Jean-Luc Nancy
L’incommensurabile prigione della verità rivelata
«La dischiusura» del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Un impegnato testo che si pone l’obiettivo di scioglere l’abbraccio mortale tra filosofia e religione a favore di un severo e sobrio esercizio del pensiero
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 16.03.2007)
L’ossessiva campagna denigratoria contro le libertà individuali e la politica delle relazioni allestita dai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica è basata su un assunto: oggi, non è possibile non dirsi cristiani. La perentorietà di tale affermazione produce un irrigidimento delle posizioni che produce reazioni altrettanto violente, e giustificate, ma spesso non consentono di capire se il cristianesimo rappresenti realmente una necessità per il nostro tempo. A questo proposito, quanto mai opportuna giunge la traduzione in italiano di uno degli ultimi volumi di Jean-Luc Nancy che ha un titolo apparentemente provocatorio: La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I (Cronopio, pp. 223, euro 20).
La dischiusura non è tuttavia un libro scritto da un Voltaire avvelenato da astio anti-clericale. La «decostruzione» annunciata nel titolo è ispirata alla grande tradizione filosofica del Novecento che, prima con Martin Heidegger, e successivamente con Jacques Derrida, ha rivelato il rapporto costitutivo tra l’ateismo greco e il monoteismo ebraico nella formazione del pensiero occidentale. Il cristianesimo è il punto d’unione in cui questi due elementi si rafforzano e si respingono allo stesso tempo, trovando nella figura del Dio unico e nella razionalità del pensiero moderno, gli strumenti per la sua affermazione universale.
La «dischiusura» (questa la traduzione proposta da Rolando Deval e da Antonella Moscati del termine francese Déclosion, un neo-logismo che significa «togliere una chiusura») intende proseguire l’opera di questi predecessori (e amici, nel caso di Derrida che poco prima di morire dedicò a Nancy il libro dal titolo Le Toucher).
Un bipolarismo morale
Dischiudere dunque i confini tra filosofia e religione, rompere l’abbraccio mortale che li lega e portare alla luce ciò che li accomuna. E’ un’avvertenza quasi obbligatoria dal momento che, nella discussione di questi ultimi anni, non sembrano esserci spazi per chi rifiuta di fare suo l’integralismo politico-religioso puramente reattivo o il laicismo militante di qualche causa anti-clericale un po’ datata.
È dal 1998 che Nancy, tra conferenze e saggi, lavora su questo tema. Da allora non sembra essersi fatto tentare dall’improbabile bipolarismo morale tra laici e cattolici che oggi sembra esaurire, in Italia, l’etica pubblica. Anzi, la sua tesi sembra andare in controtendenza. Per Nancy, l’Occidente non è nato dalla liquidazione di un mondo di oscure credenze cristiane dissolte dalla luce della razionalità. Al contrario, il cristianesimo è l’Occidente. Lo ha prima inventato, poi assorbito ed infine disconosciuto dopo l’affermazione della «modernità» illuministica.
Ciò non toglie che, sin dalla sua origine, l’Occidente sia vissuto all’ombra del cristianesimo, un po’ come l’ombra di Buddha è rimasta mille anni a vegliare la caverna dov’era seppellito il suo cadavere.
Cristianesimo e Occidente tendono a ridimensionare ad una misura comune ciò che è fuori dalla razionalità. Dio è per il cristianesimo ciò che il problema matematico dell’incommensurabile è per il logos moderno. Così come la religione porta l’alterità assoluta al centro della vita degli uomini, il pensiero moderno introduce lo smisurato nella ragione.
Il cristianesimo può essere riassunto nel precetto di vivere in questo mondo come fuori di esso. Questo fuori non esiste, è la promessa di una salvezza che arriverà alla fine dei tempi e che nel presente vale come apertura su un’alterità assoluta. Il pensiero moderno impone invece agli uomini di vivere questa stessa alterità assoluta nei confini della «pura ragione», come diceva Kant. L’invito di gran parte del pensiero del Novecento, da Freud a Wittgenstein sino a Heidegger, è stato quello di pensare questa alterità e di restituirne la misura sfuggente del suo apparire.
Nancy precisa che il cristianesimo tende a «chiudere» il movimento di apertura su questa alterità attribuendola ad un essere supremo, mentre il pensiero della Destruktion di Heidegger e della «decostruzione» di Derrida la lascia libera da (quasi) tutte le paralisi teologiche. Ciò non toglie che anche il razionalista intransigente eviti di spezzare il «tenue arco che ci lega all’inaccessibile», così come il credente adulto e consapevole comprende che il suo Dio è il punto estremo della rappresentabilità di un’alterità che non ha misura.
Non è superfluo ripetere qui tutte le accuse che è legittimo imputare al cristianesimo, come l’asservimento del pensiero fino allo sfruttamento ignobile del dolore e del risentimento. Oggi più che mai tornano utili le armi tradizionali che sono state utilizzate contro il dominio religioso (la libertà, l’individuo, la ragione stessa), ma esse non bastano per spiegare perché «ragione» e «fede» siano animate dallo stesso principio e, in un certo senso, si comportino come due gemelli siamesi.
E’ per questa condivisione di orizzonte che Nancy esclude che il cristianesimo possa essere attaccato o difeso, rimosso o salvato da chiunque. Esso non è una grave malattia congenita dell’Occidente, ma non è nemmeno un plusvalore morale che indica la strada della salvezza per le donne e gli uomini. Progetti di questo tipo fanno torto all’essenza del problema: il cristianesimo e l’ateismo, ciò che afferma l’esistenza di un Dio e ciò che lo nega, sono volti diversi dello stesso nichilismo.
Scrisse il filosofo Luigi Pareyson: «Può essere attuale solo un cristianesimo che contempli la possibilità della sua negazione». Una forte presa di posizione che permette di vedere nel cristianesimo la riflessione su un dubbio disperante (Dio è perché si nega), e non l’affermazione di una verità valida per tutti. E’ cieco dichiarare un embargo permanente nei confronti del cristianesimo, dato che l’ateismo condivide la stessa radice. «Può essere attuale solo un ateismo che contempli la realtà della sua provenienza cristiana», commenta Nancy parafrasando Pareyson.
Il sole nero del nichilismo
Se dunque il cristianesimo attribuisce a Dio la causa prima e il fine ultimo della vita, l’ateismo gli nega questo privilegio attribuendo la causa e il fine alla razionalità. Entrambi sostengono che la vita è rivelazione di un principio superiore, quello di Dio o quello della Ragione. Anche il papa teologo Ratzinger rivendica la razionalità tra le principali caratteristiche che rendono universale, vero e buono il Dio cristiano. Oscurando tuttavia ciò che il pensiero della decostruzione ha denunciato: la coincidenza tra il cristianesimo e la razionalità è dovuta al fatto che entrambi sono espressione del nichilismo occidentale.
Nichilismo, spiega Nancy, in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma questo «niente» significa disfare ogni principio, compreso lo stesso principio del niente. Laici e cattolici gravitano attorno allo stesso sole nero: l’affermazione incondizionata di un principio corrisponde infatti allo svuotamento del mondo, al suo impoverimento in nome di valori trascendenti (la Vita, il Bene) o alla sua mortificazione in nome di certezze immanenti (la Storia, la Tecnica). In altre parole, laici e cattolici soffrono della dissoluzione del principio in cui credono. Sul versante cristiano, il problema è dolente: il Dio cristiano crea il mondo attraverso la negazione di se stesso. Il cristiano tende con tutte le forze a ricongiungersi a quella negazione che l’ha posto in essere. Un paradosso senza salvezza.
A questo tragico esito non è estraneo nemmeno il pensiero «laico». C’è la razionalità che rifiuta ogni teleologia e, da Hegel in poi, esige di essere compresa come il primo pensiero che fa a meno di Dio e si carica sulle spalle il mondo per dargli un senso. Ma una volta sospese le ambizioni hegeliane, e dimostrato che il mondo non è retto da alcun principio trascendente, nemmeno quello della storia, l’ateo realizza che alla «morte di Dio» non è seguita alcuna nuova comprensione del mondo. E’ questa la tristezza che riassume l’ateismo. A differenza del cristiano, l’ateo non si dà nemmeno la possibilità consolatrice di sentirsi abbandonato dal proprio Dio. E’ solo, e rifiuta la gioia tragica di cui Nietzsche e il giovane Walter Benjamin furono testimoni.
L’annuncio della buona fine
Finché non avremo la misura esatta della nostra provenienza cristiana, resteremo prigionieri di qualcosa che non è stato elaborato all’altezza del nostro tempo. Su questo punto, Nancy non fa sconti nemmeno al proprio discorso e ammette: è lo stesso cristianesimo a decostruirsi. Il cristianesimo ha passato gran parte della propria storia a correggere e ad auto-rettificare il contenuto della verità annunciata. Esso è la forma più occidentalizzata delle religioni monoteiste, si distende nella forma di un’auto-analisi in vista di un ritorno ad un’origine sempre più pura.
Questo processo comincia già nei Vangeli e in San Paolo, continua con il monachesimo e si afferma, ovviamente, nelle diverse Riforme. Con il risultato che il cristianesimo ha certamente sviluppato una volontà di potenza sconosciuta alle altre religioni, ma l’ha accompagnata con un potente desiderio di spoliazione e di abbandono di sé spingendolo all’auto-dissoluzione.
Esso ci ha consegnato un mondo che è in attesa di una rivelazione, non solo quella di Dio, ma di un senso generale che rimane sospeso tra gli uomini nei termini di una promessa o di un progetto (politico, esistenziale).
La promessa annunciata dal cristianesimo è «una fine senza fine». E’ questo il nucleo «kerygmatico» del Vangelo (dal greco euaggelion, «buon annuncio»): l’annuncio della fine dei tempi corrisponde alla seconda venuta di Dio sulla terra. Ma questa venuta, se avverrà, avverrà alla fine dei tempi. Una fine infinita che si protrae disperatamente per tutta la storia. Cosa si annuncia dunque nei Vangeli? «Quasi niente», risponde Nancy. E’ su questo «niente» che l’auto-decostruzione del cristianesimo mostra la sua ambiguità. Davanti all’annuncio non c’è infatti più storia, né ritorno all’origine. C’è la fine del mondo e la morte di Dio.
