Watzlawick, se le idee si ammalano
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 04.04.2007)
Paul Watzlawick, morto ieri nella sua casa di Palo Alto in California all’età di 85 anni, è lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero e quindi a sollevare le tematiche psicologiche al livello che a loro compete, perché ad “ammalarsi” non è solo la nostra anima, ma anche le nostre idee che, quando sono sbagliate, intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. E proprio Istruzioni per rendersi infelici, che Feltrinelli pubblicò nel 1984 facendo undici edizioni in due anni, è stato il libro che ha reso noto Watzlawick in Italia al grande pubblico.
Nato a Villach, in Austria, nel 1921, Watzlawick nel 1949 ha conseguito all’Università di Venezia la laurea in lingue moderne e filosofia. L’anno successivo prese a frequentare l’Istituto di Psicologia analitica di Zurigo dove nel 1954 conseguì il diploma di analista. Dal 1957 al 1960 ottenne la cattedra di psicoterapia presso l’Università di El Salvador e dal 1960 si trasferì al Mental Research Institute di Palo Alto dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra “immagine” del mondo, spesso dissonante con la “realtà” del mondo.
Le tesi centrali che sono alla base del pensiero di Watzlawick sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.
A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.
Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come “guarigione”, ma come “cambiamento” a cui ha dedicato Il linguaggio del cambiamento, Il codino del Barone di Münchhausen e, con Giorgio Nardone L’arte del cambiamento. Secondo Watzlawick sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall’emisfero cerebrale sinistro che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l’attività dell’emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde.
Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull’emisfero destro perché in esso l’immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell’immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica.
La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita la realtà non può che essere “scoperta”. No, dice Watzlawick ne La realtà inventata. Il costruttivismo, che è alla base della sua concezione sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza. La realtà non verrebbe quindi “scoperta”, ma “inventata”.
Da queste invenzioni nascono “stili di vita” che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Con molti esempi Watzlawick mostra nei suoi libri come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere nuove “realtà”. E così la psicologia incomincia a respirare.
Oggi a raccogliere questo respiro è la consulenza filosofica che spero annoveri presto Watzlawick tra i suoi precursori e, sulla sua traccia, approfondisca quella terapia delle idee che, inosservate dalla psicologia, sono spesso la causa delle sofferenze dell’anima.
Paul Watzlawick->Wikipedia (Villach, Austria, 25 luglio 1921 - Palo Alto, Stati Uniti, 31 marzo 2007) è uno psicologo austriaco, primo esponente della statunitense Scuola di Palo Alto [...]
È il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento e del costruttivismo radicale. Figura di spicco dell’approccio sistemico e della terapia breve, si deve alle sue opere la diffusione dell’approccio allo studio della comunicazione e dei problemi umani della Scuola di Palo Alto.
Opere pubblicate
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
ECOLOGIA DELLA "MENTE ACCOGLIENTE. TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA".
Un omaggio al prof. Gianni Vattimo e un augurio di buon lavoro a Elly Schlein.
COME NASCONO I BAMBINI: "LlNGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. Elementi di comunicazione terapeutica" (Paul Watzlawick): per uscire dalla storica e tragica caverna della cosmoteandria (atea e devota), a mio parere, occorre riprendere il programma di Kant dei "sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica", riaprire la questione antropologica e portare avanti le indicazioni della Scuola di Palo Alto, in particolare, di Paul Watzlawick (1977), e cominciare a pensare con le "due metà del cervello (cfr. Federico La Sala , "Alfabeta" - Rivista, 17, 1980, p.11), sia all’interno e sia all’esterno.
#Metaphysics #Anthropology #Europa2023 #Eleusis2023 #Roma2024
NOTA: L’ITALIA E IL "CORPO MISTICO" DELLA "REGINA" (DELLE PRIMARIE DEL PD, DEL PARTITO DEMOCRATICO).
Cosmoteandria e "disagio della civiltà" (S. Freud, 1929). "Cum grano salis" e. con le dovute proprorzioni, guardando allo #Stato della #Terra (con un #UNO - #ONU - che non esiste ancora), l’evento "Elly Shlein" ha rotto l’incantesimo e ha aperto la porta a un sottile e tuttavia forte vento di sollecitazione antropologica e teologico-politica a ristrutturare il campo e rimettere in sesto i cardini del #tempo (Shakespeare, "Amleto", I.5) e, a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant).
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA CULTURALE, LETTERATURA, E PENSIERO CRITICO. Lo sciamano che c’interroga...
ANDARE "A SCUOLA DALLO STREGONE" (Carlos Castaneda, 1968) e non capire un’acca ("h"). Alla luce delle dichiarazioni di Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California: “Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto", forse, è meglio rileggere il lavoro di Elémire Zolla, su "I letterati e lo sciamano. Il pellerossa come cattiva coscienza del bianco" e riprendere non solo l’indicazione di Orazio-Kant-Foucault del "Sàpere aude!" , ma anche la lezione di Jim Morrison: "Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare"; e, infine, per evitare qualche "rimorso d’incoscienza", rimeditare anche la "profezia" di McLuhan.
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
Quell’umorismo che sfida le fake news
di Valentina Pisanty (il manifesto, 30.08.2018)
L’anticipazione. Un brano dallo spettacolo dedicato al grande semiologo scomparso due anni fa che andrà in scena a Camogli il 6 settembre nell’ambito della V edizione del Festival della Comunicazione. Per l’intellettuale bolognese ogni strategia illuministica di disvelamento del potere passava per il riso
Umberto Eco ride della rigidità dei luoghi comuni, degli automatismi del linguaggio, della prevedibilità dei generi narrativi, delle trappole della logica e, in generale, di tutte le strutture inflessibili che conferiscono una parvenza di ordine alla vita sociale. Così funziona l’umorismo: si prende una matrice logica familiare, un sistema di regole, un frammento di senso comune; si finge di trovarsi a proprio agio al suo interno, dicendo cose del tutto coerenti con i suoi assunti, di modo che l’interprete si illuda di avere capito dove il discorso andrà a parare; e poi, zac!, quando l’altro meno se lo aspetta si introduce di soppiatto un piano logico incompatibile che fa esplodere le attese sin lì create. Si vedano, per esempio, le Istruzioni per scrivere bene in cui, fingendosi precettore, Eco confuta ciascuna regola stilistica nell’atto stesso di formularla: «evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi»; «evita le frasi fatte: è minestra riscaldata»; «non generalizzare mai»; «sii sempre più o meno specifico»; «non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia»; e - la mia preferita - «solo gli stronzi usano parole volgari».
LE PARODIE FUNZIONANO in modo analogo, salvo che l’incongruenza si rivela attraverso l’accumulo iperbolico di dettagli tra loro coerenti che tuttavia fanno a pugni con il comune buonsenso. In un capolavoro di satira accademica Eco narra la parabola di Swami Brachamutanda (Bora Bora 1818 - Baden Baden 1919), «fondatore della scuola tautologica i cui principi fondamentali sono delineati nell’opera Dico quello che dico: l’Essere è l’Essere, la Vita è la Vita, L’amore è l’amore, Quello che piace piace, Chi la fa la fa e il Nulla Nulleggia».
I GUAI DI BRACHAMUTANDA hanno inizio quando, dopo aver sostenuto che «gli affari sono affari» e «i soldi sono soldi», il fedele discepolo Guru Guru fugge con la cassa della comunità e, fermato dalla polizia di frontiera, si lascia scappare un «chi la fa l’aspetti»: frase che, «come è evidente, contraddice i principi essenziali della sua logica». Di lì è tutto un precipizio: i tautologi sconvolti si spaccano, l’eretico Schwarzenweiss fonda la scuola eterologica secondo cui «L’Essere è il Nulla, il Divenire sta, lo Spirito è Materia, la Coscienza è Inconscia», rivendicando la sua ascendenza sui massimi capolavori della letteratura occidentale - Guerra e Pace, il Rosso e il Nero... - mentre accusa i tautologi di essersi limitati a ispirare opere di scarso rilievo come Tora Tora, New York New York e Que sera sera... Al che Brachamutanda obietta che, di questo passo, tanto vale che lo Schwarzenweiss accampi diritti sulle vendite del whisky Black and White.
PERCHÉ FA RIDERE? In un saggio sul Comico e la regola (Alfabeta 1980) Eco teorizzava che l’effetto comico scaturisce dalla violazione di una regola sociale compiuta da un personaggio inferiore nei confronti del quale chi ride prova un aristotelico senso di superiorità. Ma non è mai chiaro se lo zimbello sia la regola violata, o colui che la trasgredisce, oppure entrambe le cose insieme: è questo il bello dell’umorismo, che mentre si fa gioco delle contraddizioni altrui è a sua volta irriducibilmente contraddittorio. Non si salva nessuno.
CON ECO SI RIDE in modo allegro e tutto sommato benevolo nei confronti di ciò verso cui ci si sente sì superiori, ma anche compartecipi: una parte ride dell’altra, e viceversa, senza sintesi possibile, e guai se ci fosse. La stupidità umana - bersaglio della risata - è l’altra faccia dell’intelligenza, come d’altronde chiarisce Jacopo Belbo in un famoso dialogo del Pendolo di Foucault: «l’intelligenza è il prodotto di infinite stupidità».
Solo se gli stupidi sono anche arroganti, desiderosi di far prevalere la propria sull’altrui stupidità, la risata diventa beffarda. Ancora Belbo: «Ma gavte la nata, levati il tappo. Si dice a chi sia enfiato di sé. Si suppone si regga in questa condizione posturalmente abnorme per la pressione di un tappo che porta infitto nel sedere. Se se lo toglie, pffffiiisch, ritorna a condizione umana». Ridicolizzare i prepotenti per afflosciarne le ambizioni di dominio è una strategia illuministica fondata sulla fiducia nella fondamentale ragionevolezza umana. Gli altri, i complici, capiranno e non si faranno abbindolare.
Ma cosa succede quando la Regola che si supponeva ovvia e condivisa viene diffusamente violata senza senso del ridicolo? Quando la carnevalizzazione totale della vita priva l’umorismo del suo lampo, del suo scandalo, della sua spinta sovversiva? Quando, di fronte alla «travolgente rivelazione che sono tutti dei coglioni», non ci si può più consolare con la solita battuta: «d’altronde se fossero intelligenti sarebbero tutti professori di semiotica»? La risata si strozza in gola.
NEGLI ANNI DEL BERLUSCONISMO Eco scrive A passo di gambero, dove i discorsi sull’Ur-fascismo, sul populismo mediatico e sulle reviviscenze razziste al «crepuscolo d’inizio millennio» assumono toni insolitamente foschi e nauseati: «Andate un poco al diavolo tutti quanti, perché è anche colpa vostra», conclude, e a questo punto ci sarebbe poco da ridere. Per farlo bisognerebbe conservare almeno un barlume di complicità, ed è per questo che né Berlusconi, né Trump, né Salvini fanno ridere. Se non che Eco sa essere spiritoso anche quando manda la gente a quel paese.
COSÌ, IN UN’EMAIL DEL 1999 che merita di essere condivisa, suggeriva alcune varianti del messaggio-base, a seconda della nazionalità degli ipotetici mittenti: «wa’ ffa n’kul da arabi, waakkaagaare da finlandesi, strnz da cecoslovacchi, fk yup da turchi, maa mukkela da africani, tel lì el pirlon da spagnoli, nicht rumper Katz oppure roth im kuhle da tedeschi, o filho da minhota da brasiliani, fak ja De Meerd da fiamminghi, throw yeah put an A da americani, van Moona da olandesi, mavamori amatzatu da giapponesi, Pi Ciu da cinesi, tglt dll pll da ebrei non masoretici, Masta Citu da incas, massipuo e ser kosi pistoola da hawaiani, manoru ‘n pemei Bali da balinesi. To be continued». Così finiva il messaggio.
«Visioni» al Festival della Comunicazione di Camogli
«Musica e parole. Un ricordo di Umberto Eco» è il titolo dello spettacolo con Valentina Pisanty e altri amici e colleghi di Eco, Furio Colombo, Gianni Coscia, Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Riccardo Fedriga, Maurizio Ferraris e Marco Santambrogio, che si terrà giovedì 6 settembre nell’ambito del Festival della Comunicazione di Camogli.
Filo conduttore della V edizione della kermesse, in programma fino al 9 settembre, aperta dalla lectio magistralis di Renzo Piano, saranno le «Visioni». Oltre un centinaio di protagonisti dell’informazione, della cultura, dell’innovazione, dell’economia, della scienza e dello spettacolo si confronteranno in 78 incontri.
Tra i relatori: Alessandro Barbero; Giovanni Allevi; Piero Angela; Mario Calabresi; Evgeny Morozov; Oscar Farinetti; Gad Lerner; Stefano Massini; Davide Oldani; Massimo Montanari; Massimo Recalcati; Gherardo Colombo con Marco Travaglio; Andrea Riccardi; Marco Aime con Guido Barbujani e Telmo Pievani.
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.0720,18)
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone.
Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
MONDIALI 2018
Italia-Thailandia Una "partita" di lunga durata.
Una "vecchia" lettera sul cavaliere della «I-Thailandia» e sulla "civiltà" italiana:
Sul cavaliere della I-THAILANDIA....
di Federico La Sala *
Caro Direttore,
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La Repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama "Forza ITALIA"...
Il trucco del NOME ("Forza ITALIA") è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io ritengo, sia stata la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e soprattutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo!
Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri.
LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi.
Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo.
Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco!!!
M. cordiali saluti
Federico La Sala
*Il dialogo, Venerdì, 30 maggio 2003.
Tito, Héctor e la palla-fiducia che bisogna saper passare
di Mauro Berruto ( Avvenire, mercoledì 11 luglio 2018)
«Tuya, Héctor!». Se vi trovate in Uruguay e qualcuno vi dice così, beh significa che siete degni di stima e fiducia. Colui che sta all’origine di questo modo di dire, è un calciatore, Héctor Pedro Scarone, soprannominato El Mago, primo destinatario di quella frase («Tua, Héctor!»), rivoltagli in un istante destinato a passare alla storia da un suo collega. Era il 13 giugno 1928, giorno della finale del torneo di calcio ai Giochi Olimpici di Amsterdam: Uruguay e Argentina, le finaliste, sono sull’1-1. In campo una parata di stelle fra le quali due, particolarmente brillanti, con la maglia celeste dell’Uruguay.
