più o meno glorioso passato. Non lo è più se un candidato a sindaco di Milano (e attuale vice) si vanta per aver sostenuto la battaglia contro la “famosa direttiva europea sulla vivisezione”. Non sapendo che il termine “vivisezione” descrive una pratica estranea alla Ricerca; che senza sperimentazione animale la medicina sarebbe a uno stadio tribale.
CHE la citata direttiva è frutto di anni di dialogo tra esperti e associazioni animaliste per trovare il miglior bilanciamento tra diverse aspettative; che Milano e zone limitrofe sono un importante distretto biomedico del Paese, e che non abbiamo bisogno di ulteriori motivi per accrescere la fuga dei cervelli, mortificando l’innovazione.
Non è un Paese per scienziati se servono mesi e mesi perché il ministero della Salute approvi i progetti di sperimentazione animale (la norma prevede 40 giorni), facendo ammuffire idee e frustrando capacità costrette a competere col mondo zavorrate dalle proprie istituzioni; e se l’apertura dei bandi di ricerca Prin (del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) è affidata a procedure che sembrano quelle della lettura dei tarocchi tanto sono inaffidabili oltre che saltuarie nei tempi e disarticolate nelle valutazioni; e se il ministro delle Politiche agricole millanta di “andare oltre” gli Ogm e assegna qualche milione ai suoi enti (briciole, a cui nessuna libera ricerca universitaria potrà direttamente accedere) a patto che le idee rimangano chiuse nei laboratori, senza l’indispensabile verifica in campo aperto; lo stesso ministro che benedice una pratica agricola (la biodinamica) basata su astrologia e altre superstizioni.
Non è un Paese per scienziati se si commina il carcere a ricercatori che derivino da embrioni umani “sovrannumerari abbandonati” cellule staminali, e se si concepiscono bandi di ricerca che escludono, immotivatamente, progetti che utilizzino quelle cellule, ma si rimane ipocritamente indifferenti all’importazione (legale) delle stesse cellule dall’estero. Non lo è se si impone per via giudiziaria una presunta cura (il “metodo Stamina”), la si avalla per legge, salvo poi scoprire - come sostenuto fin dall’inizio da tutti gli scienziati - che era una tragica truffa. E se, pochi mesi dopo, si ripete l’errore di metodo cercando di finanziare una specifica sperimentazione clinica, ancora “per legge”.
Non è un paese per scienziati se questi sono considerati fantomatici untori di manzoniana memoria e li si indaga con l’ipotesi di aver deliberatamente introdotto un batterio (temuto ovunque nel mondo) che sta facendo strage di ulivi nel Salento. Quegli studiosi cercavano di capire il problema. Le regole dell’Ue prescrivono con rigore e esperienza cosa fare (e prontamente adottate in Francia sono state efficaci), ma una procura della Repubblica dice che l’esistenza di ulivi “ancora vivi pur se positivi per la Xylella” è un motivo che avvalora le tesi accusatorie. Un po’ come dire che, siccome alcuni fumatori non si ammalano di cancro al polmone, allora il fumo è innocuo.
E cosa dire di un Paese che persegue un modello di sviluppo improvvisato, investe un misero 1,2% del Pil in ricerca e sviluppo e impiega 4,6 ricercatori per mille occupati? Per inciso, le medie Ue sono circa il doppio.
Ma se questo non è un Paese per scienziati, cosa facciamo noi perché torni ad esserlo? Quanta responsabilità abbiamo nell’accettare che la Scienza sia squalificata, processata, manipolata, svenduta, sotto-finanziata?
Di certo non si promuove la Scienza - anzi la si tradisce - diffondendo dati manipolati. Né aiuta la Scienza chi va alla ricerca di finanziamenti top- down, ad hoc per il proprio orto. “Crepi quello degli altri”, anche se migliore. O chi è alla ricerca di amicizie e scorciatoie politiche, cancellando ogni logica valutativa su basi comparative, spogliando il Paese degli ultimi barlumi di razionalità e integrità necessari per provare a ricostruire una nuova politica del finanziamento pubblico per la Ricerca.
Una politica capace di prevedere un unico meccanismo competitivo e affidabile di erogazione di ogni singolo euro (un’Agenzia per la Ricerca, come chiede il Gruppo 2003) con bandi aperti a tutti, con tutti allo stesso nastro di partenza, neutralizzando chi s’approfitta del frazionamento delle fonti di finanziamento, dell’incompetenza degli erogatori, o è prono alla necessità propagandistica del decisore politico. Andrebbe impedito che un ente possa ricevere decine di milioni dallo Stato per accantonarli in depositi infruttiferi per anni, mentre i laboratori agonizzano e i nostri dottorandi (personale laureato) percepiscono un salario di mille euro al mese.
Non aiuta la Scienza quella parte di comunità scientifica che sceglie di tacere, anche se avrebbe gli argomenti per dire “no”, e si limita a “non esistere” per la società pur di non pagare il costo e la fatica d’essere sgradevole, scomoda o pressante. Anche quando i fatti lo richiedono, preferendo il quieto vivere del “buoni con tutti”, “per tutte le stagioni”, in fondo “non si sa mai, ci possono essere briciole anche per noi”.
