Il lupo e il contadino [che con l’aiuto della volpe ridiventa un animale cacciatore, come il lupo e peggio del lupo]*
Un lupo supplicò un contadino di nasconderlo ma, quando il pericolo fu passato, saltò fuori e volle mangiarsi il suo salvatore. «Non è giusto che tu mangi chi ti ha aiutato!» esclamò il contadino, ma il lupo ribatté: «Nessuno mai ricorda i benefici ricevuti. Perché dovrei essere io il primo a ricordarlo?». «Ti prego, lupo, sentiamo cosa ne pensano i passanti, prima di decidere».
Si trovava a passare di là un vecchio cane e confermò che il suo padrone, dopo anni di fedele servizio lo trattava, ora che non gli era più utile, con immensa ingratitudine. Giunse anche un cavallo e ammise di aver ricevuto lo stesso trattamento del cane.
Il contadino oramai disperava di dissuadere il lupo dal mangiarlo e quindi di salvarsi quando, d’improvviso, vide arrivare una volpe e, confidando nella sua astuzia, le fece un cenno d’intesa e rivolgendosi al lupo disse: «Interroghiamo anche quest’ultimo passante, poi farai quello che vorrai». «Volpe cara, questo lupo non vuole essermi grato di averlo nascosto nel sacco dai cacciatori che lo inseguivano. Cosa ne pensi?».
E la volpe: «Un lupo così grosso in un sacco così piccolo? Non posso crederlo. Fatemi vedere.» Il lupo rientrò nel sacco e subito la volpe aiutò il contadino a chiuderlo ben bene con un grosso nodo. L’uomo prese allora un bastone, riempì di legnate il lupo ch’era dentro il sacco e poi si girò verso la volpe e atterrò anche lei con un gran colpo in testa esclamando poi: «Sai, volpe? A forza di dirmelo hanno convinto anche me che la gratitudine non esiste affatto!».
* da I libri di Gulliver
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FIABA, COSTITUZIONE, E SOCIETÀ. NON SAPPIAMO PIU’ RACCONTARE LE "FAVOLE"! L’ALLARME DI COLLODI E LA "PROVOCAZIONE" DI GRAMELLINI.
FLS
LA "FELINA" TRAGEDIA: ANTROPOLOGIA, LETTERATURA, E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937).
PARTENZA. "La nonna non voleva andare in Florida. Voleva andare a far visita ad alcuni parenti nel Tennessee orientale e si aggrappava a qualsiasi pretesto per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio": la #nonna (la protagonista) si porta dietro, in macchina, per un viaggio di "tre giorni", non volendo lasciarlo a #casa da #solo, "il #gatto di #famiglia, #PittySing", e lo "nasconde in un #cestino tra le sue #gambe". Durante il viaggio fa una mossa brusca e fa uscire Pitty Sing dal cestino: il gatto finisce sulle spalle del figlio che sta guidando, che si spaventa, e perde il controllo dell’auto...
"ESSERE, O NON ESSERE": LA VITA (LA MORTE) CONTRO LA MORTE (LA VITA). Ovviamente, siccome è impossibile trovare "un bravo uomo" (così come è altrettanto difficile trovare "una brava donna"), tutto finisce all’#inferno!?
UNA TRINITA’ PERICOLOSA. Dopo poco arrivano #tre #uomini armati: Il figlio cerca di spiegare la situazione in cui si trovano, la nonna fissa l’autista della loro macchina e, subito, lo riconosce avendolo visto in un articolo di giornale, è un evaso noto come #Misfit, e glielo dice davanti a tutti: "Sei tu il Misfit! Ti ho riconosciuto subito". Naturalmente, Misfit risponde: "Sarebbe stato meglio per te se non mi avessi riconosciuto affatto".
"LA FAMIGLIA CHE UCCIDE". La nonna, con la pistola puntata in faccia,non sa più che fare e cerca di trovare compassione e comprensione in Misfit:
IL "DISAGIO DELLA CIVILTA’ " (S. FREUD, 1929) E IL "#TROPICALLY" DI "AMLETO", LA "TRAPPOLA PER TOPI". Quale il ruolo e il senso della presenza "nascosta" del gatto nella "macchina" e nel "viaggio" non solo di Flannery O’Connor e QUALE IL SIGNIFICATO (antropologico e teologico-politico) della #Mousetrap nell’#Hamlet di #Shakespeare)?
ARTE E ANTROPOLOGIA: IL "PRESEPE" E LA "MADONNA DELLA GATTA". Federico Barocci (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612), "Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta".
NOTE:
L’anima e la cetra /22.
La civiltà della cicogna
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 29 agosto 2020)
Gratitudine è una parola essenziale. È parola prima nella famiglia, nelle comunità, meno nelle imprese moderne, dove la gratitudine con le sue parole gemelle riconoscenza e ringraziamento non trova lo spazio che meriterebbe a causa della sua fragilità. Gratitudine - da gratia, charis - è molto imparentata con il "grazie", una parola che impariamo dai genitori da bambini e che poi non esce più dai nostri rapporti. Anche quei "grazie" che diciamo, più volte al giorno, per rispetto delle norme sociali, portano qualche traccia della gratitudine, che però si manifesta più pienamente in altri "grazie", quelli attesi e desiderati, non pretesi. Sono quelli decisivi nei rapporti più importanti, quelle gratitudini delicate, più femminili che maschili, più sussurrate che dette, che arrivano nei momenti cruciali della vita. Il grazie di quel collega nell’ultimo giorno di lavoro, uguale e diverso da tutti gli altri, scritto nel biglietto con il regalo di addio. Quello dello studente con più difficoltà, che nell’ultimo giorno di scuola ti lascia sulla cattedra un post-it : "Grazie prof" ; o quello che nel giorno della partenza da casa, per seguire una voce, non siamo riusciti a dire ai genitori perché rimasto strozzato in gola, e che poi molti anni dopo abbiamo scoperto essere simile a quei grazie ineffabili che vengono sussurrati ogni giorno nei capezzali.
Questa gratitudine ha nella gratuità la sua bellezza e il suo dramma. Non essendo un contratto, la gratitudine ha valore solo se gratuita (gratitudine e gratuità sono quasi la stessa parola). Ma contiene anche una dimensione di dovere e di obbligo. Perché se da una parte le qualità più preziose della gratitudine sono libertà e dono, dall’altra ci sono alcune gratitudini che quando mancano generano ingratitudine, una delle passioni più forti e portatrici di sofferenza. La gratitudine è infatti una forma della reciprocità (ri-ngraziare, ri-conoscenza), e quindi c’è in essa anche una dimensione di restituzione di qualcosa che si è avuto prima. La presenza dell’ingratitudine accanto alla riconoscenza rende il ringraziare un’esperienza complessa. Perché con la gratitudine siamo al centro della paradossale semantica del dono e della reciprocità, quindi di quelle emozioni e azioni che sono un intreccio di attese e pretese, libertà e obbligo, gratuito e doveroso. Non possiamo pretendere che prima del trasloco la vicina di casa ci inviti e ci dica grazie per le piante annaffiate per lei nelle molti estati passate, ma se non lo fa non siamo contenti, e quella ingratitudine rovina qualcosa d’importante in quel rapporto. E forse pochissimi aggettivi più di "ingrato" ci fanno male, se pronunciati dalle persone cui teniamo.
Come è vero che noi conosciamo veramente, riconosciamo le persone solo alla fine di un rapporto, quando si manifesta la loro capacità di riconoscenza - che a volte si estende anche oltre la vita : mi colpisce sempre vedere la fedeltà grata di molti e soprattutto molte donne che per anni, decenni, curano la tomba dei loro cari. Noi soffriamo molto per l’ingratitudine, anche perché c’è in ognuno la tendenza a sovrastimare il credito di riconoscenza nei confronti degli altri (e a sottostimare il proprio debito), e così siamo accompagnati da una costante sensazione di non essere ringraziati abbastanza. La gratitudine, poi, è un sentimento che ha bisogno della durata. Non nasce se non dentro rapporti stabili e durevoli. Si manifesta oggi ma è maturata ieri, e quindi è un esercizio della memoria : ricordando ciò che sei stato per me mi nasce ora in cuore la gratitudine. Ecco perché l’icona che accompagnava nell’antichità classica la raffigurazione della gratitudine era la cicogna, perché aveva fama leggendaria di prendersi cura dei genitori diventati vecchi.
La Bibbia insegna a coltivare ed esprimere la gratitudine anche verso Dio: «Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre » (Salmo 107,1). La comunità dei credenti è anche comunità di grati, perché comunità di salvati. Il Salmo 107 è infatti un canto di rendimento di grazie (ce ne sono molti nel Salterio) che nasce dall’esperienza della salvezza. Sono quattro i paradigmi di salvezza del salmo : dalla fame e sete (« vagavano nel deserto su strade perdute... Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita » : 107,4-5), dalla prigione (« Altri abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ferri... perché ha spezzato le sbarre di ferro »: 10-16), da malattie mortali (« rifiutavano ogni sorta di cibo e già toccavano le soglie della morte. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce » : 18-19), dai pericoli in mare : « Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque... La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare » (23-29). E dopo ogni scena, quattro volte il ritornello di ringraziamento : « Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini » (15). È l’esperienza concreta della salvezza che genera il rendimento di grazie, che fa fiorire la gratitudine. Una salvezza concreta, da mali del corpo, che ricorda le salvezze del Gesù storico, che mentre annunciava una salvezza spirituale liberava le persone da mali concreti, sfamava e guariva. La salvezza che produce gratitudine è sempre puntuale, è sempre una resurrezione concreta.
La salvezza, parola decisiva nella Bibbia e poi nel cristianesimo, ha molto a che fare con la dinamica paradossale della gratitudine. Da una parte, sul lato di Dio, è tutta dono, non è spiegabile dentro un registro di condizionalità, di do-ut-des. No : siamo salvati e basta. La salvezza non è guadagnata dalle nostre virtù e meriti - forse dal nostro grido : « Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce » (107,13). La salvezza è risposta a un grido, ma non è risposta a un’azione che la giustifica : il grido è espressione di fede, e la giustificazione per quella salvezza è la fede (qui si vede, tra l’altro, quanto la teologia di san Paolo fosse ancorata nell’Antico Testamento). Ma è molto bello e consolante che in tutto questo Salmo gli uomini salvati non sono il popolo di Israele, non sono gli eletti : sono uomini e basta.
Questa salvezza è universale : basta gridare - e forse lo facciamo troppo poco. Al tempo stesso la Bibbia chiede al salvato la riconoscenza, lo invita a ringraziare Dio per la salvezza. Sta qui un altro grande senso della preghiera : non si prega solo (né tanto) per ottenere la salvezza (il grido biblico è una strana forma di preghiera), ma si deve pregare soprattutto per ringraziare. Lo stesso Gesù si mostra sensibile alla gratitudine e all’ingratitudine. Spesso le persone hanno imparato a pregare per dire grazie : non avevano chiesto nulla, hanno sperimentato una salvezza, e hanno ringraziato. E da quel ringraziamento è nata la preghiera.
La nascita più bella, tutta gratuità, liberata da ogni residuo di fede commerciale.
