Le cinque autoillusioni della politica nell’era globale
di Ulrich Beck (la Repubblica, 26.10.2010)
Una prima autoillusione - la si potrebbe chiamare l’autoillusione del mondo globalizzato - viene espressa dall’affermazione secondo cui «nessuno può fare politica contro i mercati». Questa sentenza dell’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer illustra perfettamente l’autocomprensione della classe politica degli scorsi due decenni. I politici si consideravano come pedine di un gioco di potere dominato dal capitale che agisce a livello globale. Qui si tratta - in un doppio senso - di una favola dell’innocenza impolitica.
Da un lato si assume che la classe politica con il suo stesso agire abbia causato la sua presunta incapacità di agire: essa, cioè, avrebbe imposto a livello nazionale, come «politica riformista», le regole dei mercati globalizzati. In questo modo essa avrebbe prodotto il «destino della globalizzazione» che, apparentemente, non può più essere influenzato. Si noti: il capitale globale conseguirebbe il suo potere «inattaccabile» solo allorché la politica persegua attivamente la propria autoeliminazione.
Dall’altro, l’impotenza che la politica deve addebitare a sé stessa serve da pretesto per respingere la pressione ad agire che aumenta con i rischi globali ai quali è sempre più esposta la vita quotidiana delle persone e per non utilizzare le opportunità dischiuse dalla politica interna mondiale. L’argomento è imbastito in questo modo: dal momento che non ci sono e non ci possono essere risposte politiche globali alle conseguenze della globalizzazione, non c’è niente da fare!
C’è però anche l’opzione strategica consistente nel volgere in senso contrario l’argomento appena abbozzato: in questo caso, i politici suscitano aspettative la cui irrealizzabilità è palese. Ad esempio, prima di un vertice del G20 si chiede a gran voce un qualche tipo di tassa globale sui mercati finanziari, ben sapendo che essa non ha alcuna possibilità di essere applicata. Il motto: «Tutto funziona a livello globale - perciò non funziona nulla!» consente dunque di pervenire a un’intenzionale separazione tra il parlare e l’agire.
Quanto più irraggiungibile è il traguardo annunciato, tanto più a cuor leggero si possono avanzare richieste, presentandosi come i paladini di ciò che è buono, bello e necessario a livello globale - senza timore di doversi sporcare le mani. Perciò non è affatto insensato che il governo federale tedesco innalzi il vessillo della rivendicazione di una tassa sulle transazioni finanziarie, una sorta di imposta sulle entrate applicata agli affari finanziari, senza credere neppure lontanamente alla sua introduzione.
Tuttavia, il preteso «non poter fare» viene smentito dalla «grande politica» (Nietzsche) della salvezza delle banche «rilevanti per il sistema» e della creazione di fondi di soccorso per gli Stati minacciati dalla bancarotta. La crescita costante di cifre sempre più fantastiche, la scomparsa nel nulla di somme gigantesche che in precedenza non erano mai disponibili, portano a una svalutazione della politica per eccesso di rialzo delle sue quotazioni. Anche se i «pacchetti di soccorso» non sono stati il risultato della coordinazione politica, ma la conseguenza di accordi informali e degli egoismi dei singoli Stati, qui si è manifestato perlomeno per un istante mondiale il plusvalore politico, che può accelerare a razzo l’agire politico nelle arene nazional-statali altrimenti così refrattarie, resistenti, scosse dalla crisi. Il problema non è l’obiettivo - l’autoinvestitura della politica in forza dell’esperienza della collaborazione al di là delle frontiere nazionali; il problema è la via che porta ad esso: il superamento dell’ontologia nazionale.
L’autoillusione nazionale
L’autoillusione nazionale si basa sull’assunto secondo cui nella realtà concreta della politica interna mondiale potrebbe avvenire un ritorno all’idillio dello Stato nazionale. Così risuona ovunque la lamentazione che l’Europa è una burocrazia senza volto, l’Europa distrugge la democrazia, l’Europa seppellisce la pluralità delle nazioni. Anche se in questa critica può esserci molto di giusto, essa è sbagliata se muove dalla premessa: «Senza nazione, niente democrazia». In base a questa logica nazional-statale un’Europa post-nazionale non può che essere un’Europa post-democratica. E questo a sua volta significa che quanto più c’è l’Unione europea, tanto meno c’è democrazia.
Questa argomentazione è sbagliata per tutta una serie di motivi. In primo luogo ai suoi sostenitori sfugge il fatto che la via per un’Europa democratica non può essere identica alla via percorsa dalle democrazie nazionali. Anche il concetto di democrazia, come criterio dell’Ue, deve essere diverso. L’Ue è composta da Stati democratici, ma non è uno Stato nel senso tradizionale del termine. Perciò si pone il problema se i modelli di democrazia sviluppati per lo Stato moderno possano essere trasposti all’Ue oppure se per la legittimazione democratica della politica europea non debbano essere concepiti altri approcci, di tipo post-nazionale.
Entrambe le cose hanno la loro motivazione nell’autoillusione nostalgica, che assolutizza la dimensione nazionale. Di ciò fa parte anche il fervore con il quale viene esaltato il modello dell’«economia sociale di mercato» come risposta alle sfide della globalizzazione: una concezione politica in tutto e per tutto legata alla politica nazionale del Welfare di keynesiana memoria. La situazione della politica interna mondiale necessita di un «Keynes II» che superi «Keynes I». Questo nuovo caposcuola dovrebbe sviluppare una teoria dell’economia mista sensibile all’ecologia e altamente innovativa, capace di porre al centro della sua riflessione l’orizzonte del mercato globale.
L’autoillusione neoliberista
Strettamente collegata all’autoillusione nazionale è quella neoliberista. Dopo la Guerra fredda la globalizzazione neoliberista è diventata la forza normativa e politica decisiva della politica interna mondiale. Alla fine il neoliberalismo aspira ad essere il migliore socialismo, poiché con l’aiuto del regime del mercato mondiale mira ad eliminare non solo a livello nazionale, ma sul piano globale, la povertà e a creare un mondo più giusto.
