Jean-Luc Nancy
L’incommensurabile prigione della verità rivelata
«La dischiusura» del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Un impegnato testo che si pone l’obiettivo di scioglere l’abbraccio mortale tra filosofia e religione a favore di un severo e sobrio esercizio del pensiero
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 16.03.2007)
L’ossessiva campagna denigratoria contro le libertà individuali e la politica delle relazioni allestita dai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica è basata su un assunto: oggi, non è possibile non dirsi cristiani. La perentorietà di tale affermazione produce un irrigidimento delle posizioni che produce reazioni altrettanto violente, e giustificate, ma spesso non consentono di capire se il cristianesimo rappresenti realmente una necessità per il nostro tempo. A questo proposito, quanto mai opportuna giunge la traduzione in italiano di uno degli ultimi volumi di Jean-Luc Nancy che ha un titolo apparentemente provocatorio: La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I (Cronopio, pp. 223, euro 20).
La dischiusura non è tuttavia un libro scritto da un Voltaire avvelenato da astio anti-clericale. La «decostruzione» annunciata nel titolo è ispirata alla grande tradizione filosofica del Novecento che, prima con Martin Heidegger, e successivamente con Jacques Derrida, ha rivelato il rapporto costitutivo tra l’ateismo greco e il monoteismo ebraico nella formazione del pensiero occidentale. Il cristianesimo è il punto d’unione in cui questi due elementi si rafforzano e si respingono allo stesso tempo, trovando nella figura del Dio unico e nella razionalità del pensiero moderno, gli strumenti per la sua affermazione universale.
La «dischiusura» (questa la traduzione proposta da Rolando Deval e da Antonella Moscati del termine francese Déclosion, un neo-logismo che significa «togliere una chiusura») intende proseguire l’opera di questi predecessori (e amici, nel caso di Derrida che poco prima di morire dedicò a Nancy il libro dal titolo Le Toucher).
Un bipolarismo morale
Dischiudere dunque i confini tra filosofia e religione, rompere l’abbraccio mortale che li lega e portare alla luce ciò che li accomuna. E’ un’avvertenza quasi obbligatoria dal momento che, nella discussione di questi ultimi anni, non sembrano esserci spazi per chi rifiuta di fare suo l’integralismo politico-religioso puramente reattivo o il laicismo militante di qualche causa anti-clericale un po’ datata.
È dal 1998 che Nancy, tra conferenze e saggi, lavora su questo tema. Da allora non sembra essersi fatto tentare dall’improbabile bipolarismo morale tra laici e cattolici che oggi sembra esaurire, in Italia, l’etica pubblica. Anzi, la sua tesi sembra andare in controtendenza. Per Nancy, l’Occidente non è nato dalla liquidazione di un mondo di oscure credenze cristiane dissolte dalla luce della razionalità. Al contrario, il cristianesimo è l’Occidente. Lo ha prima inventato, poi assorbito ed infine disconosciuto dopo l’affermazione della «modernità» illuministica.
Ciò non toglie che, sin dalla sua origine, l’Occidente sia vissuto all’ombra del cristianesimo, un po’ come l’ombra di Buddha è rimasta mille anni a vegliare la caverna dov’era seppellito il suo cadavere.
Cristianesimo e Occidente tendono a ridimensionare ad una misura comune ciò che è fuori dalla razionalità. Dio è per il cristianesimo ciò che il problema matematico dell’incommensurabile è per il logos moderno. Così come la religione porta l’alterità assoluta al centro della vita degli uomini, il pensiero moderno introduce lo smisurato nella ragione.
Il cristianesimo può essere riassunto nel precetto di vivere in questo mondo come fuori di esso. Questo fuori non esiste, è la promessa di una salvezza che arriverà alla fine dei tempi e che nel presente vale come apertura su un’alterità assoluta. Il pensiero moderno impone invece agli uomini di vivere questa stessa alterità assoluta nei confini della «pura ragione», come diceva Kant. L’invito di gran parte del pensiero del Novecento, da Freud a Wittgenstein sino a Heidegger, è stato quello di pensare questa alterità e di restituirne la misura sfuggente del suo apparire.
Nancy precisa che il cristianesimo tende a «chiudere» il movimento di apertura su questa alterità attribuendola ad un essere supremo, mentre il pensiero della Destruktion di Heidegger e della «decostruzione» di Derrida la lascia libera da (quasi) tutte le paralisi teologiche. Ciò non toglie che anche il razionalista intransigente eviti di spezzare il «tenue arco che ci lega all’inaccessibile», così come il credente adulto e consapevole comprende che il suo Dio è il punto estremo della rappresentabilità di un’alterità che non ha misura.
Non è superfluo ripetere qui tutte le accuse che è legittimo imputare al cristianesimo, come l’asservimento del pensiero fino allo sfruttamento ignobile del dolore e del risentimento. Oggi più che mai tornano utili le armi tradizionali che sono state utilizzate contro il dominio religioso (la libertà, l’individuo, la ragione stessa), ma esse non bastano per spiegare perché «ragione» e «fede» siano animate dallo stesso principio e, in un certo senso, si comportino come due gemelli siamesi.
E’ per questa condivisione di orizzonte che Nancy esclude che il cristianesimo possa essere attaccato o difeso, rimosso o salvato da chiunque. Esso non è una grave malattia congenita dell’Occidente, ma non è nemmeno un plusvalore morale che indica la strada della salvezza per le donne e gli uomini. Progetti di questo tipo fanno torto all’essenza del problema: il cristianesimo e l’ateismo, ciò che afferma l’esistenza di un Dio e ciò che lo nega, sono volti diversi dello stesso nichilismo.
Scrisse il filosofo Luigi Pareyson: «Può essere attuale solo un cristianesimo che contempli la possibilità della sua negazione». Una forte presa di posizione che permette di vedere nel cristianesimo la riflessione su un dubbio disperante (Dio è perché si nega), e non l’affermazione di una verità valida per tutti. E’ cieco dichiarare un embargo permanente nei confronti del cristianesimo, dato che l’ateismo condivide la stessa radice. «Può essere attuale solo un ateismo che contempli la realtà della sua provenienza cristiana», commenta Nancy parafrasando Pareyson.
Il sole nero del nichilismo
Se dunque il cristianesimo attribuisce a Dio la causa prima e il fine ultimo della vita, l’ateismo gli nega questo privilegio attribuendo la causa e il fine alla razionalità. Entrambi sostengono che la vita è rivelazione di un principio superiore, quello di Dio o quello della Ragione. Anche il papa teologo Ratzinger rivendica la razionalità tra le principali caratteristiche che rendono universale, vero e buono il Dio cristiano. Oscurando tuttavia ciò che il pensiero della decostruzione ha denunciato: la coincidenza tra il cristianesimo e la razionalità è dovuta al fatto che entrambi sono espressione del nichilismo occidentale.
Nichilismo, spiega Nancy, in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma questo «niente» significa disfare ogni principio, compreso lo stesso principio del niente. Laici e cattolici gravitano attorno allo stesso sole nero: l’affermazione incondizionata di un principio corrisponde infatti allo svuotamento del mondo, al suo impoverimento in nome di valori trascendenti (la Vita, il Bene) o alla sua mortificazione in nome di certezze immanenti (la Storia, la Tecnica). In altre parole, laici e cattolici soffrono della dissoluzione del principio in cui credono. Sul versante cristiano, il problema è dolente: il Dio cristiano crea il mondo attraverso la negazione di se stesso. Il cristiano tende con tutte le forze a ricongiungersi a quella negazione che l’ha posto in essere. Un paradosso senza salvezza.