Si chiamano Héctor Scarone e Tito Borjas. Ragazzi che non conoscono ancora i loro destini: Scarone giocherà anche in Italia e, Giuseppe Meazza, suo compagno di squadra all’Inter dirà di lui che faceva cose che «noi potevamo solo immaginare». Borjas è un giocatore pazzesco, ma la sua carriera e la sua vita finiranno presto, solo tre anni dopo, quando disubbidendo ai medici che gli avevano imposto riposo assoluto dopo un forte dolore al petto sentito mentre giocava una partita, lasciò la propria abitazione per andare sugli spalti a vedere il match decisivo per il titolo dei suoi Wanderers Montevideo e al gol del vantaggio dei compagni di squadra venne stroncato da un infarto.
In quel giugno del 1928, ignari del loro futuro, Héctor e Tito stanno giocando, insieme, la finale olimpica. Tuttavia fra i due non scorre buon sangue, sono troppo forti per stare nella stessa metà campo. In realtà, Héctor e Tito non si parlano proprio, da tantissimo tempo, ma al 28° del secondo tempo, Tito ha la palla fra i piedi, vede Héctor arrivare con un razzo e decide di rompere quel silenzio. Passa la parla e gli urla: «Tua, Hectòr!», come a dire: "Vedi di farcela, voglio fidarmi di te". Héctor segna un gol straordinario da 40 metri.
L’Uruguay diventa campione olimpico ai danni degli odiati rivali argentini e da quel giorno, nel Paese, c’è un nuovo modo di dire quando si vuol trasmettere il senso di una fiducia incondizionata, che va oltre ogni divisione. Parole che vengono alla mente pensando alla incredibile vicenda dei 12 giovani calciatori thailandesi rimasti intrappolati in una caverna insieme ad Aek, il loro 25enne allenatore e liberati definitivamente ieri dopo 17 giorni passati all’inferno.
Si è mobilitato il mondo intero per questa vicenda e il risultato è stato raggiunto grazie a un’enorme capacità di condividere fiducia, anche quando le cose sembravano impossibili. Affidarsi a qualcuno, ci insegna questa storia di cui certamente qualche produttore hollywoodiano si approprierà, può portare alla perdizione e alla salvezza. Aek, l’allenatore orfano che ha passato la sua gioventù in un monastero buddhista aveva preso la decisione di portare i suoi ragazzi in quella grotta per meditare.
Stravolto dai sensi di colpa ha chiesto ripetutamente perdono per quell’idea che le piogge monsoniche stavano per trasformare in tragedia. I genitori di tutti i ragazzi lo hanno perdonato in tempi assolutamente non sospetti, ben prima del lieto fine della vicenda. Anzi, gli hanno ricordato che i loro ragazzi contavano su di lui, laggiù sottoterra come sul campo di calcio. Forse anche per questa iniezione di fiducia Aek è stato decisivo per tenere in vita i suoi ragazzi rinunciando per loro al suo stesso cibo, mantenendoli calmi e gestendo le loro emozioni e paure. E lasciando la grotta per ultimo, da vero coach.
«Sembra impossibile, finché non viene fatto», diceva Nelson Mandela e mentre, in superficie, squadre di calcio di fama planetaria lottano al Mondiale per non tornare a casa, la squadra per cui tutti si augurano il ritorno, finalmente, ce l’ha fatta grazie a una collaborazione di persone provenienti, letteralmente, da ogni parte del mondo. «Tuya, Héctor» anche in memoria di Saman Kunan, il soccorritore unica vittima di questa vicenda. Nel suo ultimo video lo si sente dire: «Porteremo i ragazzi a casa». Aveva ragione.
La legge 180
Compie 40 anni la legge Basaglia, che rese i matti «cittadini»
di Peppe Dell’Acqua *
È il 16 novembre 1961 quando il giovane Basaglia entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Ci sono più di 600 internati, senza più volto senza più storia. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione ma, quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia, è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno.
Gli internati sono tutti appiattiti nella stessa grigia identità, tutti invisibili. Basaglia è costretto a mettere tra parentesi la malattia, la diagnosi, il grigiore di anni d’internamento. Messa tra parentesi la malattia, persone, storie, relazioni, memorie riaffiorano. I cittadini compaiono sulla scena.
Per incontrare le persone bisognò aprire le porte, abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Tutti cominciarono a chiamarsi per nome. Divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, la possibilità di vivere e di abitare la città.
Sabato 13 maggio 1978: Aldo Moro è stato ucciso da pochi giorni dalle BR. Una giovanissima partigiana, Tina Anselmi, democristiana, presiede con autorevolezza i lavori della commissione che sta discutendo la legge dei manicomi. Si interroga se i malati di mente siano cittadini, se possano godere dei diritti costituzionali. La legge che avrebbe chiuso i manicomi restituisce così prima di tutto diritto, cittadinanza, dignità alle persone che hanno la ventura di vivere una malattia mentale. Non più la pericolosità, ma la cura nel rispetto della libertà di ognuno. Tina Anselmi, quel giorno, affermò “semplicemente” che l’articolo 32 della Costituzione valeva per tutti, anche per i matti. A maggior ragione per i matti.
Quaranta anni di Legge Basaglia
Il giovane Aldo Moro aveva fatto parte della Costituente. Aveva discusso con Calamandrei, con Togliatti, con La Pira l’art. 32 e ne era stato l’estensore. Al secondo capoverso così recita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’attenzione alla persona umana avrà formidabili conseguenze nel garantire i diritti fondamentali nella nostra democrazia. In quei giorni terribili Aldo Moro, prigioniero senza diritti e condannato a morte, costruiva la via d’uscita.
I matti diventavano cittadini. La legge 180 compie 40 anni, la Costituzione 70. Bisognerà conservare gelosamente la memoria.
Arriviamo all’ottobre 2010. Una Commissione parlamentare denuncia la condizione di vita dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese. Che fare dopo aver visto tanto orrore? Chiesero consiglio al Presidente Napolitano, tornarono in quei luoghi, documentarono tutto e mostrarono il video al Presidente. Di fronte a tanta violenza i corazzieri non riuscirono a trattenere le lacrime.
Il vecchio Presidente, inaspettatamente, nel messaggio di Fine anno del 2012 parlò degli Ospedali psichiatrici giudiziari, pronunciando parole dolorose: «Luoghi orrendi non degni di un Paese appena civile». Così ricominciò il viaggio di Marco Cavallo, la scultura di legno e cartapesta che aveva abbattuto le mura del manicomio di Trieste nel 1977, diventando emblema della liberazione. Marco Cavallo arrivò nelle periferie degli OPg: non c’era più tempo. Bisognava liberare tutti da quel tormento. Il 30 maggio 2014 la legge per chiudere tutti gli istituti fu approvata. Il 27 gennaio 2017 l’ultimo internato lasciava l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.
Se qualcuno mi avesse detto, quando ho cominciato a lavorare, che i manicomi criminali sarebbero stati chiusi lo avrei preso per pazzo.
Maggio 2018, sono passati 40 anni dalla riforma Basaglia. Di fronte a conquiste luminose e a tante persone che riescono a farcela, ancora capita di dover fronteggiare l’abbandono, le porte chiuse, le contenzioni, le morti per psichiatria. Ma questa, lo sappiamo, è una storia senza fine. È utopia, ci hanno sempre detto.
Utopia é qualcosa che si può solo sognare. Ma, come recitava il Cantastorie collettivo nato nel ’77 per i Centri di Salute mentale h24 a Trieste, «utopia è che il ghetto più non ci sia, che muri e reti buttiamo via. E quante cose possiamo ancora fare se ci mettiamo tutti insieme a sognare?».
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 13 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini e allegati).
Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli *
di Gianluca Gabrielli*
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare - ad esempio - gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o - chissà - addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.
Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo - scosse elettriche di intensità crescente - ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori - che interpretano gli scienziati - sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo.
L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento - piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza - il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollo cui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.
Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che - sole - permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui.
Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’”.
Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva...”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché [...] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni [...] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e - in fin dei conti - etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi.
Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?
Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.
Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.
Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?
Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui
* Comune-info, 2 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini)
L’intenzione di raggirare chi ascolta parte dalla scelta delle parole (da usare e da bandire). Trump insegna
Parole proibite
di Sara Antonelli (Il Mulino, 05 gennaio 2018)
Lo scorso 15 dicembre una fonte anonima ha rivelato al «Washington Post» che in una riunione tenutasi il giorno precedente al Center for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta, alcuni funzionari avrebbero chiesto agli analisti impegnati a compilare il budget 2019 di astenersi dall’utilizzare sette parole: «vulnerable», «entitlement», «diversity», «transgender», «fetus», «evidence-based» e «science-based». In qualche caso, tuttavia, agli analisti sarebbero state proposte soluzioni alternative.
Al posto di «evidence-based» e di «science-based», ad esempio, pare sia stato suggerito loro di utilizzare la frase «Cdc bases its recommendations on science in consideration with community standards and wishes». In altre parole, le raccomandazioni del Cdc prendono in considerazione sia i risultati scientifici sia i principi e le richieste della comunità. Come se scienza e opinioni fossero sullo stesso piano.
Nonostante un portavoce del Dipartimento della salute statunitense (Hhs), l’organo dal quale dipende il Cdc, si sia immediatamente affrettato a dichiarare che la notizia era stata riportata in modo errato; e nonostante la direttrice dello stesso Cdc abbia affermato che non esistono parole proibite, ce n’è abbastanza per allarmarsi. Sia perché le due smentite non coincidono (la lista di parole proibite esiste oppure no?) sia perché, se esistesse, secondo molti scienziati e ricercatori statunitensi questa avrebbe un unico scopo: cancellare intere categorie di persone, di malattie, e di politiche di prevenzione e assistenza dal prossimo bilancio federale. Secondo altri - la «National Review» ad esempio - si ricorrerebbe alla lista solo per mitigare l’impatto che parole come “transgender” avrebbero sui membri più conservatori del Congresso. Detto altrimenti, ciò che a molti appare una censura sarebbe un modo per placare gli animi dei repubblicani e promuovere l’approvazione del budget in tempi brevi.
Se lo scopo della presunta lista fosse davvero questo, però, si direbbe che lo Hhs e il Cdc (oggi guidati entrambi da funzionari nominati dal presidente Donald Trump) considerino i congressmen repubblicani non solo esaltati, ma anche ingenui a sufficienza per essere circuiti con un’operazione di cosmesi linguistica. Questa motivazione non appare convincente per diverse ragioni. La più rilevante per il nostro discorso è la seguente: possibile che la lista sia stata compilata per ammorbidire proprio coloro che della cosmesi linguistica a scopi di propaganda politica sono stati i maestri?
Negli ultimi vent’anni i repubblicani hanno utilizzato la lingua con grande sagacia. Il linguista George Lakoff, per esempio, lo ricordava ai lettori di «Repubblica» in un’intervista del 2016 dedicata alla campagna presidenziale in corso. In quell’occasione Lakoff ha esemplificato la strategia comunicativa del Partito repubblicano citando, tra gli altri, il caso di «riscaldamento globale». Il tramonto di questa espressione in favore di «cambiamento climatico», ha spiegato Lakoff, non è stato casuale, bensì frutto di una scelta (elaborata dal linguista cognitivista Frank Luntz), fondata su considerazioni di natura sia terminologica sia concettuale: con un cambio di parole apparentemente impercettibile siamo stati incoraggiati a trasformare un fatto innescato dai nostri comportamenti errati (il riscaldamento) in un inevitabile processo naturale (il cambiamento). I presupposti e le aspettative politiche che derivano dal cambio di frame sono evidenti: se è naturale perché opporsi?
Seguendo Lakoff, diventano più chiari sia gli scopi della presunta lista di parole proibite emanata dal Cdc sia i comportamenti linguistici del presidente Donald Trump.
Come parla Trump? Una ricerca presentata all’Università di Birmingham nel luglio del 2017 ha mostrato che l’odierno presidente degli Stati Uniti si affida a parole e frasi molto brevi, a espressioni e costruzioni prevedibili, a un vocabolario ristretto in cui abbondano i verbi e scarseggiano gli indicatori primari del ragionamento complesso: i sostantivi. A fine anno il sito dictionary.com ha contribuito a definire la questione con una classifica dei dieci termini più usati dal presidente statunitense, rilevando così che nella lingua di Trump regnano gli aggettivi superlativi.
Riassumendo: la lingua di Trump esprime concetti molto semplici con un’enfasi e un coinvolgimento che vengono percepiti come indici di sincero trasporto e spontaneità. Nulla che non si sia già visto altrove. E tuttavia, forse perché si tratta del presidente degli Stati Uniti e forse perché l’oratoria è stata da sempre un elemento essenziale del progetto politico statunitense, è sorprendente che una personalità politica linguisticamente tanto povera e prevedibile abbia mantenuto intatta la fiducia del 35% dei votanti dopo un anno che alla gran parte degli osservatori appare disastroso.
Per un’analisi più approfondita degli aspetti linguistico-cognitivi che stanno dietro a questa tenuta è opportuno rivolgersi proprio ai lavori di Lakoff. Qui basterà ricordare due eventi eloquenti dell’ultimo anno. Come «consolare» i suprematisti bianchi all’indomani dei violenti scontri avvenuti a Charlottesville dello scorso agosto, in cui un manifestante suprematista ha ucciso una manifestante antirazzista? Affermando che la responsabilità dei gravi fatti accaduti in città andava ascritta a entrambe le fazioni e che dunque anche la alt-left ha le sue colpe. Peccato che la alt-left non esista. E come condannare gli atleti neri che non si alzano in piedi quando in campo viene suonato l’inno nazionale? Definendoli degli ingrati. Dopo tutto quel che noi (i bianchi) abbiamo fatto per loro (i neri).