Tuttavia, i rischi globali mandano a monte l’ordine prodotto dalla coalizione neoliberista tra il capitale e lo Stato: i rischi globali potenziano gli Stati e i movimenti della società civile, poiché mettono in luce nuove fonti di legittimazione e nuove opzioni d’azione; d’altra parte, essi indeboliscono il capitale globalizzato, dal momento che ora le decisioni di investimento creano enormi rischi globali.
Come e quanto l’utopia neoliberista della trasformazione del mondo si sia dimostrata un’autoillusione diventa chiaro, non ultimo, in base all’«effetto-convertiti»: anche i partiti politici e i capi di governo che prima della crisi finanziaria caldeggiavano come «obiettivi delle riforme» le norme della «buona gestione del bilancio» si fanno ora banditori di ciò che aveva fruttato critiche graffianti a Oskar Lafontaine, l’ex ministro socialdemocratico delle Finanze del governo Schröder, ossia la necessità di imporre al capitale finanziario che agisce su scala globale il corsetto di un sistema di regole.
L’autoillusione neomarxista
Paradossalmente, l’autoillusione neomarxista è la gemella nera come la pece dell’autoillusione neoliberista. Proprio i critici più duri del capitalismo globale diventano gli apologeti dello Stato neoliberista del mercato mondiale. Anche loro vedono un’autotrasformazione dello Stato (assistenziale), ma esclusivamente nel senso dell’autoadeguamento della politica statale al predominio del mercato mondiale, ciò che in ultima analisi conduce all’autoliquidazione della politica. Tuttavia i neomarxisti e i neoliberisti valutano in termini opposti la situazione mondiale che viene così a configurarsi.
L’economia mondiale fa saltare i detentori del potere nelle economie nazionali, impone l’apertura delle frontiere e conquista lo spazio di potere della politica interna mondiale. Ma al campo visivo neomarxista sfugge che questo shock dischiude anche nuovi ambiti, risorse, opportunità d’azione per tutti gli attori, al di qua e al di là della dimensione nazionale.
In questo modo vengono perdute di vista anche le tensioni e le fratture manifestatesi nel capitalismo globale. Non mi riferisco tanto al capitalismo riformatore verde, quanto, piuttosto, alla ascesa di un nuovo capitalismo con varianti e coloriture asiatico-pacifiche, latino-americane. Esso è diventato sempre più l’alternativa sistemica alla tirannia occidentale, ormai infranta. Se considerata dalla prospettiva dei Paesi in via di sviluppo, la situazione mondiale è caratterizzata da:
uno spostamento del potere a favore dei Paesi in via di sviluppo (che si riflette, ad esempio, anche nella loro partecipazione al nuovo vertice del G20);
uno spostamento del baricentro della geografia del potere economico mondiale dall’Atlantico al Pacifico;
la strisciante de-monopolizzazione del dollaro americano come valuta-guida globale, a favore di un’alleanza tra diverse valute e di accordi valutari bilaterali;
la crescente importanza della cooperazione Sud-Sud ed Est-Sud per la soluzione dei problemi economici; e, non ultimo,
la perdita di autorità ed esemplarità morale del vecchio centro euro-americano.
L’autoillusione tecnocratica
Mentre le posizioni fin qui esposte muovono da una minimizzazione delle opzioni politiche, la posizione tecnocratica cerca la massimizzazione dello spazio d’azione politico sotto la pressione dei pericoli per l’umanità. Non c’è dubbio che gli studiosi del clima siano dei grandi realisti, ma spesso sono anche degli idealisti e di conseguenza non riescono a capire perché i loro apocalittici modelli matematici non provochino contromisure urgenti.
Veniamo così all’autoillusione tecnocratica. Infatti, nel mondo dell’homo oecologicus il primato della democrazia passa in secondo piano e le disuguaglianze prodotte dal mutamento climatico e dalla politica ambientale retrocedono a fatto marginale. Qui incombe il cortocircuito tra le immagini belle e terribili delle calotte di ghiaccio che si sciolgono e la necessità di una sorta di espertocrazia dello stato di emergenza, che nell’interesse della sopravvivenza imponga il bene comune mondiale contro gli egoismi nazionali e le riserve democratiche.
Le tre componenti - anticipazione della catastrofe, il corsetto temporale e la tangibile incapacità delle democrazie di agire con decisione - fanno sì che quasi tacitamente la visione di Wolfgang Harich di uno «Stato forte e interventista, fautore di ascetiche redistribuzioni e ripartizioni», cioè il modello ecodittatoriale, si aggiri per le menti proprio dei più impegnati. Si pone perciò la questione-chiave: Com’è possibile la democrazia nei tempi del mutamento climatico? O, per formulare la domanda in termini ancora più incisivi: Perché lo sviluppo ulteriore della democrazia è la conditio sine qua non di una cosmo-politica del mutamento climatico?
L’autoillusione tecnocratica presuppone lo Stato nazionale che interviene in modo ecodittatoriale. Ma come può uno Stato nazionale imporre agli altri Stati nazionali il consenso ecologico? Con la guerra? Con un’ecodittatura mondiale? Diventa chiaro che l’autoillusione tecnocratica non solo nega i valori della democrazia e della libertà, ma alla fine è inefficace, anzi, controproducente.
La conseguenza di tutto ciò è che la politica dell’impolitico non funziona più in modo impolitico. E non c’è più via di scampo dalla convinzione che la politica nazionale nell’era globale riuscirà a svolgere la sua funzione plasmatrice e (forse) a recuperare credibilità solo nelle forme della cooperazione transnazionale (Ue!).
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Un mondo senza regole. Perché se manca la solidarietà essere liberi è solo un’illusione
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 5 settembre 2012)
«Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?» La domanda appare con grande rilievo in testa al sito internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: «Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina [...] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest’idea non andava - e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto».
Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all’epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s’imbatte in un indigeno che russa beato all’ombra di un albero. Sopraffatto dall’indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l’inglese sveglia l’uomo con un calcio, gridando: «Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?». «E cos’altro potrei fare, signore?», ribatte l’indigeno, palesemente interdetto. «È pieno giorno, dovresti lavorare!». «Perché mai?», replica l’altro, sempre più stupito. «Per guadagnare denaro!». E l’indigeno, al colmo dell’incredulità: «Perché?». «Per poterti riposare, rilassare, goderti l’ozio!». «Ma è esattamente quello che sto facendo!», aggiunge l’uomo, risentito e seccato.
Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?!
Per i Woodward, così come per l’«indigeno» del nostro aneddoto, l’insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l’«indigeno», è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo - e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell’aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera) - non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.
Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un’abominevole eresia è indice di un’imponente «rivoluzione culturale». Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.
Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase «liquida» della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase «solida», quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza - ma anche i privilegi, i bonus, i «colpacci» in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell’«inizieremo a preoccuparcene quando accadrà»; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al «godi subito e paga dopo». In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (...)
Tuttavia, nell’appello dei Woodward c’è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all’interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (...) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la «libertà di scegliere ciò che è giusto per te» - per te, e non «per gli altri» - o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.
Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che - come scrive Alex Berenson, del New York Times - ricevono «stipendi a otto cifre» (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).
Tutti, unanimemente, approvano il fatto che «l’ordine dell’egoismo» abbia preso il sopravvento su quell’«ordine della solidarietà», che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche.
Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l’abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l’alterazione dei contratti di lavoro, l’esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo «flessibili») gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l’avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell’autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.
Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti - che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l’unico mezzo per raggiungere la «libertà di scegliere ciò che fa per te» - richiederebbe, comunque, l’abolizione della «sede di lavoro fissa» e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica.
Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine.
Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L’assenza più cospicua sarebbe quella delle «classi colte», a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.
(Traduzione di Marzia Porta)
Il rischio globale che minaccia il capitalismo
Al di là dei messaggi negativi, il crollo economico mondiale costringe ad accantonare le pretese di autosufficienza di culture e sistemi di governo, rovesciando le priorità
Per Keynes le teorie dominanti erano mistificatorie e avrebbero portato alla catastrofe
Così, a causa dell’emergenza, soggetti che prima erano lontani vengono messi in connessione e l’orizzonte si apre al sogno di scelte alternative alla "sovranità del mercato"
Non si può vedere nel tracollo solo un deplorevole frutto del caso o un guasto
Il giudizio sulle istituzioni è drasticamente mutato: sono ormai entità sospette
di Ulrich Beck (la Repubblica, 06.02.2012)
Nel gennaio 2009, all’inaugurazione di un nuovo, sontuoso edificio della London School of Economics, la regina Elisabetta II si è rivolta all’intellighenzia del mondo economico, riunita per l’occasione, con una domanda tanto innocente quanto insidiosa - la stessa che il mondo intero si pone senza ricevere risposta: come mai nessuno di voi ci ha avvisati del rischio di tracollo dei mercati finanziari?
Di fatto, se è vero che le grandi banche e i loro manager non sono stati all’altezza, hanno fallito anche i teorici del rischio in campo economico. Nella tragicommedia rappresentata dal vivo su tutte le scene mondiali, in una successione di scompigli e trasformazioni che sembra non aver fine, i liberisti duri e puri hanno compiuto un percorso di conversione, dalla fede nel mercato alla fede nello Stato - e ritorno! Stanno chiedendo, anzi elemosinando la grazia di interventi statali: una prassi che pure hanno sempre condannato, finché è durata l’effervescenza dei profitti. Quando negli anni 1930, al tempo della prima crisi economica mondiale, Keynes tentò di decifrare i segreti dell’economia, il suo pensiero si soffermò sulla distinzione tra rischio e non conoscenza.
«Parlando di "conoscenza incerta" non mi limito a distinguere tra le cose che sappiamo con sicurezza e quelle solo probabili. Ad esempio, il gioco della roulette non è soggetto all’incertezza intesa in tal senso (...). Il significato che attribuisco a quest’espressione è lo stesso di quando diciamo di essere incerti su quali saranno, tra vent’anni, i rischi di una guerra europea, il prezzo del rame o il tasso di sconto (...). Per questioni del genere non esiste una base scientifica sulla quale fondare un qualsivoglia calcolo delle probabilità. Semplicemente, non ne sappiamo nulla». A conclusione di quanto sopra, Keynes riteneva mistificatorie le teorie economiche dominanti, che a suo parere avrebbero rischiato di provocare una catastrofe se applicate concretamente alla realtà mondiale.
Esattamente quello che è successo. L’inadeguatezza di ampi settori della scienza economica sta essenzialmente nel loro modo di rapportarsi a ciò che non sanno. La scienza economica del laissez-faire vive, pensa e conduce le proprie ricerche in una sfera ideale di rischi calcolabili, e semplicemente non vuol prendere atto che la sua marcia trionfale ha generato un mondo di incognite imprevedibili, con un potenziale di eventi catastrofici impossibili da arginare.
Quando il rischio è percepito come onnipresente, le reazioni possibili sono tre: l’ignoranza, l’apatia o la trasformazione. La prima è caratteristica della moderna economia del laissez-faire; la seconda si estrinseca nel nichilismo post-moderno; la terza costituisce il tema della mia teoria sulla «società mondiale del rischio» (Weltrisikogesellschaft). In relazione al rapporto con la conoscenza e la non conoscenza nel mondo moderno, ho individuato due fasi: quella semplice (la prima), e una seconda fase riflessa. Nella prima fase si presuppone un futuro simile al presente, per cui si ritiene di poter gestire l’incertezza autogenerata grazie al perfezionamento dei modelli matematici di rischio, migliorando così sempre più i livelli di sicurezza dell’economia e della società.