È difficile restare nella gratitudine, è arduo rimanere nella condi-zione di chi ringrazia perché sa che ciò che possiede è tutto dono, che la salvezza che sperimenta ogni giorno è tutta gratuità. È difficile soprattutto per l’uomo di fede. Perché, una volta sperimentata una salvezza e imparata la gratitudine, negli uomini (meno nelle donne) nasce progressivamente e naturalmente l’esigenza di volersi meritare le salvezze future, di sentire che nella salvezza che ci arriva ogni mattina c’è anche qualcosa di nostro, che abbiamo contribuito anche noi, che c’è una quota di co-finanziamento in quel mutuo dal valore infinito che ci viene offerto, che quella misericordia, quell’amore fedele (hesed) un poco ce lo siamo meritato. Così l’esperienza dell’"essere salvati" si trasforma, poco alla volta e senza rendersene conto, nel "salvarsi". E ogni volta che il salvarsi ruba terreno all’essere salvati si riduce inevitabilmente il valore della gratitudine.
È umano, è umanissimo. Perché a noi uomini non piace dipendere interamente dalla gratuità degli altri, ci piace conquistarci con il nostro sudore e i nostri meriti le nostre salvezze, amiamo troppo quella reciprocità dove ci si alterna nei movimenti del dare e dell’avere. Anche perché abbiamo visto quanta ingiustizia ha prodotto la mancanza di reciprocità, quanta diseguaglianza, quanti poveri tenuti in una condizione di perenne sudditanza per il fatto di dipendere interamente dai loro padroni.
L’idea di un Dio che ci dona tutto e da cui dipendiamo totalmente ha prodotto anche una teologia politica-economica che non ha certo aiutato i poveri a liberarsi dalla loro condizione di inferiorità, e una gratitudine sbagliata, unidirezionale e obbligatoria, che ha lasciato sull’Europa e sul mondo una sofferenza infinita. I riscatti dei popoli sono stati anche riscatti da queste teologie che avevano usato una certa idea di Dio per legittimare, sacralizzandole, strutture ingiuste di potere. Da qui il meraviglioso movimento civile, economico e politico che negli ultimi secoli ha voluto legare i diritti alla natura o a un patto sociale ugualitario originario, e gli stipendi al lavoro.
E mentre si svolgeva, e continua a svolgersi, questo grande movimento etico dei popoli, la Bibbia sta lì, fedele a se stessa, a ricordarci che queste logiche, essenziali e benedette nei rapporti inter-umani, non vanno applicate a Dio, che va tenuto al di sopra dai nostri meriti. Perché se manca un principio di gratuità assoluta nella fondazione della nostra vita a ricordarci che prima e dopo i meriti c’è un dono infinito, ogni meritocrazia diventa dittatura dei più forti sui deboli.
Il Dio biblico non ci ama perché ce lo meritiamo - o perché ce lo meritiamo più degli altri - ma perché siamo, semplicemente, suoi figli e figlie, e la figliolanza non è una relazione meritocratica, nonostante le proteste del figlio maggiore della parabola. Dobbiamo ringraziare, è questo il nostro dovere, ma il nostro dire grazie oggi non è la pre-condizione meritoria per essere salvati domani: Dio ci salverebbe ancora anche se fossimo ingrati. Sapere e ricordare questa gratuità assoluta di Dio ci dice, poi, che da qualche parte del nostro essere, fatto a sua immagine, siamo più grandi della reciprocità, e anche noi, almeno una volta, possiamo amare chi non non se lo merita, possiamo amare un ingrato.
La cicogna è anche colei che ci porta i bambini. Le civiltà della cicogna sono quelle che hanno saputo tenere insieme la gratitudine verso i vecchi e l’amore per i bambini. Questo lo sapeva bene il Quarto comandamento, che associa l’onora il padre e la madre al "prolungamento dei nostri giorni sulla terra". Solo i bambini sanno allungarci la vita.
Antichi Ritorni
Il mito di Procuste, quando ‘chi fa meglio di me deve essere eliminato’
Dalla leggenda del brigante greco alla Sindrome che ne porta il nome
di Alba Subrizio (Il Mattino di Foggia, 17/02/2019)
Quando chi è inferiore non solo è invidioso ma si adopera per ‘bloccare’ chi vorrebbe far meglio
Viviamo in un mondo fortemente (forse eccessivamente) competitivo e questo è un dato di fatto. Talvolta la competizione e le delusioni che ne derivano ci aiutano a superare noi stessi e i nostri limiti per fare meglio, per capire cosa aveva l’altro per essere riuscito a superarci: da un fallimento può scaturire una crescita; dagli altri si impara. In alcune persone, tuttavia, la ‘crescita’ è bloccata da un’invidia insana, da una competizione ‘negativa’ che non si limita a covare rancore verso chi fa meglio ma addirittura vuole a tutti i costi boicottarlo.
L’imperativo categorico sembra essere: “dato che io non ci arrivo/non lo so fare, non lo devi fare neanche tu, altrimenti si evince la mia incompetenza”.
Insomma dobbiamo essere tutti uguali, cosicché nessuno possa emergere sull’altro. In psicologia questo atteggiamento mentale, che può sfociare nella patologia vera e propria, è detto Sindrome di Procuste. Perché? Chi era Procuste? Ancora una volta i miti antichi avevano provato a dare una risposta ad alcuni atteggiamenti ‘anormali’ dell’uomo secoli prima della nascita della psicanalisi; ecco che allora si narra del mito di Procuste, o meglio Procruste, che in greco vuol dire “lo stiratore”. Questi era un abile brigante che viveva sulla strada tra Eleusi e Atene, qui catturava chiunque fosse di passaggio; i malcapitati venivano torturati per poi essere uccisi sul cosiddetto “letto di Procruste”.
Si narra, infatti, che il bandito ponesse gli uomini su un particolare letto da lui ideato, se risultavano più alti, gli amputava gli arti, se erano più ‘corti’ del letto, li batteva con un’incudine fino a rompergli le ossa e ‘stirarli’ (da qui il macabro soprannome). Tra le vittime che catturò ci fu anche Teseo (proprio quello che uccise il Minotauro) che però riuscì a fuggire ponendo fine alla vita di Procruste. Già gli antichi utilizzavano questa narrazione per spiegare l’atteggiamento di chi vede nel prossimo (chiunque!) un ostacolo/minaccia alla propria felicità, un ‘nemico’ da abbattere sempre e comunque, poiché chiunque è diverso da lui potrebbe essere migliore e, dunque, arrecargli danno.
Procuste è divenuto nella moderna concezione l’emblema della persona inferiore che non vuole cercare di migliorare, bensì desidera unicamente che siano gli altri a non essere superiori a lui; in virtù di ciò si adopera affinché questo non succeda sia attraverso una violenza psicologica (mobbing sul posto di lavoro, diffusione di dicerie e racconti per metterlo in cattiva luce agli occhi degli altri, ingiurie di vario tipo) sia, nei casi peggiori, attraverso una violenza fisica, volta a reprimere la persona che lo fa ‘stare male’. Inutile dire che tutto ciò non serve, dal momento che il malessere è interiore (dovuto a un sentimento di scarsa o eccessiva autostima, egocentrismo e/o frustrazione), quindi anche se ci si libera della persona giudicata ‘scomoda’ (magari facendola licenziare/allontanare) ci sarà sempre qualcuno che farà star male il ’Procuste’ di turno, che pertanto sentirà nuovamente il bisogno di calpestare e denigrare il prossimo. E voi, siete mai stati vittima di qualche Procuste?
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». -Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
Beneficenza e ingratitudine verso gli dèi: il mito di Issione
«Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai»
di Alba Subrizio (il Mattino di Foggia, 09.12.2018)
“Fai del bene e scordalo” recita un famoso proverbio, nato dal fatto che sempre più spesso i beneficiati non mostrano riconoscenza verso i benefattori. Lo sapeva bene il filosofo Seneca (I sec. d.C.) che nel trattato “Sui benefici” spiegava come il beneficio sia un’azione degna per sé, che prescinde da ogni convenienza e utilitarismo, ed è fonte di arricchimento sia per chi dona che per chi riceve; ciò che invece mina l’equilibrio del beneficio è l’ingratitudine che spesso si annida negli animi degli avidi.
Prima di Seneca, tuttavia, il mito è ricco di episodi di benefattori traditi e ingrati ma, tra di tutti, l’ingratus per antonomasia è Issione. Figlio del re dei Lapiti, sposò Dia, figlia dell’eroe Deioneo che Issione, da bravo genero qual era, gettò nei carboni ardenti; a quanto pare per non pagare al suocero il “prezzo della sposa”, ovvero la compensazione matrimoniale versata dallo sposo all’atto del matrimonio come pattuito. Orbene, Issione aveva violato un foedus (un patto) e si narra che fu il primo a portare tra i mortali l’assassinio di congiunti, eppure Zeus lo perdonò.
Difatti, dopo l’azione scellerata Issione fu perseguitato dalla totalità dei mortali, tanto che fu preso da follia; solo Zeus si mosse a pietà e dopo averlo purificato del delitto commesso, gli permise addirittura di partecipare alla sua mensa. Qui il beneficiato tentò di circuire Era (dea tra le dee e moglie del re dell’Olimpo); Zeus se ne accorse e allora, per cogliere Issione in flagranza di reato, creò un simulacro della consorte Era, in tutto identica a lei ma fatta da una nuvola e, pertanto, chiamata Nefele. Poi la inviò presso il re lapita. Issione non si fece problemi e, irriverente persino nei confronti del Padre degli dèi, fu sorpreso in palese amplesso con Nefele/Era.
Ecco che allora Zeus, pentitosi di averlo salvato e aiutato una volta, lo condannò a girare perennemente nella volta celeste, legato ad una ruota infuocata e flagellato senza pietà, dovendo ripetere in eterno «I benefattori devono essere onorati». Per secoli Issione è stato l’emblema dell’‘ingrato’, come anzidetto, ma anche dell’immemor (colui che dimentica il bene ricevuto) e dell’infidus (colui che infrange un patto di lealtà), e soprattutto del superbo che pecca di tracotanza ed empietà, perché crede di poter ingannare persino gli dèi, di poter fare ciò che vuole impunemente.
Con Cesare Pavese, nell’opera intitolata “Dialoghi con Leucò”, abbiamo una interessante rivisitazione del mito (cfr. il dialogo “La Nube”):
«LA NUBE. Non sfidare la mano, Issione. È la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?
ISSIONE. Me l’hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
LA NUBE. Tu giochi e non conosci gli immortali.
ISSIONE. Vorrei conoscerli, Nefele.
LA NUBE. Issione, tu credi che sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi - tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti - se per errore li disturbi nel loro Olimpo - ti piombano addosso, e ti danno la morte - quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.
ISSIONE. Dunque si può ancora morire.
LA NUBE. No, Issione. Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
ISSIONE. Tu li hai veduti questi dei?
LA NUBE. Li ho veduti ... O Issione, non sai quel che chiedi.
ISSIONE. Anch’io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.
LA NUBE. Lo sapevo. La tua sorte è segnata...».