Scienza, Ricerca e Accademia hanno un ruolo sociale. Formano generazioni libere, preparate e critiche. Non difendere questa libertà (e integrità decisionale) non lascia alibi. Tantomeno a chi guarda dolente a un Paese in compiaciuta contemplazione delle vestigia del passato, per nascondere che non sa progettare il presente e improvvisa sul futuro. La Scienza è il miglior strumento di cui disponiamo per comprendere il mondo e le opportunità offerte da un presente complesso, fragile e competitivo. Ciascuno dovrebbe capire qual è il proprio compito, il personale imperativo sociale, e impegnarsi a metterlo in pratica. Senza sconti per nessuno. Nemmeno per chi si professa scienziato, perché la Scienza può essere cosa discorde da loro e non perdona.
Logica e democrazia
Pensieri basati sui fatti
Se non è empirica la filosofia rischia di essere vaga. A scuola bisogna insistere sulla capacità di argomentare
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
I filosofi stanno discutendo abbastanza su cosa significhi oggi fare filosofia. È vero che chi scrive si identifica in una posizione scientista, per cui tutto quel che esiste ed è conoscibile è accessibile alla scienza e ai suoi metodi. Penso, in sostanza, che non esista in linea di principio niente di quel che accade che non possa essere compreso usando procedure empiriche controllate, se le nostre strutture cognitive riescono a concettualizzare e a interrogare sperimentalmente i processi che lo producono.
Questa è l’unica posizione filosofica per me ragionevole. Tutto il resto, come diceva Francis Crick, equivale a fischiare nel buio per farsi coraggio. Non penso però che la filosofia non serva a niente. Anzi. Oltre a produrre, insieme alla religione o alla letteratura o all’arte, suoni rassicuranti per chi ha paura del buio, può far capire meglio come funziona la scienza, togliendo di torno illusioni e autoinganni che ostacolano una comprensione critica e una disponibilità psicologica verso le conoscenze più affidabili che produciamo, cioè quelle scientifiche.
Un aiuto prima di tutto per i giovani, che invece di perdere tempo sul pensiero di tanti filosofi che hanno detto cose sbagliate, potrebbero acquisire salutari elementi di storia della scienza e di epistemologia scientifica, senza i quali non si capisce il mondo nel quale viviamo.
Davvero non si capisce, non è retorica! Le false credenze e le diffidenze verso la scienza e il metodo scientifico, così diffuse in Italia, sono la conseguenza anche del fatto che non sono chiari gli obiettivi dell’insegnamento scolastico: se non si aiutano i giovani a correggere l’epistemologia ingenua con cui approcciano la realtà, non distingueranno da adulti la scienza dalla pseudoscienza.
Oggigiorno non si può essere cittadini pienamente in grado di esercitare i diritti costituzionali se, per esempio, non si sa cosa è una probabilità, quali componenti teoriche entrano nella definizione di rischio, come si stabilisce che un dato scientifico è corretto o non falsificato, come funziona una sperimentazione clinica, cosa sono i bias cognitivi ed emotivi, etc. -Il fatto tragico è che questi concetti sono estranei in primo luogo a chi è impegnato a fare leggi, ad applicarle o ad amministrare la giustizia.
L’esperienza più shoccante che si prova consultando le legislazioni anglosassoni è la chiarezza e l’organizzazione logica delle argomentazioni. Raramente sono scritte in modi illogici, per confondere le idee o non far capire cosa c’è scritto, come le leggi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Se «siamo un paese che odia la scienza», come denunciava lunedì scorso Paolo Mieli sul Corriere della Sera, è perché a cominciare dalla classe politica e passando per quasi tutti gli intellettuali che fanno tendenza, non si trova qualcuno che non storca il naso o non dica inesattezze quando si usa o si propone di usare un metodo scientifico per stabilire come stanno determinati fatti.
Per esempio quando si utilizzino i risultati della ricerca sperimentale per sostenere che mentono coloro i quali dicono che i vaccini possono causare l’autismo e sono più rischiosi della malattie che devono prevenire, che gli Ogm sono sicuri per l’ambiente e la salute nonché un toccasana per l’agricoltura, che le staminali mesenchimali non hanno curato alcuna malattia, che Xylella è un vero patogeno e i suoi effetti possono essere stabiliti e contrastati solo con metodi scientifici, etc.
Non è pensabile che un paese economicamente sviluppato possa rimanere tale e possa allevare un élite politica e intellettuale in grado di renderlo internazionalmente competitivo se non cambia radicalmente la qualità della cultura scientifica. Un risultato che non si ottiene solo incrementando la divulgazione o comunicazione della scienza, e tantomeno trascinando la scienza in controversie politiche, filosofiche o ideologiche. Va detto che se siamo a questo punto anche la comunità scientifica e il mondo accademico hanno pesanti responsabilità, che non sono soltanto l’attendismo, il servilismo e l’opportunismo che hanno caratterizzato i rapporti con la politica sin dall’ultimo dopoguerra più o meno.