Ripensare l’ateismo
Per Jean-Luc Nancy viviamo nel cuore di una trasformazione epocale paragonabile a quella che ha portato dall’antichità al mondo moderno. Questa trasformazione appare talvolta come una perdita, ma ha anche il sapore di un nuovo inizio. Il suo è un pensiero che resta aperto alla testimonianza di un’incommensurabilità tra noi e ogni legge, umana o divina che sia. Ritornare alla nostra provenienza cristiana, e ridiscuterla radicalmente, è essenziale per capire come questo incommensurabile non sia più quello di un Dio trascendente. L’incommensurabile è invece la scoperta di una comunità di uomini e donne ispirata ad un senso eccedente di cui il sacro ha cercato di dare una definizione, senza tuttavia coglierne la potenza costitutiva.
Pensare la «morte di Dio» non come il nichilismo, ma come l’uscita dal nichilismo, è il primo passo per scoprire che è possibile liberarsi dal pesante fardello del teologico-politico sulla nostra cultura. Non c’è alcuna ragione «di salvare la religione, e meno che mai di farvi ritorno», afferma Nancy. Si tratta piuttosto di prendere coscienza che viviamo in un mondo che rifiuta in maniera incommensurabile la sacralizzazione di ogni autorità, compresa quella della legge.
Per farlo, è necessario rinunciare alla politica che vorrebbe continuare a pensarsi nei termini di una versione secolarizzata del cristianesimo. L’ateismo può essere una risorsa, anzi per Nancy è l’«unico ethos possibile del nostro tempo» che permette di pensare ciò che c’è di comune tra gli uomini, a condizione di liberarlo dallo schema di un teismo rovesciato. Questo ethos permette di rivendicare un senso che nessuna religione, nessuna credenza e certamente nessuna Chiesa può pretendere. Per quello che noi siamo non basta né il culto, né la preghiera, ma l’esercizio rigoroso e severo, sobrio e gioioso, di ciò che si chiama il pensiero.
Scaffali di una comunità inoperosa
Il corpo e l’atto di un «essere singolare plurale» Nato il 26 luglio 1940, Jean-Luc Nancy insegna filosofia all’università di scienze umane a Strasburgo. Nel 1991 ha pubblicato con Philippe Lacoue-Labarthe il saggio «Il mito Nazi» nel quale interroga la ragione per cui il mito è al cuore della pratica politica e sociale del nazismo. I libri che lo hanno fatto conoscere in Italia sono sopratutto «La comunità inoperosa», «L’esperienza della libertà», «Il corpo» e «Essere singolare plurale».
I suoi ultimi lavori hanno come tema la libertà, la comunità, la globalizzazione e il «senso» e si sforzano di affrontare la fine di un certo numero di possibilità filosofiche, innanzitutto quelle che discendono dall’umanesimo. Per molti anni ha diretto la collana dell’editore Galilée «La Philosophie en effet» insieme a Jacques Derrida e a Philippe Lacoue-Labarthe, recentemente scomparsi. Tutti i libri di questa collana recano ad esergo una frase di Nietzsche: «Introdurre un senso, questo compito rimane assolutamente ancora da realizzare, ammesso che esista ancora un senso». Ne «La creazione del mondo o la mondializzazione» (Einaudi) Nancy ha sostenuto che è la «mondialità, intesa come la nostra condizione esistenza, a rappresentare questo senso».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
Jean-Luc Nancy, nel corpo vivido e audace del desiderio
La scomparsa. Muore a Strasburgo a 81 anni il filosofo francese, tra i suoi numerosi libri «La comunità inoperosa». Fu uno dei maggiori esponenti del decostruzionismo, professore di Filosofia all’Università di Strasburgo e membro del Collège international de philosophie. Un pensatore originale e prolifico: dalla politica alla teoria letteraria al teatro e all’arte fino alla critica del presente
di Francesca Romana Recchia Luciani (il manifesto, 25.08.2021)
«Anche senza presupporre né Dio né salvezza, non manchiamo mai, morti o vivi, di una lingua per salutarci eternamente, immortalmente, l’un l’altro, gli uni gli altri. Un tale saluto, senza salvarci, almeno ci tocca e, toccandoci, suscita quella strana titubanza che coglie colui che attraversa la vita per niente - ma non esattamente in pura perdita».
QUESTO scriveva Jean-Luc Nancy ne La dischiusura (2005), uno dei suoi illuminanti testi (come molti altri meritoriamente importati in Italia dalla casa editrice Cronopio, grazie alla preziosa traduzione di Antonella Moscati) che vanno a comporre il mosaico della «decostruzione», quell’attitudine teoretica che lo aveva legato indissolubilmente ad una tradizione francese particolarmente influente e in un duraturo sodalizio a Philippe Lacoue-Labarthe (con il quale scrive L’assoluto letterario nel 1978 e Il mito nazi nel 1991) e a Jacques Derrida, che gli dedica un cospicuo volume intitolato Toccare, Jean-Luc Nancy (1998).
Già professore di Filosofia all’Università di Strasburgo e membro del Collège international de philosophie, pensatore originale e prolifico, si è spento all’età di 81 anni. Pensare a Jean-Luc Nancy equivale a figurarsi un filosofare vivido e vitale. Piangerne oggi la scomparsa suona ossimorico, una nota che stona, un’immagine che stride ed entra in contrasto feroce con i ricordi di chi, come chi scrive, ha avuto la fortuna di incontrarlo e di conoscerlo. Sapeva, infatti, sempre donarsi senza risparmio, con le lezioni, le conferenze, gli interventi in cui si rifletteva la generosità e la pienezza del suo slancio intellettuale.
Nancy ha lasciato un’impronta profonda in chiunque si sia accostato alla sua filosofia, un pensiero audace che colpiva al cuore in virtù di un’interrogazione incessante e mai sazia, «facendo segno», come amava esprimersi, all’esistenza «singolare plurale» condivisa degli umani come al proprio orizzonte di senso.
JEAN-LUC NANCY ha saputo far respirare il proprio pensiero, sempre con esiti non scontati e a tratti sorprendenti, negli ambiti più vari: dalla filosofia alla politica, dalla teoria letteraria al teatro e all’arte, dalla religione alla lettura dell’attualità - con i recentissimi Un trop humain virus e Mascarons de Macron. Il suo sguardo sapiente si posava sulle cose sempre ispirato da una ricerca ontologica che ne illuminasse le pieghe, le ombre, i non detti, i non visti.
Ne La comunità inoperosa, libro visionario del 1986, riproponeva contro ogni aspettativa e dopo le cocenti delusioni legate al crollo dei comunismi e dei collettivismi l’idea filosofica, anzi di più, la premessa e la promessa democratica dell’«essere-in-comune» come eterotopia di condivisione e convivenza, rispettosa delle forme plurime e incommensurabili dell’umano.
Dieci anni dopo, in Essere singolare plurale (trad. it. Einaudi) tornava, rafforzandola teoreticamente, sulla necessità di una co-ontologia, una filosofia dell’in-comune erede di Kant, Hegel e Heidegger, in grado di ridare valore al «noi» come prospettiva esistenziale e politica. Ma, accanto a queste preoccupazioni e attese nei confronti della comunità e della libertà come missioni infinite della democrazia, per Nancy vi è sempre stata un’acuta attenzione al corpo come s/oggetto filosofico che diventerà il cuore pulsante prima di un testo mirabile come Corpus (1992) e poi de L’intruso (2000), testo/testimonianza in cui rievoca le vicissitudini della sua precaria salute che precedono e seguono il trapianto cardiaco subito nel 1992.
Qui la metafora delle migrazioni, riletta attraverso le categorie di «estraneità» e «intrusione», gli consente di leggere l’intera comunità come corpo politico, fornendo a noi eredi una chiave straordinaria per interpretare l’epocale contraddizione del rifiuto dello «straniero» come incapacità di guardare all’alterità con desiderio e apertura per accogliere quel che può rigenerarci.
A CONIUGARE la corporeità e la comunità sarà, in testi come Sull’amore e Un pensiero finito, proprio l’esperienza amorosa in quanto esperienza fisico-corporea di attraversamento e insieme ontologica d’inter-relazione perché l’amore si nutre del «con» e del «tra».
Quasi come un prolungamento naturale giungerà, nel 2017, Sessistenza (trad. it. il melangolo), libro in cui il rimando reciproco tra sesso ed esistenza mette in campo un’erotica filosofica e, insieme, un’ontologia del desiderio, del piacere e del godere che danno vita ad una filosofia dell’esistenza sessuata. Qui il legame con l’ontologia tattile che percorre tutta la filosofia del corpo di Nancy si fa evidente perché tatto e sesso si mostrano come i percorsi privilegiati per afferrare il senso del nostro stare-al-mondo nella condizione del «con-essere» che segna le vicende esistenziali fondamentali di ciascuno/a. Ecco perché Nancy e la sua filosofia «infinita» restano in vita anche dopo la sua dipartita, infatti come egli ha scritto: «‘La morte’ è che c’è altro (che c’è la morte dell’altro, così come la mia) e, in questo modo, l’infinito in atto per me».
Sessistenza
di Jean-Luc Nancy *
Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo.
L’”essere-gettato” di Heidegger.
L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.
NEL SEGNO DELLE INTERSEZIONI. Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, 8ª edizione (18-30 Marzo 2019)
Intervista
Recchia Luciani: per un femminismo desiderante e intersezionale *
Qual è il bilancio di questa ottava edizione del Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, in termini di ricerca e di riscontro con il pubblico?