A questo tragico esito non è estraneo nemmeno il pensiero «laico». C’è la razionalità che rifiuta ogni teleologia e, da Hegel in poi, esige di essere compresa come il primo pensiero che fa a meno di Dio e si carica sulle spalle il mondo per dargli un senso. Ma una volta sospese le ambizioni hegeliane, e dimostrato che il mondo non è retto da alcun principio trascendente, nemmeno quello della storia, l’ateo realizza che alla «morte di Dio» non è seguita alcuna nuova comprensione del mondo. E’ questa la tristezza che riassume l’ateismo. A differenza del cristiano, l’ateo non si dà nemmeno la possibilità consolatrice di sentirsi abbandonato dal proprio Dio. E’ solo, e rifiuta la gioia tragica di cui Nietzsche e il giovane Walter Benjamin furono testimoni.
L’annuncio della buona fine
Finché non avremo la misura esatta della nostra provenienza cristiana, resteremo prigionieri di qualcosa che non è stato elaborato all’altezza del nostro tempo. Su questo punto, Nancy non fa sconti nemmeno al proprio discorso e ammette: è lo stesso cristianesimo a decostruirsi. Il cristianesimo ha passato gran parte della propria storia a correggere e ad auto-rettificare il contenuto della verità annunciata. Esso è la forma più occidentalizzata delle religioni monoteiste, si distende nella forma di un’auto-analisi in vista di un ritorno ad un’origine sempre più pura.
Questo processo comincia già nei Vangeli e in San Paolo, continua con il monachesimo e si afferma, ovviamente, nelle diverse Riforme. Con il risultato che il cristianesimo ha certamente sviluppato una volontà di potenza sconosciuta alle altre religioni, ma l’ha accompagnata con un potente desiderio di spoliazione e di abbandono di sé spingendolo all’auto-dissoluzione.
Esso ci ha consegnato un mondo che è in attesa di una rivelazione, non solo quella di Dio, ma di un senso generale che rimane sospeso tra gli uomini nei termini di una promessa o di un progetto (politico, esistenziale).
La promessa annunciata dal cristianesimo è «una fine senza fine». E’ questo il nucleo «kerygmatico» del Vangelo (dal greco euaggelion, «buon annuncio»): l’annuncio della fine dei tempi corrisponde alla seconda venuta di Dio sulla terra. Ma questa venuta, se avverrà, avverrà alla fine dei tempi. Una fine infinita che si protrae disperatamente per tutta la storia. Cosa si annuncia dunque nei Vangeli? «Quasi niente», risponde Nancy. E’ su questo «niente» che l’auto-decostruzione del cristianesimo mostra la sua ambiguità. Davanti all’annuncio non c’è infatti più storia, né ritorno all’origine. C’è la fine del mondo e la morte di Dio.
Ripensare l’ateismo
Per Jean-Luc Nancy viviamo nel cuore di una trasformazione epocale paragonabile a quella che ha portato dall’antichità al mondo moderno. Questa trasformazione appare talvolta come una perdita, ma ha anche il sapore di un nuovo inizio. Il suo è un pensiero che resta aperto alla testimonianza di un’incommensurabilità tra noi e ogni legge, umana o divina che sia. Ritornare alla nostra provenienza cristiana, e ridiscuterla radicalmente, è essenziale per capire come questo incommensurabile non sia più quello di un Dio trascendente. L’incommensurabile è invece la scoperta di una comunità di uomini e donne ispirata ad un senso eccedente di cui il sacro ha cercato di dare una definizione, senza tuttavia coglierne la potenza costitutiva.
Pensare la «morte di Dio» non come il nichilismo, ma come l’uscita dal nichilismo, è il primo passo per scoprire che è possibile liberarsi dal pesante fardello del teologico-politico sulla nostra cultura. Non c’è alcuna ragione «di salvare la religione, e meno che mai di farvi ritorno», afferma Nancy. Si tratta piuttosto di prendere coscienza che viviamo in un mondo che rifiuta in maniera incommensurabile la sacralizzazione di ogni autorità, compresa quella della legge.
Per farlo, è necessario rinunciare alla politica che vorrebbe continuare a pensarsi nei termini di una versione secolarizzata del cristianesimo. L’ateismo può essere una risorsa, anzi per Nancy è l’«unico ethos possibile del nostro tempo» che permette di pensare ciò che c’è di comune tra gli uomini, a condizione di liberarlo dallo schema di un teismo rovesciato. Questo ethos permette di rivendicare un senso che nessuna religione, nessuna credenza e certamente nessuna Chiesa può pretendere. Per quello che noi siamo non basta né il culto, né la preghiera, ma l’esercizio rigoroso e severo, sobrio e gioioso, di ciò che si chiama il pensiero.
Scaffali di una comunità inoperosa
Il corpo e l’atto di un «essere singolare plurale» Nato il 26 luglio 1940, Jean-Luc Nancy insegna filosofia all’università di scienze umane a Strasburgo. Nel 1991 ha pubblicato con Philippe Lacoue-Labarthe il saggio «Il mito Nazi» nel quale interroga la ragione per cui il mito è al cuore della pratica politica e sociale del nazismo. I libri che lo hanno fatto conoscere in Italia sono sopratutto «La comunità inoperosa», «L’esperienza della libertà», «Il corpo» e «Essere singolare plurale».
I suoi ultimi lavori hanno come tema la libertà, la comunità, la globalizzazione e il «senso» e si sforzano di affrontare la fine di un certo numero di possibilità filosofiche, innanzitutto quelle che discendono dall’umanesimo. Per molti anni ha diretto la collana dell’editore Galilée «La Philosophie en effet» insieme a Jacques Derrida e a Philippe Lacoue-Labarthe, recentemente scomparsi. Tutti i libri di questa collana recano ad esergo una frase di Nietzsche: «Introdurre un senso, questo compito rimane assolutamente ancora da realizzare, ammesso che esista ancora un senso». Ne «La creazione del mondo o la mondializzazione» (Einaudi) Nancy ha sostenuto che è la «mondialità, intesa come la nostra condizione esistenza, a rappresentare questo senso».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’avventura del contatto
Tempi presenti. «S/Oggetti di desiderio: Sexistence»: un’anticipazione della «lectio» che il filosofo francese terrà a Bari il 5 e il 6 maggio, al Festival delle donne e dei saperi di genere
di Jean-Luc Nancy (il manifesto, Alias, 30.04.2016)
Esiste l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».
In prossimità di soddisfazione
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» - niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di conservazione della specie (e/o del gruppo...) attraverso la generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.
Forse il sesso propone una cifra - se non la cifra - di tale rinnovamento del desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure non smette mai di volersi fare.
Un atto performativo
Cosa facciamo quando facciamo l’amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice, più o meno letteralmente, fare l’amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre qualcosa ; se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione (riporto l’espressione di Françoise Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che i figli non lasciano fare!»), non si tratta dell’amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente. Noi facciamo nel senso che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio atto, è un sentimento, una disposizione, l’eccitazione del rapporto al di là di se stesso, verso ciò che sembra destinato a rinnovarlo all’infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con cui concluderlo, senza però sapere in che senso vada preso quest’ultimo verbo.
Se non altro l’espressione indica un’effettività dell’amore che nessuna dichiarazione, nessuna dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai pretendere di raggiungere. Ecco perché, in un certo senso, non è impossibile fare l’amore in maniera diversa dal rapporto sessuale in senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino delle parole può avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una cosa, infatti, è certa: l’amore non può essere soltanto detto, il suo dire stesso dev’essere un fare. «Ti amo» è un atto performativo: fa ciò che dice. L’amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che «performa» il proprio limite.
