[...] a Nalanda si insegnava di tutto, dall’alta matematica all’astronomia, l’alchimia, l’anatomia. Sarà lo stesso anche con la sua rinascita? Il Nobel per l’Economia Sen, a capo del Comitato dei Nalanda Mentor, i Maestri del progetto, ha subito raffreddato l’entusiasmo di quanti si aspettano in tempi rapidi un’istituzione scientifica su scala internazionale che "costerebbe molti più soldi di un dipartimento di letteratura". Contro gli oltre 1000 milioni di dollari necessari per creare strutture e aule, infatti, ce ne sono appena la metà, stanziati per ora dal solo governo dell’India che punta a ottenere in una settimana il sì delle Camere, quasi scontato. Per il resto si aspettano donazioni private, nella speranza di ricreare una città di torri, padiglioni, templi come quella visitata dal pellegrino cinese Xuangzang nel VII secolo. Dove i monaci, scrisse, "potevano assistere dalle loro stanze sopra la nebbia del cielo alla nascita dei venti e delle nubi" [...]
INDIA
L’università di Buddha rinascerà
dalle rovine vecchie di mille anni
Il complesso di Nalanda fu distrutto sul finire del XII secolo dai soldati di un re turco. Il governo di New Delhi porta in Parlamento un progetto per avviare i lavori di ricostruzione. Anche il nobel Amartya Sen in un comitato di saggi ed esperti
di RAIMONDO BULTRINI *
BANGKOK - Le cronache della distruzione dell’Università indiana di Nalanda risalgono a quasi mille anni fa, ma narrano vividamente di come le fiamme e le braci impiegarono tre mesi prima di spegnersi sui resti fumanti del più grande ateneo di studi buddhisti del mondo. Ad alimentare il fuoco furono le migliaia e migliaia di libri buttati giù dagli scaffali della Biblioteca dove erano stati raccolti e catalogati per almeno sette secoli. Quasi tutti i duemila insegnanti, i diecimila alunni e gli ospiti giunti dall’intero Oriente, dalla Grecia e dalla Persia vennero passati a fil di spada sul finire del XII secolo dai soldati di un re turco, offeso - si dice - per non aver trovato tra tanta letteratura nemmeno una copia del Corano.
La novità è che il governo indiano sta per portare in Parlamento (entro una settimana) la proposta di legge per avviare ufficialmente i primi lavori di ricostruzione di una delle più eccelse vestigia della civiltà indiana. Sorgerà a Rajgir, nel Bihar, dalle odierne rovine di mattoni rossi e sterpaglia visitate ancora da frotte di pellegrini, esattamente dove il Buddha in persona insegnò 2500 anni fa i più alti stadi del suo pensiero, celebre come Grande Veicolo, o Mahayana. Non solo il buddhismo divenne per secoli la religione di Stato in tutto il vasto regno indiano delle dinastie Maurya e Gupta, ma l’influenza di Nalanda si estese al Tibet e alla Cina sotto forme ancora più sofisticate e complesse. I suoi docenti istruirono alti sacerdoti, re e imperatori di gran parte dell’Asia, primi tra tutti i Dalai lama, i Khan mongoli e il Signore celeste della Cina.
Da quattro anni il governo ha già affidato il compito di escogitare il modo migliore di riportare in vita l’antica istituzione a un comitato di esperti e saggi tra i quali il Nobel indiano Amartya Sen, un luminare cinese e il ministro degli esteri di Singapore. Proprio la piccola e ricca isola ha promesso assieme a Cina e Giappone cospicui finanziamenti per l’immane compito di rivitalizzare non solo accademicamente, ma anche economicamente e socialmente, luoghi che furono devastati palmo a palmo e restarono abbandonati a sé stessi con la scomparsa del buddhismo nella sua patria d’origine.
L’area di Nalanda, a poche ore dalla capitale di uno degli Stati più poveri del Continente, è sottoposta a cicli costanti di alluvioni monsoniche e molte aree sono ancora pericolose per gli agguati di briganti e rapinatori. Anche per questo la sfida accademica di Nalanda International - appena all’inizio - resta ancora tutta da giocare, e potrebbe cedere - come ha indirettamente ammesso lo stesso Sen - alle pressioni di uno dei principali sponsor, la Cina, che vuole tenere fuori dal progetto il Dalai lama. "Egli guida una religione - ha spiegato Sen - E un uomo attivo religiosamente potrebbe non essere appropriato per degli studi religiosi".