C’è un problema culturale per cui non sono solo i cittadini profani che avrebbero bisogno di imparare un po’ di filosofia. Perché gli scienziati, che con disinvoltura riescono sempre più spesso a scavarsi la fossa con le loro mani, scadono frequentemente nei più triti luoghi comuni e gestiscono o furbescamente o ingenuamente le interazioni con la politica o con la magistratura.
Benché l’apprendimento della scienza dovrebbe averli immunizzati dalle trappole delle idee di senso comune e delle preferenze ideologiche, alla prima occasione per dar spazio a qualche ambizione di potere o bisogno narcisista si prestano a fare confusione e alimentare il pregiudizio che “gli scienziati sono divisi”, quindi tanto vale ignorarli o usarli come ci fa comodo.
Gaston Bachelard diceva che la scienza del suo tempo non aveva filosofi all’altezza del compito. Oggi si possono fare molti esempi che gli scienziati non sono spesso all’altezza della scienza che producono.
È triste leggere articoli di scienziati e accademie scientifiche che s’arrampicano sugli specchi per sostenere che le più recenti tecnologie del genome editing sono naturali o intrinsecamente diverse da quelle con le quali si facevano gli ogm, insultando la logica e l’epistemologia della biologia - è chiaro che non sanno nulla di teoria evoluzionistica, altrimenti non farebbero ragionamenti per i quali i giganti del pensiero genetico-evoluzionistico si rivoltano nella tomba. Tutto per rincorrere l’ignoranza dei politici che chiedono loro di abiurare ai principi etici della scienza - dire come stanno i fatti - se vogliono usare queste nuove tecnologie. Ma solo in laboratorio, dice l’improbabile ministro dell’agricoltura nostrano.
Ecco qualche compito utile per la filosofia. Rendersi conto che il sapere che vale amare è quello scientifico, e quindi lavorare non solo per farlo entrare meglio nella cultura civile, ma anche per proteggerlo dagli stessi scienziati.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE."Istruzioni per rendersi infelici"*:
[...] A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili. [...]
* Cfr. Umberto Galimberti, Watzlawick, se le idee si ammalano (la Repubblica, 04.04.2007)
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 9.11.2012)
Nel memorabile Mickey Mouse and the Seven Ghosts (da noi: Topolino nella casa dei fantasmi) di Floyd Gottfredson e Ted Osborne (1936), riportando una sua «intervista con lo spettro» Pippo afferma che per una persona sensata fantasmi e anime disincarnate non esistono, e ribadisce che «questo è proprio quel che dice anche lui», lo spettro medesimo!
Dunque c’è un fantasma che dice che «i fantasmi non ci sono»: la cosa non sarebbe dispiaciuta a Bertrand Russell, specialista in meccanismi logici di questo tipo, tecnicamente noti come paradossi dell’autoriferimento: come «l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi a sua volta appartiene o no a se stesso?». Provate a rispondere affermativamente o negativamente, e vedrete!
Ma nel fumetto il malfidente Topolino ci tiene a ribadire che ci dev’essere un trucco e che una buona pallottola può mettere in fuga qualsiasi apparizione. Per dirla con le parole di Russell in Scienza e religione (1935), potremmo classificare il topo di Walt Disney come un libero pensatore che fa dello scetticismo nei confronti dei fantasmi la leva per scardinare l’edificio delle superstizioni consolidate, nonché la premessa per la spiegazione di pretesi miracoli in termini di leggi di natura.
La crescita della scienza cambia la percezione che gli esseri umani hanno del loro posto nel mondo e del loro destino. Tra il fumetto di Topolino e il libro di Russell, che sono quasi contemporanei, potremmo inserire anche le parole di un pensatore di circa due secoli e mezzo prima, quel Baruch Spinoza che il filosofo britannico considerava una delle figure «più amabili» della storia delle idee.
Nel 1674 Hugo Boxel, funzionario della citta di Gorcum, aveva chiesto al filosofo dell’Etica un parere «circa le apparizioni degli spettri o spiriti notturni» e, viste le perplessità di quell’«acutissimo» personaggio, aveva insistito che si doveva ammettere almeno che «lo spazio incalcolabile che c’è tra noi e gli astri non è vuoto, ma pieno di spiriti che vi abitano, magari distinti» in quelli che abitano regioni «più elevate» e in quelli che frequentano invece zone «più basse» del cosmo. Al che Spinoza gli aveva seccamente ribattuto: «Ignoro quali siano quei luoghi più alti e più bassi che concepisci nella materia infinita, a meno che tu non asserisca che la Terra è il centro dell’Universo: se infatti il Sole o Saturno ne fossero il centro, il Sole o Saturno sarebbero la parte più bassa e non già la terra».