La seconda fase, che paradossalmente è un effetto collaterale dei precedenti successi, deve confrontarsi con una serie di incognite incalcolabili, le quali annullano le basi stesse di un approccio razionale al rischio - attraverso il calcolo delle probabilità, gli insegnamenti desunti dall’esperienza di passati incidenti, l’applicazione dei modelli del presente a scenari futuri, i principi assicurativi). Da qui nasce il «capitalismo mondiale del rischio», che è votato al fallimento. Lo dimostra, tra l’altro, un semplice parametro economico: esso opera al di là di ogni possibile copertura assicurativa (privata). In questo senso le grandi banche presentano un’analogia con le centrali nucleari: i loro profitti sono privati, mentre i costi delle catastrofi potenziali o reali - di portata inimmaginabile - si scaricano sulle spalle dei contribuenti. L’insipienza autoprodotta (manufactured non-knowing) dalla marcia trionfale globale della prima modernizzazione presenta quattro caratteristiche:
1) In un mondo globalmente interconnesso i suoi effetti, non solo economici ma anche sociali e politici, non sono ormai più arginabili. Perciò non si può più vedere nell’incombente tracollo dei mercati finanziari e dell’economia mondiale solo un deplorevole frutto del caso, o magari un guasto che in futuro si possa evitare, o almeno aggiustare con opportune riparazioni tecniche o perfezionamenti matematici - e non invece un fenomeno immanente al sistema del capitalismo mondiale del rischio.
2) In linea di principio, le conseguenze sono incalcolabili. Si cerca di migliorare il grado di razionalità delle decisioni in campo economico, rifiutando però di vedere che il diavolo non si nasconde nelle decisioni in quanto tali, bensì nelle loro conseguenze, potenzialmente catastrofiche.
3)Queste conseguenze non sono indennizzabili. Il sogno di sicurezza della prima modernizzazione non escludeva i danni (anche di vasta portata); ma proprio il verificarsi di incidenti rendeva possibile un processo di apprendimento su come affrontare le manufactured uncertainties - le incognite autoprodotte. Mentre oggi viviamo in un capitalismo mondiale del rischio sul quale incombono catastrofi tali da far apparire assurda qualunque ipotesi di risarcimento (assicurativo); e che dunque vanno prevenute con ogni mezzo, poiché metterebbero a repentaglio la sopravvivenza (economica) di tutti. Quando ci ritroveremo con un cambiamento climatico irreversibile, una catastrofe economica o la disintegrazione dell’euro, sarà ormai troppo tardi. A fronte di questo nuovo livello qualitativo di una minaccia che ci riguarda tutti, senza più limiti in senso sia economico che sociale e politico, la razionalità degli insegnamenti tratti dell’esperienza perde la sua validità; e a sostituirla subentra il principio di precauzione e prevenzione.
4) A dominare è oggi la non conoscenza, che si presenta in diverse sfumature: dall’«ancora non si sa» (quindi una condizione superabile grazie a un impegno scientifico più massiccio e qualitativamente migliore) all’ignoranza volutamente coltivata, passando per l’insipienza consapevole, fino all’«impossibilità di sapere». Al confronto anche l’ironia socratica - «so di non sapere nulla» - appare inoffensiva. Siamo costretti a muoverci e ad affermarci in un mondo ove non abbiamo idea di tutto ciò che ignoriamo; ed è proprio da qui che nascono pericoli dei quali non sappiamo neppure con certezza se esistano o meno! A questo punto svanisce anche il confine tra pubblico isterismo e responsabilità politica.
Prima della crisi finanziaria, gli esperti economici e politici asserivano di avere su tutto conoscenze precise e di tenere in mano la situazione. Ma all’improvviso, una volta esplosa la crisi finanziaria, non sapevano più nulla (senza però confessarlo in pubblico, e neppure a se stessi). E’ stata proprio la crisi dei mercati finanziari globali a porre drammaticamente davanti agli occhi dell’opinione pubblica la dinamica sociale e politica dell’insipienza.
L’interazione tra non conoscenza, fiducia e rischio ha un ruolo centrale nella dinamica politica: l’incapacità di sapere, pubblicamente esperita e riflessa, mette a repentaglio la «sicurezza ontologica», o in altri termini, la fiducia nelle istituzioni di base della società moderna, così come nella scienza, nell’economia e nella politica, che dovrebbero essere garanti di razionalità e sicurezza. Di conseguenza, il giudizio su queste istituzioni è drasticamente mutato: non più fiduciarie, ma entità sospette. Se prima erano viste come responsabili della gestione del rischio, oramai sono sospettate di esserne la fonte.
Chi vedesse in questo un pessimismo millenarista neospengleriano non avrebbe compreso il punto che per me è cruciale: la distinzione tra la nozione di rischio e la catastrofe dev’essere ben chiara. Rischio non vuol dire catastrofe, ma proiezione del suo scenario nel presente, con l’obiettivo di evitarla. Il futuro di là da venire rimane fuori dalla nostra portata. Oggi non è più possibile costruire uno scenario del futuro desumendolo dal presente.
Dobbiamo «metterlo in scena», renderlo visibile prima che si materializzi. Il dramma della minaccia di un tracollo dell’economia mondiale si svolge quotidianamente davanti ai teleschermi nei tinelli di tutto il pianeta. Ma questa drammaturgia mediatica dei rischi catastrofici ha scatenato una mobilitazione, storicamente senza precedenti, dell’opinione pubblica mondiale, di movimenti sociali e di attori politici nazionali e internazionali.
Tutti si guardano intorno alla ricerca di un contropotere. Ma neppure affiggendo annunci del tipo «Chi l’ha visto?» avremo qualche probabilità di trovare il soggetto rivoluzionario. Ovviamente ci si sente meglio quando si ricorre a tutti i mezzi disponibili per fare appello alla ragione. Si potrebbe anche fondare da qualche parte un ennesimo centro di discussione («commissione etica») per la soluzione dei problemi mondiali. O tornare a ravvivare la speranza nel discernimento dei partiti politici.
Ma se alla fine tutto questo si rivelasse insufficiente per incitare a un’azione politica di contrasto, ci rimane una risorsa: la coscienza delle ripercussioni politiche della società mondiale del rischio. Ma oramai è la stessa incalcolabile portata dei rischi globali ad assumersi in proprio il ruolo finora svolto dai loro critici. La questione della crisi del capitalismo è onnipresente. Perciò si pone in maniera più pressante, e magari con qualche chance in più, il problema di indicare nuove vie, all’interno e persino in alternativa al capitalismo.