Invidia. Il metro di Caino
di Umberto Fiori *
Quando ero bambino, a catechismo, un prete mi ha raccontato la storia di Caino e Abele. Di quel racconto - e della sua autorevole interpretazione - mi sono a lungo accontentato. Per me, come per tanti cattolici, la Bibbia era affare della Chiesa.
Solo molti anni dopo ho avvertito la necessità di un “libero esame” del passo della Genesi. Ho scoperto così che, per rendere più comprensibile a noi piccini la morale della foschissima favola, il buon parroco aveva prudentemente “rivisto” il racconto. Nella sua rassicurante versione, Abele sacrificava a Dio gli agnelli più belli e grassi del suo gregge, mentre Caino gli offriva solo gli scarti del proprio raccolto: di qui la ragionevole benevolenza del Signore per il pio pastore, la sua giusta collera contro il fratello infido e sacrilego.
Il fatto è che, nella Genesi, della disparità tra i due sacrifici non si fa menzione. Niente fa pensare che un sacrificio fosse più “giusto” dell’altro: le due offerte risultano equivalenti.
Questa equivalenza - ci si può chiedere - vuole presentarsi come un dato “oggettivo”, o invece intende sottilmente alludere al punto di vista di Caino, soggettivo e distorto? Non fa differenza. Ciò che conta non è tanto la disparità o l’equivalenza “effettiva” delle due offerte, quanto piuttosto il metro che Caino adotta per valutarle.
Il fatto stesso che applichi un metro, che le confronti, contestando le “misure” di Dio, è l’errore che lo acceca e lo perde. Se accettassimo la versione “moraleggiante” (presente anche nella tradizione ebraica) secondo la quale il sacrificio di Caino era inadeguato, dovremmo aspettarci che il rimprovero che il Signore gli rivolge riguardi proprio questo. Invece, Dio non ne parla affatto, e Caino, da parte sua, non dà a vedere di sentirsi in colpa per avere offerto un olocausto indegno. È dall’equivalenza delle due offerte che occorre partire; è questa misteriosa, misconosciuta “uguaglianza” a conferire al racconto il senso tragico che avvertiamo.
Tanto Abele quanto Caino - così sta scritto - offrivano a Dio i frutti del proprio lavoro: “Caino fece un’offerta al Signore dei prodotti del suolo. E Abele, anche lui, offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso”. E tuttavia - leggiamo, con un brivido di sgomento - “Il Signore riguardò [guardò con favore, gradì, premiò] Abele e la sua offerta, mentre non riguardò [non guardò con favore, non gradì, non premiò] Caino e la sua offerta; Caino perciò ne fu grandemente adirato e il suo volto fu abbattuto”.
Caino non riesce ad accettare la preferenza che Dio accorda al fratello. Se si sta al testo biblico (non alla sua vulgata “moraleggiante”), è terribilmente facile comprenderlo: visto che i sacrifici si equivalgono, non dovrebbero equivalersi anche i favori di Dio?
Questa è la sfida che si presenta al primogenito di Adamo e a noi, suoi figli. Questa, la prova a cui siamo messi.
Invece di esporre paternamente a Caino le sovrumane ragioni della propria “ingiustizia”, il Signore lo provoca crudelmente, con parole che stringono il cuore e spaventano: “Perché sei così adirato e il tuo volto è abbattuto? Forse che, se agisci bene, non potrai tenere alto il tuo volto? Ma, se non fai bene, il peccato giacerà alla porta e contro di te si volgono le sue brame; però tu devi dominarlo”.
Caino non riesce a tenere alto il volto, a sollevare il viso (il visus: lo sguardo) da terra. L’esistenza del fratello, illuminata dal favore di Dio, gli è invisa: non la può proprio guardare, non può vederla. È invidus, invidioso.
Invidioso: cosa significa? Noi lo sappiamo: fin troppo bene, lo sappiamo; ma per il nostro disgraziato progenitore, l’esperienza è del tutto nuova e incomprensibile.
Che cosa gli accade? Cos’è, questa angoscia che lo sconvolge nel profondo?
È Dio, dall’alto dei cieli, a dare un nome al suo tormento. Ciò che prova - lo ammonisce - non è il legittimo sdegno per un torto subito: è una colpa, un peccato.
Caino - osserviamolo - nulla obietta. Non protesta contro l’Altissimo, non gli rinfaccia apertamente la sua iniquità, non gli chiede conto del torto fattogli. È lui il primo ad avvertire oscuramente che la sua sorda ribellione non ha i caratteri di un sentimento nobile, giusto. Il suo sdegno non gli colma l’animo del sacrosanto entusiasmo di chi ha ragione; al contrario: lo abbatte, lo deprime. La sua rivolta non ha il coraggio di manifestarsi: resta nel petto, celata come una vergogna. Ma sul volto, nei gesti, nella postura, i segni dell’amarezza affiorano irresistibilmente. Il figlio di Eva è livido, non ha gioia.
I sintomi - non c’è dubbio - sono funesti. Di per sé, tuttavia, non provano ancora che ciò che Caino sente sia un peccato. È una colpa, la tristezza? Ed essere felici, è un merito?
Abele è felice. Ma qual è il suo merito? I suoi sacrifici erano forse più puri, più santi, più devoti di quelli del fratello? No. È l’arbitraria benevolenza del Signore, non una speciale devozione, ad avergli procurato la felicità di cui gode. E Caino? Non aveva meriti?
Dio non li nega, quei meriti, ma nemmeno li riconosce. Non è di questo che intende parlare.
Il peccato di Caino, quello che lui si ostina a non vedere, non consiste nella inadeguatezza delle sue offerte. Il suo vero peccato (Dio non lo dichiara: si limita a suggerirlo) è comparare ciò che è incomparabile: la propria fortuna e quella di un altro, la vita di un uomo e quella di un altro uomo. Peccato è il confronto; di lì nasce l’angoscia che lo spingerà a uccidere Abele. Mentre Caino commisura i meriti, mentre scruta e raffronta i premi ricevuti, mentre aguzza gli occhi sul meglio e sul peggio, perde di vista il bene. Chi fa il bene - lo ammonisce il Signore - tiene alto il volto.
Il primogenito di Adamo, invece, guarda rabbiosamente a terra. Calcola, valuta, soppesa (nella tradizione ebraica, Caino è anche l’inventore di pesi e misure). Vorrebbe che fosse finalmente fatta giustizia. È questo ad accecarlo, a esporlo ai morsi del peccato, che sta “accovacciato come una belva sulla soglia di casa”. La sua giustizia - la giustizia umanamente intesa - pretende di giudicare quella divina, vuole imporle il proprio metro, le proprie scadenze; si spinge fino a vedere in essa una iniquità intollerabile. Questo è, l’invidia: la disperata incapacità di comprendere l’operare di Dio, di accettare senza condizioni la Sua santa volontà.
Nella vicenda di Abele e Caino, l’aspetto religioso è predominante: si parla di uomini che offrono sacrifici, di una divinità che li gradisce o li disdegna, si parla di peccato, di castigo divino. Questo potrebbe indurci a ridurre questa grandiosa rappresentazione dell’invidia a un racconto moraleggiante, il cui senso sarebbe condizionato dai valori propri di una determinata fede. Proviamo a spogliare l’antichissima favola della sua veste biblica, proviamo a tradurla in termini laici. Al posto di Dio mettiamo la fortuna, il caso, l’opinione corrente; al posto dell’olocausto di agnelli e di mèssi mettiamo la fatica, il lavoro, gli sforzi quotidiani di ogni uomo e di ogni donna; al posto della benevolenza del Signore, mettiamo il benessere, la felicità, il pubblico riconoscimento. Così impostata, la favola appare ancora più cupa, davvero tragica.
È vero, l’invidia del nostro Caino “laico”, che non tollera i propri fallimenti e i successi del suo vicino, non è più un peccato, è solo un sentimento tra gli altri: non c’è un Dio che gli possa rimproverare ciò che sente. Ma anziché liberarlo, questo lo sprofonda ancora più in basso nell’angoscia e nel risentimento, gli fa sentire ancora più grave il peso della sua impotenza. Che se la prenda con il destino avverso, o invece con la malevolenza degli uomini, con la stoltezza della pubblica opinione, è sempre una superiore Ingiustizia a sfidarlo.
Il suo sguardo storto e risentito sulla fortuna del vicino rimane celato nel suo intimo, nessuno lo bolla come una colpa; ma Caino non riesce comunque a “tenere alto il volto”: anche senza un Dio che la condanni, la sua tristezza resta un tormento; il suo abbattimento, anzi, è ancora più disperato.
Come può guarire da questo male? Dove sono le radici della sua rabbia, della sua disperazione? Perché soffre, l’invidioso?
Soffre perché il bene che ha fatto (che presume di aver fatto) non gli ha procurato ciò che si aspettava: un bene ulteriore, corrispondente al valore del suo fare, anzi maggiore. L’invidioso concepisce il bene come adeguata ricompensa di uno sforzo, come risultato finale di un lavoro che buono è solo in subordine, in quanto mezzo per ottenere l’oggetto a cui aspira. Caino è un lavoratore. La sua non è una preghiera, non è un’offerta: è un’opera realizzata in vista di un vantaggio, di un adeguato tornaconto (sia pure immateriale, morale). La fatica che quest’opera gli è costata gli sembra enorme, mentre in quella dell’altro non avverte traccia di sforzo. Se ripensa al proprio sacrificio e lo paragona a quello del suo rivale, il premio che questi riceve, ai suoi occhi, è vergognosamente immeritato.
L’invidia svanirebbe, se l’invidioso si accontentasse del proprio giudizio, della bruciante certezza dalla quale si è originato il suo sdegno: la fatica e l’opera sua valgono quanto quelle del vicino, se non di più. Il fatto che non vengano premiate non dovrebbe diminuirne, ai suoi occhi, la dignità e il valore. Ma l’invidioso è incapace di prestar fede al proprio giudizio; questa è la sua sventura: il giudizio del mondo è per lui talmente autorevole, talmente divino, che egli non può fare a meno di dubitare della qualità della propria opera spregiata, e anzi di spregiarla a sua volta rabbiosamente, in segreto, mentre quella altrui - per quanti sforzi egli faccia al fine di sminuirla - comincia a sembrargli terribilmente buona, illuminata com’è dalla grazia del pubblico favore.
Se l’invidia fosse un peccato, se ci fosse un Dio a condannarla, l’invidioso potrebbe liberarsene confessandola, ammettendo la propria colpa, purificandosi. Ma qui - lo abbiamo detto - stiamo parlando di un invidioso senza Dio, senza colpa, senza perdono. La sua sofferenza non ha vie d’uscita. L’invidia si rivela come il sentimento più doloroso, più inconfessabile.
Analizzando e confrontando la natura dell’odio e quella dell’invidia, Plutarco osserva che “alcuni ammettono di odiare molte persone, ma sostengono di non invidiare nessuno” (L’invidia e l’odio, D’Auria, Napoli, 2004, p.85). Eppure, l’invidia è uno dei sentimenti più propri dell’uomo: Plutarco fa notare che mentre il nostro odio può investire anche gli animali, l’invidia è pensabile solo tra un uomo e un altro uomo. E aggiunge: “Tra gli animali selvatici invece non è probabile che sorga invidia reciproca (dato che non hanno idea della buona o cattiva fortuna dell’altro, né li tocca la presenza o l’assenza della gloria, motivi dai quali l’invidia è inasprita al massimo grado)” (p.83).