Il progetto politico di Donald Trump è reboante e al contempo sottile, tale e quale al suo stile linguistico-comunicativo. Nonostante i twitter compulsivi suonino a molti osservatori infantili, sgraziati e inquietanti, Trump sa come dire le cose giuste al momento giusto e soprattutto alle persone giuste (il suo 35%). E ha dimostrato di non aver bisogno delle imbeccate di Steve Bannon. Conosce il suo elettorato a sufficienza per centrare il bersaglio da solo.
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e il populismo...*
Populismo digitale o solamente para-fascismo?
di Nello Barile (Doppiozero, 18.09.2017)
Per molti commentatori la “vera” sinistra è davvero poco attrezzata per affrontare le problematiche fondamentali del nostro tempo - come sostenne anni fa anche Christopher Lasch - mentre le uniche formazioni oggi capaci di farlo sono: una sinistra neolaburista che saccheggia politiche di destra importandole nel proprio programma oppure i movimenti populisti che si pongono come forze post-ideologiche ma che, in loro parecchie manifestazioni, assumono posizioni tipicamente di destra. Non è ancora chiaro se tale condizione sia solo di passaggio, ovvero un interregno tra il vecchio sistema e il nuovo, oppure se è già parte del nuovo che ha spazzato via alcune parti del vecchio (come l’idea classica di sinistra).
Tra gli autori che oggi invece confutano tale tesi, Alessandro Dal Lago nel suo Populismo digitale (Raffaello Cortina 2017) propone una critica serrata contro l’alleanza tra globalizzazione e cultura digitale, ma anche contro il populismo che rappresenta un modo sui generis di incrinare tale alleanza e di utilizzare le armi del digitale contro la globalizzazione. Per questo il testo esordisce con due citazioni in esergo che sono talmente stridenti da rendere bene il senso di questo passaggio problematico. Da un lato Antonio Gramsci che definisce la crisi come uno stato di sospensione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, dall’altro invece Gianroberto Casaleggio con la sua profezia su internet “supermedia che assorbirà tutti gli altri”. Due figure troppo diverse e sostanzialmente contraddittorie: se il primo rappresenta l’essenza intellettuale dell’ethos politico tradizionale, l’altro esprime l’essenza imprenditoriale dell’ethos post-politico.
Un contrasto perfetto che lancia il lettore in un’introduzione molto dinamica e accattivante, in cui la questione chiave del “come moriremo?” (prima democristiani, poi berlusconiani, poi renziani, adesso forse grillini) serve a rendere conto di uno dei temi centrali di tutto il testo: la velocità crescente del cambiamento, la perdita di riferimenti e il sostanziale movimento caotico dell’attuale sistema politico nazionale e globale. L’agente di tale trasformazione è ovviamente il digitale, evocato anche nel titolo e letto qui non tanto in termini deterministici ma come nuovo ecosistema che avvolge e sommerge la vecchia politica, trasformandola in qualcosa d’altro.
Una delle metafore che difatti Dal Lago predilige, riprendendola dal gruppo Ippolita (p. 16), è quella dell’acquario che ci mostra come la libertà assoluta promessa dal web sia a ben vedere recintata nello spazio circoscritto del virtuale, dunque una libertà paradossale.
Per questo motivo egli ricorre al modello cognitivo del doppio vincolo (p. 19) per esaminare la nuova comunicazione politica. Lo stesso modello è, dal mio punto di vista, indispensabile per comprendere la logica dei brand (commerciali, politici, terroristici ecc.).
Nella sua accezione originaria il doppio vincolo indica un difetto di comunicazione tra madre e figlio talché il secondo non è in grado di risolvere la contraddizione che si manifesta tra i messaggi di odio e di amore inviati dalla madre. Questa comunicazione paradossale mina il senso dell’identità dell’infante e può degenerare nella schizofrenia. Alcune espressioni come “La rete sei tu” oppure “Sei libero solo in rete” sono per l’autore eminentemente doppiovincoliste, ovvero utilizzate dai padroni della rete per esercitare un “controllo sulle procedure politiche formalmente democratiche” (ib).
Se è vero che la digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti chiave della globalizzazione (p. 23), a ben vedere la nuova cultura che si produce a partire dal web contiene in sé anche i germi della reazione alla globalizzazione. Per questo la rete è l’ambiente di coltivazione dei populismi contemporanei, non solo di quelli più marcatamente post-fascisti ma anche quelli di sinistra o vocatamente post-ideologici.
L’ascesa del populismo sul palcoscenico della politica globale coincide con lo svuotamento del significato della parola “popolo” (p. 29). Dal Lago offre una rassegna di molteplici interpretazioni moderne di tale concetto, anche per sottolineare la pericolosità di un suo riferimento diretto a una matrice etnica omogenea. Ad essa si contrappongono invece la concezione “morale” di Renan e quella più “finzionale” di Weber, secondo cui appunto “la volontà del popolo non è altro che una delle convenzioni (...) politiche necessarie a legittimare la rappresentanza” (p. 40).
Il dibattito sul populismo è ancora sospeso tra l’idea di una reazione integrale contro “l’espropriazione delle democrazie da parte delle oligarchie politiche” (Revelli 2017) e quella che invece vede la stessa sinistra moderata colpevole di un “tradimento di classe in favore dei diritti umani (LGBT, immigrati ecc.)” (Formenti 2016). Pertanto il populismo rischia di condurre le sinistre in un vicolo cieco, dato che “riconoscere come giuste le ragioni della destra significa legittimarla” (p. 51), in un pericoloso salto mortale in cui l’elettore è tendenzialmente persuaso a scegliere l’originale rispetto alla brutta copia.
La critica dell’autore alla nuova politica pervasa dalla rete si accentua quando si considera il populismo come una realtà immanente alla rete (p. 53). Il modo in cui l’affermazione di internet fa saltare in aria la distinzione tra pubblico e privato - pilastro delle democrazie moderne - ci indirizza verso una dimensione che dal mio punto di vista è definibile come neototalitaria (Barile 2008), in cui il privato è appunto irretito e messo a disposizione del pubblico.
La critica di Dal Lago insiste sulla separazione tra la dimensione virtuale e quella reale (p. 53) e definisce la nuova socialità mediata dalla rete come “disincarnata” rispetto a quella materiale e incarnata nei processi storici. Tra le due ci sarebbe la stessa relazione che intercorre tra pornografia e sessualità. L’idea secondo cui l’utente della rete tende a considerare lo schermo del computer come unica porta d’accesso alla realtà insiste forse su un paradigma obsoleto - da altri definito dualismo digitale - e impedisce di cogliere la totale integrazione tra il livello comunicativo-virtuale e quello della realtà fisica. Un’integrazione che sotto alcuni aspetti può essere ancor più pericolosa delle nuove forme di alienazione imposte dal digitale.
Alcuni temi di questo approccio neocritico alla rete ritornano in un capitolo dal titolo davvero ammirevole: “La realtà come costruzione virale”. In esso si argomenta come l’interazione tra viralità e l’immediatezza del tempo reale impatta sui modi di costruzione/rappresentazione della realtà sociale, modificandola in base alle proprie funzioni.
Per questo motivo Dal Lago riprende i temi di una più generale mutazione antropologica che ha dato vita al “soggetto digitale”, anche se quest’ultimo è ben diverso dal soggetto che ha abitato la cultura e la politica moderna. Molto distante dall’americano medio tipicamente eterodiretto che animava La folla solitaria di Riesman, il soggetto digitale ha semmai un problema di eccesso di autodirezione.
Da ciò deriva anche uno smembramento drammatico del popolo in una molteplicità irriducibile di punti di vista e interessi di gruppi che utilizzano il web per amplificare i propri messaggi: “gli operai del Michigan che hanno votato Trump, gli agricoltori impoveriti del Midwest, gli studenti radicali dei campus, i Latinos, gli attivisti per i diritti LGBT... non possono essere rappresentati, tantomeno unificati da un’idea di medietà” (p. 67). L’unico comune denominatore tra tutti questi è l’essere in vario modo soggetti digitali, che appunto aderiscono alla modalità “disincarnata” d’azione mediata dal web. Dal Lago denuncia la crescente sparizione dei momenti “tradizionalmente sociali” della vita e del dibattito pubblico (p. 68), insieme allo svanimento delle esperienze faccia a faccia in “favore di mere estensioni digitali” (p. 69).
Se è vero che questo processo di desertificazione sociale è una minaccia anche per altri mercati, come ad esempio la moda in cui l’esperienza urbana dello shopping potrebbe essere sostituita totalmente dall’e-commerce e dai sistemi di delivery (l’autore fa l’esempio di Amazon), è anche vero che questo è solo il più radicale e forse meno probabile tra gli scenari possibili (quello che io chiamo “isolation”), mentre invece il più probabile ci racconta di una sostanziale fusione tra mondo digitale e fisico, tra bit e atomi, in nuove modalità d’interazione al contempo reali e virtuali. Dopo un’analisi impeccabile sulla trasformazione sistemica, l’autore torna a insistere sulla dimensione psicologica con immagini che talvolta hanno il sapore di un’altra epoca. Come “la persona in carne e ossa seduta davanti allo schermo” che in tal modo “acquista una seconda identità o meglio perde quella relazionale e sociale a favore di una virtuale” (p. 73).
Il discorso di Dal Lago si mostra molto più efficace nella disamina delle pratiche linguistiche concrete, come nel caso dell’analisi degli articoli e dei post che alimentano il dibattito online e offline sull’immigrazione. La stessa trasformazione della dialettica politica a opera di trolls, haters ecc. dimostra questo cambiamento qualitativo del dibattito pubblico, dato che certe espressioni offensive non potrebbero essere usate in una situazione “reale” senza degenerare nello scontro fisico. Cosicché, come anche Mark Thompson (2017), Dal Lago denuncia il fatto che “lo stile prevalente dei dibattiti online sta creando una cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale” (p. 84). Di particolare interesse sono le pagine in cui si elencano le caratteristiche del fenomeno squisitamente televisivo del peronismo, per confrontarle con quelle dei diversi digital-populismi di oggi. Una riflessione che consente all’autore di introdurre il concetto di para-fascismo, riferito specialmente al Movimento 5 Stelle, dalla “arroganza bislacca del capo” alla sua “passione per i plebisciti e per le performance sportivo-pubblicitarie” (p. 113).
Tale definizione ha ovviamente fatto risentire gli attivisti e i simpatizzanti del Movimento che, in una sorta di chiusura del circuito, hanno risposto con toni polemici sul profilo Facebook dell’autore. A differenza di altri studiosi di sinistra che stanno rivalutando il discorso populista con maggiore cautela - come Carlo Formenti ne La variante populista che insiste molto più sulla reazione del populismo contro il comune nemico della finanza globalista - Dal Lago non concede alcuna legittimazione né alla retorica, né alla pretesa neutralità post-ideologica del populismo, insistendo invece sulla sua matrice identitaria e autoritaria, propria dell’ideologia forte che lo ha preceduto.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ).
Federico La Sala
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La Costituzione, le regole del gioco, il paradosso istituzionale del mentitore... e il "popolo della libertà"!!!
A) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (Alessandro Dal Lago, si cfr.: "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
B) MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)
C)Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4371)
D) LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4112).
E) "A un individuo [ma anche a una intera società, fls] può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico" (SCUOLA DI PALO ALTO (CALIFORNIA): PAUL WATZLAWICK. cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2010)
F) FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO - POPULISMO DIGITALE. “La realtà come costruzione virale” (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829#forum3131196).
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre...
VIRTUALE E DINTORNI...
Cosa ci racconta la rete
IL GRANDE FRATELLO E I TELEVISORI SAMSUNG?
di Francesco Bollorino ("Psychiatry on line", 4 agosto, 2017
Non sono mai stato un “complottista”, mi hanno fatto sempre sorridere le ricostruzioni strambe e spesso deliranti degli avvenimenti che circolano in rete e che purtroppo fanno proseliti, ho rischiato rotture di conoscenze per via delle “strie chimiche” e ne ho rotte sul tema dei vaccini.
Mi considero uno spirito laico e mi sento un po’ San Tommaso ma, due giorni fa, è accaduto un piccolo fatto che mi ha molto colpito e che vi voglio raccontare.
Ho acquistato un modernissimo ma sufficientemente a buon mercato televisore della Samsung e, come prevede la prassi, due tecnici sono venuti a consegnarmelo a casa e ad attivarlo, per verificarne il corretto funzionamento.
La procedura prevede l’accensione del televisore, il suo corretto collegamento e il setup di partenza.
Durante l’attivazione del menù di avvio, con sorpresa anche del tecnico, è comparso sullo schermo il C.A.P. della mia abitazione, in maniera automatica, come se il televisore avesse rilevato la geo-localizzazione della sua posizione “nel mondo”.
Va detto che è difficile che ciò possa essere dovuto ad un GPS incorporato nell’apparecchio poiché tale tecnologia necessita che il dispositivo “veda” la rete di satelliti a cui si aggancia per determinare la posizione: evidentemente si trattava di qualcosa di altro, ma il risultato era lì davanti ai nostri occhi, il TV “sapeva” dove si trovava e io non gli avevo chiesto di saperlo.
Questo piccolo episodio mi ha fatto tornare in mente alcuni articoli letti sul tema del controllo remoto, attuabile anche attraverso gli elettrodomestici e non solo attraverso l’eventuale intercettazione delle comunicazioni fatte con apparecchi “mobile”.
Pur non essendo, come detto, un complottista mi son posto e pongo a voi che leggete poche anche se non semplici domande a cui non ho una risposta.
Perché la Samsung ha installato questa tecnologia nel televisore per altro non indicata in nessuna descrizione tecnica dell’apparecchio? Di che tecnologia si tratta? A cosa potrebbe servire “ufficialmente”? A cosa potrebbe servire "riservatamente"? Tra l’altro il televisore è in grado di accettare comandi vocali e comprende il linguaggio un po’ come Siri della Apple.