Contro la sua esclusione si sono però già dichiarati storici e buddhisti che considerano il leader tibetano erede per stirpe diretta dei docenti di Nalanda come Nagarjuna, Shantideva, Dharmakirti. Tra i loro colleghi di cattedra c’erano anche yogi che insegnavano le più segrete e complesse filosofie e tecniche dei tantra, alla base di tutte le quattro principali scuole del buddhismo Vajrayana che soppiantarono col tempo il culto ancestrale Bon degli spiriti e degli elementi su tutto l’enorme altipiano tibeto-mongolo.
Ma a Nalanda si insegnava di tutto, dall’alta matematica all’astronomia, l’alchimia, l’anatomia. Sarà lo stesso anche con la sua rinascita? Il Nobel per l’Economia Sen, a capo del Comitato dei Nalanda Mentor, i Maestri del progetto, ha subito raffreddato l’entusiasmo di quanti si aspettano in tempi rapidi un’istituzione scientifica su scala internazionale che "costerebbe molti più soldi di un dipartimento di letteratura".
Contro gli oltre 1000 milioni di dollari necessari per creare strutture e aule, infatti, ce ne sono appena la metà, stanziati per ora dal solo governo dell’India che punta a ottenere in una settimana il sì delle Camere, quasi scontato. Per il resto si aspettano donazioni private, nella speranza di ricreare una città di torri, padiglioni, templi come quella visitata dal pellegrino cinese Xuangzang nel VII secolo. Dove i monaci, scrisse, "potevano assistere dalle loro stanze sopra la nebbia del cielo alla nascita dei venti e delle nubi".
* la Repubblica, 05 agosto 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA QUANDO?
Quando vediamo la luce?
Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno.
"Forse quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?".
"No" disse il rabbino.
"Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?".
"No" disse il rabbino.
"Ma quando allora?" domandarono gli allievi.
Il rabbino rispose:
"È quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore".
Finisca la notte. E inizi il giorno.
Aldo [don Antonelli]
Battere la fame con le democrazie
Alternanza di governo e media liberi sono la vera garanzia
di Amartya Sen (Corriere della Sera, 01.09.2010)
Il peso di una carestia è a carico solo della popolazione colpita, e non dalla compagine di governo. La classe dirigente non muore mai di fame. Tuttavia, laddove il governo risponda al popolo e siano presenti un sistema di libera informazione e una critica pubblica non soggetta a censura, anche il governo troverà buone ragioni per impegnarsi al meglio a sconfiggere le carestie.
A fronte di un sistema politico democratico ben funzionante e di un sistema mediatico libero e privo di censura, nonché di partiti di opposizione desiderosi di far gravare sul governo l’incapacità di prevenire la fame, il governo stesso avverte una enorme pressione, che lo induce ad adottare misure rapide ed efficaci ogni qualvolta si delinei la minaccia di una carestia. Poiché le carestie sono facili da prevenire laddove si compiano sforzi concreti per arrestarle (come ho già avuto modo di affermare), la prevenzione si rivela in linea generale una strada percorribile. Non desta pertanto sorpresa che, tra tutte le terribili carestie che hanno lacerato il mondo, nessuna si sia mai verificata in un Paese indipendente dotato di una democrazia funzionante, con partiti di opposizione operanti in libertà e una stampa non soggetta a censura.
Le democrazie caratterizzate da un sistema mediatico libero ed energico e da regolari elezioni multipartitiche si dimostrano di fatto efficienti nel prevenire il verificarsi delle carestie. Ciò merita d’essere considerato se si analizza l’efficacia con cui il dibattito pubblico contemporaneo può farsi carico dei problemi delle generazioni future. Ma perché?