Un cervo e un altro cervo potranno competere, affrontarsi, conquistare o perdere femmine e territorio, ma non potranno invidiarsi. L’invidia sorge nell’uomo grazie alla sua essenziale capacità di andare oltre la mera fattualità, e di riconoscere il simbolico (la gloria, l’ammirazione, la pubblica approvazione). Che un uomo sia invidioso, dunque, è la prova più certa della sua umanità. E tuttavia, “Gli uomini (...) negano di provare invidia, e qualora si provi loro il contrario, adducono innumerevoli giustificazioni, dicendo di provare ira o paura o odio per l’uomo in questione, ricoprendo e nascondendo il nome della passione con qualsiasi altro capiti loro in mente diverso dall’invidia, come se tra le malattie dell’anima questa fosse la sola a non poter essere nominata”.
Superbia, ira, lussuria, gola, avarizia, accidia, sono altrettanto riprovevoli, ma nessun affetto umano è amaro quanto l’invidia. Amaro, e funesto, e contagioso.
In una lettera a Dario, re di Persia, che lo aveva invitato alla sua corte offrendogli onori e ricchezze, Eraclito motiva il proprio rifiuto dichiarando tra l’altro di astenersi, per principio, dalla brama e dall’ambizione che accecano gli altri uomini, e di fuggire “la sazietà [la soddisfazione, la gloria] che è legata all’invidia” (kai koron feugon panti oikeioumenon phthonoi).
La sua spiegazione può sorprendere. Perché mai ci si dovrebbe guardare dal suscitare l’invidia altrui? Non è forse, la gelosia degli uomini, il segno più certo del nostro valore, la naturale conseguenza del suo riconoscimento? Non è anche per il sottile piacere di essere invidiati che ci battiamo per ottenere il successo? Eraclito la pensa diversamente. Essere invidiati - ci insegna - è doloroso quanto lo è invidiare. Se non è accecato dalla propria vanità, chi avverte su di sé l’occhio storto dell’invidioso fatica a goderne. L’effetto di quello sguardo maligno non è soltanto di generare allarme e inquietudine. Il malocchio è un fluido venefico che contamina il bene, lo deforma, lo riduce a cosa, a un oggetto che si possiede strappandolo ad altri. Nelle mani dell’invidiato, la contentezza che il bene genera si sporca, si adombra di alterigia, di superbia; il valore e il suo riconoscimento appaiono come l’odioso privilegio di un singolo.
Nello Zibaldone [3778], Leopardi osserva che l’invidia, passione antisociale per eccellenza, nasce non nella “società scarsa e larga destinataci dalla natura” - dove tende piuttosto a prevalere la solidarietà - ma in quella che egli chiama “società stretta”, insomma nell’ambito della convivenza civile caratteristica dell’età moderna. Nella “società stretta” gli uomini vivono uno di fronte all’altro, le loro esistenze si espongono ogni giorno allo sguardo altrui. La loro sorte - buona, grama, mediocre - è in pubblico. Il Pubblico è il dio di questi uomini serrati uno contro l’altro, il giudice sommo del loro bene, del loro male. L’invidia serpeggia da una finestra a un mercato, da un teatro a una bottega, fino alla piazza principale. La Città è il terreno ideale dell’invidia.
Oltre che primo assassino, Caino è il primo fondatore di città. L’invidia - ci suggeriscono le Scritture - non è solo un sentimento individuale, il peccato di un singolo: è l’oscuro fondamento di ogni socialità, di ogni società. La civiltà stessa, così com’è, è fondata sull’invidia, cioè sul perpetuo confronto tra gli uomini, sul sentimento di un’uguaglianza comparativa, sul bene inteso come felicità individuale, benessere da soppesare e misurare, tesoro di cui impossessarsi.
Alla radice della polis greca, il giovane Nietzsche vede proprio l’invidia, la “seconda” Eris (Discordia), la Eris “buona” che Esiodo nomina ne Le opere e i giorni:
Ma l’invidia non è solo “buona” discordia, positivo spirito di emulazione, argine ad ogni umana hybris: è anche la fonte del risentimento dei diseredati nei confronti dei privilegiati (germe di quella che Nietzsche chiama “morale da schiavi”), dei contrasti tra popoli, tra classi.
Un’intepretazione “sociale” della favola di Caino e Abele si ritrova persino in Baudelaire con toni insoliti, da barricata: “Race d’Abel, dors, bois et mange;/ Dieu te sourit complaisemment. // Race de Caïn, dans la fange/ rampe et meurs misérablement”.
La fiera requisitoria contro Abele e i suoi immeritati privilegi si conclude con un incitamento alla rivolta: “Race de Caïn, au ciel monte/ et sur la terre jette Dieu!”. Sulla scia della tradizione romantica, il Caino di Baudelaire è un Titano umiliato, un Prometeo che per liberare l’umanità deve dare l’assalto al cielo, sopprimere quel Dio che ha provocato l’uomo con il suo arbitrio.
Anche senza Dio però - ne abbiamo ragionato - l’invidioso non è comunque libero dall’amarezza che lo tormenta. Il peso dell’invidia non deriva dal fatto che qualcuno la condanni come un peccato. L’invidioso soffre, perché è incapace di concepire il bene se non come premio, come risultato. Nella sua misera prospettiva, l’opera buona può portare al successo, ma è anche esposta al fallimento. Il suo sguardo ansioso è tutto teso a calcolare quanta felicità sia toccata a lui e quanta al suo simile. Questo sguardo guidato da un disperato senso di giustizia, questo sguardo che insegue il miraggio della felicità, è senza gioia, è sempre più lontano dalla gioia.
Gioia, felicità. I due termini sembrano sinonimi, ma forse le nostre riflessioni sull’invidia hanno già messo in luce alcune differenze significative. Cerchiamo di approfondirle.
La felicità è strettamente legata alla volontà: è l’oggetto di un desiderio, il risultato sperato di uno sforzo cosciente dell’individuo; la gioia è una sensazione - involontaria, quasi impersonale - di pienezza, di forza, di entusiasmo. Entrambe - felicità e gioia - sono moventi del nostro operare umano; ma chi opera in vista della felicità è inquieto, insoddisfatto: si muove nell’ansia, nell’incertezza del suo premio; quando anche ottenga un risultato, sarà sempre spinto a valutarne la consistenza, l’adeguatezza agli sforzi fatti, a confrontarlo con le proprie aspettative, con i risultati altrui. L’operare mosso dalla gioia, invece, non insegue un obiettivo: parte da una certezza. La gioia è la sua origine, non il suo fine. La gioia è un’esperienza che ci accade, non l’oggetto della nostra volontà, della nostra brama. Chi opera per gioia, potremmo dire, ha già ricevuto il premio: è il premio a muoverlo.
Parlare di premio, tuttavia, è ancora inappropriato: un premio è sempre commisurato allo sforzo di cui è ricompensa. La gioia, invece, è smisurata, incommensurabile. È un dono immotivato, senza rapporto alcuno col nostro merito. Un dono sovrabbondante, traboccante, che ci spinge a condividerlo, a donare.
Chi opera in vista della felicità, parte dall’idea di una uguaglianza di principio fra gli uomini. Proprio questa idea, che a noi moderni appare sacrosanta, è ciò che induce al confronto, e infine all’invidia. Se gli uomini sono uguali, anche le loro quote di felicità dovranno esserlo. Quando non lo sono, ci si trova di fronte a un’ingiustizia: la felicità è un bene limitato, quella di uno è tolta all’altro. Che sia Dio a commettere questa ingiustizia, che siano le circostanze storiche, economiche, sociali, che sia lo Stato, il caso, la fortuna, Caino vorrà sempre opporle il suo metro, la sua giustizia. Ma - lo abbiamo visto - questa giustizia è impotente a fare ciò che pretenderebbe.
Scrutando il meglio e il peggio, ha perso di vista il bene. Più acutamente spia il proprio simile, per smascherarlo, meno lo vede. Lo sguardo che calcola e misura non è capace di guardare davvero Abele; è uno sguardo abbattuto, cieco, disperato. Solo la gioia permette, a chi se ne lascia invadere, di vedere il bene, proprio e altrui, di guardare al proprio simile non come a un uguale da guatare con sospetto, ma come a un altro da contemplare e custodire. Solo la gioia - gratuita, incomparabile, inesauribile - se sappiamo attenderla, ascoltarla, ci permette di oltrepassare l’invidia, di uscire dalla penosa meschinità del metro, del confronto e del calcolo, ci permette di donare ciò che ci è stato donato, ciò che siamo, senza altro premio se non la forza che ci muove.
* DoppioZero, 21 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NATURA E INTELLIGENZA ASTUTA: UN’UMANITA’ SENZA GRAZIA. Una sollecitazione a pensare (non dal Festival di Filosofia ma) dal mondo di Esopo e di Fedro
Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
ELVIO FACHINELLI E GIAMBATTISTA VICO: INDICAZIONI PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Un segnavia -
PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA. Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente.
Federico La Sala
Impara a comunicare: prendi a schiaffi una categoria a caso
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 23.05.2015)
Quelli che hanno fatto buoni studi e che ora di mestiere fanno i rampanti comunicatori del consenso, la chiamano “disintermediazione”. Esistendo in questo paese più “scienziati della comunicazione” che salumieri (un vero peccato) dovreste più o meno sapere cos’è. Erano “disintermediazione” i videomessaggi di Silvio Berlusconi, così come lo sono i videclip, con o senza lavagna, di Matteo Renzi. Si tratta di una disintermediazione un po’ farlocca, perché se non hai a disposizione giornali e tg che rilanciano il tuo spettacolino funziona un po’ meno, ma insomma... Esempio. C’è lo sciopero dei ferrovieri. Mediazione è parlare con le rappresentanze sindacali dei ferrovieri, capire il problema e cercare una soluzione. Disintermediazione è rivolgersi a tutti i cittadini (basta un tweet) per dire: i ferrovieri cattivi, privilegiati, maledetti, viziati, disfattisti vi impediscono di andare a Bologna.
Uguale con la riforma della scuola: essendo la stragrande maggioranza di insegnanti e studenti contrari alla riforma in votazione, ci si rivolge a tutti gli altri con una serrata propaganda, nella speranza che i cittadini tutti se la prendano con gli insegnanti che non sono d’accordo con una cosa così bella e moderna. Insomma, possiamo dire in soldoni che la disintermediazione serve a usare gli italiani per picchiare altri italiani, a mettere tanti contro pochi. Utenti dei mezzi pubblici contro tramvieri, italiani contro insegnanti, cittadini contro sindacati, eccetera, eccetera. Un giochetto che paga nell’immediato, ma che alla lunga rischia di finire a schiaffoni tutti contro tutti.