Conosciamo esattamente tutto ciò che sta dentro le elettroniche che usiamo? Esistono cioè “funzioni” nascoste e/o attivabili che nulla hanno a che fare col funzionamento ma molto possono avere a che fare con qualche forma di controllo remoto, la cui base è, anche e soprattutto, l’individuazione del luogo da cui parte l’eventuale informazione oltre che la "cattura" dei contenuti?
E’ possibile che un elettrodomestico di ultima generazione non si limiti a fornire un servizio ma che possa “anche” ascoltare ciò che gli accade attorno, in maniera autonoma o attivata da remoto e in qualche maniera trasmetterlo? In 1984 Orwell immaginava un televisore che guardava dentro casa non limitandosi a mandare in onda le trasmissioni del Regime.
Esiste un modo per proteggere la nostra privacy davvero?
Ovviamente sarei lieto di essere edotto sui dubbi che mi sono sorti e se vogliamo dirla tutta un po’ tranquillizzato nei confronti degli sviluppi della società futura: il Grande Fratello non so se esiste, certo esiste la National Security Agency e i suoi rapporti documentati coi grandi players tecnologici mondiali e certo esistono i Cookies che, da tempo e col nostro assenso sul loro uso, non sulla natura precisa del loro funzionamento, ci profilano in maniera silente ma molto invasiva nella nostra vita on line, se dovesse accadere che pure gli elettrodomestici ci tracciano o possono essere attivati per farlo non mi pare un gran mondo quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
Che ne pensate?
SUL REMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
La vita in gioco
di Marco Dotti (Alfabeta2, 8 maggio 2017)
In un aforisma di Alan Watts si afferma che la vita è un gioco la cui regola costitutiva è che la vita stessa «non è un gioco, ma una cosa seria».
Nelle sue celebri Istruzioni per rendersi infelici, Paul Watzlawick dedica un intero capitolo alla vita come gioco. Ed è qui che, con questo fulminante aforisma, introduce nel proprio discorso una categoria - quella fra giochi a somma zero e giochi a somma diversa da zero - spesso dimenticata da coloro che, occupandosi di giochi e di gioco, tendono a sovraccaricare, senza problematizzare gli esiti e l’efficacia, la tassonomia introdotta da Roger Caillois nel suo - cosa di cui ebbe a dispiacersi l’autore stesso - forse fin troppo celebre I giochi e gli uomini.
Tassonomie dell’incerto
Caillois distingue fra giochi di competizione o agonistici (agon), d’azzardo (alea), giochi di mascheramento (mimicry) e giochi di vertigine (ilynx). Su questa quadruplice trama orizzontale, ricorda Lucio Saviani nel suo lucidissimo Ludus mundi. Idea della filosofia, da poco edito per Moretti&Vitali, Caillois innestava poi «l’ordito verticale della spontaneità individuale (paidía) e dell’organizzazione istituzionale (ludus)».
Entrambe le classificazioni dei giochi proposte da Caillois (orizzontale: agon, alea, mimicry, ilynx; verticale: paidía, ludus), osserva Saviani, sembrano però funzionare solo all’interno dello schema dei giochi a somma zero, ovvero quei giochi in cui se un giocatore vince, l’altro perde e vincita e perdita, sommate, danno come risultante zero. Ogni scommessa si basa su questo semplice schema.
Diversamente, lo schema rischia di saltare a contatto con quei giochi a somma diversa da zero, studiati già negli anni Quaranta dal matematico John Von Neumann e dall’economista Oskar Morgenstern, giochi in cui vincita e perdita non si pareggiano: sommate, possono risultare maggiori o inferiori a zero e tutti i giocatori possono al contempo vincere (o perdere). [1]
Giochi infiniti
Al pari di Homo ludens di Huizinga, I giochi e gli uomini di Caillois resta però un testo capitale, anche al lordo delle obiezioni. Per entrambi, ricorda Saviani, che in Ludus mundi articola profonde riflessioni sul tema, le obiezioni che negli anni sono state sollevate assumono il tono delle recriminazioni per promesse non pienamente mantenute. È malinconia generata nei lettori per non essersi spinti, gli autori, ancora più in là, ancora più a fondo.
E proprio qui risiede il problema, nella lettura di Saviani: esiste davvero un fondo, un di là? Esiste altro che non sia l’infinito differimento che il gioco innesca e a cui il gioco rimanda? Grattando via l’immaginario, grattando il gioco non si vince, né tantomeno si raggiunge il reale. Gioco e realtà vanno di pari passo.
Non è un caso se proprio la questione dei non zero sum games era servita a uno studioso di storia delle religioni e teologia alla New York University, James P. Carse, per introdurre una maniera per molti versi inedita di trattare la questione del gioco partendo dal punto di snervamento del gioco senza fine.
Nel suo Finite and infinite games, pubblicato nel 1986, rapidamente diventato un best seller e a suo tempo tradotto da Mondadori con il sottotitolo La vita come gioco e come possibilità, Carse introduce una definizione molto particolare di gioco. Se per Huizinga e per Caillois il gioco era attività libera, circoscritta e quindi separata dal quotidiano, pena l’impossibilità di parlare di gioco, Carse va oltre. Va oltre e osserva che se lo scopo di un gioco finito è vincerlo, quindi chiudere il gioco, circoscriverlo, quello di un gioco infinito è continuare il gioco, aprendolo di continuo. Si gioca per non uscire dal gioco, per non finirlo mai. Troviamo quindi in Carse - annota Saviani - una novità che sembra mettere in crisi proprio quell’elemento costitutivo e condiviso che, nella linea Huizinga-Caillois, ha visto nel gioco un’attività circoscritta nello spazio e limitata nel tempo. Proprio in questa linea, un’altra delle caratteristiche del gioco era la sua impossibilità di definirlo dall’interno. Al contrario, i giochi infiniti, osserva Carse, possono definirsi solo internamente al gioco stesso. Le regole di un gioco infinito cambiano nel corso del gioco.
Scrive Carse che il «tempo di gioco infinito non è il tempo del mondo, bensì un tempo creato all’interno del gioco stesso». L’apertura ai giocatori di un nuovo orizzonte temporale rende impossibile capire «per quanto tempo si sia giocato un gioco infinito, o addirittura per quanto tempo lo si possa giocare, poiché la durata può essere misurata solo dall’esterno di ciò che dura». Per la stessa ragione, è impossibile dire in quale mondo si stia giocando un gioco infinito, anche se all’interno di un gioco infinito può esserci un numero infinito di mondi e dentro un gioco infinito possono giocarsi giochi finiti, mai viceversa.
Una grammatica viva
Anzi, poiché non si danno regole costitutive certe per quel gioco, le regole devono infinitamente e continuamente cambiare. Torna, osserva Saviani, l’immagine della scacchiera aperta introdotta da Jacques Derrida. Il rapporto regola-gioco che Eugen Fink - autore a cui Saviani dedica ampia attenzione - individuava per tutti i giochi, Carse lo declina solo per i giochi finiti nel tempo, nello spazio e nel numero. Nei giochi infiniti è previsto che le regole cambino nel corso del gioco, ovvero quando i giocatori di un gioco infinito implicitamente o esplicitamente concordano sul fatto che il gioco sia messo in pericolo da un esito finito. Le regole cambiano affinché il gioco non finisca. Ma qual è lo status di queste regole-mutanti? Carse le paragona a una grammatica o meglio: esse sono come la grammatica di una lingua viva. Se in un gioco finito osserviamo delle regole per mettere fine al discorso di un altro, in un gioco infinito osserviamo queste regole per non finirlo mai, per continuare un discorso. Queste regole in movimento sono garanzia della significatività di quel discorso. «La grammatica di una lingua viva - spiega Saviani - è un insieme di regole che devono cambiare per mantenere viva la lingua».
Scrive ancora Carse: «La capacità dei giocatori di un gioco infinito di stabilire delle regole è spesso minacciata dall’interferenza di forti limiti contro cui si imbatte il loro gioco: l’esaurimento delle energie fisiche, la perdita di risorse materiali, l’ostilità di non-giocatori, la morte». Si tratta quindi di progettare (design) regole che consentano ai giocatori di proseguire «assorbendo quei limiti nel gioco stesso: persino quando uno di quei limiti è la morte». Il gioco è, allora, davvero infinito. Questo tema dell’assorbimento dei limiti del gioco nel gioco fa emergere ancor di più la differenza fra giochi finiti e infiniti: nei primi, i giocatori giocano dentro confini ben delimitati e precisi; nei secondi, i giocatori giocano con i confini.
Colui che che sposta i confini
Sulla nozione di confine o limite, si sa, moltissimo si gioca in filosofia. La sfida di Saviani non è quella di «pensare l’essenza del gioco in base all’essere come fondamento, quanto l’essere come fondo abissale a partire dal gioco». In questo, l’idea di filosofia di cui il gioco è simbolo non apre a orizzonti di verità di cui appropriarsi. È, al contrario, una continua pratica del limite. «Esercizio di radicale finitezza», la descrive l’autore. Grammatica viva, gioco infinito di uomini, tra uomini la cui fatica critica è protesa a spostar confini, mai a situarli.
1 Caillois, in qualche modo, si era già accorto del problema della tenuta (pragmatica, oltre che concettuale) del suo schema e in una nota d’appendice, davanti al crescente fenomeno del machine gambling (machine à sous, slot machine e, almeno in parte, anche il patchinko giapponese) non riuscendo a classificarlo né fra i giochi d’agon, né in quelli di vertigine o d’azzardo, e nemmeno in tutti e tre, preferiva aggirare il punto critico del gioco a somma diversa da zero affermando che la ripetitività ossessiva delle macchinette le avvicinava più alla mania e all’ipnosi che al gioco stesso. Un bel problema, per Caillois che, pur consapevole che su quel problema si giocava tutto, preferì salvare la sua tassonomia ed eluderlo. Ma se è vero che le tassonomie sono indicative più per quel che escludono, che per quel che includono qualcosa, allora, anche quella mania ci dice.
Forse perché, oggi che socialmente il machine gambling è fenomeno prevalente, ci accorgiamo che dentro quel non-gioco risiede la vexata questio - studiata sotto diversa luce da Bateson e ancora Watzlawick nel celebre capitolo sui paradossi pragmatici della Pragmatics of human communication scritta con Beavin e Jackson - del gioco senza fine. Un gioco a cui, una volta avviato, non solo non si deve, ma non si può porre termine.
Lucio Saviani
Ludus mundi. Idea della filosofia
con un poemetto di Pasquale Panella
postfazione di Aldo Masullo
Moretti&Vitali 2017
pp. 217, euro 17
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)
«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi seminali e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.
Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».
L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.
Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».
Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.
Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.
A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.
Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.
Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
A noi gli occhi, siamo persone serie
Il congresso mondiale dell’ipnosi, sempre più utilizzata come supporto alla medicina tradizionale
di Leonardo Martinelli (La Stampa, 01.09.2015)
Atmosfera studiosa, concentrata, discussioni serrate su una serie di casi clinici. Come in un qualsiasi altro simposio di medici e ricercatori. Sì, dimenticate il pendolino e i fenomeni da baraccone, lo stile «a me gli occhi» e Giucas Casella: gli specialisti di ipnosi, tutti psicoterapeuti, psichiatri e altri professionisti della sanità, si sono riuniti negli ultimi giorni a Parigi per il loro congresso mondiale. «Siamo persone serie», ci tiene a precisare Claude Virot, che ha presieduto l’evento, uno dei maggiori esperti del settore. Che negli ultimi anni sta vivendo un vero boom.
Il boom
«Le ragioni sono molteplici - spiega lo psichiatra -. Innanzitutto, ci sono sempre più persone formate a questa tecnica: in Francia, dalle diverse scuole, anche universitarie, escono ogni anno almeno 2 mila diplomati». Proprio questo paese, con la Germania, è quello dove in Europa l’ipnosi è più diffusa. E dove, anche a livello mondiale, la ricerca avanza più in fretta, a differenza di una trentina di anni fa: allora era ancora dagli Stati Uniti che venivano fuori le novità. In Italia, invece, siamo ad appena un centinaio di persone che annualmente terminano i corsi riconosciuti.
Non solo psiche
Stiamo parlando sempre delle «persone serie»: professionisti della sanità che una laurea o un titolo ce l’hanno già. E che apprendono l’ipnosi come una specializzazione aggiuntiva. «Perché si tratta sempre di una tecnica complementare rispetto alle altre - sottolinea Consuelo Casula, psicoterapeuta italiana, presidente della Società europea di ipnosi -. Può essere che un paziente chieda di non ricorrerci, ma ormai sono sempre più numerosi quelli che invece vogliono espressamente che venga applicata. Un altro motivo dello sviluppo dell’ipnosi è che negli ultimi anni diverse ricerche scientifiche se ne sono occupate, dimostrandone l’efficacia».
Al congresso, in effetti, tanti dibattiti hanno coinvolto neuroscienziati che lavorano su un mondo così misterioso.
Forse, però, la ragione principale dell’ipnosimania è che crescono di continuo i campi di applicazione. «All’inizio ci limitavamo all’ambito più strettamente psicologico - continua Virot -: alle depressioni o ai burnout da lavoro. Poi si è passati a curare il dolore fisico». Adesso l’ipnosi viene utilizzata per lombalgie croniche, lesioni al midollo spinale, per la rieducazione post-infarto, anche per un parto. Nel caso di cure dentarie può permettere di ridurre le somministrazioni di anestetico, se non proprio di eliminarle del tutto.
«Nel mio lavoro - ricorda Laurent Gross, kinesiterapeuta - mi rende più facile effettuare manipolazioni particolarmente dolorose» L’italiano Enrico Facco, anestesista, ha addirittura addormentato una paziente (allergica alle sostanze tradizionali) solo con l’ipnosi prima di un intervento chirurgico, a Padova, nel 2013. Il francese Philippe Aïm è psichiatra e dirige a Parigi un centro di formazione di ipnosi. «La insegno molto ai medici urgentisti - spiega -: al pronto soccorso la sfruttano per tranquillizzare il paziente, che deve subire dei punti di sutura o altri trattamenti dolorosi». Aïm ribadisce che bisogna fare attenzione ai ciarlatani, «all’ipnosi da spettacolo che ancora oggi resiste e a coloro che credono che sia una mestiere di per sé: non sono professionisti sanitari e operano in quel mondo indistinto del benessere o peggio del new age».