Per fare un confronto, si pensi che la percentuale di persone colpite dalle carestie non supera mai il dieci per cento della popolazione totale e risulta altresì solitamente inferiore al cinque. Una frazione così esigua difficilmente risulterà in grado di indurre la maggioranza a votare le misure direttamente necessarie a sradicare la minaccia della fame. Sono dunque il dibattito e l’impegno pubblico a diffondere l’ampiezza di vedute di coloro che, pur nutrendo interessi non necessariamente minacciati dalle carestie, ritengono ragionevole tentare di prevenirle - e mandano a casa i governi pertinaci. Pertanto, anche se coloro che hanno attualmente diritto al voto non ci saranno forse più quando le generazioni future si troveranno ad affrontare la gravità dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale, il dibattito pubblico democratico può rendere efficace il voto di oggi nel tutelare gli interessi delle generazioni future; allo stesso modo, una democrazia maggioritaria di oggi, in cui sia radicato con forza il dibattito pubblico, può salvare la vita a una minoranza di persone (quali le vittime potenziali di una carestia) che, di per sé, non può spostare il voto in un sistema maggioritario.
Le democrazie che si contraddistinguono per libertà del dibattito pubblico e assenza di censura governativa forniscono gli strumenti con cui perseguire giustizia sociale in numerosissimi ambiti. E rendere giustizia ai cittadini di domani costituisce già una parte assai rilevante dell’impegno democratico. Un dibattito pubblico aperto è un mezzo idoneo a gestire le nostre responsabilità verso le generazioni future.
Le nostre responsabilità in materia di sviluppo sostenibile racchiudono dunque il ruolo svolto dai cittadini di oggi nel dibattito inerente una situazione mondiale che si estende oltre le vite individuali. Di sicuro, molti aspetti legati al collasso ambientale esprimono effetti immediati. A quanti respirano l’aria di Pechino, Città del Messico o Nuova Delhi non occorre ricordare che alcuni degli effetti derivanti dal degrado ambientale pregiudicano nell’immediato la qualità delle loro vite. E a prescindere dal fatto che ci si occupi della condizione della popolazione di oggi o di quella di domani, non si possono ignorare la responsabilità civica e la partecipazione alla vita politica.
Attualmente disponiamo di una letteratura piuttosto vasta sul ruolo che i singoli cittadini svolgono nella salvaguardia dell’ambiente, incentrata nella fattispecie su azioni che trovano motivazione in un senso di obbligo civico e di etica sociale. Andrew Dobson si spinge a sostenere quanto da lui definito col termine di «cittadinanza ecologica», che prescrive l’attribuzione all’ecologia di una priorità. Non sono del tutto certo che smembrare una cittadinanza integrata in specifici ruoli settoriali costituisca il modo migliore per interpretare la cittadinanza e la democrazia. Tuttavia, Dobson enfatizza con giusta ragione la portata delle responsabilità civiche nell’affrontare le sfide ecologiche. Egli analizza ed evidenzia in primo luogo ciò che i cittadini possono fare se spinti da motivazioni sociali e riflessioni ponderate, anziché da puri incentivi finanziari (agendo in qualità di «attori razionali mossi da egoismi personali»).
Concentrare l’attenzione sul senso della responsabilità ecologica dei cittadini è tipico di una nuova tendenza che si colloca a metà strada fra teoria e pratica. La politica britannica, ad esempio, fu bersaglio di critiche sul finire del 2000 quando, in risposta a picchetti e proteste, il governo fece marcia indietro rispetto alla proposta di aumento delle imposte sulla benzina, senza compiere alcun tentativo serio di rendere la questione ambientale materia di dibattito pubblico.
Come afferma Barry Holden nel suo avvincente Democracy and Global Warming, «Democrazia e riscaldamento globale», «questo non significa necessariamente che la questione ambientale avrebbe vinto la battaglia», ma «suggerisce che avrebbe avuto una possibilità, se almeno fosse stata sollevata». La crescente delusione che si va registrando è associata non solo alla debolezza - o all’assenza - di iniziative concrete, capaci di coinvolgere i cittadini nelle politiche ambientali, ma anche al palese scetticismo delle amministrazioni pubbliche circa la possibilità di appellarsi con successo al senso di responsabilità sociale dei cittadini.