Non si avverte forse la necessità di una riforma ecologica e sociale della (o nella) seconda modernizzazione, ponendo al centro i valori e i problemi della giustizia e della sostenibilità? Oggi questo pubblico brainstorming è impersonato dal movimento Occupy Wall Street. Il diktat degli onnipresenti rischi finanziari ha impartito ai comuni cittadini qualcosa come un corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo globale; e l’impossibilità di sapere di esperti e politici è ormai condivisa dal pubblico, con crescente impazienza, davanti alla necessità di un deciso cambio di rotta, a livello sia nazionale che internazionale, nell’interazione tra economia, società e politica.
L’onnipresenza di incognite incontrollabili richiama una prevenzione di stato. E’ vero che il ritorno a un’economia statale di piano non è proponibile. Ma neppure si può ignorare che oggi, davanti al rischio di una nuova crisi economica mondiale di vasta portata, la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti. In altri termini, quest’esperienza storica insegna che il progetto neoliberista - di riduzione dello Stato ai minimi termini - è fallito; e in controtendenza ad esso si fa sempre più forte il richiamo alla responsabilità statale, a fronte di un’economia mondiale che produce vortici di incertezza incontrollabili, mettendo a rischio la vita di tutti.
Da tutto questo, al di là dei messaggi negativi, emerge una buona notizia. L’egoismo, l’autonomia, l’autopoiesi, l’isolamento del sé rappresentano i concetti chiave attraverso i quali la società moderna descrive se stessa. Ora, la logica del rischio globale va intesa secondo il principio esattamente opposto, quello dell’apprendimento involontario. In un mondo di contrasti inconciliabili, in cui ciascuno gira intorno a se stesso, il rischio mondiale pone in primo piano l’imperativo, non voluto né intenzionale, della comunicazione.
Il rischio finanziario pubblicamente recepito costringe alla comunicazione soggetti che altrimenti non vorrebbero avere nulla a che fare gli uni con gli altri; e impone costi ed impegni a chi fa di tutto per evitarli - e non di rado ha dalla propria parte le leggi in vigore. In altri termini: la fusione globalizzata della non conoscenza e del rischio di sopravvivenza impone di accantonare la pretesa di autosufficienza di culture, lingue, esperti, religioni e sistemi politici, e cambia l’agenda nazionale e internazionale; ne rovescia le priorità, aprendo l’orizzonte al sogno di scelte alternative - come ad esempio la tassa sulle transazioni finanziarie, che ancora poco tempo fa passava per inapplicabile e ridicola.
Ma a questo punto, la hegeliana astuzia della ragione non è la sola ad avere una chance. Potrebbe averla anche uno scenario alla Carl Schmitt - l’emergenza assurta a normalità - favorendo la ripresa del nazionalismo e la xenofobia, chiaramente osservabili, e non solo nell’Eurozona. La possibilità che queste due dinamiche contrastanti - Hegel e Schmitt - possano unirsi tra loro trova conferma nel modo in cui Angela Merkel collega europeismo e nazionalismo, in base al modello di un euronazionalismo tedesco, da lei eretto a parametro del risanamento dell’Europa dalla «malattia greca».
Ma a parlare questo stesso linguaggio è anche la duplicità dei rapporti tra due potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina. Gli Usa si sono lasciati ipotecare dalla Cina, che in quanto Paese finanziatore è profondamente coinvolta, con i suoi vitali interessi nazionali, nel superamento della crisi del debito di Washington. Così questi due Paesi sono al tempo stesso incatenati l’uno all’altro per la propria sopravvivenza economica, e rivali in lotta tra loro per la conquista del potere mondiale.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) © Ulrich Beck, 2012
Contro la dittatura della violenza
(Prima Domenica di Avvento Anno A)
di don Aldo Antonelli
“Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2, 4).
Parole di fuoco, che bruciano come paglia i principi delle politiche guerrafondaie che in questi ultimi anni hanno ripreso vigore e potenza; nel contempo fanno razzia delle accortezze prudenziali della chiesa silente e benedicente. I La Russa di casa nostra e i Ruini “domestici eius” vengono delegittimati e scomunicati da queste espressioni che come lampi squarciano il buio assassino di una storia impastata di sangue e violenza, illegalità e soprusi, dimentichi che “i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro”, come amava ripetere don Tonino Bello. Dopo le stragi delle due guerre mondiali, il mondo smembrato, disastrato e lacerato, ebbe l’ardire di sognare un domani diverso, al punto di scolpire queste parole di Isaia sul frontale d’ingresso del Palazzo delle Nazioni Unite. Esse stanno ancora lì, ma fuori del palazzo, bellamente scolpite su pietra, mentre i popoli lì dentro rappresentati continuano a produrre, commerciare ed usare armi e legittimare le guerre: monumento all’ipocrisia! Così come la scritta “La giustizia è uguale per tutti”, che fa bella mostra di sé nelle Aule dei tribunali che assolvono i potenti e condannano i poveri disgraziati. Così come le grandi enunciazioni sulla Pace in una Chiesa che benedice gli eserciti e battezza come eroi i mercenari. Un’ipocrisia condannata senza mezzi termini: “Guai a voi, scribi a farisei ipocriti che costruite le tombe dei profeti e adornate le tombe dei giusti” (Mt.23,29).
Mi si perdoni, ma come non rilevare una vena di ipocrisia anche nella contestualizzazione di questo brano nella liturgia della prima domenica di Avvento, là dove l’attesa non è rivolta, comunemente, alla venuta (Avvento) del Regno, bensì al Natale di Gesù Cristo, come se il Cristo non fosse già nato, non fosse già vissuto e non avesse parlato ed operato...! Cosicché quello che dovrebbe essere un messaggio da adulti, a che facciano scelte ardite per un futuro di pace, si riduce a sostanziarsi in una festa da “bambini” che accende la fantasia e spegne la profezia.