Perché bisognerebbe parlarne? Semplicemente perché non c’è casualità nel gesto compiuto da Freud quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui tendevano già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non c’è casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi significati ciò che era stato così accuratamente e costantemente sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a dire ciò che poteva soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato nell’assunzione dell’amore divino.
La dissimulazione del sesso non faceva che portare avanti, con una modalità nuova proveniente dal contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di prescrizioni particolari, che si tratti dei culti rivolti agli organi genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù o delle clausole d’impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità, delle prostituzioni sacre oppure delle pratiche sessuali legate a certi esercizi spirituali - per limitarci ad alcune voci di un elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.
Se è vero che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la forma più propensa alla diffidenza e all’astinenza sessuali, evidentemente esiste un nesso con il motivo dell’amore così come è stato determinato dal cristianesimo. L’amore cristiano non si distingue soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall’eros in quanto desiderio di possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della spiritualità cattoliche, l’agapè - distinta in quanto affetto, diletto, cura (che diventa caritas) dell’altro - è stata spesso accostata per molti aspetti all’eros.
Carità e concupiscenza si oppongono, ma l’una non può essere completamente estranea all’altra, perché in un certo senso si deve pure amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che si ama. In realtà, carità e concupiscenza si attraggono a vicenda tanto quanto sembrano respingersi.
Il ritorno infinito
Se l’unico amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso di un genitivo soggettivo, cioè l’amore che viene da Dio e anche l’amore che costituisce l’essere Dio, allora questo amore rivolto all’intero creato, amore egli stesso creatore, relega nell’insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama qualsiasi creatura a entrare in quell’amore, a diventare amore. Così due tendenze profonde hanno governato e diviso il cristianesimo, riunendosi e dividendosi al suo interno: un’espansione infinita dell’eros e un’assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l’egida di una cura originaria.
Nell’ottica dell’infinito, l’esigenza eccede in maniera assoluta ogni possibilità di realizzazione, oppure non viene realizzata se non come l’atto divino da cui procede. Dio crea per amore e questo amore vuole tornare a sé all’infinito. L’amore diventa il nome di un ritorno infinito - all’origine, a sé, all’altro assoluto. Nell’ottica della totalità, il tutto va inteso non più come un ordine (un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come una scelta gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L’amore ordina che lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla). Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di restituire l’amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore ricevuto costituisce una specie di credito illimitato: l’amore rivendica se stesso ovunque, in tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo, un’economia totalitaria dell’amore, dietro la quale peraltro non è certo indifferente veder profilarsi un’economia del profitto. È a partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti al mondo moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza mai conosciute altrove. Esso è carico di tutta l’energia che nessun impeto divino può più assumersi e che quindi non raccolgono nemmeno più le macchine adibite alla produzione.
La vita in più
Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l’amore è un comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe troppo semplicistica, perché un figlio è un’altra esistenza più che un prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi dal limitarsi agli atti che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e dove finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e atteggiamenti. Esso attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato alla luce Freud, con il nome di «pulsione (Trieb) erotica», non è l’imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro inferiore della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso nuova e antichissima di ciò che ha aperto l’essere vivente a un sovrappiù di vita e l’essere vivente parlante a un’esclamazione ai confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il sesso apre l’esistente a un abisso e a una violenza che se non esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell’esistenza, quanto meno possiedono una caratteristica: ci conducono - in un groviglio di abisso e violenza - sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si limita a sfiorare al tempo stesso il doppio al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa «deiscenza», una sexistenza. (Traduzione italiana di Ida Porfido)
Si concluderà in grande la quinta edizione del Festival delle donne e dei saperi di genere, con le due lezioni di Jean-Luc Nancy del 5 e 6 maggio che andranno a coronare il percorso fitto di appuntamenti, tra filosofia, cinema, teatro e incontri, che ha preso avvio a Bari fin dalla metà di aprile.
Dedicata interamente al segno delle transizioni, quindi partendo dalla riflessione intorno alla soggettività nomadica, la cifra complessa del presente riesce a dipanarsi. Ne è convinta Francesca Recchia Luciani, organizzatrice e direttrice del festival e docente di Storia delle filosofie contemporanee a Bari; appartiene infatti al presente l’interrogazione sul corpo «e l’identità sessuale, i corpi migranti nella loro relazione con i luoghi, riguarda tutti i cambiamenti innestati nell’esistenza individuale dall’appartenere a un mondo relazionale e sociale in perenne metamorfosi».
Se nelle prime due edizioni il baricentro atteneva ai saperi e le pratiche delle donne, da tre anni a questa parte il festival ha cambiato non solo nome ma anche fisionomia. Una torsione che è apertura femminista al tema delle differenze.
Il rilievo scientifico ma anche politico non può dunque sfuggire quando si nominano le protagoniste delle precedenti edizioni, da Ipazia a Carla Lonzi, passando per Audre Lorde. Centralità di vite e portati politico-filosofici che assumono quest’anno l’idea di un punto di partenza per raccontare cosa esprima la «transizione» quando a essere interpellati sono corpi sessuati e in relazione.
Con una precisa intenzione di coinvolgimento del territorio, emerge allora una sinergia di forze e di pratiche capaci di attrarre non solo un pubblico di studenti ma più vasto che possa restituire narrazioni all’altezza di uno spaesamento che si fa sempre più pressante.
Il festival, promosso dal Centro interdipartimentale di studi sulla cultura di genere dell’università degli studi di Bari «Aldo Moro» e sostenuto dalla Regione Puglia, dall’università di Bari, da Apulia film commission e Teatro pubblico pugliese [mentre le lezioni di Nancy sono state sostenute da Fondazione Puglia e Alliance Française di Bari], viene largamente condiviso anche dal tessuto associazionistico e da molte e molti che con passione ci lavorano intorno, nonostante la variabilità dei fondi a disposizione ma con il saldo auspicio di un sempre maggiore impegno. Questo perché la formula adottata in direzione di una trasversalità dei linguaggi può rappresentare un antidoto alle chiusure disciplinari e al contempo un metodo efficace di ricognizione esperienziale.
Il sito che riguarda l’iniziativa è www.festivaldonnesaperidigenere.it. Mentre nel sito della rivista di pratiche filosofiche e scienze umane «Postfilosofie» (http://www.postfilosofie.it), si possono leggere gratuitamente i materiali dei festival precedenti, come quelli relativi agli Atti di questa edizione di prossima pubblicazione. (alessandra pigliaru)
Jean-Luc Nancy, un’intimità profonda e appassionata
di Francesca Romana Recchia Luciani (il manifesto, 1.12.2016)
Questa postfazione a Del sesso di Jean-Luc Nancy non intende essere un commento né tantomeno una spiegazione, una definizione ostensiva, una delucidazione interpretativa o un appunto ermeneutico, quanto piuttosto quel peritesto che guadagna dalla distanza ravvicinata col testo del filosofo la sua ragion d’essere e il suo significato comunicativo e che, nel situarsi stabilmente alla periferia del cuore del testo, reagisce a e interagisce con esso. La sua paratestualità di scritto allografo sta nella relazione col contenuto autografo non come mero contorno o pura zona limitrofa ma con l’ambizione di stabilire con quello uno stretto legame di senso, di rivelare la traccia di un’intimità profonda e appassionata che assomiglia a quella che si stabilisce nel rapporto amoroso e/o sessuale.