Spinoza si collocava nella grande tradizione dell’atomismo di Democrito, Lucrezio ed Epicuro, ma aveva in mente anche Copernico e Galileo, nonché il passaggio dal mondo chiuso aristotelico-tolemaico all’Universo infinito. Da parte sua, il Russell di Scienza e religione dedica non poche pagine alla costellazione d’idee, rompicapi, tecniche d’osservazione e di calcolo che oggi chiamiamo «rivoluzione copernicana», ma vi aggiunge la considerazione di due altre rivoluzioni scientifiche: quella di Charles Darwin nelle scienze della vita e quella di Freud e degli altri protagonisti della «psicologia del profondo» nel campo delle scienze umane.
La darwiniana Origine delle specie (1859) ha rimodellato la nostra immagine del rapporto tra il genere «Uomo» e gli altri organismi viventi; la psicoanalisi ci ha costretto a ripensare la stessa nozione di coscienza e l’idea di un libero arbitrio. Entrambe le concezioni sono entrate in conflitto con abitudini intellettuali spesso legate ai dogmi delle fedi religiose, come già era capitato a Copernico, Bruno e Galileo. In un Universo infinito la Terra non è il centro più di quanto lo sia Saturno o il Sole, e la dimora dell’uomo non gode più di una posizione privilegiata; allo stesso modo, nemmeno l’uomo sotto il profilo evolutivo è qualcosa di «speciale» rispetto al resto del vivente.
Dunque niente fantasmi, niente anime immortali: per dirla col Darwin del Taccuino B (1837-1838): «Per consenso di tutti l’anima è aggiunta, gli animali non l’hanno, non guardano avanti; se decidiamo di lasciar correre libere le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo esser tutti legati in un’unica rete». Come questa rete della vita sia oggi esplorata da una costellazione di programmi scientifici che vanno dalla fisica e dalla chimica alla neurofisiologia e al complesso delle scienze cognitive è uno dei lasciti migliori del secolo scorso, di cui Russell è stato testimone e protagonista: dalla riflessione sui fondamenti della matematica e la struttura della scienza all’impegno per il rinnovamento dei nostri presupposti etico-politici, per non dire dell’opposizione alle più diverse forme di oppressione.
Al contrario che in altri testi, in Scienza e religione Russell non mette tanto l’enfasi sul conflitto tra queste due forme di vita e di pensiero quanto sulla loro radicale distinzione. Scrive infatti nelle pagine iniziali del libro che «una fede religiosa si distingue da una teoria scientifica perché pretende d’incarnare una verità eterna e assolutamente certa, mentre la scienza è sempre sperimentale, pronta ad ammettere presto o tardi la necessità di mutamenti alle sue attuali teorie, e consapevole che il suo metodo è logicamente incapace di portare a una dimostrazione completa e definitiva».
E avviandosi alla conclusione, sottolinea che «la mentalità scientifica è prudente, sperimentale ed empirica; non pretende né di conoscere l’intera verità né che la sua conoscenza sia interamente vera; sa che ogni dottrina ha bisogno di essere emendata presto o tardi e che il necessario emendamento richiede libertà d’indagine e libertà di discussione».
Leadership
Dalle élite in crisi al populismo così la politica ha perso autorevolezza
Il discorso di Napolitano ha posto la questione della credibilità di chi esercita il potere. Soprattutto in una fase di crisi della democrazia e di cambiamenti globali
Quelli a disposizione oggi provengono dalle esperienze più disparate e sono spesso outsider, oppure sono venditori di speranze a buon mercato
Uno dei grandi problemi è il prezzo che tutti devono pagare alla spettacolarizzazione delle cose che fa scadere ogni "visione" in una affannata gestione del presente
di Carlo Galli (la Repubblica, 05.01.2012)
Nel suo messaggio di Capodanno il Capo dello Stato ha detto, tra l’altro, che l’Europa ha bisogno di leader più autorevoli. E, certo, è difficile negare che vi sia una sproporzione singolare fra De Gaulle (ma anche Chirac) e Sarkozy, fra Adenauer (ma anche Kohl) e la Merkel, fra De Gasperi (ma anche Moro) e Berlusconi. La nostra è forse un’epoca di nani?
Di fatto, oggi, il termine leader è utilizzato prevalentemente per indicare "importante", "primo": ad esempio, in locuzioni come "azienda leader", "leader del campionato". Nell’ambito politico funge da sinonimo per "governante": i "leader europei" significa i capi di Stato e di governo. Una presa d’atto che c’è qualcuno in posizione di comando, insomma; senza ulteriori specificazioni. Se si vogliono trovare utilizzazioni del termine più connotate in senso qualitativo e personale, viene spontaneo andare con il pensiero a esperienze politiche esotiche, quali il comunismo dinastico nord-coreano, al "Grande Leader" (Kim il-Sung) che lo ha fondato, al suo figliolo e successore, testé defunto, Kim Jong-il, il "Caro Leader", e al (per noi) grottesco culto della personalità che è loro tributato. Insomma, se con leader si intende una rilevante figura d’uomo (o di donna) che esercita il potere politico in modo energico, proponendo ai suoi concittadini una "visione" specifica, un orizzonte di senso condiviso, allora viene davvero da pensare che la leadership non sia più all’ordine del giorno, nelle esperienze politiche occidentali. Che abbia in sé qualcosa di obsoleto, che implichi una pretesa eccessiva, una richiesta smodata, sproporzionata rispetto a uno spazio, la politica, che non è più adatto a reggere, a sopportare, il peso di un vero leader. Il quale, infatti, è lo snodo fra l’Io (il singolo) e il Noi (il popolo, il partito); sa leggere i processi in atto, e catalizza le energie sociali verso una direzione; è un visionario pratico, che miscela efficacemente l’interpretazione personale e il movimento collettivo. Oppure, se si tratta di una leadership collettiva - di una élite -, sa proporre credibilmente il proprio interesse parziale come orizzonte entro cui si possono sviluppare le risorse materiali e morali di una collettività.