Ci sono però alcuni problemi: la disintermediazione funziona poco quando il numero di italiani da tramortire usando il consenso di altri italiani è molto alto. Potrete convincere un pendolare che il capotreno in sciopero è uno schifoso privilegiato che limita la sua libertà di prendere il treno. Più difficile sarà convincere un nipote che la nonna, dall’alto della sua succulenta pensione ai limiti della sopravvivenza, gli ruba lavoro, o futuro, o prospettive. E questo perché un ferroviere in casa ce l’hanno in pochi, e una nonna (o genitori anziani) invece in molti. E così le cose si complicano: nel caso delle pensioni (e di un obolo una tantum concesso al posto del rimborso) la propaganda e la disintermediazione non hanno funzionato benissimo. E di questi tempi per sapere se una mossa propagandistica funzione basta guardarne il nome: se funziona si chiama Renzi (gli ottanta euro), se non funziona si chiama Poletti (o Giannini, o...).
Altro problemino, il fatto che la disintermediazione tende sempre a guardare in basso. Servono soldi? Blocchiamo gli stipendi agli infermieri, o l’indicizzazione ai pensionati. Basterà far credere a tutti gli altri che infermieri, o pensionati sono di ostacolo a un immaginario bene comune. Mai, dico mai, si addita ai cittadini qualche cassaforte ben fornita, che so, i manager pagati come mille lavoratori, o i grandi e grandissimi patrimoni, o le grandi rendite o le grandi aziende che portano la sede fiscale all’estero. Non a caso all’ultima Leopolda a scagliarsi ferocemente contro i pensionati non fu un giovane precario di Catanzaro, ma un finanziere milionario di Londra (Davide Serra, oggi Commendatore).
Un po’ come il lupo che dice alle pecore “attente alle altre pecore! Brucano la vostra erba!”. Insomma la disintermediazione è un trucco furbetto, a volte funziona e si basa sulla certezza che le pecore litigheranno tra loro e non si mangeranno il lupo. Un vero peccato.
Una sfida ideologica
di José Castro Caldas, economista, ricercatore presso il Centro Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo)
(traduzione dal francese di José F. Padova) *
«Nella vita niente è gratuito». Questo adagio, che sembra espressione del buon senso, in realtà riflette il pensiero economico dominante. Distillato dai teorici alla moda e da una quantità di manuali universitari, fa parte di una visione sociale nella quale tutto inevitabilmente è commerciale. Ma da dove viene questa idea che opera un amalgama fra le nozioni di costo, di prezzo e di valore, allo scopo di facilitare l’estensione del mercato a detrimento dei beni pubblici e comuni?
Travestito da indigente
Nel 1975 l’economista americano Milton Friedman pubblicava There ’s No Such Thing as a Free Lunch («Un pasto gratuito? Non esiste!»), ma l’espressione circolava già da tempo. Si racconta un aneddoto edificante a proposito di Vilfredo Pareto, teorico liberale della scuola di Losanna, che sosteneva l’esistenza di leggi economiche simili a quelle della fisica. Pareto si sarebbe travestito da poveraccio per domandare al suo contraddittore, l’economista tedesco Gustav von Schmoller, dove trovare un ristorante che servisse un pasto gratuito. Quest’ultimo avrebbe risposto che non esisteva alcun posto simile, fornendo così la prova che tutto si compra.
Ma questo aneddoto, diventato un precetto insegnato agli studenti, ha qualche fondamento storico? Si sa, per esempio, che nel XIX secolo i saloon del nordamericani offrivano pasti gratuiti. I clienti avrebbero soltanto dovuto pagare le bevande che accompagnavano i piatti, in generale abbondantemente salati.
Più tardi, nel corso dei dibattiti sullo Stato previdenziale negli Stati Uniti, l’aneddoto è stato utilizzato dagli avversari del presidente Franklin Delano Roosevelt e di tutti i partigiani del Welfare State. Nel 1942 il giornalista Paul Mallon reagiva così alla proposta del vicepresidente Henry Wallace di garantire un minimo di cibo, di vestiti e di alloggio a tutti gli americani: «Il signor Wallace dimentica che non è mai esistito un pasto gratuito. A meno che l’umanità non acquisisca poteri magici, qualcuno dovrà sempre pagare per il pasto gratuito concesso a un altro». Molto rapidamente la formula «non vi sono pasti gratuiti» è divenuta il ritornello della teoria della scelta razionale. Quando gli individui o la società vogliono ottenere qualcosa, la quantità limitata per definizione delle risorse li obbliga a rinunciare a un’altra cosa.
Il mancato funzionamento del mercato
Secondo questa teoria, in una « ideale economia di mercato » ogni cosa ha un prezzo e chi vuole ottenerla deve pagare. Non si tratta qui di morale, bensì di logica. Fissato dalla legge dell’offerta e della domanda, il prezzo di un bene determina (e riflette) l’efficienza economica. Ogni altra situazione rivela una «lacuna del mercato», un problema da regolamentare e non una realtà alla quale occorre adattarsi.
Prendiamo il caso dei «beni pubblici» (1), il cui classico esempio è il faro che orienta le navi lungo le coste. La luce che diffonde è gratuita. D’altra parte sarebbe difficile immaginare un sistema di pagamento a carico dei naviganti, i quali, per definizione, non fanno altro che passare e sparire senza lasciare tracce.
Per gli economisti dominanti questa situazione è problematica. Effettivamente, se la costruzione dei fari fosse stata affidata al mercato, non ne esisterebbe alcuno. È grazie all’intervento dei poteri pubblici, dotatisi delle risorse necessarie grazie alle imposte, che essi sono stati eretti. E il ragionamento può ampliarsi. Alla fine, l’illuminazione delle città è un bene pubblico, per lo stesso motivo per il quale lo è l’aria pulita, il sapere, o gli oceani. Per certi economisti (2) la proprietà privata ha precisamente per origine la necessità di regolamentare il «problema» dei beni pubblici. Vale a dire, di trovare un mezzo per imporre un prezzo all’utilizzatore di un bene. Così si potrebbe pensare che le strade devono logicamente avere uno status pubblico. Ebbene, si inventano i pedaggi, soluzione capitalista ispirata ai dazi del Medio Evo! Il medesimo principio vale per il sapere: è difficile la sua privatizzazione? Sarebbe nefasta? Non importa! Si inventano i diritti di proprietà intellettuale.
Principio di necessità
Per la teoria dominante, la gratuità è una patologia che deriva da costrizioni naturali o tecniche; è un’eccezione alla buona regola. In linea di massima colui che vuole acquisire un bene o usufruirne deve pagarne il prezzo. E poco importa che il denaro diventi la condizione di accesso a tutto. Ugualmente poco importa per i beni che, per loro natura o funzione, non devono avere prezzo, come la salute o l’educazione.
Tuttavia, la logica mercantile non sarebbe in grado di estendersi a tutto. Così esistono cose o esseri il rispetto dei quali è più importante della ricerca di una pretesa efficienza economica. È il caso delle persone o degli organi umani. D’altro canto, certi beni potrebbero avere un prezzo, ma non ne hanno, perché una parte del loro valore risulta dal loro utilizzo condiviso: una piazza pubblica, per esempio. Infine, vi sono beni ai quali tutti devono avere accesso, indipendentemente dal loro potere d’acquisto, perché lo esige la necessità. In Portogallo si dice che «un bicchiere d’acqua non lo si rifiuta a nessuno» e anche negli esercizi commerciali si dà l’acqua a chi la chiede. Allo stesso modo il medico ha il dovere di prestare assistenza in caso di necessità.
Per lungo tempo spettava alle opere di carità distribuire i beni di base agli indigenti. Ma questa situazione non risponde che molto imperfettamente all’imperativo della necessità. È ciò che voleva dire Adam Smith - che spesso è stato male compreso - quando affermava che per il nostro pranzo non si deve sperare nella bontà del macellaio. La beneficenza ci rende debitori mentre si presume che il mercato ci liberi da qualsiasi legame di dipendenza: pagando il prezzo saremmo liberi. Per questo Smith auspicava che tutti potessero pagare i beni di prima necessità. Tuttavia il capitalismo, si sa, non ha soddisfatto questo auspicio, anche se, in certi casi, si è avvicinato all’ideale che Wallace evocava: la garanzia, da parte dei poteri pubblici, di un minimo di cibo, vestiti e alloggio.
Alla fine, la scelta di quello che deve, o non deve, essere oggetto di una transazione commerciale deriva innanzitutto dall’etica (3). Il mercato si basa su norme costruite storicamente e incrostate nella cultura, che sono spinte a evolversi. Infine, von Schmoller l’avrebbe avuta vinta su Pareto. Se in economia esistono «leggi», esse sono create dagli esseri umani; non risultano dalla natura. Quindi noi possiamo modificarle.
(1) Vedi Philippe Quéau, «A qui appartiennent les connaissances?», Le Monde diplomatique, janvier 2000.
(2) Cf. Armen A. Alchian et Harold Demsetz, «The property right paradigm», The Journal of Economic History, vol. 33, n°1, Cambridge, 1973.
(3) Elisabeth Anderson, «The ethical limitations of the market», Economics and Philosophy, n°6, Cambridge, 1990.
* Le Monde Diplomatique - ottobre 2012
CEDIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA:
Sulla fiducia. Il senso della comunità al tempo della crisi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3 settembre 2012)
Chi si aspettasse di trovare nel libro di Michela Marzano Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, appena tradotto da Mondadori, un esercizio di tradizionale filosofia morale, rimarrebbe positivamente sorpreso. Non solo esso prende una salutare distanza da luoghi comuni sempre più diffusi - come quello della equivalenza tra verità e assoluta trasparenza -, ma annoda con esiti di particolare rilievo il linguaggio filosofico a quelli sociologico, antropologico, economico.
Del resto quale concetto, più di quello di fiducia, si pone nel punto di incrocio e di tensione tra il lessico teologico della fede, quello sociale della credenza e quello economico del credito? Per inquadrarlo in tutta la sua valenza l’autrice attiva uno sguardo genealogico che dall’età classica - ancora basata sull’onore ed il rispetto della promessa - arriva alla modernità, in cui la categoria di fiducia subisce una serie di contraccolpi che finiscono per rovesciare la société de confiance nella société de défiance - come si intitolano rispettivamente i saggi di A. Peyrefitte (Odile Jacob, 2005) e di Y Algan e P. Cahuc (Presse de l’Ecole normale supérieure, 2007).
Il punto di innesco di questo processo di secolarizzazione è costituito dalla critica cui i moralisti francesi, come Pascal, La Rochefoucauld e La Bruyère, sottopongono le antiche virtù eroiche dell’onore e della lealtà. Mandeville e Adam Smith assumono la medesima concezione disincantata, pur capovolgendone le conclusioni: sono proprio i vizi privati, e cioè gli interessi particolari, a costituire, nel loro insieme, la sorgente della ricchezza sociale. Ma questo passaggio dal negativo al positivo, presto traslato nell’immagine liberale della ‘mano invisibile’, si basa sulla sovrapposizione indebita tra la nozione, etica, di fiducia e quella, economica, di interesse: la “società di fiducia” di cui parla Smith poggia in realtà sulla generalizzazione della sfiducia reciproca.