NOTA A MARGINE che, da questa provocata ed eccitata, ambisce a irretire e circuire la scrittura che la precede, ad aprirla, a penetrarla, osando impadronirsene senza mai possederla. Tre testi quelli di Nancy - Il ‘c’è’ del rapporto sessuale-e poi, con la relativa appendice Esclamazioni; Corpo nudo; Sexistence -, che affrontano senza timori né reticenze un aspetto ineludibile della natura relazionale degli umani la cui posta in gioco è la loro corporeità e l’incontro sessuale che mette i corpi in connessione creando legami orizzontali, nessi affettivi, interdipendenze.
Tre scritti in cui il pensiero e la scrittura attraversano spavaldamente quel crocevia dove il corpo (si) fa sesso e il sesso prende corpo, la cui prima ambizione non è la descrizione/spiegazione né la comprensione analitica di quel che accade (o men che meno psicoanalitica, intorno alla quale si può sempre continuare a interpellare Freud o Lacan o Irigaray, per citarne tre soltanto tra innumerevoli) ma l’intrattenimento sapiente del pensiero su quell’accadere. Essi prorompono da quell’incantato gioco linguistico che la filosofia intraprende da sempre e in ogni luogo e che sgorga dal thaumazein platonico-aristotelico, cioè dalla sgomenta meraviglia dinanzi alle cose del mondo, originando l’intreccio tra phileîn (amare) e sophía (sapienza) che nello spazio argomentativo che si apre qui intorno al sesso, in quanto attività umana elettiva, giunge a rivelare un’inconfessata e intima affinità tra eros e logos.
I TRE SAGGI contenuti in questa raccolta fanno l’amore con il sesso e l’erotismo al punto che parafrasando Platone («La filosofia, oggetto del mio amore», Gorgia) si può dire che qui eros non è tanto il soggetto di studio della filosofia di Jean-Luc Nancy quanto il suo oggetto amoroso. Cos’è questa filosofia che ama l’amore? È l’esercizio di un «pensiero amante», come egli stesso lo definisce (Sull’amore, Bollati Boringhieri).
Eros, infatti, campeggia già da tempo nell’orizzonte di senso di Nancy, che vi ha dedicato un certo numero di circoscritte riflessioni e molte generose digressioni in libri e conferenze, ma in questa raccolta il suo sguardo e la sua attenzione nei confronti dell’amore erotico e del sesso giungono al punto di fusione investendo il proprio oggetto con un’azione di decostruzione/estensione del senso che, penetrandone la natura con le armi del pensiero, mette a fuoco il modo in cui l’immensa potenza che il sesso reca in sé e con sé agisce su di noi.
L’erotica che ne emerge si dipana attraverso questi testi seguendo direzioni eccentriche a partire dalle quali l’agire sessuale viene interrogato senza pretese onnicomprensive, ma piuttosto scandagliato mettendone a fuoco taluni suoi tratti caratterizzanti, ponendo cioè sotto la lente d’ingrandimento certe particolari pieghe di senso che si offrono all’approfondimento aprendo sempre ulteriori interrogativi e nuovi sentieri di ricerca.
NELLA «METAFISICA dell’amore sessuale» (intesa non come trascendimento ma come intensificazione della fisica da cui proviene) che Nancy presenta in questa trilogia di testi non c’è traccia dello stigma schopenhaueriano che condanna l’eros all’eterna dannazione della monotona riproducibilità seriale di esemplari della specie umana, perché non il fatto biologico della generazione col suo côté produttivistico-poietico («Fare l’amore fa altro rispetto al fare un figlio, anche quando lo fa») è qui l’interrogante quanto piuttosto la constatazione che «il sesso è un abisso e una violenza: tramite la seconda, che subiamo, cadiamo nel primo, dove non capiamo nulla». Semmai qui riecheggia l’esclamazione stupita e dischiudente di Kant che, scorgendo quell’«abisso» e quella «violenza», si ritrae dinanzi alle spiegazioni possibili ma tutte ugualmente inadeguate, alle quali Nancy contrappone la necessità, né esplicativa né analitica, ma coerentemente filosofica di «pensare il sesso con il valore di un esistenziale - di una disposizione inerente all’esercizio stesso dell’esistere». Se, come Nancy scrive in Corpus (Cronopio) «l’amore è il tocco dell’aperto», fare l’amore è un posizionarsi inconsapevole, un collocarsi instabilmente «sul bordo di un ‘fare’ che fondamentalmente non fa che toccare il duplice al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa deiscenza, una sexistence».
DEISCENZA qui è un’apertura spontanea, uno schiudersi, per dirla con un precedente Nancy, una «dischiusura» (déclosion): «Lo schiudersi del mondo deve essere pensato nella sua radicalità lo schiudersi dello schiudersi stesso e lo spaziamento dello spazio stesso . La dischiusura conferisce allo schiudersi un carattere che lo rende simile all’esplosione, e lo spaziamento sconfina nella conflagrazione» (La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo Cronopio). Tale deiscenza come sexistence ci espone ogni volta, ripetutamente alla violenza e all’abisso dell’intimità con l’altro/a che può darsi solo e soltanto nel «mondo dei corpi» che «è il mondo non-impenetrabile nel quale sono i corpi ad articolare lo spazio» (Corpus) esponendosi l’uno all’altro e rivelandosi reciprocamente attraverso la sola possibilità di conoscersi che ci è data dalla nostra condizione di corpi singoli e contigui: «gli altri li saprò sempre come corpi. Un altro è un corpo, perché solo un corpo è un altro» (Corpus).
Le Beatitudini: Beati i puri di cuore
“Avere il cuore puro, è vedere l’altro
in quanto altro”
intervista a Jean-Luc Nancy,
a cura di Élodie Maurot
“La Croix” del 23 luglio 2010
(traduzione: www.finesettimana.org)
Come risuona per lei, di primo acchito, il testo delle Beatitudini?
Non è un testo che ho l’abitudine di frequentare. Diciamo che lo intendo innanzitutto come una promessa di felicità, ma che contiene sempre il rischio di essere una falsa promessa. È certamente il testo biblico per il quale mi pongo subito in una prospettiva critica e diffidente, perché le Beatitudini hanno tutte quelle caratteristiche della parola che dà sollievo, che smussa gli angoli, che cancella gli ostacoli. Concentrano, a mio avviso, quanto c’è di più difficile e di cui sospettare nel messaggio cristiano. Vi si reperisce troppo facilmente una “buona volontà”, piena di buone intenzioni, che resta lontano da ciò che con Kant si può definire una “volontà buona”. Le Beatitudini ci mettono sempre davanti ad un dilemma: o si tratta di un pacchetto di buone intenzioni dolciastre, addirittura sdolcinate, che cercano di sedurre i lettori e gli ascoltatori con una sorta di assopimento della loro vigilanza, come un oppio dei popoli particolarmente potente, oppure si tratta di qualcosa di radicalmente diverso...
Lei ha lavorato molto sul linguaggio. È sensibile alla forma di questo testo?