Dovremmo mettere fuori dal nostro cuore il concetto o, per usare la bellissima espressione di don Mazzolari, “l’esaltazione pagana della guerra"; il che comporterebbe quel necessario risveglio cui fanno appello l’invito paolino (“è ormai tempo di svegliarsi dal sonno”) e la raccomandazione evangelica (“Vegliate dunque”)! Discorso da adulti, quindi, nella convinzione che la politica può superare la guerra solo se la nega e che urge più che mai “disarmare gli animi armando la ragione” (C. M. Martini).
Contro quella che Italo Mancini soleva chiamare “l’ancestrale vocazione al massacro della cultura occidentale”, ed appunto nella vigilanza richiesta dai tempi della corruttela, si rende necessario un non più procrastinabile trapianto delle tanto declamate radici cristiane dalle presunzioni dell’orgoglio di parte alla responsabilità “pensante” dell’amore universale. "La ragione principale per cui la guerra c’è ancora non sta né in un segreto desiderio di morte della specie umana, né in un insopprimibile istinto di aggressione, né infine e più plausibilmente, nei seri pericoli economici e sociali che il disarmo comporta, ma nel semplice fatto che sulla scena politica non è ancora comparso nessun mezzo in grado di sostituire questo arbitro definitivo degli affari internazionali(...) Il guaio non è tanto che non abbiamo abbastanza sangue freddo da pensare l’impensabile, quanto piuttosto che non pensiamo" (Annah Arendt)
Aldo Antonelli
Quale pacifismo? Teorie e pratiche, dalla kantiana pace perpetua a Gandhi e Luther King, in un saggio di Losurdo
L’anima violenta della non violenza
di Gianni Vattimo (La Stampa - TuttoLibri, 10.04.2010)
Se il tratto specifico del pensiero critico è la messa in discussione delle mitologie che condizionano le opinioni correnti, i libri recenti di Domenico Losurdo sono certamente un ottimo esempio di questo tipo di pensiero. Losurdo, che è professore di filosofia all’università di Urbino, ha pubblicato nel 2008 per Carocci un illuminante libro sulla «leggenda nera» di Stalin decostruendo con larghissima informazione storica gran parte degli elementi che hanno dominato la nostra storiografia sul periodo staliniano e sulla figura di Stalin. E proponendo la tesi (ragionevole) che Stalin per gran parte della sua vita di statista ― che comprende gli anni della lotta decisiva contro il nazismo, della quale l’Occidente deve essergli grato ― praticò la violenza in modi non molto diversi, eticamente, da quelli propri degli altri stati della sua epoca.
Ora Losurdo, in un nuovo saggio per Laterza, si dedica alla decostruzione ― mai pregiudizialmente ostile ma anzi piena di autentica simpatia per il nocciolo essenziale ― della non violenza. Per far questo fornisce una storia dettagliata delle teorie e pratiche pacifiste e non violente, a cominciare dalle origini nella idea kantiana della pace perpetua, e dai primi movimenti pacifisti sorti nel Nordamerica ottocentesco intriso di fondamentalismo biblico, della eredità puritana e degli ideali della rivoluzione anti-inglese del 1776.
E’ in questo ambiente che, intrecciato con la questione della schiavitù, si afferma un vasto movimento non violento, con la fondazione nel 1828 di una American Peace Society, che ha una consorella a Londra. Prima ancora della guerra di secessione in Nordamerica tra il Sud schiavista e il Nord abolizionista (1861-1865), il pacifismo inglese e americano si confronta con varie altre rivolte anticoloniali, come quella, nel 1857, dei soldati indiani arruolati nell’esercito inglese. Si tratta di decidere se la violenza dei ribelli è legittima o se hanno ragione gli inglesi a reprimerla con la forza, giustificando l’azione come repressione di criminali comuni. Dilemmi analoghi, sia pure in termini diversi, si troveranno di fronte i non violenti nordamericani in occasione della guerra di secessione.
Gli schiavi hanno ragione a volersi liberare; possono farlo con la violenza? Uno degli esponenti storici del pacifismo, Charles Stearns, ritiene che non si possa assistere inerti alle violenze degli schiavisti. E si risolve a giustificare l’uso della violenza contro di loro considerando che l’ideale della non violenza proibisce solo di togliere la vita ad altri esseri umani, mentre questi non sono umani e dunque possono essere combattuti e uccisi. Siamo nell’anno 1856, quando ormai il conflitto armato tra il Nord e il Sud si avvicina. L’attacco che John Brown compie in Virginia, nel 1859, contro un deposito di munizioni del governo, sperando di innescare così una ampia rivolta di schiavi, determina vaste discussioni nel movimento pacifista, che è anche, da sempre, abolizionista e perciò incline a sostenere la lotta anche armata degli schiavi. Anche Henri De Thoreau ammette che possa ricorrere alle armi quando ogni altro mezzo per far valere il diritto si sia rivelato inutilizzabile.
Naturalmente, un’ampia parte del libro di Losurdo è dedicata allo studio dei grandi classici della non violenza, come Gandhi e Tolstoi, giù giù fino a Capitini e Martin Luther King. Con le loro contraddizioni spesso dimenticate: soprattutto quelle di Gandhi, che sia ai tempi del soggiorno in SudAfrica e della guerra dei Boeri, sia negli anni della prima e della seconda guerra mondiale si impegna in varie forme nel sostegno dell’azione, anche bellica, della parte che ritiene più «giusta e meno violenta». Non senza qualche cedimento alla retorica della «virilità» e della forza di carattere che, come in molta ideologia militarista europea degli stessi anni, sarebbero sviluppate proprio dalla guerra e dalla vita militare.
Molta attenzione Losurdo dedica alla relazione tra ideali della non violenza e movimento socialista. Mentre Gandhi predica una sorta di disposizione al martirio (resistenza passiva, digiuno), nei socialisti come Lenin la vocazione all’eroismo si accompagna a un forte senso realistico e storicistico. Che evita al pensiero socialista le acrobazie a cui i non violenti motivati religiosamente sono costretti per giustificare qualunque uso della forza, come accadeva appunto nel caso archetipico dell’abolizionismo nordamericano.