Il lavoro di Erickson
Ovviamente c’è ipnosi e ipnosi. «Dipende anche dalla storia di un paese, dalle sue abitudini, dalla sua struttura sociale », precisa Virot , che negli ultimi giorni ha potuto confrontarsi con oltre 2.500 ipnositerapeuti in arrivo da 56 paesi diversi. «Ad esempio, conosco bene la Turchia: lì l’ipnosi è ancora autoritaria, molto più direttiva rispetto alla Francia. Da noi e in grossa parte anche in Italia si è affermata a largo raggio la scuola ericksoniana, che ricorre a storie e metafore come supporti». Ebbe origine dal lavoro di Milton Erickson, morto nel 1980, che ha rivoluzionato il settore, «perché dopo la svolta rappresentata da quest’americano ormai si fa l’ipnosi con un paziente e non semplicemente su di lui: si instaura un rapporto di collaborazione».
Decisamente ericksoniana è l’autoipnosi, che si è sviluppata molto negli ultimi cinque anni. «È comoda - conclude Consuelo Casula -, perché permette di stabilire una continuità tra una seduta e l’altra. Io ho pazienti che registrano la mia voce, mentre faccio l’induzione». Per poi riascoltarla. E partire di nuovo verso un altro mondo, dimenticare sofferenze. Del corpo e dell’anima.
FILOSOFIE. Che ci tocchi attribuire un significato all’universo è la grande intuizione della scuola di pensiero dell’antica Grecia. Una lezione che torna utile anche oggi, quando dimentichiamo che non bisogna dividere i buoni dai cattivi ma risolvere problemi.
Il linguaggio, la politica e noi.
I sofisti hanno ragione
Il mondo senza un senso assoluto, la verità è frutto di un negoziato
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 24.05.2015)
I sofisti sono i perdenti della storia. Ne fa fede il termine stesso, «sofista»: da esperto del sapere (sophistes è imparentato con sophia, «sapienza») a poco più che ciarlatano. Sofista, oggi come ieri, è chi gioca con le parole, chi imbastisce ragionamenti capziosi al solo fine di prevalere in una discussione. Il giudizio di Aristotele è tombale: il sapere dei sofisti è un sapere delle apparenze e dunque un’apparenza di sapere. Un sapere illusorio, fatto di parole brillanti ma vuote: fossero vissuti oggi, i sofisti imperverserebbero negli studi televisivi, pronti a sostenere non importa quale tesi, capaci delle più imprevedibili giravolte. Oppure, ma in fondo è la stessa cosa, li troveremmo nelle stanze segrete della politica, impegnati ad ammantare di belle parole i propositi non sempre nobili dei loro capi. Gli altri, le persone per bene e i filosofi, fanno altro, si occupano di problemi seri, e di cose reali.
La questione è però che anche i sofisti, spregiudicati e cialtroni quanto si voglia, si occupano di cose reali. Si occupano delle parole, che sono come un pharmakon, diceva il sofista Gorgia, come una medicina o una droga, sostanze che possono salvare ma anche uccidere. A chi li frequentava i sofisti promettevano che avrebbe imparato a padroneggiare il linguaggio per affermarsi in tutte le situazioni - perché in una società complessa non si prevale con la forza, ma con le parole.
All’inizio degli anni Novanta, sfumate le illusioni del comunismo, da destra a sinistra tutti si dicevano liberali e tutti parlavano di libertà, termini di per sé opachi, aperti a molteplici interpretazioni. Alla fine, di queste parole si è appropriato Silvio Berlusconi: ha impresso loro la rotazione che gli serviva e ha governato vent’anni. Le parole contano e andare a lezione dai sofisti a volte conviene. Ma la lezione dei sofisti non si esaurisce in questa dimensione pratica, per cui importa solo il controllo concreto delle parole. Più interessante è la riflessione sottotraccia.
Detto in sintesi, la filosofia è il grandioso tentativo di trovare il senso della realtà. Ci siamo noi e c’è il mondo: il compito della filosofia è scoprire il senso del mondo, mostrarne la razionalità e offrirci una guida per le nostre azioni. Per i sofisti è tutto più complicato: ci siamo noi e c’è il mondo, certo. Ma è sicuro che ci sia un legame tra noi e il mondo? L’intuizione dei sofisti è tutta qui: è la presa d’atto del rapporto problematico che separa noi e la realtà, i soggetti e gli oggetti. La realtà che ci circonda è sfuggente, non è dotata di senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Non si tratta dunque di estrarre un senso dalla realtà; al contrario si tratta di darle un significato e un valore - un significato e un valore umano. In questo i sofisti fanno propria un’idea di fondo dei greci (ma non dei filosofi greci): che il mondo non è qui per noi, ma che siamo noi a doverci adattare ad esso. E per fare questo lo strumento di cui disponiamo è il logos: i pensieri, i ragionamenti, le parole e i discorsi.
Questo strumento che è il linguaggio può però essere usato bene o male, e in entrambi i casi i sofisti hanno qualcosa da dire. Il linguaggio è usato male quando viene sfruttato per giustificare abitudini e pregiudizi, o ancora peggio rapporti di forza. È la legge delle tre «n»: normale, naturale, normativo. Se fino a qui è stato normale fare così, vuol dire che era naturale fare così; e se era naturale vuol dire che era giusto: normale, dunque naturale, dunque normativo... Da che mondo è mondo, le donne stanno a casa; e se così accade è perché è naturale che sia così. E dunque è giusto che sia così. Ma perché poi? Si noti: i sofisti non hanno tesi da sostenere, ma pregiudizi da smascherare. Magari è giusto che le donne stiano a casa. Ma bisogna dimostrarlo.
L’effetto dirompente di un simile atteggiamento si manifesta soprattutto nel campo della politica. Negli stessi anni dei sofisti, ad Atene aveva trionfato una tragedia di Sofocle, che celebrava il nobile sacrificio di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i suoi ideali di giustizia. Ma Antigone, per i sofisti, aveva sbagliato tutto, perché aveva presupposto l’esistenza - ma perché poi? - di una giustizia divina e assoluta, sulla cui base aveva regolato le proprie azioni. La giustizia però non è una divinità: è quanto di più umano vi possa essere, è il risultato di accordi e decisioni umane e fin troppo umane. Peggio: la giustizia è l’utile del più forte, come Trasimaco spiega a Socrate nella Repubblica di Platone. Questa è la realtà dei fatti: la giustizia è il valore che regola i rapporti all’interno di una comunità. Ma essa non è assoluta (vale a dire indipendente dagli e superiore agli uomini) o neutra (vale a dire distaccata e imparziale): è piuttosto il risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. La giustizia è il sistema di regole che chi detiene il potere impone agli altri per tutelare il proprio interesse.
Si pensi al grande scontro ideologico che ha dominato il secolo scorso, quello tra comunismo e liberalismo. Per i comunisti giustizia era un’equa ripartizione dei beni; per i liberali era il trionfo della libertà. Ma perché poi, si chiede il sofista? Non è che i comunisti sostenevano la loro idea perché adottavano il punto di vista del popolo, desideroso di entrare in possesso dei beni dei possidenti? E i liberali non peroravano forse la causa della libertà proprio per tutelare le proprietà di quei possidenti? «A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca», verrebbe voglia di chiosare con un noto politico italiano, che dei sofisti era evidentemente buon lettore.
Questo atteggiamento disincantato potrà spiacere per il suo cinismo ostentato. Il mondo visto con le lenti dei sofisti è in effetti un mondo ambiguo, faticoso, dove tutti hanno qualche ragione da far valere e qualche interesse da difendere.
Potrà non piacere, ma l’esperienza internazionale insegna che conviene tenerne conto: troppo spesso quando scoppiano rivolte o conflitti, in Siria, in Libia, in Ucraina, ci si preoccupa di distinguere tra buoni e cattivi, senza pensare alle conseguenze di quello che si sta facendo, agli interessi e ai rapporti di forza in gioco. In certi casi almeno, i buoni e i cattivi ci sono anche: ma il problema della politica è dividere il mondo tra buoni e cattivi o risolvere i conflitti?
L’intuizione dei sofisti è insomma la presa d’atto della relazione costitutiva tra il linguaggio e la politica. L’uomo è un animale politico e la politica si fa prima di tutto con le parole: il linguaggio è un fatto politico. E questo apre anche a una dimensione più positiva. La lezione dei sofisti è anche un invito a farsi carico delle proprie scelte in modo consapevole, a costruire insieme un mondo in cui ci si possa ritrovare, uscendo dalla logica della forza.
Rinunciare alla pretesa di essere detentori di una verità assoluta non vuol dire essere completamente privi della verità, come se non esistesse. Vuol dire prendere atto che i punti di vista sono tanti e tutti meritano di essere tenuti in considerazione. Quando il sofista Protagora proclamava che «l’uomo è misura di tutte le cose», questo voleva intendere: che ognuno di noi (l’uomo come individuo) ha delle ragioni da far valere e che tutti insieme (l’uomo come umanità) possiamo e dobbiamo trovare un accordo.
Bisogna insomma vigilare affinché le parole rimangano patrimonio condiviso. Non sembra un problema centrale, e invece è fondamentale. Allievo dei sofisti, lo storico Tucidide ha colto meglio di tanti altri che la comunità umana poggia su basi fragili. Sul finire del V secolo avanti Cristo la Grecia fu devastata dalle guerre civili: si assistette a padri che uccidevano i figli e a figli che uccidevano i padri, a supplici che venivano sterminati nei templi in cui si erano rifugiati, al sovvertimento di qualunque regola morale e civile. Ma davvero sconvolgente, riferisce Tucidide, è quello che era successo alle parole: avevano perso un significato condiviso, venivano usate per fini privati, per giustificare non importa quali azioni. La guerra civile, la riduzione degli uomini a uno stato bestiale, passa anche per la manipolazione delle parole.
Sono episodi lontani, che difficilmente si ripeteranno? Eppure Victor Klemperer, un filologo tedesco, ha osservato che proprio l’appropriazione delle parole aveva spianato il cammino di Adolf Hitler: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».
Ancora più eloquenti sono le parole di una rifugiata del Ruanda: «Devo precisare un’osservazione importante: il genocidio ha cambiato certe parole nella lingua dei rifugiati, e ha decisamente fatto sparire il senso di altre parole, e colui che ascolta deve essere attento a queste perturbazioni di senso».
In Italia, fortunatamente, siamo lontani da queste aberrazioni. Ma il rischio che le parole si consumino, che perdano un significato condiviso non è per niente remoto: cosa significa oggi «democrazia»? E «giustizia» o «libertà»? Si badi: le parole sono sempre instabili e i significati sono sempre il risultato di una negoziazione. Il problema è quando si perde coscienza di questa instabilità. Rileggere quei cattivi maestri che sono stati i sofisti potrà forse servire a evitare di ricadere in questo errore.
Impara a comunicare: prendi a schiaffi una categoria a caso
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 23.05.2015)
Quelli che hanno fatto buoni studi e che ora di mestiere fanno i rampanti comunicatori del consenso, la chiamano “disintermediazione”. Esistendo in questo paese più “scienziati della comunicazione” che salumieri (un vero peccato) dovreste più o meno sapere cos’è. Erano “disintermediazione” i videomessaggi di Silvio Berlusconi, così come lo sono i videclip, con o senza lavagna, di Matteo Renzi. Si tratta di una disintermediazione un po’ farlocca, perché se non hai a disposizione giornali e tg che rilanciano il tuo spettacolino funziona un po’ meno, ma insomma... Esempio. C’è lo sciopero dei ferrovieri. Mediazione è parlare con le rappresentanze sindacali dei ferrovieri, capire il problema e cercare una soluzione. Disintermediazione è rivolgersi a tutti i cittadini (basta un tweet) per dire: i ferrovieri cattivi, privilegiati, maledetti, viziati, disfattisti vi impediscono di andare a Bologna.
Uguale con la riforma della scuola: essendo la stragrande maggioranza di insegnanti e studenti contrari alla riforma in votazione, ci si rivolge a tutti gli altri con una serrata propaganda, nella speranza che i cittadini tutti se la prendano con gli insegnanti che non sono d’accordo con una cosa così bella e moderna. Insomma, possiamo dire in soldoni che la disintermediazione serve a usare gli italiani per picchiare altri italiani, a mettere tanti contro pochi. Utenti dei mezzi pubblici contro tramvieri, italiani contro insegnanti, cittadini contro sindacati, eccetera, eccetera. Un giochetto che paga nell’immediato, ma che alla lunga rischia di finire a schiaffoni tutti contro tutti.
Ci sono però alcuni problemi: la disintermediazione funziona poco quando il numero di italiani da tramortire usando il consenso di altri italiani è molto alto. Potrete convincere un pendolare che il capotreno in sciopero è uno schifoso privilegiato che limita la sua libertà di prendere il treno. Più difficile sarà convincere un nipote che la nonna, dall’alto della sua succulenta pensione ai limiti della sopravvivenza, gli ruba lavoro, o futuro, o prospettive. E questo perché un ferroviere in casa ce l’hanno in pochi, e una nonna (o genitori anziani) invece in molti. E così le cose si complicano: nel caso delle pensioni (e di un obolo una tantum concesso al posto del rimborso) la propaganda e la disintermediazione non hanno funzionato benissimo. E di questi tempi per sapere se una mossa propagandistica funzione basta guardarne il nome: se funziona si chiama Renzi (gli ottanta euro), se non funziona si chiama Poletti (o Giannini, o...).