È qui che l’autrice innesta il vettore forse più originale della propria ricerca, profilando con rapidi tratti il transito, genialmente intuito dall’economista scozzese John Law, dal sistema monetario incentrato sull’oro a quello fondato sull’emissione dei biglietti bancari e delle carte di credito. Il quale non può poggiare che sulla fiducia reciproca degli attori economici. Ma proprio qui inizia ad aprirsi quella frattura antropologica che oggi minaccia di diventare una vera e propria voragine: come conservare la fiducia nella solvibilità degli individui, delle banche o degli stessi Stati che le garantiscono, quando gli uomini si comportano in maniera palesemente egoistica? È come se tutto il castello dell’economia moderna poggiasse su un fondamento di carta destinato a strapparsi al primo urto.
La storia delle molteplici crisi finanziarie, dalla bancarotta del 1720 in Francia a quella dei nostri giorni, al di là delle ovvie differenze di tempo e di contesto, rimanda a questo vuoto originario, a partire dal quale la sfiducia tende sempre più rapidamente a sfondare le fragili pareti della fiducia: come scriveva Duclos nelle sue Memorie segrete, “la fiducia si ispira per gradi, ma basta un istante per distruggerla, e, allora è in qualche modo impossibile ristabilirla”. Senza una credibilità diffusa, l’intero sistema economico minaccia di crollare, ma per crearla occorre che da qualche parte si dia prova di meritarla.
È il cortocircuito in cui la speculazione finanziaria ha trascinato prima l’economia americana e poi il resto del mondo: il mancato pagamento dei subprimes ha portato alla caduta del prezzo degli alloggi ipotecati senza copertura. Ciò, a sua volta, ha determinato una generale crisi del credito e una conseguente perdita di fiducia nei confronti dell’intero sistema finanziario.
Tutto ciò è ben noto agli economisti. Che però tendono a restare chiusi all’interno del loro orizzonte, impedendosi così di vedere quella faglia che lo sottende, sulla quale concentra invece l’attenzione la Marzano. Quando il senso comune diventa quello efficacemente stilizzato nel film di Ridley Scott Nessuna verità (2008) “Non fidarti di nessuno. Inganna tutti”, la soglia di guardia è abbondantemente superata.
La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico.
Ad uscirne non bastano i - pur necessari - provvedimenti economici. E neanche solamente quelli politici. Serve un sommovimento generale delle coscienze che liberi l’idea, e la pratica, della fiducia dalla sua sudditanza all’ideologia dell’interesse. Alla sua base non vi può essere solo la fiducia in se stessi predicata dai nuovi addestratori di manager e trader, quanto il coraggio di fare la prima mossa - credere negli altri prima ancora che questi credano in te.
Con tutto il rischio che tale opzione comporta. Certo, guardarsi dalla sempre possibile cattiva fede altrui è opportuno, ma senza per questo presumere di dovere avere tutto sotto controllo. Un discorso - quello della Marzano - traducibile nelle categorie di comunità e di immunità: l’eccesso di protezione immunitaria contro il possibile pericolo conduce non solo alla rottura del legame sociale, ma anche al rischio mortale di una malattia autoimmune.
Note introduttive sul tema:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE. (Federico La Sala)
Laici maestri di sacro
intervista a Francesc Torralba Rosellò,
a cura di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 15 maggio 2012)
Nella Catalogna di Salvador Dalì, Antoni Gaudì e Juan Mirò il «Cortile dei gentili» - lo spazio di dialogo tra credenti e ’umanisti’ - non poteva che avere come tema «Arte, bellezza e trascendenza». La nuova tappa del confronto voluto da Benedetto XVI e intrapreso dal cardinal Gianfranco Ravasi per interloquire con «quanti si rivolgono a Dio come Sconosciuto» si sofferma a Barcellona. Giovedì e venerdì si alterneranno riflessioni e scambi in alcune prestigiose sedi: il Museo Nazionale d’Arte della Catalogna, con la prolusione del presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, poi l’università di Barcellona e infine la Sagrada Familia.
Francesc Torralba Rosellò, giovane teologo e valente filosofo da qualche mese nominato consultore dello stesso Pontificio Consiglio, vi interviene con una conferenza su «La via dalla bellezza all’amore». Numerosi i suoi scritti recenti: in italiano Qiqajon ha appena pubblicato Volti del silenzio (pp. 200, euro 18); in Spagna sono appena usciti La lógica del don (Khaf) e Vida spiritual en la sociedad digital (Milenio).
Lei si è concentrato su temi spirituali ma aperti a tutti: silenzio, società digitale, dono. Un’indagine che ricalca molto il «Cortile dei gentili»... Perché quest’approccio?
«La mia ricerca filosofica cerca di essere aperta e ’permeabile’. Ritengo che il mio compito come filosofo sia promuovere il pensiero e la riflessione su queste domande genuinamente umane che ognuno, al di là delle proprie convinzioni spirituali, si formula. La mia funzione è essere alla frontiera perché i confini sono luoghi creativi dove si può imparare dal dialogo condiviso. Ritengo che ogni essere umano abbia una dimensione spirituale che può essere articolata e sviluppata in modi diversi in virtù dei contesti e delle biografie».
Cosa accomuna credenti e umanisti?
«Il senso di nostalgia, il desiderio di felicità, il bisogno di conforto e la paura sono esperienze trasversali che ci fanno fratelli nell’esistenza. Penso che la religione sia sostanzialmente rapporto che trascende il sé, collegando la persona con una realtà totalmente diversa che noi chiamiamo Mistero assoluto».
Nel suo saggio sul silenzio lei cita varie volte Ludwig Wittgenstein...
«Wittgenstein è un pensatore profondamente spirituale. Basta leggere i suoi scritti biografici risalenti alla prima guerra mondiale e il Tractatus logicus-philosophicus. Egli mostra i limiti del linguaggio scientifico e comprende che il silenzio è il migliore atteggiamento davanti al mistero della realtà. Questo attitudine di cautela e cura per ciò che trascende la razionalità scientifica mi pare molto interessante. Wittgenstein riconosce che non si può fare ’scienza’ sul senso della vita, ma la domanda del significato è, a sua volta, la più grave ed emotivamente coinvolgente che un essere umano possa farsi».
Dunque l’uomo religioso può scoprire un «di più» in chi non lo è?
«Certo, nel dialogo il credente scopre molti elementi interessanti. Anzitutto si rende conto che i non credenti costituiscono un mondo molto eterogeneo. Ci sono gli indifferenti, ma pure gli ’allontanati’; gli agnostici che cercano, ma anche quelli pieni di risentimento, molto critici con la religione per ragioni biografiche. Nel dialogo con i non credenti, chi crede è costretto ad esprimere ciò che è più essenziale e genuino della sua fede. Inoltre, deve farlo chiaramente e nitidamente, con termini ’laici’, come direbbe Habermas, poiché è l’unico modo per trovare un ambito condiviso».
Barcellona è una delle regioni più laicizzate d’Europa. Come rendere culturalmente credibile il Vangelo?
«Credo si debbano trovare argomenti esistenziali e ragioni pratiche, senza dimenticare i motivi ragionevoli, per diventare cristiano. La persuasione è molto importante, ma il miglior argomento è mostrare che il cristianesimo è una proposta per la felicità del mondo, una comunicazione di esistenza, come disse Kierkegaard: una narrazione di senso che, integrata nella persona, diventa sorgente di tranquillità, serenità e donazione. Il cristiano è credibile quando vive con gioia ciò che ha sperimentato, quando mostra al mondo come il suo incontro personale con Dio e con ciò che Agostino chiama il ’Maestro interiore’ si tramuta in sorgente di pace per l’anima e pacificazione del mondo».
«La libertà più vera è la gratitudine », scrive nel libro sul dono. Oggi sembra il contrario. Quali gli esempi concreti di questa libertà?
«La libertà si trova nella liberazione dall’Io, vivendo sotto la sorgente di bontà che esiste nel fondo di ogni essere. Significa essere consegnato agli altri senza calcolo né sperando nulla. La donazione di sé rimane davvero la via della felicità. Quest’ultima non risiede nel possesso né è un esercizio che si concentra sull’ego e la realizzazione dei propri desideri: questo è libertinaggio! Libero è chi vive liberato da pregiudizi e stereotipi, chi non è mosso dalla logica del calcolo e dell’interesse, ma da quella del dono, il dono più grande, che è l’agape. Gesù è il mio modello di libertà umana, ma anche Francesco d’Assisi, Massimiliano Kolbe e Edith Stein hanno vissuto secondo questa prospettiva».
Il progresso è finito al futuro serve l’eco-scienza
Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall’essere perfetto. Niente è tanto buono da non poter ricevere correzioni
La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la Natura ci ha portati davanti alla prospettiva di perdere la guerra. È il punto di non ritorno
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 17.09.2011)
L’idea di poter migliorare il mondo ha radici antichissime. E si basa sulla convinzione che l’uomo possa "correggere" la Natura piegandola alle sue necessità. Ma quello che fino a poco tempo fa era un grande modello di sviluppo rischia adesso, per i suoi eccessi, di danneggiare la vita sul pianeta. Ecco perché è arrivato il momento di usare il potere della tecnica per altri obiettivi, più sostenibili. Una sorta di eco-scienza per tutti
Il concetto di "Natura" è entrato nel nostro vocabolario con un’aura di santità: indicava la Creazione divina e, come tutto ciò che è divino, evocava l’esperienza del «numinoso», ossia quel peculiare intreccio di terrore, paura e adorazione che, come nella celebre proposta di Rudolf Otto, costituì l’avvio dell’idea di Dio e tutt’ora ne rimane la vera essenza. Per questa ragione la "Natura" significava anche un qualcosa che torreggia al di sopra della comprensione e del potere d’agire degli uomini, e con cui pertanto essi non potevano trafficare: la Natura, proprio come il Dio che l’aveva concepita e fatta venire all’essere, doveva essere riverita e adorata. La semplice idea di interferire o di immischiarsi con la Natura era ritenuta al contempo inane, implausibile e sacrilega. In verità, come ha mostrato il grande filosofo russo Mikhail Bakhtin, le elevate catene montuose e gli sconfinati mari hanno indotto fin da tempi immemorabili un «timore cosmico» che nella prospettiva di Bakhtin costituiva l’origine di ogni fede religiosa.
L’idea di ri-produrre la Natura allo scopo di costringerla a servire meglio le comodità degli uomini (idea audace, insolente, presuntuosa e per molti blasfema) è nata assieme alla modernità. La svolta moderna nella storia umana è stata equivalente, nella sua essenza, a un progetto di ricambio manageriale, ossia l’intenzione di assumere la Natura, creata da Dio benché lasciata dopo la Creazione alle sue proprie vicende, sotto la gestione degli uomini, per assoggettarne l’attività al controllo, alla progettazione e alla programmazione da parte degli uomini.