E’ una contraddizione che non si lascia mai risolvere teoricamente, almeno secondo Losurdo. E che si rinnova ogni volta che, come anche oggi, il metodo della non violenza sembra imporsi non solo per motivi etici, ma anche per considerazioni tattiche: difficile che oggi una rivoluzione abbia successo se pensa di misurarsi con la violenza soverchiante della conservazione. Su questo, sia pure solo per prudenza tattica, anche Lenin sarebbe gandhiano
di Enzo Traverso, (il manifesto, 25.09.2010)
In questo ultimo libro Domenico Losurdo affronta «Il mito della non violenza». L’autore evidenza tuttavia il fatto che il rifiuto delle armi non è stato sempre una scelta coerente del pacifismo. Nel Novecento sono stati infatti molti i non-violenti che hanno sostenuto «guerre giuste». Nel saggio è però assente una analisi puntuale delle tesi sull’uso della violenza come necessario strumento per conseguire l’emancipazione dall’oppressione
Alcuni anni fa, quando è iniziata la sciagurata guerra occidentale contro l’Iraq, i balconi di case e palazzi italiani si sono ornati di bandiere arcobaleno che invocavano «pace», le stesse di molti manifestanti che cercavano di impedire il decollo dei bombardieri dalle basi americane del Mediterraneo. Il loro messaggio era chiaro, bisognava opporsi a una guerra di conquista. Queste bandiere, tuttavia, non sono state inalberate né in Iraq né in Afghanistan, e neppure in Libano o in Palestina, dove gli eroi, tra chi condanna l’invasione di truppe straniere, sono invece i martiri e i combattenti che (con motivazioni e ideologie diverse, sulle quali ci sarebbe ovviamente molto da discutere) usano le armi. Per chi non condivide il pessimismo antropologico di tanta parte del pensiero conservatore - e di quelli che, come Wolfgang Sofsky, pensano ci si debba rassegnare alla malvagità e alla violenza, ontologicamente inscritte nella natura umana -, il pacifismo appare come un ideale nobile. Il progetto kantiano di «pace perpetua» - la fissazione di un ordine capace di mettere fine per sempre alla guerra - è ancor oggi dibattuto da giuristi e filosofi politici. Il problema è come mettere fine alle guerre. Per i marxisti si tratta di rimuovere le cause della violenza che risiedono nel capitalismo e nell’imperialismo, fonti di oppressione nazionale, sfruttamento e spaventose disuguaglianze sociali. I pacifisti pensano invece di poter conquistare pace e giustizia praticando la non-violenza come modello etico (in Occidente ispirandosi soprattutto ai valori del cristianesimo). Nella loro storia, questi due percorsi non sono tuttavia lineari. Entrambi sono costellati di contraddizioni e irti di ostacoli. Nel suo ultimo libro - La non-violenza. Una storia fuori dal mito (Laterza, pp. 287, euro 22) -, Domenico Losurdo non si interessa al primo (quello del «partito di Lenin») ma piuttosto al secondo (quello del «partito di Gandhi»), tracciando una storia del pacifismo «fuori dal mito».
Ambivalenze gandhiane
Proprio perché ispirati a ideali nobili e mossi dal desiderio di combattere l’ingiustizia, i pacifisti hanno spesso dovuto cercare di soddisfare esigenze inconciliabili, con il risultato di rinunciare in molti casi ai loro obiettivi iniziali, di rimanere prigionieri delle loro incoerenze o di rinunciare ad alcuni dei loro principi. Losurdo passa in rassegna alcune di queste «revisioni» particolarmente emblematiche. Negli Stati Uniti, l’ American Peace Society, creata nel 1828 da umanisti cristiani che consideravano inderogabile la morale illustrata dal «Discorso della Montagna», decise di sostenere Abramo Lincoln durante la guerra civile. Il portavoce del movimento abolizionista non-violento, William L. Garrison, vestì addirittura i panni del crociato, presentando l’oligarchia schiavista del Sud come una forza satanica e l’esercito unionista del Nord come uno «strumento nelle mani di dio». Nel Novecento, l’avvento del nazismo produrrà una svolta analoga in seno al pacifismo cristiano, come testimoniano le prese di posizione di Reinhold Niebhur negli Stati Uniti, di Dietrich Bonhöfer in Germania, che pagherà con la vita la sua partecipazione alla Resistenza, e di Simone Weil, che morirà in esilio a Londra, al servizio della Francia libera, dopo essersi arruolata in Spagna nel 1936 in una milizia repubblicana. Ma gli stessi dilemmi hanno attraversato le coscienze di personalità il cui pacifismo non attingeva a fonti religiose, come ad esempio Albert Einstein che rinunciò alla non-violenza dopo l’ascesa di Hitler al potere, fino a diventare uno degli ispiratori, presso l’amministrazione Roosevelt, del progetto Manhattan da cui nacque la prima bomba atomica.