Se è vero che la modernità ha privilegiato la centralità dei cittadini e l’impersonalità universale del potere, oppure le grandi forze oggettive e necessarie della storia, è anche vero, tuttavia, che quanto più la politica era presa sul serio - ovvero quanto più appariva, ed era, la dimensione decisiva in cui si giocavano le sorti del vivere civile - tanto più essa, con discreta frequenza, era interpretata da autentici leader, o da efficienti élites. Da veri uomini politici o da vere classi politiche, insomma.
Gli esempi, anche solo nel XX secolo, sono a tutti noti ed evidenti, nel bene e nel male. Oggi le cose sono diverse, per molti motivi. Perché la politica è consegnata ad anonimi grigi funzionari, che hanno più del tecnico che del politico; perché le forme tradizionali della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate, mentre la sostanza della politica, il potere, si abbatte direttamente sulla vita - sul corpo e sulle menti - delle persone; perché le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e le crisi, fattesi planetarie, sembrano fenomeni non politici ma naturali, e come questi intrattabili; perché le élites hanno ovunque perduto il rispetto di se stesse e del popolo; perché insomma la quotidianità straripante, cangiante e sfuggente, non può essere afferrata e messa in forma dalla politica. Che è screditata in quanto largamente corrotta e collusa; in quanto è subalterna alle esigenze e ai ritmi dell’economia (a sua volta largamente fuori controllo); in quanto è con ogni evidenza parte del problema, e non della soluzione.
I leader, oggi, sono richiesti, certo (le élites meno; ed è un errore). Esiste, fortissima, l’esigenza di dare un volto alla politica, di rendere riconoscibili gli ingranaggi del potere, di dare un senso alle miriadi di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, di cui è fatta la società. Ma quelli che abbiamo a disposizione o sono leader non politici, outsider provenienti dalle più disparate esperienze (Youssou N’Dour che si candida in Senegal ne è solo l’ultimo esempio), oppure sono leader o leaderini populisti, venditori di speranze a buon mercato, imbonitori da strada o da osteria, o da pulpito, che catalizzano non speranze né progetti ma paure, rabbie, fobie. Ne abbiamo avuti, e ancora ne abbiamo, anche nel nostro Paese. La personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza. E anche quei politici professionisti (ad esempio, Obama) che, pagando un prezzo inevitabile alla politica-spettacolo, vincono durissime campagne elettorali sulla base di programmi meditati, e si misurano con le questioni reali della politica, vengono ben presto triturati dai media, dagli avversari, dal fuoco amico, e dall’incalzante susseguirsi di sempre nuove emergenze che è la esperienza quotidiana di chiunque, oggi, eserciti un po’ di potere. E in breve divengono, da leader che erano, anatre zoppe; mentre la loro "visione" scade in un’affannata gestione del presente.
Certamente quindi, permane l’esigenza che la politica trovi nuove vie d’approccio, nuove risposte condivise, nuovi orizzonti di senso. Che grandi mobilitazioni di massa incrocino personalità decise o élites finalmente consapevoli che abbiano la forza e la speranza (o la disperazione) di mettere le mani negli ingranaggi della storia, e collaborino al traghettamento delle nostre società fuori dalla palude in cui sprofondano. Non è detto che questa esigenza di leadership - che è in realtà esigenza di politica in grande stile - possa essere soddisfatta; e che la politica trovi l’energia e l’immaginazione per emanciparsi dalla decadente mediocrità del presente. Eppure, anche solo che il problema sia almeno posto è già un passo nella direzione giusta.
Costumi, etica, società
Così Russell attaccò le basi del conformismo
«L’uniformità delle culture va deplorata»
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 02.02.2011)
«A Firenze, nell’epoca anteriore a Mussolini, il traffico doveva scorrere in un senso in città e in quello opposto in campagna. Questa diversità era dannosa, ma vi furono ben altre diversità che il fascismo soppresse! Nel mondo della mente... è cosa buona che vi sia una vigorosa discussione fra le varie scuole di pensiero. Però, se deve esserci concorrenza intellettuale... dovranno anche esserci maniere per limitare i mezzi che vengono impiegati» . Così Bertrand Russell nel secondo dopoguerra affrontava il problema della conciliazione tra l’esigenza di un controllo governativo centralizzato e quella di una crescita dell’iniziativa personale che richiede «le maggiori possibilità e libertà compatibili con l’ordine sociale» . - non è solo il tema di Autorità e individuo (1949), ma compare in non poche incursioni di Russell in campo politico e altrove.