Credo che si possa tracciare un bilancio assolutamente positivo, in attivo in tutti i sensi. Quest’anno avevamo un obiettivo: concentrare il Festival in un tempo più limitato del passato (ricordo che nelle scorse due edizioni il Festival si è protratto per circa tre settimane), ma intensificarne i contenuti, l’idea era quella di un’alta concentrazione di idee in massimo dieci giornate. Ci siamo riuscite, e a giudicare dalla qualità degli ospiti, dagli esiti del lavoro di ricerca e dalle presenze assidue e motivate del pubblico direi che il bersaglio è stato centrato. Le tre giornate con Emily Apter e Jean-Luc Nancy intorno a Sessistenza, il congresso di fondazione della rete nazionale GIFTS (studi di Genere, Intersex, Femministi, Transfemministi e sulla Sessualità), le proiezioni sulla cinematografia intersezionale e queer testimoniamo l’indiscussa eccezionalità e la peculiare qualità della proposta culturale.
Il corpo oggi è più che mai territorio di guerra. Penso ai tanti casi di violenza, di stupro e di offesa. Come lo studio di genere può intervenire nell’educare al rispetto per la carne, e quindi lo spirito, dell’altro?
I saperi di genere, finalmente intrisi di femminismo e di nuove sensibilità, sono oggi il terreno più avanzato del dibattito intorno ai diritti umani poiché riguardano l’essere umano nelle sue espressioni esistenziali più intime e personali e nella sua indissolubile unità fisico-mentale (la dualistica distinzione metafisica tra sostanza carnale e sostanza spirituale è del tutto insostenibile almeno a partire da Freud direi, ma in realtà anche da molto prima). Il corpo umano è ontologicamente vulnerabile, esposto alla sofferenza e alla morte, ma anche al piacere e alle relazioni. Questa sua intrinseca apertura al mondo rende l’ambito della sessualità e dell’identità di genere particolarmente sensibile alle aggressioni di chi non riconosce agli umani il rispetto che si deve a ogni essere nella sua singolarità e unicità. Inoltre, sono proprio gli studi di genere femministi e transfemministi a consentire l’acquisizione di una visione olistica di ciascuna individualità, a partire proprio della sua precipua relazionalità che fa del corpo singolo il nesso con il mondo e con le altre individualità.
Il nuovo femminismo verso che direzione si muove? Capita spesso di scoprire tra le donne che si definiscono femministe movimenti contraddittori: da un lato si cerca sempre il rifugio all’ombra di un uomo per ottenere un ruolo di potere o visibilità o credibilità, dall’altro spesso si fomentano il commento sessista nei confronti del corpo maschile e un odio malcelato nei confronti del maschio.
Io frequento molte femministe e molto femminismo (in senso teorico, studiandone i testi e i documenti) e francamente non ho affatto ricavato questa impressione. Se si tratta di autentico femminismo, esso non dà cittadinanza a ipocrisia né tantomeno a odio contro gli uomini. C’è una grande confusione, credo, tra chi usa termini di cui ignora la portata e le conseguenze pratiche, come coloro che scambiano il femminismo per il contrario del maschilismo. È fin troppo facile dimostrare che si tratta di inconsapevolezza o banalmente di mera ignoranza. Il femminismo oggi è una necessità culturale e un inevitabile orientamento politico poiché lottare per i diritti delle donne oggi e per la loro liberazione dalle logiche patriarcali significa desiderare un mondo migliore per tutte, per tutti e per chiunque, comprese le soggettività LGBTQI+ e per gli uomini stessi. La rivoluzione femminista, insieme a quella ecologista, è l’unica che oggi può ragionevolmente cambiare il futuro dell’umanità impiantandolo sul rispetto e l’uguaglianza. E non bisogna guardare solo all’Occidente, dove possiamo forse nutrire l’illusione dell’emancipazione femminile, ma alla situazione globale, dove la temibile persistenza del più vetusto patriarcato, soprattutto in certe aree del mondo, fa facilmente apparire davvero indispensabile una lotta femminista trasversale e transnazionale.
Parlare del corpo e del sesso, significa affrontare anche il desiderio. Spesso si parla di educazione sessuale per i giovani, ma non si parla quasi mai di educazione all’affettività (se così si può ancora definire un percorso per il rispetto e la cura nei confronti della persona altrui nella dinamica relazionale).
Non si tratta di contrapporre educazione sessuale ad educazione all’affettività, che poi non so bene cosa significhi. I sentimenti non sono oggetto di apprendimento e francamente credo che la scuola non possa essere investita di un compito così gravoso, il rispetto invece lo è e dunque è da lì che occorre partire. Educare alla conoscenza del corpo proprio e altrui, alla sua natura di luogo mondano e relazionale, a rifuggire ogni forma di violenza e sopraffazione, subita o esercitata, credo sia il solo modo che abbiamo per trovare un terreno comune con le giovani generazioni su questi temi. Rompere il gioco noioso e ripetitivo degli stereotipi sessuali, scoprire il valore insopprimibile della singolarità nella sua essenza plurale (poiché ogni essere umano è un mondo), superare la sessuofobia imposta dalle tradizioni, aprirsi alle differenze, amare e apprezzare le diversità è la sola lingua che possiamo imparare a parlare per salvarci. Chi teme questa nuova educazione rispettosa di ogni identità di genere e di ogni orientamento sessuale vuole solo conservare antichi privilegi sessisti, maschilisti, patriarcali.
Intersezioni e apertura al futuro, interrogando il presente. Perché oggi sembra di precipitare nell’incapacità di incontrare l’altro/a da sé e di rispettarne la libertà, cosa sta accadendo al nostro tempo?
Il femminismo intersezionale è la risposta al nostro turbamento presente. Il suo radicalismo è una necessità storica. Quando abbiamo deciso di intitolare questa edizione del Festival “Nel segno delle intersezioni” abbiamo assunto l’idea di parlare di intersezionalità come di un metodo, un’attitudine euristica ad assumere i corpi a partire dalla loro densità carnale e dalla loro performatività relazionale, dalle loro inter-azioni (inter-sezioni) che hanno la capacità di trasformare il mondo. Un femminismo desiderante e intersezionale (come amo definirlo) che si fa carico delle forme sovrapposte di discriminazione che ogni singola persona esperisce simultaneamente attraverso le proprie diverse appartenenze (sesso, genere, classe sociale, etnia, orientamento sessuale, età, abilità/disabilità) e che si oppone sistematicamente al patriarcato e alla misoginia al potere, i quali mirano solo al controllo delle esistenze e alla soppressione delle differenze. Con lo stesso obiettivo è nata, proprio nel Festival, la rete nazionale e transdisciplinare GIFTS sugli studi di genere, intersex, femministi, transfemministi e sulla sessualità, che raccoglie oltre 200 studiosi/e e attivisti/e, provenienti da svariate aree d’indagine e settori scientifici, oltre che da tutte le Università italiane e da centri di ricerca indipendenti. Una rete nazionale finalizzata a sostenere e diffondere questi studi in ogni ambito del sapere, accademico e non accademico, e a rendere l’Università un’istituzione accogliente contrastando precarietà, sessismo, razzismo, abilismo, lesbo-gay-trans-bi-pan-intersex-esclusione, il cui primario obiettivo è quello di promuovere al massimo grado la funzione critica di questi saperi perché operino in senso trasformativo nella società e nell’Università.
Come è nata la collaborazione con Nancy e come si è sviluppata nel progetto “Sessistenza”?
Grazie per questa domanda, mi piace l’idea di definirla “collaborazione”. In effetti si è trattato proprio di questo: quando nel 2016 Jean-Luc Nancy è stato a Bari per la prima volta al Festival delle donne e dei saperi di genere ha tenuto una doppia lezione intitolata Sexistence, da cui è nato un piccolo libro (in verità sgorgato dalla mia impertinente proposta lanciata dinanzi ad un caffè mentre ci trovavamo, in una bella giornata di sole di maggio, con Jean-Luc, sua moglie Hélène e l’amica francesista Ida Porfido, traduttrice del saggio Sexistence in quel volume, a pochi metri dalla splendida e candida cattedrale di Trani) da me curato e accompagnato da una mia postfazione intitolata “Pensare il sesso”, pubblicato da Cronopio, casa editrice napoletana che ha pubblicato molte opere del filosofo strasburghese per lo più curate da Antonella Moscati, che è peraltro l’amica che mi ha presentata a Nancy. Quel volume raccoglie quattro brevi e densi contributi di Nancy (scritti nell’arco di quasi dieci anni) sotto il titolo Del sesso, ma nel 2016 la sua riflessione intorno a questo tema era allora appena ricominciata, e si è poi sviluppata nella bellissima opera Sessistenza uscita in Francia nel 2017 e da me co-tradotta, curata e introdotta per il Melangolo, in libreria da circa un mese.
Quando ho incominciato a preparare l’VIII edizione del Festival mi è parso del tutto naturale chiedere a Nancy di tornare a Bari per riflettere ancora una volta ad alta voce con noi, proprio qui dove Sessistenza aveva in qualche modo intrapreso il suo percorso. E lui, come al solito generosissimo, mi ha proposto non solo una bellissima lezione (“Transontologia”, la traduzione italiana si trova nel fascicolo speciale dedicato al Festival 2019 allegato al numero di aprile della rivista dell’“Indice dei libri del mese”), ma per di più mi ha anche proposto di invitare la filosofa americana Emily Apter a dialogare con lui qui da noi per la prima volta. Emily è stata una fantastica scoperta, anche lei acuta e generosa, ha dato un contributo fondamentale al Festival con le proprie riflessioni (una introduzione ad esse si trova nel saggio Sessistenza: una teoria dell’ontologia sessuale, anch’esso tradotto in italiano nel fascicolo speciale dell’Indice dei libri del mese dedicato al Festival 2019). Le loro originali lezioni e questo inedito dialogo sono stati un dono prezioso che ha reso questa edizione del Festival un evento del tutto straordinario nel panorama filosofico internazionale facendo di Bari un’avanguardia dell’attuale riflessione.
*
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI - POLYTROPON MAGAZINE (16.04.2019).
Idee.