Altro problemino, il fatto che la disintermediazione tende sempre a guardare in basso. Servono soldi? Blocchiamo gli stipendi agli infermieri, o l’indicizzazione ai pensionati. Basterà far credere a tutti gli altri che infermieri, o pensionati sono di ostacolo a un immaginario bene comune. Mai, dico mai, si addita ai cittadini qualche cassaforte ben fornita, che so, i manager pagati come mille lavoratori, o i grandi e grandissimi patrimoni, o le grandi rendite o le grandi aziende che portano la sede fiscale all’estero. Non a caso all’ultima Leopolda a scagliarsi ferocemente contro i pensionati non fu un giovane precario di Catanzaro, ma un finanziere milionario di Londra (Davide Serra, oggi Commendatore).
Un po’ come il lupo che dice alle pecore “attente alle altre pecore! Brucano la vostra erba!”. Insomma la disintermediazione è un trucco furbetto, a volte funziona e si basa sulla certezza che le pecore litigheranno tra loro e non si mangeranno il lupo. Un vero peccato.
Inno, è obbligatorio impararlo a scuola
Senato dà ok: 17 marzo giornata Unità d’Italia
Con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, l’Aula ha dato il via libera alla legge che istituisce la nuova festività e prevede l’insegnamento del testo di Mameli. Forti proteste della Lega *
ROMA - D’ora in poi sarà più difficile notare sportivi che rimangono in silenzio o persone che inseriscono parole a caso mentre suona l’inno di Mameli: impararlo a scuola è obbligatorio. Il Senato, infatti, tra le accese proteste della Lega, ha dato il via libera definitivo al ddl che prevede l’insegnamento dell’inno tra i banchi. La norma, che è passata con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, istituisce inoltre il 17 marzo giornata nazionale dell’Unità d’Italia, della Costituzione, dell’inno nazionale e della bandiera.
In base al testo approvato oggi, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati "percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul significato del risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’unità nazionale, alla scelta dell’inno di Mameli, alla bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione della storia europea".
Lo scopo che si prefigge la legge con l’istituzione di questa nuova festività (che non avrà comunque effetti civili, non sarà insomma un giorno di vacanza o di ferie) è quello di "ricordare e promuovere" nella giornata del 17 marzo, data della proclamazione nel 1861 a Torino dell’unità d’Italia, "i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica".
Le reazioni. Accese le proteste della Lega prima dell’approvazione del testo. Alcuni senatori hanno lasciato l’Aula prima del voto. "Senatori del Parlamento italiano, magari ex ministri, non possono affermare di non sentirsi italiani. È vergognoso", ha detto il senatore Udc Achille Serra intervenendo in Aula. Attribuisce ’grande valore storico’ alla decisione presa dal Senato il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Da oggi - ha detto - il 17 marzo diventa il giorno di tutti gli italiani che, attraverso una memoria finalmente condivisa, avranno la possibilità di riaffermare i valori dell’identità nazionale". Per il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa, l’inno è parte integrante della nostra storia: "È importante che proprio a scuola, culla dell’insegnamento e della cultura, i giovani possano imparare non solo il testo, ma ciò che esso rappresenta per tutti gli italiani". "Con questo ddl - ha detto il senatore del Pd Antonio Rusconi - alle scuole è affidato un compito importante: recuperare e rinnovare le radici di una Nazione, dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme’’.
* la Repubblica, 08 novembre 2012
UNITA’ D’ITALIA, FOLLIA, ED EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
IN ITALIA, UN PROBLEMA DI SALUTE PUBBLICA: SI PARLA, SI VEDE, E SI SENTE "DOPPIO"! E DA TEMPO!!! Ma Nessuno di Chi di dovere cerca di correre ai ripari!! Alcuni appunti sul tema
EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITA’ (SOVRA-UNITA’). Materiali sul tema
Come pensava Gregory Bateson? Scienza e poesia, tutto è in circolo
di Beppe Sabaste (l’Unità, 04.11.2010)
Nel documentario «An ecology of mind» della figlia Nora lezioni e interviste sull’antropologo
La regista «Mio padre imparava sempre, da qualunque cosa: da un cane, da un acquario...»
Nora Bateson ha girato un film su suo padre Gregory: «An Ecology of Mind». Siamo sempre in relazione con il qualcos’altro, insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero.
In una spiaggia pietrosa di Big Sur, California, una bambina bionda e un uomo anziano sorridente delicatamente raccolgono conchiglie, granchi, stelle marine. È un gioco e una lezione. Dice l’uomo: «Ora voglio fare un grande salto, farti cioè questa domanda: come pensi?» «Con il cervello, dentro la testa». «Questo può essere la parte che lo fa, ma non il “come”...». Potrebbe essere l’inizio di uno dei meravigliosi «metaloghi» di Verso un’ecologia della mente, e di fatto quell’uomo è Gregory Bateson, uno dei grandi maestri del XX secolo, il cui pensiero è più attuale che mai. La bambina è la sua ultima figlia Nora, avuta con Lois Cannack quando lui aveva 64 anni. Quello che sto guardando è il film di Nora sul padre, An Ecology of Mind, «un film su come pensava Gregory Bateson».
Vi si alternano frammenti di memorabili lezioni, interviste, momenti privati e testimonianze su Bateson di vari pensatori e scienziati, tra cui Fritjof Capra e Mary-Catherine Bateson (l’altra figlia nata dal matrimonio con Margaret Mead). Per tornare alla domanda sul pensare - questione ecologica per eccellenza di fatto «la mente è molto più ampia del solo cervello. È la radice dell’albero che cresce attorno a una rocca o il modo di giocare delle lontre», dice Nora parafrasando il padre, è il granchio e la stella marina e la nostra mano e il nostro sguardo, perché anche un animale deve essere pensato come un groviglio di idee che convivono in lui, diceva Gregory.
È un esempio di «principio evolutivo», perché l’evoluzione riguarda le idee, non solo gli animali, e «le unità evolutive sono essenzialmente idee, l’anatomia è un corpo di idee», ciò che fa sì che, per esempio, «il cavallo e la tundra sono interconnessi, l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba». «Talvolta, per scopi di studio - dice sorridendo Bateson nel film devi lavorare su relazioni piccole, e allora le gente ti rimprovera perché lavori sulle piccole. Quindi lavori sulle grandi, e allora la gente ti rimprovera perché sei un mistico. È sempre la stessa storia».
Biologo, filosofo, antropologo, cibernetico, fondatore del pensiero sistemico, ispiratore della psichiatria (la famosa teoria del double bind, «doppio vincolo», è chiave per comprendere la schizofrenia), in realtà per Bateson non esiste separazione tra le discipline, né tra scienza e poesia. «Imparava sempre racconta Nora - da qualunque cosa, un cane, un acquario di pesci, dagli scienziati che venivano a trovarlo, dalla poesia e dall’arte. Da lui ho imparato che l’apprendimento non cessa mai».
«Da bambina mi sedevo per terra e disegnavo, ascoltandolo mentre teneva delle lezioni. Già allora mi sembrava che sbirciasse da una porticina gli ingranaggi più intimi della vita. Ho studiato cinema e non antropologia, per allontanarmi, ma l’idea di fare questo film ce l’ho forse da sempre, ma soprattutto da quando ho aiutato mia sorella nel reperire materiali (video delle sue lezioni) per il convegno del 2004, nel trentennale della morte di Gregory». La domanda ovvia è come sia stato averlo avuto come padre e maestro. «Tutto quello che mi ha insegnato, come era suo stile, era in forme di storie. Non mi trasmetteva conoscenze, ma percezioni, un modo di guardare le cose e il mondo. Gli piaceva molto parlare coi bambini, perché non sono limitati e corrotti da quella che chiamava l’istruzione distruttiva. Anche questo film in fondo è un metalogo, una storia su cosa significhi “comprendere”».
Il film riassume da diverse angolature, come variazioni di un’opera jazz, una biografia intellettuale di per sé inesauribile, lo studio ininterrotto e interminabile di ciò che Bateson chiamò «la struttura che connette», l’interdipendenza di tutto con tutto, la vita, la natura, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco, il sacro e i metodi dell’Anonima Alcolisti, che si chiede «quale struttura il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula, e tutte e quattro con me, e me con voi?» Tutto questo va inoltre connesso col «contesto», cornice più ampia di ogni singola idea e realtà. «Senza contesto, aggiunge Nora, parole e fatti non hanno alcun significato. E questo è vero per tutta la comunicazione - anche quella che dice all’anemone di mare come crescere e all’ameba cosa deve fare il momento successivo».
Nora è sposata col batterista jazz Dan Brubeck, figlio del famoso jazzista Dave Brubeck. Le chiedo se il pensiero di Gregory Bateson, e in fondo la natura stessa, non abbiano somiglianze strutturali col jazz, con le sue variazioni e ripetizioni. Nora sorride: sta in effetti preparando col marito Dan una serie di concerti-seminari per esporre la relazione tra doppio vincolo e improvvisazione. Il jazz è un’ottima metafora del pensiero di Bateson, conferma, perché è un processo creativo, un apprendimento dell’apprendimento.
Siamo sempre in relazione con qualcos’altro, ci insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero. Gli esseri umani si comportano in modi distruttivi per i sistemi ecologici naturali, osservava, senza riuscire a vedere le delicate interdipendenze di un sistema ecologico che gli conferiscono integrità. C’è una attualità politica immensa e scottante nel pensiero educativo di Bateson. E mentre vedevo scorrere nel film i suoi insegnamenti - con quello stile magistrale ricco di metafore, storie, paradossi, poesie, humour, un linguaggio costituito di ciò di cui parla, ovvero una visione olistica ed ecologica della «realtà» - non potevo non pensare con impazienza, confesso a Nora, quanto sarebbe diverso il mondo se i politici (quelli di sinistra: quelli di destra fanno benissimo il loro mestiere) leggessero e rileggessero il pensiero esemplare di suo padre. «Sì, dice Nora, viviamo in un terribile e immenso doppio vincolo, per spezzare il quale occorre la fantasia e il coraggio di un atto creativo».
Ma c’è una buona notizia, aggiunge, proprio oggi. Nonostante la sconfitta, in California è stato eletto governatore il democratico Jerry Brown, che nel film di Nora fa un esempio di «doppio vincolo» molto attuale: «L’ineguaglianza cresce e la risposta dei governi è far crescere l’economia ancora più rapidamente, ma così facendo aggraviamo la disuguaglianza e abbiamo un tremendo impatto sul clima e sull’ambiente. Abbiamo bisogno di una visione e di una immaginazione straordinarie, dato che frenare l’economia crea disoccupazione e sofferenza...» (per la cronaca, Jerry Brown fu allievo di Gregory Bateson).
10 consigli per difenderci dall’informazione che imbroglia
di Noam Chomsky *
Attenti alla strategia della distrazione: prende per mano il pubblico e lo porta dove vogliono i padroni del potere. Rimanda le decisioni impopolari nei giorni delle vacanze quando nessuno vuole sapere cosa fanno i politici. Chi vota viene trattato come un bambino: «adesso vi spieghiamo qual è la vera verità»
1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 - La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l’emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e, infine, del senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti.
7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori” (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su se stessa.
Noam Chomsky (Filadelfia, 1928) è un linguista, filosofo e teorico della comunicazione. Professore emerito di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology), è il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale. La costante e acuta critica della politica estera Usa e la lucida analisi del ruolo dei media nelle democrazie lo hanno reso uno degli intellettuali più famosi del mondo.
Dal sito di Domani Arcoiris TV
“COGLIONI”, DAVVERO !!!
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE". Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani.
Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia.
E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
NAPOLITANO= ITALIA ...
VIVA NAPOLITANO, VIVA L’ITALIA!!!
MORALITA’ E INTERESSE GENERALE QUASI PERSI, DOPO 15 ANNI DI ATTACCHI DA PARTE DI UN CITTADINO (E DEI SUOI SOSTENITORI) CHE SI E’ MESSO A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" E A GRIDARE CON TUTTI I SUOI POTERI MEDIATICI. "FORZA ITALIA". CON TUTTE LE CONSEGUENZE ...
L’ITALIA INTERA - DI DESTRA, DI SINISTRA, E DI CENTRO - TRUFFATA E BUTTATA NELLA INDECENZA CIVILE E SOCIALE, POLITICA E CULTURALE.
NAPOLITANO E SOLO NAPOLITANO E’ L’UNICO E LEGITTIMO DETENTORE DELLA PAROLA "ITALIA" - SOLO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!
VIVA L’ITALIA, VIVA NAPOLITANO!!!
FEDERICO LA SALA
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La scoperta dell’esistenza di "trappole logiche" è uno dei risultati più importanti della Scuola di Palo Alto, una corrente della psicologia che, partendo dalle analisi di Gregory Bateson, studiava le patologie della psiche puntando l’attenzione sulle relazioni distorte
di Girolamo De Michele *
La scoperta dell’esistenza di "trappole logiche" è uno dei risultati più importanti della Scuola di Palo Alto, una corrente della psicologia che, partendo dalle analisi di Gregory Bateson, studiava le patologie della psiche puntando l’attenzione sulle relazioni distorte. Cos’è una trappola logica? Una struttura relazionale che non consente alcuna possibilità di sfuggire ad una relazione malformata. Ad esempio, la madre che regala due camicie al figlio, gli chiede quale delle due preferisce e, avuta risposta, commenta: l’altra proprio non ti piace, vero? Questa struttura può essere applicata alle relazioni interpersonali, ma anche a quelle tra gruppi o macro-gruppi: la psicologia del giocatore d’azzardo incapace di smettere di giocare, l’autopercezione dell’alcolista, le dinamiche della corsa agli armamenti sono tipiche situazioni nelle quali i soggetti, presi all’interno di doppi vincoli, non sono in grado di uscire dal contesto e reiterano la trappola qualunque decisione prendano. Questa struttura ci è utile per uscire dalle secche della questione dei "temi eticamente sensibili", brandita dal partito trasversale della reazione catto-integralista, braccio secolare di Joseph Ratzinger oggi come ieri (absit iniuria verbis) i gesuiti di Paolo IV.