Ancor oggi i commentatori sottolineano come i suoi punti di vista in fatto di etica siano stati tra i più criticati del Novecento (ben più delle sue, anch’esse controverse, concezioni circa logica, matematica e teoria della conoscenza). Matrimonio e morale, sesso fuori e dentro la famiglia, liberalizzazione dei costumi non erano che esempi del gusto del filosofo di sfidare la costellazione delle opinioni stabilite. «Se non vogliamo che la vita umana diventi una cosa polverosa» , è bene coltivare ogni forma di anticonformismo, in modo che possa produrre i suoi cento fiori, purché non provochi danno ad altri. Leggiamo in Autorità e individuo: «L’uniformità dei caratteri e delle culture va deplorata. L’evoluzione biologica è dipesa da differenze innate tra individui o tribù, e l’evoluzione culturale dipende da differenze acquisite» .
Eliminare tali differenze significa privare gli individui della facoltà di scegliere. Agli occhi di Russell questo era l’esito del socialismo autoritario dell’Urss; ma non è che i Paesi capitalisti se la passassero molto meglio, a causa della commistione del potere di pochi leader carismatici con la proliferazione della burocrazia. La società - ammoniva - non è un organismo né un meccanismo. Un qualunque manager che si dia alla politica potrebbe considerarla «un modello piacevole di bell’ordine, qualcosa di ben programmato con tutte le parti che s’incastrano perfettamente l’una nell’altra. Ma è negli individui, e non nel tutto, che dovranno cercarsi valori utili» .
E ancora: «Quando un agricoltore dello Herefordshire viene colto in una tormenta di neve, chi sente il freddo non è il governo che sta a Londra! È questa la ragione per cui portatore del bene e del male è l’uomo singolo» , e non qualsiasi apparato collettivo. Russell concepiva l’indagine delle strutture astratte, per esempio quelle della matematica, come un’impresa non molto diversa dalle esplorazioni che Colombo o Vespucci avevano fatto del continente americano: era dunque convinto del loro valore oggettivo, ma restava pur sempre un rigoroso individualista. Per esempio, lo Stato è un’astrazione e «non sente piacere o dolore, non ha speranze o timori» , proprio come non sente piacere o dolore ecc. il numero 3 o l’insieme dei numeri interi.
Dietro qualsiasi costruzione astratta vi sono gli scopi degli individui che la producono. Comunque, gli esseri umani sempre meno operano in solitudine, persino nella scienza: «La maggior parte delle ricerche esige apparecchi costosi; per molte occorre il finanziamento di spedizioni in regioni difficili; senza i mezzi forniti da un governo o da un’università, pochi sono coloro che possono ottenere risultati apprezzabili» . La ricerca è allora stata sottratta ai ricercatori per essere consegnata ai politicanti o all’industria, umiliando merito ed eccellenza individuali?
Nell’impresa tecnico scientifica come altrove, la soluzione per Russell è in una sorta di decentramento che oggi chiameremmo «principio di sussidiarietà» : persino un «governo mondiale» (se mai lo si creasse e fosse capace di farsi rispettare) non dovrebbe mai usurpare le competenze di qualsiasi associazione locale. Ma a sua volta questa dovrebbe essere composta di persone «che non si accontentano di essere vive piuttosto che morte: desiderano invece vivere in modo felice, vigoroso e creativo»
Laicità. Carlo Bernardini: così l’etica della Chiesa sta uccidendo il progresso
di Pietro Greco (l’Unità, 17 luglio 2010)
Certo, è anche un grido lacerante di ribellione, quello che Carlo Bernardini, fisico, professore emerito dell’università La Sapienza di Roma, collaboratore storico dell’Unità, ha affidato al libro Incubi diurni, appena pubblicato con Laterza (pagg. 145, euro 14,00) perché gli sia concesso di essere «scienziato e laico, nonostante tutto».
Certo, è anche l’invettiva veemente di un ricercatore che si sente fuori dal coro, come recita la quarta di copertina, che lancia i suoi strali - nitidi, forti - contro le forze di cui si sente oppresso: il Vaticano e la sua invadente dottrina che vogliono mettere le braghe alla sua libertà di ricerca, ma anche contro quel «trogloditismo politico», arraffone e incompetente, che cerca di marginalizzarlo perché interessato a soddisfare i propri interessi immediati (spesso volgarmente materiali) a scapito di quelli delle generazioni future.
Ma è, soprattutto, un manifesto alla Bertrand Russell. Un programma laico per una società libera, pacifica e fondata sulla ragione che riprende quello per cui si è battuto il logico e filosofo inglese autore, nel 1957, di Perché non sono cristiano. Il richiamo a Russell non è casuale. Non solo perché Carlo Bernardini lo cita spesso. Ma perché ne riprende per intero e aggiorna la griglia di lettura dei rapporti tra religioni monoteistiche e società. Le grandi religioni monoteistiche, sosteneva Russell, hanno tre caratteri comuni: una Chiesa, una fede e un codice di etica individuale.