Nancy: perché è così difficile essere-in-comune
La libertà supera la soggettività perché essa è proprio ciò che viene al soggetto, da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi
di Jean-Luc Nancy (Avvenire, giovedì 20 maggio 2021)
Perché l’essere-in-comune non è riconosciuto come essenza della società? Perché questo «in comune» non è fatto di un semplice accordo, ma al contrario implica il disaccordo. Secondo Kant, la nostra socialità procede da una «insocievole socievolezza». Il comune è un concetto che si presta a un’ambiguità: o si pensa a ciò che è comune a una pluralità, oppure si pensa all’essere insieme di una pluralità. Nella prima accezione, il comune è un bene condiviso (come i cosiddetti beni comuni di cui si parla molto oggi), nella seconda designa una modalità dell’essere. Questa modalità implica una pluralità, che implica diversità, la quale a sua volta implica la possibilità di divergenze o addirittura opposizioni di interessi, di aspettative, di ricettività.
L’essere-in-comune è una condizione complessa e difficile. In un certo senso implica la comunicazione come dimensione essenziale (ecco perché il linguaggio ne è inseparabile; si potrebbe anche dire che sia il linguaggio ad aprire l’in-comune; ma ci sono fin dall’inizio pluralità di lingue e diversità di significato) - e in altro modo implica la mutua estraneità degli individui e un’incomunicabilità essenziale (ad esempio, la traduzione tra lingue ne rivela la complessità). Ciò che si chiama «società» designa la necessità di fabbricare un modo di funzionamento che risponda all’«insocievole socievolezza». La società cerca di rispondere alla propria deiscenza interna. Tutte le società hanno tentato di farlo generando un’istanza di identificazione (dio, re, popolo, patria, clan, ecc.). Solo la società democratica moderna si è assunta il compito di identificarsi con la propria complessità. È un po’ come voler creare una lingua che contenga la diversità delle lingue (ma non esiste un meta-linguaggio).
Ecco perché è una sfida che non cessa di porre problemi e che dopo aver tentato di compiersi come «comunismo» (che sarebbe stata una sorta di meta-socialità) si converte al contrario in una crescente disparità di condizioni e nell’esplosione di egoismi e di ripiegamenti identitari. In un certo senso, forse gli uomini non sono mai stati così poco liberi come oggi: sono assoggettati alle loro estraneità, ai loro sfruttamenti ed esclusioni e alla limitata ristrettezza degli interessi. Invece, pensare alla società come un’associazione di uomini liberi significherebbe pensarla come lo spazio in cui ciascuno e tutti potrebbero accogliere - e condividere con gli altri - uno slancio che porti via le esistenze al di là di loro stesse, staccandole dalle loro necessità per condurle in uno spazio dove possano riconoscersi in una storia o in un destino, in una “destinerrance” come dice Derrida che le eccede tutte e così conferisce loro un senso.
Ma questo implica qualcosa di più dell’organizzazione socio-politica. Ciò implica un’eccedenza rispetto a ogni organizzazione, una an-archia testimoniata dalla non socialità o dalla asocialità dell’amore, dell’arte, ma forse anche, inevitabilmente, del crimine o della dissoluzione del legame sociale. La libertà supera la soggettività perché essa, d’altronde, è proprio ciò che viene al soggetto (sempre che si voglia utilizzare questo concetto), da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi. Essa è ciò che mi permette di non essere né causa né conseguenza in una relazione, ma semplicemente quell’inizio puntuale che nei termini di Kant inaugura una nuova serie di fenomeni ma che non vale per questa serie: che vale come inizio, origine immemorabile e insituabile.
Tale è la libertà di un gesto gratuito, di una linea gettata su un foglio o di un insieme di note suonate sulla tastiera, di una dichiarazione d’amore o di amicizia - dichiarazione non necessariamente verbale ma in atto - o di ogni sorta di decisioni di esistenza attraverso le quali incontri, scontri, situazioni mi portano dove non avrei mai pensato di andare, poiché in realtà non esisteva prima dell’incontro. Quello di cui sono il subjectum perché mi sta succedendo, ma non il soggetto che l’avrebbe fatto accadere. Essenzialmente la libertà ci libera dal soggetto, dall’assoggettamento al se-stesso e dai suoi limiti per esporci al sé-altro: non un altro sé ma l’alterità in me, tu in me o il cosmo in me o l’animale o il colore, il ritmo, l’aria che attraversa il flauto, l’impensabile e tutte le figure della libertà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FLS
L’avventura del contatto
Tempi presenti. «S/Oggetti di desiderio: Sexistence»: un’anticipazione della «lectio» che il filosofo francese terrà a Bari il 5 e il 6 maggio, al Festival delle donne e dei saperi di genere
di Jean-Luc Nancy (il manifesto, Alias, 30.04.2016)
Esiste l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».
In prossimità di soddisfazione
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» - niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di conservazione della specie (e/o del gruppo...) attraverso la generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.
Forse il sesso propone una cifra - se non la cifra - di tale rinnovamento del desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure non smette mai di volersi fare.
Un atto performativo
Cosa facciamo quando facciamo l’amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice, più o meno letteralmente, fare l’amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre qualcosa ; se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione (riporto l’espressione di Françoise Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che i figli non lasciano fare!»), non si tratta dell’amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente. Noi facciamo nel senso che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio atto, è un sentimento, una disposizione, l’eccitazione del rapporto al di là di se stesso, verso ciò che sembra destinato a rinnovarlo all’infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con cui concluderlo, senza però sapere in che senso vada preso quest’ultimo verbo.
Se non altro l’espressione indica un’effettività dell’amore che nessuna dichiarazione, nessuna dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai pretendere di raggiungere. Ecco perché, in un certo senso, non è impossibile fare l’amore in maniera diversa dal rapporto sessuale in senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino delle parole può avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una cosa, infatti, è certa: l’amore non può essere soltanto detto, il suo dire stesso dev’essere un fare. «Ti amo» è un atto performativo: fa ciò che dice. L’amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che «performa» il proprio limite.
Perché bisognerebbe parlarne? Semplicemente perché non c’è casualità nel gesto compiuto da Freud quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui tendevano già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non c’è casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi significati ciò che era stato così accuratamente e costantemente sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a dire ciò che poteva soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato nell’assunzione dell’amore divino.
La dissimulazione del sesso non faceva che portare avanti, con una modalità nuova proveniente dal contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di prescrizioni particolari, che si tratti dei culti rivolti agli organi genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù o delle clausole d’impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità, delle prostituzioni sacre oppure delle pratiche sessuali legate a certi esercizi spirituali - per limitarci ad alcune voci di un elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.
Se è vero che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la forma più propensa alla diffidenza e all’astinenza sessuali, evidentemente esiste un nesso con il motivo dell’amore così come è stato determinato dal cristianesimo. L’amore cristiano non si distingue soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall’eros in quanto desiderio di possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della spiritualità cattoliche, l’agapè - distinta in quanto affetto, diletto, cura (che diventa caritas) dell’altro - è stata spesso accostata per molti aspetti all’eros.
Carità e concupiscenza si oppongono, ma l’una non può essere completamente estranea all’altra, perché in un certo senso si deve pure amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che si ama. In realtà, carità e concupiscenza si attraggono a vicenda tanto quanto sembrano respingersi.
Il ritorno infinito
Se l’unico amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso di un genitivo soggettivo, cioè l’amore che viene da Dio e anche l’amore che costituisce l’essere Dio, allora questo amore rivolto all’intero creato, amore egli stesso creatore, relega nell’insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama qualsiasi creatura a entrare in quell’amore, a diventare amore. Così due tendenze profonde hanno governato e diviso il cristianesimo, riunendosi e dividendosi al suo interno: un’espansione infinita dell’eros e un’assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l’egida di una cura originaria.
Nell’ottica dell’infinito, l’esigenza eccede in maniera assoluta ogni possibilità di realizzazione, oppure non viene realizzata se non come l’atto divino da cui procede. Dio crea per amore e questo amore vuole tornare a sé all’infinito. L’amore diventa il nome di un ritorno infinito - all’origine, a sé, all’altro assoluto. Nell’ottica della totalità, il tutto va inteso non più come un ordine (un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come una scelta gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L’amore ordina che lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla). Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di restituire l’amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore ricevuto costituisce una specie di credito illimitato: l’amore rivendica se stesso ovunque, in tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo, un’economia totalitaria dell’amore, dietro la quale peraltro non è certo indifferente veder profilarsi un’economia del profitto. È a partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti al mondo moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza mai conosciute altrove. Esso è carico di tutta l’energia che nessun impeto divino può più assumersi e che quindi non raccolgono nemmeno più le macchine adibite alla produzione.
La vita in più
Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l’amore è un comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe troppo semplicistica, perché un figlio è un’altra esistenza più che un prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi dal limitarsi agli atti che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e dove finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e atteggiamenti. Esso attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato alla luce Freud, con il nome di «pulsione (Trieb) erotica», non è l’imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro inferiore della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso nuova e antichissima di ciò che ha aperto l’essere vivente a un sovrappiù di vita e l’essere vivente parlante a un’esclamazione ai confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il sesso apre l’esistente a un abisso e a una violenza che se non esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell’esistenza, quanto meno possiedono una caratteristica: ci conducono - in un groviglio di abisso e violenza - sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si limita a sfiorare al tempo stesso il doppio al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa «deiscenza», una sexistenza. (Traduzione italiana di Ida Porfido)
Si concluderà in grande la quinta edizione del Festival delle donne e dei saperi di genere, con le due lezioni di Jean-Luc Nancy del 5 e 6 maggio che andranno a coronare il percorso fitto di appuntamenti, tra filosofia, cinema, teatro e incontri, che ha preso avvio a Bari fin dalla metà di aprile.
Dedicata interamente al segno delle transizioni, quindi partendo dalla riflessione intorno alla soggettività nomadica, la cifra complessa del presente riesce a dipanarsi. Ne è convinta Francesca Recchia Luciani, organizzatrice e direttrice del festival e docente di Storia delle filosofie contemporanee a Bari; appartiene infatti al presente l’interrogazione sul corpo «e l’identità sessuale, i corpi migranti nella loro relazione con i luoghi, riguarda tutti i cambiamenti innestati nell’esistenza individuale dall’appartenere a un mondo relazionale e sociale in perenne metamorfosi».