La grande caratteristica del Vangelo è di essere un libro religioso che non contiene molta dottrina. Un libro in cui la “dottrina” è interamente offerta con parole pronunciate in certe situazioni. Le Beatitudini portano questo paradosso al culmine. Siamo all’acme del racconto evangelico, nel momento in cui ci si potrebbe attendere uno sviluppo dottrinale, invece, appunto, la dottrina non arriva. E Cristo pronuncia le Beatitudini. Ciò mi fa pensare a Nietzsche che dice: “Se Cristo fosse vissuto più a lungo, avrebbe abolito la sua dottrina.” Nietzsche manifesta in questo la sua profonda comprensione del cristianesimo. Ha capito molto bene che il cuore del cristianesimo non consisteva in una dottrina, ma in una vita. Questo nocciolo duro, etico se si vuole (se questa parola non è troppo consumata), non si lascia assorbire dai montaggi teorici, teologici o ecclesiastici. È un nocciolo molto resistente, mentre la forma che assume è apparentemente fragile, narrativa, invece di essere dottrinale, e il suo contenuto si situa interamente nella dolcezza.
Questo permette di intendere in modo diverso questo testo, di cui lei sottolineava ora l’ambivalenza?
Le Beatitudini, tutte insieme, sono l’amore. E l’amore cristiano, è un paradosso completo. È l’impossibile per eccellenza e, al contempo, come dice Freud, è la sola risposta che sia all’altezza della violenza umana. Freud scrive questo subito dopo la Prima Guerra mondiale, quando la violenza si era scatenata sotto i suoi occhi. Lì sta tutto il paradosso: è una risposta impraticabile e, al contempo, solo quello resiste! Le Beatitudini pongono il problema dell’amore cristiano e l’amore pone subito il problema del suo carattere “felice”.
Come intende lei questo “beati”, “felici”, che scandisce le Beatitudini?
Il “felici” o “beati” del Vangelo risuona in una società in stato di profondo disorientamento. Il mondo nel quale nasce il cristianesimo è un mondo che crolla, che perde le sue sicurezze, che perde di senso, che viene messo di fronte ad una perdita generale dei suoi punti di riferimento. Uno storico dell’antichità, che Freud cita nel suo Mosè, scrive a proposito di quell’epoca: “Sembra che una gran malinconia si sia impossessata in tutti i popoli del Mediterraneo.” Questa frase, così sorprendente per uno storico, dice una grande verità. Il mondo politeista che scompare è infatti un mondo nel quale gli dei, anche quelli cattivi, anche quelli minacciosi, erano presenti dappertutto. Era un mondo nel quale ci si poteva ritrovare, orientare. Invece, il tempo della Roma imperiale è un tempo di grande angoscia e di grande abbandono. Lo stoicismo e l’epicureismo che si sviluppano a quell’epoca sono del resto dei tentativi di rispondere a quel disorientamento. Stoici ed epicurei sono dei tormentati che cercano di sviluppare tutta una serie di esercizi per preservarsi da quel disorientamento, pur rassegnandovisi.
Qual è la felicità proposta qui?
Il “beati” del Vangelo non vuole tanto dare felicità o soddisfazione, quanto indicare una via per uscire dall’angoscia. Le Beatitudini non designano felicità, ma un atteggiamento, una disposizione generale della vita umana che sfugge al contempo all’angoscia e alla rassegnazione.
Non è una risposta che assume la forma di consigli morali...
Infatti, è un pronunciamento, un po’ ritmico. È un’arringa, ma non solo. È piuttosto un’esclamazione e quindi una celebrazione. “Beato” significa qui “glorioso”, “in gloria”. È quasi come dire “santo”... Le Beatitudini “mettono in gloria” coloro ai quali esse sono rivolte. Sono una celebrazione di coloro che sono nelle disposizioni descritte. Non sono dei consigli o delle indicazioni di comportamento dedotte da principi, ma è l’affermazione che “è così”. È molto interessante che non si sia nell’ambito dell’esortazione morale. Cristo celebra qualche cosa e sta a colui che ascolta trarne profitto. Le Beatitudini non sono legate ad alcun processo, al alcun comportamento veramente prescritto. Dicono piuttosto: c’è “qualche cosa” in voi, “qualche cosa” che voi siete e che deve essere celebrato: questo “qualche cosa”, è il Regno, è l’uscita dalla concatenazione dei mezzi e dei fini, dei possessi e delle dominazioni. Come nella parabola dei gigli dei campi.
“Beati i puri di cuore” dice una delle Beatitudini: che cosa significa per lei?
Il termine greco, tradotto qui con “puro”, rinvia all’aggettivo “limpido”. Come si dice dell’acqua, che è pura o limpida. Mette l’accento sulla trasparenza. Il testo greco dice del resto non “i cuori puri”, ma “i puri di cuore”. Essere puri “di cuore” rinvia ad un altro modo di essere puri “di corpo”. Questa differenza colpisce immediatamente, sapendo l’importanza delle purificazioni e dei riti associati alla purezza nelle religioni antiche e nell’ebraismo. Bisogna collegare questa Beatitudine a tutta la tradizione profetica che critica i riti e considera che la purificazione dei corpi è insufficiente. Celebrare il “cuore puro” crea una differenza rispetto all’osservanza rituale.
Che legame vede tra essere un “cuore puro” e “vedere Dio”?
Nelle religioni antiche, la purificazione ha la funzione di liberare l’uomo dagli elementi profani per permettergli di accedere al sacro. È il primo gesto per fare un passo nello spazio sacro. Ora, qui, la possibilità di vedere Dio non è legata al permesso di accedere all’ordine del sacro, del separato, del proibito. Questa Beatitudine dice che Dio non è dell’ordine del sacro, non si situa “dall’altra parte” di un confine che bisognerebbe superare grazie al rito. Colui che ha il cuore puro è colui che può, grazie alla limpidezza del suo cuore, vedere Dio.
Come se Dio fosse già presente, ma non ancora riconosciuto?
Quando il cuore è purificato, vede Dio. Si potrebbe dire che la purificazione del cuore fa vedere, di per se stessa. Non fa vedere qualche cosa che era nascosto, ma qualcosa che prima non si vedeva. È molto diverso. Non siamo qui in uno sviluppo cultuale. La purificazione del cuore produce senso di per se stessa. Non è il mezzo per accedere ad altro, ma un modo per vedere in modo diverso. È un’apertura all’interno del “mondo”. Il cuore puro è forse “Dio” stesso.
In che cosa consiste secondo lei la purificazione?
Le Beatitudini fanno risuonare negativamente la grandezza, la potenza, la ricchezza, la violenza del mondo... La purificazione del cuore è la purificazione di tutte le pesantezze, di tutti i domini e, al limite, di tutti i significati del mondo... Il “cuore puro” è colui che si tiene a distanza da tutta la macchina del mondo, il che non significa che si tenga al “di fuori” del mondo. Neppure è attirato dalla ricompensa massima che potrebbe consistere in questo “vedere Dio”, come una forma di partecipazione al potere o al dominio legata al desiderio di essere ammessi presso Dio. Non si è “felici” per una ricompensa, il che resterebbe dell’ordine del “mondo”, ma si è “felici” di non essere rinchiusi “dentro”. Senza dubbio per comprendere che cos’è un “cuore puro” bisogna tornare all’amore, che consiste nel vedere l’altro come altro. Si tratta proprio di vedere, cioè di essere nel rapporto, senza nulla che si possa afferrare. Non si “vede” un oggetto, si “vede” un’apertura, un’evasione verso l’altro. Che cosa chiede l’amore se non una purificazione del cuore? Una purificazione delle mie attese affinché io possa vedere l’altro come altro. È veramente attraverso il cristianesimo che l’amore diventa questo riconoscimento dell’assolutezza integrale della persona. L’amore rinvia a ciò che noi non possiamo assolutamente afferrare. Forse è questo, “vedere Dio”. Non vedere un essere dietro gli altri esseri, ma vedere che ogni essere è assoluto, incommensurabile.