La fede è certo la fonte di contrasto intellettuale tra religione e scienza, sostiene Russell. E Bernardini analizza a fondo e senza sconto alcuno i motivi di questo contrasto. Che non gli impedisce, tuttavia, di chiudere la sua invettiva /manifesto riconoscendo i valori comuni che possono esistere tra un laico che non crede, quale egli è, e un laico che crede, come suora Cécile Renouard, che con un gruppo di confratelli ha di recente pubblicato con Flammarion «Venti proposte per riformare il capitalismo» e che si pone, con maggiore lucidità di molti politici anche di sinistra, il problema delle regole che servono per dare a chiunque l’accesso ai beni essenziali.
Ma, sostiene ancora Russell, l’asprezza dello scontro tra religione e scienza non è determinato dalla fede - ognuno è libero di credere in ciò che vuole - bensì dall’organizzazione ecclesiale e dai codici etici. Lo scontro diventa duro e persino insopportabile - tanto da indurre a un sano moto di ribellione - quando l’organizzazione ecclesiale pretende di imporre all’intera società la sua visione del mondo e la sua morale, escludendo che fuori da quell’organizzazione sia possibile l’esistenza stessa di un’etica.
L’etica degli scienziati. È questo il cuore del libro di Carlo Bernardini. È questo il motivo principale per leggerlo. È questo l’aspetto che più sorprende. Andate a pagina 32 e scoprirete subito perché. La Chiesa che pretende di imporre il proprio codice etico accredita l’idea che, in virtù del loro sapere, gli scienziati abbiano un’etica diversa da quella del resto dell’umanità. Un’etica propria e abnorme. Che per questo deve essere validata da un’etica più generale, quella religiosa. Occorre sfuggire a questa trappola, sostiene Carlo Bernardini. Non si deve contrapporre l’etica della scienza all’etica della religione. Non esiste un’etica degli scienziati fondata sul loro sapere. Gli scienziati sono uomini e hanno un’etica del tutto «indistinguibile da quella del resto dell’umanità, nella sua eterogenea composizione». Quello che non si può in alcun modo pretendere è che gli scienziati, come tutti gli uomini, «adottino necessariamente ciò che il clero intende per etica, specie se questo può entrare in contrasto con esigenze difendibili della ricerca e dello sviluppo delle conoscenze».
Perché è questo che sta succedendo in Italia, anche per colpa di una classe dirigente che, sostiene Bernardini richiamando De Gasperi, è costituita da politici che guardano all’oggi e non da statisti che guardano alle generazioni future. Perché il futuro che immagina Bernardini, proprio come il futuro che immaginava Bertrand Russell, è nelle mani dei laici (non importa se credenti o no). Solo se riusciremo a costruire una democrazia razionale che fonde libertà, tolleranza e competenza avremo un futuro desiderabile. Altrimenti il futuro si trasformerà, a appunto, in un incubo.
La scienza ponte di pace
di Pietro Greco (l’Unità, 10 novembre 2012)
I primi 40 medici si sono laureati il 23 gennaio 2010. altri 62 esattamente un anno dopo, il 22 gennaio il 2011. quest’anno hanno ottenuto il titolo di studio in 51. A tutt’oggi sono oltre 150 i giovani che si sono laureati presso la Facoltà di Medicina nata nel 2004 a Gulu, nell’Uganda del Nord, grazie al Gulu-Nap Science, un progetto di collaborazione tra l’ateneo locale e l’Università Federico II di Napoli. I 150 giovani medici ora lavorano tutti sul territorio, nelle aree settentrionali dell’Uganda devastate da anni di guerra tra l’esercito governativo e i ribelli del Lord Resistance Army.
Gulu-Nap Science è uno delle decine di progetti di collaborazione che verranno presentati oggi presso la Città della Scienza di Napoli nell’ambito dell’edizione italiana 2012 della Giornata Mondiale della Scienza per la Pace e lo Sviluppo che l’Unesco promuove fin dal 2001.A illustrare questo piccolo - ma non piccolissimo - esempio di «scienza per la pace e lo sviluppo» sarà Pen Mogi Nyeko, vice rettore dell’Università di Gulu.
Un esempio davvero emblematico del triplice ruolo che, storicamente, la scienza - ma sarebbe meglio dire la comunità scientifica - si è ritagliata nella conquista della pace. Il primo ruolo le deriva non solo dal fatto che la scienza è una cultura universale ma anche e soprattutto dal fatto che la comunità scientifica - non senza contraddizioni, certo - ha l’universalismo tra i suoi valori fondanti.
Non a caso essa è nata, nel Seicento, in Europa come comunità transnazionale e transreligiosa proprio mentre il continente era devastato da una serie di guerre nazionali e religiose. Né è un caso che la prima istituzione europea nata nel Vecchio Continente uscito devastato dalla seconda guerra mondiale sia stato, all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, il Cern di Ginevra, il più grande laboratorio di fisica al mondo. È grazie a questi suoi valori fondanti che la scienza si propone come naturale, continuo e concreto «ponte di pace».