Se nelle prime due edizioni il baricentro atteneva ai saperi e le pratiche delle donne, da tre anni a questa parte il festival ha cambiato non solo nome ma anche fisionomia. Una torsione che è apertura femminista al tema delle differenze.
Il rilievo scientifico ma anche politico non può dunque sfuggire quando si nominano le protagoniste delle precedenti edizioni, da Ipazia a Carla Lonzi, passando per Audre Lorde. Centralità di vite e portati politico-filosofici che assumono quest’anno l’idea di un punto di partenza per raccontare cosa esprima la «transizione» quando a essere interpellati sono corpi sessuati e in relazione.
Con una precisa intenzione di coinvolgimento del territorio, emerge allora una sinergia di forze e di pratiche capaci di attrarre non solo un pubblico di studenti ma più vasto che possa restituire narrazioni all’altezza di uno spaesamento che si fa sempre più pressante.
Il festival, promosso dal Centro interdipartimentale di studi sulla cultura di genere dell’università degli studi di Bari «Aldo Moro» e sostenuto dalla Regione Puglia, dall’università di Bari, da Apulia film commission e Teatro pubblico pugliese [mentre le lezioni di Nancy sono state sostenute da Fondazione Puglia e Alliance Française di Bari], viene largamente condiviso anche dal tessuto associazionistico e da molte e molti che con passione ci lavorano intorno, nonostante la variabilità dei fondi a disposizione ma con il saldo auspicio di un sempre maggiore impegno. Questo perché la formula adottata in direzione di una trasversalità dei linguaggi può rappresentare un antidoto alle chiusure disciplinari e al contempo un metodo efficace di ricognizione esperienziale.
Il sito che riguarda l’iniziativa è www.festivaldonnesaperidigenere.it. Mentre nel sito della rivista di pratiche filosofiche e scienze umane «Postfilosofie» (http://www.postfilosofie.it), si possono leggere gratuitamente i materiali dei festival precedenti, come quelli relativi agli Atti di questa edizione di prossima pubblicazione. (alessandra pigliaru)
Jean-Luc Nancy, un’intimità profonda e appassionata
di Francesca Romana Recchia Luciani (il manifesto, 1.12.2016)
Questa postfazione a Del sesso di Jean-Luc Nancy non intende essere un commento né tantomeno una spiegazione, una definizione ostensiva, una delucidazione interpretativa o un appunto ermeneutico, quanto piuttosto quel peritesto che guadagna dalla distanza ravvicinata col testo del filosofo la sua ragion d’essere e il suo significato comunicativo e che, nel situarsi stabilmente alla periferia del cuore del testo, reagisce a e interagisce con esso. La sua paratestualità di scritto allografo sta nella relazione col contenuto autografo non come mero contorno o pura zona limitrofa ma con l’ambizione di stabilire con quello uno stretto legame di senso, di rivelare la traccia di un’intimità profonda e appassionata che assomiglia a quella che si stabilisce nel rapporto amoroso e/o sessuale.
NOTA A MARGINE che, da questa provocata ed eccitata, ambisce a irretire e circuire la scrittura che la precede, ad aprirla, a penetrarla, osando impadronirsene senza mai possederla. Tre testi quelli di Nancy - Il ‘c’è’ del rapporto sessuale-e poi, con la relativa appendice Esclamazioni; Corpo nudo; Sexistence -, che affrontano senza timori né reticenze un aspetto ineludibile della natura relazionale degli umani la cui posta in gioco è la loro corporeità e l’incontro sessuale che mette i corpi in connessione creando legami orizzontali, nessi affettivi, interdipendenze.
Tre scritti in cui il pensiero e la scrittura attraversano spavaldamente quel crocevia dove il corpo (si) fa sesso e il sesso prende corpo, la cui prima ambizione non è la descrizione/spiegazione né la comprensione analitica di quel che accade (o men che meno psicoanalitica, intorno alla quale si può sempre continuare a interpellare Freud o Lacan o Irigaray, per citarne tre soltanto tra innumerevoli) ma l’intrattenimento sapiente del pensiero su quell’accadere. Essi prorompono da quell’incantato gioco linguistico che la filosofia intraprende da sempre e in ogni luogo e che sgorga dal thaumazein platonico-aristotelico, cioè dalla sgomenta meraviglia dinanzi alle cose del mondo, originando l’intreccio tra phileîn (amare) e sophía (sapienza) che nello spazio argomentativo che si apre qui intorno al sesso, in quanto attività umana elettiva, giunge a rivelare un’inconfessata e intima affinità tra eros e logos.
I TRE SAGGI contenuti in questa raccolta fanno l’amore con il sesso e l’erotismo al punto che parafrasando Platone («La filosofia, oggetto del mio amore», Gorgia) si può dire che qui eros non è tanto il soggetto di studio della filosofia di Jean-Luc Nancy quanto il suo oggetto amoroso. Cos’è questa filosofia che ama l’amore? È l’esercizio di un «pensiero amante», come egli stesso lo definisce (Sull’amore, Bollati Boringhieri).
Eros, infatti, campeggia già da tempo nell’orizzonte di senso di Nancy, che vi ha dedicato un certo numero di circoscritte riflessioni e molte generose digressioni in libri e conferenze, ma in questa raccolta il suo sguardo e la sua attenzione nei confronti dell’amore erotico e del sesso giungono al punto di fusione investendo il proprio oggetto con un’azione di decostruzione/estensione del senso che, penetrandone la natura con le armi del pensiero, mette a fuoco il modo in cui l’immensa potenza che il sesso reca in sé e con sé agisce su di noi.
L’erotica che ne emerge si dipana attraverso questi testi seguendo direzioni eccentriche a partire dalle quali l’agire sessuale viene interrogato senza pretese onnicomprensive, ma piuttosto scandagliato mettendone a fuoco taluni suoi tratti caratterizzanti, ponendo cioè sotto la lente d’ingrandimento certe particolari pieghe di senso che si offrono all’approfondimento aprendo sempre ulteriori interrogativi e nuovi sentieri di ricerca.
NELLA «METAFISICA dell’amore sessuale» (intesa non come trascendimento ma come intensificazione della fisica da cui proviene) che Nancy presenta in questa trilogia di testi non c’è traccia dello stigma schopenhaueriano che condanna l’eros all’eterna dannazione della monotona riproducibilità seriale di esemplari della specie umana, perché non il fatto biologico della generazione col suo côté produttivistico-poietico («Fare l’amore fa altro rispetto al fare un figlio, anche quando lo fa») è qui l’interrogante quanto piuttosto la constatazione che «il sesso è un abisso e una violenza: tramite la seconda, che subiamo, cadiamo nel primo, dove non capiamo nulla». Semmai qui riecheggia l’esclamazione stupita e dischiudente di Kant che, scorgendo quell’«abisso» e quella «violenza», si ritrae dinanzi alle spiegazioni possibili ma tutte ugualmente inadeguate, alle quali Nancy contrappone la necessità, né esplicativa né analitica, ma coerentemente filosofica di «pensare il sesso con il valore di un esistenziale - di una disposizione inerente all’esercizio stesso dell’esistere». Se, come Nancy scrive in Corpus (Cronopio) «l’amore è il tocco dell’aperto», fare l’amore è un posizionarsi inconsapevole, un collocarsi instabilmente «sul bordo di un ‘fare’ che fondamentalmente non fa che toccare il duplice al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa deiscenza, una sexistence».
DEISCENZA qui è un’apertura spontanea, uno schiudersi, per dirla con un precedente Nancy, una «dischiusura» (déclosion): «Lo schiudersi del mondo deve essere pensato nella sua radicalità lo schiudersi dello schiudersi stesso e lo spaziamento dello spazio stesso . La dischiusura conferisce allo schiudersi un carattere che lo rende simile all’esplosione, e lo spaziamento sconfina nella conflagrazione» (La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo Cronopio). Tale deiscenza come sexistence ci espone ogni volta, ripetutamente alla violenza e all’abisso dell’intimità con l’altro/a che può darsi solo e soltanto nel «mondo dei corpi» che «è il mondo non-impenetrabile nel quale sono i corpi ad articolare lo spazio» (Corpus) esponendosi l’uno all’altro e rivelandosi reciprocamente attraverso la sola possibilità di conoscersi che ci è data dalla nostra condizione di corpi singoli e contigui: «gli altri li saprò sempre come corpi. Un altro è un corpo, perché solo un corpo è un altro» (Corpus).
Le Beatitudini: Beati i puri di cuore
“Avere il cuore puro, è vedere l’altro
in quanto altro”
intervista a Jean-Luc Nancy,
a cura di Élodie Maurot
“La Croix” del 23 luglio 2010
(traduzione: www.finesettimana.org)
Come risuona per lei, di primo acchito, il testo delle Beatitudini?
Non è un testo che ho l’abitudine di frequentare. Diciamo che lo intendo innanzitutto come una promessa di felicità, ma che contiene sempre il rischio di essere una falsa promessa. È certamente il testo biblico per il quale mi pongo subito in una prospettiva critica e diffidente, perché le Beatitudini hanno tutte quelle caratteristiche della parola che dà sollievo, che smussa gli angoli, che cancella gli ostacoli. Concentrano, a mio avviso, quanto c’è di più difficile e di cui sospettare nel messaggio cristiano. Vi si reperisce troppo facilmente una “buona volontà”, piena di buone intenzioni, che resta lontano da ciò che con Kant si può definire una “volontà buona”. Le Beatitudini ci mettono sempre davanti ad un dilemma: o si tratta di un pacchetto di buone intenzioni dolciastre, addirittura sdolcinate, che cercano di sedurre i lettori e gli ascoltatori con una sorta di assopimento della loro vigilanza, come un oppio dei popoli particolarmente potente, oppure si tratta di qualcosa di radicalmente diverso...
Lei ha lavorato molto sul linguaggio. È sensibile alla forma di questo testo?