Il tema sembra neutrale: da Binetti a Casini, chi se ne fa portatore afferma la rilevanza etica di alcuni temi sui quali la politica è chiamata a deliberare, o alternativamente a non deliberare per principio, giacché "sulla vita non si vota". Sono definiti "eticamente sensibili" temi che afferiscono in via prioritaria alla vita: l’associazione Scienza & Vita elenca «legge 194, linee guida legge 40, pillola del giorno dopo, pillola RU486, disabilità, testamento biologico, trattamento sociale e sanitario del fine vita, identità e genere». Questi temi vengono fatti discendere da una comprensione antropologica della vita e della persona presentata come autoevidente («la centralità acquisita dalla questione antropologica e dai temi eticamente sensibili nel dibattito pubblico italiano»), laddove si tratta dell’antropologia cattolica. La trappola logica scatta nel momento in cui il contraddittore è preso da un’apparente alternativa. Se rifiuta i temi elencati, viene accusato di mancanza di senso etico, di edonismo, di relativismo. Se invece li accetta, magari criticamente, implicitamente legittima l’esclusione, o la minore rilevanza etica, di altri temi dal campo dell’"eticamente sensibile". Un campo che secondo il pensiero catto-integralista va perimetrato in modo autorevole, distinguendo tra ciò che è fuori dal perimetro (ed è quindi negoziabile), ciò che è interno e non è negoziabile, e ciò che sta sul confine, in «una zona di chiaro-scuro che le sfide della tecnica oggi ci propongono in un modo che mai era stato preso in considerazione prima» (Paola Binetti).
Da qui, complice quell’equivoco di origine heideggeriana che consiste nel confondere la tecnica in quanto tale con la scienza, ed ambedue con la riflessione sulla scienza (epistemologia), si dà per scontato che «la tecnica non pensa» e si esclude per principio l’autorevolezza di qualsivoglia pensiero inficiato o compromesso col «modo di pensare tecnico», non importa se proveniente da medici, biologi, epistemologi, o anche filosofi che si relazionino con i nefasti esiti del vaso di Pandora scoperchiato da Galilei (Ratzinger). E si conclude, brachilogicamente (cioè omettendo di tematizzare la discutibilità del secondo passaggio) che l’unica autorità non può che essere quella del dottor Ratzinger, il quale (ancora Binetti) «da un lato pone la vita, la famiglia e l’educazione. Dall’altro le lotte di contrasto alla povertà, la solidarietà e la pace.
Quello che emerge è un panorama amplissimo perché ciò che è eticamente sensibile è anche il modo con cui lo si affronta. Dobbiamo stare molto attenti, c’è tanto margine su cui la nostra ragione può trovare lo spazio di condivisioni, poi c’è il valore soglia. Dobbiamo cercare di restare lontani da quel valore soglia». Degno di nota è l’uso di quella fallacia logica per la quale il rinvenimento di "una" autorità equivale all’identificazione dell’"unica" autorità: perché, su quali basi l’autorità dev’essere unica? Chi dice che non debbano misurarsi, anche conflittualmente, diverse istanze normative (una metafisica, una utilitaristica, una contrattuale, poniamo), tale per cui prevalga quella che esprime la maggiore potenza di essere?
Se si accetta questa delimitazione del campo della negoziabilità politica in ciò che è etico e ciò che non lo è, pare un’affermazione di senso comune dire che «le questioni etiche sono anche propriamente politiche e pertanto oggetto delle scelte partitiche e parlamentari e in quanto tali non sottraibili, in virtù del semplice ricorso alla libertà di coscienza, al confronto democratico che è costitutivamente pubblico».
Ma ragioniamo per assurdo. Chi potrebbe negare la rilevanza di temi quali la definizione di cosa è o non è vita o persona, o di quale sia l’essenza costitutiva dell’essere umano (se cioè la distinzione biologica di genere sia prevalente sulle aree di confine e sulle violazione dei confini tra generi)? Chi negherebbe che questioni meramente tecniche o amministrative, quali la facoltà di un comune di concedere la licenza a un outlet, la destinazione del tfr nei fondi pensione o le leggi contro le sevizie sugli animali siano temi "secondari" rispetto a quello sopra citati: talmente secondari da lasciarli al "libero gioco del mercato" (cioè a quel modo tecnico di pensare che sui temi etici si intende scongiurare)? Una decisione sulla RU486 o sulla legge 40 comporta la definizione di un centro - il tema in sé - e di una serie progressivamente ampliantesi di cerchi concentrici che si estendono fino a toccare domande quali: cos’è la vita?, cos’è una persona?; ed anche (con buona pace dell’asse teo-dem-com): cosa accade quando due vite esistono in un unico corpo? Può una persona pienamente formata essere privata dell’arbitrio sul proprio corpo in favore di un corpo ospite? Ancora più ampio: la vita è un concetto univoco, o esistono gradi e differenze? L’embrione è già in tutto e per tutto vita compiuta, o è vita di grado e dignità diversa dal corpo senziente e ben organizzato della madre (come sostenevano quei pericolosi laicisti di Tommaso d’Aquino, il cui pensiero è interamente dottrina della Chiesa, Maritain, maestro spirituale di Paolo VI, e papa Luciani)? In ogni caso, il carattere etico di questi interrogativi sembra risiedere nel fatto che a partire da esso non può darsi risposta che non implichi una risposta su che cos’è la vita nel più ampio senso biologico, e quali sono i rapporti tra i diversi viventi (esseri umani, embrioni, animali, ambiente, natura inorganica). Nulla a che vedere col semplice gesto di andare a fare shopping nell’outlet: qui, al massimo, si può tirare in ballo la vanità del vestire griffato, o eventualmente il bisogno, che colpisce anche i ceti cosiddetti medi, di una maggiore oculatezza nel bilancio familiare.
E invece Roberto Saviano ci ha mostrato come il circuito degli outlet si integra nell’economia "legale" gestita dal sistema-camorra; che questo sistema è intrecciato con quello dello sviluppo urbanistico e del circolo virtuoso/vizioso tra sviluppo, controllo camorristico dell’edilizia nazionale, produzione di profitti in nero e devastazione dell’ecosistema (ecomafia, devastazione del letto dei fiumi per il prelievo di sabbia, utilizzo di materiale contaminato nelle costruzioni, smaltimento al sud delle scorie radioattive delle virtuose regioni del nord); che tutto questo si intreccia con una rete di relazioni conflittuali che produce un deprezzamento del valore e della dignità dell’esistenza umana: nei termini di Habermas, una colonizzazione del mondo della vita da parte di enti quali denaro, potere, carisma. Ed ecco che un mero atto amministrativo quale la licenza di avvio di un’attività commerciale si allarga sino a richiedere una comprensione dell’intero ecosistema naturale e sociale, nei termini evocati a suo tempo da Bateson con la sua "ecologia della mente". È possibile una tale comprensione senza un radicamento nella dimensione etica?
Veniamo a un atto amministrativo "negoziabile" quale la composizione economica delle pensioni. Qui il cerchio si allarga non solo verso il diritto alla pari dignità della vita finalmente sottratta alla servitù del lavoro rispetto allo scambio tra salario e mercificazione della pienezza dell’essere umano (temi che svaporano nell’estatico "patto tra produttori", per criticare il quale basta rileggersi la critica di Gobetti all’interclassismo mazziniano), ma verso la costituzione stessa dell’essere sociale. Il lavoratore attirato all’interno della dinamica finanziaria del fondo pensione è infatti sottoposto ad un crescendo di apprensione, speranza, timore indotto dalle oscillazioni dei mercati, da cui intuisce dipendere il proprio futuro; e dalla deresponsabilizzazione etica, cioè dall’indifferenza verso il depauperamento di una parte del mondo causato dall’andamento delle borse dai quali dipende il proprio futuro. La finanziarizzazione dell’esistenza si prolunga sino alla società delle passioni tristi, all’interno della quale la percezione dell’altro in quanto straniero, migrante, diverso avviene secondo le modalità della paura e dell’aggressività: questioni sulle quali farebbe bene a riflettere quel centro veltroniano che ha in tempi recenti cercato di scavalcare la destra sul terreno della xenofobia e del razzismo. La stessa ontologia dell’essere sociale, cioè la risposta alla domanda "che cosa esiste?" (chi è quella figura sulla panchina del mio quartiere? un migrante abbrutito dalla stanchezza del lavoro? un feroce clandestino assetato di stupri? un essere umano portatore di inviolabili diritti e dignità?) si rivela non essere né la conseguenza né la causa, ma l’altra faccia della dimensione etica.
E che dire di leggi che vietano di infliggere sevizie agli animali? Una riflessione che parte dall’interrogativo "cos’è un animale?", ci insegna Deleuze riflettendo sui dipinti di Bacon (ma anche gli studi etologici) si allarga fino a comprendere il "divenire animale" come potenza di essere dentro di noi, fino a ridefinire il diritto umano come diritto che deve insistere sull’intero vivente, compreso quello non-umano (Martha Nussbaum): fino a comprendere il corpo che soffre come il luogo della dignità di questa potenza, dunque come luogo inviolabile, a fronte delle pretese di potestà sul corpo altrui che accomunano nella loro essenza gli anti-abortisti e i torturatori di Guantanamo
Un’etica fondata sulla dignità del vivente in quanto tale è dunque implicita in una apparentemente banale interrogazione sulla liceità di tagliare le unghie ai gatti, di organizzare combattimenti tra animali, di cacciare indiscriminatamente per il proprio piacere. E la sua pratica sembra produrre abitudini e costumi che favoriscono una pre-comprensione etica non solo dell’altro, ma anche del mondo: estendere i diritti oltre la persona umana prelude all’istituzione di diritti privi di soggetto personale, diritti il cui soggetto sono enti quali i mari, l’aria, l’ambiente. Cioè quella "conoscenza che illumina" tanto le relazioni umane quanto la natura, tanto spesso richiamata oggi da Roberta De Monticelli, di cui parlava Francesco d’Assisi. La stessa De Monticelli ci ricorda che anche la costruzione logica di un argomento è un fatto etico, perché etico, ancor più che logico o sintattico, è il fatto che ogni asserzione deve mostrare le condizioni della propria costruibilità ed eventualmente della propria confutabilità. Che, insomma, la correttezza logica è un fatto etico.
Eravamo partiti dall’ambigua definizione di "temi eticamente sensibili", e siamo arrivati a scoprire che probabilmente non ci sono temi più sensibili di altri, o valori più negoziabili di altri, perché nulla è fuori dal campo dell’etica. Ogni possibile ontologia al tempo stesso richiede e fonda una comprensione etica del mondo come luogo delle relazioni, delle azioni, delle continue deliberazioni tra mezzi e fini, tra intenzioni e risultati, tra azione e responsabilità. La tradizione del materialismo critico ha sempre frequentato questo interscambio di etica e ontologia: dalla natura relazionale e amorosa dell’atomismo lucreziano al rapporto strettissimo tra moltitudine e virtù politica in Machiavelli, dove questo rapporto è filtrato e continuamente ricreato dagli ordinamenti che esprimono la natura positiva della moltitudine, e al tempo stesso la ricreano; dalla sempre effettiva possibilità di rinegoziazione dei patti e degli ordinamenti in Spinoza, che radicalizza la democrazia olandese in direzione di un diritto secondo potenza (tanti più diritti ha la moltitudine, quanta più è la potenza conoscitiva di cui dispone) che per un verso esprime sul piano sociale la potenza liberatoria del soggetto che assottiglia le passioni tristi con la pratica della gioia, e simultaneamente crea le condizioni reali entro le quali il singolo può praticare la gioia piuttosto che la tristezza (ma diceva forse altra cosa il Dante del De Monarchia , quando poneva all’interno della città virtuosa e pacificata la possibilità di realizzare pienamente la natura di "compagnevole animale" della comunità degli uomini?). E il discorso potrebbe continuare, prolungandosi almeno, attraverso Marx, verso la saldatura tra la liberazione dalla servitù del lavoro alienante nella concretizzazione di un intelletto comune (il Marx del Capitale e dei Grundrisse ) e la natura dell’essere umano come essere indefinito che non è fine in sé, ma che crea il proprio fine e il proprio habitat nel porsi un obiettivo e trovare i mezzi per realizzarlo (il Marx dei Manoscritti del 1844 ); un Marx che apre già all’antropologia filosofica di Anders, dell’esistenzialismo, del post-strutturalismo francese.
In conclusione: perché dovremmo praticare questo terreno dove l’ontologia è fondata in quanto etica? Perché qui non vige quella distinzione tra temi etici e non etici che allude ad una politica come arte della negoziazione e del compromesso su ciò che è oltre il perimetro pre-definito: una distinzione che rimanda ad una naturale gerarchia di valori (l’etico, il non-etico, il quasi-etico sul limite) e che richiama, in modo presuntamente naturale, un’autorità che dall’alto del suo magistero si arroghi il diritto di perimetrare l’agire umano in modo normativo e non più negoziabile. Su questo terreno, l’essere umano è corpo spiritualizzato e spirito fatto materia; il desiderio è potenza di essere, non pulsione negativa; l’agire è creazione continua, non obbedienza servile; l’esistenza precede e genera l’essenza; l’altro è differenza che continuamente altera la mia natura, non rispecchiamento e riduzione dell’Alter-ego nell’Ego.
O il pensiero della sinistra si pone, nelle pratiche prima ancora che nelle riflessioni, su questo terreno costituente, o non so cosa la parola "sinistra" possa significare.
* Liberazione, 08/03/2008, p. 12.
IL CENTRO DI TERAPIA STRATEGICA
Istituto di Ricerca, Training e Attività Clinica
CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI AREZZO
È LIETO DI INVITARE LA S.V. ALLA GIORNATA DI STUDIO
“GUARDARSI DENTRO RENDE CIECHI”
In onore e in memoria di Paul Watzlawick (Villach, Austria, 25 luglio 1921 --- Palo Alto, Stati Uniti, 31 marzo 2007)
Lunedì 28 MAGGIO 2007 - Ore 10.00 - 17.30
SALA BORSA MERCI - Piazza Risorgimento, 23 Arezzo
INGRESSO LIBERO
Paul Watzlawick ha cessato di vivere ma non di esistere, continuando ad essere presente nell’affetto di chi l’ha conosciuto e nelle opere che ha lasciato. Il suo pensiero, fecondo per tutti gli studiosi, sarà portato avanti dal suo diretto allievo Giorgio Nardone, e dal nostro Istituto promotore di questa giornata di studi in suo onore.