E ora il filosofo vuol «smontare» la fede
Un nichilismo sconcertante: «Non torniamo allo spirito del cristianesimo, anzi rifiutiamo il ritorno del sacro»
DA PARIGI DANIELE Z APPALÀ (Avvenire, 23.06.2010)
« P enso che la missione del prossimo secolo sarà di reintegrare gli dei», sosteneva negli anni Cinquanta il più celebre e carismatico ministro della Cultura che la Francia ricordi: André Malraux, ufficialmente non credente ma sensibile alle ragioni della trascendenza. E da allora, l’espressione «il XXI secolo sarà religioso o non sarà», ripresa e sviluppata in diverse occasioni dal talentuoso scrittore, è divenuta una sorta di proverbio popolare che trotta nelle teste dei francesi.
Da qualche anno, nel perimetro del mondo intellettuale, la vecchia «profezia» di Malraux non desta più gli sberleffi degli scettici. Di sorpresa in sorpresa, nel Paese statisticamente più ateo della vecchia Europa occidentale, si è assistito a casi editoriali come Dio, un itinerario (2002) del filosofo Régis Debray, ex marxista, ma anche alla clamorosa pubblicazione degli «inediti religiosi« di Jacques Lacan (2005), o ancora alle inattese «svolte verso il sacro» delle concezioni di altri intellettuali ammirati come l’antropologo culturale Maurice Godelier. Al contempo, spesso in reazione a questa tendenza, è riemersa una letteratura di stampo fortemente anticristiano, talora smaccatamente faziosa ma a suo modo anch’essa partecipe della nuova partita culturale sempre più evidente attorno alla spiritualità.
L’ultima opera del noto filosofo Jean-Luc Nancy - che partecipa oggi al convegno dedicato alla sua opera filosofica dall’Università Roma Tre - non sembra sfuggire al «teorema di Malraux», ma in chiave negativa: cioè, distinguendosi per un’esplosione di virulenza che ha seminato sconcerto. Tanto più se si considera la tradizionale sensibilità dell’autore verso il fatto religioso e persino il suo sodalizio ancora recente con editori di area cattolica. In L’Adorazione (Galilée), l’ex complice di Jacques Derrida esplicita niente meno il proposito di «decostruire il cristianesimo». Fin dal primo capitolo, con tono perentorio e a tratti quasi marziale, l’autore lancia una definizione «chiave», ma già dall’aria stramba: «L’adorazione s’indirizza a se stessa. L’adorazione consiste nel tenersi al nulla - né ragione, né origine - dell’apertura». È però soprattutto l’incipit del capitolo seguente a far comprendere il sapore di tutto il resto del volume: «Perché parlare del cristianesimo? Vorrei in realtà parlarne il meno possibile. Desidero avanzare verso una cancellazione di questo nome e di tutto il corpo di riferimenti che lo segue, corpo già largamente cancellato o devitalizzato. Ma tengo a seguire il movimento più preciso che questo nome avrà ricoperto: il movimento di un’uscita dalla religione e dell’espansione di un mondo ateo».
L’accademico settantenne ormai in pensione, con all’attivo anche opere autobiografiche sulla propria condizione di ex paziente trapiantato, mostra che in un centinaio scarso di pagine dall’andamento vieppiù allucinato è possibile pure lanciare molti strali. Esibito senza pudori, il nichilismo dell’autore prende a tratti un rilievo sconcertante: «Non occorre far ritorno allo spirito del cristianesimo, né allo spirito dell’Europa o dell’Occidente.
Occorre al contrario, rifiutando ogni sorta di ’ritorno’, e più di ogni cosa ’il ritorno del religioso’ che è la più pesante delle minacce, avanzare ancora verso ciò che costituisce l’invenzione di questa civiltà ormai globalizzata, forse perduta, forse agli sgoccioli della corsa ma forse anche capace di un’altra avventura. E quest’invenzione è quella di un mondo senza Dio - senza sicurezze di senso - ma senza desiderio della morte». Qualche pagina dopo, Nancy cerca di rigirare ancora la strana frittata: «Non c’è neppure ’ateismo’; ’ateo’ non basta! È dal principio che la posizione dev’essere svuotata. Non basta dire che Dio si assenta, si ritira, oppure è incommensurabile. Si tratta ancor meno di piazzare un altro principio sul suo trono, Uomo, Ragione, Società. Occorre prendere di petto proprio questo: il mondo non poggia su nulla e sta qui il suo senso più vivo».
All’improvviso, come in una sorta di flipper guasto, l’argomentazione prende carambole indecifrabili: «Diciamolo in una parola: il ’dio’ dei cristiani è ateo», lancia persino Nancy, che più in là tiene a rivelare pure la propria definizione dell’antisemitismo: «Azzardo l’ipotesi seguente: si tratta dell’odio verso gli ebrei sviluppato dai cristiani per i quali i primi rappresentano il mantenimento della distinzione dei regni, laddove le Chiese cattolica, protestante e ortodossa non cessano di rinunciarvi». I regni in questione sono quello spirituale e temporale.
La deriva non cessa e l’autore lascia vieppiù l’impressione di saltare di palo in frasca per mescolare un po’ di tutto dentro lo stesso shaker: storia delle religioni, relazioni fra le religioni, rapporto fra realtà vissuta e letteratura, varie proposte anche stravaganti legate alla tradizione terminologica cristiana. Solo un esempio: «Dio potrebbe essere il nome che, come nome proprio, nomina l’innominabile e, come nome comune, designa la divisione dies/nox, giorno e notte, apertura del ritmo del mondo, della possibilità delle distinzioni in generale, e dunque anche dei rapporti e dei passaggi».
Per Nancy, «decostruire il cristianesimo vuol dire: aprire la ragione alla propria ragione stessa, anzi alla propria sragione». Ma in realtà il lettore si chiede presto se non sia proprio l’autore a sragionare, pronto com’è ad esempio a «trasporre» a propria immagine e somiglianza, e a briglie sciolte, persino un celebre e splendido passaggio di Kant dedicato a Dio. In effetti lo si era già sospettato qualche anno fa, soprattutto dopo il caso del Trattato di ateologia di Michel Onfray. È anche con crescenti convulsioni e vaneggiamenti che potrebbe continuare a manifestarsi in futuro il «teorema di Malraux».
Ripartendo da Hegel e Rousseau
Il filosofo francese delinea un rapporto inedito tra sfera pubblica e sentimenti personali.
Amore e destino le nuove parole della politica
Tramonta il modello «ricchezza e successo»
di Jean-Luc Nancy (Corriere della Sera, 2.10.2008
È comprensibile che oggi ci s’inquieti per il possibile destino dell’amore - così come ci si può inquietare per il destino della politica o anche per quello della scienza. Ma può darsi che - per l’amore come per la politica o la scienza (come per l’arte, la filosofia, la religione) - gravi su queste inquietudini una pesante ipoteca: se supponiamo che ciascuna di queste parole sottintenda un concetto intoccabile e intangibile, di cui potremmo dare le coordinate logico-semantiche, allora non c’è alcun dubbio che l’«amore» sia in pericolo, come lo è anche la politica. Ma niente ci porta a dire che possiamo o dobbiamo credere al valore perenne di queste nozioni.