La grande caratteristica del Vangelo è di essere un libro religioso che non contiene molta dottrina. Un libro in cui la “dottrina” è interamente offerta con parole pronunciate in certe situazioni. Le Beatitudini portano questo paradosso al culmine. Siamo all’acme del racconto evangelico, nel momento in cui ci si potrebbe attendere uno sviluppo dottrinale, invece, appunto, la dottrina non arriva. E Cristo pronuncia le Beatitudini. Ciò mi fa pensare a Nietzsche che dice: “Se Cristo fosse vissuto più a lungo, avrebbe abolito la sua dottrina.” Nietzsche manifesta in questo la sua profonda comprensione del cristianesimo. Ha capito molto bene che il cuore del cristianesimo non consisteva in una dottrina, ma in una vita. Questo nocciolo duro, etico se si vuole (se questa parola non è troppo consumata), non si lascia assorbire dai montaggi teorici, teologici o ecclesiastici. È un nocciolo molto resistente, mentre la forma che assume è apparentemente fragile, narrativa, invece di essere dottrinale, e il suo contenuto si situa interamente nella dolcezza.
Questo permette di intendere in modo diverso questo testo, di cui lei sottolineava ora l’ambivalenza?
Le Beatitudini, tutte insieme, sono l’amore. E l’amore cristiano, è un paradosso completo. È l’impossibile per eccellenza e, al contempo, come dice Freud, è la sola risposta che sia all’altezza della violenza umana. Freud scrive questo subito dopo la Prima Guerra mondiale, quando la violenza si era scatenata sotto i suoi occhi. Lì sta tutto il paradosso: è una risposta impraticabile e, al contempo, solo quello resiste! Le Beatitudini pongono il problema dell’amore cristiano e l’amore pone subito il problema del suo carattere “felice”.
Come intende lei questo “beati”, “felici”, che scandisce le Beatitudini?
Il “felici” o “beati” del Vangelo risuona in una società in stato di profondo disorientamento. Il mondo nel quale nasce il cristianesimo è un mondo che crolla, che perde le sue sicurezze, che perde di senso, che viene messo di fronte ad una perdita generale dei suoi punti di riferimento. Uno storico dell’antichità, che Freud cita nel suo Mosè, scrive a proposito di quell’epoca: “Sembra che una gran malinconia si sia impossessata in tutti i popoli del Mediterraneo.” Questa frase, così sorprendente per uno storico, dice una grande verità. Il mondo politeista che scompare è infatti un mondo nel quale gli dei, anche quelli cattivi, anche quelli minacciosi, erano presenti dappertutto. Era un mondo nel quale ci si poteva ritrovare, orientare. Invece, il tempo della Roma imperiale è un tempo di grande angoscia e di grande abbandono. Lo stoicismo e l’epicureismo che si sviluppano a quell’epoca sono del resto dei tentativi di rispondere a quel disorientamento. Stoici ed epicurei sono dei tormentati che cercano di sviluppare tutta una serie di esercizi per preservarsi da quel disorientamento, pur rassegnandovisi.
Qual è la felicità proposta qui?
Il “beati” del Vangelo non vuole tanto dare felicità o soddisfazione, quanto indicare una via per uscire dall’angoscia. Le Beatitudini non designano felicità, ma un atteggiamento, una disposizione generale della vita umana che sfugge al contempo all’angoscia e alla rassegnazione.
Non è una risposta che assume la forma di consigli morali...
Infatti, è un pronunciamento, un po’ ritmico. È un’arringa, ma non solo. È piuttosto un’esclamazione e quindi una celebrazione. “Beato” significa qui “glorioso”, “in gloria”. È quasi come dire “santo”... Le Beatitudini “mettono in gloria” coloro ai quali esse sono rivolte. Sono una celebrazione di coloro che sono nelle disposizioni descritte. Non sono dei consigli o delle indicazioni di comportamento dedotte da principi, ma è l’affermazione che “è così”. È molto interessante che non si sia nell’ambito dell’esortazione morale. Cristo celebra qualche cosa e sta a colui che ascolta trarne profitto. Le Beatitudini non sono legate ad alcun processo, al alcun comportamento veramente prescritto. Dicono piuttosto: c’è “qualche cosa” in voi, “qualche cosa” che voi siete e che deve essere celebrato: questo “qualche cosa”, è il Regno, è l’uscita dalla concatenazione dei mezzi e dei fini, dei possessi e delle dominazioni. Come nella parabola dei gigli dei campi.
“Beati i puri di cuore” dice una delle Beatitudini: che cosa significa per lei?
Il termine greco, tradotto qui con “puro”, rinvia all’aggettivo “limpido”. Come si dice dell’acqua, che è pura o limpida. Mette l’accento sulla trasparenza. Il testo greco dice del resto non “i cuori puri”, ma “i puri di cuore”. Essere puri “di cuore” rinvia ad un altro modo di essere puri “di corpo”. Questa differenza colpisce immediatamente, sapendo l’importanza delle purificazioni e dei riti associati alla purezza nelle religioni antiche e nell’ebraismo. Bisogna collegare questa Beatitudine a tutta la tradizione profetica che critica i riti e considera che la purificazione dei corpi è insufficiente. Celebrare il “cuore puro” crea una differenza rispetto all’osservanza rituale.
Che legame vede tra essere un “cuore puro” e “vedere Dio”?
Nelle religioni antiche, la purificazione ha la funzione di liberare l’uomo dagli elementi profani per permettergli di accedere al sacro. È il primo gesto per fare un passo nello spazio sacro. Ora, qui, la possibilità di vedere Dio non è legata al permesso di accedere all’ordine del sacro, del separato, del proibito. Questa Beatitudine dice che Dio non è dell’ordine del sacro, non si situa “dall’altra parte” di un confine che bisognerebbe superare grazie al rito. Colui che ha il cuore puro è colui che può, grazie alla limpidezza del suo cuore, vedere Dio.
Come se Dio fosse già presente, ma non ancora riconosciuto?
Quando il cuore è purificato, vede Dio. Si potrebbe dire che la purificazione del cuore fa vedere, di per se stessa. Non fa vedere qualche cosa che era nascosto, ma qualcosa che prima non si vedeva. È molto diverso. Non siamo qui in uno sviluppo cultuale. La purificazione del cuore produce senso di per se stessa. Non è il mezzo per accedere ad altro, ma un modo per vedere in modo diverso. È un’apertura all’interno del “mondo”. Il cuore puro è forse “Dio” stesso.
In che cosa consiste secondo lei la purificazione?
Le Beatitudini fanno risuonare negativamente la grandezza, la potenza, la ricchezza, la violenza del mondo... La purificazione del cuore è la purificazione di tutte le pesantezze, di tutti i domini e, al limite, di tutti i significati del mondo... Il “cuore puro” è colui che si tiene a distanza da tutta la macchina del mondo, il che non significa che si tenga al “di fuori” del mondo. Neppure è attirato dalla ricompensa massima che potrebbe consistere in questo “vedere Dio”, come una forma di partecipazione al potere o al dominio legata al desiderio di essere ammessi presso Dio. Non si è “felici” per una ricompensa, il che resterebbe dell’ordine del “mondo”, ma si è “felici” di non essere rinchiusi “dentro”. Senza dubbio per comprendere che cos’è un “cuore puro” bisogna tornare all’amore, che consiste nel vedere l’altro come altro. Si tratta proprio di vedere, cioè di essere nel rapporto, senza nulla che si possa afferrare. Non si “vede” un oggetto, si “vede” un’apertura, un’evasione verso l’altro. Che cosa chiede l’amore se non una purificazione del cuore? Una purificazione delle mie attese affinché io possa vedere l’altro come altro. È veramente attraverso il cristianesimo che l’amore diventa questo riconoscimento dell’assolutezza integrale della persona. L’amore rinvia a ciò che noi non possiamo assolutamente afferrare. Forse è questo, “vedere Dio”. Non vedere un essere dietro gli altri esseri, ma vedere che ogni essere è assoluto, incommensurabile.
E ora il filosofo vuol «smontare» la fede
Un nichilismo sconcertante: «Non torniamo allo spirito del cristianesimo, anzi rifiutiamo il ritorno del sacro»
DA PARIGI DANIELE Z APPALÀ (Avvenire, 23.06.2010)
« P enso che la missione del prossimo secolo sarà di reintegrare gli dei», sosteneva negli anni Cinquanta il più celebre e carismatico ministro della Cultura che la Francia ricordi: André Malraux, ufficialmente non credente ma sensibile alle ragioni della trascendenza. E da allora, l’espressione «il XXI secolo sarà religioso o non sarà», ripresa e sviluppata in diverse occasioni dal talentuoso scrittore, è divenuta una sorta di proverbio popolare che trotta nelle teste dei francesi.
Da qualche anno, nel perimetro del mondo intellettuale, la vecchia «profezia» di Malraux non desta più gli sberleffi degli scettici. Di sorpresa in sorpresa, nel Paese statisticamente più ateo della vecchia Europa occidentale, si è assistito a casi editoriali come Dio, un itinerario (2002) del filosofo Régis Debray, ex marxista, ma anche alla clamorosa pubblicazione degli «inediti religiosi« di Jacques Lacan (2005), o ancora alle inattese «svolte verso il sacro» delle concezioni di altri intellettuali ammirati come l’antropologo culturale Maurice Godelier. Al contempo, spesso in reazione a questa tendenza, è riemersa una letteratura di stampo fortemente anticristiano, talora smaccatamente faziosa ma a suo modo anch’essa partecipe della nuova partita culturale sempre più evidente attorno alla spiritualità.