Più complesso è il caso di Gandhi, di cui Losurdo demolisce impietosamente il mito, mettendone in luce tutte le ambiguità. A una ricostruzione attenta del suo itinerario intellettuale e politico, Gandhi appare tutt’altro che pacifista, benché si sia sempre dichiarato difensore della non-violenza come obbligo morale (dharma). Nel 1900 sostiene la missione internazionale tesa a reprimere la rivolta dei boxer in Cina e, negli stessi anni, si schiera con la Gran Bretagna durante la guerra dei boeri in Sudafrica. La prima guerra mondiale lo vede attivo per reclutare in India i soldati dell’esercito britannico ma negli anni Trenta la sua non-violenza diviene intransigente, al punto di suggerire la resistenza passiva agli etiopi di fronte all’invasione dell’esercito fascista italiano. Con lo stesso spirito, nel luglio 1940, a poche settimane dalla sconfitta francese, scrive una lettera aperta «a tutti i britannici», ai quali propone di cedere le armi e lasciarsi invadere dalle forze tedesche: «vi farete massacrare tutti, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di dar loro la vostra lealtà». Agli occhi di Churchill, Gandhi non era altro che un «fachiro fanatico e asceta» della peggior specie. Il leader indiano non si illuse mai di poter difendere la sua causa sostenendo le forze dell’Asse - un’illusione nella quale caddero invece altri nazionalisti - soprattutto perché aveva capito che, anche vincitrice, la Gran Bretagna sarebbe uscita dalla guerra talmente indebolita da non potersi opporre all’indipendenza dell’India. Più che filosofico o spirituale, il suo pacifismo era, secondo Losurdo, di natura squisitamente politica. Nessuno prima di lui aveva colto l’efficacia della non-violenza come metodo di lotta capace di suscitare l’indignazione morale, presentando il conflitto fra colonizzati e colonizzatori come uno scontro fra vittime e carnefici. L’indignazione morale - come ha confermato in seguito la guerra del Vietnam - può rivelarsi un fattore decisivo per la soluzione di un conflitto.
Illusioni ideologiche
Ciò spiega il fascino esercitato da Gandhi su Martin Luther King, che cercava di applicarne gli insegnamenti nella lotta contro la white supremacy americana, ma non poteva fare a meno di rendere omaggio alla memoria degli schiavi che, come Nat Turner, si erano ribellati e avevano combattuto a fianco dell’Unione durante la guerra civile. Altri, a cominciare da Malcolm X e Frantz Fanon, hanno denunciato la violenza della segregazione e del colonialismo, indicando però nella contro-violenza degli oppressi la via inevitabile dell’emancipazione. Se la violenza assume ai loro occhi una dimensione liberatrice, la sua natura rimane reattiva e strumentale. Simmetrico al mito di Gandhi è quello che fa di Malcolm X e Fanon i cultori di una violenza cieca e fine a se stessa. Vedere nella violenza, sulla scia di Marx ed Engels, una «levatrice della storia», non significa esaltarla, idealizzarla, considerarla come un valore in sé o come un metodo di lotta normativo. Losurdo ha cura di separare le concezioni del «partito di Lenin» dal culto della violenza teorizzato da Sorel, ammirato da Mussolini e oggetto di critiche severe da parte di Gramsci e Sartre.
La rassegna critica di Losurdo non risparmia Hannah Arendt, figura non priva di ambiguità. Durante la guerra, essa riconosceva la legittimità di una resistenza armata ebraica contro il nazismo - salutò l’insurrezione del ghetto di Varsavia e si batté per la creazione di un esercito ebraico in seno alle forze alleate - nella quale vedeva «la sola via d’uscita morale e politica». Negli anni Sessanta, tuttavia, si mostrò particolarmente miope nei confronti delle rivoluzioni coloniali: il Terzo Mondo era ai suoi occhi soltanto «un’ideologia e un’illusione». In un suo saggio del 1972, si legge che la liberazione degli oppressi non è mai venuta dalle loro lotte, piuttosto «da coloro che non erano oppressi e non erano degradati ma non potevano sopportare che altri lo fossero"» In molti scritti degli anni Quaranta, l’esule ebrea aveva argomentato che l’emancipazione ebraica in Germania era naufragata perché concessa dal potere e non conquistata. Ora, con un atteggiamento paternalistico degno dei riformatori prussiani di fine Settecento, essa spiegava che i neri e i colonizzati non dovevano lottare per la propria liberazione ma attendere che fosse loro conferita da un governo di bianchi e dalla chiaroveggenza delle potenze coloniali. Insomma, sembrava aver dimenticato il nesso tra imperialismo ottocentesco e nazismo che aveva esplorato nel suo libro Le origini del totalitarismo. Questo nesso era invece al centro de I dannati della terra in cui Fanon scriveva che «il nazismo ha trasformato la totalità dell’Europa in vera colonia».
Oscurati dalle teorie del complotto
Dopo aver passato in rassegna e sottoposto a una critica acuta le contraddizioni del «partito di Gandhi», Losurdo avrebbe potuto dedicare la stessa attenzione a quelle, non meno vistose e drammatiche, che hanno attraversato la storia del «partito di Lenin». Il rapporto tra violenza e politica, in effetti, solleva interrogativi e dibattiti anche tra chi, come i marxisti, riconosce il carattere legittimo e in talune circostanze storiche ineluttabile del ricorso alla violenza. Questo problema è al centro delle polemiche che, durante la guerra civile russa, oppongono i bolscevichi ai menscevichi, ai socialdemocratici e agli anarchici. Gli scritti di Lenin, Trotzki, Martov e Kautsky meriterebbero di essere rivisitati con occhio critico almeno quanto quelli di Gandhi o le controversie tra Martin Luther King e Malcolm X. I dibattiti della guerra civile russa sul rapporto tra violenza e politica sono riaffiorati durante la guerra civile spagnola, divenendo oggetto di un confronto teso fra Trotzki, che difendeva l’eredità del bolscevismo, Victor Serge, che si orientava verso una critica libertaria della rivoluzione russa, e John Dewey, che respingeva il comunismo in nome dei principi liberali. L’eco di queste discussioni non è assente, in tempi recenti, negli scritti di marxisti come Etienne Balibar o John Holloway. Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Losurdo in materia.
Dispiace - per quanto non sia del tutto sorprendente - che, a conclusione di un libro interessante ed acuto, egli non possa esimersi, a proposito del Tibet o del movimento studentesco che nel 1989 invase la Piazza Tienanmen di Pechino, dal riproporre argomenti d’altri tempi, quando le rivolte antiburocratiche in seno ai paesi del blocco sovietico venivano automaticamente bollate come frutto di «complotti» imperialisti. L’oscurantismo «feudale» del Dalai Lama non giustifica la politica cinese in Tibet, allo stesso modo in cui l’oscurantismo dei talebani non giustifica l’invasione americana dell’Afghanistan. È una constatazione banale, ma alcuni passaggi del suo libro la rendono necessaria.