Come ha sinteticamente affermato Francesco Bacone, uno degli araldi di maggiore spicco dello spirito moderno, per comandare alla Natura occorre obbedirle. Il presupposto implicito che rendeva questa ingiunzione tanto convincente quanto attraente era che, una volta che gli uomini di sapere, ossia i praticanti della scienza emergente, avessero stilato un inventario delle ferree regole che guidavano i processi naturali, gli uomini avrebbero imparato a volgere tali regole a proprio vantaggio: cioè a ottenere, in modo regolare e invariabile, effetti positivi per il loro benessere, impedendo e prevenendo quelli dannosi e indesiderabili. Gli uomini comanderanno alla Natura obbedendo alle sue leggi: era questo in realtà ciò che voleva dire Bacone. Voltaire portò l’ingiunzione baconiana alla sua conclusione logica dichiarando che il segreto delle arti è di correggere la Natura.
Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall’essere perfetto e quindi può essere reso migliore. Niente è tanto buono da non poter beneficiare di un’ulteriore correzione: cosa ancor più importante, tutto agogna a venire corretto.
Del resto non esiste niente che, in linea di principio, gli uomini non possano correggere, prima o poi, se si armano della conoscenza appropriata, degli strumenti giusti e di sufficiente determinazione. Alla fine del Settecento a questo incessante sforzo di correzione è stato dato il nome di "cultura". Esso rivendicava in questo modo come proprio archetipo le antichissime pratiche dei coltivatori e degli allevatori, sebbene esse potessero apparire limitate nelle loro ambizioni, quando le si accostava alla grandiosità mozzafiato del progetto moderno. "Natura" (cioè la condizione che non è frutto di scelta umana) e "cultura" (cioè tutto ciò che gli esseri umani erano capaci di fare per adeguarsi meglio ai propri bisogni e desideri) erano l’una contrapposta all’altra. Tuttavia la loro linea di separazione veniva considerata eminentemente flessibile e soggetta a spostarsi: si riteneva infatti che il progresso della scienza e del know-how umano fosse destinato ad ampliare il dominio della cultura, riducendo al contempo con regolarità il volume delle cose e degli eventi che opponevano resistenza all’intelligenza, all’astuzia e all’inventiva degli uomini.
Oggi, diversi secoli dopo, i tempi sono maturi per arrischiare quanto meno una valutazione provvisoria, un "bilancio di carriera" di quest’ambizione moderna di dominio della Natura. Le sensazioni che un tale bilancio susciterà saranno a dir poco contraddittorie. Da una parte è lusinghiero per l’intelligenza, l’acume e la laboriosità degli uomini, dato che la nostra capacità di sfruttare le ricchezze della Natura e volgerle a nostro vantaggio (si legga: di utilizzarle per aumentare la nostra opulenza e comodità) è cresciuta enormemente, superando di gran lunga i sogni di Bacone. Dall’altra, tuttavia, siamo ormai giunti pericolosamente vicini alla linea d’arrivo dei progressi sostenibili e plausibili. Quanto più ci avviciniamo a tale linea, tanto più diveniamo consapevoli della sua differenza radicale rispetto allo "stato ultimo" di perfezione che Bacone e Voltaire avevano immaginato. La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci ha portati davanti alla prospettiva (alcuni dicono: l’imminenza) di perdere la guerra. Anzi forse, intossicati per aver vinto questa lunga striscia di battaglie, abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso significa che la sconfitta definitiva è ormai divenuta una conclusione inevitabile e irrevocabile. [...]
Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco dell’atmosfera, Paul Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l’epoca geologica nella quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di "Olocene", era in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in un’epoca diversa della storia, nella quale le condizioni planetarie sono plasmate dalle attività di origine culturale della specie umana più che da qualsiasi forza naturale (per esempio, in fattorie e altri luoghi selezionati da esseri umani si piantano molti più alberi di quanti crescano nelle "foreste naturali". Negli ultimi due secoli gli uomini hanno "sciolto" e rilasciato nell’atmosfera un volume di carbon fossile che la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e ammassare). Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca meriti il nome di «Antropocene», ossia «la recente epoca dell’uomo». Ci sono voluti alcuni anni perché il resto dell’establishment scientifico prestasse dapprima riluttante attenzione, e in seguito ammettesse con crescente adesione la verità dell’intuizione di Crutzen-Stoermer...
«Attribuire una data precisa all’inizio dell’Antropocene», dicono Crutzen e Stoermer, «pare assai arbitrario, tuttavia proponiamo l’ultima parte del diciottesimo secolo (...). Scegliamo questa data perché, nel corso degli ultimi due secoli, gli effetti globali delle attività umane sono divenuti chiaramente notevoli. Questo è il periodo nel quale i dati recuperati dai nuclei dei ghiacciai mostrano l’inizio di una crescita nella concentrazione atmosferica di diversi "gas serra" (...). Una tale data d’inizio coincide anche con l’invenzione del motore a scoppio da parte di James Watt, nel 1784...».
Il messaggio trasmesso dagli studi di Crutzen e dei suoi collaboratori e seguaci dice che è molto tardi, ma non ancora troppo tardi, per cambiare la direzione di tendenza dell’Antropocene e del culturale-che-si-fa-naturale. La distruzione del pianeta non è (quanto meno finora) assolutamente una conclusione inevitabile. I nostri nuovi saperi e il nostro impressionante potere tecnico possono ancora venire reimpiegati per rendere il pianeta meno, non più, vulnerabile, e per innalzare, invece che per diminuire, la qualità della vita. Quel messaggio va inteso come un segnale d’allarme e una chiamata alle armi. Il punto è, tuttavia, che non si deve oltrepassare il punto in cui la chiamata alle armi si trasforma in una campana a morto...Come suggerisce il termine stesso "Antropocene", l’agire umano è divenuto una forza critica nel determinare il destino di un sempre più ampio spettro di sistemi biofisici. Una conseguenza di questo spartiacque è che qualsiasi tentativo di spiegare la condotta o di prevenire il futuro delle condizioni di vita sul pianeta deve partire rivolgendosi all’agire umano culturalmente connotato. Come sempre, quanto più grande è la vittoria (in questo caso, della cultura sulla natura), tanto più grandi sono le responsabilità che ne conseguono.
Il nostro futuro è ancora in bilico, così come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria, come si suol dire, è ancora riunita. Ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto più a lungo la giuria resta riunita, tanto più grande sarà la probabilità che sia costretta a scappare dalla camera di consiglio perché sono finite le bibite fresche... Traduzione di Daniele Francesconi
© Consorzio per il festivalfilosofia
La grande lezione di Leopardi
dominare la natura è un’illusione
L’idea di poter controllare tutto non funziona ma non si può nemmeno demonizzare la tecnica
Cerchiamo un’etica globale che associ la cura dell’uomo a quella degli altri organismi viventi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 17.09.2011)
Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è quello che Ernst Bloch definì ‘principio-speranza’. Pur lontano e critico verso le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro. La verità più profonda dell’uomo è incapsulata nel momento del ‘non-ancora’, in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l’essere umano è capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un’esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l’essere in direzione del divenire.
Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad attrarre il pensiero contemporaneo è il ‘principio-disperazione’ - spinto all’estremo da Günther Anders nel suo libro sull’uomo ‘antiquato’, perché sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ‘dislivello prometeico’ tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata del suo potere produttivo, l’uomo si scopre esposto alla possibilità senza ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma la sua diagnosi coinvolge l’intera esperienza dell’homo technologicus. Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell’inarrestabile sconfinamento della tecnica nell’orizzonte, sempre più devastato, della natura.
Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura non soltanto ha perso la propria aurea magica, l’antico statuto di creazione divina che ne assicurava l’intangibilità da parte dell’uomo, ma è interamente affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là anche delle pretese prometeiche dell’homo faber - teorizzate da Bacone o Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificiale i suoi prodotti - compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su colui che l’ha messo in opera.
Rispetto a tale analisi, tutt’altro che infondata, va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata ‘ipotesi Gaia’ (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di continuo l’equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di mutamenti strutturali. E’ perciò che, dopo l’era glaciale, la temperatura della terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del sole sia notevolmente aumentato. E’ vero che, secondo la stessa teoria, l’attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia - già a partire dallo sviluppo dell’agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste con i campi di coltivazione e l’allevamento di animali, ha modificato il metabolismo terrestre. Ma non è detto che l’equilibrio del sistema non possa essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall’effetto serra che abbiamo noi stessi determinato.
Naturalmente ci muoviamo in un campo di ipotesi tutt’altro che certe - e anzi contestate da altri studiosi. Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt’altro che chiusa. Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta, ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare?
Ciò che possiamo fare - sospesi come siamo tra il ‘principio-speranza’ e il ‘principio-disperazione’ - è attivare quell’atteggiamento che Hans Jonas ha chiamato ‘principio-responsabilità’, sforzandoci di passare da un’etica antropocentrica ad un’etica globale che associ la cura dell’uomo a quella degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei nostri problemi.
Globalmente fuori di testa
Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri)
di Andrea Tagliapietra (il Fatto/Saturno, 16.09.2011)
PARANOIA, PRIMA DI ESSERE un termine della psichiatria moderna dal significato tanto ampio quanto scientificamente controverso, è una parola greca, composta dalla preposizione parà, che può essere resa con il nostro “oltre”, e dal nome del pensiero, il nous dei filosofi. Così nella paranoia risuonerebbe la metafora di quell’andar fuori di testa che traduce, nel gergo quotidiano, l’evento della pazzia. Tuttavia parà in greco significa anche “presso”, “accanto”, sicché il termine paranoia ci suggerisce una più sottile e inquietante etimologia: quella di una follia che, lungi dall’appariscenza iperbolica dell’eccesso furioso o dalla lunatica lontananza della demenza, sta “a fianco” della ragione, ne segue i passi come un’ombra, finanche adottandone l’ordine, la struttura sistematica e l’arrogante pretesa di poter fornire sempre una risposta. Come avviene, per esempio, nel lucido delirio dell’Otello di Shakespeare, là dove, suggeriva il filosofo Stanley Cavell, cogliamo la personificazione della ragione alle prese con il problema dell’altro. La razionalità al quadrato dello scetticismo, allora, sarebbe una specie di paranoia della ragione, che rifiuta la propria imperfezione, i limiti interni ed esterni che la istituiscono, conseguendo un’amara vittoria di Pirro: il ripudio stesso del sapere.
Ritroviamo il Moro di Venezia in chiusura del volume di Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri). Otello è la vittima tormentata di quel sospetto radicale - il sussurro di Iago - che nega che gli altri siano quello che sembrano. La sua gelosia descrive la scena moderna della paranoia come un delirio metodico e coerente, che si evolve lasciando integre le restanti funzioni mentali. Così la paranoia ci appare quasi una «continuazione del nostro pensare normale, più precisamente del nostro bisogno di spiegazioni».
All’inizio del ’700 il Robinson di Defoe afferma di essersi sentito più solo per le vie di Londra che nella sua isola deserta, rivelandoci la radice moderna della paranoia. Quando le solitudini impaurite e sospettose dei singoli fanno gruppo e si appellano ad ataviche identità rassicuranti, alle comunità immaginarie del sangue e del suolo, ecco che la paranoia passa dal piano individuale e clinico a quello culturale e collettivo. Essa è quella banalità del male che ha scritto le pagine più sanguinose della storia del XX secolo, tragicamente segnato dalle personalità paranoidi di Hitler e di Stalin, e dominato dai grandi dispositivi paranoici della massificazione e della mercificazione consumistica.