L’ultima opera del noto filosofo Jean-Luc Nancy - che partecipa oggi al convegno dedicato alla sua opera filosofica dall’Università Roma Tre - non sembra sfuggire al «teorema di Malraux», ma in chiave negativa: cioè, distinguendosi per un’esplosione di virulenza che ha seminato sconcerto. Tanto più se si considera la tradizionale sensibilità dell’autore verso il fatto religioso e persino il suo sodalizio ancora recente con editori di area cattolica. In L’Adorazione (Galilée), l’ex complice di Jacques Derrida esplicita niente meno il proposito di «decostruire il cristianesimo». Fin dal primo capitolo, con tono perentorio e a tratti quasi marziale, l’autore lancia una definizione «chiave», ma già dall’aria stramba: «L’adorazione s’indirizza a se stessa. L’adorazione consiste nel tenersi al nulla - né ragione, né origine - dell’apertura». È però soprattutto l’incipit del capitolo seguente a far comprendere il sapore di tutto il resto del volume: «Perché parlare del cristianesimo? Vorrei in realtà parlarne il meno possibile. Desidero avanzare verso una cancellazione di questo nome e di tutto il corpo di riferimenti che lo segue, corpo già largamente cancellato o devitalizzato. Ma tengo a seguire il movimento più preciso che questo nome avrà ricoperto: il movimento di un’uscita dalla religione e dell’espansione di un mondo ateo».
L’accademico settantenne ormai in pensione, con all’attivo anche opere autobiografiche sulla propria condizione di ex paziente trapiantato, mostra che in un centinaio scarso di pagine dall’andamento vieppiù allucinato è possibile pure lanciare molti strali. Esibito senza pudori, il nichilismo dell’autore prende a tratti un rilievo sconcertante: «Non occorre far ritorno allo spirito del cristianesimo, né allo spirito dell’Europa o dell’Occidente.
Occorre al contrario, rifiutando ogni sorta di ’ritorno’, e più di ogni cosa ’il ritorno del religioso’ che è la più pesante delle minacce, avanzare ancora verso ciò che costituisce l’invenzione di questa civiltà ormai globalizzata, forse perduta, forse agli sgoccioli della corsa ma forse anche capace di un’altra avventura. E quest’invenzione è quella di un mondo senza Dio - senza sicurezze di senso - ma senza desiderio della morte». Qualche pagina dopo, Nancy cerca di rigirare ancora la strana frittata: «Non c’è neppure ’ateismo’; ’ateo’ non basta! È dal principio che la posizione dev’essere svuotata. Non basta dire che Dio si assenta, si ritira, oppure è incommensurabile. Si tratta ancor meno di piazzare un altro principio sul suo trono, Uomo, Ragione, Società. Occorre prendere di petto proprio questo: il mondo non poggia su nulla e sta qui il suo senso più vivo».
All’improvviso, come in una sorta di flipper guasto, l’argomentazione prende carambole indecifrabili: «Diciamolo in una parola: il ’dio’ dei cristiani è ateo», lancia persino Nancy, che più in là tiene a rivelare pure la propria definizione dell’antisemitismo: «Azzardo l’ipotesi seguente: si tratta dell’odio verso gli ebrei sviluppato dai cristiani per i quali i primi rappresentano il mantenimento della distinzione dei regni, laddove le Chiese cattolica, protestante e ortodossa non cessano di rinunciarvi». I regni in questione sono quello spirituale e temporale.
La deriva non cessa e l’autore lascia vieppiù l’impressione di saltare di palo in frasca per mescolare un po’ di tutto dentro lo stesso shaker: storia delle religioni, relazioni fra le religioni, rapporto fra realtà vissuta e letteratura, varie proposte anche stravaganti legate alla tradizione terminologica cristiana. Solo un esempio: «Dio potrebbe essere il nome che, come nome proprio, nomina l’innominabile e, come nome comune, designa la divisione dies/nox, giorno e notte, apertura del ritmo del mondo, della possibilità delle distinzioni in generale, e dunque anche dei rapporti e dei passaggi».
Per Nancy, «decostruire il cristianesimo vuol dire: aprire la ragione alla propria ragione stessa, anzi alla propria sragione». Ma in realtà il lettore si chiede presto se non sia proprio l’autore a sragionare, pronto com’è ad esempio a «trasporre» a propria immagine e somiglianza, e a briglie sciolte, persino un celebre e splendido passaggio di Kant dedicato a Dio. In effetti lo si era già sospettato qualche anno fa, soprattutto dopo il caso del Trattato di ateologia di Michel Onfray. È anche con crescenti convulsioni e vaneggiamenti che potrebbe continuare a manifestarsi in futuro il «teorema di Malraux».
Ripartendo da Hegel e Rousseau
Il filosofo francese delinea un rapporto inedito tra sfera pubblica e sentimenti personali.
Amore e destino le nuove parole della politica
Tramonta il modello «ricchezza e successo»
di Jean-Luc Nancy (Corriere della Sera, 2.10.2008
È comprensibile che oggi ci s’inquieti per il possibile destino dell’amore - così come ci si può inquietare per il destino della politica o anche per quello della scienza. Ma può darsi che - per l’amore come per la politica o la scienza (come per l’arte, la filosofia, la religione) - gravi su queste inquietudini una pesante ipoteca: se supponiamo che ciascuna di queste parole sottintenda un concetto intoccabile e intangibile, di cui potremmo dare le coordinate logico-semantiche, allora non c’è alcun dubbio che l’«amore» sia in pericolo, come lo è anche la politica. Ma niente ci porta a dire che possiamo o dobbiamo credere al valore perenne di queste nozioni.
Non è impossibile comprendere ciò che lega la politica all’amore, in maniera inapparente ma incontestabile. L’intera nostra tradizione parla a questo proposito un linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l’amore (che sia sotto la forma del legame familiare, come per Hegel, sotto quella del contratto come consenso, con Rousseau, sotto quella dell’amicizia connessa alla sovranità, con Carl Schmitt) ma dall’altra parte si afferma anche che l’amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente, né come modello nella sfera pubblica.
Tuttavia, accade che oggi la mutazione profonda della politica - ossia il fatto che essa debba rinunciare a realizzare l’assunzione di un destino collettivo ma ben piuttosto subordinarsi alle sfere non politiche in cui si gioca ciò che merita propriamente il nome di «destino» (destinazione, fine ultima...) - questa mutazione, dunque, libera in conclusione un nuovo spazio per l’amore: né principio supposto di un’alleanza comunitaria, né pura elezione privata sottratta all’intera posta in gioco comune, l’amore potrebbe d’ora in avanti trovare un modo nuovo di affilare il suo proprio carattere (tutto ciò che gira attorno al matrimonio e alle forme connesse che s’inventano attorno ad esso e in parte contro di esso è forse rivelatore di una possibilità importante di trasformazione dei rapporti tra l’amore e la sfera pubblica o sociale).
Più ancora di Freud e del suo tempo, noi abbiamo compreso che la violenza non soltanto può diventare ben più mostruosa di quella delle trincee, delle mitragliatrici e dei gas, non soltanto può propagare e disperdere le proprie piaghe ben al di là del teatro dei combattimenti, fino al cuore di ogni vita, ma ancor più può diventare violenza inerente all’ordine o al disordine sociale, economico, culturale, violenza ideologica, finanziaria, tecnica, amministrativa, ecologica... Non è più un «disagio della civiltà » quello al quale noi assistiamo, è la civilizzazione stessa come disagio e come barbarie nel senso preciso di un’impresa di conquista e di espansione privata di veri scopi, presa dalla sola vertigine di un’accumulazione di ricchezza e di performance che non designano alcun altro orizzonte al di fuori della loro stessa espansione indefinita.
L’amore nel suo concetto moderno - vale a dire cristiano, romantico e metafisico - rappresenta il rovescio (o il dritto...) di una tale espansione, salvo a qualificarla d’infinito e non d’indefinito. Se il principio moderno in generale - il principio sotto l’effetto del quale si è dissolto il principio di tutte le altre culture, che era sempre, sotto l’uno o l’altro modo, un principio di determinazione e di finitudine - è proprio il principio d’infinitudine, allora il suo dispiegamento esige la proiezione di una fine infinita. Una fine infinita rivela una contraddizione se la fine deve mettere un termine all’infinito. Ma bisogna distinguere con Hegel il cattivo e il buon infinito. Il cattivo è quello in cui l’infinità è in potenza: è sempre suscettibile di essere portata più lontano e «l’infinitamente più» è così esteriore a se stesso. Il buon infinito è quello in cui l’infinità è in atto (vale a dire che è solo reale): il suo «infinitamente più» è sempre già effettivamente in sé, ma così la sua interiorità è strutturalmente in eccesso su di sé.
L’espansione indefinita - o semplicemente esteriore - dei fini dell’arricchimento e della performance forma la fine infinita secondo il cattivo infinito. È la fine infinita secondo la quale la fine, lo scopo, il compimento, non consiste che nella produzione rinnovata di valori o sensi sempre equivalenti tra loro: tanto per il denaro come per i valori tecnici misurati in velocità, distanza, forza eccetera (al contrario, ricchezza o performance possono essere misurate in tutt’altra maniera: nella dismisura di una gloria, di un’opera, di un pensiero...).
L’amore è il nome della fine infinita secondo il buon infinito. In esso il compimento consiste non in una produzione ma in qualche modo nella riproduzione, nella ripetizione, ossia nella ruminatio di un’incommensurabile: l’amore, precisamente, come assegnazione (attribuzione, attestazione, dichiarazione, creazione: bisognerebbe analizzare tutti questi modi) di un valore assoluto - nemmeno «valente», in qualche modo, o valente di non essere valutabile. Questa semplice constatazione ci permette anche di affermare qualcosa di molto semplice ma di una grande importanza: il solo fatto che siamo in apprensione per l’amore, che non cessiamo di cercarlo nella vita e d’interrogarlo nel pensiero, comprendendoci e, assieme e allo stesso tempo, fraintendendoci su ciò che abbiamo così di mira, questo solo fatto ci assicura che l’«amore» c’inquieta, che ci tiene in allerta e che è una scommessa - non oserei dire «di civilizzazione», tanto l’espressione è già usata fino ad essere uno slogan politico, ma direi in maniera più barbara «esistenziale » e/o «ontologica» (a meno che non si preferisca «metafisica», questo m’importa poco).
Mettiamo dunque la nostra cura al lavoro: amiamo la nostra stessa inquietudine d’amore riguardo all’amore. Cerchiamo di avere per l’amore un pensiero slegato, esigente, che ami il suo oggetto e che gli porti tutta la stima di cui è capace: un pensiero amante. Con questo voglio dire: non un pensiero che si lascia captare da tutto ciò che pretendono dirci dell’amore in forma sociologica, psicologica o culturale.