Un secondo ruolo che la comunità scientifica si è ritagliata, soprattutto negli ultimi decenni, è quello di attore fondamentale nel processo di disarmo. Il movimento Pugwash, per esempio, nato nel 1955 da un’idea e dall’azione di due grandi scienziati come Albert Einstein e Bertrand Russell, svolge questa attività a favore del disarmo, in primo luogo del disarmo nucleare. I risultati conseguiti sono stati svariati. Il più importante, come più volte sottolineato dallo storico americano Lawrence S. Wittner, è stato culturale: aver contribuito in maniera sostanziale, dopo Hiroshima e Nagasaki, a rendere un tabù la guerra atomica.
Il terzo ruolo che la comunità scientifica si è ritagliato nel tentativo di costruire un mondo di pace è nell’aver compreso che lei, la pace, è una condizione che non si conquista solo con l’assenza ella guerra. Ma anche con l’integrazione, con la giustizia sociale, con lo sviluppo.
Oggi sappiamo che lo sviluppo è tale solo se è socialmente ed ecologicamente sostenibile. Di qui il senso della giornata organizzata dall’Unesco, che cade in un periodo in cui il processo di costruzione della pace attraverso lo sviluppo segna il passo. In soldoni gli «aiuti allo sviluppo» da parte dei Paesi ricchi a quelli poveri nel 2010 non hanno raggiunto i 120 miliardi di dollari (pari al 0,31% del Pil dei Paesi donatori), molto lontano dall’obiettivo dello 0,70% che ci si è dati in molte occasioni ufficiali. In realtà la percentuale è bloccata intorno a questi valori - che per inciso sono appena il 10% delle spese militari globali - fin dagli anni ’70. E da allora alimentano un dibattito in cui la scienza, ancora una volta entra da protagonista.
L’idea che per uscire dal sottosviluppo i paesi più Poveri non hanno bisogno di qualcuno che gli regali il pesce, ma di acquisire la capacità di dotarsi della canna da pesca. Nell’era della conoscenza la canna per imparare a pescare da soli è rappresentata dall’educazione (scuola, università) e dalla ricerca scientifica. Di qui la necessità di progetti, come quelli di Gulu in Uganda, che tendano a creare nei Paesi più poveri una rete di docenti, di tecnici e di ricercatori integrata in quella internazionale.
Il processo della «canna da pesca» sembra funzionare. I Paesi che negli ultimi decenni sono usciti dal sottosviluppo e sono diventati a economia emergente - dalla Cina all’India al Brasile - sono i Paesi che più hanno investito in educazione e in ricerca scientifica. Un processo in cui la comunità scientifica internazionale - la scienza, se si vuole - è chiamata, appunto, a svolgere un terzo ruolo da protagonista.
Già,ma come? Formando solo i tecnici (medici, agronomi, ingegneri) e i ricercatori nei settori applicati (medicina, agricoltura, ingegneria) che servano a creare una capacità endogena di risolvere i problemi più immediati (la fame, le malattie, la carenza di infrastrutture) o anche aiutando ad allestire una comunità scientifica locale che partecipa alla ricerca fondamentale o, come si dice oggi, curiosity-driven, che non ha (non sembra avere) immediate ricadute concrete?
Il tema è stato a lungo dibattuto. E le risposte non sono ancora unanimi. Di recente Bollati Boringhieri ha ubblicato un libro, Il posto della scienza, che raccoglie due lavori di un economista americano di origini norvegesi, Thorstein Veblen, vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900. Veblen invita a non dimenticare mai che la scienza ha due anime: una è la curiosità, l’altra è la necessità di soddisfare le domande della società. Ciò vale anche per gli aspiranti scienziati dei Paesi più poveri. A motivarli è in primo luogo è la curiosità. E se non riescono a soddisfarla in patria, cercano di fuori. I più bravi ci riescono. Per questo, nel corso dei decenni, c’è stato un gigantesco braindrain, drenaggio dei cervelli, che ha privato dei migliori cervelli proprio i Paesi più poveri a vantaggio dei più ricchi.
Ora questo flusso a una direzione sembra essersi arrestato e molti grandi ricercatori ritornano a casa: in Cina, in India, in Brasile. Sarà (anche) per questo che quei Paesi stanno velocemente uscendo dalla condizione di sottosviluppo e raggiungendo quelli che una volta erano i più avanzati? Ecco, un compito della comunità scientifica internazionale impegnata oggi «per la pace e lo sviluppo» è anche quello di riconoscere che non ci sono posti privilegiati al mondo per la ricerca libera e mossa dalla curiosità. E che i Paesi che ancora faticano a uscire dalla condizione di sottosviluppo hanno bisogno della loro quota di ricerca libera e fondamentale e in pace. Senza quella quota di libertà e di curiosità e di pace, la capacità di costruirsi da sé la canna da pesca risulta più difficile e resta più fragile