La paranoia collettiva ha, per Zoja, la caratteristica virale di un’“infezione psichica” per cui una società o un gruppo rinuncia alle proprie responsabilità, trasferendo con una “proiezione persecutoria” ogni colpa sui “nemici”. Essa attraversa le guerre calde e fredde, i nazionalismi, i populismi, i fascismi e i comunismi. Giunge fino a quell’11 settembre 2001 in cui alla paranoia dei kamikaze islamici si è contrapposta quella della “guerra al terrore” di G.W. Bush, puntellata da un tipico castello di bugie paranoiche, ossia resistenti a ogni smentita, come quella delle famigerate armi di distruzione di massa. Una volta decisa l’azione, a lungo bloccata dall’esitazione del dubbio, la paranoia scatta come la molla di un meccanismo automatico, scoprendosi in preda a una fretta inarrestabile, a un’accelerazione che travolge tutto e, quindi, anche se stessa. Come sembra accadere nella catastrofe finanziaria che stiamo vivendo.
Qui è forse possibile, portando il nostro discorso oltre il libro di Zoja, intravvedere uno sviluppo esponenziale della paranoia collettiva connesso con l’indifferenza emotiva della ragione calcolatrice e con il fenomeno spettrale della globalizzazione, che rende gli altri esseri viventi tutt’altro che “prossimi”, ma anzi piuttosto simili a quel mandarino cinese profetizzato da Balzac, di cui possiamo provocare impunemente la morte lontana, traendone in cambio lucrosi vantaggi. Così, in nome di un sistema economico che confligge con la natura finita delle risorse del pianeta, dell’umanità stessa e delle sue differenze concrete, si inventano “nemici della crescita” o fantomatici “speculatori” per spiegare la violenza di una crisi di cui, in ultima analisi, gli unici responsabili sono i medesimi attori umani divenuti, come diceva quel Marx che sopravvive a ogni marxismo, inconsapevoli maschere del capitale.
Le nostre città? Sono nate per nostalgia
Da Caino e Abele alle metropoli
Al FestivalFilosofia lo studioso spagnolo affronterà il tema dell’abitare citando i miti della creazione: l’umanità ha innalzato edifici, violando la Terra, in segno di sfida al Paradiso perduto
di Felix Duque (l’Unità, 16.09.2011)
Ogni ordine sociale espelle la natura nella quale esso stesso si è costituito. E tuttavia, sono forse lo stesso «terra» e «natura»? Il trionfo dell’artefatto, che coincide con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata o della macchina intelligente sugli esseri intramondani, può cedere il posto all’abitare? (...) Non sarà necessario, per cominciare, concepire in altro modo l’industria edilizia, un tempo chiamata «architettura» (con la sua estensione civica: l’«urbanistica»)? Un compito difficile, questo, e forse dissennato. Ma per tentare di portarlo a termine, può essere conveniente retrocedere all’origine mitica della città, esposta nei grandi racconti cosmogonici e antropogonici fondatori della nostra cultura. In essi ci si imbatte, frontalmente, non senza stupore, in un’assenza: in essi non si fa menzione, infatti, dell’abitazione dell’uomo come donazione divina. Questa compare in ogni caso solo dopo, come risultato o anticipazione di un crimine. Così, nell’origine stessa della Città, secondo quanto ci è stato trasmesso miticamente, brilla l’opposizione al Théos e, al contempo, si mette in rilievo il suo debito verso la Tecnica. Una cosa è perciò chiara fin dall’inizio: la città degli uomini non è una donazione del dio, bensì un atto di ribellione contro di esso (come se dicessimo: un rifiuto di seguire istruzioni già scritte e prescritte in un codice genetico); un atto tecnico, che ha bisogno della connivenza segreta della forza sostenitrice della terra (disprezzata giustamente nei frutti e nei doni da parte del Signore). La Città non prolunga il Giardino: si erge contro di esso. Per verificarlo, basta aprire dall’inizio il libro nel quale, secondo l’Occidente, sono radunati tutti i libri.
Nel Genesi si dice: «Piantò poi Iahvé Dio un giardino nell’Eden, verso oriente, e lì pose l’uomo che aveva formato». Il giardino, l’oasi, è limitato orizzontalmente dal deserto (o meglio, il deserto Eden solo quando viene piantato al suo centro il giardino appare come tale per la prima volta: viene così determinato, definito) e verticalmente è coperto dalla volta celeste. Solo dopo la cacciata dal paradiso e il posteriore assassinio del nomade Abele troviamo il primo riferimento ad una città, legata non solo a quel fratricidio, ma soprattutto ad un’arguzia tecnica per evitare la maledizione di Iahvé, per evitare il destino.
Dio aveva infatti deciso di rinnegare il tratto distintivo di Caino: la vita sedentaria del contadino. Lo avverte infatti che quando coltiverà la terra, essa gli negherà i suoi frutti e aggiunge: «vagherai per essa fuggiasco ed errante». E tuttavia, contro l’esplicita volontà divina, il contadino Caino non solo non si «riconverte» alla vita nomade del pastore (nomade e pastore sarà invece il nuovo Abele: Abramo, fondatore del Popolo Eletto), bensì «lontano dalla presenza del Signore» mette le radici nel doppio senso della parola: fa un figlio e fonda una città (la prima): «Esso (Caino) si mise a costruire una città, alla quale diede il nome di Enoc, suo figlio».
E così, l’uomo Caino (l’uomo di città, «civilizzato») stabilisce la sua dimora sub contrario: contro la terra che secondo la maledizione divina gli avrebbe negato i frutti -, e contro il cielo ostile e minaccioso. Letteralmente, l’abitazione umana si erge da allora, sfidante, in mezzo all’inospite (lo spaesante: ciò che rinnega ogni paese e ogni paesaggio). Per un verso, la prima città è stata edificata proprio per separarsi verticalmente dal cielo, attraverso la costruzione e la copertura delle case, come difesa contro un cielo che non sarà mai più protettore. Per altro verso, la città si espande orizzontalmente, separandosi dall’altro, dalla terra che da allora sarà sfruttata e allontanata, attraverso una cerchia divisoria, con delle mura difensive (si noti che, in inglese, town, «città», ha la stessa origine del termine tedesco zaun, «cerchia»).
Orbene, da questo asse derivano tre riflessioni. La prima riguarda la terra, che viene obbligata a ripiegarsi su se stessa e contro se stessa, per così dire, creando in questo modo una differenza tra città e campagna. Nasce così la «natura», contrapposta al mondo degli uomini, cioè la «cultura» e la «storia». Una volta proiettata questa distinzione sul mondo delle cose, ne segue un’altra, che rimanda alla mano e allo sguardo dell’uomo, ovvero la distinzione tra il naturale (che conterrebbe in sé il principio del proprio movimento) e l’artificiale (ciò che è creato, modificato e messo in moto dalla violenza tecnica).
La seconda riflessione implica l’arguzia del postporre: se ogni individuo naturale deve morire, le stirpi invece si vorranno immortali come la città che costruiscono (per il greco, la pólis è lo zoôn megistón, l’«essere vivente» più alto, presumibilmente perché non morirà). Ma l’assoggettamento continuo della natura da parte della cultura e della storia umana (ovvero, il predominio della linea evolutiva della perfezione contro il tempo ciclico delle stagioni), porterà al sogno della congiunzione della Città cosmica (Cosmópolis), abitata da un’Umanità unificata.
La terza riflessione riguarda immediatamente il nostro argomento: l’abitante della città non abita la terra. Anzi, al contrario, crede di rinnegarla. Infatti, aprire un luogo implica una divisione, un’incrinatura nel continuum della chôra, della mobile nutrice del territorio, trasformata dall’azione dell’urbanizzazione. Da allora, sia nell’interno rinnegato che nella campagna asservita (i contadini) si procede alla deforestazione, all’incendio e alla distruzione di antichi luoghi fisici e spirituali (e, spesso, alla distruzione e alla sottomissione delle genti che lì vivevano). Quindi, sarà sempre troppo tardi tranne per la cattiva coscienza e il pentimento, tardivo per definizione abitare la terra come se fosse la prima volta. Abitare nella città implica violentare la terra.
È forse allora impossibile abitare la terra a meno che non si torni ad una presunta natura vergine? Oppure al cielo promesso? Ma si noti ciò che ho detto: come se fosse la prima volta. Non sarà questo sogno di tornare all’origine, questo sogno di purezza, ciò che ci impedisce anche solo di immaginare come andrebbe abitata la terra? (...)
APERTO-CHIUSO
Che cosa brama, infatti, l’uomo di città, cioè tendenzialmente ognuno di noi? Ovviamente, brama il contrario dell’Aperto senza limite: brama la negazione e la lottizzazione, la determinazione e la distribuzione. Perché solo in questa primigenia agrometria si può dare la luce del giorno, la vita sociale, il tempo della storia. Perciò, prendendone le misure, aspira a trasformare la natura in paese, il territorio in paesaggio: ciò che lo circonda, insomma, in medio ambiente. Ma proprio per questo deve riconoscere che l’abitazione umana si erge in mezzo all’Unheimlich, in mezzo allo spaesante (ciò che è fuori da ogni paese e da ogni paesaggio; in tedesco: Wildnis, il selvaggio). E tuttavia, essendo animale di terra (Adamo di Eden), l’uomo cela dentro di sé la nostalgia animale: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre: l’affermazione pura. (...)Solo che oggi, e in modo certamente patetico e perfino comico (sensu hegeliano), questa nostalgia si è scissa nei due ambiti cosmici: l’una si dirige verso la costruzione di una città legata ad una natura ben disposta, nel senso volgare dell’Eden; l’altra tende verso la città che, come Babele, possa raggiungere il cielo. Da una parte, la città inserita in una natura-pastiche, trasformata artificialmente in «vergine», come nel caso dei villaggi-vacanze in paesi esotici. Dall’altra, la città-movimento: Metropoli. Entrambi i movimenti convergono nelle megalopoli attuali.
©Consorzio per il festivalfilosofia (Traduzione di Valerio Rocco)
PROBLEMI DI ESTETICA (E NON SOLO). I VOLTI DELLA GRAZIA.
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006.
CANOVA E IL VATICANO. Una gerarchia senza Grazie (in greco, Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
Poveri animali! fino a dove sono arrivati anche essi a fare ma l’uomo non c’e’ alcun dubbio l’ha’ sempre fatto. L’uomo ha’ dominato l’uomo a suo proprio danno. ( Cani da caccia, Cavalli da carrozza, e Prostitute...buona gioventu’ e male vecchiaia).
L’astuzia senza Grazia, o L’Immeritata Benignita’) ci piu’ anche essere e molti l’hanno e la mettono in pratica ogni giorno della loro vita. (Come e’ possibile averla!...solo se siamo determinati di trovare le risposte a tante di quelle domande che ognuno di noi puo’ avere! Dalla nascita e se non trova le risposte...dalla culla alla tomba! Peggio per lui poiche’ nella tomba nel luogo in cui vai! Non c’e’ ne’ conoscenza o discernimento e ben presto sarai dimenticato.