JEAN-LUC NANCY parlerà stasera a «Torino spiritualità» sulla necessità di ripensare l’amore per poter rifondare il legame tra gli individui e la comunità. Perché, ci dice, nessun uomo è un’isola: persino il nostro corpo è un corpo «collettivo»
Jean-Luc Nancy : «Filosofia è felicità senza desideri»
Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 1940) è professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida è considerato il maggior esponente del «decostruzionismo». Tra i suoi libri pubblicati in Italia ricordiamo Le differenze parallele. Deleuze e Derrida (Ombre Corte) ed Ego Sum (Bompiani), entrambi usciti quest’anno; Il giusto e l’ingiusto (Feltrinelli, 2007); La creazione del mondo o la mondializzazione (Einaudi 2003).
di Silvio Bernelli (l’Unità ,24.09.2008)
Filosofo tra i più importanti degli ultimi anni, il francese Jean-Luc Nancy si è interessato, nel corso della sua lunga e sfaccettata opera, a temi di grande interesse anche per coloro che di filosofia non sanno nulla: i legami che tengono insieme le comunità umane, l’immagine nell’arte, persino il sesso nella sua accezione più libera. Un pensatore curioso, insomma, molto noto anche in Italia, visto che qui i suoi libri sono stati pubblicati da diversi editori, tra i quali Bollati Boringhieri, Cronopio, Einaudi e SE. Non a caso Torino Spiritualità, il «festival delle coscienze» che va in scena nel capoluogo piemontese da oggi fino a domenica 28, lo ha invitato per uno degli incontri di apertura. Quasi settantenne, in forma perfetta, Jean-Luc Nancy si presenta all’intervista mattutina in camicia, maglioncino girocollo, pantaloni, calze e scarpe dello stesso identico nero. Il sorriso e lo sguardo che lampeggia attraverso le lenti degli occhiali però sono assai luminosi.
La comunità non è un rapporto astratto, o immateriale, è un essere in comune, un essere insieme», scriveva in «La comunità inoperosa», un libro del 1986. L’arrivo di immigrati provenienti da ogni parte del mondo nelle città europee ha cambiato questa idea di comunità?
«In Europa non esiste una vera idea condivisa di comunità, tanto meno di comunità europea. Non c’è un’identità europea, ma tante identità diverse: quella francese, quella tedesca, quella italiana... Ciascuna di queste identità è composta da tante diverse identità; nel caso di quella italiana, da quella siciliana, da quella veneta eccetera. L’arrivo degli immigrati non ha cambiato la pluralità di identità presenti nella società europea, al contrario, l’ha confermata».
Il corpo dell’uomo è da sempre al centro dei suoi interessi. Cosa pensa dei corpi di oggi, spesso alterati dalla chirurgia estetica o da protesi sempre più rivoluzionarie?
«Il nostro corpo è cambiato in un modo positivo e interessante e in un altro modo, più pericoloso. Il cambiamento positivo è dato dal fatto che protesi e trapianti hanno dato al corpo una nuova caratteristica, quella di essere condiviso. Oggi il corpo è costituito da altri corpi. Io stesso ho subìto un trapianto di cuore, e questo nuovo cuore mi è stato donato da un’altra persona. E poi ho una protesi d’anca in titanio. Il corpo di oggi quindi è anche una condivisione con le persone che hanno creato tutti questi marchingegni. Il cambiamento del corpo più pericoloso invece è la nascita di un corpo medico, un corpo fisico-organico da curare a ogni costo, come è nella missione della medicina, che è prolungare la vita qualunque essa sia. Questo atteggiamento porta a misurare la vita come quantità e non come qualità. E questo è profondamente sbagliato. Non bisogna tenere in vita le persone al di là dei naturali confini della vita. Non bisogna soffrire né far soffrire inutilmente».
Al suo trapianto di cuore lei ha dedicato il libro «L’intruso». Il trapianto è un’esperienza che le ha certamente lasciato più di una cicatrice, e non solo metaforica. A proposito delle cicatrici, il romanziere americano Cormac McCarthy scrive: “le cicatrici sono la prova che il nostro passato è esistito davvero”. È così anche per lei?
«Quando penso alle mie cicatrici, penso non tanto al passato, quanto al fatto che la cicatrice sia un’iscrizione, una traccia della relazione del corpo con il mondo esterno. È un modo per dire che il passato vive nel presente e anche nel futuro. La cicatrice è un segno, un apertura nella pelle che, anche se si è rimarginata, non è mai chiusa completamente, dà sempre la sensazione che un domani possa venire riaperta».
È il suo interesse per i corpi, per una filosofia che ad ogni costo vuole confrontarsi con la vita vera, che l’ha spinta a scrivere Il c’è del rapporto sessuale, un saggio sul rapporto sessuale?
«La sessualità è il rapporto per eccellenza, è il rapporto dei rapporti. Ha un potenziale fortissimo per cementare i legami tra le persone. Ed è la natura affettiva del legame che unisce gli esseri umani tra di loro, all’interno della famiglia o della società. Non si può comprendere la società di oggi senza comprendere l’importanza della relazione sessuale».
In «La rappresentazione interdetta», uno dei «Tre saggi sull’immagine», lei sottolinea come il nazismo abbia coltivato la rappresentazione, la messa in scena di simboli e masse militari e non, sotto ogni suo aspetto. Non è quello che stanno facendo da una ventina di anni a questa parte attraverso i mass media anche i governi delle democrazie occidentali?
«Attraverso i mass media la democrazia trasmette e si riflette in una molteplicità di immagini tra le quali non riesce a scegliere quella in cui identificarsi. Campioni dello sport, gli oggetti che ci circondano dai televisori ai telefonini, lusso. Cose tra cui è difficile scegliere l’immagine preponderante, che trasmette quella che chiamerei un’idea vaga di comfort, di benessere. La società democratica si nutre di questa sua rappresentazione e in questo senso si chiude su se stessa allo stesso modo di una società totalitaria. Ma il problema della democrazia oggi è che, al contrario della dittatura, non sa immaginare nulla oltre la propria rappresentazione. Oltre l’immagine c’è solo il vuoto».
Questa sera avrà un incontro con il pubblico di Torino Spiritualità. Può dare un’anticipazione del suo intervento ai nostri lettori?
«Parlerò della crisi dell’amore. È una condizione legata al concetto di libertà sessuale e all’idea di mercificazione del sesso tipica dell’età moderna. È entrata in crisi anche l’idea di matrimonio che è stata concepita fino adesso, non a caso i divorzi si moltiplicano. La società che è sempre più individualista è arrivata a un punto di rottura su certi argomenti. Stasera dirò che l’amore va ripensato. Le vecchie idee sul matrimonio e sulla fedeltà stanno strette alla nostra società e noi oggi forse stiamo cercando nuovi modi di vivere l’amore. I giovani ad esempio lo vivono in modo più distaccato e con una consapevolezza sessuale che noi non avevamo. Una volta il primo amore doveva essere quello definitivo. Io anche ho sposato la prima donna di cui mi sono innamorato, ma poi (e qui Nancy ridacchia,ndr) le cose non hanno affatto funzionato».
Tema di questa edizione di Torino Spiritualità è la speranza. Qual è la sua?
«Ne ho due. Una personale, che so completamente irrealizzabile, che è quella di vedere come sarà tra un secolo il mondo completamente “cinesizzato”. L’altra speranza invece, che auguro a tutti di avere, è di morire senza più desideri, visto che tutti gli obiettivi che si volevano raggiungere nella vita sono stati raggiunti. In fondo, non è una speranza da poco, non le sembra?»
RASSEGNE
Con Jean-Luc Nancy si apre domani «Torino Spiritualità» *
La lectio magistralis di Jean-Luc Nancy sul «Tramonto dell’amore» e la tavola rotonda intorno al progetto interreligioso promosso da Raimon Panikkar (con la partecipazione di Kala Acharia, Francois Xavier D’sa, Jiso Forzani, Mohammad Haddad, Alan Lew) sono i momenti più importanti della prima giornata di «Torino Spiritualità», che si apre domani pomeriggio alle 18 al Cortile di Palazzo Carignano con un dialogo fra Eugenio Scalfari, Walter Barberis e Alessandro Baricco intorno al tema «Speranza senza fede».
Fra gli altri partecipanti delle cinque giornate della rassegna torinese, il brasiliano Leonardo Boff, uno dei maggiori esponenti della «teologia della Liberazione» (nella foto a sinistra), lo scrittore albanese Ismail Kadaré, il sociologo francese Gilles Lipovetsky. Il programma completo si trova nel sito www.torinospiritualita.org.
* il manifesto, 23.09.2008
Caro Antoine
non continuare a "ragliare" alla grande - da solo, nella "foresta". E, se vuoi, cerca anche di uscire dal "circo" in cui sei stato rinchiuso!!! Leggi prima di tutto e poi cerca di capire di cosa si parla!!! Cerca di accedere al Nome, alla Parola, alla Lingua e parla!!! Come vedi (e come puoi ben vedere in tutto il sito e in tutti i forum dei vari articoli) - qui non c’ alcuna moderazione a priori e alcuna approvazione se non quella di "presentarsi", dirsi "buon-giorno" e iniziare a col-loquiare e a dia-logare...
Nell’essere, libero di ... essere o non-essere.
Buon-giorno!!!
Federico la Sala
ca era na cosa fina
ca se mintia a rajare
ta sera alla matina.
Lu raju ca facia, sembrava nu tenore
ciucciu beddhru te stu core
comu te pozzu amà.
Ca quannu rajava facia io-io
ciucciu beddhru te stu core
comu te pozzu amà.
quann’é morta mujerama
ieu me manciai u prosciuttu,
quannu è mortu lu ciucciu
me misi a lacrimà.
Chiancitilu, chiancitilu,
è mortu u ciucciu meu
cussì a ulutu Diu,
purtatilu a seppellì.