Non è impossibile comprendere ciò che lega la politica all’amore, in maniera inapparente ma incontestabile. L’intera nostra tradizione parla a questo proposito un linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l’amore (che sia sotto la forma del legame familiare, come per Hegel, sotto quella del contratto come consenso, con Rousseau, sotto quella dell’amicizia connessa alla sovranità, con Carl Schmitt) ma dall’altra parte si afferma anche che l’amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente, né come modello nella sfera pubblica.
Tuttavia, accade che oggi la mutazione profonda della politica - ossia il fatto che essa debba rinunciare a realizzare l’assunzione di un destino collettivo ma ben piuttosto subordinarsi alle sfere non politiche in cui si gioca ciò che merita propriamente il nome di «destino» (destinazione, fine ultima...) - questa mutazione, dunque, libera in conclusione un nuovo spazio per l’amore: né principio supposto di un’alleanza comunitaria, né pura elezione privata sottratta all’intera posta in gioco comune, l’amore potrebbe d’ora in avanti trovare un modo nuovo di affilare il suo proprio carattere (tutto ciò che gira attorno al matrimonio e alle forme connesse che s’inventano attorno ad esso e in parte contro di esso è forse rivelatore di una possibilità importante di trasformazione dei rapporti tra l’amore e la sfera pubblica o sociale).
Più ancora di Freud e del suo tempo, noi abbiamo compreso che la violenza non soltanto può diventare ben più mostruosa di quella delle trincee, delle mitragliatrici e dei gas, non soltanto può propagare e disperdere le proprie piaghe ben al di là del teatro dei combattimenti, fino al cuore di ogni vita, ma ancor più può diventare violenza inerente all’ordine o al disordine sociale, economico, culturale, violenza ideologica, finanziaria, tecnica, amministrativa, ecologica... Non è più un «disagio della civiltà » quello al quale noi assistiamo, è la civilizzazione stessa come disagio e come barbarie nel senso preciso di un’impresa di conquista e di espansione privata di veri scopi, presa dalla sola vertigine di un’accumulazione di ricchezza e di performance che non designano alcun altro orizzonte al di fuori della loro stessa espansione indefinita.
L’amore nel suo concetto moderno - vale a dire cristiano, romantico e metafisico - rappresenta il rovescio (o il dritto...) di una tale espansione, salvo a qualificarla d’infinito e non d’indefinito. Se il principio moderno in generale - il principio sotto l’effetto del quale si è dissolto il principio di tutte le altre culture, che era sempre, sotto l’uno o l’altro modo, un principio di determinazione e di finitudine - è proprio il principio d’infinitudine, allora il suo dispiegamento esige la proiezione di una fine infinita. Una fine infinita rivela una contraddizione se la fine deve mettere un termine all’infinito. Ma bisogna distinguere con Hegel il cattivo e il buon infinito. Il cattivo è quello in cui l’infinità è in potenza: è sempre suscettibile di essere portata più lontano e «l’infinitamente più» è così esteriore a se stesso. Il buon infinito è quello in cui l’infinità è in atto (vale a dire che è solo reale): il suo «infinitamente più» è sempre già effettivamente in sé, ma così la sua interiorità è strutturalmente in eccesso su di sé.
L’espansione indefinita - o semplicemente esteriore - dei fini dell’arricchimento e della performance forma la fine infinita secondo il cattivo infinito. È la fine infinita secondo la quale la fine, lo scopo, il compimento, non consiste che nella produzione rinnovata di valori o sensi sempre equivalenti tra loro: tanto per il denaro come per i valori tecnici misurati in velocità, distanza, forza eccetera (al contrario, ricchezza o performance possono essere misurate in tutt’altra maniera: nella dismisura di una gloria, di un’opera, di un pensiero...).
L’amore è il nome della fine infinita secondo il buon infinito. In esso il compimento consiste non in una produzione ma in qualche modo nella riproduzione, nella ripetizione, ossia nella ruminatio di un’incommensurabile: l’amore, precisamente, come assegnazione (attribuzione, attestazione, dichiarazione, creazione: bisognerebbe analizzare tutti questi modi) di un valore assoluto - nemmeno «valente», in qualche modo, o valente di non essere valutabile. Questa semplice constatazione ci permette anche di affermare qualcosa di molto semplice ma di una grande importanza: il solo fatto che siamo in apprensione per l’amore, che non cessiamo di cercarlo nella vita e d’interrogarlo nel pensiero, comprendendoci e, assieme e allo stesso tempo, fraintendendoci su ciò che abbiamo così di mira, questo solo fatto ci assicura che l’«amore» c’inquieta, che ci tiene in allerta e che è una scommessa - non oserei dire «di civilizzazione», tanto l’espressione è già usata fino ad essere uno slogan politico, ma direi in maniera più barbara «esistenziale » e/o «ontologica» (a meno che non si preferisca «metafisica», questo m’importa poco).
Mettiamo dunque la nostra cura al lavoro: amiamo la nostra stessa inquietudine d’amore riguardo all’amore. Cerchiamo di avere per l’amore un pensiero slegato, esigente, che ami il suo oggetto e che gli porti tutta la stima di cui è capace: un pensiero amante. Con questo voglio dire: non un pensiero che si lascia captare da tutto ciò che pretendono dirci dell’amore in forma sociologica, psicologica o culturale.
JEAN-LUC NANCY parlerà stasera a «Torino spiritualità» sulla necessità di ripensare l’amore per poter rifondare il legame tra gli individui e la comunità. Perché, ci dice, nessun uomo è un’isola: persino il nostro corpo è un corpo «collettivo»
Jean-Luc Nancy : «Filosofia è felicità senza desideri»
Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 1940) è professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida è considerato il maggior esponente del «decostruzionismo». Tra i suoi libri pubblicati in Italia ricordiamo Le differenze parallele. Deleuze e Derrida (Ombre Corte) ed Ego Sum (Bompiani), entrambi usciti quest’anno; Il giusto e l’ingiusto (Feltrinelli, 2007); La creazione del mondo o la mondializzazione (Einaudi 2003).
di Silvio Bernelli (l’Unità ,24.09.2008)
Filosofo tra i più importanti degli ultimi anni, il francese Jean-Luc Nancy si è interessato, nel corso della sua lunga e sfaccettata opera, a temi di grande interesse anche per coloro che di filosofia non sanno nulla: i legami che tengono insieme le comunità umane, l’immagine nell’arte, persino il sesso nella sua accezione più libera. Un pensatore curioso, insomma, molto noto anche in Italia, visto che qui i suoi libri sono stati pubblicati da diversi editori, tra i quali Bollati Boringhieri, Cronopio, Einaudi e SE. Non a caso Torino Spiritualità, il «festival delle coscienze» che va in scena nel capoluogo piemontese da oggi fino a domenica 28, lo ha invitato per uno degli incontri di apertura. Quasi settantenne, in forma perfetta, Jean-Luc Nancy si presenta all’intervista mattutina in camicia, maglioncino girocollo, pantaloni, calze e scarpe dello stesso identico nero. Il sorriso e lo sguardo che lampeggia attraverso le lenti degli occhiali però sono assai luminosi.
La comunità non è un rapporto astratto, o immateriale, è un essere in comune, un essere insieme», scriveva in «La comunità inoperosa», un libro del 1986. L’arrivo di immigrati provenienti da ogni parte del mondo nelle città europee ha cambiato questa idea di comunità?
«In Europa non esiste una vera idea condivisa di comunità, tanto meno di comunità europea. Non c’è un’identità europea, ma tante identità diverse: quella francese, quella tedesca, quella italiana... Ciascuna di queste identità è composta da tante diverse identità; nel caso di quella italiana, da quella siciliana, da quella veneta eccetera. L’arrivo degli immigrati non ha cambiato la pluralità di identità presenti nella società europea, al contrario, l’ha confermata».