Allego di seguito i Presenters dell’evento e una memoria scritta in suo onore.
Augurandomi che lei voglia partecipare con noi , saluto cordialmente,
M.Cristina Nardone
Managing Director C.T.S.
Chi era Paul Watzlawick
Lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero. (Umberto Galimberti, La Repubblica)
E’ stato il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana e delle teorie del cambiamento e del costruttivismo radicale. Figura di spicco dell’approccio sistemico e della teoria breve, ha lavorato presso il Mental Research Institute di Palo Alto e è stato professore emerito alla Stanford University. Ha fondato, insieme a Giorgio Nardone, il Centro di Terapia Strategica (C.T.S.) di Arezzo e vi ha collaborato dal 1987 sino alla sua scomparsa. Tra i suoi libri pubblicati in Italia ricordiamo: Istruzioni per rendersi infelici, Di bene in peggio, Pragmatica della comunicazione umana, Terapia breve strategica. Per Ponte alle Grazie ha pubblicato, insieme a Giorgio Nardone e Jeffrey Zeig, Ipnosi e terapie ipnotiche e con Giorgio Nardone, L’arte del cambiamento.
Durante la giornata sarà presentato il suo ultimo libro
"GUARDARSI DENTRO RENDE CIECHI",
a cura di Wendel Ray e Giorgio Nardone, Ponte alle Grazie EDITORE Milano; in libreria a giugno 2007,.
Il libro Questa “biografia del pensiero” di Paul Watzlawick è la sua ultima e preziosa eredità, destinata a chi conosce già da tempo il suo approccio alla soluzione dei problemi umani e anche a tutti quegli “spiriti liberi” che semplicemente cercano di migliorare la propria vita.
“GUARDARSI DENTRO RENDE CIECHI” In onore e in memoria di Paul Watzlawick (Villach, Austria, 25 luglio 1921 --- Palo Alto, Stati Uniti, 31 marzo 2007)
Lunedì 28 MAGGIO 2007 - Ore 10.00 - 17.30 SALA BORSA MERCI Piazza Risorgimento, 23 Arezzo
SARANNO PRESENTI
Prof. Camillo Brezzi, Assessore alla Cultura di Arezzo
Prof. Mariano Bianca,
Professore Università degli Studi di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia II (Arezzo). Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici
Prof. Luigi Boscolo,
Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Socio fondatore della S.I.P.R. di Roma e della S.I.R.T.S. di Milano. E’ stato membro della A.F.T.A. (American Family Therapy Association) e della A.A.M.F.T.(American Association for Mariage and Family Therapy), nonché del’ E.F.T.A. (Associazione Europea di Terapia della Famiglia).
Prof. Camillo Loriedo,
Direttore dell’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazio¬nale. Professore e Psichiatria Scuola di Specializzazione in Psichiatria della Università \"La Sapienza\" di Roma.
Prof. Giorgio Nardone,
fondatore insieme a Paul Watzlawick del Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Psicologo e Psicoterapeuta, Direttore della Scuola di Specializzazione post-laurea in Psicoterapia Breve Strategica. Direttore scientifico della Scuola di formazione Manageriale in Comunicazione e Problem Solving Strategico di Arezzo e Milano. Coordinatore del Network Europeo di Psicoterapia Breve Strategica e Sistemica e della Rivista Europea di Psicoterapia Breve Strategica e Sistemica, inoltre Direttore della Collana \"Saggi di Terapia Breve\" Ponte alle Grazie Editore, Milano.
Prof. Patrizia Patrizi,
Professore straordinario di Psicologia sociale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Sassari. Membro del Consiglio tecnico-scientifico dell’Istituto Centrale di Formazione del Personale del Dipartimento per la Giustizia Minorile - Ministero della Giustizia. Membro del CIRMPA (Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla genesi e lo sviluppo delle Motivazioni Prosociali e Antisociali) dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Prof. Pio Enrico Ricci Bitti,
Professore ordinario di Psicologia generale presso la Università degli Studi di Bologna. Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute; Dipartimento di Psicologia di Bologna
Prof. Alessandro Salvini,
Professore ordinario di Psicologia Clinica, Università di Padova, Facoltà di Psicologia; responsabile unità di ricerca di Psicologia Clinica e Psicoterapia per adulti del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova. Responsabile Scientifico della Scuola di specializzazione Istituto di Psicologia e Psicoterapia (IST) di Padova e Mestre.
Prof. Stanislao Smiraglia,
Psicologo sociale e del lavoro, psicoterapeuta ad indirizzo strategico.
Professore presso l\’Università degli studi di Cassino di Psicologia Sociale.
Prof. Saulo Sirigatti, Preside della Facoltà di psicologia Università di Firenze e Professore ordinario di Psicologia Clinica
Segreteria organizzativa: CENTRO DI TERAPIA STRATEGICA
Piazza S. Agostino 11, 52100 - Arezzo - Italia - tel. +39 0575 / 35 48 53 - 35 02 40 - fax +39 0575 / 35 02 77
www.centroditerapiastrategica.org www.problemsolvingstrategico.it
www.giorgionardone.it www.psicoterapiabrevestrategica.it www.bsst.org
in sua memoria dal sito http://www.centroditerapiastrategica.org/ita/paul%20memory.html
Paul Watzlawick, ha attraversato come una stella cometa la seconda metà del secolo scorso, illuminando con le sue idee, il suo lavoro e i suoi scritti intere generazioni di studiosi e professionisti, non solo nelle aree della psicologia, della psichiatria e della sociologia ma anche in campi lontani dalle scienze umane come l’economia e l’ingegneria o nelle scienze «pure» come la fisica e la biologia. I suoi studi sulla comunicazione e sul cambiamento travalicano, infatti, le barriere disciplinari e trovano applicazione in qualunque contesto ove siano coinvolte le relazioni dell’individuo con se stesso, con gli altri e con il mondo. La sua opera, come quella dei grandi filosofi, non si lascia limitare né dalle ideologie, né dai confini delle singole prospettive scientifiche: essa va oltre, sino alla radice del «come» l’essere umano costruisce, anzi, per dirla con le sue parole, inventa la sua realtà.
Sulla scia della sua luminosa stella, numerosi sono i pensatori e i professionisti che hanno avuto la possibilità di costruire il loro successo e la loro fama. Basti pensare che Watzlawick è l’unico autore tradotto in ottanta lingue differenti. La cosiddetta scuola di Palo Alto non sarebbe esistita senza la sua imponente figura e la sua capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi, come Gregory Bateson o Don D. Jackson e Milton Erickson, in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo.
D’altronde, per fare solo qualche esempio, il padre del costruttivismo Hein Von Foerster, amava dichiarare di essere una invenzione di Paul Watzlawick, nel senso che egli, senza il suo aiuto, non sarebbe diventato così noto e i suoi lavori non sarebbero stati così conosciuti. Lo stesso vale per Mara, Selvini, Palazzoli e la scuola di Milano di terapia sistemica, che devono a lui non solo l’ispirazione tecnica ma anche la diffusione nel mondo del loro lavoro. Nella stessa maniera per tutti coloro che si sono inseriti nella scia della cometa Watzlawick hanno potuto riflettere grazie alla sua luce e, spesso, senza nessun contatto diretto con lui. Era infatti sufficiente dichiarare di riferirsi alla scuola di Palo Alto per acquisire status di rispettabilità scientifica e professionale.
Tutto ciò vale anche per me poiché senza di lui probabilmente pochi avrebbero conosciuto il mio lavoro. Invece, grazie al libro L’arte del cambiamento scritto a quattro mani, mi sono ritrovato immediatamente sulla ribalta internazionale.
Il nostro “Centro di Terapia Strategica” di Arezzo se non fosse stato fondato con la sua attiva presenza non sarebbe mai divenuto il punto di riferimento per l’evoluzione della terapia breve e il problem solving strategico.
Ad ulteriore prova della grandezza della sua opera si pensi che Paul Watzlawick rappresenta anche uno degli autori più copiati: c’è stato anche chi, dopo averne copiato intere pagine per un suo articolo, senza ovviamente citare la fonte, è in seguito divenuto uno dei suoi più acerrimi detrattori.
Paul, essendo una persona tollerante e sempre capace di evitare conflitti - anche quando potevano apparire legittimi - in questo caso e in altri, invece di denunciare e svergognare pubblicamente il collega scorretto, semplicemente ha fatto notare direttamente e con stile la mala azione al colpevole, senza andare oltre. Il lettore può ben capire come voler sottolineare la rilevanza del contributo di quest’autore e pensatore richiederebbe un intero volume, inoltre i suo testi parlano del suo lavoro meglio di come potrebbe fare chiunque altro.
Per questo ho deciso di concludere questo commento finale ai suoi scritti selezionati in maniera non accademica ma personale. Ritengo che, avendo avuto l’onore e il piacere di condividere con Paul oltre quindici anni di collaborazione professionale e anche di relazione personale (insieme abbiamo tenuto oltre cinquanta workshop e conferenze in giro per il mondo, abbiamo scritto tre libri e contribuito ad altri due insieme agli amici Jeffrey Zeig e Camillo Loriedo) sia bello offrire al lettore, oltre alla sua opera, qualche aneddoto che pennelli la sua persona.
Egli, infatti, è stato non solo un Maestro di scienza e professione bensì anche un modello di stile e filosofia di vita.
Paul era un uomo di bella presenza, sobriamente elegante e capace di una sottile ironia, tanto irresistibilmente simpatico agli uomini quanto affascinante per le donne. Mai esibiva la sua condizione disponendosi umilmente con chiunque, con l’atteggiamento di chi è sempre pronto ad imparare qualcosa in più. Capace nelle relazioni interpersonali del gelo più rabbrividente così come del calore più confortante, ma sempre con stile impareggiabile.
Una volta, alla Sorbona di Parigi, durante una conferenza, un partecipante lo interruppe aggredendolo verbalmente perché le sue teorie andavano contro i fondamenti della psichiatria e della psicoanalisi. Egli, con estrema pacatezza gli rispose: « lei ha perfettamente ragione... dal suo punto di vista... »-, poi continuò a parlare tra gli applausi e il sorriso del pubblico. In un’altra occasione lo osservai dare del cibo «rubato in hotel» ai gatti randagi di una calle veneziana, lasciava che si avvicinassero come se fossero amici di un’altra vita. Giunti a Bologna da Roma a bordo della mia auto, Paul commentò la mia guida ironicamente, dichiarando che l’Italia doveva essersi accorciata. Giunti all’hotel che si chiamava «I tre vecchi » mi chiese dove fossero gli altri due. La sua ironia fu forse ancor più proverbiale: eravamo in attesa delle valigie all’aeroporto di Siviglia, la sua arrivò per prima e, ovviamente, la mia per ultima. Durante la tediosa attesa, sul nastro passò una valigia gigantesca ed egli commentò «è decisamente molto comoda perché se non trovi una camera in albergo puoi dormirci dentro».
Le sue attenzioni nei confronti delle persone a lui care non erano mai ostentate ma così delicate e puntuali da stupire ogni volta.
Pronto a cogliere la bellezza in ogni sua forma, dai colori delle colline toscane in primavera al fascino tremendo dei grattacieli sulla baia di Hong Kong al tramonto; dal rumore ancestrale delle onde del pacifico di Carmel alla musica sublime di Rachmaninov.
Infine, uno degli episodi che può descrivere al meglio la sua personalità e il suo stile è rappresentato da un sottile quanto potente insegnamento impartitomi molti anni fa durante un importante convegno. In questa occasione, per la prima volta dovevo presentare il metodo di terapia breve, messo a punto sotto la sua supervisione, per il trattamento dei disturbi fobico- ossessivi; per di più dovevo farlo di fronte a un’assise composta dai più importanti studiosi e specialisti del settore.
Ossessivamente avevo preparato la mia esposizione, riservando lo spazio alla dissertazione teorica, alla presentazione dei dati empirici e alla pratica clinica mediante delle videoregistrazioni che dimostrassero la reale efficacia della terapia anche a un pubblico di scettici ricercatori e colleghi. Sfortunatamente il tecnico video e audio della sala, nel provare il mio video, per errore ne aveva cancellato il contenuto. Mi accorsi di tutto ciò poco prima di cominciare la mia relazione. Come il lettore può ben capire non ero solo seccato e allibito per l’accaduto ma anche frustrato e piuttosto depresso prevedendo il sicuro insuccesso. Procedetti nella mia presentazione in maniera decisamente meno assertiva del solito e quando giunsi alla parte dimostrativa della tecnica, mi scusai con l’uditorio per il problema sopraggiunto: recitai, invece che mostrare il video, le trascrizioni, dichiarando i loro effetti. In maniera totalmente contraria alle mie previsioni il pubblico fu entusiasta e molte furono le dichiarazioni di apprezzamento per il lavoro presentato.
Paul, che tutto aveva osservato dal fondo della grande sala, si avvicinò a me e battendomi un mano sulla spalla disse: «finalmente oltre che bravo sei apparso umile e simpatico...» Oggi tutti hanno apprezzato la tua «debolezza» ed il tuo «errore»... Mai ho dimenticato questa sua lezione.
Oggi, a pochi giorni dalla sua morte, scrivendo queste righe sento ancor più la sua mancanza. Tuttavia sono contento perché, oltre a una vita intensa e piena di bellezza, egli ha avuto una morte felice accanto alla sua amata Vera. Ritengo che in questo caso valga davvero la seguente citazione: «quando perdi una persona davvero importante, piuttosto che pensare alla sfortuna di averla perduta pensa alla fortuna di averla avuta ».
Arezzo, aprile 2007
Giorgio Nardone