Il corpo dell’uomo è da sempre al centro dei suoi interessi. Cosa pensa dei corpi di oggi, spesso alterati dalla chirurgia estetica o da protesi sempre più rivoluzionarie?
«Il nostro corpo è cambiato in un modo positivo e interessante e in un altro modo, più pericoloso. Il cambiamento positivo è dato dal fatto che protesi e trapianti hanno dato al corpo una nuova caratteristica, quella di essere condiviso. Oggi il corpo è costituito da altri corpi. Io stesso ho subìto un trapianto di cuore, e questo nuovo cuore mi è stato donato da un’altra persona. E poi ho una protesi d’anca in titanio. Il corpo di oggi quindi è anche una condivisione con le persone che hanno creato tutti questi marchingegni. Il cambiamento del corpo più pericoloso invece è la nascita di un corpo medico, un corpo fisico-organico da curare a ogni costo, come è nella missione della medicina, che è prolungare la vita qualunque essa sia. Questo atteggiamento porta a misurare la vita come quantità e non come qualità. E questo è profondamente sbagliato. Non bisogna tenere in vita le persone al di là dei naturali confini della vita. Non bisogna soffrire né far soffrire inutilmente».
Al suo trapianto di cuore lei ha dedicato il libro «L’intruso». Il trapianto è un’esperienza che le ha certamente lasciato più di una cicatrice, e non solo metaforica. A proposito delle cicatrici, il romanziere americano Cormac McCarthy scrive: “le cicatrici sono la prova che il nostro passato è esistito davvero”. È così anche per lei?
«Quando penso alle mie cicatrici, penso non tanto al passato, quanto al fatto che la cicatrice sia un’iscrizione, una traccia della relazione del corpo con il mondo esterno. È un modo per dire che il passato vive nel presente e anche nel futuro. La cicatrice è un segno, un apertura nella pelle che, anche se si è rimarginata, non è mai chiusa completamente, dà sempre la sensazione che un domani possa venire riaperta».
È il suo interesse per i corpi, per una filosofia che ad ogni costo vuole confrontarsi con la vita vera, che l’ha spinta a scrivere Il c’è del rapporto sessuale, un saggio sul rapporto sessuale?
«La sessualità è il rapporto per eccellenza, è il rapporto dei rapporti. Ha un potenziale fortissimo per cementare i legami tra le persone. Ed è la natura affettiva del legame che unisce gli esseri umani tra di loro, all’interno della famiglia o della società. Non si può comprendere la società di oggi senza comprendere l’importanza della relazione sessuale».
In «La rappresentazione interdetta», uno dei «Tre saggi sull’immagine», lei sottolinea come il nazismo abbia coltivato la rappresentazione, la messa in scena di simboli e masse militari e non, sotto ogni suo aspetto. Non è quello che stanno facendo da una ventina di anni a questa parte attraverso i mass media anche i governi delle democrazie occidentali?
«Attraverso i mass media la democrazia trasmette e si riflette in una molteplicità di immagini tra le quali non riesce a scegliere quella in cui identificarsi. Campioni dello sport, gli oggetti che ci circondano dai televisori ai telefonini, lusso. Cose tra cui è difficile scegliere l’immagine preponderante, che trasmette quella che chiamerei un’idea vaga di comfort, di benessere. La società democratica si nutre di questa sua rappresentazione e in questo senso si chiude su se stessa allo stesso modo di una società totalitaria. Ma il problema della democrazia oggi è che, al contrario della dittatura, non sa immaginare nulla oltre la propria rappresentazione. Oltre l’immagine c’è solo il vuoto».
Questa sera avrà un incontro con il pubblico di Torino Spiritualità. Può dare un’anticipazione del suo intervento ai nostri lettori?
«Parlerò della crisi dell’amore. È una condizione legata al concetto di libertà sessuale e all’idea di mercificazione del sesso tipica dell’età moderna. È entrata in crisi anche l’idea di matrimonio che è stata concepita fino adesso, non a caso i divorzi si moltiplicano. La società che è sempre più individualista è arrivata a un punto di rottura su certi argomenti. Stasera dirò che l’amore va ripensato. Le vecchie idee sul matrimonio e sulla fedeltà stanno strette alla nostra società e noi oggi forse stiamo cercando nuovi modi di vivere l’amore. I giovani ad esempio lo vivono in modo più distaccato e con una consapevolezza sessuale che noi non avevamo. Una volta il primo amore doveva essere quello definitivo. Io anche ho sposato la prima donna di cui mi sono innamorato, ma poi (e qui Nancy ridacchia,ndr) le cose non hanno affatto funzionato».
Tema di questa edizione di Torino Spiritualità è la speranza. Qual è la sua?
«Ne ho due. Una personale, che so completamente irrealizzabile, che è quella di vedere come sarà tra un secolo il mondo completamente “cinesizzato”. L’altra speranza invece, che auguro a tutti di avere, è di morire senza più desideri, visto che tutti gli obiettivi che si volevano raggiungere nella vita sono stati raggiunti. In fondo, non è una speranza da poco, non le sembra?»
RASSEGNE
Con Jean-Luc Nancy si apre domani «Torino Spiritualità» *
La lectio magistralis di Jean-Luc Nancy sul «Tramonto dell’amore» e la tavola rotonda intorno al progetto interreligioso promosso da Raimon Panikkar (con la partecipazione di Kala Acharia, Francois Xavier D’sa, Jiso Forzani, Mohammad Haddad, Alan Lew) sono i momenti più importanti della prima giornata di «Torino Spiritualità», che si apre domani pomeriggio alle 18 al Cortile di Palazzo Carignano con un dialogo fra Eugenio Scalfari, Walter Barberis e Alessandro Baricco intorno al tema «Speranza senza fede».
Fra gli altri partecipanti delle cinque giornate della rassegna torinese, il brasiliano Leonardo Boff, uno dei maggiori esponenti della «teologia della Liberazione» (nella foto a sinistra), lo scrittore albanese Ismail Kadaré, il sociologo francese Gilles Lipovetsky. Il programma completo si trova nel sito www.torinospiritualita.org.
* il manifesto, 23.09.2008
Caro Antoine
non continuare a "ragliare" alla grande - da solo, nella "foresta". E, se vuoi, cerca anche di uscire dal "circo" in cui sei stato rinchiuso!!! Leggi prima di tutto e poi cerca di capire di cosa si parla!!! Cerca di accedere al Nome, alla Parola, alla Lingua e parla!!! Come vedi (e come puoi ben vedere in tutto il sito e in tutti i forum dei vari articoli) - qui non c’ alcuna moderazione a priori e alcuna approvazione se non quella di "presentarsi", dirsi "buon-giorno" e iniziare a col-loquiare e a dia-logare...
Nell’essere, libero di ... essere o non-essere.
Buon-giorno!!!
Federico la Sala
ca era na cosa fina
ca se mintia a rajare
ta sera alla matina.
Lu raju ca facia, sembrava nu tenore
ciucciu beddhru te stu core
comu te pozzu amà.
Ca quannu rajava facia io-io
ciucciu beddhru te stu core
comu te pozzu amà.
quann’é morta mujerama
ieu me manciai u prosciuttu,
quannu è mortu lu ciucciu
me misi a lacrimà.
Chiancitilu, chiancitilu,
è mortu u ciucciu meu
cussì a ulutu Diu,
purtatilu a seppellì.